LA BELLEZZA DI ROCA
Le incisioni del maestro bolognese per l’ultimo appuntamento di ReCollecting
Tra i luoghi del mistero, l’area archeologica nel comune di Melendugno
Anno XVI - n 5-6 maggio giugno 2021 -
MORANDI RACCONTA
anno 163 numero 5-6 maggio giugno 202
MASSIMO TROISI IL MUSEO FAGGINO
2500 anni di storia stratificata tra le mura di uno stabile nel cuore di Lecce
I LUOGHI DEL CINEMA
A Torino alla scoperta della mole Antonelliana sede del Museo Nazionale del Cinema
primo piano le novità della casa
IL RAGGIO VERDE EDIZIONI
EDITORIALE
Massimo Troisi, Il viaggio di Capitan Fracassa, Archivio Appetito
Proprietà editoriale Il Raggio Verde S.r.l.
Direttore responsabile Antonietta Fulvio
progetto grafico Pierpaolo Gaballo
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Redazione Antonietta Fulvio, Sara Di Caprio, Mario Cazzato, Nico Maggi, Giusy Petracca, Raffaele Polo Hanno collaborato a questo numero: Lucia Accoto, Maria Neve Arcuti, Dario Bottaro, Giovanni Bruno, Stefano Cambò, Mario Cazzato, Sara Di Caprio, Antonio Giannini, Dario Ferreri, Sara Foti Sciavaliere, Alessandro Matteo, Serena Pellegrino, Michele Piccinno, Raffaele Polo, Stefano Quarta, Mariangela Rosato, Marco Tedesco
Redazione: via del Luppolo, 6 - 73100 Lecce e-mail: info@arteeluoghi.it www.arteeluoghi.it
Iscritto al n 905 del Registro della Stampa del Tribunale di Lecce il 29-09-2005. La redazione non risponde del contenuto degli articoli e delle inserzioni e declina ogni responsabilità per le opinioni dei singoli articolisti e per le inserzioni trasmesse da terzi, essendo responsabili essi stessi del contenuto dei propri articoli e inserzioni. Si riserva inoltre di rifiutare insindacabilmente qualsiasi testo, qualsiasi foto e qualsiasi inserzioni. L’invio di qualsiasi tipo di materiale ne implica l’autorizzazione alla pubblicazione. Foto e scritti anche se pubblicati non si restituiscono. La collaborazione sotto qualsiasi forma è gratuita. I dati personali inviateci saranno utilizzati per esclusivo uso archivio e resteranno riservati come previsto dalla Legge 675/96. I diritti di proprietà artistica e letteraria sono riservati. Non è consentita la riproduzione, anche se parziale, di testi, documenti e fotografie senza autorizzazione.
E ricominciamo da tre, proprio come asseriva l’indimenticabile Massimo Troisi cui dedichiamo la copertina di questo doppio numero. Al comico, regista e sceneggiatore partenopeo, che ci ha lasciati il 4 giugno 1994 dopo aver terminato le riprese de Il Postino, è dedicata una bella mostra documentaria al Castel dell’Ovo organizzata dall’istituto Luce e in collaborazione con l’assessorato alla Cultura del Comune di Napoli. L’Estate è alle porte e dopo il lungo periodo di fermo a causa della pandemia e delle misure ad essa collegate, si riprendono gli eventi in presenza, anche sempre con le dovute misure precauzionali, ma è un punto tanto attesa di ripartenza e forse potremo assaporare con maggiore intensità ciò che in questi lunghi mesi ci è mancato. E allora l’invito è andar per mostre a partecipare ai concerti agli spettacoli teatrali e cinematografici e a visitare i luoghi di rara bellezza disseminati nel nostro Paese e scoprirli con occhi nuovi come suggeriva lo scrittore Marcel Proust. E occhio alle nostre rubriche, dai luoghi del mistero di Raffaele Polo a quelli del cinema di Stefano Cambò, che firma anche le recensioni dal Salento Cafè Noir, i libri scelti dalla nostra #devotalettrice Lucia Accoto, le poesie di Giusy Perlangeli, l’artista di Curiosar(t)e di Dario Ferreri, il reportage fotografico di Antonio Giannini per Girovagando, le storie e i luoghi devozionali con Dario Bottaro, le riflessioni dello psicoterapeuta Giovanni Bruno, dell’economista Stefano Quarta e della scrittrice Maria Neve Arcuti. La nostra super guida turistica Sara Foti Sciavaliere ci porta a Lecce all’interno del Must, che inaugura un nuovo allestimento, e all’interno del Museo Faggiano un luogo davvero speciale in via Grandi, mentre lo storico Mario Cazzato ci racconta di Porta Rudiae e il recente danneggiamento della statua di Sant’Oronzo mentre lo storico Marco Tedesco ci porta a Cosenza. E proseguono le celebrazioni per l’anno dantesco in Italia a Bologna con una mostra di miniatura e oltralpe precisamente a Parigi dove la nostra inviata Mariangela Rosato ha intervistato il direttore dell’Istituto di Cultura italiana. Non ci resta (no piangere) ma gioire di questa nuova fase e mettercela tutta per cogliere l’occasione di una ripartenza che equivalga ad una rinascita nel segno dell’arte, della cultura e della bellezza. Buona lettura (an.fu.)
SOMMARIO
Luoghi|Eventi| Itinerari: Girovagando |Must il Museo storico della Città di Lecce 33 |Piazzetta Cesare Battisti 42 | Museo Archeologico Faggiano 90 | Siracusa, Santa Lucia e il miracoloso sudore 122 | Pietro Negroni 142 Arte: Massimo Troisi 4|Lisetta Carmi e gli altri 22 | Eden a Casa Vuota 29| Fiberart 100| Morandi 104 | Dante e la miniatura 118| Carrà e Martini 128 I luoghi della parola: | Franco Battiato 14 | Carla Fracci 17 | Il valore della bellezza 60|| Curiosar(t)e: Le donne di Troy Brooks 62| La famiglia e la ricerca del bene 76| Pochi ma ...buoni? 78 | Musica: Le Classiche forme della musica da camera 20 | Visioniinmusica a Terni 29| La Città idelae Lenieri a Roma 57 Interventi letterari|Teatro |Luoghi del mistero: Isa Danieli a Gioi12 |Luoghi del mistero: Roca 53 I luoghi della poesia 100 Salento Segreto 142
Cinema In prima linea 61 | Viaggio nel Sud Italia 84 | I luoghi del cinema Torino e la Mole Antonelliana138
Libri | Luoghi del sapere 112-114 | #ladevotalettrice 112 | #Dal SalentoCafè 115
I luoghi nella rete|Interviste| #Fabriziopertutti 70 | I luoghi nella rete VN360 la Biblioteca della Musica 81| I luoghi nella rete un italiano a Parigi Dante a Parigi intervista a Simona Frascati 86 Numero 5-6- anno XVI - maggio giugno 2021
MASSIMO TROISI. LA RIVOLUZIONE CON IL SORRISO E LA POESIA Antonietta Fulvio
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Cinema tv e teatro. Dagli esordi al suo ultimo film la mostra multimediale “Troisi Poeta Massimo” fino al 25 luglio è a Napoli nelle sale di Castel dell’Ovo NAPOLI. Il sorriso e la poesia, nel cinema come nel teatro. E nella vita. Ottanta scatti privati e immagini d’archivio, locandine, documenti e carteggi inediti, installazioni audiovisive per raccontare “Troisi Poeta Massimo”. La mostra dedicata all’attore partenopeo giunge a Napoli nelle sale di Castel dell’Ovo dove è
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visitabile fino al prossimo 25 luglio. La rassegna fotografica e multimediale promossa e organizzata da Istituto Luce-Cinecittà con Assessorato all’Istruzione, alla Cultura e al Turismo del Comune di Napoli, 30 Miles Film e in collaborazione con Archivio Enrico Appetito, Rai Teche, Cinecittà si Mostra, CinecittàNews è cura-
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Massimo Troisi in uno scatto di Pino Settanni
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ta da Nevio De Pascalis e Marco Dionisi con la supervisione di Stefano Veneruso regista e nipote di Massimo Troisi. Sono passati ventisette anni da quel 4 giugno 1994, quando a distanza di dodici ore dall’ultimo ciak de Il Postino il cuore di Massimo si fermò per sempre. Quasi un presagio. Anche Mario Ruoppolo il postino che scopre la poesia di Neruda muore nel film capolavoro di Troisi - premio David di Donatello, 3 Nastri d'Argento 3 premi BAFTA e Premio Oscar per la struggente colonna sonora di Luisi Bacalov. Con il suo ultimo film, per certi versi il suo testamento spirituale, Massimo ci consegna un messaggio universale e inconfutabile «La poe-
sia non è di chi scrive, è di chi se ne serve.» E, forse, solo vivere poeticamente dà un senso alla vita stessa. E viene in mente la sequenza in cui Mario Ruoppolo cerca di catturare per l’amico Poeta i suoni e le voci della sua isola, un’incantevole Procida negli anni 50, riscoperta nella sua naturale bellezza perché possa ricordarla sempre. Quando negli ultimi fotogrammi, il poeta Neruda-Noiret ascolta la registrazione si rende conto di quanto la sua poesia ha inequivocabilmente cambiato l’esistenza di Mario e del valore della semplicità che non è mai un fatto scontato ma solo la meta, forse irraggiungibile, di una vita intera. Quella di Massimo è stata certo troppo
breve ma semplicemente straordinaria come il racconto che ne fa la mostra “Troisi Poeta Massimo’ che vuole essere un viaggio nell’animo umano di uno degli attori e autori più amati di sempre nella storia dello spettacolo italiano. Dopo il grande successo della mostra romana e l’attesa dovuta all’emergenza sanitaria, la mostra è arrivata finalmente nella ‘sua’ Napoli, con un nuovo percorso espositivo e un leit motiv interamente dedicato al rapporto di Massimo con la propria terra d’origine: la città, la napoletanità, il Napoli di Maradona, il rapporto con Pino Daniele. Una terra amata e mai rinnegata. Anzi. «Penso, sogno in napoletano, quando parlo italiano mi sembra di essere falso». Troisi ha vissuto sulla sua pelle luci e ombre, sofferenza e contraddizioni di una città spesso imprigionata in stereotipi difficili da sdradicare ma lui moderno Pulcinella, senza maschera, da naturale erede di Eduardo è riuscito ad attualizzare la tradizione sdoganandola da facili cliché. Massimo esordì sul set con “Ricomincio da tre’ perché «tre cose me sò riuscite ind’a vita, perché devo perdere pure chelle… », una pellicola innovativa come il protagonista, Gaetano, che incarnava per la prima volta il napoletano, quello della generazione post sessantottina, che in controtendenza non emigrava ma “viaggiava per conoscere”: un uomo del Sud più affine all’Ulisse dantesco che all’Ulisse omeri-
co, macchinoso inventore del cavallo di Troia o peggio ancora all’emigrante strappalacrime delle sceneggiate di Mario Merola. Facendosi interprete dei dubbi e delle paure della sua generazione, con la sua arte proiettava lo sguardo “oltre”. Comico, attore, regista, sceneggiatore, Massimo Troisi ha cambiato il linguaggio cinematografico italiano, negli anni Ottanta e Novanta, la sua capacità di affrescare la società, sezionandola con intelligente ironia rende ancora paradossalmente attuali i suoi film come gli sketch teatrali andati in onda alla fine degli anni Settanta quando la Rai faceva il Varietà con programmi come “Non stop” e “Luna Park”. Poesia, teatro, televisione, cinema. Ma tutto inizia a San Giorgio a Cremano, alle falde del Vesuvio, in una famiglia numerosa, “la sua prima compagnia stabile’, dove l’unico modo per ritagliarsi uno spazio intimo e privato è scrivere poesie. «Scrivevo poesie. Poi ho cominciato a scrivere pensieri. Cercavo fisicamente uno spazio tutto mio, uno spazio intimo. Un segreto che non volevo condividere con nessuno.» La scrittura diventa necessaria e vitale, la sensibilità, la curiosità e l’ironia fanno il resto. All’ingresso del percorso sono di grande impatto la gigantografia di Troisi fotografato da Pino Settanni e l’opera (Eccomi qui – Pulcinella per Massimo Troisi) dell’artista Lello Esposito appartenente alla col-
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lezione privata di Troisi e realizzata in bronzo con basamento in pietra lavica. E fluide scorrono le immagini nel video realizzato dall’Archivio Luce con interviste tratte dal fondo Mario Canale e momenti di backstage da “Il viaggio di Capitan Fracassa” e “Il postino” che guidano il pubblico alla scoperta di un “mito mite” tra i più talentuosi e amati figli di questa città. Ma l’emozione è destinata a crescere man mano che ci si addentra nelle varie sezioni della mostra, a cominciare dalla sala dedicata all’infanzia di Massimo. E si scopre che a due anni posa per la pubblicità del latte Mellin, si scorge la sua grafia nella lettera manoscritta a sette anni per il cognato Giorgio Veneruso, marito della sorella Annamaria, e poi le foto della prima bruciante passione: il calcio, cui dovrà rinunciare per la prima comparsa dei problemi al cuore, ma che non dimenticherà mai: la foto al San Paolo a centrocampo accanto a Diego Armando Maradona testimonia l’attaccamento alla sua squadra (Come non ricordare l’intervista con Minà in occasione della vitto-
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ria del primo scudetto?). E come succede quando si riaprono vecchi album di fotografie, la vita scorre all’indietro ed è difficile non provare un senso di nostalgia per quegli anni che sembrano essere stati vissuti troppo velocemente. Ed ecco scorrere le foto delle sue prime recite, nel garage di via San Giorgio Vecchio 31 il primo rudimentale palcoscenico. All'inizio degli anni '70 inizia il sodalizio con gli amici di San Giorgio a Cremano, tra i quali Enzo Decaro e Lello Arena, che dal teatro amatoriale della compagnia "RH negativo", diventeranno "I Saraceni" prima e "La Smorfia" poi. Insieme dal 1977 al 1980 con una comicità nuova e dirompente La Smorfia approdarono dalla tv al teatro. Inevitabile non sorridere davanti alle foto con la mitica calzamaglia nera, accompagnata dal cravattino bianco, che Troisi, incrocio in negativo tra Pulcinella e Charlot, abbandonò solo dopo anni. Documenti, fotografie, locandine, articoli di giornale, raccontano il rapido percorso dalla periferia partenopea ai grandi teatri di Napoli e Roma mentre due totem consentono
di vedere e ascoltare le interviste realizzate proprio per la mostra ad amici, affetti, colleghi: testimonianze che rivelano aspetti personali e inattesi dell’uomo e dell’artista. Fra questi il nipote e collaboratore Stefano Veneruso, Enzo Decaro, la compagna e co-sceneggiatrice Anna Pavignano, Gianni Minà, Carlo Verdone, Massimo Bonetti, Gaetano Daniele amico d’infanzia e produttore, Renato Scarpa, Massimo Wertmüller, Marco Risi. Ed è possibile ascoltare le canzoni composte in gioventù da Enzo Decaro e Troisi, rimaste per anni su carta e poi riprese nel disco ‘Poeta Massimo’ da Decaro nel 2008, con ospiti straordinari come Paolo Fresu, il Solis String Quartet, Rita Marcotulli, Daniele Sepe, Ezio Bosso, Lino Cannavacciuolo, Cecilia Chailly, James Senese. C’è poi la sezione dedicata a La Smorfia in televisione che documenta il grande successo che il trio raggiunse partecipando a “Non Stop” il programma Rai di Enzo Trapani che lanciò nomi come Carlo Verdone e gruppi come I gatti di Vicolo dei Miracoli o i Giancattivi. Quel-
lo fu anche il luogo dell'incontro con Anna Pavignano, compagna e sceneggiatrice dei suoi film. In mostra oltre alle foto provenienti dall’archivio di famiglia, della Rai e dell’amico Enzo De Caro è possibile rivedere grazie a Rai Teche gli sketch andati in onda fino al 1980. Con la tv arrivarono le comparsate a fianco di amici e colleghi come Renzo Arbore, Gianni Minà, Roberto Benigni, Pippo Baudo; lo special Rai del 1982 ‘Morto Troisi, viva Troisi! Una sala è dedicata al cinema di Troisi in sottofondo le colonne sonore dell’amico Pino Daniele - forse l'anima a lui a più affine scandiscono una carriera che copre un arco di appena tredici anni: foto dei set, locandine, documenti e due touchscreen per vedere interviste ad attori e registi. C’è il percorso dal successo inatteso e irresistibile di “Ricomincio da tre” (1981) all’incanto postumo e planetario de “Il postino” (1994). C’è l’evoluzione completa di un geniale autore comico che con una regia semplice ed essenziale e tempi perfetti dettava un nuovo modo di fare cinema grazie anche alla cucitura di testi
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Foto in basso: Luciano Rasero, archivio GRM Morto Troisi Viva Troisi
Massimo Troisi con Maradona allo stadio San Paolo; con il musicista e fraterno amico Pino Daniele; on il regista Ettore Scola e l’attore Marcello Mastroianni (fonte: @Massimotroisiofficial
scritti con Anna Pavignano che affrontavano sul grande schermo temi non facili come le insicurezze dei giovani, la psicologia femminile, l’estraniamento (di un emigrante, come di uno che si ritrova all’improvviso nel 1400…), l’amore, la politica. Un cinema di impegno civile, ma mai dichiarato, mai esposto. Vediamo un precisar-
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si di scrittura e temi nel rinnovato successo di “Scusate il ritardo” (1983) con un antieore generazionale, lo spostarsi in tempi storici dal picaresco ‘1400-quasi 1500’ di “Non ci resta che piangere” (1984) insieme a Roberto Benigni, al fascismo de “Le vie del Signore sono finite” (1987); il passaggio fondamentale attraverso e
Massimo Troisi e Philiph Noiret sul set de Il Postino (fonte: @Massimotroisiofficial)
con Ettore Scola in tre film: “Splendor” (1988) e “Che ora è” (1989), con Marcello Mastroianni in una sorta di passaggio del testimone tra due grandi attori di grande carisma e poi “Il viaggio di Capitan Fracassa” (1990) con immagini splendide di TroisiPulcinella. Fu proprio Ettore Scola a chiamare Troisi ‘il nostro attore dei sentimenti’, e non ci sarebbe definizione più esatta per descrivere la sensibilità e la gamma di passioni che Troisi ha lasciato nel suo cinema. Forse il più bel film sul sentimento dell’amore di tutta una generazione fu “Pensavo fosse amore invece era un calesse” (1991), che per certi versi segna il passaggio a un cinema ancor più intimo e autoriale. Tra i carteggi spicca una lettera dattiloscritta del 1991 in cui un giovane studente di Economia e Commercio, di nome Paolo Sorrentino, chiede a Troisi di potergli fare da aiuto per il prossimo film. Non sarebbe accaduto,
ma è forte la suggestione di questa paginetta che lega due registi applauditi agli Oscar. Infine “Il Postino” adattamento cinematografico del romanzo dello scrittore cileno Antonio Skarmeta raccontato da una gigantografia di Massimo alias Mario Ruoppolo e dall’esposizione della bicicletta su cui il giovane postino porta la corrispondenza al poeta Pablo Neruda. Un ultimo spazio è dedicato alla proiezione di parti inedite del backstage che Stefano Veneruso realizzò durante le riprese del film, un controcampo toccante dell’atmosfera di divertimento, poesia e complicità vissuta sul set da Troisi con Philippe Noiret, Renato Scarpa, Maria Grazia Cucinotta, il regista Michael Redford, i collaboratori storici. Un’esperienza immersiva di grande impatto emotivo è ritrovarsi nella stanza “affrescata” dall'artista Marco Innocenti con il collage pop di fotografie, frasi e carteggi che raccontano
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Massimo Troisi, Il viaggio di Capitan Fracassa, Archivio Appetito
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per frammenti di immagini la vita, gli spettacoli, i fim, gli affetti. Con sarcasmo e una goffaggine solo apparente, Troisi ha raccontato la Napoli degli anni del dopo terremoto, così dannatamente uguali e sconvolgenti a quelli che ancor prima le avevano cambiato il volto con l’ombra della camorra ovunque, più terribile di quella del Vesuvio, e la speculazione edilizia che aveva concesso di edificare finanche nei canali di scorrimento della lava… L’eterno dramma del lavoro nero – «A Napoli il lavoro è sempre unito a qualcos’altro… da solo non si trova» – la disoccupazione, l’inquinamento… i problemi atavici della città partenopea venivano raccontati con umorismo puro, una satira a tratti dissacrante, ma mai volgare. E sembra paradossale che i soggetti della sua comicità siano temi ancora oggi attualissimi, quasi il tempo si fosse fermato e viene spontaneo chiedersi quanto ancora quest’artista geniale e rivoluzionario figlio del Vesuvio avrebbe potuto e saputo dare al cinema e al teatro. Considerazioni che fanno accrescere ancora di più la nostalgia per la sua assenza. Quella appocundria come cantava l’amico Pino Daniele che ce scoppia ogne minuto ‘mpietto. Accompagna la mostra il libro monografico, edito da Luce-Cinecittà ed Edizioni Sabinae, per la cura di Nevio De Pascalis e Marco Dionisi e introdotto da Gianni Minà. Una parte del ricavato della vendita del volume sarà devoluta all’Associazione Bambini Cardiopatici nel mondo, di cui Massimo Troisi era sostenitore, un’associazione laica e indipendente, senza scopo di lucro, che ha la missione di assistere e curare bambini affetti da cardiopatie congenite. (www.bambinicardiopatici.it)
RACCONTAMI UNA PASSEGGIATA DEVOTA ISA DANIELI A GIOI
L’attrice Isa Danieli
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L’attrice napoletana chiude la rassegna nata nell’ambito del progetto La valorizzazione della millenaria fiera della Croce di Stio nel Cilento
GIOI. Raccontami, una passeggiata devota” è il titolo dello spettacolo di Isa Danieli che chiude la rassegna diretta da Lillo De Marco in programma il 13 giugno nel Convento di San Francesco a Gioi. Un percorso di donna e di attrice che ha attraversato e attraversa, i generi più diversi delle forme teatrali esistenti. Dalla sceneggiata alla tragedia greca di Euripide e di Eschilo, fino ad incarnare le parole di autori contemporanei che hanno scritto per lei. Dalla Wertmuller a Chiti, da Ruccello a Santanelli e poi Moscato, Letizia Russo e Antonio Tarantino, fino al recente Ruggero Cappuccio. «Sono contenta di recitare a Gioi - ha commentato la stessa Isa Dannieli - per condividere un privilegio specialissimo: quello di aver dato voce come attrice, per un quarto di secolo, ad autori e autrici che hanno scritto per me storie che narravano quegli anni e questi anni: la forza, la fragilità, i vizi e le virtù dei personaggi che ho interpretato, sono imbrigliati nei ricordi e in questa lettura ce n'è una testimonianza che a me fa
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piacere salutare insieme a voi». Evento clou del progetto “La valorizzazione della millenaria fiera della Croce di Stio” che unisce, in partenariato, i Comuni di Campora, Orria, Perito, Stio e Valle Dell’angelo con Gioi soggetto promotore dell’iniziativa legata, come suggerisce lo stesso titolo, agli itinerari dell’antica fiera e che intende fare delle sue risorse ambientali, storico-architettoniche, culturali, enogastronomiche ed escursionistiche i pilastri di un solido sviluppo turistico. A chiarirne le direttive è Maria Teresa Scarpa sindaco di Gioi «l’evento di Gioi rappresenta la conclusione di un percorso interrotto a causa del covid che adesso ci consente di avviare quello che è il nostro progetto di destagionalizzazione turistica. Ospitiamo lo spettacolo di Isa Danieli nel giardino del convento di San Francesco, struttura storica che é sede di diversi appuntamenti artistici e culturali. É un luogo che vogliamo riaprire e offrire ai nostri concittadini e non solo. A causa ancora della pandemia ci saranno delle stringenti regole per l'acces-
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so alla manifestazione infatti è obbligatoria la prenotazione per un numero di posti limitato. Inoltre ai non residente a Gioi è possibile prenotarsi accedendo gratuitamente allo spettacolo teatrale solo se avrà prenotato, e utilizzato nei giorni precedenti o nello stesso giorno, i servizi offerti dalle attività di ristorazione, bar, B&B, commercio e servizi di accoglienza del Comune. Questa formula sarà utilizzata anche per i prossimi appuntamenti proposti dal Comune per la destagionalizzazione nei mesi di giugno, luglio, settembre e poi per
tutto l'autunno. Gioi si propone come una meta turistica da vivere più mesi l'anno.» Lo spettacolo è ad ingresso gratuito ma con prenotazione obbligatoria al numero 333/8267216 Data l’emergenza sanitaria in corso si applicheranno le misure di prevenzione Covid previste dal protocollo vigente per garantire la massima sicurezza. https://www.comune.gioi.sa.it https://www.facebook.com/lamillenariafieradellacrocedistio
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I LuOGhI DELLA PAROLA
LA MUSICA, I TESTI POETICI DEL MAESTRO FRANCO BATTIATO
Franco Battiato (fonte: sito ufficiale dell’artista)
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È morto il 18 maggio 2021 a Milo il cantautore siciliano, artista a tutto tondo, compositore, musicista, regista, pittore
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uando volevamo andare sul sicuro, nelle conversazioni che si avevano con i coetanei e con i più giovani, per non mostrarci 'non al passo con i tempi', per quello che riguardava il panorama musicale e le nostre preferenze, buttavamo là, senza parere: «A me piace Battiato». E la cosa finiva lì, non c'era nessun distinguo, nessun commento, nessuna contrapposizione con altri artisti.
