ISSN 2280-8817
centro/00826/06.2015 18.06.2015
Archivi, che ossessione!
+ Focus NFT
N. 63 L NOVEMBRE – DICEMBRE 2021 L ANNO XI DAL 2011 ARTE eccetera eccetera
#63 DIRETTORE Massimiliano Tonelli DIREZIONE Marco Enrico Giacomelli [vice] Santa Nastro [caporedattrice] Arianna Testino [Grandi Mostre] REDAZIONE Giorgia Basili Irene Fanizza Giulia Giaume Claudia Giraud Desirée Maida Roberta Pisa Giulia Ronchi Valentina Silvestrini Alex Urso PUBBLICITÀ & SPECIAL PROJECT Cristiana Margiacchi / 393 6586637 Rosa Pittau / 339 2882259 adv@artribune.com EXTRASETTORE downloadPubblicità s.r.l. via Boscovich 17 - Milano via Sardegna 69 - Roma 02 71091866 | 06 42011918 info@downloadadv.it REDAZIONE
NOVEMBRE L DICEMBRE 2021 www.artribune.com
artribune
COLUMNS
6 L GIRO D’ITALIA Carlo Antonelli Gaia Cambiaggi || 14 L Massimiliano Tonelli La carica dei non assessori alla cultura || 15 L Luca Josi Ecco come ho portato cultura e patrimonio visivo nella pubblicità || 16 L Claudio Musso L'arte (non) è un'isola || 17 L Fabio Severino Le sovvenzioni pubbliche e la morte dell'innovazione || 18 L Marcello Faletra Musei senza memoria || 19 L Christian Caliandro Sul pop sotterraneo || 20 L Renato Barilli Gian Maria Tosatti pigliatutto
NEWS
22 L LA COPERTINA Elena Xausa || 23 L OPERA SEXY Ferruccio Giromini I corpi al quadrato di Takeshi Haguri || 24 L ARCHUNTER Marta Atzeni Khadka + Eriksson Furunes || 25 L LABORATORIO ILLUSTRATORI Roberta Vanali Mariuska tra glamour e pop || 28 L APP.ROPOSITO Simona Caraceni 3 modi per immergersi nell'arte / NECROLOGY || 29 L TOP 10 LOTS Cristina Masturzo London Edition || 30 L LIBRI Marco Enrico Giacomelli & Marco Petroni Martini & Francesconi, Biraghi, Barcellona, Getty et al. || 32 L ART MUSIC Claudia Giraud Bawrut: dance mediterranea con Liberato & Co. || 33 L SERIAL VIEWER Santa Nastro Squid Game è già cult / L.I.P. – LOST IN PROJECTION Giulia Pezzoli Storia della rapina del secolo || 34 L OSSERVATORIO CURATORI Dario Moalli Focus on: Caterina Avataneo || 36 L CONCIERGE Valentina Silvestrini Casa Ojalá: la suite nella natura || 37 L DURALEX Raffaella Pellegrino PNRR, digitalizzazione del patrimonio culturale e proprietà intellettuale || 38 L NUOVI SPAZI Massimiliano Tonelli F2T Gallery || 39 L GESTIONALIA Irene Sanesi ICC MIC TEAL: quando imprese e ministeri si coloreranno di verde acqua || 40 L DISTRETTI Massimiliano Tonelli Torino ha una mezzaluna creativa. A est || 42 L STUDIO VISIT Saverio Verini Giulia Poppi
via Ottavio Gasparri 13/17 - Roma redazione@artribune.com PROGETTO GRAFICO Alessandro Naldi COPERTINA ARTRIBUNE Elena Xausa COPERTINA GRANDI MOSTRE Antonio Pronostico STAMPA CSQ - Centro Stampa Quotidiani via dell’Industria 52 - Erbusco (BS) DIRETTORE RESPONSABILE Marco Enrico Giacomelli EDITORE Artribune s.r.l. Via Ottavio Gasparri 13/17 - Roma Registrazione presso il Tribunale di Roma n. 184/2011 del 17 giugno 2011 Chiuso in redazione il 27 ottobre 2021
STORIES
48 L Marco Scotini con Marco Enrico Giacomelli Tutti pazzi per gli archivi. Ennesima moda o c'è di più? 56 L Adriano Manca con Giacomo Nicolella Maschietti, Valentina Tanni e Matteo Lupetti L'opera d'arte nell'epoca degli NFT
artribunetv
QUESTO NUMERO È STATO FATTO DA: Carlo Antonelli Marta Atzeni Caterina Avataneo Renato Barilli Giorgia Basili Bawrut (Borut Viola) Francesco Bena Christian Caliandro Gaia Cambiaggi Simona Caraceni Stefano Castelli Marcello Faletra Fabrizio Federici Marco Enrico Giacomelli Giulia Giaume Claudia Giraud Ferruccio Giromini Luca Josi Khadka + Eriksson Furunes Niccolò Lucarelli Matteo Lupetti Lorenzo Madaro Angela Madesani Desirée Maida Adriano Manca Mariuska (Marianna Zanella) Cristina Masturzo Alessandra Mauro Dario Moalli Stefano Monti Giulio Mosca Zanele Muholi Claudio Musso Santa Nastro Antonio Natali Giacomo Nicolella Maschietti Matteo Novarese Albert Oehlen Raffaella Pellegrino Marco Petroni Angelo Pezzana Giulia Pezzoli Giulia Poppi
GRANDI MOSTRE
66 L IN APERTURA Stefano Castelli Tutto Goya in Svizzera || 68 L LA COPERTINA Antonio Pronostico | OPINIONI Fabrizio Federici La storia di Roma spiegata al museo / Antonio Natali Il restauro della Pietà di Michelangelo / Stefano Monti Il museo che porta l’arte fuori dai musei || 70 L FOCUS Jenny Saville e il Rinascimento a Firenze || 76 L FOTOGRAFIA Angela Madesani La fotografia in prima linea di Margaret Bourke-White || 78 L GRANDI CLASSICI Marta Santacatterina Bagliori gotici a Milano || 79 L DIETRO LE QUINTE Arianna Testino Albert Oehlen: artista e collezionista || 80 L ARTE E PAESAGGIO Claudia Zanfi Arte tra le vigne. Fondazione La Raia / IL MUSEO NASCOSTO Lorenzo Madaro Roma. StudioMuseo Salvatore Meo || 81 L IL LIBRO Arianna Testino Zanele Muholi / ASTE E MERCATO Cristina Masturzo Domenico Gnoli
ENDING
84 L SHORT NOVEL Alex Urso Giulio Mosca 86 L IN FONDO IN FONDO Marco Senaldi La classe degli artisti assenti
Aldo Premoli Antonio Pronostico Nadia Righi Giulia Ronchi Matteo Salamon Irene Sanesi Marta Santacatterina Sergio Scalet (Hackatao) Marco Scotini Martin Schwander Marco Senaldi Fabio Severino Celeste Sgrò Valentina Silvestrini Serena Tabacchi Valentina Tanni Arianna Testino Massimiliano Tonelli Alex Urso Roberta Vanali Saverio Verini Elena Xausa Claudia Zanfi
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Monte di Portofino CARLO ANTONELLI [ giornalista e produttore culturale ] GAIA CAMBIAGGI [ artista e fotografa ]
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Venezia Artribune #58
Cabras (Oristano) Artribune #61 Palermo Artribune #59-60
nzitutto dobbiamo parlare de Il Monte. Il fatto che tecnicamente si chiami Parco Regionale di Portofino è una fesseria. È Il Monte, e basta. Altro disturbo da togliersi subito dai piedi è l’intelligenza degli alberi e della popolazione vegetale e dei funghi, poi, ci mancherebbe. L’abbiamo sempre sentita dentro, ben prima che Stefano e Anna ce la venissero a raccontare. Il Monte, subito appena ti avvicini, entra dentro le tue fibre e ti rende muschio tra i muschi, felce tra le felci. Subito. È un’entità superiore, un GGG enorme di cui vediamo fisicamente una grande zampa con le varie dita (mica cinque, di più), e anche un pezzo di caviglia. E il resto del torso e delle gambe e delle braccia è sparso dentro il polmone verde, le conche muscolose e insieme morbidissime e le alte vette appenniniche che sembrano nascere da mandibole chiamate (nel complesso) Entroterra. Il Monte respira e ti fa respirare, subito. Il Monte ti cura se stai male, subito. Il Monte ti vuole bene qualunque cosa tu abbia combinato, immediatamente. E, se verrai in autunno (ovvero con 25 gradi di media), Il Monte ti accarezzerà e centomila corbezzoli ti faranno esplodere gli occhi. Altro che le misteriose sostanze che certamente assumeva Rubaldo Merello (pittore, 1872-1922) quando ossessionato cercava prima dei tempi di farci capire l’alterazione della percezione – anche gloomy – che sta qui ovunque e sulle cui tracce Gaia Cambiaggi si muove come un animale bipolare. Scegliamo una strada tra le mille, scegliamo la via del mare. È un lungo dito cui arrivi scorrendo una specie di lunga venatura, da San Rocco di Camogli in giù. Fino alla Punta (Chiappa) e a Porto Pidocchio, nomuncoli che non rendono giustizia alla maestà del luogo, non a caso dedicato alla Madonna della Stella Maris, Madonna con tanto di cappelletta sullo scoglio-penisola appuntito, dove in modo avventuroso alcuni hanno fatto l’amore a ora tarda, con piena benedizione della Signora. Se continui, anche con un vaporetto pubblico, la magnificenza delle dita del GGG diventa chiara, e la Storia viene fuori: i bunker di cemento grigio meravigliosi di una qualche Guerra Mondiale, la Cala degli Inglesi, la Cala dell’Oro (storie di pirati, reali), la Torre Saracena (che ricorda le frequentissime incursioni nordafricane), l’Abbazia di San Fruttuoso, regno di frati pescatori cattivissimi contro tutti, e la torre dei Doria con l’araldo stampato su un lato della leggendaria famiglia che ha fondato l’abbazia per ragioni ereditarie e dalla storia grandiosa che arriva fino a noi (la discendente Ginevra Doria, per dire, lavora con Paola Clerico al progetto
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espositivo Case Chiuse di Milano). E poi giù lungo il Parco Marino protetto fino alla grande scogliera – dalla quale precipitò la contessa Augusta – e girando l’angolo trovi la stessa Portofino. Da lì risalendo ci buttiamo dentro il verde che è (again) pari a una botta di acido: tutto verde, verde di ogni tipo, macchia mediterranea vera (non tanto per dire), bacche, pini, fiori, agave, capanne che sembrano esplodere sotto la luce, rami secchi, di colpo il blu e luce dappertutto tra le ombre. Risalendo di nuovo la china fino alla seconda Vetta, passando per gli Olmi e piano piano fino ai dolmen di Pietre Strette, si torna a una delle basi, al vecchio albergo/sanatorio liberty abbandonato che guarda i due golfi (ci arrivi lungo una strada stranamente piatta, senza contare poco dopo il bosco di lecci secolari detto Bosco delle Fate, ed è subito Signore degli Anelli). Si scende, pieni di luce, e si approda da Nicco, dal 1974 grandi cocktail con un servizietto di snack, immobile negli anni, e tra questi un piccolo würstel trafitto tagliato in due da un pezzetto di gruviera. Il tempo è sparito da tempo. Di nuovo un golfo, il Golfo Paradiso. Nell’Hotel Paradis (ora ovviamente vuoto), Nietzsche – che veniva spesso – scrisse Aurora.
GIRO D’ITALIA è una guida sentimentale che esplora la Penisola, dai più piccoli ai maggiori centri abitati. Seguendo la metafora del ciclismo, procede con lentezza, attraverso lo sguardo dei fotografi associato alle parole di autori di varie discipline. Un viaggio in soggettiva, per tracciare una mappa inedita del nostro Paese – un viaggio curato da Emilia Giorgi.
BIO Gaia Cambiaggi (1977) è una fotografa e artista la cui ricerca guarda all’architettura, alla città e ai paesaggi artificiali in relazione alle comunità che li abitano. Le sue opere sono state esposte presso istituzioni internazionali come la Biennale di architettura e urbanistica Shenzhen-Hong Kong, Experimenta (Biennale del design di Lisbona), la Biennale di Architettura di Venezia, Manifesta Palermo (eventi collaterali). Oltre alla sua produzione personale, lavora su commissione ed è stata docente di Fotografia d’Architettura presso l’Istituto Europeo di Design di Torino. In collaborazione con Benedetta Pomini e Delfino Sisto Legnani si dedica a un’approfondita ricerca nell’archivio fotografico di Ramak Fazel presso la galleria Viasaterna. gaiacambiaggi.net
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a destra e nelle pagine successive: Gaia Cambiaggi, Monte di Portofino, 2021. Courtesy l’artista
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IN COLLABORAZIONE CON:
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11th Nov 2021
GRAND OPENING
LIGHTS ON MI - Piazza Vetra 17 h 18:30
Una piazza, un building, un'opera d'arte. Vetra Building inaugura a Milano con Il Prisma e si illumina con una scultura pensata per l'occasione e firmata Patrick Tuttofuoco.
L EDITORIALI L
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MASSIMILIANO TONELLI [ direttore ]
LA CARICA DEI NON ASSESSORI ALLA CULTURA
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i solito quando scrivo questi editoriali a valle delle elezioni amministrative è tutto un considerare quello o quell’altro assessore. Cosa farà, come si muoverà, che cosa significa quella nomina, perché quella figura così competente è rimasta fuori. E ce ne sarebbe anche stavolta, eccome. Certo, mi sarebbe piaciuto commentare l’assessore alla cultura di Roma, ma mentre scrivo (il 27 ottobre, a nove giorni dal ballottaggio) Roberto Gualtieri non ha ancora una giunta. Potrei poi scrivere di Tommaso Sacchi, con questo curioso trasloco di assessore sull’asse Firenze-Milano. E potremmo anche discettare sull’interessante figura di Rosanna Purchia, nuovo assessore alla cultura di Torino, dove ha stravinto un sindaco che era dato per perdente da tutti quanti. E invece no. Notizie su questi assessori – pure su quelli ancora non nominati – le troverete nel nostro sito, qui sul magazine parliamo del dato principale che emerge da queste elezioni e no, non è l’astensionismo. Faccio riferimento ai non-assessori, eccolo il dato. Non solo Firenze, dove appunto Sacchi è andato via ma nessun sostituto è stato nominato. Ma anche in città altrettanto cruciali per la vita culturale del Paese come Bologna o Napoli. In tutte queste grandi aree urbane, queste capitali culturali, la delega alla cultura se l’è presa il sindaco. Se l’è tenuta lui.
Il sindaco che fa anche l’assessore alla cultura fotografa insomma una città che si disimpegna sulla cultura o una città che ha invece nella più alta considerazione le attività culturali? A questo punto a noi sta l’analisi. Perché è avvenuto questo? Due possibili risposte, tutte e due sensate, tutte e due da soppesare. La prima risposta è quella “media”, di chi magari è blandamente appassionato di faccende culturali: “Ah, fanno così perché non gliene frega nulla della cultura, manco gli assessori nominano”. La seconda risposta è più articolata: non sarà mica che la delega alla cultura, che un tempo era più una bega che un onore, è diventata qualcosa di profondamente necessario per gestire a pieno il governo di una città, la sua identità, la sua immagine, il rapporto con le aziende che vi investono, i flussi del turismo? Il sindaco che fa anche l’assessore alla cultura fotografa insomma una città che si disimpegna sulla cultura o una città che ha invece nella più alta considerazione le attività culturali? Qualche dubbio ulteriore lo devono instillare le considerazioni di Gaetano Manfredi, il quale, da neoeletto sindaco di Napoli, ha fatto come i colleghi di Bologna Lepore (che nella precedente giunta faceva l’assessore alla cultura e ha deciso di farlo anche da sindaco!) e di Firenze Nardella: s’è tenuto per sé l’assessorato culturale. Come mai? Non ha trovato nessuno che lo volesse fare? Ha preferito istituire altri assessorati su altri temi e poi aveva finito i posti? Lui la vede in maniera diversa: “L’ho fatto perché la cultura è l’asset più strategico e importante per la città, in particolar modo in questa fase iniziale. La mia scelta è stata orientata al desiderio di valorizzare al massimo questo settore, mettere in campo attraverso di me tutte le energie cittadine al fine di creare un grande piano strategico culturale. Non avrò tempo? Beh, mi circonderò di una squadra competentissima all’insegna dell’ascolto e del dialogo”. Insomma, assessorati depotenziati e penuria di interlocutori o semmai super assessorati culturali con a capo addirittura il primo cittadino? Inutile dire che ci faremo particolarmente attenzione nei prossimi mesi.
LUCA JOSI
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Il viaggio di TIM
Mausoleo di Augusto Piazza di Spagna Piazza Navona Villa di Massenzio
Milano Sanremo
Venezia Portovenere
Palo Alto
In epoca di metaversi, quest’anno abbiamo realizzato il viaggio digitale nelle tante vite del Mausoleo di Augusto e il primo a compierlo è stato Mark Zuckerberg. giochi acquatici (con tanto di Federica Pellegrini e musical all’Esther Williams); in inverno facciamo ghiacciare la piazza dove JSM pattinerà con Carolina Kostner. Citiamo quindi l’esercito di terracotta contrapponendogli un pacifico plotone di automi elettronici accesi da un telefonino: i nostri robot TIM detentori ancora del Guinness mondiale per questa performance. Poi leghiamo la piazza al Festival di Sanremo (kermesse di cui siamo sponsor unici). Il premio per il vincitore del più importante evento musicale (non esistono fenomeni equivalenti capaci di attrarre
oltre il 50% del pubblico di un intero Paese per più di cinque ore e per cinque giorni consecutivi) è composto da un leone e una palma: due elementi che si ritrovano nella Fontana dei Quattro Fiumi tra il Gange e il Nilo. Quindi sarà un morphing a unire i due luoghi: Roma e Sanremo. E con un altro volo connettiamo i Måneskin, nostri testimonial, alla piazza. Infatti, con una benaugurante citazione del concerto Live at Pompei (Pink Floyd, 1971), portiamo il gruppo romano a Massenzio, costruendo un palco sulla spina del monumento archeologico contenente un accenno all’obelisco (richiamo di quello agonale, oggi simbolo della Fontana dei Quattro Fiumi, proveniente proprio dal circo di Massenzio). Quindi per il lancio, mondiale, di Disney+ su TIMVISION siamo l’unico Paese a localizzare la campagna globale della company statunitense traghettando i più iconici personaggi di quel pianeta d’invenzioni nei luoghi dell’immaginario artistico italiano. Impegno che riprendiamo con lo spot della ripartenza post pandemia inserendo una città metafisica che rimanda al felliniano episodio di Boccaccio 70. Per la partenza della Serie A TIM lanciamo un Intervallo, storico formato della tv pubblica, che sostituisce alle cartoline d’Italia i campi reali e immaginifici delle nostre città (in anticipo di un progetto di personalizzazione di ogni sigla delle partite di campionato, ognuna differente dalle altre, disegnate dalla star dei fumettisti italiani Carmine Di Giandomenico). Anche per il primo spot dedicato al 5G chiediamo aiuto alla potenza della nostra storia. I primi frame sono dedicati alla chiesa di San Pietro, un ammutolente gotico genovese che domina sulla grotta di Byron a Portovenere. Per il secondo spot, dedicato a ciò che il 5G ci permetterà di “rivedere”, il Mausoleo di Augusto disvela le sue diverse esistenze – tomba, giardino all’italiana, più grande auditorium d’Europa – sotto la guida del maestro Riccardo Muti. Quindi otto clip, ancora dedicate al 5G, concepite con il gruppo di lavoro di Toiletpaper di Maurizio Cattelan e Pierpaolo Ferrari. Un ultimo “dettaglio”. Questi cinque anni hanno camminato sui passi di una voce: Mina.
L EDITORIALI L
inque anni esaltanti, trascorsi a creare, produrre e pianificare la comunicazione del più grande gruppo di comunicazione italiana: la TIM. Come tante storie, anche questa è iniziata per caso e dalla porta più potente del nostro Paese: la sua storia e la sua arte. Infatti all’inizio entro in Fondazione TIM e ho l’opportunità di proporre il progetto di recupero del Mausoleo di Augusto. Diamo il via, così, al più importante atto di mecenatismo del Paese; cosa giusta per il luogo che aveva accolto le spoglie di Mecenate (sito sul quale incombeva l’eco di riconoscersi nel destino lessicale di un altro suo ospite: Vespasiano). E in epoca di metaversi, quest’anno abbiamo realizzato il viaggio digitale nelle tante vite del monumento e il primo a compierlo è stato Mark Zuckerberg (collegato coi suoi Oculus dalla sua casa di Palo Alto). Comunque, nel 2016 parte l’avventura commerciale e, grazie all’intuizione della mia metà, Allegra, individuo un testimonial che diventerà il testimonial del Gruppo: Sven Otten, il ballerino vitruviano (quello che balla nella circonferenza perfetta del monoscopio dei nostri monitor). E da quel momento cominciamo a farlo vivere nei luoghi più iconici e accomunanti del Paese: un flash mob sulle scalinate di piazza di Spagna, dove il nostro logo viene composto dalla coreografia dei ballerini. Poi passiamo ad affiancare Sven alla mitologia contemporanea e ai suoi supereroi, scegliendogli come partner una divinità del nuovo Olimpo: Spider-Man. Ha colori uguali ai nostri, il rosso e il blu, e condivide un’identica competenza: “È il massimo esperto di reti”. Per questo lo facciamo volare prima sullo skyline delle nuove architetture di Milano e poi di San Marco e Rialto a Venezia. Quindi lavoriamo a identificare uno spazio architettonico che definisca la centralità della nostra azienda nel nostro Paese. Scegliamo lo stadio romano di Domiziano, la piazza Navona di Innocenzo X, che trasformiamo nella pista di atterraggio – una citazione di Grazia Toderi e della sua Mirabilia Urbis – del mito interstellare di Star Wars (alla continua ricerca di connessione). La nostra piazza sarà però circondata non da Roma, ma dagli orizzonti architettonici e iconici dell’intero Paese. E il “dominio” visivo su quel luogo sarà totale. Cominciamo a cavalcarne le stagioni: in primavera un’infiorata conquista il selciato; in estate allaghiamo l’invaso e riconsegniamo lo spazio ai seicenteschi
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ECCO COME HO PORTATO CULTURA E PATRIMONIO VISIVO NELLA PUBBLICITÀ
Ligure a Roma, Luca Josi è stato fino a poche settimane fa e negli ultimi cinque anni brand strategist di TIM.
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CLAUDIO MUSSO [ critico d’arte e docente ]
L’ARTE (NON) È UN’ISOLA
The Play, Current of Contemporary Art, Fiume Yodo, Giappone, 20 luglio 1969, fotografia di documentazione. Photo Higuchi Shigeru © The Play
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ontani da tutto e da tutti, separati dal mondo, distanti dagli altri e dall’altro. Sentimenti che molti di noi hanno provato a causa della pandemia da Covid-19 tanto da descrivere questi stati d’animo come una sorta di esilio, letteralmente l’essere fuori dalla (propria) terra. Se citando Hemingway via John Donne possiamo ancora affermare che “nessun uomo è un’isola”, ciò non toglie che l’idea del distacco dal continente possa, in casi specifici, fungere da attivatore di energia creativa. Isolamento o separatezza infatti possono non essere sempre sinonimi di difficoltà o disagio, anzi, una delle figure ricorrenti che associamo al termine isola è la cosiddetta “isola felice”. Questa visione in ambito artistico porta alla mente una delle declinazioni della Supersuperficie (1971) di Superstudio, in cui elementi tipici della vita domestica come un guardaroba, un asse da stiro, mobili e tappeti sono allestiti all’aperto circondati da uno spazio algido e vuoto. La metafora di un ambiente galleggiante, nel quale si trovano condizioni che sarebbero impossibili al di fuori. A proposito di galleggiamenti, di immagine in immagine, non è difficile finire alla zattera a forma di freccia con cui
La frontiera come luogo del collegamento. Significato che è possibile ribaltare se la figura del migrante prende la forma di un’intera isola invece che di una persona o di un popolo. il gruppo giapponese The Play attraversa il fiume Yodo nella prefettura di Kyoto proprio sul finire degli Anni Sessanta. Cosa succede quando l’oggetto dell’attenzione si allarga fino all’arcipelago? In questo caso l’azione può spingere sull’accentuazione dei confini, dei limiti geografici tra terra e acqua, espandendoli come fossero carichi di un’aura. Nel maggio del 1983 Christo & Jeanne Claude completano Surrounded Islands, circondando per due settimane diversi atolli della Biscayne Bay a Miami con larghe falde di tessuto rosa shocking. La frontiera come luogo del collegamento, possibilità di unione, marcatore di contatto. Significato che è possibile
ribaltare se la figura del migrante, ovvero di chi si sposta verso nuove sedi, prende la forma di un’intera isola invece che di una persona o di un popolo. “Chili Moon Town”, nella descrizione degli artisti Anna Galtarossa e Daniel Gonzalez, che l’hanno creata nel 2007 a Città del Messico, “is a utopian floating city of dreams that knows no boundaries. It was born as a free city without frontiers. Its citizens do not migrate; the city itself migrates, carrying the dreams of people”. L’isola come mezzo per fuggire non tanto dalla realtà quanto dalle logiche che la regolano e impediscono l’insorgere di un pensiero alternativo. Un interstizio di possibilità che valica i contorni del reale per attestarsi come spazio libero, anche per ospitare operazioni artistiche. Era lo scopo principale di RMB City, piattaforma creata al largo delle coste virtuali di Second Life nel 2009 dall’artista cinese Cao Fei. O, infine, quando l’isola viene riportata forzatamente, seppur a scopo protettivo, al suo statuto di marginalità, come nel progetto di Riccardo Benassi Piramide di vetro antiproiettile per l’isola di San Paolo, di proprietà della Famiglia Beretta (2009), tornato alla luce di recente nella mostra Hidden Displays 1975-2020 al MAMbo di Bologna.
FABIO SEVERINO [ economista della cultura ]
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na delle debolezze del settore culturale è la sua dipendenza dalle sovvenzioni pubbliche. Ritengo sia un grave distorsore di mercato, ma non in termini di concorrenza sleale: qualcuno prende di più o semplicemente prende e quindi è avvantaggiato su chi non prende o prende meno. Il problema è ancor prima: gli operatori producono in funzione di come e cosa “beccano”. Certo, lo so che è dalla notte dei tempi che l’artista produce per il benefattore, il “principe”. Quindi – come dire – questa forma di opportunismo mercantilista è insita nel “gioco” della produzione artistica. Ma oggi il consumo culturale è massivo: miliardi di persone vedono film, visitano musei, assistono a spettacoli, ascoltano musica, leggono letteratura ecc.
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Quindi non ci può essere più il dualismo: committente – produttore, mecenate – artista. Perché l’arte non si realizza per uno. In qualche modo potremmo dire che il mercato, ovvero il grande consumo d’arte, la spersonalizzazione del destinatario (non del benefattore) ha liberato la produzione artistica. Eppure il dualismo persiste: siccome i soldi per lo più li mette l’amministrazione pubblica, allora io l’assecondo! Questo genera operatori culturali viziati, impreparati alla domanda vera di mercato, al destinatario, insensibili – spesso, non sempre – alla vera qualità dell’offerta. E soprattutto, cosa che io non riesco a perdonare loro, l’essere noncuranti dell’unica vera metrica del successo in una produzione: l’abbondanza nel consumo. Gran parte dell’offerta culturale è economicamente mal impostata. Non vive né sopravvive del successo nella vendita al dettaglio. I cosiddetti ricavi propri, la biglietteria, sono sempre una quota marginale dell’equilibrio di bilancio o del guadagno. L’offerta culturale sta in piedi
Spagna CROWDFUNDING BIZKAIA crowdfundingbizkaia.com
Francia | Belgio | Italia LITA.CO fr.lita.co
Italia EPPELA eppela.com
Francia | Germania | Italia Olanda | Spagna OCTOBER october.eu
Germania FAIRPLAID fairplaid.org Lituania FINBEE finbee.lt Spagna GOTEO DONATION goteo.org Belgio GROWFUNDING growfunding.be
Olanda ONEPLANETCROWD oneplanetcrowd.com Portogallo PPL ppl.pt Italia PRODUZIONI DAL BASSO produzionidalbasso.com UK | Portogallo | Spagna SEEDRS seedrs.com
Italia IDEAGINGER ideaginger.it
UK SPACEHIVE spacehive.com
Belgio | Olanda KOALECT koalect.com
Germania | Austria STARTNEXT startnext.com
Spagna LA BOLSA bolsasocial.com
Francia | Italia ULULE it.ulule.com
Spagna LÁNZANOS lanzanos.com
Italia WEARESTARTING wearestarting.it
L EDITORIALI L
Bisognerebbe seguire il modello anglosassone del matching grant: per ogni euro che trovi da solo, io te ne do un altro.
