Arte e Luoghi | marzo aprile 2021

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i conservatori di lecce

Il progetto dell’artista Stefano Boccalini e gli artigiani di Valle Camonica

Dal Conservatorio di San Sebastiano a quello di Sant’Anna, viaggio nella storia

Anno XVI - n 3-4 marzo-aprile 2021 -

la ragione nelle mani

anno 163 numero 3-4 marzo aprile 202 1

piero cannizzaro

Una petizione per dolores feleppa

i lUoghi del cinema

Intitolare una strada di Napoli per ricordare la militanza politica della “pasionaria”

La bellezza dei luoghi di Castellabate llocation del film “Benvenuti al Sud”


primo piano

le novità della casa

IL RAGGIO VERDE EDIZIONI

ilraggioverdesrl.it


EDITORIALE

Procida Capitale della Cultura foto di Mariarosaria Costagliola © Un ringraziamento particolare ai fondatori di Procida - la community che condivide l'isola! pagina FB fondata e curata da Francesco Lubrano e Giuseppe D'Elia

Proprietà editoriale Il Raggio Verde S.r.l. Direttore responsabile Antonietta Fulvio progetto grafico Pierpaolo Gaballo impaginazione effegraphic

Redazione Antonietta Fulvio, Sara Di Caprio, Mario Cazzato, Nico Maggi, Giusy Petracca, Raffaele Polo

Hanno collaborato a questo numero: Lucia Accoto, Giovanni Bruno, Stefano Cambò, Mario Cazzato, Dario Ferreri, Sara Foti Sciavaliere, Raffaele Polo, Stefano Quarta, Mariangela Rosato Redazione: via del Luppolo, 6 - 73100 Lecce e-mail: info@arteeluoghi.it www.arteeluoghi.it

Iscritto al n 905 del Registro della Stampa del Tribunale di Lecce il 29-09-2005. La redazione non risponde del contenuto degli articoli e delle inserzioni e declina ogni responsabilità per le opinioni dei singoli articolisti e per le inserzioni trasmesse da terzi, essendo responsabili essi stessi del contenuto dei propri articoli e inserzioni. Si riserva inoltre di rifiutare insindacabilmente qualsiasi testo, qualsiasi foto e qualsiasi inserzioni. L’invio di qualsiasi tipo di materiale ne implica l’autorizzazione alla pubblicazione. Foto e scritti anche se pubblicati non si restituiscono. La collaborazione sotto qualsiasi forma è gratuita. I dati personali inviateci saranno utilizzati per esclusivo uso archivio e resteranno riservati come previsto dalla Legge 675/96. I diritti di proprietà artistica e letteraria sono riservati. Non è consentita la riproduzione, anche se parziale, di testi, documenti e fotografie senza autorizzazione.

Scusate il ritardo. Prendo in prestito il titolo del noto film di Massimo Troisi per introdurre questo doppio numero rivisto causa Covid. Mai avremmo immaginato di ritrovarci, ad un anno esatto di distanza, a dover fare ancora i conti con questa terribile pandemia che continua a mietere vittime e a privarci del bene più prezioso: la socialità. L’uomo è un animale sociale asseriva Aristotele duemilacinquecento anni fa e quanto sia vero il Covid con il suo carico di dolore e smarrimento ce lo dimostra ogni giorno. Un nemico invisibile ci tiene sotto scacco e ci costringe a mantenere le distanze e ad annullare tutte quelle manifestazioni che si basano sul contatto e sulla presenza. E pensiamo ai teatri e ai cinema chiusi, a tutti i protagonisti dello spettacolo dal vivo e ai professionisti che di quel lavoro vivono. Agli eventi in presenza cancellati con grande sofferenza del mondo economico e imprenditoriale. Ai nostri ragazzi costretti ad imparare da una didattica a distanza senza il piacere del confronto e del dialogo diretto. Ed è tutto maledettamente difficile. Persino nascere al tempo del Covid, diventa complicato, priva le madri della gioia di condividere con i padri il miracolo della nascita, del conforto dei loro cari ai quali non resta che avere gli occhi incollati sugli smartphone in attesa che da una chat appaia l’immagine di un volto. Quello di un neonato tanto atteso e desiderato che mostra nella sua infinita tenerezza quanto la vita sia imprevedibile e pur meravigliosa. Stiamo per entrare nella Settimana Santa, una Pasqua ancora una volta blindata, in zona rossa, con il cuore gonfio di dolore per quelli che non ci sono più, per quelli che stanno combattendo una dura battaglia e per le rinunce necessarie aspettando che si completi la campagna vaccinale perché il vaccino è l’unica arma che abbiamo per abbattere il virus e riprenderci i nostri spazi, le nostre vite. Ringrazio i collaboratori storici e quelli nuovi che condividono il nostro desiderio di comunicare e raccontare la bellezza dei luoghi e delle storie. Non vi anticipo nulla, vi invito a sfogliare e a leggere la rivista, scaricabile gratuitamente dal portale. Sarà il nostro modo per ritrovarci con la speranza di poterci riabbracciare quanto prima. Buona Pasqua. (an.fu.)

SOMMARIO luoghi|eventi| itinerari: girovagando |giornata internazionale del paesaggio 19 |i conservatori leccesi 34 | serra gomez. gli apostoli dormienti 94 arte: cannizzaro racconti d’africa 4|dante a roma tra immagini e parole 74 | zavattari a shangai 111| la ragione nelle mani 115 i luoghi della parola: | ma che caldo fa 48 | canone teatro 56 | | curiosar(t)e: gli occhi alieni di ana Bagayan 58 | schegge di virus 66| musica: destiny ride 52 | premio nazionale delle arti 53| il nuovo brano di alessia leo 102 interventi letterari|teatro |luoghi del mistero: giornata mondiale del teatro 14 |hellen mirrer 18 aramano 72 ricordando antonio gramsci 80| salento segreto 136 cinema dalla lanterna i vecchi film ambientati a genova119 | Benvenuti al sud castellabate al top 128 libri | luoghi del sapere 98-100 |cecilia faragò 32 nel segno di eva dolores feleppa madàro 82 #ladevotalettrice 104 | #dal salentocafè 107 i luoghi nella rete|interviste| libri come tramite 22| dante 700 54 | 700dantefirenze.it 55 | libri in bici 64 | i luoghi nella rete un italiano a parigi 68 | 86 Numero 3-4- anno XVI - marzo aprile 2021


cannizzaro. racconti d’africa. in 40 scatti smart Antonietta Fulvio

Quaranta foto scattate con lo smartphone allestite a Palazzo Merulana in attesa di riaprire dal 7 al 16 aprile 2021

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ra il 2018 quando il regista romano Piero Cannizzaro ritornava nell’Africa francofona per CinemArena, l’iniziativa di cinema itinerante avviata dal 2002 dal MAECI (Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale) e dall’AICS (Agenzia italiana per la Cooperazione allo Sviluppo). Una carovana

di camion percorreva le strade dell’Africa fra Senegal, Costa d’Avorio, Guinea, Gambia, Nigeria e Sudan, portando il cinema all’aperto in oltre 200 villaggi per promuovere una corretta informazione sui rischi della migrazione irregolare. L’edizione 2018/2019 a cura di AICS, finanziata con il Fondo Africa del MAECI e realiz-

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Piero Cannizzaro

zata insieme al Ministero dell’Interno e all’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) ha portato alla realizzazione di “Storie d’Africa” un documentario destinato a diventare anche la testimonianza di una sorta di “come eravamo” prima della dilagare della pandemia che oggi costringe a comportamenti di distanziamento, ad indossare mascherine che coprono i volti sui

quali invece Piero Cannizzaro ha insistito con il suo obiettivo per cercare come nella sua cifra stilistica, di catturare emozioni nelle pieghe di vestiti come nelle rughe di uomini e donne del continente nero. Filmando e fotografando l’anima e l’essenza di una terra affascinante quanto poco conosciuta, è riuscito a raccontare il difficile tema dell’emigrazione ma anche delle tante Afriche che

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esistono. E coesistono. Al di là degli stereotipi e dei preconcetti che si costruiscono al di qua e al di là delle sponde del Mediterraneo. Quaranta foto, scattate con lo smartphone durante le riprese del documentario costituiscono il corpus della mostra “Racconti d’Africa”, a cura di Glauco Dattini, che dal prossimo 7 al 16 aprile 2021 (l’apertura prevista per il 10 marzo è stata posticipata per il passaggio del Lazio in zona rossa, ndr) trovano posto nelle sale espositive di Palazzo Merulana, un luogo d’arte nato dalla sinergia tra Fondazione Elena e Claudio Cerasi e CoopCulture. Le foto rappresentano la parte positiva del documentario “Storie d’Africa” dove in primo piano è appunto il racconto delle storie di persone che avevano tentato senza esito di raggiungere l’Europa e altre che ne erano tornate. «Con le foto ho voluto dare un volto a chi generalmente vediamo come massa indistinta sui barconi, in apparenza senza identità e dignità» spiega Cannizzaro. Persone che avevano subito torture, sofferenze terribili, ripartite ogni volta da zero ma mai

arrendevoli e sempre piene di speranza. Dopo aver affrontato ogni tipo di violenza, avevano ancora la forza e la voglia di ricominciare, con una consapevolezza più forte, un nuovo rapporto con l’Africa e il proprio villaggio. Chi parte, come chi ritorna, è figlio della sorte e gioca con essa: se ce la fa vuol dire che è il suo momento, se non ce la fa era il tuo destino. Nei villaggi, salvo pochi casi, non c’è disperazione. Chi decide di partire, spesso, non è il più povero: servono soldi per partire». La migrazione, Un fenomeno che ci accomuna. Anche i nostri emigranti partivano per inseguire il sogno di una vita migliore sena fame e miseria. «Un racconto di sopravvivenze”, scrive Erri De Luca, che trasmettono coraggio invece che disperazione». Affascinato dalla bellezza di donne, di uomini e dai racconti di vita vissuta che ha avuto modo di ascoltare, Piero Cannizzaro ha colto e fermato la forza degli sguardi, la resilienza che esprimevano, ma anche l’eleganza della loro postura, i colori, la cura degli abiti. Emozioni ancora vive, guidate dalla luce e

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Storie l’uomo e il territorio


Costa d’Avorio, foto di Piero Cannizzaro

mediate dalla tecnologia, al servizio del soggetto da fotografare. «L'Africa - racconta Piero Cannizzaro - è un paese complesso, pieno di contraddizioni, con troppe povertà e troppe ricchezze. Ma bellissimo. Sconvolgenti i suoi spazi, i suoi silenzi, le sue solitudini, la confusione, i suoni, le luci, la musica, i visi della gente, i suoi tramonti. Un continente troppo grande e vario, in tutti i sensi, per essere descritto. Le foto che ho scattato rappresentano solo delle suggestioni di luoghi e persone che ho avuto l’opportunità di incontrare.» E di persone ne ha incontrate tantissime, come Alison Ndiay che è un importante musicista senegalese. Suonatore di Xalan nell'orchestra nazionale del suo paese, ha tenuto diversi concerti in Italia. «Incontrarlo a Dakar con i suoi musicisti, ascoltarlo suonare, conversare e poi accompagnarlo al bus dopo le prove al Centro Culturale, è stato un vero piacere.» L’Africa fotografata da Cannizzaro non

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Da dx, Costa D’Avorio, Dabo, Kolda, Senegal 2018, foto di Piero Cannizzaro

è polemica o dimostrativa ma sceglie, come afferma la scrittrice Dacia Maraini, la strada dello sguardo che si fa colore e movimento. Una frase che è diventata il sottotitolo e la chiave di lettura per queste fotografie scattate con grande difficoltà come racconta lo stesso regista. «Non è stato facile: da regista dovevo gestire la telecamera e il suono, non potevo portare con me anche una macchina fotografica vera e propria. Mi è venuta incontro la tecnologia dei nuovi cellulari ed ho usato il mio per cogliere l’attimo. Sono emozioni che ancora provo. Chiedo permesso, tiro la tenda di una capanna, trovo una donna bellissima che sta facendo il fuoco, c’è contrasto tra il fuoco e la donna, una luce che veniva da dietro… scatto”.» Come non condividere quanto scrive nel catalogo il criti-

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Senegal, foto di Piero Cannizzaro

co Diego Mormorio: «Nelle fotografie di Cannizzaro ognuno può leggere un po’ della propria storia e della storia del mondo. Può, o meglio dovrebbe, pensare, come diceva Thomas Hobbes nel suo De Homine, che l’uomo è famelico della fame

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Senegal dabo, Kolda, 2018

futura. C’è negli occhi di queste persone, fotografate con garbo, e direi anche con la delicatezza che solitamente hanno i documentari di Cannizzaro, la speranza di non dover soffrire la fame e di avere un tetto. In loro vediamo qualcosa che ci accomuna.» Piero Cannizzaro firma e la regia di numerosi documentari, sia per la radio che per la televisione, diffusi sulle principali piattaforme (Rai, Mediaset, Sky, Artè France), realizzati in Italia, in Europa e negli altri continenti (America del Nord e del Sud, Medio Oriente, Sri Lanka, Siberia e Golfo Persico, Senegal, Costa d’Avorio, Guinea e Sud Africa). Un artista capace di cogliere in ogni realtà una crepa, far entrare la luce e trasformarla in cronaca per rappresentare la spiritualità, le isole, la musi-

ca, le città slow, il cibo, il tema dell’identità in una chiave non solo ritrattistica ma come espressione del “Glocale”. Tra le sue opere: “La notte della taranta e dintorni”, “Ritorno a Kurumuny”, “Tradinnovazione: una musica glocal”, “Il cibo dell’anima”,” Città Slow”, “Ossigeno” e infine, e non per ultimo, “Storie d’Africa” che meglio riassume la sua visione dei suoi documentari presentati, tra gli altri, negli Istituti di Cultura di Londra e Parigi, in rassegne e festival nazionali e internazionali tra cui Roma, Milano, Venezia, Torino, New York, Parigi, Londra, Istanbul e Lione. Racconti d’Africa di Piero Cannizzaro Roma, Palazzo Merulana, Via Merulana 121 Dal lunedì al venerdì, dalle ore 12.00 alle ore 19.00

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Luigi Pirandello Premio Nobel per la letteratura nel 1934

27 marzo giornata mondiale del teatro Raffaele Polo

I LUOghI DEL MISTERO

Esattamente sessanta anni fa a Vienna, durante il IX Congresso mondiale, l'Istituto Internazionale del Teatro istituì la Giornata che, dal 27 marzo 1962, è celebrata dai Centri Nazionali dell’I.T.I. in tutto il mondo

É dal 1961 che l'appuntamento del 27 marzo è con il teatro. Da allora, infatti, è stata istituita la giornata mondiale del teatro. Anzi, la Giornata Mondiale del Teatro, proprio con le lettere maiuscole, visto l'importanza del tema. Che, adesso, non può festeggiare proprio nulla perchè se c'è una vittima del Covid, una vittima senza speranza di vaccini, è pro-

prio il Teatro. Tutto bloccato, tutto chiuso, si può soltanto ripassare le parti e leggere un po' di Eduardo o di Pirandello, un pizzico di Feydeau e magari le brevissime di Campanile. Ma il teatro, quello affascinante con il palcoscenico e il sipario, ce lo possiamo dimenticare, almeno per il momento. Così come le prove affollate e piene di risate, i patemi

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Gigi Proietti nel Cyrano, in basso Shahid Mammod Nadeem

d'animo e le preoccupazioni che aumentano con l'avvicinarsi del debutto... Il teatro è chiuso, insomma. E questa giornata si veste di malinconia, abbellita soltanto dalla 'storia' che vi proponiamo e che ci piace riportare per intero ed offrire ai lettori come un augurio ricco di speranza per tutti gli amanti del teatro, per tutti coloro che si fanno ancora affascinare dagli attori che recitano... L'autore del Messaggio Internazionale per la Giornata Mondiale del Teatro del 2020 è stato affidato dall'UNESCO a Shahid Mah-

mood Nadeem, drammaturgo pakistano, nonché attivista per i diritti umani. Il suo intervento si intitola: "Il teatro è un tempio": Alla fine di uno spettacolo del Teatro Ajoka sul poeta sufi Bulleh Shah, un uomo anziano, accompagnato da un giovane, si avvicinò all'attore che aveva interpretato il ruolo del grande Sufi e gli disse: “Mio nipote non sta bene, per favore, lo benedica”. L'attore rimase sorpreso e gli rispose: "Non sono Bulleh Shah, sono solo un attore che interpreta questo ruolo". L’uomo anziano gli disse: "Figlio mio, tu non sei un attore, sei una

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Foto in basso: Eduardo De Filippo, al XXX Convegno dell'Istituto del Dramma italiano a Taormina, 15 settembre 1984)

reincarnazione di Bulleh Shah, il suo Avatar". Improvvisamente si dischiuse davanti a noi un concetto completamente nuovo di teatro, in cui l'attore diventa la reincarnazione del personaggio che sta interpretando. Esplorare storie come quella di Bulleh Shah, e ce ne sono tante in tutte le culture, può diventare un ponte tra noi, persone di teatro, e un pubblico inconsapevole ma entusiasta. Quando siamo sul palcoscenico, a volte veniamo assorbiti dalla nostra filosofia di teatro, dal nostro ruolo di precursori del cambiamento sociale e ci dimentichiamo di gran parte delle masse. Nel nostro impegno con le sfide del presente, ci priviamo della possibilità di un'esperienza spirituale profondamente toccante che il teatro può offrire. Nel mondo di oggi in cui l’intolleranza, l'odio e la violenza aumentano sempre di più, e in cui il nostro pianeta sta precipitando nella catastrofe climatica, abbiamo bisogno di recuperare la nostra forza spirituale. Abbiamo bisogno di combattere l'apatia, l’indolenza, il pessimismo, l'avidità e il disprezzo

per il mondo in cui viviamo, per il pianeta in cui viviamo. Il teatro ha un ruolo, un ruolo nobile, nel dare energia e spingere l'umanità a resistere alla sua caduta nell'abisso. Il teatro può trasformare il palcoscenico, lo spazio dello spettacolo, rendendolo qualcosa di sacro. Nell'Asia del sud, gli artisti toccano con riverenza le assi del palcoscenico prima di salirvi sopra, secondo un'antica tradizione che risale a un tempo in cui lo spirituale e il culturale si intrecciavano. È tempo di riguadagnare questa relazione simbiotica tra l'artista e il pubblico, tra il passato e il futuro. Fare teatro può essere un atto sacro e gli attori possono davvero diventare gli avatar dei ruoli che interpretano. Il teatro ha il potenziale per diventare un tempio e il tempio uno spazio dello spettacolo. Un messaggio, una parola che facciamo nostro, totalmente. E che ci trova completamente d'accordo, soprattutto in questa realtà velata di amarezza e malinconia.

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Vittorio Gasman nell’Amleto, Pietro Garinei, Delia Scala e Sandro Giovannini, 1956; Totò ed Eduardo nel 1956

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L’attrice Hellen Mirrer (fonte: http://www.giornatamondialedelteatro.it/)

hellen mirrer la cUltUra del teatro vivrà

Il messaggio della Giornata Internazionale del teatro 2021

E nel 2021 il messaggio internazionale ha la voce e il volto dell’attrice Helen Mirrer, una delle attrici più conosciute e apprezzate, con una carriera internazionale che abbraccia il teatro, il cinema e la televisione. Ha vinto molti premi per le sue interpretazioni intense e versatili, tra cui l'Oscar nel 2007 per la sua interpretazione in The Queen. Per chi vuole approfondire il suo lavoro in teatro, al cinema e in televisione, nonché sugli enti di beneficenza a cui si riferisce e sulla sua vita, basterà navigare tra le pagine del suo sito web: www.helenmirren.com. Per questa giornata che, ad un anno di distanza dal primo lockdown si ripresenta nuovamente con la problematica ancora irrisolta dela pandemia che sembra aver preso in ostaggio le nostre vite, riportiamo il messaggio internazionale di Helen Mirrer, tradotto da Roberta Quarta del Centro Italiano dell’International Theatre Institute, condividendo lo spirito e con l’augurio di ritornare il prima possibile ad occupare i posti in platea al teatro come al cinema, a visitare mostre e musei, a presentare libri ed eventi.

«Questo è un momento così difficile per lo spettacolo dal vivo e molti artisti, tecnici, artigiani e artigiane hanno lottato in una professione già piena di insicurezze. Forse questa insicurezza sempre presente li ha resi più capaci di sopravvivere, con intelligenza e coraggio, a questa pandemia. La loro immaginazione si è già tradotta, in queste nuove circostanze, in modi di comunicare creativi, divertenti e toccanti, naturalmente soprattutto grazie a internet. Da quando esistono sul pianeta, gli esseri umani si sono raccontati storie. La bellissima cultura del teatro vivrà finché ci saremo. L'urgenza creativa di scrittori, designer, danzatori, cantanti, attori, musicisti, registi non sarà mai soffocata e nel prossimo futuro rifiorirà con una nuova energia e una nuova comprensione del mondo che noi tutti condividiamo. Non vedo l'ora!» Helen Mirren

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Paesaggi di Puglia, foto di G. Affinito

giornata internazionale del paesaggio

Il 14 marzo 2021 webinar sulla pagina facebook del Museo Castromediano e dal 15 al 20 marzo con video-screening su YouTube

«Promuovere la cultura del paesaggio in tutte le sue forme e a sensibilizzare i cittadini sui temi ad essa legati, attraverso specifiche attività da compiersi sull’intero territorio nazionale mediante il concorso e la collaborazione delle Amministrazioni e delle Istituzioni, pubbliche e private», sono queste, dal

2016, le finalità primarie della Giornata nazionale del Paesaggio. E puntuale anche quest’anno è arrivata l’adesione dei Poli biblio-museali di Lecce, Brindisi e Foggia impegnati in prima linea per far scorpire l’archeologia subacquea. L’acqua, metafora di vita, ma anche di viag-

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Paesaggi di Puglia, Tremiti, foto Marlin sotto: Paedaggi di Puglia , foto di G. Affinito

gi e migrazioni, genera nuove connessioni tra passato e presente e tra geografie e culture. Ed è stato proprio il mare il tema che per la Giornata nazionale del Paesaggio, il fil rouge che lega la sezione dedicata ai Paesaggi di mare del Museo Castromediano di Lecce, alla sezione di archeologia subacquea del Museo Ribezzo di Brindisi e alla grande mostra sull’archeologia subacquea ospitata lo scorso anno in Aeroporto a Brindisi su iniziativa di Regione Puglia e Aeroporti di Puglia con diverse partnership. All’avvio del lockdown il Polo bibliomuseale di Lecce, Regione Puglia – Assessorato alla cultura eDAMS di UniSalento hanno avviato un palinsesto digitale #Laculturarestaaccesache mette a disposizione degli utenti su YouTube e sui social network materiali audiovisivi di ambito culturale: mostre, spettacoli teatrali e musicali, letture, conferenze, presentazioni, interviste, approfondimenti. Da lunedì 15 marzo a sabato 20 marzo sono stati diffusi i video sul canale YouTube CRA #laCulturaRestaAccesa, con due appuntamenti quotidiani. Collegandosi al canale ufficiale è possibile poter rivedere i seguenti video Da queste rive”"Nel mare dell'intimità"; - "Paesaggi di mare"; "Rottami preziosi. Una ballata dal mare profondo"; "Paesaggi di terra", "Paesaggi che cambiano"; "Paesaggi del sacro"; "Andar per mare"; "Paesaggi dei vivi"- "Le migrazioni"; "Paesaggi dei morti"- "Il Canale d’Otranto all’alba del commercio".