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Una volta, per cambiare, citammo Branduardi. Ma qualcuno storse il muso e molti confessarono di non conoscerlo bene. Con Battiato no, con lui andavi sul sicuro. Piaceva agli intellettuali e ai sostenitori di ogni tipo di musica. E, a pensarci bene, non è un traguardo da poco. Non solo. Ci siamo accorti che, nel corso della giornata, una giornata intesa come quella di
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Leopold Bloom protagonista dell'Ulisse di Joyce, almeno in un paio di occasioni ricorrevano nel nostro discorrere e soprattutto nell'affastellarsi dei nostri pensieri, qualche immagine presa dalle composizioni del maestro siciliano (che, giustamente, non voleva essere chiamato maestro perché,
diceva, maestro è colui che fa venire uno spiraglio di alba nella notte oscura. O qualcosa del genere. Un vero e proprio koan, in linea con le sue amate frequentazioni mistico-orientali). Insomma, l'idea ti rimaneva dentro a lungo, per sempre. E magari finivi per dimenticare che era stato lui ad evocarla, accompagnandola con un frullo di musica facilmente riconoscibile, proprio come una perla vera in mezzo a quelle sintetiche, è difficile scoprirla ma quando ci riesci, puoi stare tranquillo che la tua ambizione è coronata da un grande successo. E poi, quei meravigliosi e fiabeschi luoghi dove ci portava, non erano un vero e proprio programma di evasione onirica? Chi può rimanere insensibile davanti all'idea del deserto del Kalahari, che siamo andati a cercarlo sull'Atlante, abbiamo scoperto che è nell'Africa meridionale, ma non lo sapevamo. E che dire dei profughi afghani che si spostarono nell'Iran? In fin dei conti è geografia, certo. Ma è una geografia particolare, molto vicina alla Fortezza Bastiani della letteratura italiana o a Macondo nei luoghi mondiali che ci sono rimasti dentro. Per finire con le penne stilografiche con l'inchiostro blu che nessun cantautore avrebbe il coraggio di inserire in un suo testo... Tanto meno la frase reperita da una sorta di veloce ballata che il poeta patriota Arnaldo Fusinato da Schio ha prodotto nel periodo magico del Risorgimento. Pensate che, adesso, la poesia 'l'ultima ora diVenezia' ha una postilla, in tutti i libri su cui è riportata, che dice: 'Questa frase è quella usata da Franco Battiato' nella sua 'Bandiera bianca'? Sì, perché, se non l'avesse reso popolare lui, il verso 'Sul ponte sventola bandiera bianca' nessuno l'avrebbe mai colto nel suo giusto significato. Ammesso che Battiato, col suo sorriso triste, avesse voluto un 'significato preciso' per quella sua eterna ricerca del centro di gravità permanente che ci riporta alle dispu-
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te fra antichi filosofi siculo ellenici, proprio come era lui, che incontrammo svariate volte, l'ultima a Donnafugata, sulle vaste scale che portano alla splendida sala superiore, quella utilizzata in molti film, dove ci sono una miriade di coloratissimi stemmi. E ci fece un autografo, ce lo fece sul retro di un cartoncino menù relativo ad un ottimo ristorante dei paraggi, dove saremmo andati di lì a poco e dove anche lui si era fermato a desinare. Poco tempo prima, era stato a Otranto, nel fossato del Castello. E glielo abbiamo ricordato, lui ha sorriso e non ha detto nulla, il Maestro era così, non lo chiamate Maestro ma come diavolo lo dovevi chiamare, veniva spontaneo attribuirgli quel titolo, con deferenza. No, l'autografo non ce lo abbiamo più: lo
Franco Battiato (fonte: sito ufficiale dell’artista)
abbiamo venduto su ebay, tutto sommato, non ci dispiace, meglio ascoltare un suo brano, piuttosto che guardare quella scritta ricordo di momenti ahimè trascorsi, per lui e per noi... Adesso basta, credetemi, non è facile parlare di un amico che ci ha accompagnato per tanto tempo, le cui canzoni (canzoni? Poesie, se non sono poesie queste...) sono nel nostro intimo e che incontriamo sempre più spesso, nel lento trascorrere della nostra esistenza, quando ci accorgiamo di tante piccole-grandi verità. La barba col rasoio elettrico non la facciamo più, pensateci ma è una grande verità. E aspettiamo, con ansia, di rivivere le gesta erotiche di squaw 'pelle di luna'.
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ADDIO ALLA REGINA DELLA DANZA ICONA DI LIBERTÀ E BELLEZZA Serena Pellegrino
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«Ho danzato nei tendoni, nelle chiese, nelle piazze. Sono stata una pioniera del decentramento. Volevo che questo mio lavoro non fosse d’élite, relegato alle scatole d’oro dei teatri d’opera. E anche quand’ero impegnata sulle scene più importanti del mondo, sono sempre tornata in Italia, per esibirmi nei posti più dimenticati e impensabili. Ho lavorato moltissimo. Nureyev mi sgridava. Chi te lo fa fare, ti stanchi troppo… Ma a me piaceva così e il pubblico mi ha sempre ripagato. Se sono famosa me lo sono guadagnato. La fortuna non te la regala nessuno». Figlia di un ferroviere dell’Atm e di un’operaia alla Innocenti cresciuta con valori antifascisti. «Sono cresciuta tra i contadini, libera, tra molti affetti e necessità concrete. E pro-
Il 27 maggio 2021 è scomparsa la grande étoile Carla Fracci
prio lì, ben piantate nella terra, ci sono le mie radici». In occasione del 25 aprile, invitò a ripartire da “Bella ciao”, per recuperare il senso di umanità e dei valori della Festa di Liberazione. Non ha mai dimenticato la sua essenza antifascista e l’ha rivendicata difendendo chiunque se ne facesse promotore. A tanti è rimasta nascosta questa sua essenza, vedendo solo la leggerezza della sua anima che si librava con un corpo quasi impalpabile. La terra ti sarà lieve come tu lo sei stata con lei. Un soffio che ci ha fatto sognare e insegnato la dolcezza della Bellezza.
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Andrea Obiso, Beatrice e Ludovica Rana
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LE CLASSICHE FORME DELLA MUSICA DA CAMERA
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Dal 18 al 24 luglio dieci appuntamenti nel Salento per la quinta edizione del festival internazionale fondato e diretto dalla pianista Beatrice Rana
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LECCE. Dieci appuntamenti di musica dal vivo e all’aperto, coniugando la magia dei luoghi con quella delle note. Ritorna il Festival internazionale della musica da camera ClassicheFORME, fondato e diretto dalla pianista salentina Beatrice Rana, in programma dal 18 al 24 luglio 2021. Dopo quattro edizioni con “formula weekend”, per il suo quinto compleanno il Festival decide di ampliarsi e di offrire al pubblico una ricca proposta su sette giorni consecutivi, articolata in quattro concerti serali principali, un concerto serale extra dal titolo “Capitoli pugliesi”, due
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concerti “In campo aperto”, due appuntamenti del progetto “ClassicheFORME Young” e una conversazione su Igor Stravinskij – nell'ambito di una giornata a lui dedicata – per celebrare i cinquant'anni dalla morte del compositore russo. Un traguardo importante che conferma il successo dell'iniziativa fortemente voluta da Beatrice Rana, considerata tra le migliori pianiste under30, elogiata dal «New York Times» per il suo felice debutto alla Carnegie Hall nel 2019, eletta nel 2018 “Artista Femminile dell’Anno” ai Classic BRIT Awards della Royal Albert Hall di Londra e
artista esclusiva Warner Classics. Il suo festival ClassicheFORME è stato premiato fin dalla nascita, nel 2017, dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, ha ricevuto l'EFFE Label 2019-2020 dall'European Festivals Association, confermato anche per il 2021, e dallo scorso anno vanta come Presidente Onorario Sir Antonio Pappano. «Chi mi conosce da vicino sa del mio profondo amore e dell’indissolubile legame che mi unisce a Lecce, alle tradizioni, ai profumi e ai colori del Salento – commenta la direttrice artistica Beatrice Rana –. Mi piace pensare a ClassicheFORME quasi come fosse un rito ancestrale che mi porta, ogni anno, per almeno qualche giorno, in diretta comunione con la mia terra. Questa V edizione è particolarmente sentita: non solo per via delle sue dimensioni più ampie, ma perché è stata pensata e programmata dopo un periodo tanto difficile per tutti noi musicisti. Il programma del Festival –prosegue la pianista – prevederà momenti celebrativi di un importante anniversario, brani della grande tradizione cameristica, l’esecuzione della composizione dell’amico Carlo Boccadoro per il Festival, due concerti destinati a formazioni di artisti emergenti e due eventi che saranno realizzati “In campo aperto”. Per questi ultimi ho voluto pensare a un luogo in cui non esistono palchi e divisioni con il pubblico, non esistono etichette tra artisti emergenti e artisti affermati, ma a un luogo “aperto” in cui far immergere l'ascoltatore; un luogo in cui
Aklcuni momenti della conferenza stampa di presentazione de festival, in basso Beatrice Rana, TramontOlive,2019
musica e natura vibreranno sulle stesse onde e gli spettatori saranno circondati da paesaggi mozzafiato». Tra gli ospiti internazionali del Festival 2021 il violinista francese Renaud Capuçon, che si esibisce regolarmente con compagini prestigiose come i Berliner Philharmoniker o la London Symphony Orchestra e che recentemente ha suonato con Beatrice Rana a Madrid, la violinista bulgara Liya Petrova, vincitrice del primo premio al Concorso internazionale danese Carl Nielsen nel 2016, il violoncellista spagnolo Pablo Ferrández, premiato al XV Concorso Čajkovskij e già apprezzato ospite della prima edizione del Festival, e il francese Grégoire Vecchioni, viola dell'Orchestra dell'Opéra di Parigi. Tra i giovani talenti italiani protagonisti, il primo violino dell’Orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia Andrea Obiso, che torna dopo l'edizione dello scorso anno, la ventiseienne violoncellista salentina Ludovica Rana, sorella di Beatrice, vincitrice di numerosi concorsi come il “Grand Prize Virtuoso” di Vienna e il “Young Virtuoso Award” al concorso Manhattan di New York, e ancora il pianista Massimo Spada che si è esibito al Parco della Musica di Roma e al Festival MITO a Torino. Novità assoluta di questa quinta edizione saranno, come annunciato dalla stessa pianista, i due concerti “In campo aperto”, in programma martedì 20 luglio alle 19.30 presso l'Azienda Agricola “Taurino” a Squin-
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zano (Lecce) e giovedì 22 luglio alle 19.30 nella Masseria “Le Stanzie” di Supersano (Lecce) mentre “Capitoli pugliesi” sarà il concerto in programma lunedì 19 luglio alle 21 nell'Ortale del Teatro Koreja di Lecce con il giovane Trio Orione, composto dal clarinettista Gianluigi Caldarola, dalla violoncellista Ludovica Rana e dalla pianista Stefania Argentieri. ClassicheFORME 2021 inoltre renderà omaggia a Igor Stravinskij, in occasione del cinquantenario della morte, nella giornata di mercoledì 21 luglio. Oltre al concerto serale dedicato al “Sacre”, la mattina alle 11.00 (con ingresso gratuito) presso la Biblioteca Bernardini di Lecce si tiene una conversazione sul grande musicista rus-
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so con relatori d'eccezione come i compositori Carlo Boccadoro e Marcello Panni e il musicologo Gastón Fournier-Facio. Modera l'incontro la giornalista e critica musicale Fiorella Sassanelli. I biglietti per i concerti, in vendita a partire dal 1° giugno 2021, avranno un costo di 20 euro per i 4 concerti serali principali (ridotto under30 a 15 euro); 15 euro per i 2 concerti “In campo aperto” (ridotto under30 a 10 euro); 5 euro per i 2 concerti di “ClassicheFORME Young” e per il serale “Capitoli pugliesi”. L’accesso a tutti gli eventi avverrà in ottemperanza alle normative anti Covid-19 e nel rispetto delle misure di sicurezza previste. www.classicheforme.com
LISETTA CARMI GLI ALTRI Antonietta Fulvio
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Al Castello Carlo V di Lecce fino al 5 settembre la mostra in autunno farà tappa ad Ascoli al Museo Osvaldo Licini
LECCE. A distanza di dieci anni Lisetta Carmi è tornata ad esporre a Lecce. L’ultima volta fu al Cineporto di Lecce ospite del Festival del cinema europeo che le dedicò un omaggio allestendo la personale e la proiezione del film “Lisetta Carmi. Un’anima in cammino” del regista Daniele Segre presentato alla 67esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. In quell’occasione rincontrai Lisetta Carmi, anni addietro avevo recensito una sua mostra a Lecce al Castello Carlo V, lo stesso dove fino al 5 settembre sarà possibile ammirare le foto dell’antologica intitolata “Gli altri”. Oltre 60 scatti provenienti dai nuclei principali della ricerca fotografica da sempre orientata all’indagine sulle marginalità sociali, sul lavoro e sui
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territori del sud Italia. Accanto alle immagini dedicate al Porto di Genova e all’Italsider, il lungo viaggio nei territori remoti del meridione italiano è documentato dalle foto dedicate alla Puglia, alla Sardegna e alla Sicilia. Curata da Roberto Lacarbonara, Giovanni Battista Martini e Alessandro Zechini, la mostra evidenzia il percorso della fotografa tra i primissimi autori ad occuparsi in maniera radicale dell’identità di genere. Nel lontano 1972 le sue foto vengono raccolte in un libro pubblicato dalla casa editrice Essedì di Roma, ma le librerie si rifiutano di esporlo perché i soggetti delle sue foto erano i transessuali di Genova che aveva mostrato nella loro quotidianità attraverso uno studio durato sette anni fino alla pubblicazione del lavoro “I Travestiti”, a cura di Sergio Donna-
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bella con testi della stessa Lisetta Carmi e di Elvio Facchinelli, destinato a diventare un documento fondamentale nella storia della fotografia italiana. «Ho lavorato sempre e soltanto per capire: per capire gli altri e per capire me stessa. Mi interessava il significato della vita, perché siamo sulla terra, perché gli uomini amano il potere e lo esercitano in modo così disumano. Ho sempre dato voce ai più
Lisetta Carmi, Ezra Pound, 1966, cm 30x40 © lisetta Carmi-Martini-Ronchetti
poveri, a coloro che non hanno diritto di parlare, a coloro che subiscono le ingiustizie di questo mondo.» E nonostante la decisione perentoria di abbandonare la pratica fotografica alla fine degli anni Settanta, Lisetta Carmi assume sempre più una indiscussa centralità nella storia della fotografia italiana e numerose sono le mostre e pubblicazioni dedicate alla sua produzione: l’importante retrospet-
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tiva del 2015 a Genova (la città dove nasce nel 1924), quella del Museo di Roma in Trastevere nel 2017 e del MAN di Nuoro (2021), e la partecipazione all’ultima Quadriennale di Roma (2021). Nell’antologica leccese che poi farà tappa tra settembre e novembre al Museo Osvaldo Licini di Ascoli non poteva mancare una sezione dedicata ad uno degli incontri più struggenti della sua esperienza fotografica quello con il poeta Ezra Pound. «Ero in compagnia del direttore dell’Ansa che non si accorse di nulla, avevo visto il poeta uscire e continuai a fotografarlo. Venti scatti in soli quattro minuti, ci raccontò. Scatti memorabili che le valsero il Premio Niépce e che “dicevano di Erza Pound più di tutti gli articoli scritti su di lui” come ebbe a dire Umberto Eco. Il potere dell’immagine, del saper
cogliere l’attimo, dell’inquadratura perfetta che è un “dono” . Un dono come il talento per la musica, la sua prima grande passione. Di origine ebraiche, ha conosciuto l’orrore delle persecuzioni razziali, quelle che segnarono anche la sua adolescenza; espulsa dalla scuola, mentre i suoi fratelli andarono a studiare in Svizzera, rimase nella solitaria casa di Lungoparco Gropallo con un solo amico a tenerle compagnia: il pianoforte. Le leggi razziali le impedirono di continuare gli studi, interrotti alla terza ginnasio. Dopo la guerra guidata dagli insegnamenti del maestro They si diploma al Conservatorio di Milano e si esibisce in Germania, Svizzera, Italia e Israele. In un viaggio in Puglia, in compagnia dell’amico etnomusicologo Leo Levi è affascinata dalla luce e dalla bellezza del
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Lisetta Carmi, Genova-Porto, scarico merci, 1964, cm 24x30 © Lisetta Carmi-Martini & Ronchetti
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Lisetta Carmi, I travestiti,La Cabiria, 1965-1970. cm 24x30 © Lisetta Carmi-Martini & Ronchetti
Salento compra la sua prima macchina fotografica, un’Agfa Silette, e comincia a conoscere la Puglia attraverso l’obiettivo. San Nicandro, Rodi Garganico, Venosa, le catacombe ebraiche i suoi primi scatti. L’incontro magico con la fotografia. Per tre anni, dal 1961 al 1964, è fotografa di scena al Teatro Duse di Genova) poi il suo primo reportage in Sardegna e poi a Genova: dall’Ospedale Gaslini all’Ospedale Galliera, all’anagrafe, al centro storico, alle fogne cittadine. Fotografa il porto, la vita dura degli operai sfruttati, i più deboli ai quali lei dà un volto e soprattutto voce. Cattura con il suo obiettivo gli invisibili, come i
travestiti che grazie a lei possono mostrarsi sfidando il pudore di una società perbenista che preferiva ignorare la loro esistenza. Volti di bambini, belli e indifesi da proteggere sempre da non sgridare mai. Scatti che raccontano più di mille parole. Dietro il suo obiettivo non sono passati solo i protagonisti del mondo culturale che animava la Genova negli anni Settanta ma anche tutta la città, l’ha fermata nelle sue contraddizioni più profonde e nascoste: il porto, lo scarico dei fosfati, i volti sfigurati dalla fatica, da una quotidianità spesso lacerante, dalla sofferenza che è sintomo di emarginazione. Come pure la sofferenza che appartiene al
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Lisetta Carmi, I travestiti, La Gitana 1965-1967. cm 30x24 © Lisetta Carmi-Martini & Ronchetti
ciclo vitale dell’umanità nella sequenza del parto fotografando attimi decisivi e irripetibile del miracolo della vita mentre fa quasi da contralto la ricerca fotografica realizzata sui monumenti nel Cimitero di Staglieno. Dalla sua Genova all’Inghilterra e all’Olanda. Dall’America Latina, passando per il Venezuela, Colombia e Messico all’Oriente, l’India, l’Afganistan, Pakistan e Nepal: Lisetta Carmi fotografa il mondo e l’umanità che incontra nei suoi viaggi che si fermano a Cisternino dove attualmente vive nel suo Ashram a Cisternino, tra i fedeli di babaci provenienti da tutto il mondo. Un incontro, nel 1976 con Babaji Hairakhan Baba, che ha cambiato totalmente la sua vita. Su sua indicazione, fonda nel 1979 un ashram proprio a Cisternino. Nel 1984 Babaji abbandona la sua forma terrena. Lisetta Carmi lascia la pratica fotografica per dedicarsi anima e corpo ai lavori di costruzione del tempio che sarà ultimato nel 1986. Nel
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Lisetta Carmi, Orgosolo, 1964, © lisetta Carmi-Martini & Ronchetti
1997 lo Stato italiano riconosce al Centro Bhole Baba lo statuto di Ente Morale. Lì continua nella missione che le dice di essere stata affidata da Babaji che poi altro non è che “la ricerca di se stessa attraverso la conoscenza nel continuo riconoscimento dell’altro diverso da sé” per dirla con le parole del regista Daniele Segre che nel film, “Lisetta Carmi un’anima in cammino”, girato tra il centro storico di Cisternino e le pareti della sua casa, sempre aperta al mondo, è riuscita a “fotografare” la donna e l’artista nella sua più profonda umanità. Lisetta Carmi Gli altri a cura di Roberto Lacarbonara, Giovanni Battista
Martini e Alessandro Zechini Dal 6 maggio al 5 settembre 2021 Castello Carlo V, Lecce Patrocinio del Comune di Lecce un progetto Kunstschau e RTI Theutra Oasimed (Lecce), Arte Contemporanea Picena (Ascoli Piceno) in collaborazione con l’Archivio Lisetta Carmi (Genova) L’accesso alla mostra è contingentato in osservanza delle misure adottate dal governo italiano in materia di contenimento e gestione dell'emergenza epidemiologica da Covid-19: - Accesso consentito ad un massimo di 20 persone - Mascherina obbligatoria - Guanti monouso facoltativi
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VISIONIINMUSICA. AL VIA I CONCERTI NELL’ANFITEATRO ROMANO DI TERNI
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Sei appuntamenti dal 19 al 30 giugno Al via con Giorgio Tirabassi & gli HOt Club Roma
TERNI. Ripartono i concerti dal vivo e al via dal 19 giugno Visioninmusica all’Anfiteatro Romano di Terni. Sei appuntamenti con repertori trasversali e di altissimo profilo: si parte da Giorgio Tirabassi & Hot Club Roma con “Il fulmine a tre dita”, progetto a ispirato al gipsy jazz di Django Reinhardt, tra ironia e malinconia. Si continua con un doppio concerto in occasione della Festa della Musica (21 giugno), rispettivamente con i Machine Head Quintet, formazione che fa dialogare il rock con loop, campionamenti ed elettronica, e l’Orchestra Magna, ensemble di jazz, funk, reggae, house e latin composto esclusivamente da musicisti umbri. Nella stessa serata sarà presentato il saggio “La storia della disco music” di Andrea Angeli Bufalini e Giovanni Savastano, che rappresenta uno dei più autorevoli compendi del genere musicale amato da ogni generazione. A seguire (22 giugno), il trio del giovane e talentuosissimo chitarrista palermitano Matteo Mancuso, la cui tecnica chitarristica è rivoluzionaria per precisione e sensibilità. Arriva da Cuba, il giorno seguente (23 giugno), la violinista e cantante Yilian Cañizares che col suo “Resilience Trio” proporrà un tocco di espressività virtuosistica interpretando con la sua voce fascinosa brani da jazz, classici e afro-cubani. A chiudere la manifestazione (24 giugno) sarà il quartetto capitanato dal sassofonista Stefano Di Battista con il recente progetto "Morricone stories”, in cui omaggia il compianto Maestro Premio Oscar reinterpretando in chiave jazz
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alcuni dei memorabili successi cinematografici sa lui composti. Evento speciale, infine, il 30 giugno con il concerto promosso e finanziato dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Terni e di Narni che vedrà protagonista Tosca con “Morabeza”, un canto alla vita celebrato nel colore e calore di un immaginario salotto sudamericano in cui la cantante dialoga con i suoi musicisti esercitando musicalmente l’amore per le sonorità che hanno forgiato la sua personalità artistica. Evento privato con posti limitati disponibili al pubblico. I biglietti vanno dai 10 ai 25 euro e sono già disponibili sul sito di Vivaticket
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EDEN A CASA VUOTA UNA CAMERA PICTA AL QUADRARO
Elisa Filomena, Eden a Casa Vuota, 2021, acrilico su tela, particolare (06)
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L’artista torinese Elisa Filomena in mostra a Roma fino al 31 luglio
ROMA. Un lungo racconto per immagini che si dispiega con un andamento cinematografico su lunghi rotoli di tela, in modo da riscrivere con la pittura in forme inedite e visionarie la trama delle pareti della casa e tale da evocare i grandi cicli affrescati della Roma monumentale, dalla Villa di Livia alle chiese barocche. Così appare “Eden’ l’intervento installativo che l’artista torinese Elisa Filomena ha concepito per la sua personale romana a “Casa Vuota’ trasformandola in una verra e propria “camera picta’. Nessuna delle mostre finora costruite su misu-
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ra per le stanze di Casa Vuota, ha mai alterato la percezione dello spazio come riesce a fare Eden, spiegano i curatori Francesco Paolo Del Re e Sabino de Nichilo invitando a visitare la mostra che ha aperto i battenti lo scorso 15 maggio e potrà essere visitata fino al 31 luglio 2021 all’interno 4A del condominio di via Maia 12 a Roma, nel quartiere Quadraro. «Eden – spiegano i curatori Francesco Paolo Del Re e Sabino de Nichilo – è una condizione primigenia e privilegiata della pittura che si dispiega come un flusso di segni e di
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storie e sente di bastare a se stessa nel suo scorrere silenzioso e irrefrenabile. Nell’andamento liquido di una pittura leggerissima e gioiosa, vedute campestri o fluviali fanno da fondale come nell’arte antica a figure umane solitarie o in gruppo, che sono soprattutto soggetti femminili. Artificio, schermo, scenografia teatrale e diorama: la pittura si mostra in tutto il suo potenziale immaginifico, sorprendente e impetuoso. Elisa Filomena immagina una dimensione incantata e ancestrale in cui l’atto del dipingere è un momento festoso di scoperta del mondo, visto con lo sguardo di chi lo vede per la prima volta: uno sguardo generatore di meraviglie. Ed è proprio la meraviglia il sentimento che certo sarà provato dai visitatori di fronte a uno slancio pittorico tanto generoso quanto felice ed emozionante». «L’uomo è appena venuto ad abitare la terra», scrive Elisa Filomena. «È atterrato in un luogo sconosciuto, carico di forze di cui la natura sembra essere pienamente consapevole: un compito a lei destinato, un tormento vitale. L’uomo lentamente ne prende coscienza, si muove in paesaggi sconosciuti, in una terra senza luogo carica di necessità e meraviglia. Questo tratteggiato Eden, lungo come un papiro sconosciuto, si muove tra le pareti di Casa Vuota nella sua essenza più profonda: un disegno che diventa pittura, il gesto del pittore che compie un racconto, lasciandosi condurre dalla pittura stessa, senza ripensamenti. Il tempo non esiste, figure antiche si mescolano con un passato prossimo, angeli e divinità si mostrano accanto all’umano nell’abitare la terra, a volte ne dirigono il cammino, certo lo scrutano dall’alto per soccorrerlo nella vita e nel momento della morte. Vi è un ritmo spontaneo nella narrazione pittorica, ogni parte dipinta si collega o contra-
sta in una dimensione irreale che prende stimoli dal sogno, dall’inconscio e dalla necessità di una comunicazione e di un’identità che si crea tra l’abitare e il far parte di un luogo. Il tutto è dipinto senza l’ausilio di un disegno preparatorio, di modo da non dare filtri all’espressione pittorica. Il dipinto prende vita da un puro istinto espressivo. Queste tele le vivo come un piccolo paradiso primordiale; la prima manifestazione dell’uomo nell’abitare la terra, il processo del ciclo vitale, la nascita e la morte. Vi è un fiume che trasporta uomini attraverso il corso delle sue acque. Vi sono stanze segrete dove donne si riposano, amiche in confidenza che ridono dell’avvenire, volti di grandi dimensioni accostati a eteree piccole figure. Si percepisce che tutto viene da lontano, come un ricordo, un sogno o una paura profonda. Piante, vegetazioni e cieli sono dipinti con velocità e tensione emozionale, le figure albergano a volte come ombre dentro la pittura che è in questo caso è la più vera metafora dell’umanità, sempre alla ricerca di una casa».