20 piattaforme europee che usano il match-funding
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LE SOVVENZIONI PUBBLICHE E LA MORTE DELL’INNOVAZIONE
fonte: EuroCrowd, working group CF4ESIF – Crowdfunding for European Structural and Investment Funds, Scaling Up Partnerships, 2021, eurocrowd.org
perché il grosso è da sovvenzione pubblica. Questo genera luoghi troppo vuoti, offerta non innovativa, artisti “conniventi” o comunque sempre gli stessi, politica dei prezzi sconclusionata (o troppo economici o troppo cari)… Se l’operatore si misurasse veramente col mercato, ci sarebbe una fisiologica innovazione in tutto: nell’offerta, nell’erogazione, nell’accessibilità, nei linguaggi, nella promozione, nel marketing. Infatti i pochi comparti culturali che vivono a mercato (ad esempio musica registrata ed editoria libraria) sono ben attenti a cosa vanno a fare. Perché lo stesso non si può dire di un teatro o di una compagnia teatrale,
oppure di un produttore cinematografico, o di festival o di un museo? Io non dico che non ci debba essere il sostegno pubblico. Gran parte dell’offerta culturale non può scaricare il costo di produzione sui soli ricavi propri, non sarebbe sostenibile, è assodato, però i fondi andrebbero erogati diversamente. Bisognerebbe seguire il modello anglosassone del matching grant: per ogni euro che trovi da solo (biglietteria, sponsorizzazioni, liberalità ecc.), io te ne do un altro. Si deve rischiare come in qualsiasi altra iniziativa imprenditoriale. Sarebbe tutta un’altra musica.
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MARCELLO FALETRA [ saggista ]
MUSEI SENZA MEMORIA
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i sono opere che vogliono dispiacere, ma appena entrano in un museo d’un colpo “piacciono”. Un cadavere in strada procura orrore, in un museo curiosità. “Restituitemi il corpo di mio padre”, implorava il giovane Inuit di fronte al cadavere esposto in un museo di storia naturale di New York. E di corpi squartati sono pieni i musei, che siano naturalistici o d’arte ormai non fa più differenza. Questa fatale indistinzione ha portato Peter Sloterdijk all’espressione “infarto del senso”, suggerendo che la bellezza ha un valore retroattivo. “I musei”, notava Adorno, “sono come tombe di famiglia delle opere d’arte”, cioè mausolei; anche questa è un’espressione forte, di fronte alla quale Paul Valéry non sarebbe stato del tutto d’accordo. Se le opere potessero parlare, molte di esse inveirebbero contro i loro “conservatori” per averle messe nello stesso pianerottolo con altre di cui non condividono idee, forme e apparenza estetica. L’orror sacro che colpì Valéry al Louvre, di fronte ad allegorie, scene di decapitazioni e di morte, lo portò a classificare il museo come un luogo che ci fa diventare superficiali. Il prodotto di migliaia di ore che tanti maestri hanno consumato disegnando e dipingendo è percepito nella disinvoltura di pochi istanti. Una natura morta diventa un “documento” e lotta per farsi notare di fianco a una irresistibile Venere seducente. Come in un condominio, elementi inconciliabili si contendono lo stesso spazio, e le “tombe di famiglia” si fanno guerra l’un l’altra per intercettare lo sguardo del visitatore. L’esigenza di plasmare una massa eterogenea di materiali secondo una legge formale ugualmente valida per ogni elemento comporta una riduzione della ricezione culturale di essi, ammassati come in un magazzino e “offerti” al consumo culturale. André Malraux diceva che i musei ratificano la conquista del passato e lo consegnano all’ordine del presente; e per il fatto che la loro esistenza si nutre del bottino di guerra, sono per questo anche un documento di barbarie. E se il presente è colonizzato dalla religione edonista, allora l’urna del museo accoglie coffee-shop, self-service, punti-vendita, libri, oggettistica, borsette firmate, magliette e chincaglieria varia. E sul modello americano questi luoghi, sempre più indefinibili, si affittano per costosi matrimoni e per “eventi”. Da molti anni i musei si sono adeguati all’imperativo dell’assolo edonistico, assurto a
In ordine di apparizione
PETER SLOTERDIJK (Karlsruhe, 1947) filosofo
THEODOR W. ADORNO (Francoforte, 1903 – Visp, 1969) filosofo e musicologo
PAUL VALÉRY (Sète, 1871 – Parigi, 1945) poeta e filosofo
ANDRÉ MALRAUX (Parigi, 1901 – Créteil, 1976) scrittore e politico
JORGE GLUSBERG (Buenos Aires, 1932-2012) curatore, critico, artista
ADOLF LOOS (Brno, 1870 – Kalksburg, 1933) architetto e saggista
KARL KRAUS (Jičín, 1874 – Vienna, 1936) scrittore
MARCEL DUCHAMP (Blainville-Crevon, 1887 – Neuilly-sur-Seine, 1968) artista e scacchista
simbolo di vita sociale. In mancanza di una vita sociale reale, il museo supplisce con un’offerta di godimento culturale, di cui l’arte diventa un arredo indispensabile. Siamo ben lontani dalle utopie di Jorge Glusberg che, sulla scia di Malraux, anelava a musei immaginari, dove ciascun fruitore
Se la gestione politicoculturale dei musei è in mano ad analfabeti, cioè a mercanti di cultura con i loro emissari politici, allora per essi c’è un solo destino: il cesso.
diventava parte attiva (non consumatore) della vita del museo. Come non dar ragione ad Adolf Loos e Karl Kraus, i quali erano d’accordo sul fatto che la differenza tra un’urna e un vaso da notte stabiliva lo spazio della civiltà. Se il museo è come un’urna che conserva i resti (anche viventi) di un’epoca, allora questa differenza tra urna e vaso da notte ha trovato da oltre un secolo un’ironica risposta in un banale oggetto quotidiano. C’è chi usa l’urna come vaso da notte e chi usa il vaso da notte come urna. Entrambe le posizioni coesistono in una patafisica conciliazione nell’orinatoio di Duchamp, divenuto feticcio indiscusso dell’arte contemporanea. La risposta di Duchamp è ironica e politica a un tempo. Se la gestione politico-culturale dei musei è in mano ad analfabeti, cioè a mercanti di cultura con i loro emissari politici, allora per essi c’è un solo destino: il cesso.
CHRISTIAN CALIANDRO [ storico e critico d’arte ]
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Cosa c’è di più contraddittorio di una canzone o di un disco che si muove tra sperimentazione e mainstream, tra luminosità popolare e oscurità creativa? Trovo interessante e affascinante questa idea dell’Autore come “pastore” che ha il compito di radunare e guidare i lettori / spettatori verso una dimensione assolutamente media, mentre il suo ruolo sarebbe quello di esplorare territori sconosciuti, di compiere – ogni volta per la prima volta – un percorso avventuroso, pericoloso. Un modo laterale di affrontare l’argomento è quello di approfondire qualcosa che nasce tra fine Anni Settanta e inizio Anni Ottanta – in campo musicale – e fiorisce negli Anni Novanta, per appassire definitivamente all’inizio degli Anni Zero: il pop sotterraneo. La musica, del resto, è sempre stata la cartina di tornasole perfetta per indagare ciò che si muove parallelamente negli altri territori artistici, in maniera forse meno evidente. Il pop sotterraneo (subterranean pop) emerge come idea
6 dischi da ascoltare PINK FLOYD The Wall 1979
THE CURE Pornography 1982
THE CURE Disintegration 1989
DEPECHE MODE Songs of Faith & Devotion 1993
NINE INCH NAILS The Downward Spiral 1994
NINE INCH NAILS The Fragile 1999
con l’ondata post-punk / new wave / synth pop / gothic, costituita da band innovative e sperimentali, venute fuori dalle zone più impervie della sottocultura appena nata e attrezzate con i suoni più caustici in circolazione all’epoca, che però gradualmente – con l’ingresso nel nuovo scintillante decennio – si dedicano a inventare una forma estremamente raffinata di musica pop, leggera ma al tempo stesso radicale, e vanno così incontro a uno sfolgorante successo, in molti casi planetario. Ogni elenco può essere solo parziale, per ovvie ragioni: U2, Depeche Mode, New Order, Ultravox, The Cure, Siouxsie & the Banshees, Orchestral Manoeuvres in the Dark, Simple Minds, Spandau Ballet, The Sound, Japan, Wire, Talking Heads, The Human League, Talk Talk, Modern
English, Pet Shop Boys, Tears for Fears, Icehouse ecc. Qualche volta, la natura volutamente ambigua del pop sotterraneo viene dichiarata esplicitamente e orgogliosamente esibita come intenzione: è il caso di Robert Smith dei Cure, che, a proposito di The Lovecats (1983), dichiarò che la canzone era “il più vicino possibile alla perfetta canzone pop cui possiamo arrivare”. Negli Anni Novanta questo processo – anche, e soprattutto, grazie alla nascita del grunge: non a caso, la SUB POP di Seattle è la casa discografica che articola l’intero movimento – si sviluppa e si complica ulteriormente, con gruppi nati di nicchia che accedono improvvisamente a un successo di massa e globale. Il pop sotterraneo è, tecnicamente, un errore. Un’aporia. Nasce con una pervicace attitudine all’ambiguità e all’ambivalenza: che cosa c’è infatti di più contraddittorio di una canzone o di un disco che si muove tra sperimentazione e mainstream, tra luminosità popolare e oscurità creativa? Il pop sotterraneo prende i risultati migliori di un certo tipo di innovazione e li condensa in una forma altamente riconoscibile – “classica”, per così dire. E l’aspetto più interessante forse è che, così facendo, il gruppo si inoltra quasi sempre in un territorio inesplorato. La logica non è infatti semplicemente quella della band “che si vende” (al mercato, ai fan, al sistema ecc.), quanto piuttosto quella della band che costruisce qualcosa che prima non esisteva, rendendo “commestibile” (= commerciabile) qualcosa che immediatamente prima risultava ostico, immangiabile, inaffrontabile ai più – e al tempo stesso trasformando in profondità quel qualcosa, attribuendogli cioè qualità che non appartengono a un’unica identità artistica. Ovviamente, il pop sotterraneo – e i suoi autori – danno il meglio di sé nelle condizioni più catastrofiche (e apparentemente sfavorevoli), in un clima cioè di sfacelo esistenziale e di disintegrazione creativa: opere capitali, in questo senso, sono The Wall (1979) dei Pink Floyd, Pornography (1982) e Disintegration (1989) dei Cure, Songs of Faith & Devotion (1993) dei Depeche Mode, The Downward Spiral (1994) e The Fragile (1999) dei Nine Inch Nails. C’è una linea nascosta che collega, infatti, i risultati più alti del sub-pop con la “fine-di-tutte-lecose”: la sua ambiguità di fondo si attiva meravigliosamente, e misteriosamente, attraverso la nostalgia, non tanto e non solo di ciò che è stato, ma anche e soprattutto di ciò che non è stato – e che non sarà mai.
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a alcuni mesi, fin dall’ultimo lockdown, periodicamente ritorno su un pezzo che Francesco Pacifico ha pubblicato a febbraio su CheFare, dedicato al mainstream come “bolla culturale”. La sua idea è che lo scrittore / autore / intellettuale / artista oggi non sia mediamente impegnato nella sperimentazione, quanto piuttosto nello strano lavoro di condurre il suo pubblico verso il Centro, il cuore della cultura mainstream nazionale e internazionale: “Che c’entra con la bolla e con il mainstream? È un avvertimento, per dire che chi sta parlando del rapporto tra piccole cerchie e opinione pubblica è uno che a monte si copre la bocca dalla tensione ogni volta che ha conferma che la vita pubblica è fatta soprattutto della quantità di desiderio investito da alcuni nel proporre le proprie visioni a numerosi altri. Da gente che studia come porsi e poi ripete sempre la stessa formula perché funzioni, perché solo così può crearsi un pubblico: rimanendo sempre uguale e lasciandosi riconoscere e voler bene” (Lettera di Notte #1, come la cultura mainstream è diventata una bolla insignificante, “CheFare”, 12 febbraio 2021).
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SUL POP SOTTERRANEO
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RENATO BARILLI [ critico d’arte militante ]
GIAN MARIA TOSATTI PIGLIATUTTO
Storia della Quadriennale di Roma 1900
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n altro luogo ho già espresso tutta la meraviglia per due nomine alquanto singolari piovute sull’artista Gian Maria Tosatti, che magari sarà un genio, ma a insaputa mia e ritengo di molti altri colleghi. Eppure su di lui ha puntato secco il curatore del Padiglione Italia alla prossima Biennale. Forse meglio così che certe eccessivamente folte presenze in altre occasioni, ma anche la scelta monografica mi sembra eccessiva. Inoltre sullo stesso Tosatti è piovuta una nomina ancor più singolare, di unico direttore della prossima Quadriennale, anche in questo caso evento, credo, particolarmente improprio. Delle tre istituzioni di casa nostra, la più anziana, la Biennale di Venezia, marcia a piene vele ed è divenuta un modello per la mole di sorelle nate in tanti altri Paesi. La periodicità biennale è risultata la più opportuna e favorevole. Negli Anni Venti le aveva fatto seguito un’altra Biennale, nata prima a Monza e poi trasferitasi a Milano, specializzandosi in architettura e design. Poi, nel dopoguerra direi che ha commesso, per dirla con Dante, “per viltà il gran rifiuto”. Ha ritenuto di non poter più presentare in architettura e design un panorama mondiale ogni due anni, e dunque è arretrata alla misura triennale, da cui il suo nome, ma la rivale Biennale di Venezia ha ringraziato e ha dimostrato di poter affiancare alle consorelle anche questo settore, con esito ottimo. La terza delle istituzioni nazionali è la Quadriennale, nata negli Anni Trenta, il cui compito sarebbe di fornire per quel periodo una rassegna e valorizzazione dell’arte nostrana. Per qualche tempo ha fatto abbastanza bene il suo dovere in questo senso, ma poi è impazzita, allungando la periodicità, assumendo coorti di critici e storici dell’arte per lo più lottizzati dai vari partiti – io ne so qualcosa, in quanto ho partecipato più volte a questi raduni mal assortiti, che quasi sempre tradivano il loro compito. Per cui, diciamolo pure, fra le tre manifestazioni, la Quadriennale resta la grande malata, ma di sicuro il modo migliore per guarirla sarebbe di rispettarne i criteri di fondazione, del tutto contrari a una guida solitaria, lasciata al beneplacito di una singola personalità, fosse pure di eccezione, il che appunto non pare essere la statura del nostro Tosatti. La Quadriennale dovrebbe rispettare il mandato che le è stato dato, di fornirci cioè ogni quadriennio una sintesi attendibile di
Nasce con Viene istituita deliberazione del ufficialmente Governatorato di Roma
Diventa Ente Autonomo Quadriennale d’Arte
Fortunato Bellonzi è nominato segretario generale
IX edizione, l’unica negli Anni Sessanta
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XI edizione, l’unica del decennio, allestita al Palazzo dei Congressi
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XIV edizione, con Anteprima Napoli al Palazzo Reale; Anteprima Torino alla Promotrice delle Belle Arti; Fuori Tema/Italian feeling alla GNAM di Roma 05
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La sede della Quadriennale, divenuta Fondazione, viene trasferita a Villa Carpegna
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XV edizione con cinque curatori, che omaggiano Luciano Fabro e propongono 99 artisti attivi dagli Anni Novanta
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Franco Bernabè assume la direzione
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XVI edizione (Altri tempi, altri miti), che vede in campo dieci proposte curatoriali per altrettante mostre
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XVII edizione, dal titolo Fuori: curata da Cosulich e Stefano Collicelli Cagol, vede in mostra 43 artisti con opere dagli Anni Sessanta a oggi
Umberto Croppi succede a Franco Bernabè nel ruolo di presidente
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XII edizione, strutturata in due mostre: Italia 1950-1990 (1992), Ultime generazioni (1996), quest’ultima allestita, oltre al Palazzo delle Esposizioni, alla Stazione Termini
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Viene pubblicato, in collaborazione con Marsilio, il libro Terrazza. Artisti, storie, luoghi, negli anni Zero
Sarah Cosulich è nominata direttrice artistica. Lancia i progetti Q-Rated e Q-International
VIII edizione: Gianni Bertini, invia in mostra tre quadri acquistati in un mercatino
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La XVI edizione viene annullata per mancanza di fondi. Alla direzione c’è Jas Gawronski
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VII edizione con una collettiva sugli artisti che hanno operato dagli Anni Dieci agli Anni Trenta
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XIII edizione con una retrospettiva (Valori plastici) e una mostra dedicata alla più stretta contemporaneità
V edizione, allestita alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e diretta da Francesco Coccia
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VI edizione: la mostra torna al Palazzo delle Esposizioni e le opere esposte sono circa 3.500
X edizione, articolata in cinque mostre allestite in sei anni. Da ora la partecipazione è su invito
II edizione, rivolta alle nuove generazioni
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III edizione, con una personale di Giorgio Morandi
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I edizione, diretta da Cipriano Efisio Oppo come le tre successive e allestita al Palazzo delle Esposizioni.
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Gian Maria Tosatti magari sarà un genio, ma a insaputa mia e ritengo di molti altri colleghi.
quanto è successo tra di noi, quindi, poniamo, una retrospettiva di omaggio ai Maestri nel frattempo deceduti, un quadro degli “ismi” nati nel periodo, attraverso i loro migliori esponenti, il tutto allestito nello spazio del Palaexpo di Roma, che risulta il più efficiente come contenitore.
Alla direzione artistica viene nominato Gian Maria Tosatti
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Mai procedere, invece, a permettere a qualcuno una selezione troppo personale, come fosse il curatore di una qualche mostra regionale. Devo anche segnalare una circostanza singolare e incredibile. Il fine istituzionale della Quadriennale sarebbe la difesa della nostra arte anche all’estero, ma lo statuto impedisce a chi la dirige temporaneamente di fare viaggi internazionali nel tentativo di portarvi queste antologie del nostro meglio. Un compito del genere è rimasto nelle mani del Ministero degli Esteri e dei relativi istituti di cultura, alcuni anche con spazi ragguardevoli, ma tentati di soddisfare le richieste degli ambasciatori e di ospitare magari i frutti non esaltanti di loro congiunti e congiunte.
LA COPERTINA
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ELENA XAUSA Nell’arte contemporanea sono molti gli artisti che indagano la dimensione del passato e la fanno parlare attraverso l’organizzazione e la curatela di archivi. Quindi il lavoro di un artista è spesso costituito dall’archivio di manufatti creati da altre persone, successivamente esposti sotto una teca trasparente e pulita. In questi casi l’identità dell’artista diventa l’archivio che lui ha selezionato, oppure la sua vita stessa può essere soggetto di un archivio? Elena Xausa (1984) è un’illustratrice e artista italiana di fama internazionale. Dopo aver vissuto a Venezia, Berlino, Milano e New York, è tornata in Veneto. Ha lavorato per testate di livello mondiale e ricevuto diversi riconoscimenti: tra questi, la residenza artistica alla Fondazione Bevilacqua La Masa di Venezia. Il suo lavoro è stato esposto alla Stazione Leopolda di Firenze e alla Triennale di Milano. Nel 2021 i Musei Civici di Bassano del Grappa hanno ospitato la sua personale Coming Home, conclusa con un’importante asta di beneficenza. Oltre all’illustrazione, Elena si dedica alla realizzazione di installazioni site-specific e oggetti di design. elenaxausa.com elenaxausa
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13esima Florence Biennale. Con oltre 460 artisti internazionali VALENTINA SILVESTRINI L Segnano una cesura profonda i due anni che separano la XII Florence Biennale – Mostra Internazionale di Arte Contemporanea e Design dalla recente 13esima edizione. La cadenza biennale della kermesse non ha inciso sulla consueta programmazione, ma la pandemia e le restrizioni hanno imposto agli organizzatori un percorso in salita, il cui esito non era scontato. Anche per questo, negli spazi espositivi della Fortezza da Basso, sede fino al 31 ottobre scorso dell’evento, a prevalere è stato un sentimento di fiducia, tipico di ogni ripartenza. “È una Florence Biennale che sta crescendo, si sta allargando verso il design, settore nel quale l’Italia e anche la Toscana costituiscono un’eccellenza indubbia a livello internazionale”, ha osservato il sindaco Dario Nardella durante l’inaugurazione; il presidente della Toscana, Eugenio Giani, ha messo in evidenza la “risposta eccezionale di partecipazione da parte degli artisti”. Nel complesso sono stati 465 gli autori presenti, fra designer e artisti, con un calo delle adesioni rispetto agli anni passati, registrato soprattutto dall’America Latina e dalla Cina. Duplice la lettura offerta del tema guida del 2021, Eternal Feminine – Eternal Change. Concepts of Femininty in Contemporary Art and Design: dalla riflessione sull’essenza immutabile della femminilità si è passati a un’analisi della sua metamorfosi contemporanea, in un’ottica che ha incluso anche le battaglie per le pari opportunità e il dibattito sulle identità di genere. A indagare entrambi i filoni sono stati gli oltre sessanta artisti scelti dal curatore indipendente Fortunato D’Amico per la mostra allestita nel Padiglione Cavaniglia. La collettiva rientra fra le novità dell’edizione 2021, che sarà ricordata anche per il debutto del “Premio del pubblico”, attribuito direttamente dai visitatori all’opera più scansionata via smartphone. La vincitrice è esposta fino al 4 dicembre all’interno della sede dell’Accademia delle Arti del disegno di Firenze, insieme a tutti i lavori che hanno ottenuto un riconoscimento nelle dodici categorie del concorso associato alla Biennale. Alla stilista e attivista inglese Vivienne Westwood, all’artista Michelangelo Pistoletto e al fotografo Oliviero Toscani – tutti presenti a Firenze e singolarmente omaggiati nel percorso di visita da speciali focus espositivi – sono stati assegnati i premi alla carriera “Leonardo da Vinci” per il Design e “Lorenzo il Magnifico” per l’Arte. florencebiennale.org
NUOVI SPAZI CANDY SNAKE GALLERY Via Luigi Porro Lambertenghi 6 candysnakegallery.com
SPORT PHOTOGRAPHY MUSEUM Casa Museo Spazio Tadini via Jommelli, 24 sportphotographymuseum.com
FELTRE
ISOLA CASORETTO
PAOLO SARPI F2T GALLERY Via Statuto 13 f2tgallery.com
LAMBRATE
SAN MARCO SEMPIONE
BOCCANERA GALLERY MILANO boccaneragallery.com GALLERIA DORIS GHETTA dorisghetta.com Via Ventura 6
BRERA GALLERIA CANESSO Via Borgonuovo, 24 galleriacanesso.ch NAVIGLI
MAURIZIO NOBILE FINE ART Palazzo Bagatti Valsecchi Via Santo Spirito 7 maurizionobile.com
L.U.P.O. Corso Buenos Aires 2 lupo.gallery
CORVETTO VIAFARINI.WORK via Marco D’Agrate 33 viafarini.org (non ancora aperta)
OPERA SEXY
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I CORPI AL QUADRATO DI TAKESHI HAGURI tumblr.com/tagged/takeshi+haguri
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Le vie dell’amore sono infinite. Se chiunque è soggetto di desiderio, chiunque può essere oggetto di desiderio. Certo, le qualità spirituali, o perlomeno di comportamento, saranno quelle decisive nella scelta dell’obiettivo erotico; eppure la prima spinta, che a volte è quella cruciale, è motivata dalle caratteristiche fisiche di chi attira l’attenzione, e non è detto che queste rispondano sempre al comune sentimento del “bello”. Non è bello ciò che è bello ma è bello ciò che piace, si ripete giudiziosamente generazione dopo generazione. Ecco allora che, senza dover per forza parlare di feticismi, magari in termini deprezzanti, pure certe “esagerazioni” (nel semplice senso di uscite da una media preventivamente circoscritta) possono rivelarsi potenti attrattori. C’è chi capitola dinanzi alle esondanti pelosità e chi davanti al glabro assoluto, per esempio; oppure chi stravede per la filiforme magrezza e chi viceversa per la sovrabbondanza delle carni. Avete presente i corpaccioni dei lottatori di sumo? Voilà, quella fisicità eccessiva può anche far sognare. Lo scultore nipponico Takeshi Haguri (Nagoya, 1957) ne ha fatto il soggetto quasi univoco del proprio percorso espressivo, divenendo nel Paese del Sol Levante un artista di culto. Se per le sue opere destinate a spazi aperti preferisce lavorare l’alluminio, in genere però ama dedicarsi a modellare manualmente tronchi d’albero di canfora (il cui legno è ricercato per le delicate striature alternate rossastre e giallastre, oltre che per le virtù del suo aroma repellente per gli insetti). Dalle sue mani escono così monumentali figure – alte a volte anche due metri e mezzo – di solidissimi marcantoni la cui pelle è quasi interamente istoriata con intricati tatuaggi e appena coperta da perizomi quanto mai esigui soprattutto tra le natiche. La tradizione del tatuaggio irezumi, ricca di temi e significati specifici, vuole coprire il corpo quasi nella sua interezza con soggetti che si armonizzino in un complesso unico, quasi fosse un affresco. Si tratta di una tecnica particolarmente dolorosa (si dice che in passato i tatuatori mescolassero ai colori della cocaina, come anestetizzante) e pertanto particolarmente adatta a ricoprire corpi di “guerrieri” che il dolore devono dimostrare di non temere. Altre curiosità dell’irezumi: in tempi relativamente recenti vollero farvi ricorso anche regnanti occidentali come lo zar Nicola II e il re d’Inghilterra Giorgio V, mentre oggi in Giappone è rimasto
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FERRUCCIO GIROMINI [ storico dell'immagine ]
© Takeshi Haguri
appannaggio quasi esclusivo degli appartenenti alla cosiddetta “mafia gialla”. Come è e come non è, se il corpo illustrato può rappresentare uno sfrontato motivo di attrazione, altrettanto si può dire del corpo potenziato, come nel caso di questi lottatori di Takeshi Haguri. Corpi volentieri debordanti, gonfi di muscoli e grasso (chissà in quali percentuali?) e istoriati per farsi guardare ancora e ancora. Corpi da esplorare
con sguardi curiosi e in qualche caso anche vogliosi. Corpi al quadrato, si potrebbe forse dire, in quanto trionfalmente esclamativi. E il legno di canfora delle grandi “statue” celebrative di Haguri, dipinte accuratamente con i giusti colori acrilici dei finti tatuaggi, accentua olfattivamente il fascino ambiguo di tali figure maschie, dotate anch’esse, in qualche modo, di ideale forza sovrumana.