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Paesaggi di Puglia, foto di T. Scarano

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i liBri come tramite per giUngere all’altro da me Antonietta Fulvio

Intervista a Katiuscia di Rocco da diciotto anni alla direzione della Biblioteca arcivescovile Annibale de Leo di Brindisi

L’anagramma di Bibliotecario come suggerisce Stefano Bartezzaghi è “beato coi libri”. Un anagramma che ben si addice a Katiuscia Di Rocco direttrice della Biblioteca Arcivescovile “Annibale De Leo” di Brindisi. Come per tutti gli enti culturali, anche la Biblioteca ha dovuto fare i conti con la pandemia e “rivoluzionare” la propria presenza sul territorio raggiungendo comunque i suoi fruitori grazie alla creatività e alla determinazione della sua direttrice con cui abbiamo piacevolmente parlato di libri e non solo. Partiamo da lontano. Come nasce il tuo amore per i libri, ricordi il primo libro che hai letto? In realtà non ho un amore sviscerato per i libri, la mia è sempre stata una curiosità fortissima di conoscere, sapere luoghi, avvenimenti, individui sul versante logico e con un nesso causale, capire probabilmente il sentimento, il dolore, la gioia. È quindi questa curiosità che mi ha spinto a leggere. Non ricordo il primo libro letto. Ne ho letto davvero tanti, un po’ per diletto, un po' per curiosità,

molti per professione: ho conseguito il dottorato in storia, dopo la laurea in Lettere, per cui ho letto tantissimi libri di storici, di indagine e critica storica ed ogni libro che ho letto, fossero anche romanzi, novelle di teatro o molta poesia è stata una specie di indagine introspettiva. Leggere era ed è un modo per capire e conoscere me stessa e attraverso me stessa conoscere e capire gli altri. I libri sono stati un tramite, un mezzo, per giungere “all'altro da me". Quest’anno hai raggiunto il traguardo dei diciotto anni di direzione della De Leo. Ricordi, paure, aspettative…C’è qualcosa che vorresti aver fatto e che non sei riuscita ancora a fare? Quest’anno ho raggiunto i diciotto anni alla direzione della Biblioteca De Leo e ho moltissimi ricordi. L’inizio è stato difficilissimo e complicato perché non ho un cognome brindisino, mio padre è abruzzese e abbiamo vissuto poco la città. Ho frequentato qui il liceo e poi l’università a Lecce ma mio padre era molto legato alle sue radici per cui ogni

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Katiuscia Di Rocco direttrice della Biblioteca A. De Leo di Brindisi

anno in e s t a t e andavamo in Abruzzo. Noi non parlavamo il dialetto brindisino, non mangiavamo il pesce o i frutti di mare perché lui non era abituato e nonostante mia madre fosse brindisina si era adeguata alla cucina tradizionale abruzzese. Ricordo ancora che quando andavano a Bussi sul Tirino, paese di origine di mio padre, nel periodo estivo tornavamo carichi di trote di fiume che poi mangiavano durante l’inverno. Il pesce e i frutti di mare come le cozze e i ricci che io oggi adoro ho imparato a mangiarli

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t a r d i . Insomma nella biblioteca, culla della tradizione e della cultura brindisina, trovare una persona non brindisina e comunque con un cognome non brindisino spiazzava ed infastidiva le persone. In che senso? Nel senso che non mi si conosceva, non sapevano da dove provenissi, mio padre tra l’altro non era un libero professionista, mia madre faceva la casalinga, insomma proprio difficile da accettare. Ricordo difficoltà e lacrime, diff i c o l t à postemi sempre da laici: una donna alla direzione


della biblioteca? Una donna... peraltro di appena trent’anni. Mi sentii dire che tutto sarebbe andato perso, bruciato... Se ho avuto paure? No. Paure sinceramente non ne ho avute. Ero talmente innamorata della ricerca storica, di quello che potevo fare qui e di quello che si poteva fare qui che non ho avuto paure. Né tanto meno aspettative che caratterialmente non mi appartengono. Ho pensato solo che bisogna “fare” e fare tanto. Bisognava catalogare, perché senza catalogazione non si conosce il patrimonio, e se non conosco bene ciò che ho non posso usarlo a pieno. Prima di approdare alla direzione nel 2003 per dieci anni tra volontariato e piccoli contratti avevo avuto modo di conoscere bene la biblioteca e le sue potenzialità. Venivo fuori da borse di studio, assegni di ricerca anche con l’Ecole Francaise e stavo finendo il dottorato. Avevo tante idee su quello che si poteva fare e far venire fuori da qui. Se c’è qualcosa che avrei potuto fare e non sono riuscita a fare? Cambiare la mentalità di questa città. Reinhold Niebuhr diceva" Dio, concedimi la serenità di accettare le cose che non posso cambiare, il coraggio di cambiare le

cose che posso, e la saggezza per conoscere la differenza". Codici antichi, incunaboli, cinquecentine e corpose donazioni fanno della Biblioteca Arcivescovile Annibale De Leo di Brindisi un luogo unico tra le biblioteche più antiche del Meridione e del Salento. Quali impegni anche in termine di divulgazione e conservazione un direttore deve quotidianamente affrontare anche per sfatare lo stereotipo della biblioteca come luogo silenzioso e polveroso e non per tutti? Come conservazione tanto, noi dobbiamo mantenere una temperatura ed umidità costante, monitorare la sicurezza del luogo. La nostra è una biblioteca un po' "strana", particolare, nel senso che deve sia consentire l’accesso al pubblico e quindi avvicinare i più piccoli al mondo dei libri sia custodire e rendere fruibile il proprio patrimonio, con registri linguistici adatti e diversificati a seconda dell'utenza, il tutto sempre con un grande rigore scientifico in considerazione del materiale che vi è all’interno. Quello che è difficile far comprendere è che oggi l’uno non può assolutamente annulla-

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Crediti fotografici: Biblioteca Arcivescovile A. De Leo di Brindisi

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Crediti fotografici: Biblioteca Arcivescovile A. De Leo di Brindisi

re l’altro. Non si può aprire ai ricercatori e non curare l’infanzia o l'adolescenza. I bambini devono amare la lettura, devono capire che cosa significa leggere in modo da definire uno spirito critico forte, devono capire che la biblioteca non è un luogo stantio dove annoiarsi. Il silenzio profondo che in alcune circostanze a qualcuno può essere piacevole, alla maggior parte dei giovani determina un’idea quasi lugubre. Non è questo. Abbiamo organizzato laboratori per bambini, facciamo alternanza scuola lavoro, messe alla prova e servizi di pubblica utilità ed è bellissimo che i ragazzi che hanno fatto qui alternanza poi ritornino a fare il tirocinio universitario o chiedano testi per le tesi di laurea. Non solo libri antichi. Come nasce l’idea di

istituire un fondo librario su tutte le mafie intitolato alla piccola Angelica Pirtoli? Negli anni abbiamo istituito due fondi uno sulle mafie e una sulla letteratura di genere. Le motivazioni sono state diverse: il fondo sulla letteratura di genere che consta di circa 1200 libri, nasce per un’assenza totale di testi di tale argomento qui in biblioteca. Per il fondo sulle mafie, l'idea nasce durante un laboratorio con una quinta elementare: un bambino che aveva visto una fiction mi chiese "che cos'è la mafia?". Mi resi conto che non avevo un testo che mi aiutasse. Da qui l’idea di mandare una mail a case editrici, scrittori, giornalisti per costituire un fondo libraio. Ho conosciuto moltissime persone in quella circostanza, giudici, magistrati, Mauri-

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zio Saso, la giornalista Marilù Dimastrogiovanni. Quando si istituisce un fondo librario bisogna trovare un'intitolazione. Quello sulla storia delle donne è stato intitolato ad una storica brindisina poco conosciuta, Giulia Poso, che ha scritto molto sulla storia risorgimentale alla fine dell’Ottocento. Per il fondo sulle mafie da un’associazione antiracket avevo ascoltato il nome di Angelica Pirtoli tra le tante vittime della criminalità organizzata. Nel 2015 con mia figlia, che all'epoca aveva dieci anni, in un sabato grigio ci siamo messe in macchine, direzione Parabita. La prima tappa fu Lecce, dove da Paola Bisconti, ebbe in dono i primi libri per il fondo poi proseguimmo per Parabita dove mi attendeva la giornalista Daniela Palma, il sacerdote della chiesa madre e Mario, marito di Marilù Mastrogiovanni, che mi portò riviste e libri in dono. Visitammo Parco Angelica e lì ho sentito che il fondo non poteva che essere dedicato a lei. Chiunque oggi chieda un libro di quel fondo librario deve pronunciare il nome di Angelica Pirtoli, perché il suo nome è all'interno della collocazione. La figura del fondato-

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Storie l’uomo e il territorio

re della Biblioteca Annibale De Leo un prelato brindisino illuminato che per volontà testamentaria stabilì la fruizione pubblica della biblioteca. Sì, un sacerdote, poi arcivescovo assolutamente illuminato che aveva stabilito, ad esempio, che la biblioteca doveva essere al piano terra del suo palazzo un po' come forma di protezione, ma sicuramente di controllo dal furto di libri ed ingressi indesiderati. Stabilì una fruizione cioè il termine "pubblico" non è da poco, io continuo a sottolinearlo in continuazione: si tratta di una biblioteca a giurisdizione arcivescovile, privata quindi, ma pubblica nella fruizione per statuto di fondazione. Annibale de Leo è stato lungimirante per tanti motivi, noi qui abbiamo 53 libri posti all'Indice che lui volle acquistare: avrebbe dovuto denunciarli e sarebbero finiti al rogo, lui invece no, li acquista, li tutela li protegge perché Annibale di dover conoscere per avere la possibilità di rispondere ai detrattori nella maniera opportuna. È il sapere che dà gli strumenti necessari, gli unici. Un notevole patrimonio da riscoprire. Chi sono i fruitori della Biblioteca? I fruitori sono cambiati negli anni, quando sono arrivata erano storici locali, docenti universitari, pochi studenti che svolgevano tesi, qualche scuola che si affacciava. Oggi gli utenti sono vari, ovviamente parliamo del pre pandemia. C'erano i ragazzi che venivano a studiare, che facevano l'alternanza scuola lavoro, dottorandi, ricercatori, professori universitari, tesisti, moltissimi studioti di scuole superiori che fanno ricerche su argomenti specifici, c'è la popolazione locale, e non solo, che vuole ricostruire gli

alberi genialogici, insomma chiunque si voglia affacciare ad una documentazione che ormai è veramente molto vasta e non solo antica. Il patrimonio si è notevolmente incrementato con l'ultima importante donazione di Beppe Petrono, ben 30.000 libri di storia, politica, filosofia, e poi con il fondo emergenza con il quale abbiamo potuto acquistare per 10.000 euro quasi mille testi (per infanzia, adolescenza, mafia, la letteratura di genere e testi necessari alla decodificazione dei nostri libri antichi). E all’indomani della pandemia che ha sconvolto le nostre vite, quali strategie sono state adottate per superare l’impossibilità degli eventi in presenza? Beh sicuramente il freno che c'è stato a marzo è stato sconvolgente, non se l'aspettava nessuno. Il momento, forse più brutto è stato la seconda chiusura a novembre: si respirava l'aria di più forte incertezza e di inutilità di quanto fatto fino a quel momento. Da maggio avevamo organizzato il contingentamento, gel, mascherine, sanificazione. Pensavamo sarebbe bastato. Era come respirare un'aria di profezia dell'estinzione e quei giorni a ridosso del dpcm tra le persone che venivano, telefonate, le mail era come dire “oddio che cosa leggiamo adesso, il cielo stellato?”. Era come recitano i versi "del doman non c'è certezza". Così veramente tra una notte e un giorno mi sono immaginata "La biblioteca a domicilio". Con l’iniziativa della consegna dei libri in bicicletta avete mantenuto il filo diretto con i lettori e non solo. I libri non solo narrazione ma incontro, scoperta dell’altro e baluardo della memoria.

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Crediti fotografici: Biblioteca Arcivescovile A. De Leo di Brindisi

A tal proposito hai una bella storia da raccontare... Una nostra volontaria, iscritta a varie associazioni ha iniziato ad effettuare varie consegne a domicilio in bicicletta, anche se presto è stato chiarito che le biblioteche e gli archivi non erano omologati ai musei, potevamo quindi restare aperti se riuscivano a rispettare tutte le norme anticovid. Abbiamo dunque lasciato ai nostri fruitori una scelta doppia cioè: chi voleva la consegna a domicilio ne usufruiva, in bici sempre, chi poteva e voleva venire biblioteca poteva farlo prenotandosi via mail. Il tutto con l’idea costante è che la biblioteca sia un presidio di mutazione, come una presa di coscienza perché in realtà le biblioteche credo siano veramente l'ultimo baluardo di democrazia: i libri non si pagano, ma vengono presi in prestito. In fondo una biblioteca è nemica dell'immobilità, è come un gioco di prospettiva che bisogna attuare contro qualsiasi falso movimento e contro le illusioni ottiche. Insomma non ce la siamo sentita di attendere il verdetto catastrofista è come dei cuentacuentos, cioè come dei raccontastorie abbiamo continuato raccontare la storia di questi secoli, fatta di ansia, paure, timori, confusione e sospensione. È crollata l'idea di avere il controllo serrato della realtà. Abbiamo cominciato ad avere paura di incontrare l'altro e fame che comunque si ha dell'altro genera timore. Come l’emergenza sanitaria che stiamo vivendo in quest’ultimo anno ha condizionato il tuo lavoro? Sono cambiati completamente i ritmi della quotidianità lavorativa, cerchiamo di fare quanto più possibile noi. In definitiva io sono sola in biblioteca perché gli altri lavorano in smart working, catalogando ed indicizzando le riviste. Le email scambiate con i colleghi sono cambiate completamente perché si aprono e si chiudono con “carissima” oppure “al più presto”, “stai tranquilla” o “grazie di cuore” o “spero che tutto vada bene” e non ci si è mai visti, mentre prima il rapporto era molto più distante e formale. Credo peraltro che l’Enciclica di Papa Francesco si esprima in questo modo. Noi siamo individui in una collettività e non cresciamo come singoli, cresciamo con gli altri, probabilmente pensando proprio all'aiuto che possiamo dare agli altri e distogliendoci un

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Crediti fotografici: Biblioteca Arcivescovile A. De Leo di Brindisi

attimo dal concentrarci solo su di noi. Sono convinta che solo in questo modo possiamo salvare e costruire la memoria, superare questa condizione di esilio e di solitudine nella quale ci troviamo, questa sorta di inquietudine verso il futuro. Anche in questa difficile situazione possiamo continuare a costruire il futuro, quello dei nostri figli e dei figli degli altri, il futuro dei ragazzi che vanno a scuola in un momento di così grande difficoltà. Abbiamo cominciato da gennaio a fare degli incontri su Meet mostrando i nostri documenti ad intere scolaresche che non potevano più entrare in biblioteca: gli insegnanti ci indicano un tema e noi prepariamo i documenti e li esponiamo. La Shoah o l’influenza del 1918, la condizione della donna o i nostri codici miniati diventano su temi su cui discutere. Credo sia necessario continuare a costruire il futuro partendo sempre da un presupposto: la competenza non è l'autorità, i luoghi della cultura devono essere dei luoghi di dialogo, di conversazione non di pesca a strascico, non dobbiamo portarci chiunque e chiunque non può fare qualsiasi cosa. Ognuno di noi ha una specializzazione ed è giusto andare avanti per competenze. Il luogo biblioteca ci dà la possibilità di informarci su tutto, ci dà migliaia di libri da consultare e ci dà la possibilità di scavare, di trovare i documenti originali, di capire quale sia la realtà e quale sia la verità. La verità è

che probabilmente non esiste più un'identità culturale e con lo straziante campanilismo che si continua a fare non si và in realtà in nessuno posto, ma si gira in tondo mordendosi la coda. Dobbiamo iniziare ad accorciare le distanze, rispettando le differenze e comprendendo che ormai siamo un insieme di gruppi sanguigni che circolano: non esiste più una città esistono migliaia di città in una città, migliaia di etnie e migliaia di vite e migliaia di storie che devono essere raccontate. Una curiosità, cosa sono i “Bebè libri”? Il “Bebè libri” è l'iniziativa che ci siamo immaginati proprio per i nuovi arrivati, cioè per tutti i nati nel gennaio del 2021, ai quali abbiamo recapitato in bicicletta un libro di favole. Non è il classico libro di stoffa con cui il bambino può giocare nel bagnetto, ma di un vero e proprio testo di fiabe per la notte che i genitori devono leggere ai loro piccoli: è un po' come spegnere le cattive notizie, non ascoltare la televisione, il telefonino, non esiste niente intorno, ci si guarda negli occhi e si trae nutrimento l'uno dall'altra o l'altra dall'altra, è un nutrimento reciproco, una cosa magnifica. Volevamo che i genitori fossero obbligati a trascorrere quella mezz'ora o anche solo 10 minuti concentrandosi solo sui propri figli, abituandoli all'ascolto perché i libri aiutano l'immaginazione, la fantasia e lo sviluppo del senso critico.

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Il 14 marzo sarà la giornata nazionale del Paesaggio. Anche quest’anno la biblioteca De Leo aderisce. Ci racconti come vi state preparando e quale sarà l’iniziativa che avete ideato? Come sempre abbiamo aderito alla giornata nazionale del paesaggio e abbiamo pensato di creare un video sui documenti antichi conservati nella nostra biblioteca che raccontano il paesaggio brindisino e quindi il vino, il grano, l‘olio ed il porto. Quindi abbiamo trovato su alcuni manoscritti dei disegni del porto di Brindisi, rappresentazioni di uliveti e di vigneti che raccontano tutto il territorio con didascalie e frasi emblematiche per descrivere il sentimento che rappresenta un paesaggio. Campanilisticamente? Ancora una volta no, ma per comprendere in realtà che il paesaggio ci appartiene e ci identifica. Un auspicio più che una domanda: la Cultura, a maggior ragione in questo tempo forzatamente sospeso dalla pandemia, salverà il mondo? Credo non ci siano altre speranze. La dannazione è che chi questo mondo lo può salvare, purtroppo, chi prende le decisioni, chi fa politica molto spesso strumentalizza la. Nei decenni passati non si è investito nei luoghi che veramente potevano cambiare il mondo, le biblioteche, gli archivi, i musei, la scuola, i siti archeologici. Sono quei luoghi che consentono ad una comunità di crescere. La gente deve apprendere con lentezza e deve abituarsi al rispetto. La politica non ha investito sull'uomo: la scuola è sempre stata troppo bistrattata, troppi pochi investimenti per i luoghi ed i progetti di lettura. Invece, sono scrigni che vanno custoditi e fatti fruire.

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“cecilia faragò non è Una strega” Katiuscia Di Rocco

Sfogliando pagine dal sapore antico tra i tesori del Fondo Antico della Biblioteca Pubblica Arcivescovile De Leo di Brindisi

Nel nome di Eva

È

lui, Carlo De Marco, brindisino di nascita e di formazione ed io ne sono orgogliosa e tremo quando leggo il suo nome in calce al foglio. È lui a Presiedere e firmare una sentenza storica nel 1770. Cecilia Faragò non è una strega. È grazie all'arringa del giovane avvocato appena ventenne, Giuseppe Raffaelli, e alla sua sentenza che il re Ferdinando IV abolisce il reato di "Maleficium" contro le Donne. È una di quelle sentenze che hanno cambiato la Storia e Carlo De

Marco ha avuto il coraggio nel 1770 di apporre la sua firma. Cecilia nasce in un paesino della Calabria, Zagarise, e una volta andata in sposa a Lorenzo Gareri si trasferisce a Soveria Simeri dove di mestiere fa l'erborista. Utilizza quindi allume di Rocca, incenso, altea, nasturzio, sabina e salsa solutiva per curare e non uccidere perché per quello basta l'ignoranza. Viene accusata di "fattuccheria", viene accusata di aver ucciso un uomo con il suo "occhio maligno" e con una polvere magica preparata da un'altra donna, Anna Scarcello,

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Crediti fotografici, Biblioteca Arcivescovile A. De Leo Brindisi

gettatagli addosso da un'altra donna ancora, Laura Fratto. Il giovane avvocato Raffaelli dimostra con un'arringa costruita sui fatti e con parole del calibro di "grossezza, amarezza, sconcia favola, scellerate menzogne, impostori temerari, collera, balordi uomini e ignoranza" chi sono i veri assassini e costruttori di bugie che hanno fatto imprigionare e torturare Cecilia per impossessarsi dell'eredità che le spet-

ta. Il processo ha fine il 29 dicembre del 1770: gli impostori devono pagare 400 ducati alla donna per i danni morali ed un nuovo processo si deve aprire contro di loro. Dopo due mesi i carnefici chiedono scusa a Cecilia e le offrono 1000 ducati perché non li trascini in tribunale. È lei a dover decidere. Una donna. E lei va avanti con il processo. Ecco ora posso tornare a casa. Biblioteca Pubblica Arcivescovile "A. De

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Lecce, Conservatorio Pentite, reportage fotografico di Sara Foti Sciavaliere

i conservatori leccesi istitUti d’assistenza per le donne Sara Foti Sciavaliere

Dal Conservatorio di San Sebastiano a quello di Sant’Anna viaggio nella storia di Lecce

Storie l’uomo e il territorio

I Conservatori presenti a Lecce, e se ne contava tre, non vanno intesi con l’accezioni con cui conosciamo oggi questi luoghi ossia come Istituti per l’Alta Formazione Musicale, ma per come era concepiti alle loro origini: di fatto, il termine conservatorio deriva dall’usanza, diffusasi nel XIV e XV secolo presso gli asili, ospizi e orfanotrofi di pubblica pietà, di iniziare ed educare a un mestiere (e fra questi quello della musica), in tal modo gli orfani e i trovatelli venivano preservati, “conservati”, cioè si intendeva tenerli lontani dai pericoli della strada; in seguito assumeranno la funzione primaria di insegnamento della musica. I conservatori leccesi hanno tuttavia un’assoluta particolarità poiché si rivolgevano esclusivamente a un’utenza – per dirla in

termini odierni – femminile. Si tratta dei Conservatori di San Sebastiano, o delle Pentite, del Conservatorio di San Leonardo e quello di Sant’Anna, o delle “malmaritate”. Incominciamo la nostra esplorazioni di queste realtà, non più attive ma almeno per due casi ancora visibili nelle loro architetture, a partire dal più antico per fondazione. Ci troviamo in vico dei Sotterranei, una piccola strada – alle spalle di Piazza Duomo e su cui affaccia uno degli ingressi laterali della Cattedrale – che prende il nome dalle numerose stratificazioni che negli anni sono venute alla luce, per esempio un pavimento musivo di epoca romana. Su questa via, a guardare un fianco del Duomo, ci sono la cinquecentesca

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Storie l’uomo e il territorio

Lecce, Conservatorio Pentite, reportage fotografico di Sara Foti Sciavaliere

Chiesa di San Sebastiano e il Conservatorio delle Pentite. Quest’ultimo era un ricovero in cui le suore Cappuccine avevano il compito di accogliere le donne dalla vita dissoluta che, nella solitudine monastica e nella preghiera, dovevano riaccostarsi a Dio. Una struttura che patì non poche criticità: alcune lettere inviate dalle monache ai familiari e alle autorità testimoniano le vite difficili di donne soggette a regole ferree e cui veniva proibito di avere contatti con l’esterno, anche nel momento dell’eucarestia (tant’è che è presente un comunichino nell’area destinata alla liturgia eucaristica, in modo tale da concedere l’ostia consacrata, senza che donne presenziassero in chiesa); inoltre le monache dovevano provvedere per proprio conto a molte esigenze materiali, perché

le poche donazioni dei facoltosi non bastavano a coprire tutti i bisogni della comunità e pertanto le assistite lavoravano per l’esterno, realizzando ventagli e tessuti. Le pareti, che vediamo oggi, degli ambienti dell’ex Conservatorio in vico dei Sotterranei sono frutto di interventi recenti e non presentano nulla di particolare, mentre la chiesa che l’affianca, mostra un portone cinquecentesco in legno con ante decorate a motivi lacunari ed esagoni. La facciata si presenta lineare a capanna, ricordando gli edifici romanici; in alto al prospetto è visibile una formella che reca l’immagine del Volto di Cristo rappresentante la devozione a questa dell’ordine monastico del Conservatorio. La struttura architettonica dell’edificio religioso, nel suo