Elisa Filomena (Torino, 1976), si è diplomata in Pittura all’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino e ha sempre utilizzato la pittura come linguaggio privilegiato per la sua ricerca. Tra le personali più recenti si segnalano nel 2019 Diario Notturno presso Circoloquadro a Milano a cura di Arianna Beretta e nel 2021 Rocaille Coulisses, bipersonale con Emilia Faro, presso la White Lands art gallery di Torino a cura di Federica Maria Giallombardo. Tra le collettive degne di menzione ci sono nel 2020 Noccioline a cura di Yellow nello studio di Julie Rebecca Poulain a Roma, nel 2019 La risposta dell’amore a cura di Francesco Piazza ai Cantieri Culturali della Zisa di Palermo, nel 2018 Selvatico (tredici) Fantasia/Fantasma a cura di Massimiliano Fabbri presso il Museo Civico Luigi Varoli di Cotignola (RA) e Impronte di artista alla Kommunale Galerie di MörfeldenWalldorf in Germania. Nel 2017 infine è stata tra i protagonisti di Landina, esperienza di pittura en
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Elisa Filomena, Eden a Casa Vuota, 2021, acrilico su tela, particolare (01) Elisa Filomena, Eden a Casa Vuota, 2021, acrilico su tela, particolare (03)
plein air nel territorio del Verbano Cusio Ossola, a cura di Lorenza Boisi. Alcune sue opere fanno parte di collezioni pubbliche e private, tra le quali la Collezione Permanente della Fondazione Cassa di Risparmio di Cuneo e la Civica Raccolta del Disegno del Museo di Salò. Tra i riconoscimenti ottenuti, è stata vincitrice del Premio di Pittura Matteo Olivero nel 2008 e della Borsa di Studio Alida Epremian per giovani pittrici nel 2003. Per visitare la mostra è necessario prenotarsi al numero di telefono 3928918793 oppure all’email vuotacasa@gmail.com.
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MUST, IL MUSEO STORICO DELLA CITTÀ DI LECCE
Nuovo allestimento del Must, reportage fotografico di Sara Foti Sciavaliere
Sara Foti Sciavaliere
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Storie l’uomo e il territorio
Nuovo allestimento per le sale del Must con le mostre tra memoria e arte contemporanea
LECCE. Il Museo Storico della città ha riaperto il 21 maggio 2021 con un nuovo modello di gestione sotto diretto controllo comunale, una rinnovata organizzazione delle sale espositive e due nuove mostre temporanee: “Ricamata Pittura”, dedicata a Marianna Elmo, e “Immagini, Immaginari” con opere di Marcello Nitti e Niccolò Masini. Un salto temporale dall’arte dei fili incollati dell’Italia meridionale del Settecento alla CreArt Dual Exhibition di due artisti dei nostri giorni, accolti nella sale del primo piano di questo contenitori culturale quale è diventato da tempo l’ex Monastero delle Clarisse di Lecce, luogo di incontro tra antico e moderno, con le sue sale dagli ampi archi voltati, immersi nel biancore latteo della calce che si fonde con i toni dorati della pietra leccese e investiti dalla luminosità proveniente dal chiostro.
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Situato nel cuore del centro storico del capoluogo salentino, questo edificio fu un tempo antico monastero dell’ordine francescano di S.Chiara, per essere acquisito dal Comune di Lecce, che – una volta restaurati – ha destinato gli ariosi spazi delle gallerie al piano terra ad accogliere l’arte moderna e contemporanea. Il complesso monumentale, adiacente alla barocca chiesa di Santa Chiara e agli scavi del Teatro Romano, fu fondato nel 1410 dal frate Tommaso Ammirato, religioso dell’Ordine dei Padri Conventuali di S.Francesco, vescovo della città di Lecce dal 1429 al 1438. Anche se c’è una seconda ipotesi in base alla quale la fondazione sarebbe da attribuire al facoltoso Antonio di Giovanni De Ferraris che destinò per il monastero delle Clarisse alcuni immobili e tutti i suoi beni mobili.
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Scarse sono le testimonianze cartacee esistenti, dalle quali si evince che le celle erano venti e che esistevano tre dormitori, un refettorio e una dispensa. Nel corso dei secoli il monastero ha subito massicci interventi di ristrutturazione e pare che le ultime clarisse vi siano rimaste fino al 1866, quando una seconda legge di soppressione degli ordini religiosi – quella sabauda – costringerà le
monache a lasciare il monastero trovando accoglienza presso le Benedettine della stessa Lecce. È stato adibito in tempi più recenti a ufficio dell’Intendenza delle Finanze, prima che l’amministrazione Comunale che ne cambiasse destinazione d’uso in quella attuale. In attesa (speriamo presto!) dell’allestimento delle sezione archeologiche (alcuni pezzi
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interessanti sono già in loco seppure non fruibili al pubblico), il piano terra del MUST è galleria d’arte contemporanea con le esposizioni temporanee che cambieranno ciclicamente, mentre al primo piano troviamo gli allestimenti permanenti delle opere dello scultore salentino Cosimo Carlucci e con una mostra – la prima di una lunga serie – di arte fotografica, dell’artista statunitense Jenny Okun. Come scrivevo sopra, il primo piano del Museo è dedicato principalmente all’esposizione delle collezioni permanenti. Vi trovano spazio le opere di Cosimo Carlucci, realizzate tra il 1958 ed il 1981, che ripercorrono le diverse sperimentazioni artistiche intraprese nel corso della sua produzione dallo scultore nato a San Michele Salentino, e da lui donate alla città di Lecce. Nella col-
lezione di Carlucci materia, forma, spazio e luce si trasformano in opere plastiche, realizzate in un primo momento in legno, che sarà poi sostituito da materiali di produzione industriale come il rame, l’ottone, le lamine metalliche lucenti. Sempre al primo piano vengono ospitano inoltre le sculture d’arte contemporanea di Aldo Calò, Antonio Paradiso, Francesco Arena, Pietro Coletta, Giulio De Mitri, Fiorella Rizzo, Marcello Gennari, Salvatore Spedicato, Cosimo Damiano Tondo che sono concesse attualmente in comodato d’uso al Comune di Lecce da parte degli artisti. Muovendoci a ritroso torniamo al piano terra, dove è stata attrezzata una sala multimediale per le visite digitali e accessibili al patrimonio storico della città. Recentemente, grazie al progetto
Nuovo allestimento del Must, reportage fotografico di Sara Foti Sciavaliere
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Cross the Gap la sala è stata munita di postazioni con hardware per la fruizione della realtà virtuale in 3d, di un virtual tour immersivo e clip immersive su base 3d dedicate al patrimonio barocco della città. Una novità è l’apertura al piano terra dello spazio “Must off gallery”, una galleria a ingresso gratuito destinata alla sperimentazione e alla promozione dei talenti emergenti locali e non. Si tratta di un luogo al servizio del talento, che apre al pubblico con la mostra finale del progetto Creart (network of cities for artistic creation) dal titolo “Immagini, Immaginari”, curata da Lorenzo Madaro. A esporre sono il leccese Marcello Nitti e il genovese Niccolò Masini: entrambi poco più che trentenni, sono stati selezionati a seguito della call rivolta agli artisti residenti nelle città della rete di Creart (oltre a Lecce, Valladolid, Genova, Liverpool, Clermont-Ferrand e Rouen, Zagabria, Kaunas, Lublin e Katovice, Aveiro, Skopje).
Nuovo allestimento del Must, reportage fotografico di Sara Foti Sciavaliere
Le sale espositive per le mostre temporanee sono state soprattutto inaugurate con la prima importante mostra su una delle artiste leccesi meno conosciuta dal grande pubblico, Marianna Elmo. L’evento “Ricamata Pittura”, in programma fino al 21 settembre è dedicata appunto alle opere dell’artista leccese, figlia d’arte, vissuta nel XVIII secolo e celebre per la sua maestria nell’utilizzo della tecnica dei “ricami a fili incollati”. Quella del cosiddetto “broderie à fils collés” è un’arte nella quale fili di seta e d’argento simulano incredibili effetti pittorici, nata proprio nel capoluogo salentino e che raggiunge nell’epoca del suo massimo splendore i centri più lontani d’Italia e d’Europa. In esposizione nelle sale del Must si possono ammirare più di cinquanta opere, in gran parte mai esposte prima, provenienti da importanti musei e collezioni private, sia della Elmo che dei grandi ricamatori della sua epoca.
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Secolo eletto alla decorazione religiosa e profana, il Settecento si caratterizza per una progressiva ricerca di specializzazione nelle singole professionalità all’interno delle botteghe artistiche, ed è ciò che si manifesta anche in ambito salentino, dove non esistono indagini unitarie e coerenti, tuttavia si riconosce nel panorama artistico locale l’esistenza di botteghe per lo più a conduzione familiare, quali per esempio gli Elmo, i Bianco, i Lillo, i Carella, vere e proprie imprese artistiche di famiglia, nate e specializzatesi ben presto sotto la spinta di una richiesta sempre più
pressante da parte soprattutto della committenza religiosa pubblica e della devozione privata. Parliamo per lo più di famiglie di pittori e decoratori e nel caso dei Lillo e degli Elmo si può annoverare pure la presenza di donne pittrici e ricamatrici. Accanto a Rachele Lillo sappiamo anche di Marianna e Irene Elmo che partecipano ai lavori della bottega firmando le proprie opere, un chiaro segnale che testimonia come anche nel Salento nel corso del Settecento si stesse registrando un progressivo, seppur lento, sdoganamento della figura della donna artista per la quale
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Alcune immagini della mostra “Ricamata Pittura” allestita al Must di Lecce, foto di Sara Foti Sciavaliere
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la città, che ci ricordano quanto la devozione della vecchia santa protettrice non venisse adombrata dall’introduzione del culto al nuovo santo tutelare, inoltre in entrambi si possono scorgere scorci di Lecce con Porta Napoli per la prima e Porta Rudiae per la seconda; infine nella rappresentazione di Sant’Oronzo è possibile riscontare un’evidente somiglianza iconografica, a partire dalla postura, del santo realizzato da Marianna con i fili incollati con il dipinto del padre per l’altare dedicato al patrono nella Chiesa di San Matteo a Lecce, al quale probabilmente si è ispirata. Sugli altri maestri ricamatori in quest’arte poco nota che la curiosità venga quietata – o ancora più stimolata – dalla visita della mostra.
Il museo sarà aperto tutti i giorni dalle ore 10 alle ore 21 escluso il lunedì. Gli ingressi saranno contingentati in relazione alla capienza delle sale. Il sabato e i festivi (sulla base delle vigenti disposizioni nazionali) si accederà previa prenotazione telefonica allo 0832/241067.
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Storie l’uomo e il territorio
poteva profilarsi una carriera autonoma in un mondo che parlava un linguaggio prettamente maschile. Marianna Elmo, nata a Lecce nel 1730, è considerata la capofila della scuola leccese settecentesca del ricamo di fils collés. Figlia del pittore Serafino Elmo, si è formata artisticamente nella bottega del padre, assieme alla sorella minore Irene, abile quanto lei nell’arte dei fili incollati. Nel 1754, a soli ventiquattro anni, Marianna godeva già di grande fama ed era all’apice della sua carriera, di fatto a quello stesso anno risale dei capolavori dell’artista (tra le opere esposte al MUST), il cofanetto-reliquario di Santa Castoressa per l’abbazia di Banzi su richiesta del cardinale Enrico Enriquez (foto in basso). La sua produzione si caratterizza per l’uso di fili di seta molto sottili e di una scala cromatica ridotta a poche tonalità di verdi e azzurri, con cui è comunque capace di ottenere effetti pittorici di grande freschezza e vivacità. Tra le sue opere in mostra per “Ricamata Pittura”, ne voglio citare altri due una Sant’Irene e un Sant’Oronzo che proteggono
Noci , Puglia, reportage di Antonio Giannini
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PIAZZETTA CESARE BATTISTI
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Tutto era immutato, come immutato mi sentivo io, ed anche il profumo di quegli alberi mi comunicava l’irrilevanza del tempo
on mi resi conto subito della familiarità dei rintocchi della campana che segnavano mezzogiorno. Solo, credo, le ultime vibrazioni mi fecero trasalire perché quel suono, sordo e stracco, aveva a che fare con sensazioni rimaste sepolte nella memoria che mi riportò molto indietro nel tempo, a un momento preciso di un giorno preciso quando, mentre ero appoggiato al tozzo campanile della chiesa, la signora Anna dal balconcino di fronte, col suo accento vagamente salentino, mi invitò a salire nell’attesa che suo figlio, il mio amico Armando, fosse pronto per uscire, dopo l’iniezione di tutte le mattine. E proprio davanti a quella porta ero adesso e, come tanti anni prima, assistevo all’arrivo lento e silenzioso di donne chine che guadagnavano lentamente l’en-
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trata della chiesa, dopo essersi aggrappate faticosamente all’alto corrimano di ferro lungo il muro, su per le ripide scale antistanti il sagrato. E mi sono guardato alle spalle certo di ritrovare immutata anche la piazzetta all’angolo che, adesso, come allora, si animava di capannelli di uomini all’ombra dei piccoli tigli, sotto lo sguardo austero del busto di Cesare Battisti. Tutto era immutato, come immutato mi sentivo io, ed anche il profumo di quegli alberi mi comunicava l’irrilevanza del tempo. La comparsa sulla porta della camera da letto della figura ingobbita ma elegante dell’infermiere dagli occhiali dorati ed il lavaggio lento e riflessivo delle sue mani delicate, come il calice del prete dopo l’eucarestia, erano il segnale della libera uscita. E infatti, subito dopo, da
Girovagando
Antonio Giannini
quella stessa porta compariva Armando con la solita euforica baldanza, accentuata dall’ennesima prova di coraggio, e giù a rompicollo per la stretta scala verso la porta d’uscita, accompagnati dalle solite raccomandazioni concitate e premurose della signora Anna. E, come attratti da un potente e misterioso istinto migratorio, si andava verso nord per raggiungere la villa Comunale che era la Terra Promessa dove si svolgeva tutto il nuovo rituale della nostra inattesa, clamorosa indipendenza. Spesso si passava per il centro storico e mentre l’attraversavamo, la luce riflessa delle mura dipinte di fresco con la calce viva era così forte che ci obbligava, a volte, a stringere gli occhi. Dalle case uscivano odori, rumori, canti, parole pacate ed imprecazioni e la radio cantava amori sbocciati ed amori spezzati. Oltre i tetti, con vorticosi saliscendi fatti di
Noci , Puglia, reportage di Antonio Giannini
virate, picchiate ed improvvise impennate, le rondini, col loro sibilo sovrumano e chiassoso, sembravano partecipare alla festa di noi adolescenti per l’inattesa, incredibile, sorprendente, avventura della nostra primavera. Mai stanchi dell’incessante ricerca di nuove, stimolanti ed intriganti relazioni con i nostri coetanei, dove ognuno aveva una trasgressione da raccontare, ci sentivamo una specie di pionieri edificatori di una nuova frontiera e ogni giorno il nostro mondo si arricchiva di nuovi tasselli di un mosaico che non prevedeva soluzione di continuità. Il ritorno a casa era sempre vissuto di mal grado, ma la promessa di rivederci il giorno dopo “alla stessa ora, allo stesso posto”, ci riempiva di nuove aspettative. Per vivere fino all’ultimo istante il nostro giorno, prima di lasciarci, spesso ci piaceva sedere per un po' sotto il grande cedro libanese, come a voler ancora godere di uno
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E fantasticavo sull’arrivo di navi enormi nella baia di New York, sotto lo sguardo fiero della statua della libertà, dopo lunghi giorni di navigazione. Il professore di storia ci aveva detto che quell’enorme statua fu regalata dai francesi e che rappresentava la libertà che spezza le catene della schiavitù e, a braccia aperte, accoglie tutti i popoli del mondo, senza distinzioni di razza e di religione. Anche se già allora avvertivo che in quel racconto c’era qualcosa che non tornava, se pensavo un attimo all’altro racconto della schiavitù, nondimeno non potevo fare a meno di favoleggiare ed immaginare di guardare, attraverso gli occhi della statua della libertà che illumina il mondo, quelle navi stracolme di ragazzini entrare nella grande baia a sirene spiegate come grida di gioia e di speranza. E quell’immagine l’associavo all’arrivo di Pinocchio nel paese dei balocchi.
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spazio tutto nostro, delimitato dall’ombra dei rami orizzontali della sua chioma immensa e parlare delle nostre platoniche avventure amorose. Da li lo sguardo andava, oltre la strada, sulla piazzetta ancora più animata da anziani con abiti di uguale foggia dalle varie sfumature di grigio e marrone, cappelli, coppole, bastoni, camicie candide, camicie blu, camicie celesti, cravatte improbabili. Dalla sala di musica, alle nostre spalle, arrivavano brandelli di marce e, chissà perché, quella musica mi portava alla mente le immagini e le storie quasi epiche che mio padre mi raccontava sull’emigrazione dei primi anni del secolo, favoleggiando puntualmente sulla partenza, a soli diciassette anni, di suo zio Vincenzo diventato, adesso, Victor Vincent. E pensavo agli altri che, come lui, erano partiti e che non erano più tornati, a quei ragazzini come noi che erano andati in America.
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Noci , Puglia, reportage di Antonio Giannini
E mentre guardavo i coetanei di quegli emigrati bambini, gli anziani davanti a me, mi chiedevo se fosse stato più eroico partire o restare, e quel pensiero mi portava alla mente immagini della nostra campagna: i solchi del terreno arato, i boschi di quercia, le carrarecce strette tra muri a secco. In particolare pensavo a quelle pietre che, una ad una, avevano ricevuto le carezza ed i bisbigli di quegli uomini per diventare masserie come cattedrali. A questo pensavo mentre guardavo confabulare tra loro quegli
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uomini dal fare lento e sereno. Alcuni di loro forse erano partiti e poi tornati e stavano raccontando una storia nuova, conoscevano un'altra lingua, i loro occhi avevano forse una luce diversa, il loro corpo emanava un profumo delicato, le loro valigie sprigionavano ancora l’odore di caffè e di cioccolata. E pensavo a quelli che erano partiti e che non sono più tornati. Avevano loro una piazzetta Cesare Battisti? Ricordavano questo cedro, la Croce del Calvario? Lo sguardo severo di questo busto di pietra con quell’accenno, quasi sornione, di sorriso trattenuto che lo fa sentire così vivo e partecipe di ogni storia raccontata sotto quegli alberi? Ricordavano il suono metallico e modesto di questa campana che ancora oggi si ostina a scandire il tempo? E proprio mentre la campana rintoccava, ancora una volta, la nostra ora meridiana io realizzavo che dall’altra parte dell’oceano era l’alba e mi sforzavo di immaginare i nostri Guagnano, Notarnicola, Palattella, D’Aprile, Laera, Miccolis e altri e altri ancora, i loro figli e
nipoti che iniziavano la giornata. Li vedevo andare nei luoghi di lavoro e a scuola e quell’immagine era associata all’idea, allora molto romantica che mi ero fatto, della nascita e della edificazione di una nuova nazione che nella dichiarazione di indipendenza si prefiggeva nientemeno che il raggiungimento della felicità. E quella parola magica, nella sua ingenua semplicità, mi riempiva di commozione. “Domani stessa ora, stesso posto” aveva detto per l’ennesima volta Armando, ed io in quella frase magica sentivo forte il segno di qualcosa di favoloso che stava maturando nelle nostre vite. Qualcosa di grande ed inaspettato ma che aveva anche dei riflessi di inquietudine. La piazzetta all’improvviso era deserta e dovevo davvero correre a casa e, nell’attraversala, l’assenza improvvisa di quel brusio incessante, quel silenzio rotto solo dal rumore lacerante come un rimprovero di una saracinesca che si abbassava, mi procurava un senso di vuoto senza scampo e correvo, correvo; a casa dovevano essere in pensiero per me.
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L’ISOLOTTO DI ROCA TRA ARCHEOLOGIA E MISTERO
Roca vista dall’alto (fonte visit Melendugno sito ufficiale https://www.visitmelendugno.com/)
Raffaele Polo
I LuOGhI DEL MISTERO
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Nel comune di Melendugno un’area archeologica di enorme importanza per tutto il Mediterraneo
l luogo misterioso, più misterioso di tutto il Salento, è certamente l'isolotto di Roca, Roca Vecchia, un'area archeologica di enorme importanza, per tutto il Mediterraneo. Ancora si cerca, si discute, si scava, per poter dare risposte concrete relative alla plurimillenaria storia di quest'area che, grazie soprattutto alle ricerche e agli studi delle varie equipes guidate dal professor Pagliara, è venuta alla luce e ha cominciato a raccontare le misteriose vicissitudini di una civiltà di grande spessore, distrutta infine da una tragica guerra ma presente sino ad oggi, con i resti delle sue antiche, misteriose vestigia. Del resto, basti pensare che l'idioma
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messapico è ancora tutto da decifrare e, quindi, le iscrizioni che costellano grotte, anfratti e antichi reperti, restano pressoché prive di significato, mescolate a graffiti e frammenti greci e latini. Ma sono ben presenti e documentati i segni di quella che fu la distruzione della fiorente, importante città che si estendeva nel mare, protetta verso la terra da importanti mura e da un sistema difensivo che solo il fuoco è riuscito a menomare. E le storie che sono emerse dalle rovine, parlano di uccisioni, di morte per asfissia, di violenza distruttiva e di una vera e propria 'tragedia' che verrà interpretata e ricordata per i secoli successivi, dai superstiti e dai
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Roca vecchia resti del castello rinascimentale e Roca vecchia antiche stratificazioni della città (fonte: Visit Melendugno sito ufficiale https://www.visitmelendugno.com/
I LuOGhI DEL MISTERO
discendenti che, spostatisi a Roca Nuova, andarono estinguendosi a favore di altri centri, di altre civiltà. Ma la testimonianza resta. E 'Roca' è il simbolo, il triste simbolo della operosa genialità dei nostri antichissimi avi che avevano realizzato, proprio in questo meraviglioso angolo di Salento, una civiltà indipendente, vero faro per tutto il Mediterraneo. Poi, come avverrà sempre, nel corso dei secoli successivi, dal mare arriva la sciagura, arriva la guerra e la violenza, arrivano i predatori che distruggono e bruciano, con indifferente crudeltà, tutto quello che l'ingegno e la cultura delle nostre genti è riuscito a realizzare. Oggi, di Roca restano ancora imponenti rovine che un accurato e certosino lavoro di ricerca archeologica sta mettendo in risalto, conservandone le testimonianze nei Musei della Puglia, soprattutto nel Castello di Acaja e, da poco, nell'istituendo Museo di Melendugno, allestito nell'area del Castello D'Amelj. Le visite all'area archeologica di Roca sono interessantissime e ricche di fascino. C'è ancora, in quel luogo incredibile, tutto il 'mistero' che ci viene da lontano, che porta con sé il buio di una civiltà distrutta ma ancora presente, fra noi, con le sue testimonianze e il suo vissuto, da studiare, riscoprire e imparare ad amare. È la nostra storia, è la storia dei nostri progenitori. E dobbiamo essere orgogliosi di essa.