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ARCHUNTER
MARTA ATZENI [ dottoranda in architettura ]
KHADKA + ERIKSSON FURUNES erikssonfurunes.com
Framework Collaborative (GK Enchanted Farm Community, Sudarshan Khadka, Alexander Eriksson Furunes), Padiglione delle Filippine, 17. Mostra Internazionale di Architettura, Venezia 2021. Photo Andrea D. Altoe
È una biblioteca comunitaria costruita nella provincia del Bulacan, smantellata, spedita a Venezia e quindi ricostruita nel Padiglione delle Filippine, l’opera che ha conquistato a sorpresa una Menzione d’Onore alla Biennale Architettura 2021. Realizzata secondo il principio del bayanihan, il meccanismo di sostegno reciproco attraverso cui le comunità filippine si aiutano nelle avversità, la biblioteca di Barangay Encanto è solo l’ultimo dei progetti con cui Sudarshan Khadka (Metro Manila, 1986) e Alexander Eriksson Furunes (Trondheim, 1988) esplorano da più di un decennio le diverse tradizioni di mutuo soccorso. Una sfida alle comuni modalità di produzione architettonica iniziata nel 2013, quando il super tifone Haiyan travolge la città di Tacoblan, devastando anche un centro studi realizzato da Eriksson Furunes per la ONG Streetlight: “Venuto a conoscenza della situazione, Sudar si è offerto di aiutarmi. Ne è risultato un processo lungo tre anni, durante i quali, insieme alla comunità sfollata, abbiamo ricostruito il centro studi, due orfanotrofi e un edificio per uffici”, racconta l’architetto norvegese. “Il progetto ci ha fatto capire come il sostegno reciproco sia la naturale risposta delle comunità per superare le crisi: così è iniziata la nostra ricerca in giro per il mondo”. Dopo il bayanihan filippino, Khadka + Eriksson Furunes si sposta prima nella regione di Ha Giang, in Vietnam, per progettare e costruire insieme alle donne H’mong
la sede della loro cooperativa tessile, e poi in Brasile, dove, seguendo la tradizione del mutirão, realizza un progetto per la metro di San Paolo con un gruppo di migranti. Fino a Oslo, dove gli spazi condivisi di un’abitazione collettiva nella periferia di Sletteløkka sono recuperati coinvolgendo i residenti attraverso idee e sistemi costruttivi ispirati al dugnad, l’espressione norvegese del mutuo soccorso. Un bagaglio di esperienze e pratiche collaborative attraverso cui il duo elabora una peculiare metodologia, che scompone l’iter progettuale in una serie di workshop in cui la comunità è parte attiva nell’ideazione e costruzione dell’opera. “È un processo che richiede un’interazione faccia a faccia: non si può prescindere dal lavorare fisicamente con le persone”. E che, nonostante la crisi pandemica, non conosce arresti, con i due architetti al lavoro nei rispettivi Paesi natali, uno a seguire un centro museale a Bugnay e l’altro la costruzione di un community center a Oslo. In attesa di conoscere l’esito degli AR Emerging Architecture Awards a cui è candidato, il duo guarda al futuro: “Vogliamo continuare a lavorare con le comunità, ma anche trovare altri professionisti con cui unire le forze per sviluppare la nostra ricerca. Per questo”, concludono Khadka e Eriksson Furunes, “non vediamo l’ora che inizi la nostra nuova collaborazione con i curatori del Padiglione del Giappone di questa Biennale!”.
Torino. Angelo Pezzana chiede il primo museo d’Italia sull’omosessualità GIORGIA BASILI & GIULIA GIAUME L Che Torino ospiti il primo museo dell’omosessualità italiano: questa la richiesta di Angelo Pezzana, fondatore del movimento di liberazione omosessuale FUORI! e presidente della Fondazione Sandro Penna-FUORI!, e del co-presidente Maurizio Gelatti in una lettera al neosindaco Stefano Lo Russo e al governatore della Regione Alberto Cirio. Il momento è propizio: la città ha una nuova amministrazione attenta ai diritti; il Museo Diffuso della Resistenza e il Polo del ‘900 hanno ospitato una mostra dedicata al 50esimo anniversario del Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano; Torino ospita l’unica cattedra di Storia dell’Omosessualità d’Italia e nel 2022 terrà l’assemblea generale dei Pride, “e così è emersa la necessità di una struttura istituzionale, con finalità di storia e ricerca. A Torino”, continua Pezzana, “sono nati cinquant’anni fa i primi diritti della ‘liberazione omosessuale’ e ora la Regione, di centro-destra, e il Comune, di centro-sinistra, hanno dimostrato supporto, e a loro mettiamo a disposizione i nostri grandi archivi”.
Nel frattempo la casa editrice romana Nero ha dato alle stampe Fuori!!!, libro curato da Carlo Antonelli e dal duo Francesco Urbano Ragazzi, con la collaborazione della Fondazione Sandro Penna e il sostegno di Levi’s. In un unico volume di grande formato sono ristampati tutti i numeri della rivista: le pagine riprodotte in maniera fotostatica vanno dal numero 0, fanzine circolata nei luoghi d'incontro allora clandestini, a FUORI! Donna, il 13esimo numero. Ad arricchire il volume, un’introduzione a sei mani dei curatori e una minuziosa intervista ad Angelo Pezzana. archivi.polodel900.it neroeditions.com
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ROBERTA VANALI [ critica d’arte e curatrice ]
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© Mariuska per Artribune Magazine
Mariuska, al secolo Marianna Zanella, nasce a Venezia nel 1989. Vive a Milano. Sintesi, campiture piatte – spesso geometrizzanti – dai cromatismi sgargianti e silhouette che sembrano ritagliate da un immaginario pop sono i tratti distintivi della sua ricerca. Tra ironia e atmosfere glamour. Come di consueto, vi invitiamo a scoprire le altre illustrazioni realizzate ad hoc per Artribune Magazine. Quando hai capito che quella dell’illustrazione sarebbe stata la tua strada? Quando ho capito tutto quello che non mi piaceva. Come definisci la tua ricerca? Mi piace lavorare con le forme quotidiane, che poi interpreto mettendoci spesso una punta di erotismo, ironia e femminilità. Ma l’intenzione principale è quella di creare prima di tutto un oggetto decorativo. Quali sono i tuoi illustratori di riferimento? Andy Warhol, che iniziò proprio come illustratore prima di diventare l’artista che tutti conoscono. E poi Aubrey Beardsley. Quali tecniche prediligi? Vista la popolarità che ha avuto l’illustrazione digitale, negli ultimi tempi mi sono adeguata a questa tendenza. Sicuramente lavorare con i programmi di grafica ha i suoi vantaggi in termini di tempo e non solo. Niente di comparabile al disegno su carta, che per me avrà sempre un valore spirituale.
Descrivi il processo creativo di una tua illustrazione. Con il tempo ho costruito una mia cultura visiva, il mio archivio personale di immagini da cui spontaneamente attingo ogni giorno; rubando attraverso gli occhi quello che è significativo per me, per creare qualcosa di personale. La mia ricerca sta nel togliere anziché aggiungere. Forse è per questo che sono così ossessionata dalle silhouette. Cosa sogni di illustrare? L’oggetto più bello fra tutti: la copertina di un libro. Come hai affrontato il lockdown? Mi sono imposta disciplina. Mangiavo sano, facevo yoga e passavo le ore a disegnare. La casa ha sicuramente giocato un ruolo fondamentale in questo. Da sempre considero lo spazio abitativo più come uno studio, e questo prima dello smart working. Chi è creativo sa cosa intendo. A cosa lavori in questo momento e quali sono i progetti futuri? In questi giorni sto preparando un’esposizione di alcuni miei lavori in un locale storico a Milano. Quanto al futuro, l’idea è quella di vivere per lavorare e non più il contrario. Un obiettivo è sicuramente quello di trovare un’agenzia che mi rappresenti, così da potermi dedicare completamente all’illustrazione.
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ZHANG CHENG Pioniere dell'arte Contemponea Cinese
INTRODUZIONE DEI LAVORI
PROFILO PERSONALE
Nel 2007 , artista ha creato questo metodo di pittura con la giustapposizione di diversi tipi di elementi in argento e l'ha chiamato "Cold Silverism".Questo schema concettuale di "cold silver" esegue comunicazioni visive dirette con tutti i tipi di elementi d'argento in diversi spazi e materiali per mostrare la spiritualita dell"fressezza" e della "durezza". Utilizza anche frammenti irregolari per formare fasci di luce triangolarie figure umane, che sono attaccate alla superficie. "Freddo" rappresenta la spiritualita di questo tipodi pittura , mentre" Argendo" si riferisce all'uso di elementi in argento. "City Shadow"è una serie di dipinti "argento freddo", la cui intenzione originale è quella di mostrare la ''freddezza'' e la ''durezza'' delle immagini. La piturra ''argendo freddo''esprime appieno le intenzioni della creazione, dando alla ''freddezza'' e alla ''durezza'' l'espressione più diretta. Strada argentea, lampeggianti travi triangolari composte da frammenti irregolari, cosi come le figure umane sono tutte parti della forma e del linguaggio della pittura ''argendo freddo'', che a loro volta diventano simboli pittorici del ''Cold Silverism''. "Cold Silverism" è la prima dottrina nella storia della Cina a comprendere e creare nel vero senso dell'arte occidentale, e la prima dottrina riconosciuta dal mondo dell'arte occidentale! È una pietra miliare nella storia dello sviluppo dell'arte!
Tel: +86 13969157627
· Pioniere dell'arte contemporanea cinese · Il fondatore della pittura "Cold Silver". · La banderuola dell'arte contemporanea nel mondo · Espositori invitati all'American Inernational Art Fair 2017 · Vincitore del Gran Premio del Salone Internazionale di Parigi 2019 Art Salon · Nel 2019 ha partecipato alla mostra commemorativa del design del design dell'etichetta del vino del Centennial Chateau Damasso in Italia per celebrare i 150 anni dell'Esposizione Inernazionale d'Arte di Parigi in Francia, e ha vinto il premio. ·Nel 2020, i 28 stati membri dell'Ufficio dell'Unione Europea per la Proprieta Intelletuale hanno approvato e rilasciato all'unanimita la certificazione di titolari di proprieta intellettuale "Cold Silver". ·Nel 2020,l'opera è stata selezionata per la Spectrum -Miami, di Art Basel. ·Nel dicembre 2020, l'opera è stata premiata con il Basel "Miami Spectrum" Distinguished Artist Award negli USA.
E-mail: zhangchengcz@126.com
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APP.ROPOSITO
SIMONA CARACENI [ docente di virtual environment ]
3 MODI PER IMMERGERSI NELL'ARTE THE DAWN OF ART
Le grotte preistoriche di Chauvet hanno un fascino incantatore che sa farsi strada in artisti come Werner Herzog, il quale ha girato un intenso documentario sulle pitture murarie nascoste al loro interno. Pitture che nulla hanno da invidiare ai dipinti dei più grandi maestri, tanto da far riscrivere capitoli della storia dell’arte grazie al loro ritrovamento. La grotta è naturalmente chiusa al pubblico (anche Her atlasv.io | novelab.io zog ebbe un permesso limitato per entrare e free girare il suo documentario), ma l’incessante HTC Vive, Oculus Rift lavoro dei ricercatori ha permesso una meravigliosa ricostruzione in 3D immersiva della caverna, con la possibilità di ammirare in altissima definizione le pitture rupestri, di incredibile effetto e grande freschezza nonostante risalgano a 36mila anni fa. Basterebbe questo a rendere straordinaria questa esperienza, che però ci immerge anche in una storia che risale alla nascita stessa dell’arte. L
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1, 2, 3... BRUEGEL!
Esistono soggetti che si prestano di più e soggetti che si prestano meno. Sicuramente il celebre quadro di Bruegel il Vecchio che rappresenta decine di “bambini” mentre giocano in un villaggio funziona benissimo per questo tipo di interpretazione. Si tratta di un gioco interattivo dove all’inizio, nell’ambientazione disabitata del borgo, devono essere trovati i personaggi, compiendo azioni ogni lucidrealities.studio volta diverse. In seconda battuta, i personag € 2,39 gi stessi vanno collocati nello spazio secondo Valve Index, HTC Vive, Oculus Rift il modello del quadro, però non esattamente come se si trattassero di mere tessere di un puzzle, ma con un pizzico di inventiva. Estremamente accattivante il mix fra grafica tridimensionale e bidimensionale, che regala un’atmosfera unica all’esperienza. Il gioco richiede una certa mobilità nella stanza in cui si decide di fruirlo, così l’esperienza riesce a essere anche abbastanza dinamica. Il soggetto fa molto, ma può fornire ispirazione per opere successive. L
MONA LISA: BEYOND THE GLASS
Il quadro più iconico al mondo in una esperienza immersiva rivolta allo studio, la ricerca e l’approfondimento. Per presentare la Gioconda utilizzando la realtà virtuale il Museo del Louvre si è avvalso della collaborazione di un’azienda di sicuro successo, la Emissive, in maniera che il pubblico possa abbattere quel vetro che lo separa da un rapporto a tu per tu con l’opera, avendo così louvre.fr | emissive.fr un’esperienza personale ma anche conosci free tiva del capolavoro di Leonardo da Vinci. Valve Index, HTC Vive, iOS, Android L’applicazione utilizza tecniche di ricostruzione tridimensionale non solo del soggetto di quest’opera e di altre dello stesso autore, ma vi affianca un poderoso apparato critico e storiografico che riesce a dare un’idea innovativa di tutto ciò che si cela oltre la tela. Sviluppata dal Louvre in occasione della recente mostra su Leonardo, rimane un’esperienza imperdibile sul tema della presentazione e dell’interpretazione delle opere musealizzate.
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Documenta 15, svelati i nomi degli artisti alla quinquennale di Kassel nel 2022 DESIRÉE MAIDA L Svelati i nomi degli artisti della prossima edizione di documenta, rassegna internazionale d’arte contemporanea che ogni cinque anni si svolge a Kassel, in Germania. In programma dal 18 giugno al 25 settembre 2022, documenta15 sarà curata da ruangrupa, gruppo di creativi di base a Giacarta (Indonesia) che ha annunciato i nomi degli artisti della prossima edizione pubblicando la lista dei partecipanti su Asphalt, giornale venduto nelle edicole tedesche a scopo benefico per supportare indigenti e senza tetto. Una scelta che si allinea con il tema della prossima documenta, Lumbung, che in indonesiano significa “granaio di riso”: “Vogliamo creare una piattaforma artistica e culturale orientata, cooperativa e interdisciplinare che abbia un impatto oltre i 100 giorni di documenta15”, spiegano i ruangrupa. La lista pubblicata su Asphalt riporta i nomi degli artisti senza le loro nazionalità, ma con il fuso orario locale dei Paesi di provenienza. Molti sono i collettivi e, tra gli artisti “singoli”, c’è anche Jimmie Durham. I biglietti di documenta sono già in vendita e per la prima volta è possibile acquistare un “solidarity ticket”, utilizzabile da un’altra persona come ingresso gratuito. documenta.de | ruangrupa.id
NECROLOGY ACHILLE PERILLI 28 gennaio 1927 – 16 ottobre 2021 L GIOVANNI RUBINO 1938 – 11 ottobre 2021 L VANNI PASCA 21 maggio 1936 – 5 ottobre 2021 L ALBERTO MIRALLI 1941 – 4 OTTOBRE 2021 L MIMMA PISANI 1936 – 29 SETTEMBRE 2021 L ACHILLE PACE 1O GIUGNO 1923 – 28 SETTEMBRE 2021 L SYLVANO BUSSOTTI 1O OTTOBRE 1931 – 19 SETTEMBRE 2021 L TEODOSIO MAGNONI 1934 – 13 SETTEMBRE 2021 L FULVIO SALVADORI 1937 – 11 SETTEMBRE 2021
TOP 10 LOTS LONDON EDITION CRISTINA MASTURZO [ docente di economia e mercato dell'arte ]
NICCOLÒ LUCARELLI L Ad appena quattro anni dall’apertura del cantiere, il Depot Boijmans Van Beuningen apre al pubblico. Una mega-struttura intelligente che rivoluziona il concetto di deposito museale e coniuga le esigenze dell’architettura “verde”, confermando la vitalità culturale della città di Rotterdam. Progettato dallo studio MVRDV, è il risultato di un’intesa finanziaria fra pubblico e privato, che ha visto collaborare insieme il Consiglio comunale di Rotterdam, il Museo Boijmans Van Beuningen e lo Stichting De Verre Bergen – un’organizzazione filantropica che dal 2011 sostiene progetti per il miglioramento della qualità della vita in città –, oltre a donatori privati.
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Apre al pubblico il Depot Boijmans Van Beuningen di Rotterdam
Banksy, Love is in the Bin, 2018. Courtesy of Sotheby’s, Londra
Banksy, Love is in the Bin, 2018* £ 18,582,000 | Sotheby’s, Contemporary Art Evening Sale, Londra
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Gerhard Richter, S.D., 1985 £ 9,619,800 | Sotheby’s, Contemporary Art Evening Sale, Londra
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Jean-Michel Basquiat, Because it Hurts the Lungs, 1986 £ 8,227,750 | Christie’s, 20th/21st Century: Evening Sale Including Thinking Italian, Londra
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Gerhard Richter, Abstraktes Bild, 1985 £ 7,896,300 | Sotheby’s, Contemporary Art Evening Sale, Londra
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Hurvin Anderson, Audition, 1998* £ 7,369,000 | Christie’s, 20th/21st Century: Evening Sale Including Thinking Italian, Londra
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Gerhard Richter, Abstraktes Bild, 1985 £ 5,943,000 | Sotheby’s, Contemporary Art Evening Sale, Londra
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David Hockney, Guest House Garden, 2000 £ 5,800,000 | Christie’s, 20th/21st Century: Evening Sale Including Thinking Italian, Londra
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Lucio Fontana, Concetto spaziale, Attese, 1964-65 £ 3,712,500 | Christie’s, 20th/21st Century: Evening Sale Including Thinking Italian, Londra
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Cecily Brown, There’ll be bluebirds, 2019 £ 3,502,500 | Christie’s, 20th/21st Century: Evening Sale Including Thinking Italian, Londra
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Alexander Calder, Claw, 1955 £ 3,142,500 | Christie’s, 20th/21st Century: Evening Sale Including Thinking Italian, Londra
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Con le sue pareti a specchio, in cui si riflette il paesaggio circostante, sarà presto un punto di riferimento del nuovo skyline cittadino. In attesa del 2026, quando riaprirà la sede originale del museo, in Museumpark, attualmente chiusa per lavori di restauro e di rimozione dell’amianto; si tratta infatti di un ex edificio industriale. Dal 2026, comunque, lì si terranno solo mostre temporanee, mentre la collezione sarà appunto visibile in maniera permanente nel nuovo Depot. In media, appena il 10% di una collezione museale è visibile al pubblico. Il resto delle opere, che sono la maggior parte, rimane stoccato nei depositi ed esposto, in alcuni casi, a rotazione. La direzione del Boijmans Van Beuningen ha invece deciso di rendere fruibili ai visitatori in maniera permanente tutte le sue 151mila opere d’arte. Per questo è nato il Depot, alto 39 metri, che nei suoi undici piani accoglie le opere in speciali condizioni di luce e temperatura: per esigenze di razionalità, le opere non sono raggruppate per artista o per epoca storica, ma secondo le esigenze di esposizione climatica. Infine, sul tetto della struttura, a 35 metri di altezza, oltre a un ristorante, si trova un boschetto pensile con 75 betulle, un’oasi verde che contribuirà alla qualità dell’aria in città. boijmans.nl
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*Record d’asta per l’artista CAMPIONE DI ANALISI: Christie’s, 20th/21st Century: Evening Sale Including Thinking Italian, Londra, 15 ottobre 2021 Christie’s, Post-War and Contemporary Art Day Sale, Londra, 16 ottobre 2021 Phillips, 20th Century & Contemporary Art Day Sale, Londra, 14 ottobre 2021 Phillips, 20th Century & Contemporary Art Evening Sale, Londra, 15 ottobre 2021 Sotheby’s, Contemporary Art Evening Sale, Londra, 14 ottobre 2021 Sotheby’s, Contemporary Art Day Auction, Londra, 15 ottobre 2021 I prezzi indicati includono il buyer’s premium.
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#63
MARCO ENRICO GIACOMELLI [ filosofo e docente ]
A OGNI COSA LA SUA STORIA
INVITO ALLA CALLIGRAFIA
L’essere umano ha l’inveterata tendenza a rendere astorici i propri usi e costumi. Quando poi si tratta di esseri umani occidentali, si tende a concepirli come universali, imponendoli al resto del mondo. Ora, nessuno (purtroppo) ha finora imposto le vacanze al Sud del mondo, mentre il primo automatismo mentale si è presto radicato nella parte geograficamente e socialmente più fortunata del pianeta. Basti pensare a quanto accaduto durante la pandemia, quando si approssimava l’estate: la preoccupazione più urgente pareva essere rappresentata dal rispetto del rito della vacanza, preferibilmente al mare. Giocoforza, la maggior parte della popolazione ha dovuto cedere alle lusinghe del “turismo di prossimità”, ma in ridotta percentuale convinta dalle questioni di ordine ecologico. Non si parlava d’altro che di progetti per le estati a venire, di lunghi viaggi e località esotiche e talora di città d’arte. Come se il “ritorno alla normalità” prevedesse naturalmente la vacanza concepita in quel modo, come se quel tipo di vacanza fosse scritto nel Dna dell’homo sapiens sapiens. Ecco, ciò che Alessandro Martini e Maurizio Francesconi fanno in questo libro – rigoroso, documentato, piacevole, intelligente – è porre in prospettiva l’argomento, rimettendolo al suo posto, che è quello di un fatto storico connotato da una nascita e da uno sviluppo (e forse da una morte imminente che farà seguito all’agonia in corso). Martini e Francesconi raccontano e spiegano come nasce la “moda della vacanza”, indagando con perizia il periodo compreso fra il 1860 e il 1939. Fanno cioè quel che Marjorie Hope Nicolson, in Mountain Gloom and Mountain Glory, ha fatto a proposito del rapporto fra esseri umani (occidentali) e montagne. E lo fanno affrontando la questione da una miriade di punti di vista, poiché il fenomeno può essere pienamente compreso soltanto quando si mettono insieme competenze e documenti di storia economica, sociale, politica, architettonica, letteraria, artistica e via dicendo. Soltanto in questo modo l’affresco risulta credibile e scientificamente provato. Nota a margine ma nemmeno tanto a margine. Sono ormai pochissimi gli editori che ospitano ricerche di questo genere. Di più: sono ancora meno quelli che non spronano gli autori a “rendere più pop” le loro ricerche, ma che al contrario aizzano loro contro gli editor più minuziosi e ossessivi, con l’obiettivo di verificare e controverificare ogni singola affermazione, data, luogo, statistica. Lunga vita ai Saggi Einaudi.
Partiamo dalle note negative – dall’unica nota negativa, il sottotitolo: Scrivere a mano come pratica per migliorare se stessi fa tanto manualetto per l’autostima. Fortunatamente è scritto in piccolo sulla copertina, mentre campeggia con ben altro ingombro lo svolazzo che disegna il titolo, Anima & inchiostro. L’autore, del libro e del suddetto svolazzo, è il medesimo, trattandosi di Luca Barcellona. Milanese classe 1978, è un calligrafo di fama mondiale (lavora con brand come Nike e Sony, lo pubblicano spesso e volentieri case editrici come Gestalten e Lazy Dog eccetera eccetera). Ma soprattutto mette davvero in pratica quel che dice, ovvero “far convivere la manualità di un’arte antica come la scrittura con i linguaggi e gli strumenti dell’era digitale”. Questo libro, dunque, cos’è? È un ibrido anch’esso: manualistico, storico, autobiografico – non in ordine di importanza. È uno di quei testi, assai rari, che fanno appassionare anche chi di quella disciplina non sa e magari non saprà nulla di più. Come Open di Andre Agassi, avete presente?
Alessandro Martini & Maurizio Francesconi – La moda della vacanza Pagg. 354, € 34 Einaudi einaudi.it
VIDEOARTE LIBRI PER SAPERE TUTTO
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Chi guarda – o pensa di guardare – avanti parla di NFT e metaversi. C’è però stato un tempo che allo stesso modo venivano osservati altri medium, sempre in un’arena popolata da apocalittici e integrati: prima la fotografia, poi la videoarte. Qui trovate sei libri recenti per capire qualcosa di più su quest’ultima.
Luca Barcellona – Anima & inchiostro Pagg. 207, € 19 Utet utet.it
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Ha esordito a metà aprile la collana Lampi di Contrasto: libri di piccolo formato e copertina rigida, in una deliziosa veste grafica disegnata da Silvio Rossi. A fare da apripista, L’immagine fantasma di Hervé Guibert (1955-1991), con una introduzione firmata da Emanuele Trevi.
In attesa che l’Italia abbia un museo come il V&A di Londra, proliferano le pubblicazioni che parlano di moda. Qui ci sono dialoghi stimolanti con star come Alessandro Michele e Maria Grazia Chiuri, e saggi profondi, ad esempio, su Luigi Ontani o la fotografia di moda.
Hervé Guibert L’immagine fantasma Pagg. 200, € 14,90 Contrasto contrastobooks.com
Sofia Gnoli (ed.) Ephimera Pagg. 240, € 29 Electa electa.it
Una storia della videoarte, dagli esordi alla fine degli Anni Sessanta agli sviluppi più recenti con autori come Ian Cheng e Kahlil Joseph.
Focus sulle videoartiste degli Anni Settanta e Ottanta. Una ricerca che arriva dalla Scozia ma che, grazie a Laura Leuzzi, parla anche italiano.
Barbara London Video – Art Pagg. 280, £ 27,95 Phaidon, 2020 phaidon.com
EWVA – European Women’s Video Art Pagg. 222, £ 41 John Libbey, 2019 jle.com
MARCO PETRONI [ teorico e critico del design ]
Quant’è strano questo libro. Da uno come J. Paul Getty ti aspetti l’agiografia di se stesso, e sarebbe legittimo. E invece ci si ritrova fra le mani un manuale, sì condito da tante storie personali, più o meno romanzate, ma comunque un manuale, infarcito di consigli per chi voglia intraprendere la strada del collezionismo. Almeno un po’ di incensamento ce lo si aspetterebbe allora nell’introduzione, peraltro firmata da Kenneth Lapatin, afferente al dipartimento di antichità proprio del J. Paul Getty Museum. E invece pure lui non lesina stoccate; per dire: “Come collezionista era tutt’altro che originale”. Resta almeno una certezza: Getty sapeva scrivere eccome, d’altra parte teneva pure una rubrica su Playboy. E poi considerava il collezionare un’avventura. Unite questi due elementi e come risultato avrete, ad esempio, il racconto del rocambolesco acquisto della Madonna di Loreto – mica quella di Raffaello, un d’après, e fra l’altro non una delle tre copie, come credeva Getty, bensì una delle trentacinque.
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Una coppia di fini filologi, Stefano Rocchi e Roberta Marchionni, entrambi in forza al Thesaurus linguae Latinae, si sono messi di buzzo buono per apparecchiare questo libro ultra rigoroso che ha per tema “graffiti e altre iscrizioni oscene dall’Impero Romano d’Occidente”.
Per quattro anni, dal 2015 al 2018, in concomitanza con il Giorno della Memoria si teneva l’iniziativa La Shoah dell’Arte. Un progetto di arti visive e teatro, con epicentro Roma ma diffuso in tutta Italia, ideato da Vittorio Pavoncello. Che qui lo racconta nei dettagli.
Rocchi & Marchionni Oltre Pompei Pagg. 160, € 16 Deinotera deinoteraeditrice.com
Vittorio Pavoncello (ed.) La Shoah dell’Arte Pagg. 407, € 23 Progetto Cultura progettocultura.it
Monografia dedicata alla regista e videoartista belga scomparsa nel 2015. Dodici capitoli per altrettanti temi che attraversano il suo lavoro.
Libro curiosissimo, che racconta il XVIII secolo attraverso i film che a sua volta lo raccontano, e in cui l’arte figurativa ha un ruolo centrale.