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Lecce, Conservatorio Pentite, reportage fotografico di Sara Foti Sciavaliere

complesso richiama quella semplicità che rispecchiava l’ideale di povertà dell’ordine, l’osservanza della povertà per le Cappuccine di San Sebastiano doveva essere particolarmente rigorosa, non solo perché i Cappuccini, tra le famiglie Francescane, sono quelli che con maggiore rigore hanno seguito l’ideale di una vita semplice e devota, ma soprattutto per essere questo Conservatorio, per sua stessa definizione, luogo di penitenza, ospitante una comunità che si affidava alla carità pubblica. L’ambiente interno della chiesa di San Sebastiano è a un’unica navata e in origine presentava una lineare copertura in legno, esclusa la parte al di sopra dell’altare maggiore, che è una volta di pietra. La chiesa rimane sostanzialmente spoglia anche quando in città arriverà a diffondersi la moda delle decorazioni barocche. E quei affreschi ancora leggibili hanno un carattere devozio-

nale, e con tutta probabilità fatte da maestranze dell’Ordine stesso, cosa di consuetudine nelle chiese e nei monasteri francescani, anche se poco e niente si conosce sull’intervento decorativo dei religiosi nelle dimore di comunità femminili. Secondo alcuni documenti che trattano di una ricognizione effettuata dal vescovo Pignatelli, nel 1692, sono riportati sette altari: tra di essi compare quello intitolato a San Nicola Magno (oggi non più esistente), devozione insolita per una chiesa cappuccina ma significativa in un Conservatorio, perché questo santo è considerato il protettore dei giovani in difficoltà, o meglio delle giovani, se si pensa, secondo leggenda, che il vescovo Nicola fece dei doni a tre giovinette che il padre, in povertà, voleva avviare alla prostituzione e che grazie alla dote ottenuta dal generoso benefattore sarebbero potute andare in sposa. Di indubbia devozione fran-

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si può notare una tipologia mariana ricorrente nelle chiese di Terra d’Otranto, riconducibile alla Vergine di Costantinopoli, alla cui devozione alla Madonna di Costantinopoli si legavano a Lecce gli Agostiniani e ciò potrebbe confermare l’ipotesi che prima delle Cappuccine, qui a San Sebastiano ci fossero le Agostiniane. La devozione all’umana sofferenza di Cristo è rappresentata invece dall’affresco della

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cescana invece è la pittura murale che occupa la seconda arcata destra della navata raffigurante “S. Antonio, S. Francesco e la Vergine”; quest’immagine corrisponderebbe, con tutta probabilità, all’altare della Madonna degli Angeli o Madonna del Carmelo così identificata dagli stessi documenti: la figura della Vergine, anche se poco leggibile, presenta delle similitudini con l’immagine mariana rappresentata sul pilastro sinistro su cui si imposta l’arco trionfale, in entrambe le pitture

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Maria Lorenza Longo dal Museo delle Scienze Sanitarie degli Incurabili, reportage fotografico di Sara Foti Sciavaliere

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Pietà, che si trova nella terza arcata a sinistra della navata e per il quale, durante il suo restauro promosso da Luciana Palmieri, si è giunti alla conclusione che tale pittura, opera di un frescante locale, sia stata ispirata da una stampa di un disegno di Michelangelo che era stato eseguito per la marchesa di Pescara, Vittoria Colonna, negli ultimi anni della vita del maestro. Anche in questo caso il nesso tra la pittura e la funzione di rifugio del Conservatorio di San Sebastiano trova una sua logica, poiché la marchesa soggiornando per un lungo periodo a Napoli rimase colpita dalla spiritualità di Maria Lorenza Longo, la quale si dedicò in favore degli ultimi, in particolare alla condizione femminile del periodo all’interno del napoletano Ospedale degli Incurabili , con grande attenzione per le madri nubili, considerate forse per le prima volta non come peccatrici da emarginare, ma come soggetti deboli cui la società aveva il dovere di prestare assistenza. Il contatto con gli ambienti più

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degradati, pone la Longo in relazione con lo squallido mondo della prostituzione, operando sul lavoro complesso di far strappare le donne al vizio e al peccato e di riscattarle dalla soggezione e dalla schiavitù ed è così che nascerà a Napoli il Ricovero delle Pentite, un’istituzione dalla quale prenderà esempio il Conservatorio San Sebastiano di Lecce; inoltre da non dimenticare che proprio Maria Lorenza Longo fu la fondatrice dell’ordine delle Clarisse Cappuccine, impegnate in attività assistenziali e caritatevoli. Ritornando all’affresco della Pietà in San Sebastiano, si conosce il nome del committente, Leonardo Casavecchia, al quale è riconducibile, sempre per committenza, l’altare della Maddalena, non più visibile oggi perché smantellato sul finire del XVII secolo, per dare spazio alla porta della nuova sacrestia. Dei due affreschi, pare pertinenti all’altare della Maddalena, altra devozione che rimanda ai conventi delle agostiniane, quello più leggibile è l’“Imago Pietatis”, dove ai piedi del Cristo sono raffigurate delle figure femminili


Lecce, Conservatorio Pentite, reportage fotografico di Sara Foti Sciavaliere

inginocchiate e oranti: le religiose indossano il saio grigio legato in vita da una cintura, provvisto di cappuccio e di un soggolo bianco, però l’abito delle penitenti non offre chiare indicazioni sull’Ordine di appartenenza, sia per il degrado della pittura che per la genericità dell’abbigliamento religioso nei secoli passati ponendo il dubbio di riconoscimento tra le Penitenti francescane e le Bizzoche agostiniane. Presso l’affresco raffigurante l’Imago Pietatis, sull’altra faccia dello stesso pilastro, malgrado vaste lacune, è riconoscibile una figura femminile nimbata, con indosso un mantello che copre il saio legato in vita da un cordone impugnando un bastone in atto di minaccia; in basso, a destra si nota una figurina di donna inginocchiata che stringe nelle mani un rosario, rimandando nelle fattezze alle suorine dell’Imago Pietatis. Nonostante il danneggiamento

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della scena, è evidente il rimando all’iconografia della Vergine del Soccorso, devozione diffusasi tramite l’Ordine Agostiniano, dando ancora ulteriore conferma alla precedente presenza dell’Ordine femminile in questo luogo. L’iconografia della Madonna del Soccorso e i miracoli a lei attribuiti si richiamano alla protezione dei fanciulli nei confronti del Demonio e ritornando alla pittura presente nella chiesa al particolare della figura femminile in ginocchio è, inoltre, un chiaro esempio di pentimento da parte di una donna che si è macchiata di una grave colpa. Da ciò appare ovvio, quindi, la funzione del Conservatorio come rifugio a cui accedevano spesso ragazze in giovane età, “minacciate dal Male”. Nella zona presbiteriale, sul lato

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Lecce, Conservatorio Pentite, reportage fotografico di Sara Foti Sciavaliere

destro addossato alla parete, è posizionato l’unico arredo superstite: un altarino con funzione di comunichino. Esso si presenta con ampio basamento sul quale poggiano due colonne scanalate con capitelli che sorreggono l’architrave ornata da piccole teste di angeli alati che custodiscono il calice eucaristico. La semicupola sottostante è decorata a “squame”, implicito simbolismo cristologico, mentre all’interno (oggi murato) erano impostate due porticine lignee che servivano per mettere in comunicazione la chiesa con il conservatorio, aprendole solo durante la liturgia a tutela della clausura delle suore e delle pentite nel convento. In base ad atti notarili o da testimonianze indirette emerge che, sin dal principio, il Monastero delle Convertite si rivolgesse quasi esclusivamente a donne in età giovanile e

che si dubitasse della buona fede di donne che, raggiunti limiti d’età o per scarsa avvenenza, non fossero più in grado di esercitare il “mestiere” cercando un comodo rifugio. Le Cappuccine, con il rigore del loro esempio, costituivano un modello di riferimento morale per le peccatrici pentite, a cui era destinata l’iniziativa di carità, e le giovani erano tenute a pronunciare i voti annuali, detti voti del Terz’Ordine, destinati ai laici, che non comportavano la clausura e permettevano la possibilità di reinserimento nella società, inoltre c’era un’uniformità nell’abito e nelle regole di comportamento. Il lento degrado di questo luogo, inizia intorno alla metà del XIX secolo, quando i beni di San Sebastiano vengono confiscati dallo Stato unitario generandone il collasso economico, la situazione va rapidamente precipitando e la cronaca del periodo registra episo-

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di di ribellione da parte delle ospiti del Conservatorio irrispettose della disciplina, per passare a una gestione laica fino alla chiusura definitiva.

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All’istituzione di San Sebastiano segue, nella città, la fondazione di altre strutture con il meesimo scopo assistenziale ma rivolto a un altro tipo di utenza, ne sono l’esempio il Conservatorio di San Leonardo e il Conservatorio di Sant’Anna. Nel Conservatorio di San Leonardo, fondato nel 1610, venivano accolte le orfane di civile condizione, mentre ancora più tardo è il Conservatorio di Sant’Anna, che risale al 1682, costruito per iniziativa di Teresa Paladini, vedova di Bernardino Verardi, il cui operato era rivolto all’accoglienza di donne aristocratiche che si trovavano nella condizione vedovile o per sfuggire a matri-

moni di nobile lignaggio sbagliati, altra differenza dalle altre due fondazioni è che quest’ultima istituzione godeva di un’autonomia economica grazie alle donazioni di beni consistenti gestiti dai membri della stessa famiglia Paladini. Il Conservatorio di San Leonardo, invece, come il San Sebastiano, era un’opera di carità, che riceveva una forte influenza decisionale da parte dei Sindaci della città. La permanenza delle “conservande” era, in linea di massima, temporanea: fino al matrimonio, al rientro nella famiglia d’origine o all’accettazione di un’altra conveniente sistemazione. In assenza di alternative non era raro, tuttavia, che le donne si fermassero nell’istituto per il resto della loro esistenza, accettando di condurre vita comune secondo il modello monastico ma senza l’obbligo di professione dei voti. Insomma, come era

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prassi in Italia e in Europa a partire dal XVI secolo, i conservatori leccesi vanno incontro ai bisogni concreti posti dalle povertà femminili, uniti alla tutela morale assicurata dalla vita ritirata in comunità. Il 7 dicembre 1679 fu reso pubblico il testamento del nobile leccese Bernardino Verardi – che di Lecce era stato anche Sindaco –, col quale nomina erede universale del suo ingente patrimonio la moglie, la nobildonna Teresa Paladini, con l’“obbligo” di fondare un conservatorio e lasciando a lei la facoltà di dettarne le regole di funzionamento. Da quel momento in avanti il Conservatorio sarà il grande impegno della nobile Teresa, che nel creare il suo conservatorio si muove ispirandosi a esperienze realizzate a Napoli, per alleviare altre sofferenze femminili, infatti il conservatorio Sant’Anna fu un ritiro destinato a ospitare gratuitamente “vergini, vedove o malmaritate” di famiglia nobile e di nascita leccese. La scelta è, lei vivente, discrezionalmente operata dalla stessa Teresa Paladini, anche se con un atto notarile in seguito avrà premura di specificare le casate beneficiarie: Paladini, Cicala, Afflitti, Ventura, Prato, Carducci, Corso, Guarino, Erriquez, Maramonte, Scaglione. Compatibilmente con gli spazi disponibili, era comunque possibile ospitare anche nobildonne appartenenti a casate non indicate, ma a proprie spese. Il conservatorio Sant’Anna sarà attivo per oltre due secoli e negli anni Trenta del Novecento saranno ormai evidenti i segni della perdita di consistenza delle ragioni storico-sociali alla base dell’esistenza dell’istituto. Inaugurati i lavori nel 1686, ove sorgeva il palazzo Verardi, il Conservatorio, costruito al pari dell’adiacente chiesa di S. Anna da Giuseppe Zimbalo, nel 1764 venne restaurato da Emanuele Manieri, per volontà del vescovo Alfonso Sozy-Carafa. La struttura venne ingrandita e il breve prospetto, arretrato in una corte fiancheggiata da muri dell’omonima chiesa e del palazzo De Simone, fu riccamente ornato. Per la chiesa, Zimbalo elaborò una facciata due ordini animata da statue senza volute di raccordo e con timpani triangolari, sull’esempio di quella della cattedrale che aveva costruito quindici anni prima, e coprendo l’unica navata rettangolare con un soffitto piano rivestito di legno con gli stemmi angolari delle famiglie nobili alle cui donne era accordato il privilegio dell’ingresso nel Conservatorio. Gli scudi araldici si ripetono anche sulle quattro colonne dell’altare maggiore. E ai lati dello stesso altare sono poste le targhe epigrafiche dei due fondatori dei luoghi pii, Bernardino Verardi e Teresa Paladini sormontati dai rispettivi ritratti, nei quali Teresa pare guardare verso il consorte ritratto nella posa di primo cittadino di Lecce.

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Nel panorama degli istituti pii della città e della provincia, il conservatorio Sant’Anna si posecostituì quale risorsa fuori dagli standard ponendosi a disposizione delle donne del patriziato locale a cui si offriva non come soccorso materiale a cui ricorrere in momenti di difficoltà economica, quanto piuttosto come presidio morale, come luogo di sosta in un passaggio complicato della propria vita. Particolarmente interessante infatti è il riferimento alle donne “malmaritate”: è noto che in un contesto aristocratico – dove era norma che le unioni matrimoniali fossero decise dalla famiglia e non dai soggetti coinvolti, più simili a dei contratti d’affare tra i casati – potesse accadere, soprattutto in assenza di prole, che i coniugi faticassero a dare senso a una convivenza rivelatasi tanto penosa da divenire insopportabile. Ne è stato un esempio Isabella Castriota Scanderberg, nobile letterata del ‘700.

L’idea percorsa dal Conservatorio è quella di creare uno spazio femminile convenientemente protetto e confortevole, assai simile a quello di una residenza signorile. Teresa Paladini fa dunque edificare un posto che, per la sontuosità dei fregi e per la ricercatezza degli arredi, ricalcasse la ricchezza degli ambienti domestici di provenienza delle ospiti e dove sarebbe stato possibile per loro, ciascuna all’interno dei propri quartini, ossia un piccolo appartamento che permettesse di conservare i propri agi di vita, ma anche entrare in confidenza con donne del proprio rango, prendersi cura di sé avendo la possibilità di applicarsi alle occupazioni che più erano di loro gradimento: certamente pregare e praticare le “arti donnesche”, ma anche, a seconda dell’età e delle inclinazioni, istruirsi nel leggere e nello scrivere, esercitare la musica e il canto, e magari apprendere nuovi saperi. Un anno fa usciva “La sposa del chiostro” il romance di Sara Foti Sciavaliere. Un romanzo avvincente ambientato in Terra d'Otranto, principalmente a Lecce con qualche incursione a Gallipoli, a cavallo tra XVIII e XIX secolo. Le vicende dei protagonisti si inseriscono nel contesto storico che scaturisce dal burrascoso periodo repubblicano del 1799 fino alla cacciata dei francesi nel maggio 1802 - quando appunto Virginia metterà piede fuori dal monastero di San Giovanni Evangelista - , per poi assistere al ritorno del governo napoleonico nell'epilogo del romanzo, con un inaspettato colpo di scena.

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ma che caldo fa Stefano Quarta

Aspettando la giornata della Terra il prossimo 22 aprile, un segno importante la creazione del Ministero per la transizione ecologica

i Luoghi della parola

Una branca dell’economia è data dall’Econometria, che si occupa delle verifiche empiriche della teoria economica. In pratica verifica, utilizzando metodi quantitativi (matematico-statistici), che la teoria valga effettivamente nell’economia reale. Schematizzando, gli economisti si occupano della teoria, gli econometrici la verificano (e i consumatori si occupano della pratica). Una delle tantissime tecniche econometriche è il Data Envelopment Analysis (DEA), col quale si stima l’efficienza di un gruppo di unità produttive prese in esame. Le unità produttive, per essere tali, utilizzano una serie di input per produrre uno o più output. Ad esempio, un’impresa siderurgica produce acciaio utilizzando il minerale ferroso, scarti di acciaio e i macchinari necessari. Quindi, applicando il DEA al settore siderurgico, si analizzano gli input e gli output di tutte le aziende siderurgiche esaminate, ricombinandoli molte volte fino a “trovare” le combinazioni migliori. Tali combinazioni prendono il nome di frontiera empirica delle possibilità produttive. Si tratta del limite di efficienza

oltre il quale è ragionevole pensare che non si possa andare. Pertanto, la distanza di ogni singola impresa dalla frontiera è la misura dell’inefficienza. In Figura 1 si può vedere come l’inefficienza possa essere intesa in termini di output non prodotto a parità di input utilizzati (distanza verticale) o in termini di input sprecati dato un certo output prodotto (distanza orizzontale).

Figura 1 Esempio di frontiera delle possibilità produttive secondo la metodologia DEA e rappresentazione dell'inefficienza.

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Figura 2 Anomalie climatiche (fonte: video Nasa).

Il DEA nasce nel 1978 da un articolo di Charnes, Cooper e Rhodes. Negli anni la tecnica si è ovviamente evoluta e nuove varianti sono state introdotte. Ma solo nei primi anni 2000 si pensò di includere la variabile ambientale, giungendo quindi ad una formulazione di ecoefficienza. In particolare, si incluse un output cattivo, inevitabilmente prodotto insieme all’output desiderabile. L’output cattivo può essere, per esempio, la CO2. L’introduzione dell’output cattivo può, in alcuni casi, stravolgere la classifica di efficienza delle imprese. Si scopre, a volte, che le imprese più efficienti traggono il loro vantaggio dallo sfruttamento dell’ambiente. Nulla di sconvolgente, eppure questa sensibilità al tema è piuttosto recente. Per decenni si è dato per scontato che l’ambiente fosse tanto forte da sopportare qualunque livello di inquinamento. Negli ultimi anni, però, è divenuto sempre più evidente quanto questo assunto fosse sbagliato. I cambiamenti climatici sono ogni anno più evidenti e la colpa non può che essere nostra. Nella Repubblica dei 67 governi in 78 anni, piace rinnovare. Ma è un rinnovamento apparente. In statistica si chiamano permuta-

zioni, quando cioè gli elementi rimangono gli stessi e quello che cambia è solo l’ordine. Come routine che è l’anagramma di unitore. Questa volta si è deciso di affidare le sorti del Paese ad uno degli italiani più apprezzati in tutto il mondo, colui che, con tempismo perfetto, permise alla BCE di acquistare i titoli di stato dei Paesi europei in difficoltà, permettendo una generale riduzione dei tassi di interesse pagati dagli stessi. In particolare, ci piace pensare che quel gesto, benché obiettivamente necessario, sia nato da un patriottico dispiacere per le sorti del suo stesso Paese. È troppo presto per formulare qualsiasi giudizio sul governo Draghi, perciò mi limiterò ad augurargli buon lavoro, nonostante le evidenti difficoltà che un governo così eterogeneo si troverà ad affrontare. Un aspetto, tra i vari, è stato molto enfatizzato: la creazione del Ministero per la transizione ecologica. In realtà questa scelta si colloca nel solco di un rinnovamento green che prende spunto molti anni fa. In Italia, la mentalità sta cambiando velocemente. Non siamo il Paese più all’avanguardia nel campo dell’innovazione ecologica, ma non siamo nemmeno insensibili al

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tema, ma il tempo è praticamente già scaduto, perciò occorre fare ancora più in fretta. Un video della Nasa del 2019 mostra, con un impressionante colpo d’occhio, il progressivo riscaldamento globale. Colpiscono due decise accelerazioni, una negli anni ’70, in cui iniziò un diffuso (seppur contenuto) aumento climatico; la seconda a cavallo tra gli anni ’90 e 2000, durante il quale l’emi-

sfero boreale ha visto un aumento delle temperature ben più consistente che nel passato (in Figura 2 vi è il frame dell’ultimo dato disponibile nel video di cui sopra).Come si può vedere, l’aumento colpisce tutti i Paesi, Italia compresa. Secondo i dati Istat, nel 2019 si è registrato un aumento medio della temperatura (tra le città capoluogo di regione) rispetto alla media del periodo 1971-2000 pari ad 1,42 gradi. Vuol dire che fa più caldo di quasi un grado e mezzo. Può sembrare poco,

ma non lo è affatto, perché questo è solo il valore medio. In Tabella 1 possiamo vedere come Perugia, Milano e Roma abbiano registrato aumenti oltre i 2 gradi. In Tabella 1 possiamo vedere anche come siano aumentate le temperature minime e quelle massime, evidenziando un aumento degli eventi estremi. Nelle ultime quattro colonne vi sono i giorni e le notti calde e fredde. L’Istat definisce le notti calde come il numero di giorni in cui la temperatura minima giorna-

i Luoghi della parola

Tabella 1 Anomalie climatiche (fonte Istat).