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NESSUN DORMA, L’ARIA DI PUCCINI INVADE LE STRADE DI ROMA
Francesco Leineri, Nessun Dorma, La Città ideale
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Dal 4 al 6 giugno a bordo di un’ape car il musicista Francesco Leineri ha fatto risuonare l’aria pucciniana
ROMA. Novantanove variazioni di Nessun Dorma, la più famosa aria di Giacomo Puccini, suonata dal compositore e performer Francesco Leineri, dal 4 al 6 giugno ha invaso la città. A bordo di un’ape car, seguirà un itinerario nelle trafficate strade d ei municipi III, V, XIII e XIV di Roma, attraversando Fidene, Serpentara, Vigne Nuove, Tufello, e poi ancora a Centocelle, Torpignattara, Quarticciolo, Pigneto, Montespaccato, Torrevecchia, Primavalle, Santa Maria della Pietà, Battistini e Pineta Sacchetti. Un innesto di bellezza inconsueto, un’incursione improvvisa e mattutina, nella quotidianità del territorio, di un’opera dal linguaggio universale e di quei versi noti al mondo intero ma solitamente protagonisti di grandi palchi teatrali e suggestivi scenari. La performance è stata un ulteriore tassello di quel progetto, ideato e curato da Fabio Morgan, finalizzato a disegnare quella città ideale che, iniziata con Shakespeare nei cortili degli Ater, si è confrontata con quella che forse è
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la più nota aria mai scritta in italiano. «Con Nessun Dorma abbiamo cercato di costruire un progetto che sostituisse ai rumori spessi fastidiosi e invadenti della città - clacson, ambulanze, liti, urla, motorini una musica che aleggiasse per le vie e i quartieri della periferia e ridisegnasse un suono armonico della città» spiega Fabio Morgan, ideatore di La Città Ideale. «Da qui l’idea di portare Giacomo Puccini lì dove di lirico c’è poco. Un momento lirico, un momento di bellezza universale da incastonare nella nostra città ideale: dove svegliarci la mattina e avere la possibilità di fermarci per un attimo, quasi sovrastati dall’incanto». Dopo i concerti per pianoforte all’isola pedonale del Pigneto e a piazza Nuccitelli del 2019, con 99 variazioni del “Nessun dorma” il compositore e performer Francesco Leineri ha rinnovato così la collaborazione con La Città Ideale, progetto ideato da Fabio Morgan. «L’idea è nata dalla volontà di ampliare ancor di più la prece-
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dente esperienza di condivisione del fatto musicale, semplice e autentico, rendendola ancora più fruibile, ma straniante ed atipica» spiega. «L’idea di Nessun dorma - prosegue Leineri - è una risposta un po' caustica e sarcastica all’esaltazione della vittoria, illusoria
quando non si considera il deserto della notte intorno.» Ed è stato un risveglio insolito per le strade di Roma seguito in tempo reale anche sul canale Telegram di La Città Ideale.
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IL VALORE DELLA BELLEZZA
Giovanni Bruno
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Le riflessioni dello psicologo psicoterapeuta
I LuOGhI DELLA PAROLA
’è il titolo di un libro, pubblicato nel 1978 , scritto da Carlo Castellaneta, che mi ha sempre ispirato una sensazione di positiva visione del mondo. Il titolo è Progetti di allegria e il libro non l’ho mai letto, il genere, suppongo, non era legato ai miei interessi. Ma il titolo mi è bastato. Il progettare allegria è senz’altro legato alla bellezza. Una bellezza che appaga, che è custodita dentro di noi e che rappresenta il nostro unico vero tesoro. Un tesoro da nutrire costantemente con un unico codice: la curiosità . È la curiosità che sconfigge l’anedonia, l’incapacità di provare godimento e soddisfazione per tutto ciò che è dentro e fuori di noi. Basta ascoltarci, prestarci attenzione. Abbiamo in noi una intercorporeità innata che ci porta naturalmente verso gli altri. Questa intercorporeità, che addirittura precede il linguaggio è bellezza, perché gli altri sono dentro di noi, ci nutrono continuamente e continuamente ci cambiano. La bellezza sia fisica che estetica è una lotteria, c’è chi vince e c’è chi perde e il glamour è una falsità raccontata molto bene, basta non crederci. C’è una infinità di bellezza, di unicità dentro di noi e se ci convinciamo di questo la
nostra soggettività cambierà. Di più ne nascerà un’autoregolazione emotiva che ci regalerà solo riflessioni nuove e positive. Ridiamo voce dunque alla nostra consapevolezza più profonda, saremo meno lacerati dalle contraddizioni e le ambivalenze che ci circondano e la bellezza e i progetti di allegria saranno solo i nostri progetti da realizzare con le persone che amiamo. Facciamo della bellezza una attiva protagonista della nostra vita, solo così saremo coraggiosi, oseremo e lasceremo il segno.
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IN PRIMA LINEA 13 FOTOREPORTER RACCONTANO
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i intitola “In prima linea” il docufilm di Matteo Balsamo e Francesco Del Grosso che arriverà nelle sale italiane dal 10 giugno 2021 distribuito da Trent Film. Al centro della narrazione 13 fotoreporter, di generazioni, stili, formazioni e approcci differenti, che diventano il passepartout per esplorare cosa ci può essere oltre la prima linea. Solitamente dietro il mirino delle loro macchine fotografiche sono finiti nel mirino della macchina da presa dei registi i fotoreporter Isabella Balena, Giorgio Bianchi, Ugo Lucio Borga, Francesco Cito, Pietro Masturzo, Gabriele Micalizzi, Arianna Pagani, Franco Pagetti, Sergio Ramazzotti, Andreja Restek, Massimo Sciacca, Livio Senigalliesi, Francesca Volpi. Premiato come miglior documentario all’edizione 2021 di International Filmmaker Festival of New York, "In prima linea" è un intenso documentario su 13 fotografi di guerra italia-
Nelle sale italiane dal 10 giugno il docufilm di Matteo Balsamo e Francesco Del Grosso
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ni, che racconta le loro vite come testimoni in prima linea: non un film biografico, bensì un documento inedito su come questo mestiere cambi profondamente le persone che, con i loro scatti, hanno mostrato l’inferno della guerra alla varie latitudini del mondo. «Volevamo provare ad abbattere gli stereotipi presenti nell’immaginario comune sui fotoreporter di guerra” - spiegano i registi Matteo Balsamo e Francesco Del Grosso che li vede come dei superuomini e delle superdonne senza paura e mossi dall’adrenalina. Per farlo abbiamo scelto di rivolgere il nostro sguardo verso l’essere umano che c’è dietro l’obiettivo della macchina fotografica, con tutto il carico di emozioni e di “cicatrici” invisibili al seguito.» Le voci, le fotografie e i ricordi di uomini e donne diventano le tappe di un viaggio fisico ed emozionale tra passato e presente. Perché la prima linea non è solo dove si spara e cadono le bombe, ma ovunque si “combatte” quotidianamente per la sopravvivenza.
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LE DONNE DI TROY BROOKS Dario Ferreri
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«Non ho particolari talenti, sono soltanto
appassionatamente curioso» Albert Einstein
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Un viaggio tra i luoghi e nonluoghi fisici ed emozionali dell'arte contemporanea
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«Una donna dovrebbe essere due cose: chi e cosa vuole» Coco Chanel
roy Brooks è un pittore canadese surrealista che vive e lavora a Toronto e gode di fama mondiale con mostre a Parigi, Londra, New York, Los Angeles, Toronto, Berlino ed Australia. Qualcuno ha scritto che i suoi ritratti surreali di donne con anatomie sproporzionate ed allungate sono diventati icone distintive del-
la nuova scena artistica contemporanea di matrice pop surrealista: chiaramente influenzate dal fascino drammatico delle femme fatales dei film noir degli anni '30 e '40, le donne di Brooks fissano lo spettatore ma sono distaccate ed al contempo ardenti di dialoghi interiori e richiedono seducentemente l'attenzione di chiunque catturi il loro sguardo.
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Troy Brooks, Professional Widow
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CuRIOSAR(T)E
Troy Brooks, Water Lily
L'artista stesso descrive la sua carriera arti- traddizioni dell'artificialità attraverso i ritratti di stica come incentrata sulla pittura di donne in donne androgine immortalate al culmine dei vari rapporti con il potere e guarda alle con- loro drammi privati e/o in momenti di transi-
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Troy Brooks, Rattle
zione o attesa; presentandole sotto i riflettori, Brooks le fa apparire quasi star del cinema, ma ne arricchisce la suggestione figurativa con potenti narrazioni nascoste: in questo modo le sue donne sembrano in qualche modo prigioniere della loro stessa esuberanza, legate ai loro impulsi decadenti ma anche abbastanza lucide da percepire la loro stessa follia. Oltre ad essere i personaggi femminili gli eterni protagonisti del suo lavoro, tranne qualche rara eccezione, come già accennato, altre componenti centrali dell'arte di Troy Brooks sono l'abbagliante glamour e la grandiosità della vecchia Hollywood; questo suo interesse per il cinema classico è iniziato sin dalla tenera età, quando trascorreva ore ed ore nella biblioteca locale, disegnando attrici
spettrali copiate da enormi libri di fotografia. Il primo vecchio film che l'artista ricorda di aver visto a quattro anni è stato "Che fine ha fatto Baby Jane", una tragedia gotica che lo ha perseguitato con il suo glamour decadente e contorto negli anni a venire. Di tutti i generi di cinema classico che Troy ha incorporato nel suo lavoro, probabilmente il più "citato" è il film noir, con la sua tensione, il suo sfarzo, lo stile di narrazione visiva che ha riempito con ridondanza di dettagli narrativi ogni fotogramma che circonda le sue fantomatiche tentatrici: i film noir gli hanno insegnato tutto ciò che l'artista utilizza nella composizione del dipinto e la luce nello stesso (suoi modelli sono i grandi artigiani del sistema degli Studios di Hollywood come Josef von Sternberg, Jack Cardiff e George Hur-
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CuRIOSAR(T)E
Troy Brooks, The Damned Don't Cry
rell): ad esempio, l'assenza di luce illustra una narrativa complicata, un'ombra posizionata con cura sull'occhio sinistro può comunicare un segreto, un'ombra su entrambi gli
occhi sembra indicare un peso, ecc. Le sue più iconiche serie di dipinti partono dal 2010 con la Serie VIRAGO (la sua prima produzione artistica dedicata a donne che
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Troy Brooks, Veiled Apollo
pagano un alto prezzo per il potere; ma in questa serie sono i loro antagonisti maschi gli invisibili che pagano il prezzo finale: dalle vedove vittoriane alle regine del XVI secolo, queste matrone smerigliate tramano e costruiscono la propria strada verso il dominio; una serie, insomma, che esplora i temi del potere e le sfumature di alcuni archetipi femminili) e poi, a seguire, nel 2011 la serie COLOSSUS (il riferimento è al libro di poe-
sie di Sylvia Plath: i personaggi che emergono dai suoi dipinti sono giovani donne in conflitto con ruminazioni monolitiche, intrappolate in ambienti semplici e pudichi e che suggeriscono identità molto più grandi delle fatue definizioni loro imposte), nel 2012 la serie THE FATES AND THE FURIES (il mito greco delle Parche o Moire e delle Erinni o Furie che racconta la storia di sorelle che decidono il destino degli uomini e di quelle che si vendicano di quanti hanno maltrattato le donne: in questa serie l'artista traccia la linea di sangue tra quegli archetipi mitologici, la femme fatale del cinema classico e la top model amazzone degli anni '90), nel 2016 la serie VEILED HEARTS (le figure doloranti di questa serie, con storie non raccontate, sono riunite da un motivo comune: i volti velati; le donne sono ritratte in momenti di introspezione e contemporanea esibizione: ciascuna immagine suggerisce una storia più intricata di un semplice soggetto in posa con i propri segreti in mostra), nel 2017 la serie SHINIGAMI (dopo una serie di lutti personali, culminati con la scomparsa della madre alla fine del 2016, la resa dei conti con la morte diviene un punto focale della produzione artistica di Brooks: ha scelto il mito degli shinigami, una personificazione della morte nella mitologia giapponese, un adattamento giapponese del "triste mietitore" occidentale ed ha immaginato una fumeria di oppio degli anni '20 con esseri immortali che abitano lo spazio tra la vita e la morte, raffigurati nei suoi dipinti in momenti di transizione verso il metafisico, collegamento tra i mondi: questa serie è una sorta di requiem in memoria della madre), nel 2020 la serie THROUGH A GLASS DARKLY (ispirata al cinema classico ed in particolare ai
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CuRIOSAR(T)E
film noir, con dipinti che catturano atmosfere con quel particolare tono di tensione rappresentato dalla assenza di luce e su ciò che tale assenza potrebbe comunicare; il titolo, Through A Glass Darkly, fa pensare sia ad un obiettivo ci n e ma to g ra fi co ombroso che a uno specchio, due delle componenti fondamentali del lavoro dell'artista). Il lavoro di Troy Brooks è celebrato in tutta la scena pop surrealista internazionale degli ultimi anni, con mostre importanti personali e/o collettive svolte presso Corey Helford Gallery di Los Angeles, Beinart gallery di Melbourne, Haven Gallery di New York, Urban Nation Museum di Berlino, Halle Saint Pierre Museum di Parigi con Hey! Magazine, Modern Eden Gallery di
San Francisco, AFA Gallery di New York, Outré Gallery di Melbourne, Red Head Gallery di Toronto, 19 Karen Gallery di Mermaid Beach in Australia, Pink Zeppelin Gallery di Berlino, Damien Roman Gallery di New York, James Freeman Gallery di Londra, Gallery House di Toronto, Arcadia Contemporary e Jonathan LeVine Gallery di New York, TAC Gallery e Pentimento Gallery di Toronto, ecc Nel 2013 Troy Brooks è stato incaricato dalla città di Toronto di creare in città un importante murale pubblico di 15 metri su Church Street che ancora oggi si offre all'attenzione dei passanti. Hanno parlato di lui riviste internazionali quali Juxtapox, Hi Fructose ed Hey! Magazine. Si vocifera che quando la cantante Madonna
Troy Brooks, Stereochrome, foto a lato: Caligula
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si sia recata a Toronto per aprire la sua nuova palestra Hard Candy, abbia lasciato la città con un dipinto di Troy Brooks appena realizzato sotto il braccio, dipinto destinato all' appartamento di New York City della cantante. Su instagram ha oltre 42.000 follower (https://www.instagram.com/officialtroybrooks) e su Facebook oltre 10.000 (https://www.facebook.com/womenoftroy). Per entrare nel suo mondo, l'indirizzo web è https://www.troybrooks.com/.
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I luoghi nella rete
#PERFABRIZIOPERTUTTI UN HASHTAG PER LA TIPIZZAZIONE
Piera, Fabrizio e Maria Neve Arcuti
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Maria Neve Arcuti
Fabrizio, "durante il lockdown, ha prodotto e devoluto più di duemila visiere per ospedali di tutta Italia (trecento tra Milano e Pavia) poi la scoperta della leucemia e la corsa contro il tempo per trovare un donatore. Questa è la sua storia, della mobilitazione della comunità salentina, dell’efficacia della rete del prezioso aiuto di Admo Puglia ODV per diffondere e far conoscere l’importanza della tipizzazione
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ravamo nel corridoio di quell’ospedale, io e Valentina, in attesa di essere ricevute dal primario. In qualche stanza, a pochi passi da noi c’era Fabrizio, mio fratello e suo marito, ed erano già passati molti giorni da quel mese di agosto in cui la sua malattia ha bussato alla porta. Di quella che sarebbe stata solo una delle tante volte che ci avrebbe visto in pena attendere in quel corridoio per essere ricevute, ho un ricordo indelebile: insieme a noi, all’ormai solita e necessaria distanza, due ragazze, visibilmente cambiate da quel male che le aveva aggredite, eppure salve. Chiac-
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chieravano tra di loro, si confrontavano e le infermiere avevano con loro un atteggiamento famigliare e affettuoso. Le ho osservate con un’invidia pazzesca: erano salve. Sorridevano, nonostante un “pic” sul braccio da dover disinfettare accuratamente e chissà quanti altri compromessi con la vita. Ma c’erano ancora. E questa era una certezza. Quella certezza che noi ancora non avevamo tra le mani. Perché la nostra era la fase del terrore negli occhi, dell’incerto, delle preghiere. Avremmo dovuto familiarizzare con mille nuovi termini e iniziare a conoscere il corpo umano, le sue funziona-
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lità, il valore dei globuli bianchi, dei rossi, delle piastrine. Troppo lontani i ricordi legati alle memorie scolastiche. E poi a me le scienze non erano mai piaciute! Quel giorno mi sono aggrappata alla vista di quelle due ragazze e ho promesso che avrei dovuto credere con tutte le mie forze che anche mio fratello un giorno sarebbe andato in quell’ospedale per un semplice controllo. E perché questo potesse accadere si sarebbero dovute avverare solo due cose, ma decisamente importanti: trovare un donatore e sottoporsi ad un trapianto di midollo osseo. Ma noi eravamo ancora nella fase zero. Ci
avevano fornito solo una prima infarinatura della natura di quel nemico invisibile da un nome tristemente noto: Leucemia. Sconosciuta fino a quel momento, ma di cui presto avremmo saputo tante cose. Avremmo elemosinato ogni dettaglio, chiesto spiegazioni, cercato nomi. La mia, la nostra è diventata la storia non solo di mio fratello, ma di tutti. La storia di un fiume di gente che si è mosso per lui. Al suo grido d’aiuto occhi pieni d’amore e coraggio si sono sottoposti alla tipizzazione, per lui e per tutti. #perfabriziopertutti è diventato un hastagh che in sette mesi è diventato virale, ha saputo contagiare persone buone,
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I luoghi nella rete
che a pensarci ora non sembra vero, non sembra possibile. L’abbiamo battezzato “il virus solidale salentino”, in un momento in cui la parola virus era entrata prepotentemente nelle nostre vite e le aveva cambiate solo in negativo. Se ci penso oggi il nostro è stato un percorso soprattutto di conoscenza. E non solo in campo medico. Abbiamo scoperto che questa non era solo la nostra terribile storia, ma era una storia di molte, troppe persone vittime di veleni sepolti sotto i nostri piedi, sostanze invisibili i cui effetti agiscono indisturbati sottopelle. Nel nostro percorso abbiamo dovuto buttare giù molte pillole amare, una fra tutte quella percentuale così poco rassicurante: solo uno su centomila è compatibile con ognuno di noi. E quell’uno bisogna anche cercarlo. Ma con un ostacolo non banale di fronte: quell’uno potrebbe non sapere che stiamo cercando proprio lui. Così ha avuto inizio la nostra corsa disperata. Io e mia sorella Piera non siamo certo due tipe che si arrendono senza neanche provarci. E la bella verità è che spesso “chi cerca trova”. E noi abbiamo trovato innanzitutto una donna speciale, Maria Stea, che da tempo ha deciso di dedicarsi all’organizzazione di giornate dedicate alla “tipizzazione”. Già, una parola non semplice da pronunciare, ma che nasconde un significato prezioso e vitale, quanto mai necessario come il semplice respirare. Tipizzarsi è una cosa facile, quanto quel piccolo e veloce prelievo che serve per prendere le caratteristiche genetiche del tuo midollo osseo e inserirle in quel Registro nazionale dei potenziali donatori. Quel Registro in cui quel tuo fratello gemello proverà a cercarti disperatamente sperando di trovarti in Italia o nel
Daniele De Martinis consigliere e volontario Admo Puglia e Maria Stea Presidente Admo Puglia
mondo. E c’è della magia in tutto questo: sapere che nel mondo c’è una persona su centomila che è esattamente identica a te nei suoi tratti genetici. Quella persona, a sua insaputa, ha il potere quasi divino di salvarti la vita. Basterebbe riuscire a spiegarlo a tutti, ma proprio tutti. Spiegare che non si tratta di un’operazione quando ci si riferisce a quel famoso “trapianto” di midollo osseo. Ma di una semplice infusione. Della donazione di una sacca del tuo sangue. Di poche ore del tuo tempo che gratuitamente potranno salvare una vita. Bisognerebbe dirlo a tutti in tempo utile, perché c’è una fascia d’età precisa, dai 18 ai 35 anni per poter decidere di fare una promessa. “Oggi mi tipizzo per dire di sì quel giorno che riceverò quella preziosa chiamata”. Quel giorno in cui ti sentirai dire che sei proprio tu quell’uno su centomila che oggi puoi salvare tuo fratello, tua sorella, un tuo amico, un tuo parente lontano o semplicemente uno sconosciuto che entrerà nella tua vita come un dono. Una corsa contro il tempo la nostra, nel tentativo di spiegare ai ragazzi tra i 18 e i 35 anni che non ci si può lasciare sfuggire questa preziosa possibilità di poter, un giorno, davvero salvare la vita a qualcuno. Tante volte in questi mesi ho pensato a quanto avrei voluto avere la fortuna d’incontrare qualcuno che mi avesse spiegato in tempo utile. Ma non è successo. Mi sono ritrovata a dover essere tipizzata in età adulta e di trovarmi nella condizione di non avere una percentuale di compatibilità così alta da poter salvare la vita di mio fratello. Perché un’altra cosa che abbiamo scoperto è che è molto difficile che si trovi la compatibilità tra i propri famigliari. Raccontare questa storia non è
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semplice, perché c’è da fare i conti con un turbinio di ricordi ed emozioni difficili da gestire. Come quella volta che qualcuno dall’altra parte della cornetta ci diceva “È grave. Non so se ne usciamo”. Qualcuno che dall’altra parte della cornetta aveva l’autorità per farlo, qualcuno che evidentemente “doveva” farlo. Quello è stato uno dei giorni, e non l’unico, in cui mi sono sentita morire. Ritrovarsi nel giro di un secondo con la mente annebbiata. Non comprendere bene, o forse intuire fin troppo: quel medico dall’altra parte della cornetta ci stava dicendo di prepararci. Che da lì a poco sarebbe potuto arrivare il peggio. E che ci saremmo dovuti preparare a questo peggio. Ma come si fa? Come fai ad accettare che tutto sta andando a rotoli e tu non puoi fare altro che aspettare? No. Non si può. Nel frattempo muori un po’ anche tu. Eppure nello stesso tempo avanza forte quel contrasto tra la vita e la morte. E la morte di fronte alla vita che ancora batte non ce la fa a vincere. Non può vincere mai. Non possiamo e non sappiamo cedergli il passo, neanche quando qualcuno dall’altra parte della cornetta ci suggerisce il resto. No! Non siamo attrezzati per lasciare il passo alla morte. Quella quando arriva non può che trovarci tutti sempre
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impreparati. Ma nel frattempo…noi abbiamo lottato. Mio fratello più di tutti si è aggrappato alla vita con tutte le sue forze. Con la forza di volontà, prima di ogni cosa. Con la forza fisica, resistendo al dolore che di certo ha dovuto sopportare. Resistendo al cambiamento del suo corpo. Ha lottato in virtù di quell’amore sviscerato che prendeva dai suoi bimbi e che riceveva in maniera incondizionata da tutti noi e da tutto quell’esercito di persone buone che si è mosso per lui. Che gli ha scritto, che l’ha chiamato, che ha sperato e pregato per lui. Sette mesi sono trascorsi tra appelli, giornate frenetiche di tipizzazione, contatti, interventi in tv, alla radio, appelli che hanno percorso l’Italia da Sud a Nord. Tutto con un solo scopo, voler salvare Fabrizio, nella convinzione di poter essere d’aiuto a lui o a chiunque altro nelle sue stesse condizioni. Preghiere, lacrime, abbracci desiderati, ma sospesi ci hanno portato a quel giorno in cui di fronte al primario che ci diceva “l’abbiamo trovato, è inglese ed è compatibile per sette ottavi”, noi non abbiamo saputo dire niente. Gioia mista a paura. Trovarlo per poi perderlo avrebbe voluto significare sentirsi morire due volte. Quel giorno gravido di una felicità inespressa. Dobbiamo esse-
I luoghi nella rete
Nelle immagini la lunga fila per Fabrizio e ragazzi che si scrivono al registro dei potenziali donatori di midollo osseo
re prudenti. Non possiamo dirlo a nessuno. Non possiamo nutrire false speranze. Non illudiamoci nemmeno noi. Ma il cuore dentro traboccava di gioia per quel miracolo vivente. Per quella buona stella che aveva deciso di baciare mio fratello. Lui che chissà cosa poteva davvero provare dentro. Scendere negli inferi, sentire la morte che ti gira intorno e poi trovare un giorno la vita che torna a danzare per te. La vita che ti promette altra vita. Avevamo trovato quell’uno su centomila. Di lui non sapremo mai niente se non che di certo ha le sembianze di un angelo inglese con i suoi 22 meravigliosi anni. Abbiamo dovuto aspettare più di un mese nella speranza che il covid non si frapponesse tra noi e lui. Che fosse sano. E che, soprattutto, volesse mantenere quella promessa. Ed è successo. L’angelo di mio fratello alla fine ha donato. E la sua sacca miracolosa è giunta a Tricase dove Fabrizio era in attesa. Una delle sue più importanti. Mai avrebbe potuto pensare di trovarsi in una situazione così terribi-
le. Era uno di noi. Uno di voi. Fino al giorno prima aveva la sua vita regolare, felice, divisa tra lavoro, responsabilità, mare, viaggi, bimbi da mandare a scuola, compleanni da festeggiare. Lo dico perché come me fino al giorno prima, tutti pensiamo che sia sempre la storia di un altro. Quell’altro che non siamo noi. E questo di certo è l’augurio per tutti. Di non essere quell’altro a cui è capitato per sfortuna. Tuttavia, proprio per questo, in tutta questa brutta vicenda ho colto un’opportunità legata ad un’urgenza: quella di far arrivare il messaggio a quanti non sanno di cosa parliamo. Io oggi lo so e ho la responsabilità di raccontarlo. Perché non ci siano troppe persone che come me un giorno debbano ritrovarsi a comprendere di aver perso una possibilità. Informatevi, raccontatelo a chi non lo sa, andate a farvi tipizzare. Qualcuno un giorno vi dovrà la vita. E voi sarete persone diverse, riceverete un dono che va oltre tutte le banalità con cui ogni giorno ci troviamo a fare i conti.