Ilaria Gatti Chantal Akerman Pagg. 282, € 15 Fefè, 2019 fefeeditore.com
Chiara Tartagni Le relazioni preziose Pagg. 220, € 16 Jimenez, 2019 jimenezedizioni.it
Dopo aver indagato il ruolo dell’architetto ne L’architetto come intellettuale, Biraghi indica una presa d’atto della crisi in cui versa l’architettura. Non è un caso che l’autore sottolinei e inquadri il progetto come costruzione di volontà collettive corrispondenti ai bisogni che emergono dalle contraddizioni insite nella cultura, nella civiltà di un corpo sociale. Una traiettoria pratica che inserisce l’architettura al di fuori di pure vicende speculative. Biraghi indaga lo statuto del progetto del nostro tempo osservandolo da una prospettiva di trasformazioni, crisi, punti di rottura profondamente condizionati dallo sviluppo capitalistico. L’autore riprende un pensiero di Adolf Loos per chiarire che l’architettura deve essere al servizio della società per trasformarla, sottolineando come questo compito rappresenti l’obiettivo supremo di ogni progetto. Occorre che questa disciplina torni a pensare con le mani, afferma Biraghi, restituendo un ulteriore elemento operativo che pone il progetto nella condizione della cura. Le finalità dell’architettura si spostano verso un dispiegamento dello spazio non più come prodotto ma come attitudine sensibile di messa in questione del mondo in cui si inserisce ogni progetto. “Nella logica contemporanea l’architettura non è quasi mai trasformativa bensì – nella gran parte dei casi – semplicemente innovativa; dove per innovazione va inteso ciò che è apportatore di un miglioramento (delle prestazioni, delle capacità, del design), ma che in nessun modo costituisce una reale messa in discussione di ciò che già esiste”. Lo storico italiano denun cia come il progetto contemporaneo sia animato da soggettività/architetti che sviluppano architettura “sempre e comunque finalizzata al compiacimento del regno”. Eppure nella storia di questa disciplina si possono rintracciare esempi di architetti della prassi. Ad esempio Luis Barragán, premiato con il Pritzker nel 1980 per essersi dedicato all’architettura “come atto sublime di immaginazione poetica”. Proprio il sublime inteso come eccedenza attiva una riflessione sulle origini e le ragioni dello smarrimento del senso profondo del fare architettura. Affinché il sublime e quindi un’architettura della prassi possa emergere occorre che qualcosa minacci le certezze di tanti progetti cosmetici: destabilizzando il mondo circostante e spingendo l’architettura stessa a interrogarsi. È un invito positivo, quello di Biraghi, affinché il mondo del progetto trovi un’energia capace di far vacillare le certezze, innescando la molla più efficace della ricerca e dell’azione per trasformare un mondo sempre più inquinato e malato. Il saggio si conclude proprio con il capitolo L’architettura come farmaco, in cui l’autore definisce il progetto come medicina capace di risanare la città e trasformarla in “grande casa” della responsabilità e della cura.
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J. Paul Getty – Le gioie di collezionare Pagg. 93, € 13 Johan & Levi johanandlevi.com
Se l'architettura cambia il mondo
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GETTY IL COLLEZIONISTA
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Marco Biraghi – Questa è architettura Einaudi, Torino 2021 Pagg. 200, € 20 einaudi.it Come dev’essere il documentario del XXI secolo per aderire alla contemporaneità che racconta? Espanso, interattivo, immersivo. Lucilla Calogero Documentario interattivo Pagg. 180, € 19 Postmedia Books, 2020 postmediabooks.it
Un festival che proietta film di artisti e sugli artisti. Una follia fiorentina che prosegue dal 2008 senza alcuna intenzione – vivaddio! – di interrompersi. Lo schermo dell’arte 2008 – 2018 Pagg. 240, € 30 Giunti, 2019 giunti.it
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ART MUSIC
CLAUDIA GIRAUD [ caporedattrice musica ]
BAWRUT: DANCE MEDITERRANEA CON LIBERATO & CO.
TORINO ART WEEK: LE FIERE CLAUDIA GIRAUD
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bawrut.bandcamp.com
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Bawrut, In the Middle, 2021, vinile in edizione limitata
Un disco corale di musica elettronica/dance, che con grazia e fare evocativo vuole riflettere su vari temi della contemporaneità – dal concetto di identità a quello di polarizzazione, fino al fenomeno della migrazione, passando per la danza – con l’aiuto di artisti provenienti da differenti campi per darne una rappresentazione anche visuale. Tutto questo lo si può trovare in In the Middle, album di debutto di Bawrut, al secolo Borut Viola, produttore e dj originario di Gorizia, città dalla secolare identità multietnica. “‘In the Middle’ è il nome del disco e ruota attorno al mar Mediterraneo. Un luogo di incrocio per millenni, dove culture, popoli e religioni si sono mescolati e influenzati a vicenda. Volevo celebrare questa unicità anche in opposizione agli attuali nazionalismi e alle distorte visioni delle identità che circolano nei vari Paesi e a quei sentimenti xenofobi che sfociano in disprezzo per le vite umane che attraversano il mare”, ci spiega Bawrut. “Per questo ho fatto un disco di musica elettronica, che pesca nei vari ritmi locali e lontani senza voler essere world music, piuttosto un suono moderno misto, come se questa macroarea fosse una città come Londra. Ho quattro ospiti che cantano in quattro lingue differenti: Cosmo in italiano, LIBERATO in napoletano, Glitter in arabo e Chico Blanco in spagnolo”. Uscito a novembre 2021 per la Ransom Note di Londra, che, oltre a essere un’etichetta discografica, è anche una rivista online di musica, arte e cultura, In the Middle consiste in una limited edition in vinile con 11 tracce, accompagnato da una fanzine: ogni opera d’arte, realizzata dagli 11 artisti visivi di Egitto, Italia, Spagna, Francia, Libano, Croazia, Grecia coinvolti da Rocio Mateos Garcias, direttore artistico e creativo di tutto il progetto, nonché autrice dell’artwork del disco e della fanzine, sarà mescolata con un’altra in modo da poter avere risultati visivi inaspettati. “Il mio obiettivo con questo album era cercare di dare un senso alla musica elettronica/dance”, conclude Bawrut. “Il genere ha più o meno quarant’anni ed è abbastanza vecchio per essere qualcosa di più di semplice musica ballabile: è diventato famoso in tutto il mondo e parte di un grande showbiz, ma ha anche perso molta creatività e le prime spinte politiche del passato sono scomparse. Io voglio cercare di fare buona musica e raccontare qualcosa dietro”.
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ARTISSIMA L’ultima edizione (forse) sotto la direzione di Ilaria Bonacossa, è in presenza all’Oval e online sotto il tema di Controtempo. La novità è Hub India, focus sulle gallerie, le istituzioni e gli artisti attivi in un’area d’importanza capitale: in fiera le opere in vendita mentre le mostre si dividono tra gli spazi della Fondazione Torino Musei, Palazzo Madama, MAO e Accademia Albertina. Qualche numero: ai nastri di partenza ci sono 154 gallerie suddivise in 4 sezioni: 89 nella Main Section, 37 in Dialogue/Monologue (con stand personali o bipersonali), 25 New Entries (sezione riservata alle realtà che esordiscono ad Artissima) e 7 per l'area Art Spaces & Editions. A queste si aggiungono 3 sezioni online (e in presenza tramite altrettante esposizioni collettive) composte ognuna da 10 gallerie, con focus sui giovani artisti (Present Future), sulla riscoperta dei "pionieri dell'arte contemporanea" (Back to the Future) e sulla pratica del disegno (Disegni). artissima.art FLASHBACK La fiera di arte antica e moderna diretta da Ginevra Pucci e Stefania Poddighe si sposta nella nuova sede dell’ex Caserma Dogali con le sue gallerie e sezioni: dalla monografica dell’artista Enrico Bertelli alla presentazione dei manifesti di Opera Viva Barriera di Milano e del progetto Artista di Quartiere, fino ai talk con i critici d’arte Lisa Parola e Christian Caliandro, ce n’è per tutti i gusti. flashback.to.it THE OTHERS È un’edizione tutta al femminile la fiera di Roberto Casiraghi e Paola Rampini per i progetti internazionali di gallerie emergenti. Al Padiglione 3 di Torino Esposizioni festeggia il decennale con una serie di eventi collaterali che toccano anche la musica grazie alla collaborazione con l’Associazione TUM che anima l’Area Garden tutte le sere con una programmazione underground. theothersartfair.com PARATISSIMA All’interno del format Paratissima, “Exhibit and Fair declina insieme due aspetti del mondo dell’arte, ricerca e mercato”, racconta la direttrice Olga Gambari, “con una serie di Special Projects, che presentano progetti dove l’arte diventa luogo politico e sociale”. Dal giornalismo, con il film Slow News diretto da Alberto Puliafito e prodotto da Fulvio Nebbia, alla musica, con l’installazione di Davide Dileo (Boosta). Sempre presso l’ARTiglieria. paratissima.it DAMA Dama si aggiorna con Aperto, “nuovo format diffuso per la città di Torino”, spiega il fondatore Giorgio Galotti, “in cui le gallerie e le realtà coinvolte compaiono come madrine delle opere presentate o a supporto delle produzioni”. Insieme, la collaborazione con Gianluigi Ricuperati: interventi e conversazioni in tre librerie storiche della città e un programma video notturno all’interno di un multiplayer store. d-a-m-a.com
SERIAL VIEWER
GIULIA PEZZOLI [ registrar ]
STORIA DELLA RAPINA DEL SECOLO
C’è tanta letteratura che precede la fortunata serie Squid Game, che nel giro di poche settimane è diventato un vero e proprio cult, con fenomeni di delirio sui social e il passaparola ad amplificarne la risonanza. C’è ad esempio Il Prigioniero, la serie britannica del 1967, interpretata da Patrick McGoohan, che ne fu anche il creatore insieme a George Markstein. Ma prima ancora il film Essi vivono di John Carpenter del 1988; in tempi più recenti – dal 2004 al 2010 – il fortunato serial Lost, creato da J. J. Abrams, Damon Lindelof e Jeffrey Lieber. Per tacere dei tanti romanzi e della science fiction, con Orwell in prima linea, ma anche Richard Matheson e Philip Dick, che hanno dato vita a questo filone. “We are all in the game”, siamo tutti nel gioco, è il filo conduttore che attraversa questi prodotti. Anche in Squid Game, letteralmente Il gioco del calamaro, gli ingredienti che compongono lo scenario della distopia ci sono tutti. C’è un’isola deserta, ci sono personaggi inquietanti e una simbologia oscura, c’è un super cattivone a fare da ago della bilancia, un’estetica pop e surreale, la tecnocrazia, una casa di bambole tra Escher e Lego, il discrimine tra infanzia tradita e età adulta. La trama narrativa, con puntate l’una tira l’altra distribuite a livello globale da Netflix, concertata dal regista Hwang Dong-hyuk, deve la sua fortuna anche al riconoscimento unanime nel mondo della cinematografia sudcoreana, alla quale nell’ultimo decennio si devono parecchi capolavori, ratificato dall’Oscar al film Parasite di Bong Joon-ho. Sullo sfondo di Squid Game c’è la società sudcoreana con le sue nevrosi, discriminazioni sociali, debolezze, ma anche la sua cultura e tradizione, che passa dal cibo, raccontato sempre con minuzia, dai giochi, dalle consuetudini, dai sentimenti non facili tra nord e sud Corea. E naturalmente dalle storie personali dei protagonisti, i cui ritratti sono costruiti molto bene, in un balance perfetto tra realismo e fantapolitica. Ma non sono mancate, data la violenza, le polemiche da parte di alcuni settori, in particolare fra chi si occupa di formazione: la serie, infatti, ha avuto una incredibile diffusione anche tra i più piccoli, con preoccupanti fenomeni di emulazione. L’addiction è assicurata per i grandi, ma per i ragazzi a quale prezzo?
Buenos Aires, 2006. Con l’aiuto di un piccolo gruppo di rapinatori, un eclettico maestro di ju-jitsu mette a punto un piano geniale per svaligiare tutte le cassette di sicurezza della succursale della Banca di Rio ad Acassuso. Il piano, progettato e realizzato nel corso di un intero anno, prevede: l’utilizzo di armi giocattolo, il prolungato sequestro del personale e dei clienti della filiale, la costruzione di un tunnel sotterraneo e una fuga in gommone. Ispirandosi a fatti realmente accaduti, l’affermato regista argentino Ariel Winograd mette in scena, con la sagace comicità che caratterizza tutta la sua produzione cinematografica, il furto meglio riuscito e più ricordato nella storia del suo Paese. La rapina del secolo è un heist movie che attinge a piene mani dalla lunga tradizione di questo popolarissimo sottogenere (da I soliti ignoti a Ocean’s Eleven). Con sarcastico citazionismo, Winograd utilizza tecniche di genere ormai consolidate (dal montaggio serrato a una colonna sonora che sottolinea l’azione) ma colora la sua opera di realistica e ironica umanità, capace di trasformare personaggi solitamente “eccezionali” in fallibili e improvvisati geni della truffa. A questo scopo il regista sceglie attori di talento e particolarmente noti al pubblico argentino, come Guillermo Francella (Il segreto dei suoi occhi) e Diego Peretti (Se permetti non parlarmi di bambini), e lavora su una sceneggiatura scritta a due mani da Alex Zito e dallo stesso autore e ideatore del colpo originale: Fernando Araujo. Il registro narrativo, semplice, divertente e a tratti toccante, fa de La rapina del secolo un film completo, un prodotto cinematografico ben fatto, che sa catturare l’attenzione tanto quanto un caper movie hollywoodiano. Winograd tiene lo spettatore incollato allo schermo, dosa con attenzione lo svolgimento della trama, non accelera i tempi di chiusura, regalandoci l’incredibile e rocambolesca avventura di un’insolita e straordinariamente geniale banda di criminali.
Corea del Sud, 2021-in produzione SOGGETTO: Hwang Dong-hyuk GENERE: azione, thriller CAST: Lee Jung-jae, Park Hae-soo, Jung Ho-yeon, Oh Yeong-su STAGIONI: I | EPISODI: 9 DURATA: 32’-62’ a episodio
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SQUID GAME é GIË CULT
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SANTA NASTRO [ caporedattrice ]
LIP - LOST IN PROJECTON
ARGENTINA, 2020 REGIA: Ariel Winograd | Genere: crime, commedia SCENEGGIATURA: Alex Zito, Fernando Araujo CAST: Guillermo Francella, Diego Peretti, Luis Luque, Pablo Rago, Rafael Ferro, Mariano Argento DURATA: 115’
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OSSERVATORIO CURATORI a cura di DARIO MOALLI [ critico d’arte ]
FOCUS ON: CATERINA AVATANEO Il lavoro del curatore è svariato e multisfaccettato. Innanzitutto, come suggerisce la parola stessa, curare implica “prendersi cura”... delle opere, degli artisti, dei visitatori. Il curatore deve sapersi immedesimare nell’altro, gestire decisioni tecniche, organizzative e amministrative, lasciando agli artisti la mente libera per la creatività. Il curatore deve mediare, contestualizzare i lavori nello spazio e i lavori tra loro, senza dar nulla per scontato e rendendo idee complesse accessibili, ma non semplificate. Curare ha una dimensione etica fondamentale, perché significa negoziare utenze e committenze assicurandosi che mai ci si dimentichi che essere artisti è un lavoro, non una passione. Fare il curatore, poi, non è solo un lavoro pratico, ma anche creativo e critico. Significa essere aggiornati, osservare le dinamiche del mondo e capirne le radici; dal momento che l’arte non è per sé – distaccata dalla vita – ma contingente e legata al contesto storico, politico, culturale e sociale, nonché allo spazio e alle esperienze vissute. Ciò che più mi piace dell’essere curatrice è che curare significa lavorare insieme, e soprattutto non smettere mai di imparare. La curatela ha il potenziale enorme di agire sulle dicotomie della modernità per complicarle, parlando attraverso il pensiero e il lavoro di artisti, ricercatori e teorici e approcciandosi a questi come una lente, o meglio un caleidoscopio, che rivela complessità e molteplici possibilità del reale. Dal 2015 curo mostre e progetti presentando prospettive che deviano dalle interpretazioni dominanti della realtà. Ho esplorato nozioni di tempo lineare, misticismo, liminalità, contagio, superficie e natura; e negli ultimi anni mi sto dedicando all’oscuro e al negativo. Nei miei progetti sono trasversale e intuitiva, mescolando medium e generazioni. Nel tempo ho costruito rapporti profondi e di stima con artisti, che si sono tradotti nell’esigenza di lavorare insieme su mostre personali o testi (tra questi: Chiara Camoni, Leonor Serrano Rivas, Miriam Austin, Anastasia Sosunova, Irati Inoriza, per citarne alcuni). Mi piace generare scambi e contaminazioni e dal 2019 ho iniziato una serie di sperimentazioni con un format espositivo basato su collaborazioni a due, tra artisti le cui pratiche utilizzano mezzi o linguaggi molto diversi. Mi interessa capire come un curatore indipendente possa lavorare con gli artisti in modo organico, aggiungendo un elemen-
, Park Nights 2021, Serpentine Pavilion designed by Counterspace (London) Jota Mombaca Photo credit Hugo Glenning
to o un pensiero uno dopo l’altro e creando di conseguenza una certa intimità; riconoscendo l’urgente necessità di abbandonare l’illusione di individualità e trovando altri modi per forgiare alleanze (tra gli artisti partecipanti a questi esperimenti: Anna Barham, Diego Delas, Rolf Nowotny, Rory Pilgrim, Giuliana Rosso, per citarne alcuni). In questo senso lavorare come assistente curatrice per Sun & Sea, presentato per il Padiglione Lituania alla 58. Biennale di Venezia, è stato davvero fondamentale e vicino alle metodologie di curatela che più mi interessano. L’arte e la curatela possono contribuire a plasmare il pensiero, e il pensiero a sua volta plasma il modo in cui viviamo. Spero
quindi di essere in grado, con il mio lavoro, di saper produrre un sapere indisciplinato, contraddittorio e caotico, che metta in discussione la realtà e la sua percezione, fino a reinventare il modo di far emergere i temi più urgenti. Infine curare significa anche essere attenti a ciò che in inglese viene definito come agency, ovvero chi o cosa ha un potere d’azione che confluisca nella mostra (e non solo). Ciò significa sapersi aprire a voci diverse, queer, umane e non (come agenti fisici, naturali, animali e tecnologici, tempo, spazio, architettura, oggetti e così via). “Prendersi cura” diventa quindi la capacità di ascoltare, recepire e ricevere, per poi comunicare e condividere.
BIO Caterina Avataneo è una curatrice indipendente che vive a Londra e Torino. Ha ricevuto il NEON Curatorial Award 2017 da Neon Foundation e Whitechapel Gallery e i suoi progetti curatoriali sono apparsi in numerose istituzioni, project space e gallerie in Europa. Dal 2017 è stata invitata come Curator in Residence presso istituzioni internazionali, tra cui: Neon (Atene), Salzburger Kunstverein (Salisburgo), Rupert (Vilnius), Frame (Finlandia) e 40mcube (Rennes). Nel 2019 è stata assistente curatrice del Padiglione Lituania per la 58. Biennale di Venezia, vincitore del Leone d’Oro. Dal 2018 è assistente curatrice su progetti assegnati a Serpentine Gallery (Londra) e dal 2019 è curatrice della piattaforma online DEMO, dedicata alla Moving Image. Attualmente fa parte del team curatoriale per il programma di residenza presso Cripta747 ed è la consulente curatoriale per la sezione New Entries at Artissima (entrambe a Torino).
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CONCIERGE
VALENTINA SILVESTRINI [ caporedattrice architettura ]
CASA OJALç: LA SUITE NELLA NATURA casaojala.it
Street Art. 10 artisti per QM – Quartiere Museo San Paolo Bari CLAUDIA GIRAUD L La Puglia ama la Street Art. Lo dimostra l’ingente piano di risorse per un grande programma di arte urbana di riqualificazione iniziato più di un anno fa dalla Regione, con lo stanziamento di quasi 4 milioni di euro per realizzare murales finalizzati ad abbellire le periferie delle città, rendendole più accoglienti e inclusive. Il tutto integrato a un’attività di laboratorio, in grado di attivare percorsi culturali di relazione pubblica e collettiva. Da allora molte iniziative ne hanno beneficiato. L’ultima in ordine di tempo riguarda il progetto QM – Quartiere museo San Paolo – Bari, nato dall’intenzione del Comune di Bari di avviare un percorso di rigenerazione dei luoghi attraverso l’utilizzo dell’arte urbana. Un intento condiviso con la non profit romana Fondazione Mecenate 90, che ha visto il finanziamento della Regione Puglia nell’ambito delle politiche di promozione della Street Art urbana e la collaborazione di Arca
Photo © Luca Miserocchi
Mese dopo mese, ondata dopo ondata, la geografica turistica dell’era pandemica resta definita da un perimetro incerto. In vista delle festività di fine anno, si moltiplicano gli annunci delle riaperture ai viaggiatori di ambite destinazioni di lungo raggio: Stati Uniti, Bali, parte del Vietnam sono fra le mete che si preparano a interrompere la lunga stagione del travel ban. Un segnale promettente, ma pur sempre accompagnato dalla prudenza imposta dalla navigazione a vista. In questo scenario il turismo di prossimità sembra offrire maggiori garanzie, oltre a sfoderare novità architettoniche di indubbio interesse, specie nel settore delle “vacanze esperienziali”. Caso esemplare è quello di Casa Ojalá, installata per la prima volta nell’estate 2021 nella tenuta di Castiglion del Bosco, a Montalcino (Siena), nei 2mila ettari che Massimo e Chiara Ferragamo hanno affidato alla gestione del gruppo Rosewood Hotels & Resorts da gennaio 2015. In anticipo sui temi più dibattuti dalla comunità architettonica internazionale all’inizio della pandemia, già in occasione del debutto – alla Milano Design Week 2019 – il prototipo abitativo progettato dall’architetta italiana Beatrice Bonzanigo fissava fra i propri punti forti la capacità di diventare, all’occorrenza, una piattaforma all’aria aperta. Completamente apribile e riconfigurabile; essenziale, ma raffinatissima. Struttura cilindrica, tecnologie ispirate alla nautica, finiture in legno d’okumè, Casa Ojalá è un concentrato di maestria tecnica di cui possono godere due ospiti in contemporanea. Nei suoi 27 metri quadrati, oltre al pilastro strutturale che la fissa al suolo, dispone di appena due elementi inamovibili: la vasca da bagno e il caminetto a bioetanolo, presenze scultoree e sinonimo di intimità domestica. Tutto il resto può subire una metamorfosi, così da accordarsi allo spirito degli ospiti, alle peculiarità del luogo, alla mutevolezza delle ore. Binari e sistemi a scorrimento consentono di far scomparire (e riapparire) le partizioni interne ed esterne; carrucole e manovelle permettono di celare temporaneamente l’ingombro di un determinato volume. Dotata di pannelli a energia solare, di un sistema di raccolta dell’acqua piovana e di un impianto di purificazione per le acque, Casa Ojalá punta alla produzione seriale e alla dimensione internazionale. E chissà che, partendo dalla Val d’Orcia, non riesca davvero a far vivere ai viaggiatori esperienze senza limiti nella natura, in un mondo libero dalle restrizioni.
Puglia Centrale, che ha messo a disposizione del programma di rigenerazione una serie di immobili di sua proprietà ubicati nel quartiere San Paolo. Nel progetto sono stati coinvolti dieci artisti, cinque del panorama internazionale e nazionale (tra cui OZMO, GAIA (Andrew Pisacane), David Diavù Vecchiato e David Pompili) e cinque locali scelti tramite call. Ne sono nati dieci murales, frutto anche della partecipazione e del coinvolgimento dei residenti. Il tutto con la co-curatela di Stefano Antonelli che, con la sua galleria 999 Contemporary, specializzata in pratiche di arte urbana, è stato tra gli ideatori nel 2015 di Big City Life, il museo condominiale di Tor Marancia. Quello che si propone di diventare il San Paolo, questo grande quartiere di Bari, che con i suoi 31mila abitanti si configura come una piccola città. mecenate90.it
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PNRR, DIGITALIZZAZIONE DEL PATRIMONIO CULTURALE E PROPRIETË INTELLETTUALE
Photo Adam Winger via Unsplash
sui diritti connessi nel mercato unico digitale (Direttiva UE 2019/790), del Codice dei beni culturali e del paesaggio (D.Lgs. n. 42/2004) e della Direttiva relativa all’apertura dei dati e al riutilizzo dell’informazione del settore pubblico (Direttiva UE n. 2019/1024). Gli aspetti da esaminare sono numerosi e molti in divenire, considerando che le predette direttive sono entrambe in fase di recepimento in Italia. Focalizzando l’attenzione sul rapporto tra digitalizzazione (riproduzione) del patrimonio culturale e diritto d’autore, possono essere prese in esame alcune novità previste dalla Direttiva 2019/790 (in fase di recepimento), ovvero alcune eccezioni al diritto d’autore a favore degli istituti di tutela del patrimonio culturale (per esempio biblioteche accessibili al pubblico, musei, archivi ecc.) e l’art. 14 dedicato alle opere delle arti visive cadute in pubblico dominio. In particolare, l’art. 14 della Direttiva stabilisce che, alla scadenza della durata di protezione di un’opera delle arti visive, il materiale derivante da un atto di riproduzione dell’opera non sia soggetto al diritto d’autore o a diritti connessi, a meno che il materiale risultante da tale atto di riproduzione sia originale nel senso che costituisce una creazione intellettuale propria dell’autore. Stando allo schema di decreto attuativo proposto dal Governo (atto che il 20 ottobre ha ricevuto parere favorevole con osservazioni delle competenti commissioni di
Camera e Senato), nel recepire l’art. 14 sono state fatte salve le norme del Codice dei beni culturali. In pratica, secondo la nuova norma che sarà inserita nella legge sul diritto d’autore, sarà possibile diffondere, condividere (anche online) e riutilizzare (anche per finalità commerciali) copie non originali di opere d’arte divenute di pubblico dominio, ma per le riproduzioni di beni culturali restano ferme le disposizioni del Codice dei beni culturali e del paesaggio. Ecco emergere una prima particolarità che potrebbe in qualche modo ostacolare l’attuazione dei piani strategici disegnati dal PNRR per il rilancio del settore culturale: il richiamo al Codice dei beni culturali e alle condizioni stabilite per la riproduzione digitale di questi beni. Peculiarità nazionale che è stata prontamente rilevata e criticata da Wikimedia Italia e dal Capitolo Italiano Creative Commons in sede di audizioni al Senato (12 ottobre 2021) nell’ambito dell’esame dello schema di decreto attuativo. Sorge peraltro qualche dubbio sull’effettiva utilità di prevedere l’applicabilità del Codice dei beni culturali in caso di riproduzioni di opere visive di pubblico dominio, tanto più che è ormai noto che i ricavi derivanti dalla riproduzione dell’immagine dei beni culturali sono molto esigui e spesso non coprono neanche le spese di gestione, e che manca un apparato organizzativo per lo sfruttamento e il controllo, anche all’estero, delle immagini.
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Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) è il pacchetto di investimenti e riforme pianificato dall’Italia per beneficiare del Next Generation EU (NGEU), il programma con cui l’Unione Europea ha risposto alla crisi pandemica. Il rilancio dell’Italia delineato dal PNRR si sviluppa intorno a tre assi strategici condivisi a livello europeo (digitalizzazione e innovazione, transizione ecologica e inclusione sociale) ed è articolato in sedici Componenti, raggruppate in sei Missioni. La Missione 1, Digitalizzazione, innovazione, competitività, cultura e turismo, sostiene la transizione digitale del Paese e, a tal fine, prevede investimenti per rilanciare due settori strategici quali turismo e cultura. Elementi decisivi delle azioni intraprese in questi settori saranno la valorizzazione del patrimonio culturale e turistico. In particolare, per la cultura si interverrà: da un lato, per incentivare i processi di apprendimento di nuove competenze (reskilling) e di miglioramento di quelle esistenti per accedere a mansioni più avanzate (upskilling) degli operatori culturali; dall’altro lato, per sostenere l’evoluzione dell’industria culturale e creativa 4.0, con l’obiettivo di organizzare e conservare il patrimonio culturale italiano, favorendo la nascita di nuovi servizi culturali digitali e ponendo le basi per la creazione di elementi innovativi per l’ecosistema del turismo italiano. Nel perseguire tali obiettivi sono previsti investimenti per la digitalizzazione del patrimonio culturale, favorendo così l’accessibilità e lo sviluppo di nuovi servizi da parte del settore culturale/creativo. In tale ambito, gli interventi sul patrimonio “fisico” saranno accompagnati da operazioni di digitalizzazione di quanto custodito in musei, archivi, biblioteche e luoghi della cultura, così da consentire a cittadini e operatori di settore di esplorare nuove forme di fruizione del patrimonio culturale. La rivoluzione digitale pensata dal PNRR passa anche attraverso un’attenta riflessione sulle modalità di acquisizione e sulle possibilità di riutilizzare le riproduzioni digitali di beni culturali pubblici non protetti da diritto d’autore. Sul piano giuridico, tutto ciò comporta un’inevitabile interazione con i temi della proprietà intellettuale e della disciplina dei beni culturali. Il quadro normativo di riferimento è principalmente quello della legge sul diritto d’autore (Legge n. 633/41) e della recente Direttiva sul diritto d’autore e
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RAFFAELLA PELLEGRINO [ avvocato esperto in proprietà intellettuale ]
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Com’è nata l’idea di aprire questa nuova galleria? [F.B.] Ci accomuna la passione per l’arte “ultra-contemporanea”. Il fatto di collezionare entrambi ci ha agevolato nello sviluppo del progetto: eravamo già in contatto con parecchi artisti, collezionisti e gallerie. [M.N.] Da tempo avevamo in mente di aprire uno spazio di questo genere e durante la pandemia abbiamo trasformato l’idea in realtà.