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liera è superiore al 90° percentile; i giorni caldi invece come il numero di giorni nell’anno con temperatura massima giornaliera > 90° percentile; specularmente per le altre due definizioni. In pratica a Roma, nel 2019, ci sono stati 142 giorni in più rispetto al passato in cui la temperatura massima è stata tra le più alte del periodo di riferimento. Guardando i dati possiamo vedere come in quasi tutte le città si registrino molti più picchi, sia freddi che (soprattutto) caldi. È il cambiamento climatico! Estati sempre più calde, inverni che possono mostrare giornate insolitamente fredde ed una temperatura che mediamente sale. Questa maggiore temperatura si traduce in un’energia maggiore presente nell’atmosfera, la quale può più facilmente generare eventi climatici estremi come tornado, uragani, bombe d’acqua e alluvioni. In tutto ciò l’interesse economico ha giocato il ruolo fondamentale di fattore scatenante. Se non fosse stato per la necessità di fatturare di più senza curarsi della ricaduta ambientale non si sarebbe arrivati a questo punto. Se 70 anni fa si fosse inserito nei bilanci la ricaduta ambientale, sicuramente oggi ci ritroveremmo in una situazione migliore. Nel 1997 fu siglato il protocollo di Kyoto con cui gli Stati ammettevano un nesso tra le emissioni umane di gas

serra e il cambiamento climatico. Per avere l’entrata in vigore del trattato si dovette attendere il 2005. Tra le varie misure fu istituito un meccanismo di permessi di emissione, attribuiti ai vari Paesi e ai vari settori produttivi secondo le emissioni storiche. In pratica, siccome le imprese siderurgiche avevano tradizionalmente emesso molta CO2, gli si attribuì il diritto di continuare ad emettere più degli altri, sebbene limitandone il quantitativo totale. Fu messo in campo un meccanismo di compravendita di questi diritti di emissione, per cui le imprese più virtuose vendevano una parte dei propri diritti inutilizzati alle imprese meno virtuose che, quindi, pagavano per continuare ad emettere più CO2 del dovuto. Si trattava di un sistema rudimentale che tendeva a limitare la sola quantità complessivamente prodotta e negli anni si cercò di affinare il sistema. Ma negli anni ’90 la cultura di massa prevedeva ancora la libertà di gettare mozziconi e cartacce per strada senza il minimo peso morale del gesto. Perciò, contestualizzando quel trattato, fu un enorme passo avanti. Assolutamente anacronistica fu invece la decisione di Trump di uscire dall’Accordo sul clima di Parigi. Ed infatti Biden ha rimediato non appena insediatosi. Perché oggi sappiamo che non è più sufficiente pagare per emettere, è troppo tardi. È tardi per pagare un accetta-

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bile prezzo economico. Ad oggi, dobbiamo iniziare ad entrare nell’ottica di dover pagare un prezzo economico maggiore. Se avessimo agito 70 anni fa, forse sarebbe bastato aumentare i prezzi dei prodotti di una piccola percentuale, il 3-5%. Oggi invece potremmo dover accettare rincari ben maggiori. Pensiamo all’immane ricaduta ambientale di mostri industriali come il polo siderurgico tarantino. Lì, per decenni , l’ambiente è stato messo da parte. Ma possiamo pensare anche a realtà meno conosciute come la Caffaro nel bresciano. Un’impresa chimica che ha sversato per un secolo mercurio, diossine, tetracloruro di carbonio ed altre sostanze altamente inquinanti. Ad oggi si stimano dei costi di bonifica di 85 milioni di euro, a fronte di un fatturato annuo (dichiarato sul sito della stessa impresa) di 55 milioni di euro. Concludo con l’augurio che l’istituzione di un apposito Ministero sia quel primo passo necessario verso un approccio globale all’etica ecologica che vada oltre la mera logica degli eco-incentivi. Perché, come ho spiegato in passato, gli incentivi servono per invogliare i consumatori a fare in autonomia le giuste scelte, senza imposizioni; ma è anche vero che gli incentivi hanno bisogno di tempo per far vedere i propri frutti e, in questo specifico ambito, il tempo è finito.


destiny ride il nUovo singolo di mozez Pensiero e unità cosmica nel nuovo brano del musicista giamaicano Il destino cavalca sulle grandi ruote del tempo, continua a muoversi, muoversi. Fai un passo fuori, esci per farti un viaggio nel sentimento: è il sentimento che dà senso alla vita". Canta così Mozez nel suo nuovo brano, Destiny Ride, una profonda riflessione sul senso della vita che si srotola al ritmo serrato di un basso ostinato. Ritorna il desiderio di unità cosmica, ricongiungendo uomo e Universo, superando i confini della Terra, immaginando un futuro oltre le galassie dove eternità e immortalità sembrano essere la missione rivoluzionaria della nuova Umanità. Da una parte osservare i moti degli astri potrebbe essere la ricetta per vincere l'odio, il rancore e la rabbia in un progetto di riconciliazione con il tutto; dall'altra Mozez ci riporta con i piedi per terra, chiedendoci di uscire dal nostro egoismo e ritrovare i sentimenti . spirato musicalmente da artisti quali The Carpenters, Marvin Gaye, Coldplay e, più recentemente, Fat Freddy’s Drop , nei testi Mozez scava decisamente nel profondo. Figlio di un predicatore giamaicano, Mozez inizio’ la sua carriera in Giamaica nel 1987 , cantando in tournee’ come membro del gruppo gospel , Channel of Praise. Il 1994 lo ha visto esibirsi come cantante nella famosa dance band Spirit. Durante la sua importante esperienza artistica con gli Zero 7 insieme a Sia, Sophie Barker e Tina Dico, Mozez ha avuto l’occasione giusta per costruire una solida fanbase. Nel 2006 esce il suo primo album da soli-

sta, So Still . Nel 2010 crea la sua etichetta, Numen Records e nel 2011 pubblica il suo primo album di remixes, Time Out. Tra il 2012 e il 2016 Mozez è impegnato nella stesura di canzoni, registrazioni e tournée con il dj producer inglese Nightmares on Wax, con cui si esibisce occasionalmente dal vivo. Durante questo periodo produce il suo secondo album da solista Wings, pubblicato nel 2015 sempre per Numen Records. Nel 2017 esce Dream State, album di remixes. Nel giugno 2020 è uscito il singolo “Looking At Me”. Il 23 ottobre 2020 arriva con un secondo singolo “That’s Crazy”, nel quale condivide pensieri ed esperienze personali ampliando la sua percezione di ciò che, secondo lui, sta realmente accadendo nel mondo, ed esprimendo il concetto di base che Dio è l’origine di ogni cosa e ha donato a tutti amore, energia e pace. www.mozez.co.uk https://www.facebook.com/MozezMusic

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premio nazionale delle arti mUsica e architettUra La premiazione a Lecce nel complesso dell’ex Ospedale dello Spirito Santo sede della Soprintendenza Il clarinettista Michele Fabbrica (Conservatorio Bruno Maderna di Cesena), la flautista Arianna Picci (Conservatorio Tito Schipa Lecce), l'oboista Jacopo di Gennaro (Conservatorio Francesco Antonio Bonporti di Trento), il saxofonista Francesco Marinotti (Conservatorio Niccolò Piccinni di Bari) e il fagottista Enrico Bassi (Conservatorio Arrigo Boito di Parma) sono i cinque vincitori della sezione "Strumenti a Fiato - Legni" della quindicesima edizione del Premio Nazionale delle Arti. L'importante iniziativa, promossa dal Ministero dell‘Università e della Ricerca, si è svolta in questi giorni a Lecce grazie all'impegno del Conservatorio di Musica “Tito Schipa” che, nonostante le difficoltà logistiche legate alle restrizioni da Covid19, ha organizzato una tre giorni di musica ospi-

tando 31 giovani musicisti e musiciste selezionati dai Conservatori di tutta Italia. Dopo le semifinali di venerdì 5 e sabato 6 nella Cavea del Conservatorio, domenica 7 marzo nella chiesetta dell'Ex Ospedale dello Spirito Santo, sede leccese della Soprintendenza archeologia, belle arti e paesaggio, si sono esibiti questi cinque musicisti risultati i migliori per ogni strumento (clarinetto, flauto, oboe, saxofono e fagotto) in concorso. La commissione - presieduta da Andrea Manco (primo flauto dell’Orchestra del Teatro alla Scala di Milano) e completata da Raffaele Giannotti (primo fagotto dell’Orchestra Filarmonica di Monaco di Baviera) e Carmine Pinto (direttore d’orchestra e primo corno dell’Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma), ha inoltre assegnato una menzione particolare al giovanissimo oboista Jacopo di Gennaro. Il quattordicenne originario di Roma e studente del Conservatorio di Trento, appena possibile, tornerà a Lecce, ospite con un suo concerto di una delle rassegne promosse dal "Tito Schipa". Accompagnati al pianoforte, i cinque giovani strumentisti hanno presentato alla commissione una composizione obbligatoria e un repertorio libero della durata di circa 20 minuti. Purtroppo nel rispetto delle attuali norme e restrizioni anticovid 19 le semifinali e la finale sono state a porte chiuse, senza pubblico esterno.

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Dante Alighieri in un ritratto di Henry Holiday

dante 700 nel mondo le iniziative della farnesina

In streaming dalla Sala Conferenze Internazionali sul canale youtube. del Ministero Esteri

Nel 2021, anno in cui ricorre il settimo centenario della scomparsa di Dante Alighieri, il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale partecipa alle celebrazioni previste in tutto il mondo con una serie di iniziative che coinvolgono la rete delle Rappresentanze all’estero: Ambasciate, Consolati e Istituti Italiani di Cultura. Il programma, che prende avvio a marzo anche in vista della ricorrenza del Dantedì del 25, durerà fino all’autunno e all’appuntamento con la XXI Settimana della Lingua Italiana nel mondo (18-24 ottobre), anch’essa dedicata al Poeta (“Dante, l’italiano”). Il ricchissimo programma che vede più di 500 eventi organizzati in tutto il mondo attraverso la rete delle Ambasciate e degli Istituti Italiani di Cultura sarà presentato, tra gli altri, dai rappresentanti del MAECI e da Andrea Riccardi, Presidente della Società Dante Alighieri; Claudio Marazzini, Presidente dell’Accademia della Crusca; Angelo Piero Cappello,

Direttore del Centro per il Libro e la Lettura del Ministero della Cultura; Carlo Ossola, Presidente del Comitato per le celebrazioni di Dante; Giorgio Bacci, Curatore della mostra “Dante Ipermoderno” che vede lavori di artisti contemporanei italiani e internazionali tra cui un’opera in fieri di Mimmo Paladino; Alberto Casadei, Curatore dell’importante progetto dell’Audiolibro realizzato in trentatré lingue dal titolo “Dalla selva oscura al Paradiso”; Marco Martinelli e Ermanna Montanari, ideatori della rappresentazione “Dante nei cinque continenti”; Roberto Rea, nella commissione di valutazione del progetto/bando di arte contemporanea “Cantica21” e dalla scrittrice Bianca Garavelli che presenterà l’installazione multimediale “Inferno 5”. Modera la linguista Lucilla Pizzoli. L’appuntamento in streaming: mercoledì 17 marzo a partire dalle ore 10 alle ore 11.30 su youtube.com/MinisteroEsteri

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700dantefirenze.it Un portale per restare connessi

Dopo l’istituzione a partire dal 2020 torna il Dantedì fissato il 25 marzo, giorno dell’inizio del viaggio di Dante nell’aldilà. L’iniziativa che vede la celebrazione di Dante e della sua opera in Italia e nel mondo, lo ricordiamo, e istituita dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo, è nata da un’idea del giornalista del Corriere della Sera Paolo Di Stefano e di Francesco Sabatini, presidente onorario dell’Accademia della Crusca, che ha coniato il termine. Dante nacque a Firenze nel 1265 e fu uomo del suo tempo, il Medioevo. Borghese che sogna di far parte del mondo della nobiltà, inizia a percorrere i bui corridoi della politica dove gli ideali e i valori si infrangono di fronte agli odi di partito ed alla corruzione in cui versava la Chiesa romana, in continua lotta col potere temporale. Diventa cavaliere e poi priore e si batte per Firenze, la sua città, che è costretto a lasciare a seguito dei processi politici. Nel suo vagabondare da esiliato scopre l’incredibile varietà umana e geografica dell’Italia del Trecento, ma in tutto questo girovagare non dimenticherà mai Firenze. Nel 2021 più di trenta istituzioni fiorentine – riunite in un Comitato Organizzatore coordinato dal Comune di Firenze con il supporto di

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MUS.E – hanno deciso di raccontare la storia di Dante e della sua Firenze attraverso eventi digitali e non: conferenze, giornate di studi, eventi e mostre aperte al grande pubblico in un programma denso e di grande interesse. Purtroppo la pandemia ancora in atto sta condizionando lo svolgimento della manifestazione. Ancora non è dato di sapere se la lectura Dantis con Paolo Procaccioli, noto studioso della lingua dantesca, programmata dalle Gallerie degli Uffizi presso l’Auditorium si potrà svolgere in presenza o sarà trasmessa in streaming. Così come le visite guidate a tema dantesco in costume d’epoca all’interno del Museo Casa di Dante, il cui allestimento, rinnovato di recente proprio per dare avvio alle celebrazioni dantesche, offre la possibilità di compiere un “viaggio” multisensoriale tra stanze immersive, video mapping e realtà virtuale, per entrare in contatto con l’autore della Divina Commedia; Tra le mostre segnaliamo “Dante. La visione dell’arte”, organizzata a Forlì, nei Musei San Domenico, in programma dall’1 aprile all’11 luglio, la Fondazione Cassa di Risparmio di Forlì e le Gallerie degli Uffizi racconteranno a 360 gradi la figura del Sommo Poeta. www.700dantefirenze.it/

I luoghi nella rete

Una miriade di eventi per le celebrazioni del 7° centenario di Dante. Sul sito web dedicato sarà possibile scoprire dove e quando


canone teatro Giovanni Bruno

Le riflessioni dello psicologo psicoterapeuta

I LUOghI DELLA PAROLA

“ Noi moriamo soltanto quando non che è comunque parte integrante delriusciamo a mettere radici in altri “ lo spettacolo. La gestualità, i suoni, le voci degli attori risuonano nella menLev Nikolaevic Tolstoj te degli spettatori creando una intercorporeità che rappresenta la base In questi mesi di sofferenza pande- per la comprensione dell’azione scemica a molti di noi sono state inflitte nica. chiusure, interruzioni di attività legate Silvio D’Amico, grande critico teatraal teatro, al cinema, al circo agli artisti le, ha definito appunto il teatro come “ di strada che si esibiscono in piazze, la comunione di un pubblico con uno zone pedonali, strade. spettacolo vivente“. E ancora “ il TeaEppure queste forme d’arte ci nutriva- tro vuole l’attore vivo che parla e che no , avevano un alto valore simbolico, agisce scaldandosi col fiato del pubappagavano il nostro bisogno di blico”. intrattenere e definire rapporti sociali Tutta la storia della condizione umana attraverso la forma della rappresenta- è intessuta e costellata dalle rapprezione e della finzione ludica. sentazioni teatrali, nell’ Atene classica Tutto questo manca da molti mesi e i la tragedia era un genere teatrale succedanei, i surrogati che con la tec- molto vicino a una cerimonia di tipo nologia ci sono venuti in soccorso religioso, con una fortissima valenza non hanno tuttavia riempito il vuoto sociale. Infatti tutto il teatro tragico e individuale che l’esperienza teatrale la commedia attica antica sono forteriusciva a ripianare. La teatralità infat- mente intramati da una dimensione ti è soprattutto immagine, atto del letteraria ma anche da una struttura vedere, si fa esperienza della visione, processuale tipica dell’agone giudicon la prevalenza dell’occhio sull’o- ziario. Erano dunque rappresentaziorecchio. Una rappresentazione tea- ni che servivano a canalizzare l’agtrale si svolge davanti a un pubblico gressività e la violenza, dove la con-

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L’attore Luca Toracca

tesa era regolata da atti e comportamenti uniformemente distribuiti dall’autore tra i vari personaggi. A ben riflettere lo stesso processo giudiziario è molto vicino a una vera e propria rappresentazione teatrale, dove la sequenza ordinata di atti giuridici serve a contenere lo stato psichico alterato dei contendenti e a individuare una sentenza giusta che è sempre giustizia degli uomini. Ma torniamo al teatro inteso come rappresentazione. Ciò che più manca in questo periodo calamitoso è il tempo teatrale con il suo spazio narrante. Infatti i tempi teatrali prendono il sopravvento sul tempo individuale, a teatro come al cinema c’è in ognuno di noi una cesura, distanziamento dalle coordinate quotidiane, un coinvolgimento nella trama che si traduce in una esperienza transitoria unica in cui si incontrano il tempo dell’esecuzione con quello della fruizione (Peter Handke). Il teatro è ciò che avviene in scena, le inquietudini i disagi le ambivalenze dei personaggi possono rimandarci ai nostri vissuti che tuttavia riusciamo a guardare con il filtro della finzione scenica.

Possiamo allora dire che nel mondo teatrale tutto è legato alla psicologia, alle emozioni e ai sentimenti di ognuno. E’ come se la rappresentazione teatrale, ma la stessa cosa vale per il cinema, riuscisse a svolgere a sviluppare una nuova soggettività e lo spettatore è altro da sé proprio perché segue un flusso psichico lontano dalla sua esperienza. Edgar Morin arriva a dire che teatro e cinema costituiscono come una corrente di coscienza dove le energie affettive e mentali dello spettatore subiscono un travisamento e sono in grado di creare una nuova soggettività. Certamente sono esperienze transitorie che tuttavia possono aiutare colui che assiste allo spettacolo a decodificare i propri vissuti, re-interpretarli e comunque come dicevamo all’inizio a nutrire, alimentare il proprio spirito, la propria anima di contenuti nuovi così da rendere la vita il più larga possibile. A tale proposito esiste tutto un filone di ricerca legato agli aspetti terapeutici del teatro. Varie Scuole se ne servono costantemente, utilizzando laboratori teatrali dove la messa in scena delle emozioni può avere come risultato alte potenzialità di cambiamento. Un’ ultima notazione vogliamo riservarla a una esperienza personale che negli ultimi anni ci ha molto arricchito. Ci pregiamo di conoscere personalmente e di considerare un amico Luca Toracca. Toracca è cofondatore del Teatro Elfo Puccini di Milano, ormai considerato uno dei più importanti Teatri di rilevante interesse culturale. Bene, Luca Toracca è il vero actor, ossia colui che agisce in scena. Nella sua recitazione sono sempre coerenti gestualità e utilizzo della voce, sempre in grado di adattare la propria fisicità alle esigenze del personaggio. Ma in più Luca con la sua arte riesce a farci entrare in contatto con il proprio mondo interiore e questa è caratteristica solo dei grandi interpreti. Grazie Luca .


gli alieni dai grandi occhi di ana Bagayan Dario Ferreri

Un viaggio tra i luoghi e nonluoghi fisici ed emozionali dell'arte contemporanea

«Non ho particolari talenti, sono soltanto appassionatamente curioso»

" “Ho visto un disco volante, ho parlato con un marziano... 'nbeh, che è?!” Sergio Corbucci

CURIOSAR(T)E

Albert Einstein

A

na Bagayan, classe 1983, è una illustratrice americana di origini armene riconosciuta, a livello internazionale, tra le esponenti più note del pop surrealismo. All'età di 6 anni si trasferisce infatti con la famiglia da Yerevan, capitale dell'Armenia, nella popolosa Burbank, in California, dove inzia a coltivare la sua grande passione

per l'arte. Entra nell'Art Center College of Design di Pasadena ed in quegli anni segue lezioni, tra gli altri, dei fratelli Clayton, di Alex Gross e di altri artisti del firmamento Lowbrow/Pop Surrealista, che segnano profondamente il suo stile e la sua poetica. Consegue quindi il titolo di Bachelors of Fine Arts in Illustration ed inizia la sua carriera lavorando come

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Ana Bagayan, Space baby or Hybrid baby

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CURIOSAR(T)E

Ana Bagayan, Undersea moon

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Da destra: Ana Bagayan, Homogalacticus with two hearths e Prehistoric hybrid

illustratrice per agenzie pubblicitarie, marchi e riviste quali Spin, Rolling Stone, Publicis Mojo, Diesel, Honda, Mighty Fine, Sydney Symphony, Young Guns, Crispin Porter & Bogusky, Saatchi & Saatchi, Weiden & Kennedy London, GQ, Men's Health e SONY BMG tra gli altri sino a divenire una artista di fama internazionale. Ana Bagayan attualmente vive e lavora nell'assolata California del Sud con suo marito e due cani. Quando non dipinge, si diverte a realizzare webcomics e si allena nel Krav Maga. I suoi epigoni di riferimento, oltre ai grandi maestri d'arte del passato, tra tutti Leonardo da Vinci, sono stati e sono molti artisti contemporanei dei filoni lowbrow/pop surrealism come Chris Berens, Eric Fortune, Dave Coo-

per ed altri di volta in volta storicamente vicini alla sua sensibilità ed evoluzione artistica. Secondo la migliore tradizione lowbrow, i soggetti delle sue creazioni sono strani e dolci personaggi fanciulleschi inseriti in contesti dissonanti, spesso alle prese con curiosi o strani oggetti, animali o creature, loro confidenti; nell'ultimo decennio i protagonisti indiscussi delle sue creazioni sono spesso eterei extraterrestri, alieni, spiriti, fantasmi, creature spaziali intergalattiche e qualsiasi cosa che alluda all'idea che siamo solo una piccola parte dell'inimmaginabile vastità dell'Universo. Da un punto di vista iconografico, le opere di Ana Bagayan, sono caratterizzate dai "Big Eyes": occhi spropositatamente grandi dei

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Ana Bagayan, Little blue starsees

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Ana Bagayan, Death's kneell

soggetti rappresentati, occhi grandi che trasmettono emozioni ma che al contempo ricercano empatia con l'osservatore. L'artista nei suoi lavori fonde la realtà con la fantasia, realizzando esiti figurativi imprevisti in un carosello di gioco e atmosfere sinistre, di innocenza e malvagità, di esteticamente gradevole ed inquietante. Ogni sua opera, sia essa semplicemente ritratto o scena articolata, narra una storia che spesso è lasciata intravedere da piccoli particolari, che talvolta possono sfuggire ad una analisi superficiale dell'immagine. È questo il motivo per cui l'artista piace ad un grande pubblico. Su Facebook annovera circa 280.000 follower (https://www.facebook.com/AnaBagayan/). Espone da oltre un decennio i suoi dipinti originali in tutto il mondo (dalla galleria La Luz de Jesus di Billy Shire a Los Angeles alla galleria Hidari Zingaro di Takashi Murakami a Tokyo), Italia compresa, nelle gallerie del circuito lowbrow/pop surreal. Ha ricevuto numerosi premi dall'American Illustration and Communication Arts Awards, oltre al Gold Ozzie Award, al SILA e all'Eckersleys Award. Per conoscere meglio e seguire l'artista, il riferimento è il suo sito web http://anabagayan.com/ o i social media.

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La iiblioteca di San Cesario di Lecce

liBri in Bici. così la BiBlioteca raggiUnge i piccoli lettori

Il servizio adottato dalla Biblioteca di San Cesario è stato accolto con grande entusiasmo soprattutto dai bambini ai quali i libri vengono recapitati a casa direttamente dalla bibliotecaria in sella a una bici colorata.

I luoghi nella rete

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onostante la zona rossa la biblioteca comunale di San Cesario di Lecce (via Vittorio Emanuele II) resta aperta nei suoi consueti orari e continua a consegnare libri ai suoi lettori continuando a viaggiare in bici per arrivare a casa di chi li aspetta! La biblioteca è stata qualificata, i suoi ambienti sono stati resi più funzionali e accoglienti, ricavando anche un’area dedicata ai bambini, destinata alla promozione della lettura per i più piccoli. Inoltre la biblioteca è ora dotata di un imponente patrimonio librario, con tutti le più recenti novità di

narrativa e una speciale sezione dedicata ai bambini e con sei postazioni per la lettura. In attesa che si possa ritornare alla normalità, resta attivo il servizio “Libri in bici” il servizio offerto dal Comune di San Cesario per tutti i cittadini per fronteggiare le difficoltà legate all’emergenza sanitaria che purtroppo ha sconvolto i ritmi della vita quotidiana. “In questo momento in cui ognuno di noi ha dovuto abbandonare alcune abitudini – dice il sindaco Fernando Coppola - noi abbiamo cercato di non far perdere ai nostri concittadini quelle più buone,

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riadattandole. Infatti la nostra bibliotecaria porta, in sella a una bellissima bici colorata, i libri direttamente a casa di chi inoltra la richiesta. L’iniziativa è stata accolta con entusiasmo, soprattutto dai bambini che sono felici di vedersi recapitare a casa il libro da loro scelto. Io credo che dai bambini passi tutto il nostro futuro. Lavorare in prospettiva per un paese significa lavorare per loro. Ritengo conclude il primo cittadino – che la cultura sia ingrediente indispensabile per favorire, non solo la crescita intellettuale dei piccoli, ma anche quella emotiva e, considerando che i bambini di oggi sono gli adulti di doma-

ni, è dovere del sindaco contribuire alla loro formazione”.Basta consultare il sito www.bibliando.it, scegliere il libro e inviare la richiesta tramite un messaggio al numero 3334681107 o alla pagina fb o all'indirizzo email bibliotecasancesario@gmail.com e prenotando il servizio il libro verrà consegnato direttamente a casa in assoluta sicurezza, nel rispetto delle norme antiCovid in giorni e orari da concordare. E prosegue il contest fotografico sulle pagine social, basta inviare una foto unica che abbia come protagonisti i libri presi in prestito in biblioteca, naturalmente.