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No. Non è una storia facile da raccontare questa. Non lo è affatto. Come non lo è stato per mio fratello guardare negli occhi i suoi bimbi che attendevano il papà, i nostri genitori a tremare le notti. Condividere la paura di chi c’è già passato e sa. Di chi ti racconta che andrà tutto bene. Di chi ti confessa che suo fratello, sua madre, il suo migliore amico purtroppo non ce l’ha fatta. Numeri, nomi e cognomi, carte da compilare, documenti da portare… gioia intrisa di speranza. Che fosse proprio tra quei 500 tipizzati il tipo giusto? Ci abbiamo creduto tanto. Ci ha creduto ogni singolo ragazzo e ragazza che ha risposto al nostro appello e, superando la paura di entrare in un ospedale in tempi di pandemia, ha fatto prevalere il coraggio e il desiderio di salvare una vita. E alla fine il miracolo è accaduto. Oggi nelle vene di mio fratello scorre il midollo osseo ( e non spinale!) di un suo fratello inglese. Non è stato ancora messo un punto a questa storia. Non sono ancora passati quei cento giorni dal trapianto,
quel lasso di tempo in cui il tuo corpo potrebbe confondersi, ritenere un nemico quel nuovo midollo e iniziare a combatterlo. Ma ad oggi non è accaduto. Oggi posso dire che si vive alla giornata, ringraziando quel nuovo giorno che nasce con una nuova consapevolezza nel cuore, non dando più niente per scontato, come forse in fondo tutti dovremmo fare sempre. Oggi finalmente posso gioire nel sapere mio fratello seduto in quel corridoio d’ospedale, come quelle due ragazze, con un sorriso timido, che sta lì ad attendere il suo controllo. E alla fine anche io una cosa l’ho capita in tutta questa storia. Ho capito che tutti noi abbiamo dentro una gran voglia di piangere, ma non lo facciamo perché non ci piace condividere le lacrime. Eppure ognuno di noi quando è solo, piange. Piange per gioia, per timore, mentre prega, quando ricorda. Piange e poi torna a respirare.
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LA FAMIGLIA E LA RICERCA DEL BENE Giovanni Bruno
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”
Le riflessioni dello psicoterapeuta
L
’incipit del romanzo russo Anna Karenina, scritto da Lev Tolstoj e pubblicato nel 1877, è ormai famoso e citatissimo.«Tutte le famiglia felici si somigliano, ogni famiglia infelice è invece infelice a modo suo». Per ciò che attiene alla nostra esperienza ci permettiamo di dissentire. Le famiglie nella infelicità si rassomigliano tutte proprio perché il dolore e la sofferenza creano un climax che inevitabilmente porta a fasi di particolare comune intensità angosciosa. La famiglia come ha ricordato il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella rappresenta il nucleo vitale della società. L’art. 29 della nostra Costituzione ne riconosce il carattere di società naturale preesistente allo Stato e ne afferma i diritti. Certamente l’aggettivo “naturale’ non deve far pensare a una istituzione immutabile e bloccata nel tempo, piuttosto la famiglia segue ed è al passo con i cambiamenti sociali, con le duttilità e le istanze culturali che, in un processo continuo, si vanno affermando. Le famiglie arcobaleno, le famiglie allargate o monogenitoriali di questi nostri tempi ne sono un esempio. Pensiamo comunque che, come per
ogni fatto legato all’umano, la sorgente di ogni cosa è la vita stessa e il luogo dove l’esistenza nasce e si invera è appunto la famiglia. Ma la famiglia è costituita da persone, soggetti che hanno un loro vissuto, una loro cifra, peculiarità ed esperienze a volte molto diverse. Forse il termine che meglio rende l’idea di una unione felice tra individui è amalgama. L’amalgama è proprio la fusione di elementi eterogenei in un’unica entità, un’unica funzione d’insieme. Ma le definizioni risultano spesso fredde e non pulsano del respiro e della vita vera che nascondono dentro. Alla base della famiglia e dell’amalgama che si crea in essa c’è un unico elemento catalizzante ed è evidentemente l’amore, la dedizione appassionata verso l’altro, la vicinanza affettiva disinteressata e fedele, il desiderio incondizionato di bene per l’altra persona. Ma è ovvio allora che il nucleo strutturale e originario della famiglia è la coppia. Ci vorrebbe la grande letteratura per descrivere l’amore di coppia, il tema è talmente complesso che in un ambito così limitato si potrebbero annotare solo banalità. Più semplicemente pensiamo che noi tutti siamo fatti di mancanza e
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questa mancanza viene miracolosamente ripianata dall’altra persona che abbiamo scelto e che ci ha scelto. Tuttavia la dipendenza affettiva è il principale nemico dell’amore stesso e spesso restiamo con l’altro per tanti motivi che riguardano solo le nostre paure e i nostri bisogni. È quasi un enunciato il fatto che da una coppia sana e paritaria nasce una famiglia sana, con un potenziale di sviluppo orientato unicamente verso il bene. L’alfabeto delle emozioni e dei sentimenti deve poter risuonare nella coppia per poi essere trasmesso ai figli. Come nei vasi comunicanti il fluido del bene si ridistribuisce e l’interiorità di ognuno si arricchisce. Dietro la difficoltà di relazione c’è sempre disagio e sofferenza che deve essere esplicitata e portata alla luce del sole, solo in que-
sto modo si riparano le ferite e si è pronti per ricominciare. I ricominciamenti sono il grande tema della psicoterapia che, con qualsiasi modello alle spalle, vuole solo essere fluida e dare sostanza ai cambiamenti di ognuno. E poi ci sono termini ormai desueti che dovrebbero essere ripristinati. Rigore e serietà nel momento in cui si forma una famiglia devono tornare ad essere dei valori, delle manifestazioni di sana creatività. Il non più e il non ancora così imperante in questi nostri tempi dovrebbe essere abolito, proprio in un’ottica di costruzione del bene, che è il bene di chi ci è vicino e il bene dei figli. Solo in questo modo riusciamo a dare un senso alla nostra vita, che non deve essere un senso convenzionale ma un percorso di tempo di vita con una sua propria originalità appagante.
I luoghi della parola
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POCHI... MA BUONI? Stefano Quarta
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Saremo sempre meno e sempre più anziani. Le ricadute saranno molte e talvolta imprevedibili
Mentre in Italia si discute da anni della necessità di politiche che stimolino una natalità che oramai è sostenuta solo dagli immigrati, la Cina ha appena concesso la “libertà” del terzo figlio. Come ben noto, la Cina attuò una politica di contenimento della crescita demografica. La preoccupazione per un’eccessiva diluizione delle risorse spinse il governo a imporre (dopo alcuni tentativi più morbidi) la politica del figlio unico. Oggi, a distanza di molti anni, i frutti di quella politica iniziano a far presagire quei risvolti negativi che una popolazione più anziana comporta. L’Economia ha tradizionalmente mostrato un atteggiamento utilitaristico nei confronti della demografia, trattando i figli alla stregua di un qualsiasi bene durevole. Ciò non deve sorprendere. Occorre sempre tenere a mente che in Economia non esiste morale. Il primo approccio al tema della relazione tra popolazione ed economia lo si deve a Thomas Robert Malthus, economista e pastore anglicano che, nel 1798, pubblicò un saggio in cui affrontava il legame tra popolazione e risorse disponibili. Egli sosteneva che la prima tende a crescere secondo una progressione geometrica (quindi esplosiva, analoga all’andamento dei casi in un’epidemia, del tipo: 2-4-8…), mentre le risorse crescono secondo una progressione aritmetica (quindi lineare, del tipo: 2-3-4…). Malthus teorizzava
”
ciò agli albori della prima rivoluzione industriale, quando ancora non era evidente che anche le risorse possono crescere in modo esplosivo. Tuttavia, il principio di fondo rimase e rimane valido, tanto che ancora oggi i governi di tutto il mondo si confrontano sul tema della sovrappopolazione. È evidente che la Terra (così come ogni singolo Stato) non ha risorse infinite e che quindi una popolazione mondiale in continua crescita raggiungerebbe, prima o poi, un livello critico oltre il quale le risorse non sarebbero sufficienti per tutti. Nel 1950 la popolazione mondiale era di circa 2,5 miliardi, oggi si attesta sui 7,8 miliardi e si stima che intorno al 2050 si raggiungeranno i 10 miliardi di individui. In pratica 7,5 miliardi in più di individui in un secolo. Certamente non pochi. Come sempre, però, la media (o la somma) descrive solo una parte del problema. Se da un lato ci aspettiamo che le popolazioni di Africa e America Latina guidino questo aumento, dall’altro assisteremo ad una contrazione della popolazione dei paesi sviluppati tra cui, ovviamente, l’Italia. Ogni paese, in genere, sperimenta 4 situazioni demografiche che seguono altrettante fasi dello sviluppo economico. All’inizio vi è un elevato tasso di mortalità, compensato da un altrettanto elevato tasso di natalità e la popolazione si mantiene stabile su livelli bas-
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si. È questo il caso dei paesi del Terzo Mondo. Nei Paesi in via di Sviluppo, invece, la popolazione aumenta, a causa di una mortalità in calo (grazie ad un miglior sistema sanitario). In seguito, il maggiore benessere fa progressivamente diminuire il tasso di natalità fin sotto il tasso di mortalità, e così, dopo aver raggiunto la popolazione massima, questa inizia a ridursi. Infine, politiche di incentivo alla natalità possono far si che i due tassi si allineino, implicando una sostanziale stabilità di lungo periodo. I paesi avanzati possono trovarsi nella terza o nella quarta fase. In Europa, la Francia rappresenta un esempio da imitare. Anche escludendo gli immigrati, infatti, mostra uno dei tassi di fecondità più alti del continente, se non il più alto. Ma allora, perché dovremmo imitare la Francia? Perché una popolazione in decrescita è un problema quando invece, a livello globale, ci preoccupiamo del problema opposto? Perché, come detto in apertura, la decrescita demografica porta con sé tutta una serie di implicazioni per le quali bisogna farsi trovare pronti. In Economia, il citato approccio utilitaristico considera i figli come un’assicurazione per la
Figura 1: Piramide dell'età - Italia 2020.
vecchiaia. Il genitore si occupa del figlio per far si che questo, un giorno, ricambi il favore. Non bisogna, tuttavia, vedere questo patto come un accordo tra singoli individui, quanto piuttosto come un patto tra generazioni. È ben noto che i contributi degli attuali lavoratori servano per pagare le pensioni di chi ha lavorato in passato, esattamente come un figlio riconoscente che accudisce l’anziano padre. Affinché il sistema regga, deve però (evidentemente) esserci un equilibrio tra le due categorie. Ma se i giovani sono pochi, i contributi accumulati non bastano e le pensioni devono essere ridotte. Ed infatti, dalla riforma Dini del 1995 si è iniziato un processo di contenimento della spesa pensionistica che ha evitato il fallimento dell’Inps (alias dello Stato). Ed anche la tanto contestata riforma Fornero si pone come ultimo atto di questo processo. Il suo superamento potrà essere solo momentaneo, a meno di compensare con la perdita di altri servizi. Già 26 anni fa, infatti, i dati indicavano che nel futuro ci sarebbe stato uno squilibrio generazionale ed oggi siamo sull’orlo della recessione demografica. In Figura 1 possiamo vedere la
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Figura 2: Piramide dell'età - Camerun 2020.
piramide dell’età (grafico che rappresenta la numerosità delle varie fasce d’età, distinte per sesso) del nostro Paese nel 2020. Quel che balza subito agli occhi è che, pur chiamandosi piramide dell’età, non sembra affatto una piramide. In figura 2 vediamo invece l’analogo grafico del Camerun. Questa è una piramide! In un Paese povero,
Figura 3: Piramide dell'età - Italia 1950.
Figura 4: Piramide dell'età - Italia 2100.
come abbiamo detto, il tasso di mortalità è molto alto, perciò raggiungere i vertici della piramide (cioè invecchiare) è via via più difficile. Nel nostro Paese, invece, il problema non è invecchiare, bensì nascere. In Figura 3 e 4 possiamo vedere l’evoluzione del grafico dal 1950 alla stima per il 2100 (passando ovviamente per la situazione attuale in Figura 1). Nel 1950 il nostro grafico sembrava ancora una piramide, sebbene molto slanciata, mentre nel 2100 sarà più simile ad una piramide capovolta. Questo perché, senza interventi di incentivazione delle nascite, una volta che la base si assottiglia, ogni nuova generazione che arriva a procreare è meno numerosa della precedente e, quindi, per invertire la rotta sarà costretta a fare un numero di figli ancor più alto. Siamo all’inizio della decrescita demografica perché, come si può notare in Figura 1, le classi di età più numerose comprendono individui tra i 45 e i 55 anni, che da un lato è difficile facciano figli, mentre dall’altro non sono così lontani dalla pensione. Politiche come l’assegno unico (che entrerà parzialmente in vigore a Luglio) vanno nella direzione giusta, aiutando un po’ di più le famiglie con figli minorenni ma, giungendo tardivamente, possono risultare ormai poco efficaci. La Cina si trova in una situazione analoga a quella dell’Italia degli anni ’90, quando capimmo di dover intervenire. Il paradosso è che la Cina si trova in una condizione artificiale da essa stessa voluta. Quindi, come sempre, la virtù sta nel mezzo. Il modello da imitare è probabilmente quello francese o scandinavo, dove ogni coppia mette al mondo circa 2 bambini, consentendo la sostanziale stabilità della popolazione. Si stima che nel 2100 la popolazione francese sarà praticamente pari a quella di quest’anno, mentre quella italiana passerà dagli attuali 60 milioni a 40 milioni nel 2100 (altre stime ritengono si possa arrivare addirittura a 30 milioni). Le ricadute non si limiteranno al sistema pensionistico, ma anche a quello sanitario. Un numero sempre più esiguo di lavoratori dovrà sostenere, con le proprie
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tasse, gli acciacchi dell’età di un numero sempre maggiore di anziani. Ma le conseguenze di un calo demografico possono colpire gli ambiti più vari, come per esempio il mercato immobiliare. Se un paese si spopola, la domanda di immobili inesorabilmente cala e di conseguenza il valore del patrimonio complessivo italiano, spesso posto a garanzia di prestiti e mutui. A sua volta questo potrebbe intorpidire il mercato finanziario e successivamente quello economico. Oppure si pensi a ciò che accade nelle scuole da diversi anni, dove una cronica mancanza di iscrizioni spinge i dirigenti scolastici a solleci-
tare politiche di votazione sempre più generose, intimoriti dalla possibilità che le iscrizioni calino ulteriormente a causa di un fama di “scuola tosta”. Ma con meno bambini la soluzione non più essere questa, quanto piuttosto la chiusura o l’accorpamento di alcune scuole, ripristinando, anche qui l’equilibrio. E col tempo scopriremo tutte le altre conseguenze negative che ora non riusciamo neanche ad immaginare. Servirà trovare le soluzioni in anticipo, evitando di farsi travolgere come sempre, oppure invertire la tendenza. Vedremo.
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VN 360°. MUSEO INTERNAZIONALE BIBLIOTECA DELLA MUSICA
N 360°, il nuovo percorso immersivo dedicato al Museo internazionale e biblioteca della musica, Bologna. Courtesy Studio Veronesi Namioka
Sara Di Caprio
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On line il museo internazionale e biblioteca della musica di Bologna Città creativa della Musica Unesco
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I luoghi nella rete
l covid non solo ha cambiato il nostro modo di vivere senza altro in negativo ma in certi casi ha anche dato un nuovo impulso e nuove idee nel far rivivere gli spazi. Il museo internazionale e la Biblioteca della musica a Bologna, Città Creativa della Musica UNESCO, si apre al mondo del web. I fruitori Con un semplice click potranno infatti sentire e vedere la storia della musica europea esposta nelle sale e documentata attraverso un centinaio di ritratti di personaggi illustri, più di ottanta strumenti musicali antichi ed un'ampia selezione di documenti storici di enorme valore: trattati, volumi, libretti d'opera, lettere, manoscritti, partiture autografe. È possibile quindi rendere veramente accessibile a tutti ad esempio lo spartito Quaerite primum regnum dei che un giovanissimo Wolfgang Amadeus Mozart a soli 14 anni presentò
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per l'esame di ammissione all'Accademia Filarmonica a Bologna nel 1770 o con curiosità guardare la vestaglia da camera appartenuta a Gioachino Rossini, il tutto immergendosi negli spazi architettonici del museo e ammirando le arcate illusionistiche dello scenografico scalone o i dettagli architettonici delle sale e dei soffitti affrescati tra la fine del XVIII e gli inizi del XIX secolo per mano di Vincenzo Martinelli, Pelagio Pelagi, Serafino Barozzi, Antonio Basoli, simboli del periodo napoleonico e neoclassico a Bologna. Il percorso virtuale VN 360° è stato realizzato dallo studio di comunicazione italogiapponese Veronesi Namioka ed è guidato da Fuyumi Namioka e Silvia Veronesi e comprende uno staff di antropologi, comunicatori e esperti d'arte. VN 360°è quindi il risultato di una fusione tra competenze cul-
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turali-artistiche e tecnologie digitali di ultima generazione. Per scoprirlo basta collegarsi al link www.museibologna.it/musica e ci si immerge a 360 gradi non solo in un percorso uditivo musicale dove è possibile leggere le info grafiche e sentire i suoni degli strumenti
esposti ma anche lasciarsi incantare dalla prestigiosa sede del museo che dal 2004 è Palazzo Sanguinetti di origine cinquecentesca, situato in Strada Maggiore 34. Si entra quindi dalla biglietteria e bookshop, e si viaggia con un tocco o con il mouse tra sale affrescate e strumenti musicali in teche
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I luoghi nella rete
di vetro per concludere il viaggio sul secondo cortile interno, celebre per il bel paesaggio affrescato sulla parete di fondo, e realizzato nell’Ottocento a trompel'oeil da Luigi Busatti ai cui angoli spiccano rigogliose piante di banano. Il museo della Musica è il primo tra i musei civici di Bologna ad essere fruibile comoda-
mente da casa con questa tecnologia multimediale offrendo un accesso libero all enorme patrimonio di beni musicali posseduto e conservato. Il museo rimane anche con un click come affermava lo scrittore Pamuk " quei posti dove il tempo di trasforma in spazio". www.museibologna.it/musica
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VIAGGIO NEL SUD ITALIA TRA SCRIGNI E OPERE D’ARTE
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Al via le riprese del nuovo format ideato e condotto dallo storico Marco Tedesco e prodotto dall’associazione RAM
iaggio nel sud Italia – scrigni e opere d’arte in giro per l’Italia meridionale” è il titolo del format ideato, curato e condotto da Marco Tedesco (nella foto). Raccontare e riscoprire le opere d’arte e siti meravigliosi inediti che continuano ancora oggi a fare grande la
civiltà artistica del sud Italia questo il cuore del progetto ideato dallo storico dell’arte delegato dell’associazione RAM Rinascita Artistica del Mezzogiorno che produrrà il format con la regia di Giuseppe Mannarino. Fil rouge delle puntate la figura di San Nicola di Bari culto condiviso anche con la cultura e le tradizioni del popolo Arbereshe, emigrato nei territori del sud Italia durante l’incursione turco ottomana nelle regioni al confine tra Grecia e Albania, area da cui provengono gli antenati delle popolazioni arbereshe del sud Italia. Tra i tanti scrigni d’arte presentati ci sarà infatti la cattedrale di San Nicola di Myra a Lungro, in cui ancora oggi si conserva il rito cristiano cattolico bizantino e - anticipa lo stesso Marco Tedesco ogni puntata avrà come sigla di apertura e di chiusura una musica tradizionale tipica del territorio in cui verranno girate le puntate e una colonna sonora tratta sempre dal repertorio tradizionale delle regioni e dei territori aderenti al progetto. Un format che si preannun-
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cia davvero interessante e che noi di Arte e Luoghi non possiamo che condividere e sostenere. Le narrazioni dei luoghi sono un passo indispensabile per la promozione degli stessi e raccontare la bellezza da sempre è la nostra missione e siamo lieti di annunciare le riprese a breve del programma che andrà in onda tra settembre e dicembre. Al momento non è possibile svelare i luoghi che visiterà la troupe di “Viaggio nel Sud Italia” ma possiamo anticipare le associazioni aderenti: Associazione Culturale “A Castagna r’a Critica” di Lagonegro (Potenza); Associazione Culturale “Mistery Hunters” e Associazione Culturale “Mystica Calabria” di Castrovillari (Cosenza); Accademia “Cittadella Nicolaiana” di Bari; Museo dei Viaggiatori di Sicilia di Palazzolo Acreide (Siracusa), in collaborazione con la delegazione siciliana dell’associazione Ram Rinascita Artistica del Mezzogiorno; Associazione Culturale “I Sedili di Napoli” di Napoli.
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Mariangela Rosato
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Per i Luoghi nella rete Arte e Luoghi varca le Alpi e arriva nella Villa Lumière per incontrare protagonisti del mondo della Cultura
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PARIGI. Sono trascorsi 700 anni dalla morte del Sommo Poeta e, malgrado il passare del tempo, la potenza della sua opera letteraria continua a persistere toccando i nostri cuori e le nostre anime. A ricordare Dante e la sua Divina Commedia, infatti, non è solo l’Italia, ma anche la Francia che ha organizzato quest’anno numerosi incontri per celebrare uno dei più grandi letterati di tutti i tempi sia per genialità stilistica, che per profondità di contenuti. Tra gli organismi istituzionali che hanno avuto un ruolo cruciale nelle celebrazioni di Dante, da citare è senza dubbio la Società Dante Alighieri, Comité de Paris la quale, coinvolgendo figure accademiche del mondo italiano e transalpino, ha dedicato molti degli eventi previsti per il 2020/2021 proprio al Sommo Poeta.
A colloquio con Simona Frascati, responsabile amministrativa e pedagogica della Società Dante Alighieri- Comité de Paris, nonché professoressa d’italiano presso lo stesso organismo, ci si rende conto di quanto profondo sia l’interesse da parte della capitale francese nei confronti della letteratura e della cultura italiana in generale. Molti, infatti, imparano la nostra lingua per il solo piacere di leggere la produzione letteraria di autori come Umberto Eco, ma anche per appassionarsi ai versi di Dante senza passare dalla traduzione che, a volte, impedisce di cogliere completamente tutte le sfumature di un testo. L’impresa é ardua, ma la voglia di immergersi nella letteratura del Bel Paese è più forte di qualsiasi divisione linguistica. Una passione che si riscontra, allo stesso tempo, in coloro i quali si approcciano
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I luoghi nella rete | un italiano a Parigi
“DANTE A PARIGI’ INTERVISTA A SIMONA FRASCATI
allo studio della lingua di Molière le cui insidie non sono di certo inferiori alla lingua di Dante. «Abbiamo previsto molti eventi per omaggiare Dante- spiega. Il primo evento dal titolo “Quando Dante parla francese” è stato organizzato a gennaio 2021 ed ha riguardato la presentazione delle traduzioni della “Divina Commedia”, “Il Convivio” e “La Vita Nuova” da parte di René de Ceccatty, scrittore, editore e traduttore francese». Nel corso di quest’incontro, il professore ha spiegato come è riuscito a tradurre l’opera di Dante sottolineando, al contempo, l’importanza e la difficoltà di parafrasare in un francese moderno i versi del poeta.
del libro, nonché il suo rapporto con lo scrittore fiorentino. Il 25 marzo, invece, data scelta per ricordare la produzione del Sommo Poeta, abbiamo organizzato, insieme al Liceo Italiano, Leonardo Da Vinci a Parigi, una tavola rotonda su come e perché sia importante insegnare Dante oggi. In quest’occasione, si è cercato di capire come Dante sia percepito dagli alunni e come sia possibile stimolare i ragazzi a scoprire un autore distante da loro per motivazioni temporali e linguistiche».
L’attualità e la grandezza dell’opera dantesca è confermata dall’interesse che questa suscita anche nell’ambito artistico. Per Un altro evento riguardante sempre l’opera rafforzare, infatti, il legame tra Dante e l’ardantesca è stato quello con il Professore te contemporanea, la Società Dante AliGiulio Ferroni autore del libro “L’Italia di ghieri ha ospitato, lo scorso aprile 2021, Dante, viaggio nel paese della Commedia”, Ghislaine Avan, un artista italo/francese, edito dalla casa editrice La nave di Teseo. coreografa e ballerina. Nel corso di que«Si è trattato- afferma- di un incontro molto st’incontro virtuale, organizzato in collabointeressante nel corso del quale il professo- razione con la Maison de l’Italie, si è dato re ci ha spiegato quale sia stata la genesi spazio alla sua opera cinematografica dal
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I luoghi nella rete | un italiano a Parigi
linguistica, che spesso crea frizioni e risentimenti, viene, in questo modo, infranta e si va incontro al congiungimento delle culture.
«Dante non è molto conosciuto in Francia,sottolinea con chiarezza- tuttavia, grazie anche all’aiuto degli insegnanti di lingua nelle scuole e in altri istituti si sta cercando di coinvolgere gli alunni nella scoperta di un personaggio fondamentale non solo per la cultura italiana, ma, più in generale, per quella europea. Infatti, se trasmesso e presentato in maniera giusta, Dante può ancora sedurre». Certamente chi abita a Parigi ha molte più possibilità di entrare in contatto con la cultura italiana alla luce del numero sempre più crescente di italiani che vengono a vivere nella cosmopolita capitale francese. Nonostante le restrizioni legate alla pandemia, infatti, i nostri connazionali continuano a partire spinti da motivazioni diverse, ma accumunati tutti dalla voglia di vivere un’esperienza che, in un modo o nell’altro, è destinata a stravolgere le vite e a far vedere le cose con occhi diversi.