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Acquario Civico di Milano
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Siamo andati a Milano tra Moscova e Brera per conoscere Francesco Bena e Matteo Novarese, collezionisti ma anche fondatori della F2T Gallery.
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Milano Via Statuto 13 info@f2tgallery.com f2tgallery.com Descrivete in tre righe il vostro progetto. L’obiettivo è supportare giovani artisti emergenti e contemporaneamente essere un punto d’incontro per appassionati. Il nostro intento è di crescere insieme agli artisti. Chi siete? [F.B.] La mia “passione per l’arte” nasce sei anni fa. In questo periodo ho avuto modo di accrescere la mia esperienza nel settore. Parallelamente al mio precedente lavoro nel mondo del design, ho avviato attività di advisory e curatela, sia per gallerie internazionali che collezionisti privati in Asia. [M.N.] Ai tempi dell’università sono stato travolto dal movimento urban che stava spopolando a Bologna e me ne sono follemente
I 20 anni del Museo Diocesano di Milano con l’Annunciazione di Tiziano, il Presepe Londonio e la street art degli Orticanoodles
innamorato. Sono stato per dieci anni sales area manager per l’azienda di famiglia e ho avuto la fortuna di viaggiare molto. Ciò mi ha dato l’occasione di visitare tanti musei e gallerie, e con il tempo la mia attenzione si è rivolta sempre più verso l’arte contemporanea. Cinque anni fa ho cominciato a collezionare in modo quasi ossessivo, e non ho ancora smesso. Su quale tipologia di pubblico (e di clientela) puntate? [F.B.] Puntiamo a un collezionismo giovane, che possa crescere con il nostro programma. Visto il background internazionale dei nostri artisti, abbiamo una forte base di collezionisti esteri. E il rapporto con l’area in cui siete collocati? [M.N.] Il nostro spazio è in zona Moscova, un’area centrale, in continuo sviluppo e grande fermento, dove sono presenti diverse altre gallerie e design space. Lì prima cosa c’era? [M.N.] Era uno studio d’artista e successivamente è stato adibito a galleria. Ci regalate qualche anticipazione? [F.B.] Lo show di novembre sarà in collaborazione con Spazio Amanita di Firenze e presenteremo quattro artisti del loro programma. [M.N.] La programmazione di questo primo anno sarà focalizzata su group show che rispecchiano la nostra ricerca e visione e definiranno l’artist line up della galleria.
Artribune la direttrice del museo Nadia Righi, “ma il murale sottolinea il nostro desiderio di essere sempre in dialogo con il pubblico ed è arte partecipata, dato che coinvolge i ragazzi del liceo artistico Sacro Cuore”. chiostrisanteustorgio.it
Manifesta 14 a Pristina. Tema e Creative Mediator della prossima edizione in Kosovo
GIULIA GIAUME L Una grande festa, quella in programma a partire dal 5 novembre per i vent’anni del Museo Diocesano di Milano. Nel museo, che vanta una collezione da mille opere con lavori di Reni, Luini, Fontana e Hayez, saranno esposti la cinquecentesca Annunciazione di Tiziano Vecellio, in prestito dal Museo di Capodimonte di Napoli per l’iniziativa diocesana Un capolavoro per Milano, e il Presepe Londonio, capolavoro del XVIII secolo dell’artista lombardo Francesco Londonio composto da 60 figure dipinte su cartone sagomato e appena acquisito grazie a una donazione di Anna Maria Bagatti Valsecchi. A questi si aggiungeranno una selezione di opere d’arte contemporanea dai depositi del museo, con nomi come Congdon, Pajetta, Bianco, De Valle e Olivieri, e uno speciale murale realizzato sul lato del museo che dà su Parco delle Basiliche e corso di Porta Ticinese dal collettivo Orticanoodles, dedicato alle opere del museo e ai volti dei santi Ambrogio e Carlo, insieme e a quello del fondatore Carlo Maria Martini. “Sembra un azzardo per un Museo Diocesano”, dice ad
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DESIRÉE MAIDA L Multidisciplinarietà, nuove pratiche e modalità di narrazione collettiva per esplorare le dimensioni sociale, urbana ed ecologica dei luoghi in cui viviamo: si basa sullo storytelling la 14esima edizione di Manifesta, biennale d’arte contemporanea itinerante che dal 22 luglio al 30 ottobre 2022 si terrà a Pristina, capitale del Kosovo. A curare Manifesta 14 sarà Catherine Nichols, scrittrice e curatrice australiana di base a Berlino – attualmente direttrice artistica di Beuys 2021 –, che guiderà la mostra all’insegna del tema it matters what worlds world worlds: how to tell stories otherwise: un’esortazione, traendo ispirazione dalle parole della filosofa politica Hannah Arendt, ad “allenare attivamente la nostra immaginazione per visitare nuovi mondi”. Nichols lavorerà a stretto contatto con Carlo Ratti, architetto italiano cui Manifesta ha affidato un’analisi urbanistica di Pristina, in collaborazione con il MIT’s Senseable City Lab di Boston. “Quando ho visitato Pristina, le persone che ho incontrato, le conversazioni che ho avuto, il lavoro cui ho assistito, mi hanno dato prova tangibile del potere trasformativo che risiede nella pratica della narrazione”, sottolinea Catherine Nichols. manifesta14.org
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ICC MIC TEAL: QUANDO IMPRESE E MINISTERI SI COLORERANNO DI VERDE ACQUA?
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IRENE SANESI [ dottore commercialista ]
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© Mariuska per Artribune Magazine
Ci perdonino i germanisti se con questo titolo diamo l’impressione, a chi come me non conosce il tedesco, di aver trovato quelle frasi a effetto in stile Sturm und Drang. Nella società delle crasi, degli acronimi e delle sigle, abbiamo provato a tenere insieme le Imprese Culturali e Creative e il Ministero della Cultura (con il suo nuovo nome) con organizzazioni teal. Due mondi da una parte già assai distanti per teleologia, struttura, modelli di governance, visione e, dall’altra, un approccio strategico figlio del nostro tempo e frutto di nuovi paradigmi, adottato e in via di adozione crescente da parte soprattutto delle start-up e delle i-tech: quello delle teal organization. Teal non è solo un colore (verde acqua) ma anche un modello organizzativo che ha il fine di integrare le risorse di un’impresa – umane, patrimoniali, economiche e finanziarie, relazionali e reputazionali – nel perimetro (che assomiglia più a una corte dei gentili che a un hortus conclusus) di tre valori fondanti e trasversali. L’auto-gestione (self management) come capacità naturale di auto-organizzarsi con flessibilità e responsabilizzazione crescente; la pienezza
(wholeness) quale obiettivo di autenticità, fiducia e inclusione; e il proposito evolutivo, un concetto che supera il mantra del miglioramento continuo propinatoci da anni di certificazioni di qualità, per porre l’organizzazione nel villaggio globale in cui ci troviamo e farle apprendere come, avrebbe detto Tarkovskij, abitare il tempo. Quanto siamo lontani dai modelli fortemente gerarchizzati, in stile MIC, piuttosto che orizzontali/progettuali, habitus di molte ICC? Qui, più che misurare le distanze tra modelli scelti e perseguiti nelle prassi con tutte le loro degenerazioni (si pensi a come la parola stessa burocrazia abbia assunto nel tempo un’accezione negativa), verrebbe da dire che dovremmo misurare il commitment. Che fine ha fatto? Dove sta? E non solo come obligation quanto come pledge, trust, confidence: valori che oggi ci vengono ri-consegnati dalla letteratura aziendale anglosassone le cui radici stanno tutte in quel “bello e ben fatto” di medievale memoria, quando ancora un oggetto non aveva pretese estetiche per qualcun altro se non il soggetto che ne deteneva la responsabilità della creazione e costruzione e l’oggetto stesso in sé.
Il verbo misurare ci piace molto perché parte da un assunto non scontato: il dato. È solo partendo da una seria e robusta indagine sui dati che possiamo acquisire consapevolezza organizzativa (e non solo), senza la quale continueremo a navigare irresponsabilmente nel mare dell’autoreferenzialità o, peggio, a non mollare le cime restando fermi nel porto sbagliato. I cinque colori utilizzati da Frederic Laloux nel suo Reinventing Organizations: An Illustrated Invitation to Join the Conversation on Next-Stage Organizations (2014) illustrano il percorso evolutivo da red (agli albori della civiltà) a teal (per le organizzazioni evolute contemporanee) attraversando una storia variopinta di amber (da 4.000 a 400 anni fa, caratterizzata da organizzazioni conformiste e gerarchiche), di orange (un modello orientato a obiettivi e risultati) e di green (l’ultima evoluzione all’insegna della sostenibilità). Lo stadio (temporale) a cui sono ferme nei loro modelli organizzativi le istituzioni culturali – poco importa se pubbliche o private, profit o non profit, e qui escludo volutamente le benefit – fa dannatamente riflettere. Poco importano le sfumature di giallo.
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BAMBOO ECO HOSTEL Giorgia ha fondato questo ostello perché girava per il mondo e le era venuta proprio la passione per gli ostelli. Ormai aprono intere catene – anche a Torino, si pensi all’imperdibile Combo. Qui invece un progetto totalmente indipendente. corso palermo 90d bambooecohostel.it
FRANCO NOERO Ci sono un po’ di gallerie nella nostra mezzaluna. Anche se non tante. Ad esempio, in uno spazio dal sicuro fascino c’è Franco Noero, grandissimo gallerista che da decenni sperimenta location che ti lasciano sbalordito. via mottalciata 10b franconoero.com
ASSOCIAZIONE BARRIERA Siamo partiti un po’ da qui, da questi pionieri della Mezzaluna Creativa Orientale. Pensate: uno spazio non profit tutt’altro che in centro storico inaugurato ben 15 anni fa da un’idea di un gruppo di collezionisti. Solo mostre interessanti. via crescentino 25 associazionebarriera.com
OPERA VIVA Può un ingombrante, sgraziato cartellone pubblicitario trasformarsi in un pezzo dell’identità di un quartiere? Se un bravo artista e un bravo curatore si mettono a fare i visionari, può eccome. Di più: è diventata una roba da esportazione. piazza bottesini artistadiquartiere.com
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Non chiamatela periferia, non chiamatela cintura, chiamatela mezzaluna. Una mezzaluna di quartieri della Torino proiettata verso Milano, verso la Pianura, verso Caselle e Malpensa.
EDIT Parliamoci chiaro: c’è stato un preciso momento storico (recentissimo) in cui la svolta della Mezzaluna Creativa doveva essere questo contenitore gourmet. Poi arrivò il Covid. Edit, dopo un po’, ripartì. Puntando dritto sulla birra. piazza teresa noce 15a edit-to.com
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MEF Volete conferma della storia ripetuta e ribadita delle grandi architetture industriali torinesi che diventano altro (tipo Lingotto o OGR)? Eccola: una kunsthalle internazionale in un ex centro per la smaltatura dei fili di rame. via cigna 114 museofico.it
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DOCKS DORA Saranno quarant’anni che questi antichi magazzini sul fiume Dora Riparia sono stati rifunzionalizzati e ospitano cose di cultura (e divertimento) a vario titolo. Tornarci è sempre una buona idea, anche grazie alle architetture uniche degli edifici. via valprato 68 facebook.com/iDocksDORA/
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TRATTORIA AMICIZIA Fin qui siamo restati sostanzialmente in Barriera di Milano. Un altro piccolo sforzo in direzione Borgo Vittoria però lo merita questa trattoria tradizionale, dove si possono trovare piatti della cucina regionale che ormai sono una rarità. via cardinal massaia 7 trattoriamicizia.it
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SAVERIO VERINI [ curatore ]
Giulia Poppi o ancora qualche difficoltà a definire con precisione il sentimento che provo di fronte alle opere di Giulia Poppi. I suoi lavori hanno spesso le sembianze di conglomerati esuberanti e coloratissimi, la cui origine – organica? artificiale? – risulta del tutto nebulosa. La materia della quale sono fatte le sue opere pare provenire da un altro pianeta; un minerale inventato – una kryptonite – che può suscitare ribrezzo o, al contrario, desideri ai limiti della commestibilità. Per lo più ingombranti e invadenti, gli interventi di Giulia Poppi possono anche assumere forme sottilissime e manifestarsi attraverso trasparenze sofisticate; in ogni caso, a prescindere dalla loro dimensione, l’impressione è che siano irriducibilmente fuori luogo, figlie di uno stato d’animo e di un ardore a cui è difficile dare un nome. Forse è per questo che l’ultima installazione realizzata da Poppi ha per titolo un’onomatopea, Sffsssshh: un fruscio, un colpo di frusta, un processo di ebollizione, lo sfrigolio di una saldatura – evocazione di qualcosa a cui probabilmente il suono riesce a dar corpo meglio di una parola di senso compiuto. L’artista sottopone i materiali a trattamenti quasi alchemici: li plasma, li modella, li forza, ne scopre proprietà inaspettate. È per questo che, nonostante il carattere sfuggente delle sue opere, credo di poter dire con certezza che Giulia Poppi sia una scultrice.
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In genere preferisco non utilizzare il termine “lavoro” per riferirmi a un’opera o a una pratica artistica. Eppure, nel tuo caso, trovo si addica perfettamente a quello che fai: azioni meccaniche, tentativi di combinazione tra elementi eterogenei, esperimenti sulla tenuta dei materiali. Come avrai potuto intuire dai titoli dei miei lavori, per i quali utilizzo spesso onomatopee, non sono molto abile nell’uso delle parole. Quindi tendo a usare le parole “lavoro” e “opera” come sinonimi. In ogni caso, sicuramente, sono più interessata alla dimensione dell’opera che a quella della pratica o del lavoro. Anche la sperimentazione, nel mio caso, è finalizzata alla ricerca di
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materiali che attivino un immaginario, al quale cerco di dare una forma concreta. Poco fa ti ho definito scultrice. Ti ci ritrovi? Non do molto peso a questo tipo di cose. D’altra parte, è vero, io mi occupo di materia e di spazio; e se essere scultrice vuol dire occuparsi di materia e di spazio, allora può andar bene. Istintivamente mi capita di cercare affinità e corrispondenze tra gli artisti. Devo ammettere che non è così semplice trovare qualcuno a cui somigli. Forse è perché sono relativamente ignorante sugli altri artisti? Probabilmente tendo più a guardarmi attorno, a cogliere spunti altrove, anche in modo fortuito. Ad esempio, per Glassblock – opera che ho realizzato a Bologna in occasione di una mostra collettiva curata dall’artista Massimo Bartolini nel 2019 – il punto di partenza è stato una frase che ho letto nel libro di Richard Bach, Illusioni. La frase, parte di un dialogo tra due personaggi, suonava più o meno così: “È una tua superstizione il fatto che non si possa nuotare sulla terra e camminare sull’acqua”. Ecco, con Glassblock ho cercato di inseguire un’immagine impossibile, provando a renderla concreta: ho così realizzato un elemento che ostruisse lo spazio e cioè una parete in vetrocemento, ma fatta in tessuto, quindi fasulla. Un materiale apparentemente pesante come il vetrocemento si rivelava
mobile, cedevole; oltretutto si trattava di una specie di ostacolo, per superare il quale era necessario scostare la tenda e dunque toccare l’opera. Mi sembra che tu cerchi di suscitare una curiosità in chi osserva l’opera, spingendolo a chiedersi: di che materiale sarà fatta? Mi piace che ci sia un legame sensuale con le cose, un’empatia fisica. E mi interessa molto il fatto che un’opera generi prospettive anomale, che possano attrarre e repellere contemporaneamente. Per questo mi servo spesso di materiali poco nobili, grezzi, ma che rivelano proprietà sorprendenti. In effetti alcune tue installazioni sembrano composte da organismi che si ribellano al loro statuto, raccapriccianti. Quasi splatter. Però non sono una fan del genere! Mi fermo a qualche film di David Cronenberg. Posso dire d’essere attratta dalla bellezza che deriva da equilibri che si vengono a creare in maniera inedita, incongruente – e che può sconfinare nel raccapricciante, appunto. Trovo che ci sia qualcosa di magico nella decomposizione… Mi viene in mente la mostra Sbranksbunkdum, realizzata nel 2018 alla Gelateria Sogni di Ghiaccio, a Bologna. Ancora un’onomatopea! Sì, mi piaceva il suono di una pallina – però enorme – che rimbalzasse nello spazio
BIO Giulia Poppi è nata a Modena nel 1992. Si è formata all’Accademia di Belle Arti di Bologna, città nella quale vive. Nel 2016 fonda lo spazio espositivo Malgrado, curandone la programmazione insieme ad altre artiste. Ha esposto in gallerie, spazi indipendenti e istituzioni, tra cui: Spazio Volta, Bergamo (2021); straperetana, Pereto (2021); Manifattura Tabacchi, Firenze (2020); Premio Michetti, Francavilla al Mare/ Pinacoteca Nazionale di Bologna (2020); Premio AccadeMIBACT, Palazzo delle Esposizioni, Roma (2020); CarDrde, Bologna (2019); CampoBase, Torino (2019); P420, Bologna (2018 e 2016); Gelateria Sogni di Ghiaccio, Bologna (2018); MAMbo, Bologna (2017); Localedue, Bologna/Torino (2017); Biennale Giovani, Monza (2017). Nel 2017 ha vinto il contest indetto da Illy, realizzando una versione dell’iconico barattolo di caffè. Nel 2019 ha vinto il premio del collezionismo ArtUp a Bologna ed è stata in residenza alla Manifattura Tabacchi di Firenze. giuliapoppi.com
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Giulia Poppi, Passagatto, 2020, muro in cartongesso, gattaiola, motorino elettrico, dimensioni ambiente. Courtesy l’artista. Photo Paolo Darra. Installation view at Premio AccadeMIBACT, Palazzo delle Esposizioni, Roma
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a sinistra in basso: Giulia Poppi, Sffsssshh, 2021, PETG vergine, dimensioni variabili. Opera realizzata in collaborazione con Plastopiave e ultravioletto.art. Courtesy l’artista. Installation view at Straperetana 2021, Pereto sopra: Giulia Poppi, Glassblock, 2019, stampa digitale su decotex, abbaglianti da fuoristrada, ferro, 304x285x38 cm. Courtesy l’artista, opera di proprietà della Fondazione Zucchelli. Photo Manuel Montesano. Installation view at Galleria CarDrde, Bologna
espositivo in maniera incontrollata e rumorosa. In quel caso avevo prodotto una popolazione di oggetti in qualche modo fuori scala e fuori contesto, tra cui una riproduzione fotografica con l’ingrandimento di una muffa. Mi intrigava l’idea di questo microbo gonfiato: paradossalmente trovo che una cosa minuscola portata a una dimensione quasi mastodontica faccia meno paura. Il contatto diretto con l’opera mi sembra una componente irrinunciabile per te: un atteggiamento in controtendenza rispetto al dogma dell’“instagrammabilità”… Forse devo ancora capire il mio rapporto con la dimensione social e la fotogenicità delle opere. Certo, tutto è fotografabile, tutto è documentabile, ma sento che i miei lavori non possono essere ridotti a un’immagine bidimensionale. Credo si debba rispettare l’esperienza fisica, rispettare la materia: “Restate fedeli alla terra!”, come diceva Nietzsche. Lo scorso anno hai partecipato alla mostra collaterale della Quadriennale di Roma, che vedeva la partecipazione di dieci artisti emergenti selezionati tra le Accademie
Mi piace che ci sia un legame sensuale con le cose, un’empatia fisica. E mi interessa che un’opera generi prospettive anomale.
di Belle Arti di tutta Italia. Il tuo intervento era a malapena visibile, ma ha comportato un lavoro non da poco. Passagatto era una gattaiola posizionata in basso, a pochi centimetri da terra, circondata da altre opere piuttosto muscolari. È vero, era quasi difficile notarla: eppure per realizzarla ho dovuto erigere una parete in cartongesso che chiudesse parte dello spazio
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a sinistra in alto: Giulia Poppi, Untitled, 2018, fotografia digitale su decotex, 300x500 cm. Courtesy l’artista, opera di proprietà della Regione Emilia-Romagna. Installation view at Galleria P420, Bologna
al piano terra del Palazzo delle Esposizioni. La gattaiola collegava lo spazio al di qua e al di là della parete: un’intercapedine, un piccolo buco nero che richiamava gli inseguimenti di Tom & Jerry, ma che era anche una reazione al fisiologico affollamento della mostra. Gli sportelli delle due fessure da un lato e dall’altro della parete erano regolati da un meccanismo che prevedeva la loro attivazione: ogni cinque minuti la gattaiola si apriva e richiudeva, producendo un cigolio stridente. Un’opera che somiglia a una via di fuga. Ci trovo diverse corrispondenze con la tua irrequietezza. Ci può stare. Ho sempre avuto bisogno di fare, anche in maniera non programmata. Quando studiavo in Accademia, per circa un anno ho gestito, insieme ad altre persone, uno spazio che avevamo chiamato Malgrado – non era altro che il mio studio-abitazione. Ogni martedì c’era qualcosa: una mostra, una proiezione, un concerto, una performance, una festa. Un happening continuo nato da un traboccamento di idee e volontà, senza alcuna strategia. È durato poco, ma è stato bello.
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TUTTI PAZZI PER GLI ARCHIVI. ENNESIMA MODA O C’È DI PIÙ?
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MARCO SCOTINI [ saggista, curatore, docente ] intervista di MARCO ENRICO GIACOMELLI [ filosofo e docente ]
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artiamo da una classificazione delle tipologie di archivio, con particolare riferimento al mondo dell’arte. Ci sono almeno gli archivi d’artista (l’elenco è infinito: in ordine sparso, cito quello di Gianni Colombo che tu stesso segui, la realtà molto attiva e propositiva della Fondazione Piero Manzoni, realtà recenti e recentissime come quella dedicata a Fausta Squatriti, e l’elenco potrebbe continuare a lungo), gli archivi di critici e curatori (penso, per restare in Italia, allo Studio Celant e al patrimonio documentale recentemente donato da Achille Bonito Oliva al Castello di Rivoli, con mostra annessa in corso fino al 9 gennaio), gli archivi museali (in quest’ultimo caso penso a eccellenze come l’Archivio del ‘900 al MART di Trento e Rovereto, il CID – Centro di Informazione e Documentazione del Centro Pecci a Prato e lo stesso CRRI – Centro di Ricerca Castello di Rivoli). Quali sono le caratteristiche principali che li identificano e cosa contengono? [M.S.] Parlando dell’archivio mi vengono in mente due brevi testi che non sono saggi teorici ma romanzi. Uno è Tutti i nomi del grande José Saramago, l’altro è L’anulare di Yoko Agawa, una delle “ragazze terribili” della scena letteraria giapponese. Il personaggio di Tutti i nomi è un impiegato senza attrattive dell’Anagrafe di una città portoghese non meglio identificata. La protagonista de L’anulare è assistente in un laboratorio dove oggetti carichi di memoria personale e affettiva vengono trasformati in reliquie o, meglio, in “esemplari”. Il signor Deshimaru, per cui la giovane lavora, è una sorta di tassidermista per ogni tipo di oggetto. Senza aggiungere altro, quello che però mi colpisce in questi due racconti è l’enigma fondamentale che contengono: un’incognita che non porta ad alcuna soluzione, ad alcuno sviluppo.
© Mariuska per Artribune Magazine
[M.E.G.] È necessario elaborare il lutto archiviale, sono perfettamente d’accordo. Occorre farlo in maniera vigile, consapevole e critica, ma non in una chiave nostalgica. [M.S.] Credo che la nostra contemporanea fissazione con l’archivio (con la sua immagine e la sua funzione) abbia a che fare con la perdita attuale del suo oggetto: l’elemento documentale. È vero che abbiamo pensato sempre l’opposto – e cioè che i database non facessero altro che favorire l’accumulazione, l’inventariazione e la conservazione di differenti materiali. Al contrario, penso che il nostro attaccamento all’archivio tradisca qualcosa di diverso e di originario. È un po’ come quando nasce la pittura di paesaggio: tutti la celebrano come un ritrovato connubio con la natura, mentre non fa altro che elaborarne il nostro affrancamento definitivo. In fondo l’idea di archivio (per come la conosciamo) trova il suo apice nel XIX secolo con la stampa, la fotografia, il telegrafo e la riproduzione meccanica delle cose. Qualcosa, cioè, in grado di materializzare anche l’immaterialità di un suono o di un momento. Ma oggi, nei nostri ambienti elettronici, quali sono le tracce o i depositi che ancora possiamo lasciare?
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[M.E.G.] La capacità, spesso sottovalutata, della letteratura di fornire spunti teorici è una mia ossessione da parecchi anni, quindi accolgo in pieno questi spunti e ti chiedo: in che modo, più dettagliatamente, questi due romanzi ci permettono di riflettere sull’archivio? [M.S.] La precisione procedurale, il carattere fattuale delle voci e delle registrazioni, gli ordinamenti e le classificazioni neutrali, la cura nel conservare tutto ciò, non garantiscono – come tali – né veridicità né eternità alle cose del mondo. Anzi, proprio lì dove tutto sembra ordinato, salta fuori l’incognito. Da un lato, la giovane assistente di Deshimaru finisce per diventare lei stessa un “esemplare” reificato. Dall’altro, la donna inseguita dall’impiegato dell’Anagrafe rimane, alla fine, soltanto un nome, un puro nome senza referente. L’aspetto interessante del libro di Saramago è che, solo al termine del racconto, l’impiegato capisce la possibilità che documenti e nomi possano essere scambiati tra loro, all’infinito. Tutto questo per dire che la ricchezza documentale che possediamo negli archivi dell’arte non è, di per sé, una garanzia di storicità. Certo abbiamo a che fare con un cumulo di documenti modernisti che non ha precedenti. Tutta questa mole di stampe fotografiche, lettere, contratti, differenti varianti di testi autografi, che ci arrivano da un recente passato, oggi non è più possibile. Il computer, WhatsApp e il cellulare non lasciano tracce.
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Il tema dell’archivio è ormai una costante nelle ricerche artistiche e curatoriali – basti pensare alla centralità che rivestirà alla prossima Documenta di Kassel e alla Istanbul Biennale. Se le radici teorico-pratiche di questa riflessione si possono far risalire al XX secolo, da Aby Warburg a Fluxus, nella riflessione critica internazionale del XXI secolo la figura centrale è quella di Marco Scotini. Il progetto Disobedience Archive risale infatti al 2005. Chi se non lui poteva dunque fare il punto su questa enigmatica ossessione per l’archivio?
[M.E.G.] Gli archivi da cui siamo partiti, dunque, come possono e devono essere ricollocati in questa nuova topologia teorica? [M.S.] Gli archivi museali e istituzionali
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a cui fai riferimento io li chiamo archivi-readymade, archivi alla lettera, magazzini convenzionali di cui già sappiamo il funzionamento: sono né più né meno che schedari, supporti alla storia dell’arte in un’accezione classica del termine. A volte possono essere esposti, altre volte citati in un libro, ma il loro senso non cambia. Questo assetto classico dell’archivio, diciamo così, deriva dal paradigma scientifico del XIX secolo e uno dei suoi scopi principali era istituire una tecnologia dell’identificazione che permettesse il controllo delle masse anarchiche che si andavano urbanizzando. Credo, al contrario, che il nostro attuale rapporto con l’idea di “archivio” sia di tipo paradigmatico. Abbiamo a che fare con regimi di storicità, non semplicemente con sistemi organizzativi. Una domanda seria al riguardo sarebbe quella di chiedersi: perché definiamo i documenti lasciati da Jannis Kounellis un archivio d’artista mentre quelli raccolti da Paulo Bruscky un’opera d’arte? Vedo che si riaffaccia l’enigma di cui ho parlato all’inizio: l’enigma dell’archivio. Proprio nel momento in cui questo dispositivo ha cessato di essere un luogo circoscritto e materiale per divenire una forma simbolica e culturale egemonica.