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schegge di virUs Giovanni Bruno

Le riflessioni dello psicologo psicoterapeuta

“Tutta la vita che non stiamo vivendo in mezzo alla imperfezione e di più, per non rischiare di morire “. dove c’è disequilibrio tossico c’è vita A. Baricco deteriore. Deteriore per noi umani. La parresia, la verità del nostro tempo è questa. Il termine parresia è stato usato per la Tutto dunque è incertezza e precarietà. prima volta da Euripide nel V secolo Abbiamo appreso che l’esistenza è a.c., il grande tragico greco lo utilizzò anche questo. Non c’è una sicurezza per indicare una nuova virtù: quella di per tutto. Forse è così da sempre. È dire sempre la verità, con coraggio e stata la società occidentale che ha senza infingimenti. messo ogni singolo individuo al riparo Dunque la parresia ci ha insegnato, dall’angoscia del nulla. dolorosamente, ad affrontare il mondo Ma dove ci porterà tutto questo ? Non lo a mani nude. È ciò che è successo col sappiamo con precisione e le risposte virus. Niente è più garantito. L’esisten- sono molte e ambivalenti. za, nella vita di prima, era preordinata, Sappiamo intanto che la ferita inferta è irreggimentata in un perimetro cono- stata profondissima , perché la pandesciuto , dove certamente c’erano vicis- mia ha sdoganato il remoto, il non poter situdini e traversie, ma tutto era catalo- accogliere il presente, ha fatto evaporagato, indagato, studiato. Per tutto, o re la consapevolezza della propria intequasi tutto, le soluzioni portavano a grità. mappe cognitive ed emotive. Adesso Tutti, in modo diverso ne sono stati colscopriamo che la mappa non è più il ter- piti. Pensiamo all’infanzia, all’adoleritorio. Il territorio ci è estraneo, si scenza, alla prima giovinezza. disvela una realtà nuova: la Natura non L’adolescente per esempio ha bisogno è perfetta, ma tutto è un gioco di rima- di stupore, ha bisogno di affacciarsi sul neggiamenti e l’essere umano si trova mondo con la meraviglia della prima

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Foto di Piyapong Saydaung da Pixabay

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I luoghi della parola

volta, che non può trovare fra le mura domestiche, dalle quali cerca invece di scappare. Il giovane ha perso lo slancio ideativo tipico della sua età, la clausura non lo ha liberato dall’egoismo dell’io. E se già il matrimonio è una scuola di resistenza, la convivenza continuativa ha spesso acuito le asprezze dei caratteri e la compresenza di emozioni e sentimenti contrastanti. L’anziano poi è stato dominato dalla angoscia di perdere il proprio spazio vitale fatto di rituali, di incontri che sono per lui identità, partecipazione e riconoscimento. In tutta questa precarietà solo due elementi hanno dominato: l’algoritmo e la solitudine . Il pensare è stato delegato ai vari devices che hanno elaborato informazioni. Dove tuttavia non c’è orizzonte affettivo, ma solo frastuono e sensazione di congenita disappartenenza. La solitudine infine è diventata il valore massimo, ci si salva solo così, perché solo in questo modo ci si sente iperallertati e iperprotetti di fronte alla minaccia virale. È possibile, adesso, sondare altre lunghezze d’onda? Aspettarsi il meglio è già un buon inizio .Ma forse non basta. Come dare allora sostanza a un discorso di resistenza interiore ? Una consulenza filosofica ci restituisce forse uno spunto di riflessione. Aretè significa virtù. Parlare di virtù vuol dire parlare di ciò che rende la vita umana degna di essere vissuta. Vivere insomma da essere umano, con le proprie capacità e con i propri limiti. Ispirandosi sempre a tre criteri fondativi: il bene, il bello, il giusto. Ne discende la necessità per ognuno di noi di essere migliori, sempre e più di prima, solo in questo modo avremo accesso alla phronesis, che è il sentire dentro la scelta giusta da fare. Cosi naturalmente. “Sta’ buono, sta’ più calmo, mio Dolore”. Charles Baudelaire


©Emilie Brouchon

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Mariangela Rosato

Per i Luoghi nella rete Arte e Luoghi varca le Alpi e arriva nella Villa Lumière per incontrare protagonisti del mondo della Cultura

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arigi, o cara noi lasceremo. Inizia così una delle arie più celebri della Traviata di Giuseppe Verdi con cui Alfredo e Violetta esprimono la volontà di abbandonare i lustrini, le trasgressioni, i lussi della ville Lumière per andare incontro ad una vita sanifica nelle campagne parigine. L’abbandono invocato dai due innamorati vuole essere drastico, deciso, pronto ad accogliere il cambiamento e senza possibilità di ripensamenti. Un desiderio di conquista quello dei due protagonisti che, nonostante il fine tragico, permea tutto il loro spirito facendo dei corpi un’unica coscienza animata da una sola idea fissa: partire. Ma loro non sono gli unici ad aver osato nel pensiero: un sentimento analogo lo ritroviamo anche altrove, nei cuori di chi decide, spinto dalla stessa voglia di scoperta e conquista di nuovi spazi, di lasciare il Bel Paese proprio alla volta di quella Parigi a cui i personaggi dell’opera verdiana volevano rinun-

ciare. Il percorso prevede un cammino contrario che contempla la capitale francese come un punto di partenza da cui creare, immaginare e, nel bene e nel male, farsi inspirare. Sì, perché in fondo, checché se ne dica, il passaggio da Parigi non è mai indolore, anzi genera in noi emozioni contrastanti, sfata e conferma miti, ci rende consapevoli di essere figli di un’identità multipla, ci offre occasioni per farci ispirare, metterci in gioco, farci e disfarci per ricrearci ancora e ancora. Parigi non è la città dell’amore, anzi è un enorme agglomerato urbano che forse la pandemia ha reso più tranquillo e vivibile e dove molti dei nostri connazionali cercano di trovare o hanno già trovato un loro spazio: laureati, ristoratori, persone in cerca di un’opportunità, ma soprattutto artisti che arrivano in questa città guidati dal desiderio di far conoscere la loro arte. Ed é proprio così che ha fatto Cristina Marocco, cantan-

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I luoghi nella rete | un italiano a Parigi

voyage tra l’italia e la francia intervista a cristina marocco


La cantante Cristian Marrocco

te e attrice, che vive a Parigi da più di vent’anni e che é riuscita ad appropriarsi della cultura francese facendo della sua italianità un punto di forza. Mi racconta Cristina: “Ciò che mi ha portato in questa città è stata la voglia di allargare i miei orizzonti. Dopo il diploma all’Accademia dei filodrammatici di Milano in teatro, ho iniziato a lavorare in Italia nei teatri stabili come attrice, ma ho provato, fin da subito, una sorta di delusione. Quando sono arrivata a Parigi ho sentito che fosse il posto giusto per me, perché mi rendevo conto che c’era una maggiore considerazione per gli artisti. Appena arrivata, non conoscevo nessuno ed iniziai a cantare in un ristorante italiano e fu così che mi successe una cosa che non avrei mai immaginato. Una sera un produttore discografico mi invitò ad andare nel suo studio di registrazione, a registrare dei demo e, da lì, è cominciata un’avventura che mi ha portato ad incidere un primo disco con Marc Lavoine, un cantante e attore molto conosciuto in Francia”. A causa delle restrizioni pandemiche conosco Cristina solo al telefono, ma la sua storia mi incuriosisce fin da subito e non posso frenarmi dal chiederle come ha gestito questo successo inaspettato: “La canzone “J’ai tout oublié” divenne immediatamente una grande hit, un “tube” come direbbero qui, e ciò mi ha sottoposto ad una grande esposizione mediatica. Mi sono inserita, infatti, in un mondo che non avevo previsto di frequentare, quello dello show business e della canzone. All’inizio mi sentivo spaesata, ma è stata un’avventura bellissima che mi ha permesso di cantare davanti a migliaia di persone e di scoprire chi ero e chi potevo essere artisticamente”. Una carriera non scontata quella di Cristina che ha portato avanti affermandosi in Francia come cantante solista ed incidendo vari dischi. “Sono stati dieci anni di grande attività artistica durante i quali ho cercato anche di portare avanti la mia passione per la recitazione, in particolar modo, con la partecipazione, nel ruolo principale, in una delle puntate della famosa serie Montalbano”. Il confronto con Cristina conferma, inoltre, una mia percezione già radicata, quella

secondo cui la cultura italiana sia molto apprezzata all’estero, in particolar modo in Francia dove c’è un forte interesse nei confronti di tutto ciò che rimanda all’Italia. Un interesse questo, di cui non sempre si è consapevoli. “E’ vero che all’estero rimangono sempre i clichés che associano gli italiani alla pizza, al mandolino, ma i tempi sono cambiati e molti giovani italiani che vengono qui riescono ad imporsi facilmente in tutto ciò che è legato al mondo creativo e non solo. Parigi è una città cosmopolita e questo è sicuramente una forte fonte di ispirazione per tutti coloro che arrivano”. Passare da Parigi per un artista diventa, quindi, una tappa obbligata, non tanto per l’incontro con la cultura francese, quanto per la possibilità di entrare in relazione con artisti che vengono da ogni parte del mondo i quali possono far scoprire realtà lontane che ancora non si sono vedute, ma che il semplice scambio vicendevole di tradizioni permette già di vivere e imparare a conoscere. “In Italia – sottolinea Cristina- ci sono tantissimi talenti, ma il nostro Paese, anche per mancanza di organizzazione, non investe adeguatamente su tutto ciò che è cultura e arte spingendo molti a tentare altre strade”. La cultura e la musica italiana continuano ad essere molto presenti nell’attività artistica della cantante in varie forme, sia come insegnante di canto in laboratori di italien chanté, sia come solista nel duo con Gabriele Natilla, un altro artista e musicista italiano espatriato a Parigi da più di 20 anni. “Abbiamo avviato un progetto insieme dal titolo Un air d’Italie, voyage aux origines de la chanson italienne con cui diamo spazio alla canzone classica napoletana. Dopo aver cantato in francese, infatti, mi sono chiesta cosa potessi offrire di veramente autentico e ho deciso di scegliere la canzone napoletana alla quale sono molto legata. Partiamo dall’800 e poi torniamo indietro fino al ‘600 con Monteverdi, Scarlatti e Barbara Strozzi”. I due artisti non si sono fatti fermare neanche dalle restrizioni legate al covid e hanno organizzato un primo concerto in streaming dal teatro Comédie Nation con lo scopo di portare in scena il loro spet-

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tare tutti gli spettacoli dal vivo. I politici, infatti, non hanno agito in difesa di questa eccezione culturale, anzi si sono comportati come i politici di qualsiasi altro paese e questo mi ha molto ferita”. Le restrizioni legate al covid sono sempre presenti e attualmente i teatri rimangono ancora chiusi, ma la cantante continua, con la stessa passione di sempre, a consacrarsi alla sua arte e a pensare a nuove idee artistiche tra cui il ritorno come attrice teatrale. Un grande talento quello di Cristina che speriamo di rivedere presto anche sul piccolo schermo italiano. www.cristinamarocco.com/

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I luoghi nella rete | un italiano a Parigi

tacolo e mantenere vivo il rapporto con il pubblico. Internet, quindi, permette di porre rimedio al problema dei teatri chiusi, ma al contempo crea una barriera tra lo spettatore e l’artista. Entrambe le categorie, infatti, risultano colpite drasticamente dalle chiusure dei teatri: la prima, perché si priva di un arricchimento personale e la seconda, perché non può fare della sua arte un sostentamento economico. “Ho provato per la prima volta un senso di spaesamento e che si fosse rotto qualcosa in Francia. “Le differenze con l’Italia restano comunque forti in Francia, ad esempio, l’artista, grazie alla figura dell’intermittente dello spettacolo, è tutelato in quanto ha sempre diritto a un sussidio di disoccupazione che gli permette di progettarsi, oltre che di vedere il suo lavoro riconosciuto. Si tratta di un unicum che fa della Francia la meta più amata dagli artisti, tuttavia ciò non ha impedito alla classe politica di chiudere tutti i teatri e di vie-


sUlle tracce del mistero di aramano Raffaele Polo

Lo studio di cartine antiche rivela luoghi leggendari che caratterizzano il Salento

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utto parte da questa cartina, e dalla iscrizione che è a corredo, come in tutte le carte geografiche di qualche seco-

I LUOghI DEL MSITERO

lo fa: ill.mo ac rev.mo domino d.fabio chisio episco neritonensi s.d.pp. Innocentii X, ad tractum rheni et infer. Germ.partes.ordinario, nec non, ad tractus generalis pacis monasterii, extraordinario, cum potestate de latere legati, nunzio, patrono suo colendissimo D.D.D. Joh. Blacu. Ebbene, proprio da questo semplice documento emerge, in tutta la sua evidente importanza, il mistero di Aramano. Ovvero di un luogo, con tanto di indicazione geografica che, improvvisamente scompare. E non se ne sa più nulla, come se potesse essere possibile cancellre un intero paese, dall'oggi al domani, facendolo scomparire dalla cartina geografica. Ma tant'è. In quella zona, è vero, c'è una via Aramagno, perduta nella campagna semiincolta che caratterizza lo spazio tra San Cataldo, Frigole e Torre Chianca. Ma niente fa supporre che in quell'area vi fosse un centro, evidentemente fiorente tanto da inserirlo nella geografia, assieme agli altri nominativi di località tuttora ben visibili e ricche di storia.

Di Aramano,invece, niente; una ipotesi, abbastanza romanzesca, si trova in una 'indagine' dell'Ufficiale Rizzo, personaggio letterario inventato da Raffaele Polo, interessato a investigazioni su luoghi salentini che hanno tutti qualcosa di strano... E Aramano, secondo l'Ufficiale Rizzo, ha a che fare con la neve, con le neviere che nei secoli scorsi conservavano il prezioso e raro prodotto naturale per farlo giungere sino alla corte di Napoli. Ma poi la 'neve', nell'immaginario romanzesco, diventa la più appetibile droga e Aramano un centro di smistamento molto ben inserito nelle rotte da e per l'Albania... Sono solo illazioni, realtà romanzesche, nulla di certo, se non quella presenza nella cartina con la iscrizione, peraltro, anch'essa di non facile comprensibilità. Ora, se ci pensiamo per più di un attimo, verifichiamo che il nostro Salento è ricchissimo di misteri, leggende, casi strani e inspiegabili realtà: è bello e solleticante immergersi in ipotesi più o meno consolidate e, soprattutto, far volare la fantasia. Dopo tutto, la nostra è una terra ricca di fascino proprio perchè vi aleggia, da sempre e in ogni luogo, un'atmosfera che viene dalla incertezza e dal mistero.

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Ma, nel caso di Aramano, sembrano proprio superate tutte le altre, interessanti e poco chiare questioni sulla plausibilità e sulle delucidazioni che si avvicinino alla verità. In fin dei conti, la domanda da porre e che vorrebbe una risposta esatta e realistica, è la seguente: che fine ha fatto il luogo denominato Aramano? E già il nome, presumibilmente riferito ad un grande altare, ci fa perdere vieppiù la bussola. Non ci sono insediamenti religiosi, in questa zona. Praticamente non c'è nulla. Oppure siamo noi che, con occhi miopi di contemporaneità industriale e

cibernetica, non vediamo ad un palmo del nostro naso? L'interrogarìvo resta. E resta il mistero di Aramano, il paese degli amanti che non ci sono più, come dice la protagonista del racconto di Raffaele Polo. Ah, questo scrittore! Che fantasia, che interessanti ricerche fa svolgere al suo Ufficiale Rizzo! Vi confessiamo che ci piacerebbe essere come lui e aver scritto tutte queste storie ricche di interrogativi e solleticanti ipotesi...

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Claudia Rogge - Ever After Inferno I - 165x215 cm

dante a roma tra immagini e parole claUdia rogge e raffaele cUri Foto, installazioni multimediali e la parola fresca di giornata dell’Accademia della Crusca per celebrare il sommo Poeta nel palazzo rhinoceros della Fondazione Alda Fendi

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n Inferno radioattivo e un Paradiso abbagliante, monumentali visioni in cui si affastellano decine di figure, musica elettronica e le miniature quattrocentesche di Giovanni di Paolo, temi ecologici e un percorso attraverso parole sconosciute o che crediamo di conoscere alla scoperta della bellezza della lingua che parliamo: ecco un Dante inedito che conquista la Capitale. Non c’era modo migliore per celebrare il Sommo Poeta e festeggiare i venti anni di attività per rhinoceros gallery e la Fondazione Alda Fendi - Esperimenti che faranno ripartire la loro proposta culturale con un progetto espositivo ambizioso, coinvolgente e immersivo. Dal 15 aprile al 15 luglio 2021 all’interno del palazzo rhinoceros, progettato per Alda Fendi da Jean Nouvel, dialogheranno insieme fotografia e installazioni multimediali nel cuore di Roma, al Velabro, nel segno di Dante Alighieri. Gli spazi di rhinoceros gallery in via dei Cerchi 19 ospiteranno un’originale rivisitazione della Divina

Commedia che nasce dall’intreccio delle mostre EverAfter di Claudia Rogge e DANTE. In a private dream of Raffaele Curi alle quali da contralto si inserisce la presentazione dell’iniziativa La parola di Dante fresca di giornata dell’Accademia della Crusca. Un progetto complesso, sfaccettato e avvincente che vede confluire insieme stimoli multiformi e percorsi di ricerca differenti, amalgamati in un unico e articolato ensemble che si va a incastonare nelle architetture progettate da Jean Nouvel. L’evento verrà presentato, su inviti, giovedì 15 aprile e dal giorno successivo la galleria si aprirà al pubblico su prenotazione. L’ingresso sarà gratuito. Come si diceva, cardine del progetto su Dante Alighieri è la mostra EverAfter: sette fotografie, di grandi dimensioni, dell’artista tedesca Claudia Rogge che rhinoceros presenta al pubblico per la prima volta a Roma negli spazi commerciali della sua galleria. Nata a Düsseldorf in Germania nel 1968, Claudia Rogge realizza nel 2011 la serie di lavo-

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esterni palazzo rhinoceros. Architect Jean Nouvel. Photo Roland Halbe_Rhinoceros

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ri che dà il titolo alla mostra ispirandosi proprio alla Divina Commedia e rappresentando i tre regni dell’oltretomba dantesco, Inferno, Purgatorio e Paradiso, in un’accezione personale e contemporanea. Immagini visionarie tali da sembrare ispirate alla pittura antica; sono scene complesse e di grande impatto visivo, animate da decine di figure affastellate le une sulle altre, corpi nudi che si contorcono o si elevano a seconda della cantica immaginata dall’artista. La tecnica che Claudia Rogge adotta per la realizzazione di queste opere di impianto fortemente teatrale è peculiare e prevede la messa in posa e lo scatto di decine di fotografie singole, tante quanti sono i protagonisti dell’immagine, che vengono in un secondo momento composte attraverso un corposo lavoro di elaborazione digitale in modo da articolarsi in un’unica imponente visione, sontuosa nella sua ricercata architettura visiva. Sia nella forma che nel contenuto, la ricchezza di questo racconto per immagini pone nelle intenzioni dell’artista domande profonde sulla fede in una società occidentale sempre più secolarizzata. In mostra si possono ammirare anche alcune opere della serie Rapport sempre di Claudia Rogge del 2005: si tratta di ritratti di giovani figure femminili che, attraverso l’elaborazione digitale, si moltiplicano all’infinito. I volti delle protagoniste sono quasi sempre celati e anche laddove siano visibili rimangono tuttavia inespressivi, disumanizzati, senza per questo in nessun modo sminuire la bellezza dei corpi contemplati e l’armonia della composizione, anzi esaltando queste componenti in un’estetizzazione raffinata. L’individuo per Rogge diventa massa, assurgendo a puro valore estetico, senza alcun intento ideologico né didascalico. Il percorso fotografico di Claudia Rogge si va a intrecciare con un articolato viaggio installativo all’interno degli spazi espositivi. DANTE. In a private dream of Raffaele Curi è il nome dell’intervento immaginato dal direttore artistico della Fondazione Alda Fendi - Esperimenti che mescola suggestioni polisensoriali e propone nelle sale di rhinoceros gallery una rilettura inedita e originale della selva dei suicidi descritta da Alighieri nel Canto XIII dell’Inferno. A cosa corrisponderebbe nel mondo di oggi il bosco tenebroso e caratterizzato da rami contorti e irti di spine, che viene cantato dal Sommo Poeta? La risposta viene trovata nelle foreste pietrificate dei disastri nucleari del Ventesimo secolo. È un’opera rock su un Dante radioattivo quella immaginata da Raffaele Curi, che impernia la sua riflessione sulle tematiche ambientali ed ecologiche sempre più care alle nuove generazioni, attente a un uso responsabi-

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palazzo rhinoceros. Architect Jean Nouvel. Photo Roland Halbe_Rhinoceros Interior

le e sostenibile delle risorse naturali e a contenere i danni provocati dall’uomo sulla vita del pianeta. Così, dalle foto di Claudia Rogge si passa all’interno di una stanza buia in cui si snoda un percorso obbligato, non lineare, che i visitatori sono invitati a compiere lasciandosi avvolgere da una grande installazione multimediale. Lo spazio di questo incubo dantesco è scandito dalla presenza dei monitor che scendono dal soffitto ad altezze diverse, diffondendo una luce fioca e spettrale su quella che appare come una foresta elettronica in cui perdersi. I monitor sono sintonizzati sulle quattro città radioattive di Chernobyl, Hiroshima, Sellafield e Harrisburg, madide di musica elettronica che costituisce

la colonna sonora di questo Inferno contemporaneo, suonata a volume altissimo. Le diverse stimolazioni concorrono alla tessitura di un’unica avvolgente esperienza di grande impatto emotivo e sconsigliata a chi soffre di claustrofobia, a suggello della quale campeggia il verso dantesco, quasi un monito, pronunciato da Pier delle Vigne: “Uomini fummo, e or siam fatti sterpi”. In netto contrasto con la gravità di toni dell’Inferno, al livello superiore dello spazio espositivo l’atmosfera si fa più lieve e rarefatta, nell’esperienza di un’intima visione del Paradiso che rende omaggio ad Alighieri attraverso l’opera del pittore toscano Giovanni di Paolo di Grazia, nato nel 1398 e morto nel 1482. L’installazione multimediale, fruibile per uno spettatore alla volta, costruisce un vero e proprio spazio celestiale. All’interno di esso, la riproduzione di una celebre miniatura del maestro senese che illustra le tappe finali del viaggio di Dante in compagnia di Beatrice, tratta dal Manoscritto Yates Thompson 36 conservato presso la British Library di Londra, campeggia su monitor e lightbox in un trionfo di luce. L’intero ambiente è rischiarato da una forte illuminazione dorata che avvolge, abbraccia e quasi abbaglia i visitatori, accompagnandoli con le esili e lievi sonorità dei Denmark+Winter. Al pubblico si consiglia di portare con sé occhiali da sole, perché potrebbero essere utili per non farsi travolgere da questa manifestazione luminosa che canta, con l’ultimo verso del poema dantesco, “L’amor che move il sole e l’altre stelle”. Ma non solo immagini. La parola di Dante fresca di giornata, l’iniziativa a cura dell’Accademia della Crusca si inserisce in un originale cortocircuito tra social network e schermi della mostra dove trova spazio e diventa occasione per il visitatore di ulteriore conoscenza di quel florilegio di espressioni comuni e di neologismi, latinismi, onomatopee dantesche, un patrimonio lessicale che dimostra l’infinita ricchezza e vitalità dell’italiano attraverso i secoli. rhinoceros gallery Indirizzo: Roma, via dei Cerchi 19 La mostra è aperta dal martedì alla domenica dalle 11.00 alle 20.00. Ingresso gratuito. È necessaria la prenotazione. informazioni: (+39) 340.6430435

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Claudia Rogge - Prelude I - 2011 - 165x215 cm

Giovanni di Paolo

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Gramsci nel 1922, nel riquadro Il numero dell'11 dicembre 1920

ricordando antonio gramsci e il sogno di Un mondo migliore Raffaele Polo

Nato ad Ales il 22 gennaio 1891 fu filosofo, politico, giornalista, linguista e tra i fondatori del Partito Comunista. Morì a Roma il 27 aprile 1937

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ono seduto al bar, proprio davanti alle mura del carcere di Turi. E mi sembra incredibile che in questo posto, oggi animato e ricco di turisti, si siano succedute le traversie, i drammi di tante vite che, quasi sempre incolpevoli, hanno scontato pene dure, durissime, per sostenere le proprie idee... Ma è così, il destino dell'uomo è quello di essere 'lupo per gli altri uomini', e chi sceglie la via del Sapere e della Cultura si scontra presto, quasi subito, con un interrogativo che condizionerà tutta la sua vita successiva. E l'interrogativo è come quello di Ercole al bivio, che doveva scegliere tra una vita lunga e incolore oppure una intensa e avventurosa esistenza breve.... L'uomo che sa, che studia, che impara, deve decidere, da subito, se rimanere indifferente e schierarsi in quella folta schiera di pensatori che, dagli antichi Greci agli odierni psicanalisti, fanno dello scetticismo e della atarassia una vera e propria religione. Oppure, credere fermamente nelle proprie idee, elaborarle e renderle ancor più importanti con la continua azione diretta, senza guardare a opportunismo e profitto, ma pronti a rimetterci di tasca propria, fino al sacrificio più grande. E, mentre assaporo la specialità dolciaria di questo paese in provincia di Bari, che è la 'minna di monaca' ovvero una semisfera dolcissima con una protuberanza in cima,

osservo la grigia costruzione che, per decenni, è stata la prigione delle menti più libere e più attive della nostra storia. Si, certo: Pertini è stato qui. Ma, prima di lui, c'è stato Gramsci. E subito, a questo cognome, si evoca la figura seria, con gli occhialini, del grande intellettuale. Intellettuale, veramente, è dir poco: perchè Gramsci, più di ogni altro, si è occupato di tutto, partendo dalla difficile professione di giornalista politico, per arrivare a tutti i rami dello scibile letterario. Fu nell'esame di 'Tradizioni popolari' che lo incontrammo con piacere, e imparammo le sue distinzioni precise al limite della pedanteria, sul termine 'popolare'. E poi lo abbiamo incontrato un po' dappertutto, le sue frasi sono tante, tutte interessanti, forse solo Pascal può tenergli testa. Gramsci visse in un periodo che definire 'turbolento' è dir poco. Allora, a cavallo tra la Prima e la Seconda Guerra Mondiale, l'esistenza era piena di 'ismi'. E l'esperienza ci ha insegnato che una parola, quando termina in 'ismo', non porta nulla di buono: fascismo, nazismo, bolscevismo, comunismo... Certo, anche 'comunismo' che, in Italia, compie adesso cento anni e ha vissuto tutte le involuzioni possibili e immaginabili, proprio dal momento in cui il suo fondatore, ovvero Gramsci, ne proclamò la nascita. Tempi duri, durissimi, non come gli attuali dove la coesi-

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stenza tra estremi è talmente in voga, da riunire nello stesso governo i sovranisti (altro 'ismo'...) con gli esponenti della borghesia più ricca e con gli epigoni di quel socialismo che, dopo averle trascorse tutte, pare abbia rinunciato alle battaglie, per adagiarsi nei nostalgici ricordi, sublimati dalle vicende finali della vita di Bettino Craxi... Gramsci, era di un'altra pasta. Viveva per le sue idee e ha lasciato l'opera preziosa dei suoi maggiori scritti in quei 'Quaderni dal carcere' che sono un po' come lo 'Zibaldone' leopardiano. Ma fitti fitti di solleci-

tazioni e spunti, di consigli, considerazioni e supportati dalle innumerevoli 'lettere dal carcere' nelle quali il discorso si fa più intimo ma senza mai tralasciare l'ideologia di un uomo che vuole un mondo diverso, dove le disuguaglianze sociali e culturali vengono superate. E si sforza di spiegare come bisogna fare, lui rinchiuso in celle e prigioni sempre più scomode, pensa a come dovrà essere il mondo, un mondo migliore, costruito dall'Uomo per l'Uomo... Cento anni di 'comunismo' hanno pi dimostrato che quello di Gramsci è, purtroppo, rimasto un sogno. Ma questo nulla toglie alla figura del grande intellettuale, che viene tuttora studiato e interpretato nello spessore dei suoi innumerevoli scritti, per molti dei quali si discute ancora sulla paternità, visto che Gramsci spesso non firmava i suoi interventi sui giornali. Eh, non c'era la Tv, allora. E neppure Internet, ci viene da pensare mentre paghiamo alla cassa del bar, c'è una graziosa ragazza che sta chattando con un costoso telefonino e che ci porge lo scontrino con lo sguardo assente. 'Là, nelle carceri, fu rinchiuso Gramsci, vero?' le chiediamo. Quella ci guarda stupita, e scrolla le spalla. 'Non so' dice. 'Non credo'. Torniamo tristemente a casa, abbiamo l'amaro in bocca, nonostante la 'minna di monaca'.