«Vivere nella ville Lumière è un’occasione per arricchirsi culturalmente e consente di toccare con mano il fascino che l’Italia genera all’estero. Io lo sperimento quotidianamente: la maggior parte dei nostri stutitolo “Le LA du Monde” con cui Avan ha denti non studia l’italiano per motivi profesportato i versi di Dante in tutti i continenti sionali, ma per pura curiosità ed interesse. attraverso le lettura dei canti della Divina Ci sono alcuni allievi che sono sorprendenti Commedia in più di 40 lingue. «Si tratta di nelle loro conoscenze dell’italianità». Esseun progetto che va avanti da più di 11 anni- re un italiano a Parigi, quindi, è una grande chiarisce - e che punta a rendere Dante un fortuna grazie alla quale si riesce a comcollante sociale capace, grazie all’aspetto prendere il forte legame che unisce, checuniversale insito nella Divina Commedia, di ché se ne dica, i nostri due paesi da secoli unire le persone nonostante le diversità e le ed apprezzare maggiormente le nostre specificità di ciascuno». Un’opera di grande peculiarità che molto spesso, con i piedi spessore che crea con le immagini una tor- poggiati sulla terra dello stivale, non vediare di Babele contemporanea e che permet- mo. te al padre della nostra lingua di viaggiare entrando negli animi dei lettori. La barriera
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MUSEO ARCHEOLOGICO FAGGIANO: 2500 ANNI DI STORIA LECCESE
Museo Faggiano reportage di Sara Foti Sciavaliere
Sara Foti Sciavaliere
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Storie l’uomo e il territorio
Murati e riscoperti in un antico palazzo del centro storico del capoluogo salentino
LECCE. Siamo nel centro storico di Lecce, a poco più di un centinaio di metri da Porta San Biagio, in una traversa di via dei Perroni costeggiata da una serie di palazzi gentilizi dai balconi ricamati nella pietra e i portali bugnati o fiancheggiati da colonne. Un edificio all’apparenza comune, invece, privo di fronzoli apre le sue porte sulla via dedicata al poeta leccese del Cinquecento, Ascanio Grandi, e lì al civico 56 si trova il “Museo Faggiano” è un edificio storico-archeologico privato, che in un percorso molto accidentato è arrivato a essere aperto al pubblico come una sorta di casa-museo.
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temporaneamente in affitto per i tre appartamenti ricavati, dopo che gli inquilini del piano terra lasciano l’appartamento, pensa di convertire quella parte dell’edificio in una trattoria o un pub – in quella che intanto è diventata area della movida leccese – ma prima di avviare i lavori di ristrutturazione vuole venire a capo di un problema di manutenzione: rompe così i pavimenti nelle prime due stanze verso l’ingresso, con lo scopo di trovare la perdita di un tubo della fogna, un impianto ormai datato che continuava a procurare continue infiltrazioni di umidità. Ed è nel corso di tali interventi di adeguamento che iniziano a riaffiorare testiLa spinosa faccenda comincia però monianze storico-archeologiche, ereper caso nel 2001, quando il proprieta- dità della pluristraficazione del nucleo rio dell’immobile, acquistato da Lucia- urbano più antico e delle presenze no Faggiano nel 1984 e concesso che si sono avvicendate nel tempo.
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Sarà tuttavia anche l’inizio di un calvario giudiziario perché in realtà non avranno piena consapevolezza del valore del loro ritrovamento finché una denuncia li porterà in casa la Guardia di Finanza e il signor Faggiano si troverà sul collo, come una spada di Damocle, una serie di accuse per violazione in materia di ricerche archeologiche e impossessamento illecito di beni culturali appartenenti allo Stato.
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E mentre gli accertamenti giudiziari fanno il loro corso, dopo un lungo periodo di sequestro dei locali con tanto di sigilli, i lavori nel palazzetto di Via Ascanio Grandi riprendono con la supervisione della Soprintendenza Archeologica di Taranto e sotto la guida di due architetti, portando alla messa a nudo del banco roccioso e lo svuotamento di tutte le opere scavate in roccia. Da una parte è stato come scoperchiare il Vaso di Pandora per i guai e le chiacchiere che la famiglia Faggiano ha dovuto subire, dall’altro canto, man mano che si avanzava nell’esplorazione degli spazi, è stato
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delle capanne dell’Età del Ferro. Sarà nella seconda metà del IV secolo a.C. che Lecce assume la forma di un centro urbano caratterizzato da un tessuto abitativo discontinuo, servito da tracciati stradali non rettilinei e alternato a spazi agricoli, luoghi di culto ed aree funerarie, e sempre in questo periodo l’abitato viene racchiuso entro una potente cinta difensiva. Riferita a questa fase della città si è potuto identificare anche del materiale archeologico di età arcaica, ossia dei frammenti di statue femminili in terracotta con polos sul capo e di un corpo fittile con philes, pesi da telaio e una fusaiola. All’età romana, i tempi dell’antica Lupiae, si riferiscono diversi lacerti musivi rinvenuti separatamente nel corso degli scavi, plausibilmente parte di un pavimento a mosaico del quale è impossibile ipotizzare la precisa collocazione, data la frammentarietà dei ritrovamenti, per di più fuori dal loro contesto primitivo. Fino alla conquista normanna del Salento, nella metà del XI secolo, Lecce sopravviva nell’area delimitata della cinta muraria messapica con una popolazione assai ridotta, ma a
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come entrare nell’antro di Alì Babà e riportare alla luce gli insospettati tesori custoditi per secoli lontano da occhi indiscreti, i butti, cisterne e dietro strati di intonaco. I lavori, terminati nel dicembre del 2007, hanno reso quella civile abitazione, apparentemente comune, un vero e proprio sito archeologico, in cui si evidenziano più di duemila anni di storia. Lecce ha una storia urbana lunga ventiquattro secoli e come tutti i centri a continuità di vita, il suo volto moderno è il risultato di una serie di interventi e di trasformazioni che, in tempi e in misura diversi, hanno agito nella sua strutturazione. In origine si trovavano qui solo piccoli nuclei di capanne di VIIIVII secolo, individuati in diversi punti del centro storico (via Idomeneo, piazzetta Panzera, piazza Duomo, viale Lo Re, piazzetta Epulione), che rappresentano la prima forma di d’insediamento nell’area urbana, e seppure non registrata nella “carta archeologica” della città, la presenza di una quindicina di buche di palo nel banco roccioso di un paio di ambienti dell’immobile di via Ascanio Grandi, consentono di ipotizzare che qui fossero presenti
partire dalla seconda metà di quello stesso secolo la città appare interessata da un intenso sviluppo edilizio, soprattutto di carattere ecclesiastico, che tuttavia non coinvolgerà l’area su cui sorge l’attuale Museo Faggiano, intorno al quale però, in seguito, si vedranno nascere intorno edifici destinati al culto. L’area dell’immobile è stato interessata invece da un’antica “casa a corte”, della quale si conservano le strutture murarie più antiche – corrispondenti al muro perimetrale sud-occidentale, un tratto di quello orientale e porzioni dei tramezzi quattro vani a piano terra – tra il XIII e il XIV secolo, che potrebbe in parte coincidere con una delle proprietà templari della precettoria urbana di Lecce. Di fatto da un manoscritto della cancelleria angioina, poi trascritto e pubblicato nell’800 dallo storico tedesco Hans Prutz, si apprende di un inventario di beni mobili e immobili appartenuti alla precettoria urbana di Santa Maria del Tempio di Lecce che da questi ricavava
Museo Faggiano reportage di Sara Foti Sciavaliere
una buona quantità di denaro dati in affitto, tra queste abitazioni ne risulta appunto una nei pressi di San Matteo: a fare protendere nell’ipotesi che la casa in questione è coincidente in parte con il “Museo Faggiano” è il fiore della vita a sette petali inciso sulla pietra dello stipite di un arco, oggi murato, ma che in origine pare fosse l’accesso alla corte, ed è riconosciuto che tale simbolo è diffuso lungo i sentieri e nei luoghi della via Francigena a opera degli ordini gerosolimitani come i Cavalieri Templari. Nei primi ambienti si possono individuare anche delle cisterne d’acqua e un ampio silos a pianta circolare utilizzato per conservare grano e derrate in epoca medievale. In una fase successiva della fabbrica – della quale sopravvivono una serie strutture murarie databili intorno al XV e XVI secolo e sono stati recuperati una serie di elementi decorativi – l’edificio è stato parte di una struttura religiosa che accoglieva le Terzia-
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rie Francescane, e nel terzo ambiente a piano a terra – che doveva essere adibita a cappella od oratorio –, a riempimento di vasche, sono stati rinvenuti resti in pietra leccese che costituivano parte di una mensa di altare con le sue decorazioni scolpite nella pietra e un paliotto in marmo policromo, risalenti questi ultimi a interventi di restauro seicenteschi per la presenza di caratteri stilistici pertinenti all’arte barocca. La comunità religiosa si sposterà nel corso del XVII secolo nel vicino convento adiacente alla nuova fabbrica della Chiesa di San Matteo del medesimo ordine francescano. L’addizione di murature di epoca successiva e il ritrovamento di resti di ceramiche da mensa, pipe in terracotta e altre utensili a uso domestico attestano una continuità di
Museo Faggiano reportage di Sara Foti Sciavaliere
vita nell’immobile ormai di fatto destinato ad abitazione civile fino ai giorni nostri.
È inoltre un’ipotesi plausibile che il palazzetto del Museo Faggiano non sia considerarsi un fabbricato a se stante ma una porzione di un complesso che coinvolgeva i fabbricati confinanti, sia quelli lungo la breve e adiacente Corte dei Balduini che quelli che lo fronteggiano sulla stessa via A.Grandi: di fatto, da un esame lungo la corte laterale, si evidenziano basse arcate a tutto sesto con volte a botte e sugli angoli tozze semicolonne con capitello decorato a teste d’angeli a rilievo, seppure parzialmente visibili, e se ne può presumere quindi parte, in antico, di una struttura architettonica religiosa (come scrivevo sopra), poi frazionata dalle trasfor-
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mazione urbanistiche del Pittaggio di San Biagio. Certo è che la storia di q u e s t a costruzione andrebbe m e g l i o approfondita dagli storici e archeologici perché sia valorizzato anche dalle
istituzioni il patrimonio storicoarcheologico che il Museo Faggiano rappresenta, e forse un primo passo potrebbe essere riconoscere all’edificio il vincolo di interesse storico.
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FIBERART, STORIE CUCITE SUL FILO DELLA MEMORIA
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Alessandro Matteo
Si è inaugurata il 4 giugno, nella sede dell’associazione Le Ali di Pandora la personale di Lucy Ghionna
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n Lucy Ghionna il gesto artistico, adulto ed essenziale, si unisce alla capacità di estrapolare bellezza e significato da ogni ambito del vissuto con una attenzione che è in grado di trasformare quello che all’uomo comune appare inutile, superfluo, privo di importanza in materia pregna di senso, di personalità e di coerenza. L’attitudine di Ghionna infatti è improntata a una urgenza di trasformare queste intuizioni artistiche, questi lampi di bellezza e senso colti in ogni ambito del vissuto in un linguaggio univoco e coerente. Un gesto salvifico verso un mondo che altrimenti
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rischierebbe di finire nella pattumiera di una società sempre più distratta dalle next big thing. Destinata a sua volta a invecchiare nel giro di poche ore.
Non a caso il linguaggio di Lucy Ghionna si compone attraverso contrapposizioni. Contrapposizioni tra segni veloci, urgenti per l’appunto, e una fase più lenta e ragionata, composta con tecniche che furono colpevolmente esclusive di un mondo femminile e artigianale. Tecniche che venivano non a caso relegate, anche dove di livello altissimo, alla dimensione domestica.
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Alcune opere di Lucia Ghionna in mostra
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Contrapposizioni, sempre sapienti, tra campiture di colore accesissime, violente, che si stagliano su palette apparentemente più spente. È Il colore stesso infatti, scorrendo in modo circolare o subendo dei tagli accesi e segnici, che porta l’occhio in luoghi nascosti a un primo sguardo; spazi dove il significato si fa meno immediato, più lento, ma anche più profondo e commovente. Un universo segnico accompagnato da una ripetizione di simboli, come quello del cuore, che sembrano provenire direttamente da una memoria collettiva fatta di ex voto e pale d’altare il cui colore si sfarina al passaggio delle dita: una dimensione di raccoglimento religioso delicatamente trasposta. L’occhio di Ghionna infatti si muove tra la capacità di ricontestualizzare scampoli di oggetti e realtà, rendendoli estremamente affascinanti come quegli oggetti d’affezione tanto cari a Man Ray, e una riappropriazione degli spazi che ricorda da vicino il gesto dello street artist. Ma se il graffitista (quelli della prima ora, da Basquiat ad Haring) è vicino per il
Alcune opere di Lucia Ghionna in mostra
segno tagliente, ricavato dal misticismo dell’arte preistorica, nel lavoro di Ghionna sovviene anche lo yarm bombing, recante anch’esso una volontà di utilizzo di un linguaggio “femminile” recuperato e mediato in modo destabilizzante. Ghionna infatti, coi suoi lavori dalla dimensione raccolta, sembra volersi riappropriare, con la medesima attitudine dello street artist che tagga il palazzo abbandonato per sottrarlo all’alienazione della città, di uno spazio interiore rimasto rimosso; riscoperto in modo dolorosamente delicato. Uno spazio di sacrificio e resistenza che, attraverso il gesto artistico, viene salvato e reso prezioso proprio per il lavoro e l’attenzione che hanno trovato nell’artista che l’ha composto. Una resistenza artistica quieta, ponderata, ma priva di compromessi.
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Vernissage: venerdì 4 giugno pre 19. Via San Massimiliano Kolbe – Lecce Nel corso della serata si aprirà un reading per poeti e non che racconteranno una storia. Ingresso libero: Si prega di venire muniti di dispositivi DPI (guanti e mascherine)La rassegna proseguirà i venerdì successivi con “30 minuti sul filo di una Storia”. Tre Autori: Valeria Coi, Walter Spennato e Valentina Perrone presenteranno il loro ultimo libro, o forse no, forse racconteranno la “Loro” storia oppure quella dei personaggi del loro libro, o forse si cimenteranno in osservazioni e commenti con pubblico, per rimanere “Sul Filo di Una Storia”
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Giorgio Morandi, Paesaggio del Poggio, 1927, acquaforte su rame Istituzione Bologna Musei | Museo Morandi
MORANDI RACCONTA. IL SEGNO INCISO: TRATTEGGI E CHIAROSCURI Sara Di Caprio
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Al Museo Morandi una mostra dedicata al tema dell’incisione dal 27 maggio al 29 agosto
BOLOGNA. Giorgio Morandi è l’artista italiano che segna con il suo percorso individuale l’arte contemporanea. La sua continua ricerca di forma e colore di passaggi cromatico graduali non smette di interessare il grande pubblico. Si è aperta a Bologna il 27 maggio nelle sale del museo morandiano “Morandi racconta. Il segno inciso: tratteggi e chiaroscuri”. La mostra, visitabile fino al 29 agosto 2021, a cura di Lorenza Selleri, è il terzo e ultimo appuntamento dedicato a Giorgio Morandi RECOLLECTING. Un programma ideato da Lorenzo Balbi che ha lo scopo di valorizzare opere non visibili o non esposte da tempo per regalare un nuovo sguardo sull’artista e sulle collezioni permanenti dell’Arte Moderna e
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Contemporanea dell’Istituzione Bologna Musei. La mostra parte da una domanda “Che cos’è un’acquaforte?”, tecnica molto amata dall' artista e che ha quindi al centro il tema del segno inciso. Nel 1930 infatti Morandi diventa docente di Tecnica dell'Incisione all'Accademia di Belle Arti di Bologna e come dichiarava nel 1937 «dipingo e incido paesaggi e nature morte». Morandi assorbe dagli incisori del passato come Rembrandt le caratteristiche e i segreti della tecnica, e attraverso l’osservazione e lo studio ne diventa maestro. Il suo modus operandi lo utilizzerà con i suoi studenti: «faccio eseguire qualche copia da incisori antichi e limito l’insegnamento all’acquaforte eseguita a puro
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Morandi nella sua aula all'Accademia di Belle Arti di Bologna Istituzione Bologna Musei | Casa Morandi
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Giorgio Morandi nel 1958 Foto di Lamberto Vitali
segno». E dal suo insegnamento ne trarranno beneficio artisti come Luciano Minguzzi, Pompilio Mandelli, Quinto Ghermandi, Luciano Bertacchini, Leone Pancaldi, Vasco Bendini, Pirro Cuniberti, Dino Boschi, Luciano De Vita e Paolo Manaresi. Il bravo maestro insegna la tecnica senza imporre il proprio stile ed è questo il caso. Questi Artisti riescono a trovare un “proprio timbro” come lo stesso Morandi suggeriva.
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Le acquaforti dell'artista sono contraddistinte dal tratteggio, che meglio mette in risalto il chiaroscuro arrivando a creare dei “colori sottintesi” come li definisce Brandi, Morandi fu attento osservatore delle cose che aveva sotto gli occhi, e la sua ricerca anche in pittura lo portò a una " meticolosa distillazione".
Il percorso espositivo ripercorre le tappe della sua evoluzione stilistica partendo da
Giorgio Morandi, Grande natura morta con la lampada a petrolio, 1930 , acquaforte su rame, Collezione C.O.Z. Istituzione Bologna Musei | Museo Morandi
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una natura morta cubofuturista e si conclude con un esemplare dell’ultima e unica natura morta che Morandi realizzò nel 1961. Sette delle quattordici acqueforti esposte entrarono a far parte del patrimonio del Comune di Bologna nel 1961, quando Morandi le donò, conservando l’anonimato, in occasione del riordino delle raccolte della Galleria d’Arte Moderna allora ubicata presso Villa delle Rose. Tra le opere spiccano alcune in comodato gratuito al museo in tempi recenti, come ad esempio I Pioppi e la Grande natura morta con la lampada a petrolio del 1930 (V.inc.76 e 75) e la già citata natura morta del 1961, appartenuta a Luciano Pavarotti. A queste si aggiunge la stampa della sola lastra, ad oggi nota, che Morandi incise con la tecnica della ceramolle. A fare da pendant al percorso espositivo alcuni documenti sulle riflessioni dell'artista come insegnante per cercare di comprendere ancora una volta i segreti del maestro.
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RE-COLLECTING Morandi racconta. Il segno inciso: tratteggi e chiaroscuri A cura di Lorenza Selleri 27 maggio - 29 agosto 2021 Museo Morandi | via Don Minzoni 14, Bologna
I LUOGHI DELLA POESIA RESTARE NEI LUOGHI E NELLA MEMORIA
Tramonto su Gallipoli foto di Michele Piccinno
Giusy Gatti Perlangeli
Nascondimi Agli occhi del Tempo
Non farmi trovare
Ferma il Momento Rendilo Eterno
Chiamami
Tirami fuori dall’Oblìo Crudele più della Morte
L’ora è troppo breve E trascolora Troppo in fretta
Nascondimi Agli occhi del Tempo
Al clic meccanico Dell’orologio
I luoghi della poesia
Alla nebbia che offusca Il contorno dei Volti E ricopre le Voci care
Nascondimi Non farmi trovare
Di’ che non ci sono
Conservami In un angolo dell’anima
Non mi perdere
Fa’ che non diventi Il Nulla che l’Universo Ci condanna ad essere
Fa’ che non vinca.
Ricordami.
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II. Se un giorno mi leggerai se mi sottrarrai all'oblio del Tempo per farmi vivere attraverso di te per il Tempo che ci vuole a leggere qualche verso
Se un giorno mi leggerai per qualche minuto soltanto saprai che c'erano gelsomini e rose, passioni e desideri languori e malinconie nascosti nelle parole
III Molte persone ho incontrato nel mio cammino
Se un giorno mi leggerai anche solo per pochi istanti sentirai in quelle parole odore di miele e di cannella di origano e basilico di pioggia e di salsedine
Alcune sono passate senza lasciare nemmeno la traccia traslucida di una lumaca
Se un giorno mi leggerai anche solo con un'occhiata vedrai l'ultima stella che si nasconde dietro un quarto di luna e l'alba e il fresco del mattino
Con altre ho percorso un tratto di strada: se mi guardo dentro e indietro ne intravedo l’ombra Ma ce ne sono altre ancora che non sono passate mai perché in ogni espressione in ogni sorriso in ogni piega in ogni ruga in una risposta spontanea nel gesto di una mano nel sussulto del cuore nella tristezza del vuoto nella pienezza dell’assenza io le vedo in me
Se un giorno mi leggerai in uno spazio piccolo del tuo tempo scoprirai che ho vissuto tutta la vita consegnando a quelle parole segnali e segni e solchi
Se un giorno mi leggerai se mi sottrarrai alle sabbie del Tempo per il Tempo che ci vuole a leggere qualche verso saprai che ho vissuto tentando tentando sempre di Non Morire
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Non so cosa sia la solitudine
LuOGhI DEL SAPERE
#LADEVOTALETTRICE | LE RECENSIONI DI LUCIA ACCOTO L’ODISSEA DEI SOGNI DI ENZA AMATO
ENzA AMATO L’Odissea dei sogni Guida Editori 2021 ISBN 9788892373655 € 15
#recensione #luciaaccoto #recensore #giornalista #libri #ladevotalettrice
Chi desidera qualcosa avvampa la mente e pure il sonno. Non ha pazienza. Si affida al sogno e al pianto. E nei sogni non c’è mistero, non ci sono neanche screpolature, ferite. Esiste la fantasia e pure la bellezza a mezz’aria. I sogni se non li acchiappi restano lì, campati in aria. Sono vento e tempesta, afa e scirocco in bocca. I sogni scombinano la tristezza con la gioia. Ad averceli, ti cambiano le ore, le nottate. Sognare ad occhi aperti, poi, non è cosa. I sogni hanno bisogno di tempo, di attenzione. Occorre avere pensiero per i sogni. Essi pesano il fiato, il desiderio, la determinazione. Ne fanno misura. I sogni vanno bene per tutto, però non bisogna avere ossessione perché sanno asciugare l’anima di uomo e ridurlo ad uno strazio. Devoti sì, testardi pure, ma ossessivi no. Non vale la pena avere la foga dei dannati per cercare di realizzarli, in fondo la mente non può essere un magazzino di ansie e preoccupazioni. I sogni sanno essere sentenza. In L’Odissea dei sogni di Enza Amato sei parte della mente della protagonista, Marnie. Sei viaggio, finzione, realtà. Sogno. Sei anche la forza a cui ti aggrappi per non mollare, per non cadere. E se finisci schiacciato dalle tue stesse paure, hai una strada per essere tosto, caparbio, quella di sognare. Non serve nessuna arte per farlo, ci vuole testa. La mente è così misteriosa, complicata e unica che riesce a trovare una via di fuga, di riparo, di rinascita. E i sogni aiutano. Certo, non bisogna avere lo scuro in testa perché ancora più difficile sarà avvicinarsi ai sogni e anche alla vita. Evocativa la prosa, non mancano i colpi di scena. Il lettore è lì nelle pagine, nelle parole, con il fiato sospeso. Si rilassa anche dopo un trambusto emotivo che lo spinge a sapere come andrà a finire. Originali alcuni passaggi e limpido lo stile narrativo.
Per l’invio di libri da recensire scrivere a redazione@arteeluoghi.it
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“IL CLUB DELLA SOLITUDINE” DI DEBORAH BINCOLETTO
DEBORAh BINCOLETTO Il club della solitudine Scatole Parlanti 2020 pp.240 €15 ISBN 9788832813371
La vita di ognuno è un pozzo, una bocca spalancata sugli anni. Puoi urlare, oscurare il pianto sino ad addormentarti sfinito, dentro puoi buttarci tutto quello che vuoi dimenticare. Spesso però tutto torna a galla. Basta un ricordo per far risalire il tormento e con esso arrivano anche le lacrime. Quando proteggiamo le parole con il silenzio, si piange. Uno scoramento quasi necessario per liberarsi del trambusto che fa crollare le difese emotive. In quei momenti lì sei solo, tu e il maremoto. Sei foglia e tempesta. Sei solitudine. Ti chiudi in te stesso per trovare rifugio, ma resti incastrato. Pensi e ripensi a molte cose, le stesse che diventano montagne. Senti il peso dei percorsi fatti, di quelli a cui hai dovuto rinunciare, alle ferite che si aprono con un nonnulla. Pensi anche che parlare con qualcuno sia una perdita di tempo, superfluo. È difficile mettersi nei panni di qualcuno e fargli vedere le cose nella giusta prospettiva quando vede tutto buio. Allora, subentra la tristezza. Serve la tristezza per conoscere le vie dei colori. Se sei finito in fondo al pozzo ti devi parlare, ti devi ritrovare. Passerai in rassegna la tua vita per lasciare lì, nel fondo, quello che non ti piace e che ti fa star male. Tu, alleggerito, risali. In Il Club della solitudine di Deborah Bincoletto sei silenzio e voce. Solitudine e condivisione di idee, di pensieri. Sei anche tutte le parole taciute dalla protagonista, Vera, che si è isolata per poi ritrovare se stessa tra gli altri. Con gli altri, un gruppo di amici conosciuti grazie ad una strana curiosità, ha scoperto le varie facce della solitudine che quando si aggrappa alle viscere ti fa perdere la luminosità negli occhi e le parole più belle. L’aggregazione ha rotto gli schemi che la solitudine aveva tracciato innalzando barriere. Pulita la prosa. L’autrice nella narrazione non si perde in giri superflui, dosa le parole per questo i concetti non sono mai ripetitivi. Empatica la storia e fluida la scrittura.