TORINO
MILANO
GIULIO PAOLINI fondazionepaolini.it
PIERO MANZONI pieromanzoni.org
CAROL RAMA archiviocarolrama.org
FAUSTA SQUATRITI faustasquatriti.com
ROMA
SALVO archiviosalvo.com
GIANNI COLOMBO archiviogiannicolombo.org
ACHILLE PERILLI achilleperilli.com
BERT THEIS berttheis.com
JANNIS KOUNELLIS archiviokounellis.com
PAOLO SCHEGGI associazionepaoloscheggi.com
ELISABETTA CATALANO archivioelisabettacatalano.it
NANDA VIGO nandavigo.com
FABIO MAURI fabiomauri.com
ANDO GILARDI archivio.fototeca-gilardi.com
TOMASO BINGA fondazionemenna.it
VINCENZO AGNETTI vincenzoagnetti.com EMILIO TADINI spaziotadini.com
ARCORE (MI)
Perché definiamo i documenti lasciati da Kounellis un archivio d'artista mentre quelli raccolti da Paulo Bruscky un’opera d’arte? [M.E.G.] Hai sollevato un punto di importanza capitale. L’archivio, infatti, può diventare anche oggetto di riflessione artistica. A tuo avviso quali sono gli esempi più eloquenti, sia storici che contemporanei? Penso a figure come Gerhard Richter e Marcel Broodthaers, ad esempio, ma ancora prima a Fluxus e alla Institutional Critique – dove il confine tra opera e documentazione sfuma e diventa poroso. [M.S.] Tutti gli autori che citi (ne potremmo aggiungere altri) soffrivano e soffrono di una giusta sindrome del sospetto: del documento probante, dell’immagine univoca, del museo garante di narrative veridiche. Molti altri artisti hanno invece lavorato all’aspetto formale o spaziale dell’archivio (ai differenti registri che lo istituiscono) e mi interessano meno. Ma l’archivio in arte, soprattutto dopo la fine della Guerra Fredda, ha sviluppato tutte le premesse concettuali emerse negli Anni Settanta: oggi è una presenza ingombrante che non può essere evitata. Penso ad
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UN TOUR FRA GLI ARCHIVI D'ARTISTA
ANTONIO SCACCABAROZZI archivioantonioscaccabarozzi.it
RONCOCESI (RE) LUIGI GHIRRI archivioluigighirri.com
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Akram Zaatari, Pedro G. Romero, Deimantas Narkevičius, Walid Raad, Lamia Joreige, Sammy Baloji, Naeem Mohaiemen, Simon Wachsmuth, Sheba Chhachhi, solo per citarne alcuni. [M.E.G.] Nella tua attività di ricerca hai affrontato più volte – sin da “tempi non sospetti” – e continui a confrontarti con questo enigma rappresentato dall’archivio. Tracciamo un itinerario di questa indagine, a partire dall’arte italiana degli Anni Settanta. [M.S.] A un certo punto ho sentito la necessità di confrontarmi (vista la mia ossessione di sempre per l’archivio) con l’arte italiana di quegli anni, cercandovi le premesse. Ero sicuro che, oltre il ruolo egemonico dell’Arte Povera, avrei incontrato molto altro che era stato rimosso negli anni successivi. In fondo l’Italia di quel decennio è in grado di produrre un laboratorio sociale eccedente. Il suo intervento sulla trasformazione della temporalità e della fabbrica sociale (il post-fordismo) avrebbe dovuto muovere da un contesto estetico-culturale radicalmente innovativo, avrebbe dovuto compiere un salto paradigmatico. Da qui nasce la mia mostra L’Inarchiviabile. Italia anni ‘70, presso FM
L’archivio in arte, soprattutto dopo la fine della Guerra Fredda, ha sviluppato tutte le premesse concettuali emerse negli Anni Settanta.
cornice, de L’Inarchiviabile è l’enunciato collettivo, il soggetto collettivo che parla, che si esprime, che si mobilita. Mi è sembrato importante rintracciare nella figura dell’archivio questa forte matrice della moltitudine contemporanea che rifugge sì dai dualismi classici, ma soprattutto dall’idea di un solo mondo possibile. La moltiplicazione dei processi di soggettivazione non può che accompagnarsi a una proliferazione di soggettività e sessualità eterogenee, post-identitarie, non vincolate a ruoli predefiniti.
Centro Arte Contemporanea a Milano. Questa mi permette di capire come la matrice dell’archivio (l’atlante, la mappa, il catalogo) in tutti gli artisti esposti avesse avuto un potenziale eversivo basilare e dirompente: per trattare l’infinito, per sabotare le statistiche, per decostruire il genere, per misurare i corpi e il lavoro, per intervenire sul già filmato, sulla comunicazione, sull’immagine. In sostanza, l’archivio diviene, in quel contesto, un grimaldello per far saltare la storia e lasciar intravedere altri racconti… Chiaramente il filo conduttore, o la vera
[M.E.G.] Come si articolano e proliferano queste soggettività? Penso ad esempio alla questione di genere. [M.S.] In rapporto al tema del genere, si tratta qui di sottrarlo a qualsiasi idea d’identità sessuale, con un processo di continua decostruzione che mette in scena una teatralità costitutiva e convenzionata dei comportamenti e delle attitudini. Penso a Lisetta Carmi in rapporto ai suoi Travestiti, quando dice che non esistono comportamenti obbligati se non in una tradizione autoritaria che ci viene imposta da sempre. Oppure penso alla tassonomia fiction dei ruoli del femminile di Marcella Campagnano che precedono
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Disobedience Archive. Installation view at Raven Row, Londra 2010
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i Film Stills di Cindy Sherman, così come le foto di Lisetta Carmi anticipano quelle notissime di Nan Goldin. Ci si sottrae, in sostanza, alle assegnazioni che vedono gli intellettuali là (istituzione) e il popolo qua (politica). Le produzioni con cui abbiamo a che fare non si riconoscono né nella prassi creativa dell’istituzione artistica, né nella matrice predicatoria dei contributi politici. Che poi questa stessa generazione fosse finita in un archivio giudiziario, a chiusura di quel decennio, mi pare un particolare non trascurabile. La posta in gioco era quella di profanare la storia dentro e contro quel dispositivo che la istituiva. Un’altra sorpresa è stata quando si è trattato di aprire gli archivi ribelli del femminismo per la mostra successiva, Il soggetto imprevisto. [M.E.G.] Mi pare chiaro che, a fronte di quello che hai appena detto, anche dal punto di vista storico, critico e curatoriale l’archivio possa (debba) diventare (s)oggetto di studio più che strumento “neutrale”. In questo caso penso all’esempio seminale di Aby Warburg, alla mostra Archive Fever di Okwui Enwezor, e in un certo senso alla sempre più consueta abitudine di costruire mostre che contengano porzioni più o meno ampie di “documentazione” del lavoro degli artisti o dei temi affrontati nelle mostre stesse. [M.S.]Ho sempre affermato che il curatore (la sua pratica) nasce dalle ceneri della storia. Per questo ha bisogno del paradigma dell’archivio: di una cosa accanto all’altra e non di una dopo l’altra. La storia è una costruzione modernista, gerarchica e verticista. C’è sempre una dimensione teleologica che fa cominciare le cose da qualche parte e le dirige da un’altra, c’è una causa e un effetto corrispondente. Senza questo costrutto storiografico non ci sarebbe passato, presente e futuro. Non sono pensabili, fuori di questo schema, neppure le avanguardie storiche, con il loro voler precedere il popolo che è già in marcia. Se c’è storia (compresa quella dei pop, minimalisti, land artisti, poveristi ecc.) non c’è necessità del curatore, basta un direttore museale che rimette ogni cosa al posto già assegnato. Il curatore invece ha bisogno di immaginare una relazione tra un’opera e l’altra, una relazione che non è già data, che non è già anticipata all’interno di un protocollo. Il curatore è orfano della storia o, meglio, dello storicismo. Non perché non conosce la storia ma perché riconosce la fragilità generale dei suoli e delle rappresentazioni, con la conseguente moltiplicazione dei punti di vista, con la decentralizzazione e la fine della sovranità dell’Uno: tanto della Storia dell’Arte che dell’idea di Popolo, di massa ecc. Il nostro problema attuale è quello di riportare alla luce memorie collettive sepolte, corpi disobbedienti, ruoli repressi, libri interdetti, esposizioni rimosse. Insomma: tutto ciò che è stato lasciato fuori da una storia evoluzionista e patriarcale. Non c’è inclu-
3 LIBRI PER APPROFONDIRE FILOSOFIA DELL’ARCHIVIO Concepito in prima battuta come lectio a un convegno tenutosi nel 1994 a Londra, questo testo di Jacques Derrida è sostanzialmente e consapevolmente privo di tesi, essendo costituito da una serie di introduzioni che alla fine costituiscono gran parte del testo stesso. Questa scelta stilistica, per così dire, sostanzia il “contenuto”, poiché la decostruzione qui si applica alla tensione irrisolta e irrisolvibile del concetto stesso di archivio, teso fra cominciamento (archè) e comandamento (arconte). Questa contraddittoria complessità viene esplicitata mettendola a confronto con piscoanalisi e giudaismo, essi stessi dilaniati fra ripetizione e messianismo.
Jacques Derrida – Mal d’archivio Filema, Napoli 1996 Pagg. 131, f.c. OSSESSIONE CONTEMPORANEA “Scegliere l’archivio come medium, rivisitandone il ruolo mnestico e insieme quello sociopolitico, per gli artisti significa mettere in moto una procedura critica dell’azione stessa del classificare o archiviare che si esprime attraverso il montaggio visivo, quindi attraverso quello che potremmo chiamare uno dei metalinguaggi più efficaci dell’arte contemporanea”: è quanto dichiarava Cristina Baldacci in una intervista rilasciata ad Artribune in occasione dell’uscita del suo Archivi impossibili. Un volume che coniuga prospettiva storico, teorica e monografica – con approfondimenti verticali dedicati a Gerhard Richter, Hanne Darboven, Marcel Broodthaers e Hans Haacke.
Cristina Baldacci – Archivi impossibili Johan & Levi, Monza 2017 Pagg. 222, € 22 johanandlevi.com UNA COLLANA DI GEOARCHIVI Una novità delle ultime settimane è la collana GeoArchivi inaugurata dall’editore Meltemi. Alla direzione c’è proprio Marco Scotini, affiancato da un manipolo di professionisti accomunati dalla docenza alla NABA di Milano: Andris Brinkmanis, Paolo Caffoni, Zasha Colah, Massimiliano Guareschi, Gabriele Sassone ed Elvira Vannini. È proprio Brinkmanis a curare la prima uscita, L’agitatrice rossa della lettone Asja Lācis, figura radicale e pionieristica dell’Avanguardia storica, a cui il ricercatore si era già dedicato alla Documenta del 2017. Il secondo volume, in corso di stampa, è firmato da Scotini e ha come titolo L'inarchiviabile. Pratiche artistiche e riscritture della storia.
Asja Lacis – L’agitatrice rossa Meltemi, Milano 2021 Pagg. 246, € 24 meltemieditore.it
Si tratta di pensare qualcosa in cui l’origine non è l’unità incontaminata e coerente di un fenomeno, ma sempre la dispersione e l’ibridazione. sività possibile senza trasformazione dei paradigmi narrativi, senza cambiarne infrastrutture di produzione. È un tema che ho affrontato anche con il cinema e il documentario nel libro Politiche della memoria, attraverso l’uso del found footage.
[M.E.G.] Veniamo a un nodo che fin qui abbiamo lasciato un poco sullo sfondo ma che ritengo sia centrale: qual è il rapporto fra archivio e memoria? Perché è chiaro, come mostra ad esempio Jacques Derrida in Mal d’archivio e come hai appena sottolineato tu stesso, che la costruzione di un archivio storico è inevitabilmente una costruzione “orientata” (e talora malleabile) del passato: nel presente si sceglie cosa conservare del passato, e così facendo si orienta il futuro. [M.S.] Direi che questo appartiene piuttosto ai grandi racconti della storia. L’archivio, come tale, è una collezione di materiali eterogenei non immediatamente canalizzata in un costrutto finalizzato a qualcosa o in una storia che ha la pretesa di significare la totalità a partire da un singolo resoconto. Nella parola “archivio”, così come in “archeologia”, è vero che risuona la radice greca
MARCO ENRICO GIACOMELLI & GIULIA RONCHI labiennale.org/it/asac | naba.it | archiviodistatomilano.beniculturali.it mambo-bologna.org | moremuseum.org | centropecci.it | castellodirivoli.org
La moltiplicazione dei processi di soggettivazione non può che accompagnarsi a una proliferazione di soggettività e sessualità eterogenee Là dove l’origine, come tale, s’inventa un’identità o la forma inalterabile delle cose, non c’è altro che la proliferazione e la dispersione di maschere che si succedono: il teatro avventizio delle loro rappresentazioni, dove si ripete sempre e solamente il copione drammatico della dominazione. Per questo l’esordio di ogni cosa è tutt’altro che solenne: basso, derisorio, discontinuo. Sotto l’aspetto univoco di una figura o di un concetto si scopre sempre una moltiplicazione infinita di eventi, di archivi, di fratture, attraverso cui tale sedimentazione (quello che chiamiamo il ‘periodo storico’) si è formata. Se pensiamo all’idea di primitivo (anche in arte) o di classicità, decadenza ecc. non usciamo dal costrutto evolutivo che definiamo “storia”. Il fatto che la storiografia dell’arte sia in declino e che sempre più emerga il paradigma dell’archivio mi pare sintomatico in proposito. L’archivio risponde a questo venir meno delle narrative storiche e ufficiali ricorrendo a un dispositivo che può essere de-archiviato o re-archiviato continuamente. Dove ognuno può seguire il proprio percorso rispetto a tutti gli altri a disposizione. Se l’archivio è il campo del virtuale, la storia è quello dell’attuale.
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Capofila delle istituzioni artistiche italiane, la Biennale di Venezia è dotata di un formidabile Archivio Storico delle Arti Contemporanee (ASAC), che in questi giorni ha annunciato di voler ampliare le proprie attività con il lancio del Centro Internazionale della Ricerca sulle Arti Contemporanee, al fine di approfondire le ricerche degli artisti che hanno partecipato alla Biennale di Venezia nella sua storia. L’ASAC dispone già di un fondo che raccoRiccardo Benassi, Progetto di piramide in vetro antiproiettile per l’isola glie i documenti e le colledi San Paolo, di proprietà della Famiglia Beretta, 2009. Cartolina e zioni legati alle attività pellicole adesive, cm 9,6x6,6, copia unica. Courtesy l’artista dell’istituzione dal 1895 a oggi ed è attualmente impegnato nella ristrutturazione di una nuova sede all’interno dell’Arsenale. L’attivismo della Biennale non si ferma qui: prende infatti il titolo La Mappa Geopolitica degli artisti che hanno partecipato alle Biennali negli ultimi 20 anni, dal 1999 al 2020 la ricerca che coinvolgerà gli atenei IULM di Milano, Sapienza di Roma, IUAV, Ca’ Foscari, Accademia di Belle Arti e Conservatorio Benedetto Marcello di Venezia, con gli studenti chiamati a seguire un programma di incontri e workshop della durata di tre mesi. Spostandoci a ovest, a Milano segnaliamo due eventi. Da un lato è protagonista ancora NABA – Nuova Accademia di Belle Arti, che fino al 5 novembre ha presentato, al Civico Archivio Fotografico, la mostra Archivio, a cura di Luca Andreoni e Francesco Zanot e realizzata dagli studenti del Master Accademico in Photography and Visual Design. 14 progetti che “rappresentano una rilettura dei materiali d’archivio che interroga la fotografia come strumento capace allo stesso tempo di documentare e reinventare la realtà, attivando nuovi significati e inedite letture”. Il secondo evento reca il titolo Nelle sommosse e nelle guerre. Gli archivi milanesi durante l’età napoleonica e si svolge fino al 31 gennaio all’Archivio di Stato. Obiettivo della rassegna è mostrare “le conseguenze e le ricadute prodotte dall’arrivo del nuovo potere napoleonico sugli archivi milanesi”. Fra il 1796 e il 1821, infatti, “molti archivi italiani subirono razzie, trasferimenti improvvisi, accorpamenti e smembramenti, frutto delle alterne vicende belliche che segnarono l’età napoleonica e i primi anni della Restaurazione”. Direzione sud per approdare a Bologna, dove al MAMbo è allestito fino al 9 gennaio Hidden Displays 1975-2020, un progetto di MoRE, museo e archivio digitale che dal 2012 raccoglie, conserva ed espone virtualmente i progetti non realizzati di artisti del XX e XXI secolo. Il focus proposto è volto a “rintracciare e studiare le mostre e le opere d’arte immaginate o progettate, ma non realizzate in ambito bolognese dal 1975 [...] a oggi”. Una ricerca d’archivio che ha fatto riemergere da cassetti più o meno metaforici le tracce di circa cinquanta progetti non realizzati, si tratti di mostre od opere d’arte. Infine, una mostra attesissima, che vede la collaborazione fra due eccellenze come il CRRI – Centro di Ricerca Castello di Rivoli e il CID/Arti visive – Centro di Informazione e Documentazione Centro Pecci di Prato. Appuntamento nell’istituzione toscana (recentemente e inaspettatamente orfana della sua direttrice Cristiana Perrella, ideatrice del progetto con Andrea Viliani ) dal 21 gennaio al 22 maggio per Musei di carta. Storie di musei e archivi, opere e documenti, rassegna che racconterà “l’affermazione delle ricerche Fluxus, concettuali, performative e verbo-visuali, le cui manifestazioni storiche contribuirono alla definizione di pratiche artistiche e curatoriali basate sull’archivio (archive-based), in cui si confrontano e si confondono appunti gli statuti del museo e dell’archivio, dell’opera e del documento”.
“archè” che, come dice Derrida, sta per comando (arconte) e origine. Ma come ci hanno insegnato due padri della filologia e archeologia moderne, si tratta di pensare qualcosa in cui l’origine non è l’unità incontaminata e coerente di un fenomeno, ma sempre la dispersione e l’ibridazione di più eventi. Che cosa si apprende, di fatto, se ci sbarazziamo dell’idea metafisica dell’inizio per seguire, al contrario, le vicende effettive? – si chiedeva Foucault, seguendo Nietzsche. “Che dietro le cose c’è tutt’altra cosa”, risponde, “non il loro segreto essenziale e senza data, ma il segreto che sono senza essenza o che la loro essenza fu costruita pezzo per pezzo a partire da figure che le erano estranee”.
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MOSTRE E CENTRI DI RICERCA: NOVITÀ ARCHIVE-BASED IN ITALIA
[M.E.G.] Qual è la particolarità di Disobedience Archive? In che modo ha anticipato l’interesse per gli archivi e con quali impostazioni teoriche e finalità? [M.S.] Il progetto curatoriale risale al 2004 quando, a Berlino, concepisco un’esposizione itinerante di video, materiali grafici ed ephemera. La mostra-archivio era tesa a indagare
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ARCHIVISSIMA E ARCHIVI APERTI: DUE APPUNTAMENTI ANNUALI DA NON MANCARE sua attualità, soprattutto in ottica geneTenere i riflettori accesi sulla memoria, razionale – fil rouge dell’edizione 2021, specie in un’epoca complessa come quella ospitata dal Polo del ‘900, a Torino. in cui siamo immersi, è impresa tutt’altro Archivissima 2021 ha potuto contare che semplice. Soprattutto se l’obiettivo è inoltre, per la prima volta, sulla parteciguardare al passato non come un patripazione degli Historical Archives of the monio da esporre in una teca, ma come European Union, assumendo un afflato una risorsa da impiegare per nutrire dalle internazionale e trasmettendo un benaufondamenta le azioni che popolano il pregurante messaggio di apertura. Prossimo sente e che sono alla base del futuro. appuntamento: dal 9 al 13 giugno 2022. Trae spunto da queste premesse ArchiVolge da sempre lo sguardo al domani vissima, “il primo festival italiano dedianche l’iniziativa Archivi Aperti, procato alla promozione e valorizzazione degli mossa da Rete Fotografia, che quest’anno archivi storici”, come si legge sul sito web ha tagliato il settimo traguardo. Sostenidella rassegna nata nel 2018 nel solco del bilità, ambiente e tutela del territorio format della Notte degli Archivi. Ideato e L’archivio del MuFoCo © Museo di Fotografia sono stati i temi dell’edizione tenutasi sostenuto da Promemoria, realtà torinese Contemporanea dal 15 al 24 ottobre, con una formula che dal 2011 si occupa di digitalizzazione e ibrida che ha visto la partecipazione di varie realtà nazionali. salvaguardia del patrimonio storico di aziende, istituzioni cultuCentrale, come sempre, il ruolo della fotografia, declinato, starali, brand e raccolte private, il festival trova ogni anno una platea volta, nella prospettiva del cambiamento e della responsabilità sempre più numerosa di interlocutori. nei confronti del futuro. Una quarantina di istituzioni da nord a La scorsa edizione, ispirata al tema delle #generazioni e andata sud dello Stivale ha fatto sentire la propria voce, arricchendo il in scena dal 4 al 9 giugno 2021 in forma ibrida, ha coinvolto ben programma della manifestazione che ha preso forma in Lombar300 archivi (aziendali, di enti pubblici e culturali), provenienti dia nel 2016 per poi raggiungere l’intero territorio nazionale. da quasi tutte le regioni italiane. In particolare, hanno aderito Musei, associazioni, fondazioni e studi di professionisti hanno all’iniziativa 27 archivi di Stato e una serie di organismi afferenti schiuso le porte delle proprie raccolte, rinsaldando il legame tra alle discipline più disparate – dalla moda al teatro, dal cinema il mondo dell’immagine e quello della memoria. alle arti visive, dalla medicina al food alla politica. Podcast, mostre, talk e incontri sono stati il perno dell’ultimo ARIANNA TESTINO appuntamento con Archivissima che, nella cornice della Settimana internazionale degli Archivi, ha consentito al pubblico, archivissima.it | retefotografia.it vicino e lontano, di misurarsi con il “contenitore” archivio e la le relazioni esistenti tra pratiche artistiche contemporanee, cinema, media tattici e attivismo politico. Ideato come un archivio di immagini video eterogeneo e in evoluzione, il progetto si è posto come una user’s guide attraverso le storie e le geografie di quattro decenni di disobbedienza sociale: dalla rivolta italiana del 1977 alle proteste globali, prima e dopo Seattle, fino ad arrivare alle insurrezioni, allora in corso, nel Medio Oriente e in Turchia. Dagli storici videotape di Alberto Grifi ai film di Harun Farocki, dalle azioni performative del gruppo americano Critical Art Ensemble a quelle del collettivo russo Chto Delat?, dalle inchieste di Hito Steyerl a quelle di Eyal Sivan, l’archivio Disobedience ha raccolto negli anni centinaia di materiali documentali, li ha esposti – ogni volta in maniera diversa – in decine di istituzioni museali internazionali. Nel 2014, con l’esposizione a SALT di Istanbul, Disobedience è stata sospesa perché in parte censurata e perché i tempi stavano cambiando in senso autoritario. Il prossimo anno, per una strana ironia della sorte, sarà parte della Istanbul Biennale. [M.E.G.] Da queste riflessioni emerge un concetto di archivio non statico; al contrario, si dispiega come un lavoro infinito di rilettura. È un discorso che ovviamente si applica anche a Disobedience.
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Il progetto è quello di un archivio multifocale permanentemente "in corso" sulle forme della disobbedienza sociale. [M.S.] La domanda è: perché Disobedience era ed è ancora un archivio? Questo modello diviene importante proprio perché non si tratta tanto di un insieme di segni da conservare e interpretare, ma di un insieme di pratiche da raccordare, da montare tra loro in modi sempre diversi. Come registrare l’irriducibile emergenza e la singolarità dell’evento? Come tali eventi si manifestano, si concatenano e si scontrano? Il progetto è quello di un archivio multifocale permanentemente “in corso” sulle forme della disobbedienza sociale, strutturato attorno a una sorta di database come zona di visibilità e campo di leggibilità allo stesso tempo, come archivio documentale audio-visivo che richiede di essere de-archiviato e re-archi-
viato continuamente. Si tratta di un dispositivo contingente che sarebbe più opportuno chiamare “anarchivio” o archivio disobbediente. Costretto a mutare forma continuamente, Disobedience afferma l’impossibilità di una ricomposizione sociale delle nuove soggettività nelle forme classiche della modernità, negando qualsiasi istituzione che fissi i nuovi comportamenti in ruoli e funzioni predefiniti. Proprio per questo Disobedience non rinuncia a giocare con i simboli della modernità, rovesciandoli attraverso uno slittamento del senso: come nel caso del Castello di Rivoli, quando il Parlamento disegnato da Céline Condorelli si è sovrapposto al Circo di Martino Gamper, mentre Erick Beltrán ha disegnato un wallpainting sul buon governo (che naturalmente era upside down). Se penso alla scena contemporanea, devo ammettere che Disobedience è stata una mostra davvero pionieristica. [M.E.G.] Restiamo su questo interesse sempre più diffuso per l’archivio, testimoniato ad esempio dal proliferare degli stessi sia alla prossima Documenta che alla Biennale di Istanbul, di cui farai parte. [M.S.] Asia Art Archive, The Black Archives, Archives de luttes des femmes en Algérie sono solo alcuni degli archivi invitati da
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Ruangrupa per la prossima edizione di Documenta e molti saranno quelli presenti alla prossima Istanbul Biennale. Sicuramente questo interesse denota uno spostamento dalla figura dell’artista a quello delle progettualità artistiche. Il tentativo attuale di tante piattaforme collettive è quello di riscrivere il nostro passato, fuori da un’idea di universalismo di matrice occidentale e dal modello museale di matrice coloniale. Diversamente dalla prima fase della globalizzazione, il mondo (nelle sue ex periferie) si comincia a chiedere se i modelli che ha ereditato siano stati davvero neutrali, se le divisioni operate dalla storia non abbiano occultato piuttosto le forme del potere occidentale nei suoi modi di edificare il mondo. Lo strumento dell’archivio diventa ora urgente per mettere in dubbio radicalmente i nostri modi di comprensione e i nostri meccanismi di identificazione. Uno dei compiti principali, nel tentativo di disarmare il potere universalista, viene individuato nella riscrittura di narrazioni temporali complesse, intrecciate tra loro e situate localmente, ma mai acquisite dall’univocità della modernità, tali cioè da restituirci una riserva di potenziale non esaurito nella storia, mai definitivamente in essa compiuto, ma sempre pronto a farsi (divenire) attuale. Non a caso Giorgio Agamben si chiede “Che cos’è il contemporaneo?”.
Il mondo (nelle sue ex periferie) si comincia a chiedere se i modelli che ha ereditato siano stati davvero neutrali. [M.E.G.] Come cambia l’archivio a fronte dei big data? Da un lato c’è senz’altro una semplificazione pratica nel catalogare e gestire la mole di informazioni raccolte, siano esse digitali o analogiche digitalizzate; dall’altra tuttavia non si può considerare soltanto una miglioria gestionale, perché subentrano fattori mediali che influenzano l’idea stessa di archivio. [M.S.] Jean-Francois Lyotard imputava la crisi della storia tradizionale e dei meta-racconti modernisti alla società digitale, con il suo sostituire i database alle narrative come forma simbolica dominante. Anche Hal Foster vedeva la realizzazione dell’idea di museo senza mura – proposta da André Malraux – nel museo elettronico, virtuale, online. La pandemia recente ha poi accelerato il confronto (o la sovrapposizione) tra l’istituzione dell’arte e il paradigma visuale-digita-
le del sito web. Un artista come Allan Sekula all’inizio del millennio paragonava la nostra Era Internet a uno stato oceanico per immersioni liquide tra flussi informatici e liquidità dei mercati. Si possono lasciare tracce su o nell’acqua? Non faccio qui riferimento soltanto all’immaterialità e al carattere effimero della nostra informazione ma al suo eccesso: alla sua sovrabbondanza e indeterminatezza. Chi la potrà mai raccogliere tutta? Oppure: avrà mai un senso conservarla? È proprio il carattere documentale come tale a essere minato (una volta reso atomizzato, rapido, fluido, permanente) in questa supposta sovradocumentazione del mondo. Che tipo di documenti lasceremo? Siamo ancora in grado di pronunciarci sul carattere probatorio o meno di un’immagine? Se gli archivi del futuro non conserveranno prove, che cosa conterranno? Credo che ormai dovremmo essere esperti di quali sorprese ci riserva il rapporto tra ipermodernità e neoarcaismo. La tanto decantata scientificità o intelligenza artificiale negli ultimi due anni avrebbe dovuto mostrare il proprio volto violento anche ai più attardati, ma non è così. Il paradigma scientifico lo continuiamo a chiamare nuovo quando ha più di tre secoli: che aspettiamo a sostituirlo con un paradigma estetico? A quando rimandare una politica della memoria? Una politica delle immagini? Una politica del documento?