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Dolores Feleppa Màdaro (foto Archivio Famiglia Màdaro)

dolores feleppa màdaro la pasionaria di napoli Antonietta Fulvio

Una petizione promossa da Anci, Associazioni cittadine e dalle Donne di Napoli per intitolarle una strada in ricordo del suo impegno sociale e politico

Nel segno di eva

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a vita è meravigliosa anche per quegli intrecci che ricama il tempo lentamente come quando si passa il filo tra trama e ordito è alla fine è visibile ciò che si è realizzato. Succede così in un giorno di una strana primavera di imbattersi nel ricordo del volto di una persona cara che ha lasciato un segno indelebile non solo nella nostra storia personale ma in quella di una comunità e di una città intera. Si chiamava Dolores Feleppa Màdaro. Di lei mi viene in mente immediatamente il suo portamento elegante, la chioma bionda e il volto solare, la sua indole battagliera e lo sguardo di una donna capace di slanci di dolcezza unici pari alla grinta da vera pasionaria. Sì, l’avevano definita la pasionaria laica e l’impegno politico e civile di Dolores è durato tutta la vita. Consigliere nella Cir-

coscrizione del Vomero (Napoli) per molti anni, membro della commissione Pari Opportunità della Regione Campania, assessore della giunta comunale Iervolino nel 2007 rivestendo anche il ruolo di Assessore alla Memoria della Città di Napoli. Su suo invito e quello dell'Archivio Storico Municipale di Napoli Rodolfo Armenio, delegato dell'Associazione Internazionale Regina Elena e Orazio Mamone, Segretario dell'Associazione Culturale Tricolore, donarono alla Città, affinché venisse custodito presso l'Archivio Storico, una bandiera nazionale che guidò le azioni partigiane nella zona di Chiaia durante l'insurrezione popolare del settembre 1943. Dolores la guerra l’aveva vissuta sulla sua pelle «il ricovero, freddissimo. E noi bimbi, stretti stretti e zitti zitti. Con le

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coperte addosso sentivamo da lontano ancora l’urlo della sirena e poi lo scoppio delle bombe che cadevano.» Lo aveva spesso raccontato, ricordando come la madre per proteggerla l’avesse mandata a Benevento dalla nonna paterna e lì aveva visto le razzie e i soprusi di cui erano capaci i nazisti. «Lo zio Pietro fu messo con le spalle al muro e beccò una pallottola perché non voleva cedere il maiale, che era la sostanza di tutta la famiglia. E le donne giovani che si nascondevano per non farsi trovare dai soldati. Ricordo l’altarino attorno al quale ci riunivamo, dove c’erano le immagini dei morti e degli uomini partiti per il fronte, che non sarebbero tornati mai più. Vedevo la nonna ammalarsi per la perdita dei suoi figli, di Vittorio, di Attilio. È stata dura. Nessuno mi ha detto di essere antifascista, nessuno mi ha fatto la lezione. Con il calvario che abbiamo vissuto era normale dirsi antifascisti, e da questo nasce la mia vocazione al pacifismo.» E da una parte la ricerca della verità, dall’altra il perseguimento della pace e la lotta per difendere i diritti di tutti a partire dagli ultimi, dagli emarginati. Dolores si è sempre schierata e ha combattuto in prima linea le battaglie sociali dei quartieri di Napoli da lei tanto amati da Capodimonte,

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dove era nata, al Vomero al Petraio qui, durante il terremoto, si adoperò, tra le altre cose, in quanto presidente della commissione cultura del consiglio circoscrizionale al supporto dei minori, al sostegno delle famiglie. Promosse la creazione di un consultorio nel Belvedere e si schierò per la salvaguardia dei Giardini di via Ruoppolo strappando lo storico parco del quartiere Arenella alla realizzazione di un parcheggio. La sensibilizzazione ambientale fu uno dei capisaldi del suo agire politico, memorabili le battaglie contro la bretella stradale che doveva unire viale Raffaello con il piazzale San Martino, uno scempio che avrebbe stravolto il paesaggio della collina e arricchito affaristi in odor di camorra. Il suo impegno totale e trasversale, in favore dei diritti dei lavoratori, alle battaglie femministe, all’impegno per il riconoscimento delle unioni civili e della comunità LGBT. All’epoca del suo assessorato al Comune di Napoli, lanciò l’idea della costituzione di un Registro per le unioni civili poi realizzato dal sindaco Luigi De Magistris. «Essere comunista – spiegava in un’intervista del 2007 – significa conservare una idea di trasformazione. Esercitare la critica, la proposta, la battaglia per le idee, anche se sei tu sola. Se l’idea è giusta hai il


Nel segno di eva

Dolores Feleppa Màdaro negli anni 80 durante l’autogestione di un doposcuola al Petraio, al convegno sulla Legge 194 svoltosi all’ospedale Cardarelli, nel 2007 con il sindaco Rosa Russo Iervolino nel 2007, Per i 90 anni di Vera Lombardi in Sala Giunta al Comune di Napoli con le compagne e i compagni di Rifondazione Comunista. Dolores fa capolino all estrema destra della foto vicina a Gianfranco Nappi

dovere di dire. E anche di pagare qualche prezzo.» Spesso osteggiata e criticata, le sue lotte abbracciavano ambiti diversi ma avevano un unico denominatore: la difesa della città e della sua gente. Impossibile sintetizzare in poche righe cinquant’anni di impegno sociale e politico. Dolores fondò il primo coordinamento sull’handicap per dare ai bambini della Darmon l’assistenza comunale e anche nel mondo della scuola la sua attività sul versante delle proteste civili fu esemplare: basta ricordare la battaglia per il reinserimento di Giacomo Alvino un bimbo diversamente abile che negli anni Ottanta aveva subito forti ostilità nell’ambito delle strutture educative della città. Sempre al fianco di chi non aveva voce, per affermare diritti e giustizia sociale sapendo interpretare i bisogni della gente, delle categorie fragili. Per questo è partita una petizione da parte dell’Anpi e delle associazioni cittadine di intitolare una strada in memoria di Dolores nel centenario della nascita del partito comunista. Una petizione che facciamo anche nostra perché il ricordo del percorso umano e politico di Dolores non affievolisca ma sia di esempio alle generazioni che lei ha difeso e ha aiutato a costruire. Già costruire, che bella parola! Di questi tempi di demolizione, perché è sempre facile demolire il pensiero e l’operato altrui, che costruire mattone dopo mattone, giorno dopo

giorno con impegno e coscienza un tempo e una società migliore. Ci vuole coraggio a costruire. E lei ha costruito. Tenacemente. La sua passione politica probabilmente era connaturata alla sua indole, legata al nome che volle darle suo padre, emigrato in america giovanissimo e rientrato in patria perché continuamente minacciato in quanto sostenitore della causa di Sacchi e Vanzetti. Lui scelse per lei il nome dell’attrice Dolores Del Rio e forse di Dolores Ibárruri, la grande combattente spagnola. E anche Dolores è stata una militante, dapprima nelle fila del Pci e poi in Rifondazione Comunista (che contribuì a fondare) e poi nel partito dei Comunisti Italiani senza tralasciare mai l’impegno anche nell’associazionismo partecipando attivamente all’Udi e all’Arci. Nei terribili anni della guerra del Golfo, fu animatrice delle Donne in Nero e collaborò attivamente all’Anpi, l’associazione a cui teneva molto e di cui fu vicepresidente, che considerava un baluardo vivente degli orrori che bisognava combattere perché era necessario non abbassare mai la guardia. Dolores ricordava come le persecuzioni naziste avessero riguardato non solo gli ebrei ma anche i rom, gli zingari, i gay, i comunisti, un po’ anche le donne. E mi piace ricordare ancora una volta l’efficacia del suo attivismo e la lungimiranza del suo pensiero riportando una sua bellissima poesia che a distanza di anni aderi-

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sce perfettamente al complicato tema dell’essere donna oggi nella società contemporanea. Ringrazio sua figlia Diana Màdaro che sta ricucendo, non senza dolore ma con gioia, il meraviglioso pactwordk della politica del fare e non delle parole che ha caratterizzato la vita di Dolores, dell’impegno che sta river-

sando perché la storia personale di sua madre che coincide con quella di alcuni anni della città di Napoli sia strappata al grigiore della dimenticanza in un momento buio come quello che stiamo vivendo e in cui abbiamo bisogno più che mai di una parentesi rosa. Come lei ci ha indicato sia in fondo possibile fare.

'Dal buio del mondo al grigio della Politica una parentesi rosa'' Non voglio l'otto marzo, non lo voglio così! Non voglio più stare nel caos delle merci, Nella falsità del simbolismo imposto, nel consumo di mimose e false feste. Voglio la felicità dell'agire la gioia di stare con le altre di unire i nostri pensieri coniugare i nostri desideri di intrecciare le nostre vite per esistere insieme. Voglio clapestare i sassi e marciare e gridare, gridare contro chi mi opprime, mi appesta l'aria, mi toglie il sole, le speranze, la vita. Voglio sognare, amare, dire, dare, riprendermi le parole,

protestare disegnare una città, tante cose, tante case tante donne e uomini che si danno la mano in un mondo amaro e duro dove insieme si può spostare, avanzare, danzare, danzare. Voglio scavare una breccia nel muro grigio dell'indifferenza saltare il fossato del marcio disegnare il futuro tingendo di rosa il mio cammino. Dolores Màdaro

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Ingressso dell’Istituto italiano di Cultura a Parigi

parigi e la creatività italiana

I luoghi nella rete | Un italiano a Parigi

Mariangela Rosato

Intervista a Sandro Cappelli, direttore ad interim dell’Istituto italiano di Cultura a Parigi

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arigi città dei lumi, Parigi crocevia di artisti provenienti da ogni dove, Parigi centro di sperimentazioni dalle cosmopolite fatture, ma anche Parigi sede di importanti istituzioni. Sì, perché la capitale francese non soltanto accoglie italiani alla ricerca di un’opportunità, nuovi migranti tra cui si nascondono anime artistiche capaci di uscire, chi più chi meno, allo scoperto, ma ospita anche luoghi di importante valore simbolico e storico per il panorama italiano facendosi portavoce della cultura del Bel-Paese presso i nostri cugini transalpini. Allo stesso tempo, questi centri si presentano come un punto di riferimento fonda-

mentale per tutti gli italiani a Parigi i quali ricongiungono, in questo modo, il legame con il suolo natio rendendolo, allo stesso tempo, multiforme e libero dai limiti geografici proprio in ragione dell’incontro e dello scambio vissuto con la cultura multietnica di Parigi e le sue numerose sfaccettature. Tra le varie istituzioni nella ville Lumière che si pongono come promotori della lingua di Dante e di tutto ciò che a questa si lega, non si può non citare l’Istituto italiano di cultura che, così come gli altri ottantatré istituti sparsi per il mondo, si pone l’obiettivo di promuovere l’immagine dell’Italia e della sua cultura, classica e soprattutto contemporanea, all’este-

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Istituto italiano di Cultura a Parigi

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“Non ci siamo fatti abbattere dalle difficoltà e grazie alla collaborazione di tutto lo staff dell’Istituto, compresi gli insegnanti di lingua, abbiamo trasportato tutta la programmazione sulle piattaforme digitalimi spiega Sandro Cappelli, direttore ad interim dell’IIC di Parigi. “Per gli eventi previsti in presenza- sottolinea- abbiamo pensato ad un piano editoriale di proposte attraverso i nostri social. Ci siamo, infatti, orientati su più fronti: condividendo del materiale di archivio, presentando delle rassegne setti-

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manali durante le quali abbiamo proposto piccole mostre fotografiche e creando partenariati con organismi locali come ad esempio il festival Planches di Deauville, a pochi chilometri da Parigi”. Tra i tanti eventi organizzati in questo periodo dall’istituto e che ha catturato l’attenzione, troviamo il progetto “Viva Rodari” ideato in collaborazione con la casa editrice francese Ypsilon che ha tradotto, per la prima volta nella lingua di Molière, “Il libro degli errori.” “A tal proposito – chiarisce il direttore- abbiamo deciso di creare dei poadcasts da ascoltare gratuitamente in streaming fino al 31 marzo 2021 tramite la piattaforma soundcloud. Si tratta di sei puntate in cui l’attore Denis Lavant legge in francese dei passi del testo raccontando le strane storie, in versi e in prosa, presenti in questa magnifica opera letteraria ”. Seguendo lo stesso schema, il Ministero ha organizzato anche una lettura dantesca “Dante in trentatré lingue” trasmessa tramite alcuni poadcast nei quali troviamo due attori che si alternano nei ruoli di Dante e Virgilio a cui si aggiunge una voce femminile che funge da narratore. “Oltre a questi progetti aggiunge-

i luoghi nella rete | Un italiano a Parigi

ro. Ubicato nel cuore del sobborgo di Saint-Germain tra rue de Grenelle, rue de Varenne e rue du Bac, l’IIC di Parigi ha sede in un prestigioso "hôtel particulier", l’Hotel de Gallifet, risalente alla fine del '700 che fu acquistato dallo Stato italiano nel 1909 per ospitare dapprima l'Ambasciata, poi il Consolato Generale d'Italia e, infine, nel 1962, l'Istituto Italiano di Cultura. Un luogo che, chiunque abiti a Parigi e sia legato al nostro Paese non può non aver sentito nominare almeno una volta. Un luogo che è riuscito a portare avanti le sue attività di promozione linguistica e culturale nonostante la situazione pandemica.


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Istituto italiano di Cultura a Parigi , interni

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abbiamo avviato una rassegna cinematografica nel corso della quale verranno proiettati vari film e documentari a cui seguirà un dibattito tra i registi e gli esperti della tematica dei reportage visibili dall’Italia sul canale vimeo dell’IIC”. Inoltre, da segnalare è anche l’interessante iniziativa “1990-2020. Le théâtre italien en résistance » a cura di Federica Martucci e Olivier Favier con la quale, attraverso diverse interviste, gli autori del saggio omonimo ci guidano nella storia della drammaturgia italiana degli ultimi trent’anni. L’IIC non si dedica solo alla promozione del nostro patrimonio culturale già consolidato, ma si pone come sostenitore in Francia della creatività italiana in tutte le sue forme. Emblematica di tale tendenza è proprio l’iniziativa “Le promesse dell’arte” nell’ambito della quale l’IIC ospita ogni mese un talento italiano nella prestigiosa sede dell’Hôtel de Galliffet. Un importante progetto questo, che, avviato nel 2012, recupera evidentemente un approccio à la française nei confronti della produzione artistica che si esplica, ad esempio, nella creazione di grandi istituzioni, come la magnifica Villa Medici a Roma e la Casa de Velázquez a Madrid. Destinate ad accogliere ogni anno artisti provenienti da ogni parte del mondo ed aventi una posizione consolidata nel panorama francese, queste strutture danno ai selezionati la possibilità di entrare in contatto con nuove realtà culturali ed apportare qualcosa di innovativo alla produzione artistica. “Per il momento- afferma il direttorenon siamo arrivati a questo tipo di organizzazione, tuttavia nulla impedisce che, con più risorse umane a

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Istituto italiano di Cultura a Parigi

disposizione e più spazi, spettati. “Lo sguardo da un progetto del genere si lontano permette di focapossa fare in futuro”. lizzarsi su ciò che si ritieCertamente un ottimo ne essere più di valore – auspicio per i mesi a afferma Cappelli. Contivenire che inaugureran- nua: “Viene naturale, se no la nuova direzione di si vive a Parigi, interesDiego Marani, noto scrit- sarsi agli eventi che si tore italiano. organizzano in relazione all’Italia sia per il lato Essere un italiano a Pari- nostalgico, sia perché è gi, quindi, significa non interessante capire soltanto scoprire nuove come il Paese che ti culture e cibarsi di una ospita, in questo caso la creatività sempre in Francia, considera la culmovimento, anche in tura italiana. In questo questo periodo di chiusu- modo, ci si rende conto ra, ma soprattutto rimo- di una presenza forte dellare il rapporto con la della cultura italiana a propria cultura nazionale Parigi”. Una grande città alla quale si guarda con quindi, in cui si può trouna nuova prospettiva e vare un piccolo angolo della quale si esplorano d’Italia ovunque. aspetti molto spesso inaPer ascoltare “Le livre des erreurs” di Rodari, letto da Denis Lavant https://soundcloud.com/vivegiannirodari Per ascoltare “Dalla selva oscura al Paradiso- un percorso nella Divina Commedia di Dante Alighieri in trentatré lingue” https://open.spotify.com/show/2Gdff73bgs84YbHS3LVYk A Per tutti gli altri progetti indicati consultare le pagine social dell’IIC Sito ufficiale: https://iicparigi.esteri.it/iic_parigi/fr https://vimeo.com/user111963970 https://instagram.com/iicparigi?igshid=yvm2capqnbpa https://m.facebook.com/profile.php?id=150650668339033 &ref=content_filter Corsi organizzati dall’IIC https://iicparigi.esteri.it/iic_parigi/resource/doc/2020/12/iiccours-2021-printemps-1408-201223.pdf

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l’arte di artUro serra gomez gli apostoli dormienti Marco Tedesco *

Storie l’uomo e il territorio

Il gruppo scultoreo degli Apostoli dormienti della confraternita del Santissimo Crocifisso de la Caridad di Murcia

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n occasione del numero di aprile di Arte e luoghi, si vuole concentrale l’attenzione sulla festività cristiana più importante, la Pasqua e gli eventi ad essa correlati. Ci concentreremo soprattutto su uno di questi eventi, l’orazione nell’orto degli ulivi di cui presentiamo il gruppo degli apostoli dormienti, opera dello scultore Arturo Serra Gomez, erede odierno della grande tradizione artistica spagnola dal Seicento in poi, in cui a dominare la scena era l’influenza delle innovazioni apportate all’arte pittorica

dal Caravaggio, autore tra il 1604 e il 1606 di un perduto dipinto dal titolo Cristo nell’orto degli ulivi, influenza riscontrabile nella pittura di Diego Velasquez e in particolar modo nel suo Cristo crocifisso del 1632 oggi al Prado di Madrid e all’arte scultorea dall’arrivo a Madrid delle opere scultoree di Giacomo Colombo, in particolar modo il Cristo alla colonna del 1698, oggi nella cattedrale di Madrid ma commissionato al Colombo dal Marchese di Mejorada y Breña per la chiesa di San Ginés, come

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Arturo Serra Gomez, Apostoli dormienti, 2020, Murcia, Confraternita del Santissimo Crocifisso de la caridad (foto di Arturo Serra Gomez) particolare

rivelato dallo stesso Serra Gomez in un commento del 2016 sul popolare s o c i a l n e t w o r k Facebook. Innovazioni all’arte della pittura e della scultura che erano basate sulla raffigurazione realistica delle cose cosi come esse appaiono ai nostri occhi. Un realismo basato sull’impatto visivo ed emozionale che subito rende l’osservatore partecipe alla scena. Tutto questo oggi, lo si può vedere nella produzione scultorea di Arturo Serra Gomez, scultore, restauratore e studioso dello stesso Giacomo Colombo. L’opera che qui presentiamo

e il gruppo scultoreo degli Apostoli Dormienti appartenente al gruppo processionale della Settimana Santa di Murcia raffigurante l’Orazione nell’orto degli ulivi, eseguito per la confraternita del Santissimo Crocifisso della carità. Il gruppo scultoreo dei due Apostoli Dormienti, che Arturo Serra Gomez ha realizzato nel 2020, è una scultura in legno di cedro policromo ad altezza naturale. Il momento scelto dall’artista è quello in cui gli apostoli sono caduti nel profondo sonno che nel vangelo corrisponde al momento in cui Cristo

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Diego Velazquez, Cristo crocifisso, 1632, Madrid, museo del Prado

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Giacomo Colombo, Cristo alla Colonna, 1698, Madrid, cattedrale (fonte: https://www.facebook.com/Scultura-Napoletana)

dopo essersi allontanato dagli apostoli per pregare, torna verso di loro e rivolge ad essi la frase «Perché dormite? Alzatevi e pregate, per non entrare in tentazione» (Vangelo di Luca). Analizzando il volto dei due apostoli, la sentiamo notiamo che essi dormono ma allo stesso tempo mostrano un senso di tristezza e di sofferenza. Sanno cosa sta per accadere, sentono che di lo a poco il loro Maestro verrà consegnato nelle mani delle guardie dei sommi sacerdoti e mostrano un senso di colpa nell’aver ceduto alla debolezza. Nel gruppo scultoreo eseguito da Arturo Serra Gomez, Cristo non si vede ma ne si intuisce la presenza. La frase citata tratta dal Vangelo di Luca la sentiamo pronunciare perchè osservando l’opera, l’osservatore è al compento anche attore della stessa. Come un vero e proprio regista infatti, Arturo Serra Gomez ci da l’impressione di trovarci nel Getsemani e di vivere le stesse

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sensazioni di stanchezza, di dolore e di sofferenza vissute dagli apostoli in quella lunga e angosciosa notte in cui stava per compiersi il progetto di Dio per la salvezza degli uomini, attraverso la morte e la resurrezione di Cristo. Colpisce inoltre in questo gruppo scultoreo anche l’attenzione al particolare delle vesti degli apostoli, caratterizzata dall’evidenziato panneggio che sottolinea le piege degli abiti degli Apostoli dormienti, appoggiati ad una roccia e che lasciano intuire la postura, ad esempio il ginocchio alzato di Pietro, la mano distesa poggiata sulla roccia con naturalezza, l’attenzione al movimento del capo che lascia intuire un’attenzione alla muscolatura del collo, il particolare delle barbe e dei capelli dei due apostoli finemente scolpite nei minimi particolari, permettento di distinguerle ad occhio nudo pelo per pelo, dando l’impressione di trovarti davanti a due uomini prima


Michelangelo Merisi da Caravaggio, ca. 1604-1606, olio su tela, 154×222 cmDistrutto - già Gemäldegalerie, Berlino (fonte: https://www.wga.hu/html/c/caravagg/07/39garden.html

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ancora che a due santi: due uomini che come tutti gli uomini sono inclini alle tentazioni del peccato, prima di diventare santi veri e propri. Con Arturo Serra Gomez dunque, si affaccia nella scultura la fusione caravaggesca tra santità e umanità, accentuata da un attento studio anatomico e una particolare attenzione al dinamismo dei copri che Serra Gomez prende dal grande scultore Giacomo Colombo, portando alla luce grazie alla sua arte gli schemi della grande tradizione storico artistica della Sagna seicentesca, rendendoli alla portata di noi uomini del terzo millennio.