Tutti i nostri libri è possibile acquistarli direttamente dal nostro sito www.ilraggioverdesrl.it
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LuOGhI DEL SAPERE
#LADEVOTALETTRICE | LE RECENSIONI DI LUCIA ACCOTO “ORDINE NEL DISORDINE” DI ALICE GRANSASSI FERRET-
ALICE GRANSASSI FERRETTI Ordine nel disordine Gruppo Albatros Il Filo 2021 pp.160 € 14,15 ISBN 978-8830628915
Le paure ci vengono a prendere di peso. Diventano padrone dei nostri respiri, si impossessano anche della voce. Sudiamo freddo dinanzi alla paura che crea scompiglio emotivo. Un po’ come i dubbi, quando non sappiamo cosa fare o decidere finiamo in mare aperto sballottati dalle incertezze che ci risucchiano le forze riducendo in poltiglia i pensieri. Diventiamo così automi o dannati, a seconda dei casi. In quei momenti lì, sei solo nel buio. Tutto si annebbia, si offusca. Fagociti preghiere e speranza affinché tutto finisca presto. Ti auguri che tu possa uscire subito dal blackout che ti ha paralizzato lingua e movimenti. Succede anche di fronte ai dubbi, che spesso poi palesano delle verità, diventi burrasca. Una iena con il sangue agli occhi per la rabbia. Ognuno ha il suo modo di affrontare le diverse emozioni che creano ordine e disordine. Due facce della stessa medaglia che escono allo scoperto in modo inaspettato che ti buttano a terra e che ti irrobustiscono il carattere. Niente è facile nella vita, soprattutto nel gestore i sentimenti. Allora, se non ce la fai da solo, fatti aiutare. Chiedere aiuto, cercare un abbraccio, non significa essere deboli, anzi. Avere personalità e imbastirla di vita, di cuore, fa di noi delle belle persone. La cattiveria non hai mai fatto bene a nessuno neanche a chi la usa per campare. In Ordine nel disordine di Alice Gransassi Ferretti entri nella vita di due donne, Anna e Alessia. Sei tormento e pace, gelosia ed affetto, distanza ed abbracci. Anna ha una madre acquisita, Alessia. La sua è venuta a mancare quando lei era neonata. Entrambe hanno conosciuto il bullismo, la cattiveria gratuita che inizialmente ti lascia senza parole. Incassi, all’inizio. Poi, forte della tua superiorità, ignori. Si sa, la cattiveria urla come l’ignoranza, ma l’intelligenza tace. Anna e Alessia si ritrovano sotto lo stesso tetto a guardarsi, osservarsi, studiarsi, per entrare appieno l’una nella vita dell’altra. Le paure, i dubbi, si smontano sapendo ascoltare per ricevere un aiuto, una dritta, un sostegno. Esserci significa non bastarsi. Limpida la narrazione. La storia non conosce il mistero del non detto. Tutto è scritto e il lettore riesce a sentire il battito delle emozioni tanto è chiara la scrittura e forte il messaggio.
DALSALENTOCAFÉ | LE RECENSIONI DI STEFANO CAMBÒ PICCOLE STORIE FINITE MALE DI WALTER SPENNATO
wALTER SPENNATO Piccole storie finite male Besa Editore 2020 pp.106 €14,00 ISBN 99788849712186
E se un libro lo si leggesse come se fosse un disco? O meglio… Se i racconti brevi che vi sono custoditi all'interno fossero come delle tracks su una playlist o addirittura delle vere e proprie impronte musicali su un vinile? Forse, vi potrebbe sembrare strano… Per non dire suonare e rimanere in tema. Eppure lo scrittore Walter Spennato con Piccole Storie Finite Male (pubblicato da Besa Editore) è riuscito nell'ardua impresa di unire in un lavoro sperimentale questi due mondi all'apparenza contrastanti attraverso una scrittura ironica e per certi versi pungente che buca la pagina e fa riflettere il lettore sulla realtà di oggi, ormai pervasa da una comunicazione "social" che ci disumanizza e ci rende a tratti indifferenti. Il progetto dell'autore è anche un invito alla lettura per chi è notoriamente pigro, tanto è vero che in ogni racconto (o perché no composizione) vi sono segnati i tempi come accade nell'ascolto di una canzone. Se poi il tutto ruota attorno ad un tema centrale come l'omicidio, inteso non solo in senso letterale, allora il lavoro di Walter Spennato si arricchisce di una nuova veste e la sua penna immaginaria si trasforma e diventa una specie di pistola che spara proiettili sottoforma di racconti. Racconti che colpiscono il bersaglio… E fanno riflettere!
On line il nuovo sito dello studio di consulenza| immobiliaregirasoli.it
DALSALENTOCAFÉ | LE RECENSIONI DI STEFANO CAMBÒ IL VOLO DEI GIORNI RUBATI
ALESSANDRA POLITI Il volo dei giorni rubati Edizioni Esperidi 2020 pp.240 € 15 ISBN 978-88-5534-052-
Dopo Il coraggio nasce col sole, ritorna Alessandra Politi con un nuovo romanzo intitolato Il volo dei giorni rubati (pubblicato da Edizioni Esperidi). Ancora una volta la scrittrice salentina ci parla di emozioni e sentimenti e lo fa attraverso gli occhi di Brian, un giovane sacerdote che decide di dedicarsi agli ultimi e di partire per una missione cattolica in un villaggio della Tanzania. In questa terra lontana, il lettore farà anche la conoscenza di Giulia, un medico italiano che assieme ad un gruppo di colleghi porta il suo carico di professionalità e umanità alle genti del posto. L'incontro tra i due personaggi diventa l'occasione giusta per entrare in punta di piedi nelle loro storie personali, pervase di fragilità e di momenti d'ombra legati soprattutto ad un passato che sembra essere un continuo presente nel cuore di entrambi. Ed è proprio questa analisi introspettiva di ciò che ci vorremmo lasciare definitivamente alle nostre spalle, il punto di forza del libro, con l'autrice che riesce sapientemente a dare spazio e sostanza ai suoi personaggi, attraverso una narrazione fluida e ad una capacità descrittiva che fa toccare quasi con mano i luoghi e l'azione. Perché, come sottolinea Alessandra Politi in quarta di copertina… Esiste una parte di mondo dove nulla è impossibile e dove ognuno di noi può andare ad abitare per ritrovare sé stesso.
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LA VITTORIA ALATA PER IL NUOVO CAPITOLIUM DI BRESCIA Brixia Parco Archeologico di Brescia Romana bresciamusei.com vittorialatabrescia.it CuP Centro unico Prenotazioni lunedì - venerdì: 10.00 – 16.00 sabato, domenica e festivi: 10.00 – 18.00. Infotel.030.2977833 - 834 BERNARDINO RAMAZZINI (16331714). PRIMO MEDICO DEL LAVORO Carpi (MO), Musei di Palazzo dei Pio piazza dei Martiri, 68 18 settembre 2020 – 31 dicembre 2021 Orari: venerdì, sabato, domenica e festivi, dalle 10.00 alle 13 e dalle 15.00 alle 19.00. Chiuso il lunedì; da martedì a giovedì su prenotazione Ingresso contingentato con prenotazione obbligatoria: https://prenotailmuseo.palazzodeipio.it/prenotailmuseo. Infotel. 059/649955 – 360 CARRÀ E MARTINI. MITO, VISIONE E INVENZIONE. L’OPERA GRAFICA Verbania, Museo del Paesaggio Palazzo Viani Dugnani, via Ruga 44 Dal 13 giugno al 3 ottobre 2021 Ingresso: 5 €, ridotto 3€ 0323.557116 - 0323.502254 segreteria@museodelpaesaggio.it 1921/2021. OMAGGIO A JOSEPH BEUYS RITRATTI, SEQUENZE FOTOGRAFICHE E SCATTI DI AMBIENTAZIONE Brescia, Spazio Contemporanea Corsetto Sant’Agata, 22 16 giugno – 31 luglio 2021 spaziocontemporanea.eu info@spaziocontemporanea.eu
LA MADONNA SISTINA DI RAFFAELLO RIVIVE A PIACENZA Storia dell’opera e del monastero di San Sisto Piacenza, Chiesa di San Sisto (via San Sisto, 9) 29 maggio – 31 ottobre 2021 Intero: €10,00; ridotto: €8,00; scuole: €5,00 Infotel. 349 8078276 | 349 5169093 | sistinapiacenza2020@gmail.com IMPRESSIONISTI. ALLE ORIGINI DELLA MODERNITÀ Gallarate (VA), Museo MA*GA via E. De Magri 1 29 maggio 2021 – 9 gennaio 2022Martedì, mercoledì, giovedì e venerdì: ore 10.00 – 18.00 Sabato e domenica: 11.00 – 19.00 ultimo ingresso 1 ora prima della chiusura. Intero: € 10,00. Ridotto: € 8,00. IInfotel 0331 706011; info@museomaga.it; www.museomaga.it RICHARD MOSSE DISPLACED Mostra fotografica 7 maggio/19 settembre 2021 Fondazione MAST Bolognaia via Speranza 42 Ingresso gratuito su prenotazione Martedì-domenica, orario: 10—20 Infotel: 051 647 4345 http://www.mast.org/ PIANETA CITTA’. Arti e società attraverso la Collezione Rota 1900-2021 9 luglio/24 ottobre 2021 FONDAzIONE RAGGhIANTI Lucca Complesso monumentale di San Micheletto, Via San Micheletto, 3 Infotel. 0583 467205 NAPOLI DI LAVA, PORCELLANA E MUSICA Museo e Real Bosco di CapodimonteNapoli Museo e Real bosco di Capodimonte,fino al 19/09/21
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RICHARD DE TSCHARNER. IL CANTO DELLA TERRA: UN POEMA FOTOGRAFICO Todi (PG), Palazzo del Popolo | Sala delle Pietre (piazza del Popolo) Museo Pinacoteca di Todi piazza del Popolo Torcularium | Complesso delle Lucrezie (via Paolo Rolli) 12 giugno – 22 agosto 2021 Orari: mercoledì – domenica 10.00 – 13.00; 15.00 – 18.00 Biglietti: Sala delle Pietre e Torcularium, gratuito. Museo Pinacoteca di Todi: € 5,00 (comprensivo di visita alla mostra). Infotel. 347 570 7148 MARIO PUCCINI “Van Gogh involontario”. Una collezione riscoperta e altri capolavori 2 luglio/19 settembre 2021 – MuSEO DELLA CITTA’ Livorno Polo Culturale Bottini dell’Olio – piazza del Luogo Pio Tel. 0586/ 824551 – 824552 museodellacittà@comune.livorno.it LISETTA CARMI | Gli altri Lecce, Castello Carlo V Viale XXV Luglio - Lecce Per info e prenotazioni: 0832 246517 – email: castellocarlov@gmail.com RICAMATA PITTuRA. MARIANNA ELMO E L'ARTE DEI FILI INCOLLATI NELL'ITALIA MERIDIONALE DEL SETTECENTO Must, Museo storico della città di Lecce Lecce, via Degli Ammirati, 11 dal 21 maggio al 21 settembre 2021 Infotel. 0832 241067 Email: biglietteria@mustlecce.it Orario: dal martedì alla domenica dalle ore 10 alle ore 21 Ticket di ingresso: € 5,50 intero € 3,50 ridotto per studenti, insegnanti, guide turistiche e over 65 Ingresso gratuito per i bambini fino ai 10 anni
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Maestro della Bibbia di Gerona, (Bologna ultimo quarto del XIII secolo) Graduale Ms. 526, Provenienza San Francesco
DANTE E LA MINIATURA. A BOLOGNA NEL MUSEO CIVICO MEDIEVALE Sara Di Caprio
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Continuano le celebrazioni in nome del Sommo Poeta, da non perdere la mostra “Dante e la miniatura a Bologna al tempo di Oderisi da Gubbio e Franco Bolognese”. Fino al 3 ottobre
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BOLOGNA. Continuano le celebrazioni per il settimo centenario della morte del Sommo Poeta questa volta è Bologna a inaugurare uno nuovo progetto espositivo intitolato Dante e la miniatura a Bologna al tempo di Oderisi da Gubbio e Franco Bolognese. L’evento si terrà dal 28 maggio al 3 ottobre 2021 nelle sale del Museo Civico Medievale e osserverà le disposizioni governative in merito all'emergenza sanitaria in corso. Il curatore della mostra è Massimo Medica, responsabile dei Musei Civici d'Arte Antica di Bologna, e anche dell' esposizione Le Arti al tempo dell'esilio nella Chiesa di San Romualdo a Ravenna in corso fino all'8 settembre 2021. L’iniziativa fa parte del secondo appuntamento del ciclo espositivo Dante. Gli occhi e la mente promosso dal Comune di Ravenna - Assessorato alla Cultura e dal MAR Museo d'Arte della città di Ravenna in collaborazione con le Gallerie degli Uffizi – e
ha come fulcro quattordici codici miniati prodotti a Bologna tra la seconda metà del XIII e inizi del XIV secolo, selezionati dal patrimonio collezionistico del Museo Civico Medievale di Bologna. Dante e Bologna è un binomio intenso, il Sommo Poeta si trovò nella città in diverse occasioni: una prima volta come studente fuori corso all’università dal 1286-87 e la seconda esperienza durò due anni, dal 1304 al 1306, subito dopo aver lasciato Verona e Arezzo, peregrinazioni che iniziarono dopo l’esilio del 1302. Bologna città fervida di studi e di produzione e vendita dei libri, potrebbe essere stata anche fonte di notizie sul miniatore Oderisi da Gubbio di cui Dante racconta l'incontro, tra i superbi, nell'XI canto del Purgatorio: «Oh!», diss'io lui, «non se’ tu Oderisi,/ l'onor d’Agobbio e l'onor di quell'arte/ ch'alluminar chiamata è in Parisi?»/ «Frate», diss'elli,
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Miniatore bolognese, (seconda metà del XIII secolo) Matricola e Statuti della Società dei Drappieri, 1284-1286 Ms. 627
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Miniatore bolognese, (Bologna, seconda metà del XIII secolo) , Antifonario del tempo , Ms. 515, provenienza Convento di Sant’Agnese; Miniatore bolognese (Bologna, seconda metà del XIII secolo) Antifonario del tempo, 1260-70 Ms. 516, provenienza convento di Sant’Agnese
«più ridon le carte/ che pennelleggia Franco Bolognese;/ l'onore è tutto or suo, e mio in parte. Queste terzine dimostrano quanto Dante sia stato attento e sensibile al campo delle arti figurative, dimostrando di essere a conoscenza e aggiornato conoscitore del suo tempo. E non solo delle discipline pittoriche e di artisti quali Cimabue e Giotto ma fu anche interessato al campo della miniatura conosceva quindi anche l'altro miniatore Franco Bolognese oltre al celebre Oderisi da Gubbio che era a Bologna tra gli anni sessanta e settanta del Duecento. Il miniatore operava forse nell'ambito della miniatura locale del cosiddetto “primo stile” una scuola tradizionale ancora legata allo stile bizantino, caratterizzato da una stesura rapida e corsiva, e una gamma limitata di colori. Solo dopo seguì un’altra fase di meditazione e aggiornamento quasi gotizzante definita dagli studiosi secondo stile e guidata dal Maestro della Bibbia di Gerona. Uno stile che risultò vitale anche dal punto di vista cromatico che forse risentì della presenza a Bologna della Maestà che Cimabue
eseguì per la chiesa dei Servi. E probabilmente questo passaggio non dovette sfuggire agli occhi attenti di Dante quando nel canto parla dell'altro miniatore, il fantomatico Franco Bolognese: «l'onor è or tutto suo, e mio in parte» alludendo a questo nuovo modo di interpretare i codici miniati. Il percorso espositivo si arricchisce anche con un calendario di quattro visite animate pomeridiane a cura di “Senza Titolo”, dove verranno letti canti tratti dalla Divina Commedia (venerdì 18 giugno h 17.00; venerdì 9 luglio h 17.00; venerdì 17 settembre h 17.00; venerdì 1 ottobre h 17.00) la prenotazione è obbligatoria come d’altronde la visita alla mostra che per gli appassionati di Dante e non solo è un'occasione da non perdere.
Prenotazione obbligatoria entro le h 13.00 del giorno stesso, telefonando ai numeri 051 2193916 / 2193930. Costo di partecipazione compreso nel biglietto di ingresso al museo. Info, prenotazioni e modalità di pagamento: www.museibologna.it/arteantica
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Volto della statua di marmo di S. Lucia che trasudò nel 1735
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SIRACUSA, SANTA LUCIA E IL "PRODIGIOSO SUDORE" Dario Bottaro
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Due eventi miracolosi nel 1735 che testimoniano l’amore della Santa per la sua città
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orreva l'anno 1735 quando ra una volta, dalla guerra. Già dall'iniSiracusa era stretta nella mor- zio del 1735 Siracusa si preparava sa della guerra, quella di suc- agli ultimi atti del conflitto, la gente cessione polacca che vedeva Austria- veniva fatta uscire dalla città e portata ci contro Spagnoli, perché l'ultima nelle campagne o nelle zone di mare, piazzaforte da espugnare. La città come ad esempio la località Maddaera afflitta oltre che dalla guerra, lena, che guarda il centro abitato dalanche dalle sue dirette conseguenze l'altra sponda del porto grande. Lì si e gli animi dei cittadini quasi non tro- riunivano le donne e i bambini, menvavano pace, ricordando ancora il tre gli uomini venivano impegnati a periodo difficile vissuto dopo il terribi- issare barricate per mettere al sicuro le sisma del 1693, che aveva ucciso quelle parti più esposte della città e a migliaia di persone e distrutto il Val di creare luoghi di ricovero per i Noto. Dopo appena pochi decenni il momenti più difficili della battaglia. popolo tornava nella paura e nell'o- Fra i luoghi da proteggere c'erano blio della sofferenza scatenata, anco- quelle "pietre sacre" che ricordavano
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Volume manoscritto contenente le lettere del Senato dal 1732 al 1738, Archivio di Stato di Siracusa. In questa lettera vengono elencati i provvedimenti da prendere in vista della guerra fra Spagnoli e Austriaci.
di Lucia, la fanciulla morta per mano del tiranno nel 304 a seguito delle persecuzioni di Diocleziano contro i cristiani. Quella giovane donna, che aveva predetto "la pace e il trionfo della Chiesa di Cristo" prima di consegnarsi alla spada del carnefice, era divenuta per la Siracusa - la città che le aveva dato le origini - un punto di riferimento nella fede, un segno di Dio, una luce nuova che scaldava gli animi e illuminava le menti e per questo motivo, i luoghi del suo martirio e della sua sepoltura andavano preservati in ogni maniera possibile. Nel Settecento sia la Basilica - oggi santuario diocesano che la chiesa del Sepolcro, sorgevano su un'area in aperta campagna circondata da agrumeti e quindi totalmente esposta al pericolo in caso di battaglia. Per questo motivo il generale Orsini della guarnigione spagnola, si recò presso il convento dei frati di San Francesco che dal 1618 erano tornati alla custodia
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Statua di S. Lucia morente in marmo, 1634, Gregorio Tedeschi
dei luoghi della fede dei sira- create delle barricate anche cusani. Obiettivo del sopral- all'interno del tempietto. E fu luogo quello di mettere in proprio durante il sopralluosicurezza e proteggere il go interno, esattamente sulSepolcro della santa Siracu- l'altare di marmo che in sana, meta da secoli di quell'epoca inglobava la devoti pellegrinaggi e centro bocca del loculo che aveva di profusione di innumerevo- contenuto le spoglie mortali li grazie concesse da Dio della martire, che i soldati per intercessione della gio- insieme ai frati si accorsero vane santa. Di fatto la collo- di un'anomalia che interescazione del tempietto otta- sava solo ed esclusivamengonale del Sepolcro, poteva te la statua della santa. essere un bersaglio facile Essa era alloggiata in una nei momenti più cruenti del- nicchia al di sopra del sepolla lotta fra Austriaci e Spa- cro, coperta da cristalli e cirgnoli - che iniziarono difatti il condata di marmi che testi17 maggio protraendosi fino moniavano l'importanza di al 30 di quello stesso mese - quello spazio, bagnato dal e per tale motivo furono sangue di Santa Lucia. Una
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volta posizionate le scale e raggiunta l'altezza della statua - scolpita dal fiorentino Gregorio Tedeschi nel 1634 e raffigurante la santa distesa sul fianco destro - gli uomini si accorsero della presenza di una luminosità intensa e inizialmente pensarono che essa fosse effetto della rifrazione della luce che entrava dai grandi finestroni del secondo ordine del tempietto. Una volta rimosso il cristallo che copriva la scultura, si resero conto però che oltre a questa strana luminosità, la statua presentava alcune parti bagnate e conclusero imme-
Bomba inesplosa nel 1735, si conserva presso il Centro Espositivo Luciano nella Cattedrale di Siracusa.
diatamente che questa fosse dovuta all'umidità del luogo. Era il 6 maggio del 1735 e i controlli si fermarono lì senza andare oltre. Nei giorni successivi, 7 e 8 maggio, lo strano fenomeno si ripetè con maggiore intensità. Com'era possibile che i marmi dell'altare non riflettessero la luce e restassero totalmente asciutti, così come le vesti della santa, mentre apparivano bagnate le mani, il volto e i piedi della statua? Forse Santa Lucia stava dando un segno della sua preoccupazione per le sorti della sua città? Era un segno della sua tribolazione, accanto ai suoi concittadini o semplicemente coincidenza? Per analizzare il fatto fu istituita una commissione di giurati da parte della Curia Vescovile e furono redatte numerose testimonianze di nobili, gendarmi e dagli stessi frati. In questi preziosi verbali giurati si legge chiaramente come in quei giorni dalla statua provenisse un misterioso "umore" che bagnava il volto le mani e i piedi della statua, mentre tutte le altre parti rimanevano asciutte. Il volto, nello specifico, presentava gocce di sudore "grandi come ceci" - così come di legge
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Particolare della Supplica presentata dal Senato di Siracusa al Marchese di Grazia Reale, nel 1735, in occasione della guerra fra Spagnoli e Austriaci.
sulla testimonianza dei frati - che vennero asciugate non soltanto con le maniche delle tonache dei religiosi francescani, ma anche con numerosi "pannolini". Come detto precedentemente i bombardamenti ebbero inizio il 17 di maggio e finirono il 30 successivo, quando una bomba cadde in casa del generale Orsini, senza esplodere, e per aver avuto salva la vita, il generale diede ordine di porre fine alla resistenza e di consegnare la città. L'Orsini attribuì la sua protezione ad un segno della santa e così decise di offrire la bomba presso l'altare che le è dedicato nella cappella della Cattedrale. Ancora oggi quella bomba è esposta nel museo luciano, segno tangibile della protezione della santa sulla città. La commissione nel frattempo continuò ad interrogare tutti coloro che avevano visto il segno di quel sudore nei primi giorni di maggio e il 20 gennaio del 1736, giorno dedicato ai festeggiamenti del Compatrono San Sebastiano, il
verdetto fu emesso chiaramente con queste parole che si leggono sul decreto vescovile "il prodigioso sudore del simulacro di marmo di s. Lucia nel Sepolcro della santa, dei giorni 6, 7 e 8 maggio 1735, fu vero, reale e miracoloso". Ancora oggi, dopo 286 anni, la città fa memoria dell'evento prodigioso. Nel Santuario di S. Lucia l'ultima domenica di aprile viene portata l'insigne reliquia dell'omero della santa e lì rimane fino al sabato successivo, quando rientra in Cattedrale per l'avvio dei festeggiamenti dedicati al Patrocinio della Santa che ricorda il miracolo della fine della carestia, avvenuto nel maggio del 1646. Un momento, potremmo dire, di festa unica che vede legate le due importanti chiese della città, la Cattedrale e il Santuario di S. Lucia, per due eventi distinti, ma che testimoniano unicamente il grande amore per la città da parte della sua più illustre Concittadina, Lucia, la santa della luce.