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Disobedience Archive (The Republic). Installation view at Castello di Rivoli, 2013. Photo Andrea Guermani
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L’OPERA D’ARTE NELL’EPOCA DEGLI NFT ADRIANO MANCA [ filosofo e content writer ]
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marzo 2021. In pieno boom degli NFT, Beeple, al secolo Mike Winkelmann, vende Everydays: The First 5000 Days per 69 milioni di dollari durante un’asta online organizzata da Christie’s. La vendita lo fa balzare al sesto posto della classifica delle opere d’arte più costose di tutti i tempi e al terzo se si escludono le transazioni private. La notizia fa rapidamente il giro del mondo, portando all’attenzione del grande pubblico gli NFT, acronimo di Non-Fungible Token. Segue un tripudio di articoli sul tema e interviste a collezionisti di arte digitale, che vanno di pari passo con lo scetticismo generalizzato sul valore di un file jpeg o di una gif, esacerbato dalla vendita record per 2,9 milioni di dollari del primo tweet di Jack Dorsey, CEO di Twitter.
COSA SONO, VERAMENTE, GLI NFT?
L’acronimo di NFT, dicevamo, sta per Non-Fungible Token. Ovvero? Partiamo da token: tradotto letteralmente dall’inglese significa ‘gettone’, come quello usato nelle sale giochi di un tempo o per far partire l’autoscontro. Il principio è molto simile. Sia la sala giochi che l’autoscontro sono una micro-economia che, per la sola durata della partita o della corsa, in cambio di un pagamento in moneta corrente fornisce un gettone con cui si può usufruire di un determinato servizio. Ora trasliamo questo esempio al fantomatico mondo delle blockchain e delle criptovalute, poiché comprendere gli NFT senza capire un minimo questo mondo equivale ad accontentarsi di una visione molto limitata del fenomeno. Ogni blockchain offre dei servizi, che siano transazioni o mettere a disposizione
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Dopo il clamore per la vendita milionaria di Beeple e dopo aver attraversato una fase di contrazione durante l’estate, le principali piattaforme di vendita di NFT continuano a registrare incassi record. Sono frutto di speculazione o addirittura di riciclaggio di denaro? Intanto, però, artisti che fino a qualche mese fa guadagnavano ben poco dalla vendita delle proprie opere digitali, ora riescono a vivere della propria arte. In questo calderone si è gettato da poco anche un colosso come VISA, che ha comprato il suo primo NFT per qualche milione di dollari. È dunque il caso di fare un po’ di chiarezza, partendo dalle origini, per finire con una riflessione sull’arte digitale, il nostro rapporto con gli oggetti immateriali e la speculazione finanziaria nel mondo dell’arte contemporanea.
a destra: Beeple, Everydays. The First 5000 Days, 2021. Courtesy Christie's
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una piattaforma per la creazione di dapps (app decentralizzate). Per usufruire di questo servizio occorre pagare con il token nativo della blockchain scelta. Al momento, la più popolare è quella di Ethereum e il token si chiama ETH. Passiamo al concetto di non-fungible. Riprendiamo l’esempio del gettone per la sala giochi: poniamo di averlo in tasca e di chiedere al nostro vicino di scambiarlo con il suo. La richiesta è insensata, perché i due gettoni hanno lo stesso identico valore, sono cioè fungibili. Ora invece poniamo di avere un biglietto del treno, un sola-andata per Roma. Lo scambiereste con uno per Milano? Non avrebbe senso, visto che la nostra destinazione è Roma, e soprattutto perché ogni biglietto è unico, identificato da una sigla ben precisa. Il biglietto del treno è un non-fungible token.
GLI NFT NELLA PRATICA
Creare un NFT sulla blockchain di Ethereum significa registrare su di essa un certificato di proprietà di un oggetto unico.
Creare un NFT sulla blockchain di Ethereum significa registrare su di essa un certificato di proprietà di un oggetto unico. Questo oggetto può avere un solo proprietario alla volta (per ora, ma anche questo sta cambiando) e, come ogni altra “cosa” sulla blockchain, il certificato è immodificabile. Ciò significa che non si può copiare l’NFT per rivenderlo in modo fraudolento, perlomeno non è semplice farlo. Una precisazione è d’obbligo, perché quando si parla di NFT circola un malinteso. Quando qualcuno compra un NFT, non sta comprando il file digitale, gif o jpeg che sia; non sta comprando un’opera d’arte digitale. Comprando un NFT si compra un certificato di proprietà che rimanda (linka) a un file digitale, una cui copia è venduta insieme al certificato. A meno che non sia specificato,
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comprare un NFT non implica l’acquisto dei diritti commerciali sull’opera digitale. Il certificato, che altro non è che l’NFT stesso, viene registrato (in inglese minted) e venduto con una serie di informazioni, i metadati, riguardanti l’opera digitale a cui rimanda, come l’autore e il tipo di file. Per ricapitolare: comprando un NFT si entra in possesso di un certificato di proprietà registrato sulla blockchain, legato a una copia (spesso un NFT viene venduto in edizioni, da 25 fino a 100 o più) di un’opera digitale. L’artista spesso invia al compratore una versione in alta qualità del file, o altri extra (e in alcuni casi una copia fisica dell’opera). Citando dal sito di Ethereum: “An NFT is minted from digital objects as a representation of digital or non-digital assets”. Da notare l’uso del termine “rappresentazione”, che conferma, dietro un linguaggio insolitamente concettuale per il mondo ipertecnologico della blockchain, quanto detto finora.
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COSA DETERMINA IL VALORE DI UN NFT?
Con questa domanda si varca il confine di ciò che è più “facilmente” spiegabile riguardo agli NFT. Perché? Perché già valutare un’opera d’arte materiale è molto complesso e i fattori che ne determinano il prezzo sono molteplici e non sempre trasparenti. Quando poi cerchiamo di capire cosa determini il prezzo di un’opera digitale associata a un NFT, il compito si fa ancora più complesso.
Come può un file digitale, che può essere salvato da chiunque, essere venduto per cifre milionarie?
Partiamo dalla domanda da un milione di dollari: come può un file digitale, che può essere salvato sul proprio computer da chiunque, essere venduto per cifre milionarie? Inutile girarci attorno: chiunque può salvare sul proprio computer o smartphone Everydays: The First 5000 Days. Certo, parliamo di un file di qualità inferiore rispetto a quello inviato da Beeple a MetaKovan, il collezionista che ha pagato 42,329 ETH per aggiudicarsi l’opera. Ma concentrarsi sulla disponibilità dell’opera, seppur in bassa qualità, non centra il bersaglio. Chi acquista un NFT non è preoccupato dalla “copia-incollabilità” dell’opera digitale che sta ricevendo. Un collezionista di NFT solitamente è piuttosto
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LA NUOVA FRONTIERA DELLA SPECULAZIONE Tutti li vogliono, tutti li comprano. Tutti li rivendono forsennatamente. Pochi hanno realmente capito di che si tratta. Gli NFT sono esplosi nel 2021 sui mercati mondiali facendo movimentare quantità esorbitanti di denaro. Eppure, non è ancora ben chiaro se questo possa essere realmente considerato il mercato del futuro. Chi compra un NFT che corrisponde a un’opera artistica digitale possiede soltanto il certificato dell’opera. Si potrebbe cominciare da questo punto per analizzare con attenzione tutti i problemi di questa straordinaria tecnologia che ha rivoluzionato il mondo dei collectibles. Già, perché gli NFT in realtà hanno molto poco a che fare con l’arte. Il fenomeno si è diffuso nel 2020 con il collezionismo di figurine sportive. L’NBA ha prodotto immagini virtuali dei suoi giocatori, alcune delle quali sono state acquistate per diverse migliaia di dollari. Per quale motivo? Perché una figurina digitale non si deteriora, non può essere rubata o falsificata. La tecnologia NFT ha insomma reso unico qualcosa che fino a prima non poteva per sua intima natura esserlo: un file (un oggetto creato dagli informatici per essere replicato n volte con facilità). Scrivendo sulla blockchain che quel file è di proprietà di qualcuno, lo si rende raro, appetibile e commerciabile. Ciò non significa che il file in questione diventi privato. Al contrario, può tranquillamente restare online, accessibile a tutti. Può valere per un video registrato su YouTube o per una qualsiasi immagine in formato jpeg. Basterebbe solo questo per porsi la domanda se sia effettivamente uno strumento adatto per l’arte e il suo mercato. Comprare un NFT equivale a comprare un’autentica, non l’opera. La notizia sta soprattutto nelle cifre stratosferiche che vengono spese per accaparrarseli, spesso non c’è granché più da dire. Jack Dorsey, patron di Twitter, ha ceduto il suo primo tweet risalente al 2006. L’asta per il relativo NFT ha fatto salire il prezzo a 2,9 milioni di dollari. Il prezzo medio di un NFT a febbraio 2021 era di circa 4mila dollari, è sceso a 1.250 dollari ad aprile (secondo quanto riferito dalla CNN) per poi risalire ancora. Il ban da parte della Cina alle criptovalute ha provocato lo scorso luglio una battuta d’arresto violenta, il rimbalzo si è poi registrato a ottobre, quando il Bitcoin ha toccato i 50mila dollari.
RICICLAGGIO E INQUINAMENTO
Uno degli altri grandi temi legati agli NFT è la provenienza del denaro. Le
criptovalute con cui si acquistano i token digitali non sono regolamentate. Acquistando un’opera è possibile ripulire un possibile guadagno illegale senza lasciare tracce, solo token. E ancora, se la decentralizzazione appare vincente perché slegata dalle regole fiscali e legislative vigenti, allo stesso modo non tutela e non garantisce nessuno. In caso di attacco hacker, è quasi impossibile rivalersi in sede legale. È notizia di pochi mesi fa quella di un artista italiano (che preferisce rimanere anonimo) che ha perso quasi mezzo milione di dollari in cripto a causa di un furto informatico. Il punto principale è che la blockchain Ethereum, che regge il grosso degli NFT mintati a livello globale, non è regolata e tutelata da nessun ente. Non esiste alcuna authority delle blockchain che ne vigili al di sopra. Non manca infine, tra le varie criticità, il tema ambientale. Per la “fabbricazione” degli NFT occorre una gigantesca potenza di calcolo basata su numerose strutture (server farm) sparse nel mondo intero. È il principio su cui si basa anche la creazione di criptovalute, chiamato mining. Un meccanismo estremamente energivoro che comporta, di conseguenza, enormi emissioni di gas a effetto serra. Insomma, se da un lato la tecnologia NFT ha permesso alle opere digitali di essere finalmente riconosciute e nobilitate (l’arte digitale esiste dagli Anni Sessanta, non è una prerogativa del 2021), porta con sé una lunga serie di problemi che dovranno essere affrontati al più presto. Resta difficile credere che si tratti di una bolla, sono stati spesi troppi denari da persone troppo influenti perché tutto collassi. Basti pensare che Christie’s da inizio anno ha totalizzato più di 100 milioni di dollari in vendite di NFT. Certo è altresì che acquistare a cuor leggero beni digitali in criptovaluta sia un’esperienza al momento molto speculativa. Ovviamente pericolosa.
Se volessimo identificare una data formale d’inizio del fenomeno NFT globale potremmo indicare il 12 marzo 2021. In quella giornata un’opera dell’artista statunitense Beeple (all’anagrafe Mike Winkelmann, un graphic designer di Charleston, in South Carolina), intitolata Everydays: The First 5000 Days, è stata venduta da Christie’s per 69.346.250 dollari (60,2 al netto del premio). Si trattava di un collage di 5mila immagini (da cui il nome) che l’artista ha realizzato tra il 1° maggio 2007 e il 7 gennaio 2021. Da quel momento gli
Ciò che conta è possedere un "pezzetto" di blockchain, entrare nella storia di Ethereum.
UN PACCHETTO DI FIGURINE VIRTUALI?
Studio Legale, hanno lanciato il progetto Surfing NFT, offrendo a “cinque artisti e alle rispettive gallerie – selezionati da un comitato curatoriale internazionale attraverso una call – la possibilità di produrre un’opera digitale registrata con NFT su blockchain”. GIACOMO NICOLELLA MASCHIETTI
Sophia the AI robot x Andrea Bonaceto, Sophia Instantiation, 2021
In questo momento non sono le singole opere digitali a registrare incassi milionari, ma le collezioni generate automaticamente. Un esempio è quello dei CryptoPunks creati da Larva Labs: sono 10mila personaggi pixelati generati da un algoritmo mixando una serie di proprietà come colore di pelle, capelli, occhi e molte altre. Ogni punk è diverso ma – qui sta l’elemento di scommessa – al momento di comprarne uno i collezionisti non sanno se il loro punk sarà raro o comune. Un po’ come acquistare un pacchetto di figurine sperando di scovarvi dentro quella introvabile. Al momento della vendita ufficiale, per ogni punk viene stabilito un prezzo base, dopodiché si sviluppa un fiorente mercato secondario per gli NFT che per grazia divina (o algoritmica) sono risultati essere i più rari del lotto. Ribadiamolo: molti collezionisti di NFT non hanno alcun interesse artistico; anzi, molto spesso sono investitori in criptovalute che cercano solamente un altro modo di arricchirsi. Oggi il mercato degli NFT ruota attorno a queste figurine digitali dal valore potenzialmente milionario, grazie a una rarità digitale generata automaticamente da qualche riga di codice.
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scambi sui maggiori portali (Nifty Gateway, SuperRare, OpenSea) sono letteralmente impazziti. Si possono tutti consultare sul sito nonfungible.com, che raccoglie lo storico delle transazioni NFT categoria per categoria. I volumi globali a fine 2021 sono miliardari. Tuttavia, un’indagine più seria fa risalire a due o tre anni fa l’inizio del fenomeno, per lo più generato dallo scambio di collectibles digitali che hanno fatto la storia del web e figurine sportive. Se parliamo di Crypto Art e NFT possiamo affermare, da italiani, di non aver perso il treno. Cambi è stata la prima casa d’aste in Italia a entrare nel panorama degli NFT in partnership con SuperRare, uno dei più autorevoli marketplace online, peer-to-peer, creato nel 2017 e specializzato in edizioni singole e premium di token non fungibili (NFT) basati sulla blockchain Ethereum. Sono state messe in vendita per un tempo pari a sei mesi 18 opere di artisti tutti italiani. I risultati sono stati incoraggianti, anche se lontani anni luce dalle cifre delle major Christie’s e Sotheby’s. Quello che è parso estremamente intelligente è stato affidare la curatela della vendita a Serena Tabacchi e Bruno Pitzalis, due tra i professionisti più preparati del settore nel nostro Paese. L’asta Dystopian
Visions ha di fatto riunito alcuni dei maggiori esponenti del movimento della Crypto Art italiana, proponendo una tematica legata a una visione futura del mondo. Serena Tabacchi è inoltre impegnata nella direzione del museo MoCda, uno spazio virtuale che dal 2018 propone il meglio dell’arte digitale internazionale con filtro curatoriale di alto livello. Da menzionare anche il progetto Moon Landing di Andrea Bonaceto, appena andato sold out su Nifty Gateway. L’artista ha rivisitato la celebre pagina del Corriere della Sera del 1969 con lo sbarco sulla Luna attraverso l’arte programmabile e l’intersezione tra arte visiva, musica e poesia. Un altro italiano che lo scorso marzo ha fatto sold out con un drop sullo stesso portale, DotPigeon, ha recentemente partecipato con alcune opere (sia fisiche che NFT) nello stand della galleria Nagel Draxler ad Art Basel. Si tratta della prima galleria che ha proposto Crypto Art alla prestigiosa fiera di Basilea. Dietro l’allestimento e la curatela c’era Kenny Schachter, artista e editorialista per Artnet News, fondatore del movimento NFTism. Per tornare all’Italia, è di questi giorni la notizia che Artissima e Fondazione CRT, insieme ad Artshell e LCA
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IL MERCATO NEL MONDO E IN ITALIA
inserito nella comunità della Crypto Art e nel mondo delle criptovalute. Ad esempio, MetaKovan, all’anagrafe Vignesh Sundaresan, è il fondatore di Metapurse, una start-up legata al mondo degli NFT. Ciò che conta in questa comunità è il fatto di possedere un “pezzetto” di blockchain, di entrare nella storia di Ethereum e, per quanto riguarda l’opera, di essere l’unico proprietario del token che rappresenta l’opera digitale in questione – ed è questo che conta, dato che (quasi) tutto ciò che è sulla blockchain è immutabile. Parallelamente al possesso di un NFT si è poi sviluppato un mondo virtuale per l’esposizione della propria collezione, il metaverso, di cui l’esempio più famoso è Decentraland, un luogo digitale dove si possono acquistare lotti di terreno (virtuali) e costruire gallerie da far visitare agli ammiratori dell’arte digitale.
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ARTE E DIGITALE: UNA STORIA DI AMNESIA CULTURALE Nonostante i computer siano entrati nel mondo dell’arte oltre sessant’anni fa, ancora oggi quando si parla di “arte digitale” il discorso finisce sempre per situarsi nel contesto della novità. L’evento è ciclico: non appena una tecnologia cattura l’attenzione dei media, il dibattito parte da zero, rigenerandosi identico a se stesso. Si ragiona di materialità e immaterialità, di unicità e riproducibilità, di manualità e automazione, di vendibilità e non vendibilità come se fossimo nel secolo scorso. Dimenticando decenni di ricerca artistica e teoria dell’arte, oltre che ignorando tutte le forme di mercato che già si applicano da decenni su opere immateriali, mixed media e computer based. L’abbiamo visto succedere con le installazioni interattive negli Anni Ottanta, con la Net Art negli Anni Novanta, in tempi più recenti con l’arte che utilizza algoritmi di intelligenza artificiale, e quest’anno con la blockchain. Quando si tratta di mettere insieme arte e tecnologia, il mondo dell’arte dimostra di soffrire di una strana forma di amnesia culturale che impedisce al dibattito di evolversi e lo condanna all’eterna ripetizione. Dopo decenni di fotografia, arte concettuale, performance e videoarte – solo per citare alcune delle forme d’arte che con la loro stessa esistenza hanno messo in crisi il mercato – ci ritroviamo ancora a discutere sulla supposta “copiabilità” di un file digitale. Come se la proprietà di un’opera non fosse da sempre, in ogni caso, legata a un documento legale, di cui l’NFT rappresenta un’evoluzione, con pregi e difetti. Nel caso dei Non-Fungible Token, uno strumento che fino a pochi anni fa era conosciuto e utilizzato solo da un ristretto gruppo di crypto-entusiasti, intenti a scambiarsi online l’equivalente digitale di figurine rare, l’entrata trionfale nel mondo dell’arte è stata siglata da un numero. Questo numero, ripetuto come un mantra in ogni articolo sulla cosiddetta “crypto-arte” – definizione improvvisata che non identifica uno stile né un movimento – è 69 milioni. Ossia la cifra shock che un collezionista ha pagato a Christie’s per un NFT di Beeple, artista sconosciuto al sistema ma seguito da milioni di persone sui social. La notizia fa il giro del mondo, uscendo su tutti gli organi di stampa, dai quotidiani più blasonati ai blog con pochi lettori. Da quel momento, l’espressione “arte digitale” torna di moda e viene inserita in frasi stereotipate sul supposto futuro dell’arte nei “mondi virtuali” (sic), in mezzo a considerazioni di seconda mano sul tema della riproducibilità, dell’aura e dell’autorialità (con buona pace di Walter Benjamin e Michel Foucault), e a discutibili affermazioni sulla garanzia assoluta che la blockchain offrirebbe ai collezionisti. Per la prima volta nella storia dell’arte, il dibattito è trainato solo ed esclusivamente da considerazioni economiche e legali, con articoli che non fanno altro che mettere in fila numeri, record di vendita e tecnicismi sul funzionamento degli smart contract, accanto alle segnalazioni di un numero sempre crescente di truffe. In mezzo a tutta questa confusione, però, tra memoria corta, malafede e speculazione, c’è un aspetto che emerge prepotente. Se smettiamo per un attimo di guardare solo in superficie, sforzandoci di superare la spessissima coltre dell’hype, vediamo brulicare tante comunità di artisti che sono alla ricerca di modalità di riconoscimento e sostentamento al di fuori del sistema tradizionale. Una nuova generazione di autrici e autori che non si fida del mercato così come l’ha conosciuto (a ragione, viene da dire), e che non si ritrova nei valori che le “vecchie” istituzioni esprimono. Questo legittimo desiderio di autonomia e di disintermediazione; questa prepotente necessità di un’alternativa, mi pare l’unica domanda importante che il mondo crypto pone oggi alla comunità dell’arte. Ed è una domanda che non possiamo e non dobbiamo ignorare. VALENTINA TANNI
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1965 11110110010
1970 11111000001
1985 11111000101
1989 11111001100
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Michael A. Noll, pioniere della computer art e della computer grafica, ottiene dalla Library of Congress il copyright per Gaussian Quadratic. È la prima volta che avviene per un’immagine realizzata con il computer. Al Jewish Museum di New York apre Software – Information Technology: Its New Meaning for Art, una mostra a cura di Jack Burnham che tematizza la processualità del software e l’importanza dei sistemi informatici per la società del futuro, nonché per l’arte contemporanea. Al Centre Georges Pompidou di Parigi apre Les Immatériaux, mostra curata da Jean-François Lyotard e Thierry Chaput sul tema del rapporto tra materiale e immateriale, anche in relazione all’emergere dei nuovi sistemi di telecomunicazione. A Karlsruhe, in Germania, viene fondato lo ZKM | Center for Art and Media, uno dei primi musei al mondo interamente dedicati all’arte multimediale e interattiva, oltre che ai rapporti tra arte e scienza. La galleria Postmasters di New York, in occasione della mostra Can you digit?, vende opere di artisti digitali su floppy disk. Steve Sacks fonda a New York la Bitforms Gallery, una galleria privata che vende solo opere digitali, software based, net art e new media art. Il museo Guggenheim di New York acquisisce net.flag di Mark Napier e Unfolding Object di John Simon. Sono le prime opere di Net Art comprate da un museo. L’artista Rafaël Rozendaal mette a punto un contratto standard per la vendita di siti web d’artista. Il contratto è tuttora in uso in numerose gallerie. L’artista Carlo Zanni lancia il progetto P€OPLE ¥rom MAR$, un servizio su invito che permette di acquistare opere video, new media art, sound art e software based art in edizioni limitate e illimitate. La casa d’aste Phillips organizza Paddles ON!, un’asta di successo in collaborazione con Tumblr interamente dedicata ad artisti che usano le tecnologie digitali. Viene fondata la Transfer Gallery a Brooklyn. La galleria vende quasi esclusivamente file digitali, tra cui software, videogiochi e gif animate, mettendo a punto specifici contratti. Harm van den Dorpel e Paloma Rodríguez Carrington fondano la left gallery, che vende online file digitali in vari formati usando sia carte di credito che valuta crypto.
I DIGITAL ARTWORK DI CINELLO: NON CHIAMATELI NFT
Se parliamo di valore di un NFT è però impossibile non menzionare il riciclaggio di denaro. Convertire i profitti fatti con una criptovaluta in valuta fiat (euro, ad esempio) è un evento tassabile, e parecchio. D’altra parte, il mercato delle criptovalute è ancora de-regolamentato e, nonostante la blockchain sia nata per garantire una tracciabilità totale delle transazioni, a oggi è più che possibile che molti riciclino denaro convertendolo in criptovalute o, meglio ancora, in un bene intangibile come un NFT.
IL TRAMONTO DELLO SCIOVINISMO MATERIALE?
Perché spendere milioni per qualcosa di intangibile? Un Picasso lo puoi mettere in cassaforte, può essere esposto in una mostra, i suoi colori sono veri, è materia. Ma basta questo a giustificare il prezzo di un Picasso rispetto a quello dell’opera di Beeple? Ovviamente no: dietro la valutazione di un’opera, soprattutto oggi, ci sono tantissimi fattori. Eppure, difficilmente una casa d’aste motiverebbe il prezzo di una tela basandosi sulla qualità dei colori (non in senso estetico) o della tela stessa intesa come superficie. Perfino la tela su cui è dipinta Guernica non vale più di tanto. Se qualcuno cancellasse a colpi
Lo sciovinismo materiale consiste nel credere che ciò che è tangibile abbia maggior valore dell’intangibile, del digitale.
di acquaragia l’opera di Picasso, rimarrebbe solo un vecchio tessuto. Forse qualcuno la comprerebbe ancora per la sua provenienza, perché è appartenuta a Picasso o perché un tempo era la tela su cui era dipinta Guernica. E tuttavia, quando scopriamo che un jpeg o una gif sono stati venduti per migliaia di dollari il primo pensiero è: “Assurdo pagare così tanto per una cosa digitale”. Il retropensiero è qualcosa che potremmo chiamare sciovinismo materiale, cioè l’idea, radicata in tutti noi, che ciò che è reale è materiale e, quindi, che ciò che è tangibile abbia maggior valore dell’intangibile, del digitale. Certo, come esseri umani diamo immenso valore a cose immateriali come le storie, i brani musicali, le idee. Ma quando si tratta di dare una valutazione economica sorge un problema: pagheremmo milioni di dollari per un libro? Forse, se fosse un’edizione firmata, antica e legata a uno dei nostri scrittori preferiti. E rieccoci davanti allo stesso problema: trecento pagine di carta qualsiasi valgono milioni di dollari? La vera differenza sta nella materialità tanto del libro che del quadro. Perfino il modo in cui ci riferiamo a essi ce lo fa capire: usiamo una metonimia, diciamo il libro o il quadro per indicare in realtà l’opera che è stampata o raffigurata su di
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Per una volta il futuro arriva dall’Italia, e non dalla Silicon Valley. Si chiama Cinello la start up italiana che ha inventato i DAW® (Digital Artwork), versioni digitali dei più grandi capolavori della storia dell’arte in edizioni esclusive e non copiabili. Mentre tutto il mondo si sta ancora stropicciando gli occhi per la diffusione degli NFT, Cinello era già all’opera da diversi anni nella digitalizzazione consapevole del patrimonio artistico italiano. Il brevetto dell’azienda depositato in tutto il mondo consente, infatti, di digitalizzare i masterpiece in concerto con il museo detentore dell’originale, tutelando l’opera come mai fatto prima. Con i DAW® (Digital Artwork) è possibile allestire mostre in tutto
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Franco Losi e Eike Schmidt con al centro il Tondo Doni di Michelangelo
il mondo a impatto zero, e creare inoltre un nuovo ecosistema di collezionismo che possa produrre profitto per i musei detentori degli originali. Ogni DAW® è creato con il consenso del museo proprietario che ospita l‘opera d’arte ed è accompagnato da un certificato di autenticità firmato da Cinello e dal museo stesso. Tutti i ricavi sono equamente condivisi con i musei partner per garantire un nuovo flusso di entrate, senza introdurre alcun vincolo alla proprietà o ai diritti attuali. Ecco allora che proprio mentre si sta sviluppando la moda e il commercio degli NFT, legati a doppio filo con l’universo speculato delle criptovalute e con quello della blockchain Ethereum che ne ospita l’esistenza (e che ne condiziona i valori con le oscillazioni della moneta deregolamentata), l’invenzione dei DAW® indica la strada per un uso consapevole del digitale. È di alcuni mesi fa la notizia della vendita che ha fatto il giro del mondo del DAW® del Tondo Doni di Michelangelo, il cui originale è custodito alle Gallerie degli Uffizi, che hanno incassato 70mila euro grazie alla vendita a un collezionista privato. Il direttore del museo, Eike Schmidt, ha dichiarato: “Abbiamo letto tante scemenze in questi mesi in merito agli NFT, che l’arte finisce perché tutto si riduce ad algoritmo e altro… Fondamentalmente l’NFT è un’estensione, un certificato che rende un file collezionabile. Faccio dunque i miei complimenti a Franco Losi di Cinello che ha intuito fin dall’inizio come sia fondamentale fare qualcosa in più, che sia ibrido tra il materico e l’immateriale. Perché il DAW® è qualcosa che esiste sia in forma algoritmica che fisica, come immagine su uno schermo ma anche fornito della cornice tradizionale. E anche il certificato è doppio: c’è sia l’NFT che indica la proprietà su blockchain, sia la firma su carta dell’amministratore delegato di Cinello insieme alla mia di direttore. Come diceva Einstein della luce, che è sia materiale che immateriale, così il DAW® vanta questa doppia natura”.