Dott. Marco Tedesco, storico dell’arte RAM Rinascita Artistica del Mezzogiorno

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“yoU shoUld Be here”, il nUovo Brano di alessia leo

Prosegue il progetto artistico e musicale della giovane artista salentina in attesa dell’uscita del disco

In uscita da venerdì 26 marzo, su tutte le piattaforme digitali “You should be here”, il nuovo brano della cantante e musicista salentina Alessia Leo. Dalle ore 14 dello stesso giorno, via anche al videoclip, visibile sul canale youtube dell’etichetta discografica L’Arca del blues.Dopo il successo di streaming del primo singolo “Boom”, scritto per lei da Matteo Cazzato, è ora la volta di una traccia completamente nuova rispetto alla produzione precedente quanto a stile e suoni. “You should be here” è scritto da Cesare Montinaro e da Francesco Maria Mancarella, che lo ha anche prodotto per l’etichetta discografica L’Arca del blues. Sonorità internazionali, testo in inglese e produzione che strizza l’occhio alla moda d’oltreoceano. Un progetto che è frutto di un grande lavoro di squadra tra il team discografico di Alessia Leo, L’arca del blues, la regista Serena De Simone e il direttore creativo Gabriele Greco. Si tratta di un brano dal tratto intimo, che affronta il tema della perdita di una persona amata,

della mancanza e del bisogno di colmare quell’assenza. L’inconfondibile timbro vocale di Alessia Leo accompagna in un viaggio di consapevolezza: proprio quando si perde qualcuno ci si rende conto della sua importanza. E questa mancanza crea un vuoto, nulla ha più senso, unico scopo è cercare di riportarlo indietro. E’ Alessia Leo a raccontare il senso di questa breve, ma altrettanto profonda e intensa storia cantata: “Quando perdiamo un persona ci assalgono domande, ricordi, dubbi, sensi di colpa, ci chiediamo se siamo stati abbastanza, se abbiamo fatto abbastanza ed arriviamo a provare un forte dolore: è proprio in quel momento cruciale che perdiamo il controllo e cerchiamo di riportare la persona amata al nostro fianco, per alleviare la sofferenza. Ma solo toccando il fondo, ci rendiamo conto che l’unico modo per affrontare la perdita è tirare fuori tutta la nostra forza per continuare ad amare. Canto la mancanza di un amore tra due persone legate ma lontane, un

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sentimento a tutti livelli, per me l’assenza di una persona tanto cara, come mio nonno”. Il singolo “You should be here” esce a braccetto con un videoclip, che viene diffuso in contemporanea. Girato con la regia di Serena De Simone e con la direzione creativa di Gabriele Greco, il video traduce in immagini il tema dell’assenza della persona amata, raccontandolo non in maniera diretta, ma piuttosto “suggerita”, con la rappresentazione di due mondi paralleli: uno reale e uno immaginario e creativo. L’universo reale è il vissuto, il filo della vita, del day by day, dei gesti e delle cose concrete, la stanza, i cuscini, un camino. Delicato il passaggio verso un mondo di luci, attorno e addosso, che è il tramite per approdare al contatto con un mondo parallelo, fino alla “trasformazione” nella creatura dalla pelle d’oro, una figura ancestrale, attraverso la quale avvicinarsi quanto più possibile alla persona amata, per attutire la pena della mancanza. Alessia Leo, giovanissima cantante e musicista leccese (classe 2001), è determinata e dalle idee chiare, il suo strumento è il pianoforte e della musica dice “è una compagna straordinaria che riesce a scavare nel profondo”. Diplomata presso il Liceo classico e musicale di Lecce “Palmieri”, attualmente studia canto poprock presso il conservatorio ‘Tito Schipa’ di Lecce e si perfeziona con il Maestro Nando Mancarella. Ha all’attivo già l’esperienza e il successo in numerosi concorsi regionali e nazionali. Nel dicembre del 2015 è la più televotata d’Italia nel concorso “Note e voci dal Salento”, che la porta alla finale di Verona, dove ha l’occasione di lavorare con il maestro Vince Tempera e di esibirsi la notte di Capodanno in piazza Bra; ad aprile 2016 è la volta de “Il palco dei talenti” in Sicilia, dove vince il premio miglior voce conferito dal maestro Valeriano Chiaravalle; nel 2017, mentre approda sino alla semifinale di “Area Sanremo”, vince il premio speciale “Je so pazzo” a Fiuggi, dove si perfeziona con maestri del calibro di Fabrizio Palma, Danilo Ciotti, Alex Parravano, Egert Pano, Francesco Arpino. Nel 2019 vince il “Voice Talent 6” e il “Ditutto Singer awards”. Nel frattempo studia e lavora con grandi maestri come Giuseppe Barbera, Giuseppe Anastasi, Alfredo Rapetti Mogol, Antonio Vandoni, Marcello Balestra, Antonio Laino e Bungaro. Alla fine del 2020 è uscito con successo “Boom”, il suo primo brano con L’Arca del Blues.

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LUOghI DEL SAPERE

#ladevotalettrice | le recensioni di lUcia accoto “perdono” di lydia poet

gIANCARLO NICOLETTI La strada davanti a me Il mio libro self publishing 2020 ISBN 9788892373655 pp.232 € 12

#recensione #luciaaccoto #recensore #giornalista #libri #ladevotalettrice

I segreti sono un po’ come lo sporco sotto le unghie smaltate. Se non si ha cura e premura di pulire l’unto anche i segreti restano indicibili. Si scoprono solo quando si gratta la verità e non è detto che venga fuori. I segreti, quelli brutti, guastano la vita. La segnano con i ricordi, con i rimorsi, con sensi di colpa. E se sei colpevole di un reato, grande o piccolo che sia, te la vedi con la coscienza. Se ce l’hai. Con la giustizia, invece, se finisci nelle maglie della verità. In entrambi i casi, paghi. I segreti sono scomodi. Portarne il peso è faticoso, ti ricordano castamente che da essi non puoi scappare. Ti imponi il silenzio, ma è il perdono che cerchi. Puoi anche ostinarti a ricacciare indietro le paure, ma prima si affrontano e meglio è. Metti un punto al tormento, prendi fiato, decidi come cambiare. In fondo, sono i segreti stessi a indicare la strada da prendere. Puoi ignorarli o portarteli appresso nelle tasche interne dell’anima. Resteranno attaccati alla pelle per ricordarti che puoi aggiustare le cose, se solo lo vuoi. Nel romanzo Perdono di Lydia Poet sei ostaggio del mistero. Entri nei segreti di una donna di successo che dall’Italia si è trasferita in America per sfuggire ai suoi tormenti. Qualcosa le ricorda sempre chi è ed a chi appartiene, anche se conosce le cose a metà. Altre, invece, le ignora completamente e va alla ricerca dell’inizio o della fine. Un punto a capo, per lei e un ritorno, quello di mettere piede nel su paese natio. Dietro alle sue soddisfazioni personali e professionali ci sono grandi delusioni, umiliazioni, sconfitte, privazioni. Sofia, la protagonista, ha dovuto dare un taglio netto con il passato. La vita di prima però torna a ricordarle che deve cercare la verità, scoperchiare il segreto, per recuperare se stessa. Pr ottenere e ricevere perdono. Sciolta la prosa. Il romanzo cammina sul binario del noir e sul filo intimistico. La narrazione è semplice e per questo più difficile da scrivere. L’autrice, soprattutto nei colpi di scena o nello sciogliere i punti cruciali, evita di girare e rigirare a vuoto. Porta esattamente il lettore dove vuole e gli fa vedere esattamente quello che vuole. Il di più non esiste perché chi legge entra nella storia vivendola e non ha tempo di fantasticare. Si attiene a ciò che c’è scritto, vedendo le scene su carta. Il romanzo è evocativo. È scritto con i giusti dettami del mistero. Il lettore diventa la spalla della protagonista come a voler chiedere egli stesso perdono per qualcosa. In fondo, farlo non è mai un male, se necessario.

Per l’invio di libri da recensire scrivere a redazione@arteeluoghi.it

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“valérie” di maria cristina impagnatiello “storia e scrittUra che entrano nella pelle”

CRISTINA IMPAgNATIELLO Valerie MdS Editore 2020 pp.240 €13,90 ISBN 9791280187024

C’è chi per andare avanti respira forza dall’energia degli altri senza scomodarsi di cercarla nelle proprie viscere. Forse la loro vita è talmente piatta che spegne anche il desiderio di trovare altro, che porti al cambiamento, a prospettive nuove, diverse, interessanti. Tutto resta come prima, immutato e spento. Chi si accontenta, chi non ha ambizioni, chi non si assume mai la responsabilità di niente, sceglie il grigio perdendosi l’arcobaleno. Persone così sanno di avere meno eppure sono convinte di possedere qualcosa che ai più manca: la leggerezza. Quando non sei sovrastato dai tormenti di decisioni da prendere, vivi alla buona. Sei immune dalla gravosità dei pensieri che si affacciano prima di ogni scelta che poi spesso diventano problemi. Ecco, scappare dalle responsabilità e vivere a cuor leggero, come viene viene, è il karma da seguire per coloro che non fanno mai scelte. L’apatia è di casa in esistenze simili, perché essere curiosi arricchisce l’esperienza e l’animo ne giova più di ogni altra cosa. Può andar bene o male, l’importante è lo slancio che si ha verso la vita. Ma non basta, alcuni pur restando incantati dalla bellezza dell’alba che si staglia sul mare, mai uguale al giorno prima, vogliono le certezze a portata di mano per non affaticarsi a cercare il sogno. Nel romanzo Valérie di Maria Cristina Impagnatiello sei l’anima di un uomo che si lascia trascinare dagli eventi, ma che non è onda egli stesso. È sempre mare calmo anche quando c’è tempesta. Sembra un quadro, la trasposizione di se stesso in una visione distaccata dell’esistenza. Vive più che altro seguendo un solo istinto lasciando da parte tutto il resto. Si adegua alle situazioni come un peso morto. Non ha fame di scoperta. Assorbe tutto e assimila ogni cosa, nota le trasformazioni, di suo però non lascia l’impronta di un percorso voluto, desiderato, cercato. Lascia parole su carta per recuperare un pezzo di sé e della sua Valérie. La teatralità della vita passa anche dal respiro che si fa fumo, rabbia, consenso, accettazione, sopportazione e bramosia per cercare quell’essenza che le ore apatiche non possono dare. Intimistica la prosa. Lo stile narrativo è compatto, pieno, denso di emozioni che diventano pioggia, rugiada, brina. Tutto è palpabile ed evanescente allo stesso tempo. Sembra di stare in una galleria d’arte dove ogni quadro ti riporta ad una dimensione diversa. Sei ogni cosa ed il suo esatto contrario. Storia e scrittura ti entrano nella pelle, si appropriano di te e di quello che sei. Alla fine ti chiederai moltissime cose e vorresti essere una delle tante impressioni che gli occhi acchiappano osservando la vita.

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#ladevotalettrice | le recensioni di lUcia accoto “io sono Una famiglia il gaBBiano” di liz chester

LIz ChESTER BROwN Io sono una famiglia il gabbiano StreetLib 2019 pp.240 € 10,00 ISBN 979-1220055055

Tenere tutto dentro fa male. Alla fine, si scoppia. Si rischia anche di mandare a pezzi le cose belle per ciò che lasciamo chiuso nel silenzio che ottura i polmoni. Ci manca l’aria e sentiamo un peso alla testa quando siamo angosciati, preoccupati. Se le ore si spaccano a metà tra buono e cattivo cresci con un groviglio di domande, di incertezze. Sai distinguere perfettamente le due cose, eppure tendi ad avvicinarti un passo in più verso chi è grezzo di cuore. Forse, pensi che persone così andrebbero soccorse facendogli cambiare prospettiva, facendogli vedere la bellezza dei sentimenti che risucchia il ringhio della cattiveria. Certo, bisogna essere liberi di parlare, di saper dire le cose, di averle capite. E questo è un lavoro che potremmo fare ascoltandoci o facendoci ascoltare da qualcuno preparato per questo. Ci vuole giudizio, per accettare tutto. La coscienza, poi, farà il suo corso. Non è facile, niente lo è quando si vive un travaglio emotivo forte, quando si perdono i punti di riferimento importanti oppure quando non si hanno esempi diretti da cui prendere forza. Se non li trovi neanche nella famiglia può essere un dramma. In Io sono una famiglia il gabbiano di Liz Chester Brown vivi i patimenti di una donna, Arianna, che ha subito le decisioni, i comportamenti, della madre secca d’amore. Ha anche respirato tutto il bene e la protezione che un padre può nei confronti di un figlio. Il suo ha fatto moltissimo per lei ed i suoi fratelli. Ha fatto da padre e madre insieme per sopperire alle mancanze della madre. Arriva un momento però in cui devi affrontare quello che ti ha schiacciata. Non sai chiamarlo per nome, non ne trovi uno giusto, ma sai che devi parlare, liberarti, volare, respirare. Solo allora, ogni cosa tornerà al suo posto e Arianna troverà la sua strada. I fili dell’esistenza vanno sbrogliati se hanno nodi che attorcigliano le viscere. Limpida la prosa. Fortemente evocativa la narrazione. Il lettore non perde ritmo colpito da pagine forti quanto intense.

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ilraggioverdesrl.it


dalsalentocafé | le recensioni di stefano camBò matteo greco, l'enciclopedia delle creatUre invisiBili

MATTEO gRECO L’enciclopedia delle creature invisibili Independently published pp.180 €13,00 ISBN 9798570326118

Un titolo stravagante, originale e perché no surreale segna la copertina dell'ultimo libro scritto da Matteo Greco. Il poeta e autore di Gagliano del Capo in provincia di Lecce, con L'enciclopedia delle creature invisibili si cimenta per la prima volta con il romanzo portando su carta un progetto sentito e per lunghi tratti commovente. Caratterizzato da una forte matrice sociale e sociologica, il lavoro prende di petto un tema spigoloso e lo fa senza fronzoli o giri di parole. Perché Giorgio, il protagonista della storia, si ritrova a dover fare i conti con una malattia che lo porterà ben presto a rimettere tutto in discussione, compreso il suo rapporto con la moglie e il figlio che aspettano insieme. Ecco allora che, la scrittura diventa per lui un mondo dove potersi rifugiare e trovare riparo. Insieme alla fantasia e ad un gruppo strampalato di "creature invisibili", Giorgio affronta il suo dolore e lo fa con coraggio e fiducia, pur sapendo quanto sarà difficile e lunga la strada. Colpisce oltre al lessico ricercato e allo stile fluido e onirico (ricorda un po' i romanzi di Daniel Pennac con l'irresistibile Malaussène), l'ambientazione della vicenda narrata. Durante la lettura infatti, si riscopre tutta la bellezza e le peculiarità del Salento, una terra di profumi e colori, immersa nel l'abbraccio di due mari che la rendono magica. Così come magico è il mondo delle creature invisibili inventato da Matteo Greco, un autore che è riuscito con questo libro a raccontare da un lato la durezza e il dramma della malattia e dall'altro la struggente bellezza della scrittura, intesa per una volta come medicina per il corpo e soprattutto… L'anima!

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dalsalentocafé | le recensioni di stefano camBò

LUOghI DEL SAPERE

sorelle d’estate il nUovo liBro di rossella maggio

ROSSELLA MAggIO Sorelle d’Estate Caosfera 2020 ISBN 9788866286134 pp.214 € 17

Il titolo di un libro è il biglietto da visita per ciò che ci aspetta all'interno, tra le sue pagine. Spesso, la fa da padrone nella scelta del lettore, se non altro perché incuriosito o addirittura attratto dalla trama che si potrebbe dipanare non appena le sue dita inizieranno a pizzicarne i fogli. Se poi ci mettiamo una copertina accattivante che ammalia l'occhio… Il gioco è fatto. Eppure, il romanzo Sorelle d'estate di Rossella Maggio (edito da Caosfera) è sicuramente questo e molto di più. Innanzitutto per la struttura narrativa, in quanto lo si può definire senza entrare troppo nei particolari, "un affresco corale" in cui le vere proragoniste sono le donne. Quelle stesse donne che si riscoprono amiche nella quotidianità dei piccoli gesti, dove il lavoro e le esperienze di ognuna diventano il banco di prova per rinsaldare e fortificare i rapporti. Ben presto, infatti, familiarizziamo con Bianca, Fatima, Viola, Talia ed Irene. Insieme a loro e il poliziotto in pensione Angelo, proviamo a risolvere la complicata faccenda che attanaglia Nora, perseguitata da un ex fidanzato che non la lascia in pace e che ha deciso di vendere cara la pelle. Colpisce, oltre alla struttura, anche lo stile fresco e diretto. Non ci sono inutili virtuosismi e la scorrevolezza diventa il punto di forza dell'impianto narrativo e della trama. Una trama che in parte ricorda per ambientazione e temi trattati, due film italiani usciti in questi ultimi anni: Sette Minuti di Michele Placido e Due Partite di Enzo Monteleone. In entrambe le pellicole, infatti, le donne si raccontano attraverso i loro vissuti, le loro storie e le loro scelte a volte difficili. Proprio come accade nel bel romanzo di Rossella Maggio!

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get in: la firma di zavattari alla fiera di shanghai

Francesco Zavattari,

Cromology Italia e Verylux affidano un grande progetto internazionale all'artista lucchese

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algrado il difficile periodo che stiamo attraversando, non si fermano i progetti esteri di Francesco Zavattari: l'artista è stato nuovamente ingaggiato da Cromology Italia, questa volta per la realizzazione di uno stand espositivo del partner cinese Verylux, che tra il 24 e il 26 marzo sarà presente in un'importante fiera di Shanghai. In realtà la richiesta risale alla fine del 2019 e la fase progettuale era iniziata nel 2020, per poi interrompersi a causa della pandemia: il duro momento del lockdown è stato però occasione per approfondire ed evolvere la fase concettuale, arrivata adesso al termine per il debutto della kermesse. Seppur a causa delle note retrizioni l'artista non possa essere presente in Cina, come inizialmente richiesto, ha guidato il progetto in ogni suo minimo dettaglio, lavorando in stretta collaborazione con Elena Rosellini e

Gianluca Dal Moro dell'Export Team di Cromology, grazie alla supervisione del Direttore Vendite Fabio Scapolan e del nuovo Direttore Marketing Matteo Beretta, che ha seguito il tutto dal punto di vista della comunicazione. Il padiglione di Verylux concepito all'interno dello spazio fieristico ha una superficie di 195 mq ed è composto da spazi e moduli tra loro connessi attraverso il concetto di Poliedro tanto caro a Zavattari: in questo caso specifico, tali intrecci si svolgono attraverso precisi criteri basati sulla numerologia, in particolare assumendo come punti di riferimento i numeri cinesi più importanti. Le centinaia di segmenti presenti nel design realizzato volgono ad accogliere fisicamente il pubblico che sarà presente in fiera, da qui il nome Get In, ma anche a collegare idealmente ed emotivamente il tutto con l'artista, seppur lontano, lanciando dunque un mes-

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Francesco Zavattari, , Cromology, Matrice

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saggio di unione in questo momento così particolare che tutto il Mondo sta affrontando. Un altro modo per dare un segno della propria presenza sarà quello di realizzare per il pubblico del padiglione di Verylux una live performance a distanza la mattina del 24 marzo: l'evento sarà trasmesso in digitale da Matrice, il nuovo spazio polifunzionale di

Cromology sito in San Miniato (progettato e costruito da Zavattari stesso e dal suo team) e vedrà, oltre a quello dell'artista, l'intervento dell'Amministratore Delegato Massimiliano Bianchi, del Direttore Vendite Fabio Scapolan, del Direttore Marketing Matteo Beretta e, ovviamente, dell'Export Team che ha seguito il progetto.