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Carlo Carrà il poeta folle, 1916-1949, lastra su zinco, cm 35,5x25 Arturo Martini, La siesta, 1946
CARRÀ E MARTINI MITO E VISIONE
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A Verbania, nelle sale del Museo del Paesaggio dal 13 giugno inaugura la mostra dedicata in particolare all’opera grafica dei due artisti
VERBANIA. Il Museo del Paesaggio di Verbania apre la stagione espositiva con la mostra Carrà e Martini. Mito, visione e invenzione. L’opera grafica aperta dal 13 giugno al 3 ottobre con opere provenienti dalla collezione del Museo e da una collezione privata milanese, a cura di Elena Pontiggia e di Federica Rabai, direttore artistico e conservatore del Museo. In mostra oltre 90 opere, per lo più di grafica, dei due grandi artisti del Novecento italiano che si sono distinti e affermati proprio grazie all’invenzione di un nuovo linguaggio in pittura e scultura. Completa il percorso dedicato al mito e alla visione una serie di sculture di Arturo Martini, presentate accanto ai bozzetti, ai disegni e alle incisioni. Di Carlo Carrà sono espo-
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ste circa cinquanta tra acqueforti e litografie a colori, che comprendono tutti i più importanti esiti dell’artista. Si va dagli incantevoli paesaggi dei primi anni venti, tracciati con un disegno essenziale e stupefatto (Case a Belgirate,1922), alla suggestiva Casa dell’amore (1922), fino alle visionarie immagini realizzate nel 1944 per un’edizione di Rimbaud, in cui Carrà, sullo sfondo della guerra mondiale, rappresenta angeli, demoni, creature mitologiche e figure realistiche, segni di morte ma anche di speranza (Angelo, 1944). Fin dagli inizi Carrà avvia grazie all’incisione un sistematico ripensamento della sua pittura, che lo porta a reinterpretare con acqueforti e litografie i suoi principali capolavori, dalla Simultaneità futurista alle Figlie di
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Loth, dal metafisico Ovale delle apparizioni al Poeta folle. L’incisione diventa così per l’artista un momento di verifica, ma anche uno struggente album dei ricordi. Le circa quaranta opere in mostra di Arturo Martini sono comprese tra il 1921 e il 1945
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coprendo tutta la carriera dell’artista, a iniziare dal lavoro a matita su carta Il circo del 1921 circa, importate disegno del momento di “Valori plastici” quando Martini è molto prossimo a Carrà e in genere a una personale rivisitazione della congiuntura metafisica. Impor-
tante poi il ciclo di incisioni eseguite a Blevio nell’estate del 1935 su soggetti già trattati anche in scultura – come L’Attesa e Ratto delle Sabine – o già presenti in altre incisioni precedenti – come L’uragano. In queste incisioni la trama delle linee è fittissima fino a oscurare la superficie, quasi a emulazione della maniera nera. Nel 1942 realizza 11 disegni preparatori - tutti in mostra del Viaggio d’Europa per l’illustrazione dell’omonimo racconto di Massimo Bontempelli. Del 1944-45 sono il gruppo di incisioni per l’illustrazione della traduzione italiana dell’Odissea a cura di Leone Traverso, poi non pubblicata. Eseguite a Venezia, rivelano un lato straordinario della versatile fantasia martiniana, anche qui orientata a sperimentare materiali “poveri” e linguaggi poveri, al limite tra immagine e pura suggestione timbrica. Pubblicate postume soltanto nel 1960 sono tra le prove più convincenti della grafica martiniana. Accanto a queste prove dell’artista sono esposte dieci sculture come La famiglia degli acrobati, Can can, Adamo ed Eva, Ulisse e il cane, Testa di ragazza, Busto di ragazza e tre tele: Sansone e Dalila, La siesta e Paesaggio verde per rafforzare il tema della differenza tra disegno e realizzazione finale delle opere, pezzi unici di grande valore storico e artistico. Una bella mostra per visitare il Museo del Paesaggio di Verbania sito nello storico Palazzo Viani Dugnani, sottoposto a una importante
Carlo Carrà, la casa dell’amore o Interno o La massaia, 1924, acquaforte su rame, cm 30,4x21,8 Arturo Marini, La famiglia degli acrobati, 1936-1937
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ristrutturazione che ha reso disponibili nuove sale espositive, nuovi servizi per il pubblico e un ascensore che collega le due ali del palazzo consentendo al pubblico di effettuare la visita delle collezioni attraverso un percorso circolare e molto più agevole. Ingressi contingentati nei giorni di apertura feriali e festivi. E’ possibile la prenotazione inviando un SMS o un messaggio Whatsapp al numero 348.6419373 o scrivendo a prenotazioni@museodelpaesaggio.it
Museo del Paesaggio a Verbania (fonte: https://www.museodelpaesaggio.it/
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PALAZZO VIANI DUGNANI
Sobrio palazzo di epoca barocca, caratterizzato da un monumentale portale in granito rosa e da facciate lineari e semplici, decorate da fasce marcapiano e cornici in intonaco liscio rilevato, tipiche dell’epoca. La storia documentabile del palazzo inizia nella seconda metà del Seicento, ed è legata alla nobile famiglia pallanzese dei Viani: nel 1676 Giovanni Antonio Viani vi abita con undici domestici. L’attuale denominazionerisale, però, a più secoli dopo; nel 1785, infatti, la benefattrice Teresa Viani, che ne era proprietaria, si unì inmatrimonio a Giulio Dugnani, discendente da un’antica famiglia milanese. Nel corso dell’Ottocento vi abitò, in affitto, il colonnello Paolo Solaroli, eccentrica figura di avventuriere che pare aver ispirato a Salgari la figuradi Yanez. Poi il Palazzo fu acquistato dall’imprenditore edile pallanzese Tommaso Croppi e più tardi passò a Giuseppe Castelli (a cui è intitolato l’ospedale di Verbania). Ereditato dalla Congregazione della Carità nel 1875, poi acquistato dal Comune di Pallanza nel 1879. Dal 1914 è sede del
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Museo del Paesaggio. Nel marzo 2017 ha riaperto il primo piano di Palazzo Viani Dugnani di Verbania (Via Ruga 44), storica sede del Museo del Paesaggio, chiuso per lavori di manutenzione e adeguamento impiantistico dal 2013. Nel Giugno 2016 è stato riaperto il piano terra con l’esposizione di successo di 150 opere dello scultore Paolo Troubetzkoy, nel centocinquantesimo anniversario della sua nascita. La collezione di gessi di Troubetzkoy, 340 in tutto, costituisce la punta di diamante del museo verbanese; la sua importanza è riconosciuta in tutto il Mondo in quanto unica possibilità di studiare e indagare con precisione lo stile e l’opera dell’artista, tanto che l’esposizione è diventata permanente per consentire al pubblico e agli studiosi di conoscere e approfondire la figura di questo affascinante artista dal respiro internazionale, di origine russa, nato proprio a Verbania. Il piano nobile ospita le opere di pittura, che spaziano dal ‘400 al secondo ‘900, e la collezione di Arturo Martini, probabilmente il più importante scultore italiano del ‘900.
Panorama Torino la Mole antonelliana, foto di Stefano Cambò
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LA MOLE ANTONELLIANA E IL MUSEO NAZIONALE DEL CINEMA
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Per i luoghi del cinema tappa nella magica città di Torino
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I luoghi del cinema
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uando il simbolo della città incontra il mondo della settima arte. È questo che accade quotidianamente a Torino ogni qualvolta si varcano i cancelli della Mole Antonelliana e ci si inoltra nel Museo Nazionale del Cinema.
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D’altronde stiamo parlando di uno dei poli culturali più importanti della nostra amata Italia, riconosciuto in tutto il mondo per le sue attività scientifiche e divulgative con un allestimento scenografico continuo che si sviluppa a spirale verso l’alto, attraverso una presentazione
La mole antonelliana e Museo del Cinema, foto di Stefano Cambò
che porta per mano il visitatore nella storia del cinema. Il tutto poi, è impreziosito da un gioco di luci e di proiezioni che si armonizza perfettamente con il contesto interno. Infatti, nel progettare gli spazi, il coreografo svizzero Francois Confino si è dovuto allineare alla struttura dell’edificio, sfruttando il famoso crescendo antonelliano, con una serie di livelli che mettessero d’accordo da un lato, il rigoroso impianto architettonico e dall’altro la presentazione spettacolare che è insita della stessa arte cinematografica. Ne è uscito fuori un Museo che fa della magia e della poesia il suo asso nella manica! A partire dalla prima area espositiva legata all’Archeologia del Cinema. In questo padiglione si possono visitare otto settori tematici legati ai dispositivi, agli ingranaggi e ai tanti spettacoli ottici che hanno segnato le tappe fondamentali per la nascita del cinema. Altro luogo mitico e spettacolare è l’Aula del Tempio, circondata da alcuni spazi espositivi riservati ai grandi generi della storia della settima arte, più un'area dedicata completamente a Cabiria il capolavoro del cinema muto girato in buona parte a Torino. Immancabile a tal proposito una foto con l’imponente e maestosa statua del dio Moloch usata durante le riprese del film nel lontano 1914. Dopo aver ammirato tutti i padiglioni legati ai generi, il visitatore accede alla Rampa elicoidale che, riprendendo la fisionomia di una vecchia pellicola cinematografica, si srotola per tutto il perimetro delle mura salendo fin su verso la cupola. Il percorso è di forte impatto perché, man mano che si cammina sulla passerella, si ha la percezione visiva degli
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I luoghi del cinema
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Museo del Cinema, foto di Stefano Cambò
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spazi e la capacità architettonica della Mole Antonelliana, con la parte finale che ti porta ad avere una vista mozzafiato su tutta l’Aula del Tempio. Inoltre, questo settore è dedicato completamente alle mostre temporanee che trattano un tema caro al mondo della settima arte. Altra area che ammalia e seduce il visitatore è quella legata alla Macchina del Cinema. Qui, infatti, vengono illustrate e raccontate le diverse fasi connesse alla creazione di un film. Dagli studi di produzione alla scelta della regia, con i copioni originali dei soggetti e delle sceneggiature. Un occhio particolare è dedicato poi agli attori e allo star system, ai costumi di prosa e alle apparecchiature scenografiche. Dulcis in fundo, si può ammirare la Galleria dei Manifesti, che ripercorre attraverso le locandine la storia del cinema, con un particolare occhio di riguardo per la creazione grafica e il gusto figurativo che è alla base stessa di questo importante settore. Oltre per la sua portata espositiva, Il Museo Nazionale del Cinema è anche un polo di iniziative culturali di importanza internazionale con il Torino Film Festival che la fa da padrone nelle serate autunnali. Inoltre, da diversi anni, è al centro di un progetto per il recupero e il restauro di vecchie pellicole che si pensavano irrimediabilmente perdute. D’altronde, la sua storia parte addirittura dal lontano 1941, quando Maria Adriana Prolo, raffinata collezionista e studiosa di cinema, cominciò a lavorare all’idea di creare un vero e proprio Museo legato alla settima arte.
Dopo alcuni anni di assestamento, il polo culturale trovò la sua collocazione definitiva in un’aula del Palazzo Chiablese, un edificio situato tra Piazzetta Reale (sul lato nord di Piazza Castello) e piazzetta San Giovanni (dove c’è il Duomo di Torino). Nel 1958 venne finalmente
inaugurato diventando negli anni, uno dei più importanti Musei riconosciuti dallo Stato. Nel 1983 purtroppo, a causa di alcuni incendi, il polo venne chiuso al pubblico e solo nel 1995, in occasione del centenario della nascita del cinema, fu deciso di trasferire tutti gli allestimenti nella
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Mole Antonelliana, così come era stato previsto fin dall’inizio. Grazie alle idee originali e al progetto del coreografo francese Francois Confino (che prevede tra gli altri, un ascensore panoramico che sale fin sulla cima della Mole con una vista mozzafiato su tutta la città), dal 2000 ad oggi il Museo Nazionale del Cinema di Torino è tra i più visitati in Italia, con oltre due milioni di biglietti venduti in media. Inoltre, è giusto ricordare, che le sale interne oltre ad ospitare cimeli e oggetti legati alla settima arte sono diventate negli ultimi anni, dei set nel vero senso della parola. Qui, infatti, nel 2004 è stato girato il film Dopo Mezzanotte di Davide Ferrario con Giorgio Pasotti e Francesca Inaudi. Senza volerlo la trama della pellicola ci porta proprio a fare la conoscenza di Martino, il custode del Museo Nazionale del Cinema di Torino, che nelle sue notti di sorveglianza trova l’amore tra i corridoi e le stanze della Mole Antonelliana. Sempre all’interno del polo e più precisamente sulla Rampa elicoidale, sono state poi girate nel 2011 le scene finali del film Femmine contro Maschi di Fausto Brizzi. Per chi avesse visto la pelli-
Museo del cinema, foto di Stefano Cambò
cola, si trattava dell’episodio riguardante i personaggi interpretati da Luciana Littizzetto ed Emilio Solfrizzi, che dopo screzi e allentamenti vari si riconciliano proprio mentre camminano sulla passerella a forma di pellicola. E con questa ultima informazione, lasciamo la bellezza architettonica della Mole Antonelliana e il Museo Nazionale del Cinema di Torino, un luogo fantastico che ammalia e seduce il visitatore, trasportandolo per ore intere nel magico mondo della settima arte.
MUSEO NAZIONALE DEL CINEMA
Unico in Italia e tra i più importanti al mondo, il Museo nazionale del Cinema è ospitato all’interno della Mole Antonelliana di Torino, simbolo della città. Inaugurato nel luglio 2000, il Museo conserva un ingente patrimonio di materiali rari e preziosi, circa 1.800.000 le opere conservate, in molti casi pezzi unici al mondo: le sue collezioni raccolgono 950.000 fotografie, 530.000 manifesti e materiali pubblicitari, 8.900 gadget e memorabilia cinematografiche, 8.950 apparecchi e 10.850 manufatti artistici, 37.000 film muti e sonori, 42.000 volumi, oltre 138.000 fascicoli e riviste, 250.000 ritagli stampa, 1.350 partiture musicali, 15.000 fascicoli d’archivio, 37.700 titoli nella videoteca e 4.800 registrazioni sonore cinematografiche. https://www.museocinema.it
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Storie l’uomo e il territorio
LA PITTURA DI PIETRO NEGRONI A CASTROVILLARI E A COSENZA Marco Tedesco *
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Un artista determinante nella storia dell’arte pittorica calabrese
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l nome di Pietro Negroni, è un nome molo ricorrente e importante nella storia dell’arte pittorica calabrese. Sulla città di nascita dell’artista le fonti sono discordi tra loro: nella vita dedicatagli da Bernardo De Dominici nelle sue Vite dei più eccellenti pittori, scultori ed architetti napoletani del 1737, raccoglie ipotesi di studiosi a lui contemporanei, i quali indicano Pietro Negroni talvolta originario di Cosenza, o ancora della città di Crotone o della provincia di Catanzaro, ma già in quegli anni si concordava sull’origine calabrese dell’artista. Bisognerà aspettare il 1844 e il contributo agli studi sull’artista di Carlo Maria L’Occaso nel suo contributo dal titolo Belle
arti: Pietro Negroni apparso in Il Calabrese del 1844, in cui per la prima volta compare un probabile luogo di origine dell’artista ossia Turzano, odierna Borgo Partenope. Tale indicazione, viene fornita dal L’Occaso sulla base di un manoscritto del XVII secolo. Più avanti negli anni, altri studiosi hanno invece ipotizzato una nascita di Pietro Negroni avvenuta a San Marco Argentano (Tommaso Aceti, 1737) o ancora a Cosenza (Davide Andreotti, 1926). Ora quale sia la città di nascita effettiva di Pietro Negroni non è ancora chiaro, ma dalle poche fonti biografiche della sua vita si sa che l’anno di nascita fu il 1505 e che fu allievo di un altro grande
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Pietro Negroni, Madonna con Bambino e i Ss Lucia e Antonio da Padova, 1505–1565, ùMuseo di Capodimonte (https://it.wikipedia.org/wiki/Catalogo_dei_dipinti_del_Museo_nazionale_di_Capodimonte)
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pittore calabrese: Marco Cardisco, nativo di Tiriolo e conosciuto come Marco Calabrese, denominato così da Giorgio Vasari nelle sue Vite dei più eccellenti pittori, scultori ed architetti, in cui il Vasari sostiene che di questo artista fu compagno un altro calabrese, del quale ignorava il nome (Giorgio Vasari, Le vite dei più eccellenti pittori, scultori ed architetti, Roma, Newton Compton, 2009) e al quale nel 1742, Bernardo De Dominici attribuì l’identità di Pietro Negroni. Scrive a tal riguardo il De Dominici “Pietro Negrone, da alcuni vien detto nativo della Città di Cosenza, ed alcuni lo fanno della città di Crotone, della provincia di Catanzaro, e tutti convengono, che fu Calabrese…… non mancando però chi lo creda discepolo di Marco Calabrese, e forse con maggior fondamento, perciochè la maniera di Pietro più tosto che a quella può somigliarsi, che ad alcuno altro di que’ Maestri che vivevano allora“.
Prenderemo qui in esame, il dipinto firmato da Pietro Negro-
ni e datato al 1552 Madonna col Bambino e i Ss. Barbara e Lorenzo del santuario di Santa Maria del Castello a Castrovillari in provincia di Cosenza, in cui vi è presente anche un’altra importante opera attribuita a Pietro Negroni, ossia un’Assunzione della Vergine eseguita dal maestro cinque anni prima della sua morte ossia nel 1560. In Calabria, terra in cui secondo Vittorio Savona la vicenda artistica di Pietro Negroni si sviluppò dagli inizi degli anni ’50 del XVI sec, assumendo i caratteri di una presenza continuativa e definita, in seguito alla formazione del pittore basata sui grandi maestri dell’epoca quali il suo corregionale Marco Cardisco e il settentrionale Polidoro Caldara nativo anche egli come il suo illustre concittadino Michelangelo Merisi del borgo di Caravaggio.
Sulla committenza non esistono dati certi. Secondo quanto riportato da Giorgio Leone nel testo Pietro Negroni e la cultura figurativa del Cinquecento in Calabria, la
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committenza del dipinto, che oggi si trova nell’attuale collocazione dal XVIII secolo, sarebbe da contestualizzare con il rifacimento cinquecentesco dell’intero edificio. In quegli anni Castrovillari, sempre stando alle indicazioni date dal Leone, divenne feudo della famiglia Spinelli, per la quale Pietro Negroni aveva lavorato a Napoli, nella chiesa della Santa Croce di Lucca, eseguendo la Madonna col Bambino tra i Ss. Lucia e Antonio da Padova del 1544, oggi al museo nazionale di Capodimonte a Napoli.
E’ dunque probabile, che fu un membro della famiglia Spinelli a commissionare l’opera castrovillarese al Negroni. Lo schema compositivo del dipinto di Capodimonte, viene richiamato nell’ambito del dipinto qui preso in esame conservato a Castrovillari, in cui prevale uno schema compositivo che prevede al centro la Madonna con in braccio il Bambino, e i Santi Barbara e Lorenzo i quali, come
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la Santa Lucia e il Sant’Antonio da Padova del soggetto partenopeo, le si rivolgono in preghiera, recando i loro attributi iconografici: la torre per Santa Barbara e la graticola per San Lorenzo, verso il quale è reclinata la testa della Vergine e alla quale il Santo sembra rivolgersi cantando. Il Bambino, concede la palma del martirio a Santa Barbara la quale appare riccamente vestita con una lunga veste ed un manto rosso, secondo i principi dettati dal Concilio di Trento, i quali abolivano una precedente iconografia della santa raffigurata spesso a seno nudo. L’intera composizione ha uno schema di impatto pentagonale del quale l’apice è la testa della Vergine. E’ questo un aspetto che si ritrova in tutta l’iconografia della Madonna col Bambino di stampo manieristico, con i due santi ai lati che fungono da volumi, dando un impianto prospettico centrale che si trasforma nella centralità della figura umana, concetto interpretato in chiave cristiana come la cen-
tralità del Divino nella vita di tutti i giorni. Aspetto che in Pietro Negroni ritorna anche nella Madonna col Bambino tra i Ss. Andrea e Giacomo del 1555 oggi al museè des Beaux -Arts di Orleans, proveniente anch’essa come la Madonna col Bambino tra i Ss. Lucia e Antonio da Padova del museo napoletano di Capodimonte dalla chiesa napoletana della Santa Croce di Lucca.
Inoltre, l’opera castrovillarese qui presa in esame è ricca di riferimenti a Raffaello ed in particolar modo alla sua Madonna del pesce un tempo nella chiesa napoletana di San Domenico Maggiore, identificata con il medesimo soggetto conservato al Prado di Madrid, che secondo il Summonte sarebbe stata eseguita da Raffaello nel 1514, commissionatagli da Giovanni Battista del Duce per la Cappella di Santa Rosa da Lima, ove rimase fino al 1638, quando venne in possesso del vicerè spagnolo, il duca di Medina Ramiro Felipe Núñez de Guzmán.
Pietro Negroni, Madonna con Bambino e i Ss Andrea e Giacomo, 1555, Orleans, Museè des Beaux-Arts
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Raffaello Sanzio, Madonna del Pesce, 1514, Madrid, museo del Prado (Museo Nacional del Prado, Galería online)
Pietro Negroni, Sacra Famiglia con San Giovannino, 1557, Cosenza, Galleria Nazionale di Palazzo Arnone (fonte: http://www.articalabria.it/index.php?it/104/le-opere)
Fu proprio la Madonna del Pesce di Raffaello del 1514, a far avvicinare al linguaggio pittorico raffaellesco, favorendone la diffusione, molti artisti dell’Italia meridionale tra cui anche il Negroni il quale avrebbe potuto vederla a Napoli, quando era allievo di Marco Cardisco, la cui influenza la si nota nel sapiente utilizzo armonico del colore nella Madonna col Bambino tra i Ss. Barbara e Lorenzo di Castrovillari qui presa in esame. Uno dei riferimenti a Raffaello e alla sua Madonna del pesce oggi al Prado di Madrid è la presenza di questo drappo verde che in parte copre il trono su cui la Vergine è seduta e l’organizzazione dello schema architettonico che delinea la struttura di quest’ultimo. Un aspetto che notiamo oltre che nella citata Madonna col Bambino e i Ss. Andrea e Giacomo di Orleans e la citata Madonna col Bambino e i Ss. Lucia e Antonio da Padova del museo di Capodimonte a Napoli, anche in molte altre opere del Negroni tra cui lo Sposalizio mistico di Santa Caterina del 1554 oggi a Buenos Aires nel Museo Nacional de Bellas Artes, dove arrivò nel 1912.
L’altra opera che vogliamo prendere in esame in questo articolo, segue una datazione di cinque anni più tardi. Si tratta di una Sacra Famiglia con San Giovannino, opera firmata anch’essa come il dipinto di Castrovillari e datata al 1557 conservata a Cosenza nella Galleria Nazionale di Palazzo Arnone. Il tema affrontato da Pietro Negroni in questo dipinto è un tema che proprio dal ‘500 comincia ad avere un forte rilievo iconografico a partire da Michelangelo Buonarroti e Raffaello
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Sanzio. L’intera composizione si sviluppa intorno al gruppo della Sacra Famiglia e al San Giovannino che quasi sono raffigurati in posa, in primo piano davanti alle rovine di un tempio che fanno da supporto alle figure. San Giuseppe infatti, poggia il braccio su una mezza colonna, la Vergine siede con in braccio il Bambino su un alto stilobate che funge da trono e un gradino che funge da inginocchiatoio per San Giovannino. L’intera composizione richiama lo schema iconografico della Sacra Famiglia sotto la quercia di Raffaello Sanzio, opera del 1518 oggi al museo del Prado di Madrid, in cui anche in questo caso compaiono rovine che fanno da sfondo all’intera composizione, come la mezza colonna su cui San Giuseppe è poggiato.
Le rovine che compaiono nel dipinto qui preso in esame, disposte come sfondo al gruppo principale della composizione fanno pensare ad un trionfo della religione cristiana sul paganesimo, quasi un rimando al passo evangelico di Giovanni in cui Gesù dice “Distruggete questo tempio ed in tre giorni lo riedificherò” (Giovanni 2, 1921).
Con Pietro Negroni, siamo davanti ad un grande maestro del Cinquecento
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Raffaello Sanzio, Sacra Famiglia sotto la quercia, 1518, Madrid, museo del Prado (fonte: http://www.museodelprado.es)
calabrese al pari del seicentesco Mattia Preti. Un maestro, il Negroni, che possiamo indicare come un grande esponente del Manierismo italiano ed un grande interprete delle innovazioni apportate da Raffaello nella storia dell’arte pittorica che grazie all’attività di Pietro Negroni e dei suoi seguaci si diffonderanno nel territorio calabrese, contribuendo a raccontare affascinanti storie legate al mondo artistico italiano.
Dott. Marco Tedesco, storico dell’arte RAM Rinascita Artistica del Mezzogiorno
Porta Rudiae, Lecce, foto di Mario Cazzato
PORTA RUDIAE E SANT’ORONZO Mario Cazzato
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Passeggiando nel cuore antico e pagine di storia. Un recente temporale ha danneggiato la statua del santo patrono di Lecce
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n violento temporale, il 7 giugno, si è scatenato sulla città di Lecce e un fulmine ha danneggiato la statua di Sant’Oronzo che dal 1703 sovrasta porta Rudiae. E questo nonostante che il nostro patrono protegga la città dai fulmini funzione che prima del fatidico 1656 era demandata uni-
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camente a Sant’ Irene. Nel quadretto a fili di seta policromi incollati si vede tuttavia Irene e Oronzo che insieme proteggono Lecce dalle folgori. È un quadretto di Marianna Elmo, oggi in collezione privata, esposto per la prima volta a Bari nel 2003 in occasione di una mostra epocale su questa
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Salento Segreto
particolare tecnica artistica, documentata in un catalogo curato dall'amica Clara Gelao, la massima esperta in merito e che in questi giorni è possibile ammirare al Must di Lecce nell’ambito della mostra “Ricamata Pittura”. Per chi non lo sapesse, e come si legge nella lunga epigrafe, Porta Rudiae è di perti-
foto di Mario Cazzato
menza comunale e dunque spetta al Comune il ripristino. Magari con l’occasione si potrebbe anche rivedere la disposizione della segnaletica stradale in prossimità dell’accesso.
Sant’Irene di Marianna Elmo, opera esposta nella mostra Ricamata Pittura in corso al Must di Lecce; a lato la statua di Sant’Oronzo danneggiata dal fulmine. In basso pagina a lato i pezzi recuperati
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Il distaccamento di alcuni pezzi della statua in pietra lecese di Sant’Oronzo, in seguito al violento temporale del 7 giugno, sono stati prontamente recuperati subito e trasportati al Comando di Polizia Municipale e successivamente sono stati presi in consegna dall'Ufficio Centro Storico del Comune, dove attualmente si trovano. Da un primo esame, sono visibili parti in metallo che fanno presupporre un precedente consolidamento. Si attende ora la relazione dei Vigili del Fuoco che sono intervenuti sul posto nella serata di ieri. «Ufficio Centro Storico e Soprintendenza – dichiara l'assessore alla Cultura Fabiana Cicirillo – sono in contatto e stanno valutando insieme le modalità per predisporre un intervento di somma urgenza sulla statua, che, nel frattempo, sarà messa in
sicurezza dai tecnici comunali con il posizionamento di una rete metallica intorno ad essa. Questo per evitare che ci siano rischi per i passanti». Eretta sui resti di una porta più antica crollata verso la fine del XVII secolo, Porta Rudiae fu ricostruita nel 1703 e prende il nome dalla città di Rudiae verso la quale è rivolta. Sulla sommità è posta la statua del patrono di Lecce, Sant'Oronzo, affiancato sui lati dalle statue di San Domenico e Sant'Irene. Sulla porta, precisamente sopra le quattro colonne, sono presenti anche le figure di Malennio, Dauno, Euippa e Idomeneo, legate al racconto mitologico della fondazione della città, e un'iscrizione che riporta, fra le altre informazioni, il riferimento a Prospero Lubelli, patrizio leccese e genero del sindaco Cesare Belli, che ne finanziò la ricostruzione.
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