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la ragione nelle mani nove parole in forma d’arte

Antichi saperi e sperimentazioni, un progetto di Stefano Boccalini e quattro artigiani della Valle Camonica

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ove parole e la manualità sapiente dell’artigianato che si fa arte. Anche se oltralpe, vogliamo segnalare una poetica mostra che è espressione di grande bellezza con uno scopo nobile, legato all’ecosostenibilità di una comunità. Si intitola La ragione nelle mani ed è deata dall’artista Stefano Boccalini con la collaborazione di quattro artigiani della Valle Camonica. La mostra, che aprirà i battenti il 1° aprile sino al 27 giugno a Ginevra alla Maison Tavel/Musée d’Art e d’Histoire è curata da Adelina von Fürstenberg e realizzata in collaborazione con ART for THE WORLD EUROPA. Si tratta della prima di una serie di iniziative che fanno capo all’omonimo progetto, realizzato in collaborazione con importanti partner culturali: Musée Maison TavelMusée d’Art et d’Histoire (Ginevra) sede della mostra, Art House (Scutari, Albania), Sandefjord Kunstforening (Sandefjord, Norvegia), Fondazione Pistoletto Onlus, Accademia Belle Arti Bologna, MA*GA – Museo Arte Gallarate e GAMeC Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea Bergamo. Dopo aver portato i segni della Valle Camoni-

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ca in Europa l’opera ideata da Boccalini, composta da vari manufatti, entrerà a far parte della collezione della GAMeC. Diplomatosi nel 1987 in scultura alla NABA di Milano, sua città natale, Stefano Boccalini inizia ad insegnare come assistente di Gianni Colombo e dopo la sua morte, nel 1993, eredita il suo corso di Strutturazione dello spazio, e negli anni lo trasforma in un corso di Arte Pubblica, materia che insegna tutt’ora. È stato tra i fondatori di Isola Art Center a Milano, vicepresidente di Art For The World Europa tra il 2014 e il 2019, e ha fatto parte del board di Careof. È direttore artistico di Ca’Mon (centro per l’arte e l’artigianato della montagna) di Monno in Valle Camonica ed è consulente scientifico dell’Archivio Gianni Colombo. Da quando la parola è diventata protagonista del suo lavoro, l’opera si pone come momento di riflessione collettiva su temi che riguardano tutti. L’idea del progetto nasce dal rapporto che l’artista ha costruito con la Valle Camonica a partire dal 2013: da una residenza sul tema dell’acqua, l’artista ha avuto modo di conoscere meglio la Valle


Da sx: La ragione nelle mani, Ubuntu, Stefano Boccalini, 2020, legno intagliato, 30 x 130 x 4 La ragione nelle mani - Dadirri, Anshim, Friluftsliv, 1 particolare, Stefano Boccalini, 2020lino, punto e intaglio (ricamo), 100 x 140 x 5 cm La ragione nelle mani - Ohana,Stefano Boccalini, 2020, legno intrecciato90 x 400 x 92

Camonica in passato frequentato solamente da turista ma che oggi è diventata un punto di riferimento per il suo lavoro: qui ha operato con varie comunità, con le istituzioni locali e con gli artigiani, creando uno stretto rapporto di collaborazione che gli ha permesso di produrre numerose opere. Questa esperienza e questi incontri hanno fatto maturare l’idea di realizzare un Centro di Comunità per l’Arte e l’Artigianato della Montagna. Ca’Mon, che avrà sede a Monno, diventerà un centro di scambio tra saperi intellettuali e saperi manuali: per attivare un confronto con il territorio saranno ospitati in residenza artisti, autori e ricercatori. Ca’Mon sarà anche un luogo di formazione, dotato di spazi adibiti a laboratorio dove lavoreranno artigiani, artisti e giovani della valle. “L’obiettivo – afferma Boccalini – è quello della trasmissione dei saperi, secondo una logica di condivisione per cui le tradizioni non assumono un senso nostalgico, ma diventano la porta di accesso al futuro, un “luogo” di sperimentazione per immaginare nuovi scenari”. E da questo contesto è nato il progetto espositivo “La ragione nelle mani” che ha preso il via infatti con un laboratorio che ha coinvolto tutti i bambini di Monno, cui è stato raccontato il significato di circa cento parole intraducibili che sono presenti in molte lingue, intraducibili perché non hanno corrispettivi nelle altre lingue e che possono essere solamen-

te spiegate. Insieme ai bambini sono state scelte circa venti parole che identificano il rapporto tra uomo e natura e tra gli esseri umani. Le parole sono infine state sottoposte agli artigiani per capire quali potessero essere le più adatte a essere trasformate dalle loro sapienti mani in manufatti artistici. Ne sono state scelte nove che sono diventate il materiale su cui gli artigiani hanno lavorato con gli apprendisti. Un progetto che si muove su due livelli, quello del linguaggio e quello dei saperi artigianali, attraverso il coinvolgimento della comunità locale. Tutti i manufatti che compongono l’opera sono stati realizzati in Valle Camonica da quattro artigiani affiancati ognuno da due giovani apprendisti. Gli otto “allievi” sono stati selezionati attraverso un bando pubblico, promosso dalla Comunità Montana e rivolto ai giovani della valle interessati a confrontarsi con pratiche artigianali appartenenti alla tradizione camuna: la tessitura dei pezzotti, l’intreccio del legno, il ricamo e l’intaglio del legno. Le parole sono diventate nello specifico un raffinato ricamo bianco su bianco a “punto intaglio” montato come un quadro; due legni di noce sapientemente intagliati; cinque manufatti di legno nocciolo intrecciato, realizzati con la tecnica utilizzata per la creazione di cestini e gerle, tre pezzotti, tappeti fatti con tessuti lavorati a telaio manuale. Parole il cui siginificato rimandano a con-

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cetti sui quali dovremmo non solo riflettere ma impostare il nostro stile di vita: ANSHIM Sentirsi in armonia con sé stessi e con il mondo (coreano), BALIKWAS Abbondonare la propria confort zone (filippino), DADIRRI Quieta contemplazione e ascolto profondo della natura (aborigeni australiani), FRILUFTSLIV Connessione con l’ambiente e ritorno al legame biologico tra uomo e natura (norvegese), GURFA L’acqua che si riesce a tenere nel palmo di una mano come metafora di qualcosa di molto prezioso (arabo), OHANA La famiglia che comprende anche gli amici e non lascia indietro nessuno (hawaiano), ORENDA La capacità umana di cambiare il mondo contro un destino avverso (indigeni nordamericani), SISU La determinazione nella ricerca del benessere nella quotidianità (finlandese), UBUNTU Sono chi sono in virtù di ciò che tutti siamo (Africa meridionale). Salvaguardare le diversità vuole dire mantenere vive tutte quelle situazioni che possiamo riassumere bene con una parola: “biodiversità”, parola che diventa, nel suo lavoro, il punto di partenza per esplorare nuove possibili strategie di sviluppo. «Il risultato di tutto questo lavoro – spiega lo stesso Boccalini - non è rappresentato solamente dalle opere, ma anche dal processo che ha portato alla loro costruzione. Un processo che ha rimesso in circolo le conoscenze e le pratiche legate

alla tradizione della valle ma con nuove prospettive e consapevolezze. Viviamo in un’epoca in cui le parole sono diventate un vero e proprio strumento di produzione e di captazione di valore economico, e hanno assunto una dimensione sempre più importante all’interno del contesto sociale. Attraverso il loro uso cerco di ridare un peso specifico e un valore collettivo al linguaggio, che per me è il “luogo” dove la diversità assume un ruolo fondamentale, diventando il mezzo con cui contrapporre al valore economico il valore “del comune”.» «L’esecuzione del lavoro di Boccalini non è una questione da poco – afferma la curatrice Adelina von Fürstenberg - le opere non sono fabbricate semplicemente seguendo istruzioni date a priori, ma sono eseguite dall’artista stesso insieme agli artigiani, coinvolti in uno scambio di sapere fra la poetica del lavoro e la tradizione artigianale, incorporandone le conoscenze nella pratica artistica e pedagogica. In questo, Boccalini si inserisce appieno nella tradizione dell’Arte Povera, un’arte che non interpreta ma semplicemente percepisce il fluire della vita e dell’ambiente, utilizzando materiali fino ad allora mai considerati, e ponendo la propria attenzione non tanto sull’opera d’arte quanto invece sul processo di creazione stesso.»

La ragione nelle mani Una mostra di Stefano Boccalini Ginevra, Maison Tavel/Musée d’Art et d’Histoire

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Panorama Genova dal Bigo, foto di Stefano Cambò

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dalla lanterna ai vecchi film amBientati a genova Stefano Cambò

Per i luoghi del cinema viaggio nell’antica repubblica marinara

Se c’è una città che ha dato tanto al panorama artistico italiano, quella è sicuramente Genova. Sarà l’aria salmastra, sarà lo strano connubio tra terra e mare… Sarà forse la sua struttura urbanistica che nel centro storico si aggroviglia quasi su se stessa… Ma questa metropoli è

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stata una delle roccaforti culturali dell’Italia contemporanea. Se non altro perché, tra le sue stradine interne, hanno trovato voce tanti cantautori che, anche grazie a Lei, sono riusciti a scovare l’ispirazione e la voglia di raccontarsi attraverso parole e musiche che ormai sono diventate, senza

I luoghi del cinema


Cattedrale di San Lorenzo, , foto di Stefano Cambò

nulla togliere ad altri, le canzoni della nostra vita. Come non ricordare a tal proposito la scuola genovese, che qui si sviluppò intorno agli anni Sessanta con i nomi che diedero vita ad un vero movimento artistico e culturale che ancora oggi rimpiangiamo per la qualità della sua produzione. Da Sergio Endrigo a Bruno Lauzi, passando per Luigi Tenco, Gino Paoli, Umberto Bindi fino ad arrivare al principe della canzone d’autore italiana: Fabrizio De André. Quel Fabrizio De André che raccontò i vecchi caruggi della sua amata città con la mitica Via del Campo, dove si ritrovavano la sera gli amori mercenari e la vita quotidiana di un tempo. Per non parlare di altri capolavori come Bocca di Rosa, Dolcenera e La canzone di Marinella eseguita per la prima volta in televisione da Mina. E che dire della sua strana amicizia con il mitico Paolo Villaggio, forse l’attore genovese più conosciuto, per la sua ineguagliabile comicità e per quel senso malinconico che si ritrovava un po’ in tutti i personaggi interpretati. Il legame con la città è stato così forte che nel

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quartiere Certosa, sulla facciata di uno dei palazzi, è stato raffigurato dagli artisti Rosk e Loste, un gigantesco murale che omaggia il mitico ragionier Ugo Fantozzi con l’aria rassegnata e l’immancabile cappello. Perché Genova è tutto questo e anche molto di più… Così di più che oggi vi porterò a riscoprirla attraverso i film che qui sono stati ambientati. Il nostro viaggio inizia con il maestro del cinema Alfred Hitchcock che si recò nel capoluogo ligure nel 1925 per girare al porto alcune scene del film muto Il giardino del piacere. Nel 1951 fu la volta del regista Carlo Lizzani che qui ambientò la

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I luoghi del cinema

Strada del centro storico (Ferrara), foto di Stefano Cambò


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Boccadasse, foto di Stefano Cambò

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locandina del film

anni, quando nel 1959 il regista Roberto Rossellini portò tra le strade di Genova il film Il generale della Rovere interpretato da Vittorio De Sica. La pellicola, vincitrice di numerosi premi (tra cui il David di Donatello e il Leone d’Oro a Venezia, nonché una candidatura all’Oscar per la migliore sceneggiatura originale), racconta le

I luoghi del cinema

pellicola Achtung! Banditi! con Gina Lollobrigida. Si tratta di un affresco della città negli anni della Seconda Guerra Mondiale, dalla nascita delle organizzazioni clandestine nelle fabbriche alla lotta sulle montagne, con gli operai che combatterono fianco a fianco con i partigiani per scacciare i soldati tedeschi. Dovettero passare alcuni

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vicende di un truffatore che, durante il secondo conflitto mondiale, venne risparmiato dai tedeschi purché accettasse di fingersi un eroe nazionale a cui tutti avrebbero dovuto dare credito. Nel 1976, invece, è la volta di Genova a mano armata, un classico poliziesco all’italiana, molto amato dalla gente del posto, che racconta le vicissitudini di un ex agente dell’Interpol che apre un’agenzia d’investigazioni in città, trovandosi ad indagare prima sul sequestro e poi sull’omicidio di un armatore. Dopo dieci anni esatti il regista Francesco Nuti decide di ambientare qui il suo terzo film intitolato Stregati, interpretato da lui stesso e da Ornella Muti. La pellicola racconta le avventure di un dj radiofonico che trasmette un programma su un’emittente locale e che si ritrova una notte a tu per tu con una bellissima ragazza che gli cambierà la vita. Nel 2006 è la volta di Fabio Volo che, nel film drammatico Uno su Due diretto da Eugenio Cappuccio, si ritrova a vestire i panni di un giovane avvocato genovese troppo spregiudicato ed arrogante, costretto all’improvviso a fare i conti con una malattia che lo metterà a dura prova, facendogli rivalutare completamente la


Locandina film

sua vita. L’anno successivo è la volta di Giorni e Nuvole diretto da Silvio Soldini con Antonio Albanese e Margherita Buy (premiata meritatamente con il David di Donatello). La pellicola ci mostra la storia di un uomo di mezz’età che perde il lavoro e si ritrova a scontrarsi con una realtà difficile che non fa sconti a nessuno. Finiamo il tour cinematografico con Cosimo e Nicole del 2012. Questo film diretto da Francesco Amato vede come protagonisti Riccardo Scamarcio e Clara Ponsot e racconta le vicende di una coppia di giovani che s’innamora nel 2001 e che nel capoluogo ligure decide di condurre la sua vita fino a quando una tragedia sfiorata non ne metterà in crisi il rapporto.

Come abbiamo visto, in tutte le pellicole prese in esame, il filo conduttore è sempre la città di Genova, con le luci soffuse del porto che spesso incontrano quelle dei labirintici vecchi caruggi. Per chi volesse programmare un viaggio elenchiamo alcune mete che sono d’obbligo. Dopo l’immancabile sosta alla Lanterna, il faro conosciuto in tutto il mondo e simbolo della città, si consiglia di tuffarsi nel centro storico per ammirare prima il Palazzo Ducale che si affaccia sulla famosa Piazza De Ferrari (con immancabile foto di rito con la fontana) e poi la Cattedrale di San Lorenzo, il più importante luogo di culto cattolico. Da vedere assolutamente sono le Strade Nuove e il Sistema dei Palazzi dei Rolli che nel 2006 sono stati dichiarati Beni patrimo-

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I luoghi del cinema

Lanterna_di_Genova_Foto di Alessandro Cai

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Il Bigo al tramonto, foto di Stefano Cambò

nio dell’Umanità dall’Unesco. Nella zona del porto antico vi sono poi il famosissimo Acquario, il Museo del Mare e il Bigo, una struttura architettonica progettata da Renzo Piano per le Colombiani del 1992. Immancabile un giro sull’ascensore panoramico che vi condurrà sul braccio più alto di questa imponente costruzione artistica, dandovi la possibilità di ammirare la città da sopra i tetti.

Ultima località da visitare prima di lasciare Genova è il borgo marinaro di Boccadasse, con le caratteristiche case a tinte pastello e le persiane verdi. Per gli amanti della fiction, il luogo è una tappa fondamentale ne Il commissario Montalbano perché in una delle abitazioni che si affacciano sul golfo vive Livia, la sua compagna storica. Inoltre, sulla piccola spiaggia ricoperta da ciottoli che rende ancora più suggestivo

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il luogo, sono state girate alcune scene della serie Tv dedicata a Fabrizio de André ed interpretata dal bravissimo Luca Marinelli. E con questa ultima perla lasciamo finalmente Genova, la città che è stata per molti anni l’epicentro della musica d’autore italiana nonché la culla di tanti talenti artistici a cui noi tutti saremo per sempre grati.


Il panorama di S.Maria di Castellabate

BenvenUti al sUd castellaBate al top Stefano Cambò

Per i luoghi del cinema scopriamo una perla che si affaccia sul Tirreno

I luoghi del cinema

Negli ultimi anni, molte commedie del nostro cinema hanno avuto successo al botteghino grazie soprattutto ai luoghi scelti per ambientare la storia. E d’altronde, tanti attori e registi spesso selezionano locations suggestive legate alla propria terra d’origine per esaltare la trama del film e creare (a volte senza volerlo) un circuito turistico intorno alla pellicola. Gli esempi a tal proposito sono tanti, a partire da Ficarra e Picone (coppia storica del cabaret italiano e televisivo) che di solito preferiscono la natia Sicilia per adattare le loro esilaranti performance, o a Checco Zalone che immancabilmente

una capatina in Puglia riesce sempre a farla nei suoi film. Per non parlare di Rocco Papaleo che ha addirittura dedicato il suo primo cortometraggio alla sua amata Basilicata, attraversandola coast to coast per esigenze di copione. Eppure, nonostante questi nomi eccellenti della comicità italiana contemporanea, la pellicola che più di altre ha avuto giovamento, dando una certa notorietà ai luoghi scelti per l’ambientazione, rimane sicuramente Benvenuti al Sud di Luca Miniero. Era infatti il 2010, quando nelle sale usciva questo film (rifacimento del fortunato Benvenuti al Nord francese), interpretato da

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San Marco di Castellabate, foto di Chiara Ianni, si ringrazia la pagina fb Castellabatelive24 diretta da Marco Nicoletti

Claudio Bisio e Alessandro Siani e interamente girato nel Cilento. Più che nel Cilento… A Castellabate! Il Paese in provincia di Salerno che si affaccia direttamente sul mar Tirreno e che incan-

ta con il suo mix di colori, storia e tradizione i tanti visitatori che ogni anno lo raggiungono per rivivere le atmosfere respirate durante la visione del film. Ma partiamo con ordine e andiamo a scopri-

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re insieme i tanti luoghi che fanno da cornice a questa piacevole commedia che trova il suo punto di forza narrativo principalmente negli stereotipi e nei falsi miti di cui è imperniato il costume e la cultura italiana.

Il primo, in ordine d’importanza, è sicuramente la piazzetta del Paese, dove si affaccia l’ufficio postale nel quale si consumano alcune delle scene più importanti. Si tratta nella realtà di Piazza 10 Ottobre

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I luoghi del cinema

Castellamare (SA), La Torretta, foto di Andrea di Paola, si ringrazia la pagina fb Castellabatelive24 diretta da Marco Nicoletti

1123 (il nome ricorda l’anno di fondazione del Castello di Sant’Angelo o dell’Abate voluto da San Costabile Gentilcore, all’epoca abate del feudo da cui il nome poi prenderà origine). Come nel film, tra una pausa caffé e una partita di calcetto o biliardino, ci facciamo travolgere anche noi dal sole del Cilento e assaporiamo con gli occhi lo scenario che fa da sfondo alle tante peripezie dei vari protagonisti. Passeggiando tra i vicoli del centro poi s’incontra Palazzo Perrotti, la casa di Claudio Bisio durante la sua permanenza nel paese. Costruita nel XVII secolo, questa suggestiva dimora era la residenza storica dei conti Perrotti e si trova ubicata all’interno del borgo medioevale (il cuore sociale e culturale), la cui origine è legata prettamente alla pesca e ai traffici mercantili favoriti sicuramente dalla posizione strategica di Castellabate sul mar Tirreno. Altro luogo da non perdere assolutamente è il Belvedere di San Costabile, collocato sulla collina di fronte al Castello dell’Abate. Si tratta di uno dei punti più esclusivi del paese, dalla cui sommità si gode una vista panoramica su tutto il golfo e le sue limpide acque. A poca distanza da questo posto incantevole, è collocata la targa incisa

con la frase che accoglie e spaventa ancor di più il già spaurito direttore delle Poste durante il suo arrivo rocambolesco in Paese all’inizio del film. In quella scena, girata in notturna e sotto la pioggia, il personaggio interpretato da Claudio Bisio giunge con la sua auto a ridosso del borgo medioevale (dopo una sosta interminabile sulla Salerno-Reggio Calabria). Una volta sceso, impaurito e completamente fradicio, si mette a girovagare per le stradine del centro quando ad un certo punto s’imbatte nella targa, in parte coperta dalla vegetazione, su cui è stata incisa la frase Qui non si muore (una citazione proveniente dal re Gioacchino Murat quando fu ospite nel 1811 dei conti Perrotti), diventata per questioni di copione Qui si muore! con tanto di gag comica e surreale da parte dell’attore. E dopo una sosta al Belvedere di San Costabile, lasciamo il centro storico di Castellabate, per scendere a valle e più precisamente nella bellissima spiaggia della Marina Piccola, caratterizzata dalla Torre Pagliarola (retaggio dell’antico sistema difensivo creato per contrastare le invasioni dei Saraceni e degli altri predoni del mare). Qui infatti, sono state girate le scene dello

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Castellamare (SA), Porto Travierso o delle Gatte, foto di Aurelio Di Biasi, si ringrazia la pagina fb Castellabatelive24 diretta da Marco Nicoletti

spettacolo pirotecnico finale in onore della festa di San Costabile, mentre al Porto delle Gatte, un antico approdo risalente al XII secolo, si svolge la cena festante che riunisce tutti i colleghi dell’ufficio postale intorno ad un tavolo. Questo luogo, così chiamato per l’effetto prodotto dai portici illuminati che sembrano simili agli occhi di un gatto in lontananza, nasce presumibilmente nello stesso periodo di Torre Pagliarola, per volere dell’abate Simeone. Altro set da visitare, anche se in questo caso sarebbe meglio dire transitare, è la strada provinciale 61, quella che percorre il direttore delle Poste insieme all’amico Mattia, in sella ad un motorino per conoscere gli abitanti del paese e consegnare personalmente le varie missive (chi ha visto il film si ricorderà sicuramente come andava a finire la disastrosa scampagnata). Ultimo luogo da

non perdere è la Torretta, una masseria fortificata del Seicento e situata alle porte di San Marco di Castellabate. Qui infatti, il personaggio interpretato da Claudio Bisio, porta la moglie scesa appositamente da Milano, per fargli credere che il paese sia in realtà un luogo malavitoso per lo più frequentato da ladri, mendicanti e rapinatori (anche se poi si ricrederà quando accompagnerà la donna alla stazione il mattino dopo). E con quest’ultima perla, lasciamo il bellissimo borgo di Castellabate e gli angoli suggestivi del suo centro medievale, non prima di aver ricordato la frase profetica pronunciata da Mattia (il protagonista interpretato da Alessandro Siani) durante un momento riflessivo insieme al direttore delle poste: Quando un forestiero viene al Sud piange due volte… La prima quando arriva, la seconda quando se ne va!

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Il campanile di Lecce, partioclari

le tre epigrafi del campanile in piazza dUomo Mario Cazzato

Passeggiando nel cuore antico tra vicoli e pagine di storia

Salento Segreto

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sattamente 360 anni fa, nel 1661,fu posta la prima pietra del campanile della cattedrale di Lecce e oggi, l'inizio di un nuovo intervento di valorizzazione ne decreta l'importanza nella storia e nell'economia della città. Così i monumenti tornano a vivere e non sono solo testimonianze del passato. Bene, ma oggi voglio spostare la vostra attenzione sulle tre epigrafi che, una per

ogni piano dell'edificio, ne stabilisce la cronologia e le ragioni. Sono lunghe epigrafi latine, spesso pubblicate, ne offro una traduzione fedele ma sintetica e moderna. Nella prima, quella del piano inferiore, l'epigrafe si rivolge al passante e lo esorta a tramandare che il campanile fu costruito in onore Della Vergine Assunta dal vescovo Pappacoda dal clero e dai leccesi, riconoscenti perché protegge la

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Epigrafi, foto di Mario Cazzato

Salento Segreto

città.Segue la data : 1661.Nel secondo ordi- posteri(id posteris tradimus). In alto, semne è detto che gli stessi, ossia il vescovo, il pre in una tabella è scolpito il 1682 anno di clero e i leccesi, posero in onore di Giusto, completamento del campanile, uno dei più Oronzo e Fortunato, vescovi e patroni. Nel alti d'Italia. In quelle tre epigrafi è racchiusa terzo si ricorda che S. Irene, veglia proprio la storia non solo religiosa della città.E la da questo campanile e protegge la città dai storia continua. fulmini, fatto prodigioso da tramandare ai

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UP. LECCE DALL’ALTo DEL CAMPAnILE Lecce vista dall’alto. Dall’alto del campanile dello Zimbalo in piazza Duomo. Grazie al progetto "UP" della cooperativa sociale Artwork, che da maggio 2019 in collaborazione con l'Arcidiocesi di Lecce si occupa della fruizione, della valorizzazione e della salvaguardia dei principali beni ecclesiastici della città con il progetto LeccEcclesiae sarà possibile visitare il campanile e salire 43 metri in soli 43 secondi, raggiungendo il terzo registro del campanile dove sono presenti quat-

tro balconi che consentono una visuale completa. Qui, saranno installati dei binocoli con sensori multimediali che permetteranno di riconoscere i principali punti di interesse del panorama. I lavori, a cura dell'impresa Marullo, - sottolinea una nota - dureranno circa sei mesi e riguarderanno sia interventi di restauro e consolidamento di alcuni punti sensibili del campanile sia l'installazione di un vano ascensore all'interno della struttura. La cabina dell'ascensore, in assenza di limitazioni Covid, potrà accogliere sino a 6 persone. I visitatori potranno accedervi a turno, in gruppi di massimo di 10/15 persone per fascia oraria. Come per le Chiese del progetto LeccEcclesiae, anche il campanile sarà fruibile con orario prolungato durante la giornata e sarà sempre garantita la presenza e l'assistenza degli operatori ArtWork. I visitatori potranno accedervi a turno, con un biglietto orario, vale a dire un biglietto sul quale è specificatamente indicato l'orario del proprio turno. "Il progetto di ristrutturazione e fruizione del campanile della nostra cattedrale dichiara l'Arcivescovo, Mons. Seccia oggi prende concreto avvio ed è offerto alla Città e ai turisti, attraverso l'istallazione di un ascensore. Esso è il frutto della stretta collaborazione tra l'Arcidiocesi e Artwork, la cooperativa che da circa due anni porta avanti con successo e professionalità il progetto Leccecclesiae, con cui è stato possibile mantenere aperte le principali chiese del nostro centro storico, oltre a dare lavoro a oltre 30 famiglie".

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