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essi. Qui entra in gioco quello che abbiamo definito “sciovinismo materiale”, il nostro radicato attaccamento ai supporti materiali, persino per le opere d’arte. Nel caso degli NFT crediamo che non ci sia alcun supporto, che l’opera d’arte sia completamente smaterializzata, persa in un etere, come tutti gli oggetti digitali con cui, nonostante tutto, interagiamo quotidianamente, ma ai quali non riconosciamo una patente di realtà come invece facciamo per tavoli, tele o libri. Ma la verità è che gli oggetti digitali sono “fantasmi” solo in superficie – essi hanno un supporto, solo che è remoto. Sono le schiere in costante aumento di server, stipati in magazzini ventilati ventiquattr’ore su ventiquattro per tenere in piedi Internet. Distrutto il server, distrutto l’NFT (ma è stata trovata una soluzione anche a questa eventualità, rendendo gli NFT dei “quasi fantasmi”). I server sono lontani ed è banale dirlo, ma non possiamo toccare un’opera digitale e questa limitazione sensoriale ci insospettisce, ci rende scettici sull’effettivo valore dell’oggetto. Certo, c’è poi un discorso commerciale da considerare. Per replicare un oggetto digitale dobbiamo semplicemente fare un clic destro mentre per replicare un libro dobbiamo stampare un’altra copia, ma ciò non basta a spiegare la differente percezione che abbiamo degli oggetti digitali rispetto a quelli materiali.
UNA QUESTIONE DI ESCLUSIVITÀ
La seconda causa “portante” della sfiducia nei confronti degli NFT è l’esclusività. Un collezionista compra un’opera materiale a un prezzo esorbitante perché sarà l’unico proprietario di quest’opera. Potrà metterla in un caveau o esporla nel proprio salotto. Potrà ammirarla nel cuore della notte, farne ciò che vuole, perché sarà l’unico a essere in possesso materiale dell’opera. Chiaro, anche un’opera digitale correlata a un NFT può essere esposta con una cornice apposita. Ma continua a venir meno il principio di esclusività del collezionismo d’arte materiale. Infatti, se anche comprassimo un NFT in edizione singola, chiunque potrebbe salvare sul proprio desktop lo stesso jpeg che noi stiamo pagando milioni. La risposta dei sostenitori degli NFT è: anche se avessi la copia, il vero e unico proprietario sarebbe il collezionista che ha comprato l’opera digitale, perché fa fede la blockchain. Ma qui sta la seconda componente di quello che abbiamo chiamato sciovinismo materiale. Se anche mettessimo da parte il nostro scetticismo riguardo agli oggetti digitali, non saremmo comunque disposti a rinunciare all’esclusività che ci garantisce l’acquisto di un’opera materiale. Essere l’unico proprietario di un’opera dà al collezionista un potere, uno status e una capacità di godimento di quest’ultima che gli NFT a oggi non possono pareggiare. Forse in futuro si venderà un’opera digitale associata
NFT: GLOSSARIO ESSENZIALE BLOCKCHAIN
Registro digitale le cui voci sono raggruppate in “blocchi”, concatenati in ordine cronologico, e la cui integrità è garantita dall’uso della crittografia.
NFT
Una risorsa digitale basata su blockchain con scarsità e unicità verificabili, e che per questo assume un valore economico o qualitativo.
WALLET
Portafoglio digitale di criptovalute per pagare con lo smartphone in qualsiasi momento, la cui integrità è garantita dall’uso della crittografia.
Piattaforma decentralizzata del Web 3.0 per la creazione e pubblicazione peer-to-peer di contratti intelligenti basata su blockchain che attualmente alimenta la maggior parte del mercato NFT.
MINT
Coniare un NFT iscrivendolo sulla blockchain di Ethereum, un registro pubblico immutabile a prova di manomissione.
Sempre più persone spendono una mole significativa del proprio tempo interagendo con oggetti digitali. a un NFT in modo tale che nessuno possa copiarla. Allora chi compra sarà l’unico proprietario di un’immagine digitale e potrà decidere ad esempio di permetterne l’esposizione in un museo, o in una galleria privata, o semplicemente ammirarla privatamente e godersi l’esclusività totale dell’opera.
WORLD OF WARCRAFT E DINTORNI
Abbiamo parlato degli apocalittici, ma che dire degli integrati? Da tempo c’è chi
gioca online, una volta a World of Warcraft e oggi a Fortnite, creando un avatar e dotandolo di accessori ottenuti faticosamente dopo ore e ore di gioco. Per chi passa la maggior parte del proprio tempo su una piattaforma online, immerso nella digitalità, un accessorio raro per il proprio avatar ha molto più valore di una sua controparte materiale, di una camicia da indossare a una festa di compleanno, per fare un esempio banale. Sempre più persone spendono una mole significativa del proprio tempo interagendo con oggetti digitali e questo porterà sicuramente a un cambio di paradigma nella nostra percezione del valore e dell’importanza degli oggetti digitali. Un certificato di autenticità digitale forse sarà più importante di uno cartaceo che attesta la medesima cosa. E in questo forse sta la contraddittorietà degli NFT: essi ci mettono di fronte a questo attaccamento ancestrale alla materialità e al suo possibile superamento.
INTERVISTA AL DUO HACKATAO
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È il concetto di play-to-earn, giocare per guadagnare. Ma già altre piattaforme permettono il commercio di asset dei giochi, come i loro modelli 3D. Tabacchi: Nella comunità blockchain la proprietà crea uno status. Per esempio, quando VISA ha acquistato un CryptoPunks lo ha messo come avatar del profilo di Twitter. Hackatao: C’è anche un riconoscimento per il creatore. Se io artista creo un asset per il gioco e viene venduto, acquisisco delle royalties. Hackatao, Queeny – Hack the Tao, 2021. Courtesy gli artisti & The Sandbox
Intanto, cos’è Sandbox? Serena Tabacchi: The Sandbox dà ad artisti e creativi la possibilità di creare esperienze di gioco, oggetti e panorami multimediali in questo metaverso realizzato in voxel, a cubetti come Minecraft, senza necessità di usare codice. Lo fa usando due sistemi: il VoxEdit, che permette di creare oggetti virtuali che diventano poi NFT, e il Game Maker, che permette di creare gli spazi che poi raccolgono questi oggetti. Gli oggetti possono essere messi sul marketplace e venduti nel mercato primario e secondario poi su OpenSea. Quindi ora posso acquistare come NFT, all’interno di The Sandbox, delle opere di Hackatao? Hackatao: Sì. Sono collezionabili ma anche giocabili. Diventano dei tool creativi: potete acquistare degli oggetti digitali creati da artisti e usarli per creare un gioco personale. Il nostro interesse per Sandbox è nato dalla nostra passione per i videogiochi: volevamo far vivere la nostra arte all’interno di un videogioco e coinvolgere la nostra comunità. Però ci sono molte piattaforme che permettono di fare cose simili. Penso che il vostro interesse specifico verso Sandbox sia dovuto all’implementazione degli NFT. Hackatao: Sin da subito è diventato chiaro che questa tecnologia avrebbe cambiato anche il mondo dei videogiochi, oltre a quello dell’arte, perché permette di creare un’economia reale.
Anche questa è una cosa che esiste già: agli artisti può essere riconosciuta una percentuale sulla vendita delle opere da loro realizzate per un videogioco. Hackatao: Non avremmo accettato una collaborazione con un gioco costruito con un sistema tradizionale di royalties. Con la blockchain c’è un sistema automatico, non devo fidarmi di chi fa i calcoli, non devo fare i controlli. La blockchain risolve il problema della fiducia e non hai bisogno di strutture centralizzate. La blockchain ha dato all’arte digitale quello che le mancava, cioè un’economia e un mercato? Hackatao: L’arte digitale prima doveva piegarsi alle regole dell’arte tradizionale. Ora il mercato è più veloce, più liquido, più in linea con i nostri parametri. Poi hai questa comunità bellissima, globale, con cui interagisci, crei insieme e costruisci.
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Hackatao, duo composto da Sergio Scalet (Transacqua, 1973) e Nadia Squarci (Udine, 1977), partecipa al mondo della Crypto Art e degli NFT dal 2018, ben prima del recente boom di questa tecnologia. È stato di recente annunciato il suo videogioco Hack the Tao, collaborazione con la piattaforma The Sandbox di Animoca Brands, un metaverso regolamentato proprio tramite NFT, cioè tramite registrazione della proprietà di ogni cosa che esiste nel suo mondo virtuale (i suoi lotti di terra, la sua valuta, i suoi oggetti) su uno di quei registri digitali condivisi detti blockchain. Per saperne di più, ne abbiamo parlato su Google Meet con Sergio Scalet e Serena Tabacchi, head of publishing per Sandbox in Italia.
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Acquisire gli oggetti non serve solo a far progredire il personaggio del gioco: il tempo che impiego per sconfiggere un nemico e conquistare l’arma leggendaria è un lavoro che mi dà qualcosa che posso rivendere.
Quindi anche se le edizioni esistevano già nell’arte digitale, ma il problema è che non ci si fidava della certificazione di autenticità di quelle edizioni? Tabacchi: Sì, perché un tempo dovevi magari fidarti di un pezzo di carta. Ora hai un certificato immutabile su blockchain. Ci vuole ancora una certa fiducia però, perché sono un mercato e un concetto di proprietà ancora scarsamente regolamentati. Hackatao: Noi che viviamo questo mondo dall’interno ci troviamo spaesati quando ci confrontiamo con un mondo reale che vuole farti rientrare in certe dinamiche burocratiche che la tecnologia ha già risolto. A un certo punto la blockchain inizierà a dar fastidio: agli Stati, a un certo tipo di economia… Perché è una tecnologia sovranazionale che ci fa vivere in un mondo senza confini. Mentre poi abbiamo bisogno di un pass per valicare una frontiera o andare in un ristorante. Chi è entrato in questo mondo abbraccia un po’ anche il motivo per cui è nato pure il Bitcoin: se ci fosse andata bene l’economia tradizionale non saremmo qua. MATTEO LUPETTI hackatao.com | sandbox.game
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Stefano Graziani Documents on Raphael Palladio Museum, Vicenza 23.10.2021 / 20.02.2022 palladiomuseum.org/exhibitions/raphael
La mostra è accompagnata dal libro Stefano Graziani. Documents on Raphael, Mousse Publishing, a cura di Francesco Zanot. Progetto realizzato grazie al sostegno di
Progetto di
Sponsor tecnico
Ph: Marta Tonelli
GOYA/BASILEA • BOURKE-WHITE/ROMA
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IN APERTURA / GOYA / BASILEA
Tutto Goya in Svizzera Stefano Castelli opo l’allagamento orchestrato da Olafur Eliasson, i capolavori di Goya. Se l’alternanza e il confronto tra arte contemporanea, moderna e di fine Ottocento è uno dei punti caratterizzanti della programmazione della Fondation Beyeler, la scelta di tornare più indietro nel tempo con una monografica su Francisco Goya (Fuendetodos, 1746 − Bordeaux, 1828) non è affatto casuale. L’artista spagnolo può essere infatti considerato un iniziatore della modernità, uno degli inventori se non l’inventore della figura dell’artista moderno: colui che, anziché muoversi (anche con la massima inventiva) nell’ambito dei canoni, lascia libero spazio al suo genio. La mostra, che viene annunciata come “una delle più importanti realizzate fin qui su Goya”, è organizzata in collaborazione con il Prado e comprende settanta dipinti e cento tra disegni e incisioni. Il curatore dell’antologica Martin Schwander, da noi intervistato, segnala tra le opere che valgono il viaggio a Basilea le otto scene di genere e storiche giunte dalla collezione del Marqués de la Romana, i quattro pannelli con scene di genere dalla Real Academia de Bellas Artes de San Fernando di Madrid, Maya y Celestina al balcón e Majas al balcón (entrambe datate 1808-12), il ritratto della Duchessa d’Alba (1795) e la Maja vestida (1800-07), oltre alle scene di genere di piccolo formato provenienti da collezioni private spagnole.
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TEMI E SOGGETTI DI GOYA
Il fatto di cogliere tutte le varie facce della produzione di Goya, spesso considerate ed esposte separatamente, è uno dei punti d’interesse della mostra. Allestire una ricognizione ad ampio raggio, con opere raramente esposte o difficili da vedere perché riunite in collezioni private, permette di considerare con dovizia di particolari alcuni spunti che attraversano la sua produzione: l’autorappresentazione da parte dell’artista, attraverso la presenza di diversi autoritratti, oppure la rappresentazione secondo codici inusitati per l’epoca della figura femminile. “Le celeberrime Maja, spesso raffigurate in dipinti decorativi di genere (compresa l’opera giovanile di Goya ‘Pradera de San Isidro’), rappresentavano una nuova classe di donne lavoratrici che intendeva conservare le libertà duramente conquistate, fatto espresso tra l’altro tramite uno stile che ben presto fu imitato dall’aristocrazia”, dice Schwander a proposito del complesso rapporto tra donne e uomini catturato da Goya. “Nei suoi dipinti, Goya – anch’egli figura dell’Illuminismo con idee moderne e progres-
fino al 23 gennaio
GOYA
a cura di Martin Schwander Catalogo Hatje Cantz Verlag / Ediciones El Viso FONDATION BEYELER Baselstrasse 77 – Riehen fondationbeyeler.ch
in alto: Francisco Goya, El Aquelarre (part.), 1797-98. Olio su tela, 43x30 cm. Museo Lázaro Galdiano, Madrid a destra: Francisco Goya, La Maja vestida, 1800-07. Olio su tela, 95x190 cm. Museo Nacional del Prado, Madrid © Photographic Archive. Museo Nacional del Prado, Madrid
siste in ogni campo della sua vita – esplorò il ruolo delle donne, il loro status e i loro obiettivi, il loro diritto all’uguaglianza e allo studio. Ciononostante, in quanto artista fortemente legato allo studio e alla rappresentazione della natura umana, Goya fu portato a mostrare anche ogni tipo di ‘vizio’ – sia degli uomini sia delle donne – con lo stesso distacco obiettivo. La malafede, la crudeltà, l’ignoranza e la vanità delle donne venivano descritte con la stessa durezza critica utilizzata nel caso dei misfatti degli uomini”. Dipinti e incisioni sono due aspetti fondamentali e complementari di Goya: come vengono messi in rapporto nella mostra questi due lati della sua produzione? “Nella selezione di lavori e nel modo di presentarli, la mostra alla Fondation Beyeler si pone l’obiettivo di valorizzare la totalità dell’opera di Goya, tutta la sua complessità e la sua ambiguità, facendole emergere dall’abbondanza e varietà della sua
IN APERTURA / GOYA / BASILEA
opera. Solo affiancando i suoi lavori realizzati nelle diverse tecniche (dipinti, disegni e incisioni), dando un’eguale attenzione alle molte sfaccettature dell’artista, diventa possibile cogliere la ricchezza unica e la varietà del suo mondo. Molte persone sono colpite e affascinate maggiormente proprio da disegni e incisioni, meno spesso esposti: questi tipi di lavori rivelano un Goya molto intimo e personale. Ed è proprio nei suoi disegni tardi che Goya restituisce impressioni tratte dalla sua vita quotidiana e dai suoi incubi, esprimendo così la sua modernità”, prosegue Schwander.
MODERNITÀ ANTE LITTERAM
Il ruolo di anticipatore di Goya è dunque al centro della lettura che la mostra dà della sua opera. Pablo Picasso, Joan Miró, Francis Bacon, i surrealisti, Marlene Dumas e Philippe Parreno (Orano, 1964) sono tra gli artisti moderni e contemporanei che il curatore indica come suoi ammiratori ed “eredi”. E l’affinità di Parreno con Goya viene approfondita con un’opera realizzata appositamente dall’artista franco-algerino, proposta alla Beyeler in concomitanza con la mostra. Esplicitando una poetica allo stesso tempo analitica e immaginifica, nel suo film, La quinta del sordo, Parreno esplora con inquadrature ravvicinate, accurate e soggettive le Pinturas negras, allucinato ciclo di dipinti murali che Goya realizzò sulle pareti della sua casa di campagna, attualmente esposti al Prado. Oltre all’iconografia di Goya, il film ne esplora in un certo senso il mito; la dimensione è quella del grottesco, tra sogno e incubo, memoria, osservazione e trasfigurazione. Verificare le assonanze tra un autore come Goya e gli alfieri della più avanzata ricerca con-
1746
Nasce a Fuentetodos
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Primo soggiorno a Madrid
1769
Trasferimento a Roma per approfondire lo studio del disegno
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Prima commissione pubblica a Saragozza
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temporanea come Parreno non è un’operazione di confronto iconografico. Cogliere le affinità di un anticipatore quale Goya con autori di molto successivi, sottolineare cosa differenziò un innovatore come lui dal suo contesto storico, non smentisce affatto che nel passaggio dall’arte antica a quella contemporanea sia avvenuto un cambio di paradigma. Indica come la transizione non fu immediata né istantanea, ma avvenne anche grazie a pionieri come Goya, che gettarono le basi, pure filosofiche, per la definitiva nascita dell’artista “liberato” e autonomo.
1780
Viene accolto nella Real Academia de San Fernando
1786
Viene nominato pittore di corte
1793
Perde l’udito
1795 ca.
Dipinge la Maja desnuda
1797 ca.
Inizia la serie dei Capricci
1810/20
Realizza i Disastri della guerra
1828
Muore a Bordeaux
IL PROGRAMMA DELLA FONDATION BEYELER Oltre alla mostra su Goya e al video a lui ispirato di Parreno, la Fondazione propone anche Close-up (fino al 2 gennaio), rassegna tutta al femminile che copre un arco temporale dal 1870 a oggi riunendo le opere di nove artiste: Berthe Morisot, Mary Cassatt, Paula Modersohn-Becker, Lotte Laserstein, Frida Kahlo, Alice Neel, Marlene Dumas, Cindy Sherman, Elizabeth Peyton. Già definito il programma per il 2022: dal 23 gennaio al 22 maggio arriverà a Basilea l’imponente mostra itinerante dedicata a Georgia O’Keeffe, mentre dal 5 giugno al 9 ottobre sarà la volta di Piet Mondrian.
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OPINIONI
La copertina di
La storia di Roma spiegata al museo
Antonio Pronostico
Fabrizio Federici storico dell'arte
I
Antonio Pronostico è nato nel 1987 a Tricarico e il giorno dopo si è trasferito a Potenza, dove è cresciuto. Ora vive a Roma. Ha studiato comunicazione visiva a Firenze, dove ha iniziato a disegnare e con due grandi amici ha fondato il Collettivomensa, rivista autoprodotta di letteratura e fumetto. Nel 2020 espone i suoi lavori presso la Galerie Glénat a Parigi. Nel 2019, insieme al regista Fulvio Risuleo, pubblica Sniff, il suo primo graphic novel, edito da Coconino Press. In seguito pubblica Passatempo (2019), Cinque – Giovanni Truppi (antologia, 2019) e Tango (2021), sempre con Coconino. Ha collaborato con L’Espresso, la Repubblica (web), La Stampa (web), Internazionale, Jacobin Italia, Artribune, Donna Moderna. “La cover che ho realizzato punta a essere il meno descrittiva possibile e ci porta dritti davanti a qualcosa di meraviglioso che non vediamo, ma che accende in noi quel forte e inaspettato sentimento che è la sorpresa”.
Musei Capitolini sono bellissimi ma la parte romana semplicemente non spiega Roma”. Con queste parole, estratte da un tweet dello scorso 18 agosto, Carlo Calenda accendeva una delle polemiche che maggiormente hanno segnato l’ultima campagna elettorale per le amministrative. Via i Capitolini, e via pure il Comune, sostituiti da un immenso museo dedicato alla storia antica della città, dal granitico nome di Museo Unico Romano. “Spiegare” la storia dell’Urbe, spazzandone via un capitolo fondamentale, che è al contempo una pagina di primaria importanza della storia del collezionismo e dei musei, trattandosi della prima istituzione pubblica di questo genere aperta al pubblico (1734). La proposta calendiana, peraltro irrealizzabile, è già stata ampiamente (e giustamente) criticata, respinta, sbeffeggiata da storici, direttori di museo, giornalisti. Lasciamo dunque stare la pars destruens e proviamo a vedere se c’è del buono, almeno al livello delle intenzioni, in quanto ha proferito il candidato sindaco.
UN MUSEO UNICO PER LA ROMANITÀ
Con il suo tweet Calenda sembra aver riaperto – non si sa quanto consapevolmente – un annoso dibattito: se vi sia bisogno a Roma di un museo che “spieghi” la storia della città, ai cittadini e ancor di più ai turisti, che spesso, nei loro frettolosi tour, posano il piede sul suolo dell’Urbe senza sapere nulla di consoli, imperatori e pontefici. Un museo siffatto sarebbe senz’altro utile: ma come realizzarlo? L’impresa, per un luogo dalla storia unica come è la Città Eterna, è di quelle da far tremare i polsi. Si potrebbe pensare a una grande struttura, la cui prima parte sia occupata da un grandioso affresco sulla storia di Roma, capace di informare e al tempo stesso affascinare il visitatore, appoggiandosi su pochi reperti altamente significativi e sulle nuove possibilità messe a disposizione dalla tecnologia. Un’introduzione che sia in
grado di trasmettere al pubblico poche e fondamentali nozioni, di fornire come una mappa essenziale con cui poi il turista possa avventurarsi alla scoperta della città. All’introduzione dovrebbero seguire gli approfondimenti, in forma di una o più mostre dedicate a momenti e temi specifici, allestite con pezzi provenienti in massima parte dalle raccolte civiche e statali dell’Urbe. Mostre che “spieghino” porzioni della storia della città, puntando su un taglio, per l’appunto, storico, sostenuto da una narrazione efficace e coinvolgente.
Un museo che spieghi la storia di Roma sarebbe utile: ma come realizzarlo? E LA BASILICA VATICANA?
Il discorso vale anche Oltretevere. Non esiste un museo della Basilica di San Pietro. A dispetto del fatto che i musei delle chiese principali di alcune città italiane (Milano, Firenze, Pisa) sono stati in anni recenti magnificamente rinnovati e si annoverano oggi tra gli elementi di spicco dei panorami museali di quelle città, manca un museo che racconti la storia della Basilica Vaticana. Esiste un Museo del Tesoro ma, come si intuisce dal nome, non si tratta che di una selezione di pezzi eccellenti, che non pretendono di dare forma a un racconto. Molti oggetti (opere d’arte, modelli) si trovano nei locali annessi alla basilica, non accessibili; altri “ingolfano” il già ricchissimo percorso dei Musei Vaticani (della Pinacoteca, in particolare). Un grande museo che racconti la storia di San Pietro sarebbe, naturalmente, strepitoso, sia per l’importanza religiosa, culturale, artistica del sito, che per l’avvincente storia architettonica del complesso, con una basilica di Età Moderna che ha preso il posto di una assai più antica, della quale peraltro il visitatore non avvertito ha scarsa contezza, nell’esiguità di tracce materiali che il tempo costantiniano ha lasciato.
OPINIONI
#26
Il restauro della Pietà di Michelangelo
Il museo che porta l’arte fuori dai musei
Antonio Natali storico dell’arte
Stefano Monti economista della cultura
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llo scadere del 2018 l’Opera del Duomo di Firenze decise di metter mano al restauro della Pietà di Michelangelo, nota come Pietà Bandini. Quella risoluzione trovò prontamente il sostegno generoso dei Friends of Florence, la Fondazione americana che da oltre vent’anni s’accolla gli oneri della tutela di buona parte del patrimonio d’arte di Firenze (incluse quelle opere che, per esser meno celebrate e perciò meno ambìte dal turismo attuale, non troverebbero conforto negli oculati mecenati nostrali). Le operazioni di restauro sono state più volte inceppate dalla malignità d’un morbo di cui è venuto in uggia anche il nome. E però l’impresa – comprensiva delle indagini scientifiche che costituiscono la premessa d’ogni intervento conservativo – ha fatto comunque il suo corso, arrivando a compimento nel settembre di quest’anno 2021 e sùbito offrendone gli esiti ai visitatori. A vero dire, il marmo di Michelangelo non è stato mai inibito a chi visitasse il Museo dell’Opera di Santa Maria del Fiore. La Pietà, ogni volta che la legge consentiva l’accesso alle sale, poteva da ognuno essere guardata, conforme alla pratica del “cantiere aperto”.
OSSERVARE DA VICINO LA PIETÀ
Il restauro dunque s’è svolto sotto gli occhi di tutti; e tutti potevano seguire l’avanzare della pulitura d’un marmo che pian piano perdeva quell’omogenea tonalità ambrata, cui nei secoli era pervenuto a furia di stesure di materiali incongrui, vòlte appunto a uniformarne le apparenze. Ma era proprio quell’uniformità a smorzare i palpiti d’una scultura la cui lavorazione è segnata da gradi diversi di compiutezza: dall’appena sbozzato al quasi finito. La pulitura sensibile e discreta, ch’è la sostanza dell’intervento odierno, favorisce una lettura del marmo struggente e criticamente proficua. E chiunque lo desideri potrà – da ora alla fine di marzo del 2022 – profittare delle strutture
del cantiere di restauro per salire al piano su cui posa l’opera di Michelangelo e avvicinarsi al marmo fin quasi a toccarlo, potendo finalmente apprezzarne da vicino il variegato trattamento. E l’occasione sarà buona per darsi al contempo ragione del tenore d’un museo in cui sono esposte creazioni che ne fanno uno dei maggiori istituti al mondo quanto a scultura medioevale e umanistica: da Arnolfo di Cambio a Donatello, da Andrea Pisano a Ghiberti, da Luca della Robbia a Verrocchio e Pollaiolo, su su fino a Michelangelo.
Fino alla fine di marzo chiunque potrà apprezzare da vicino il restauro dell’opera NON SOLO BRUNELLESCHI
Sia detto questo perché non c’è nei fiorentini e neppure negli stranieri la coscienza piena della qualità altissima del Museo del Duomo di Firenze. Gli ospiti forestieri accorrono infatti numerosi ai luoghi dell’Opera di Santa Maria del Fiore, ma la loro aspirazione massima è salire alla lanterna in cima alla cupola di Brunelleschi per godere della veduta di Firenze dall’alto. È segnatamente quel belvedere la loro meta. L’epifania mirabile di colli e case che da lassù si squaderna giustifica davvero il desiderio di quell’ascesa. Siccome però molti (peraltro politicamente autorevoli) s’illudono che sia ognora più diffusa ai giorni nostri l’aspirazione alla “bellezza”, mi pare sia necessaria una riflessione su quelli che vengono interpretati come interessi culturali; giacché un conto sono i paesaggi e gli spettacoli della natura (davanti ai quali l’uomo – da sempre, non da oggi – si commuove), altro conto sono le opere di cui proprio l’uomo è artefice. Mi convincerò d’un comune anelito a incontrare la “bellezza” quando vedrò varcare la soglia del Museo del Duomo da almeno la metà di quelli che discendono dal colmo della cupola brunelleschiana, lì a due passi.
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olte delle espressioni artistiche contemporanee stanno ragionando su linguaggi che potrebbero rendere concretamente operabile il concetto di ubiquità dell’arte. Eppure pochi pensano a quante trasformazioni questi processi possano condurre, anche in termini di luoghi espositivi. Oggi il museo rappresenta il luogo espositivo per eccellenza: non solo per coerenza contenutistica, ma anche e soprattutto perché il museo è il luogo che garantisce i migliori standard di sicurezza legati alla salvaguardia delle opere. Se così non fosse, la geografia urbana delle nostre esposizioni disegnerebbe forse delle mappe diverse: molta arte contemporanea, ad esempio, più che in un museo starebbe meglio in differenti tipologie di strutture, ma si tende ancora a preferire i musei perché sono i luoghi più sicuri, e che individuano le organizzazioni più professionali per la gestione delle opere. Con le nuove forme d’arte, sia quelle a oggi esistenti, sia i linguaggi che è lecito attendersi nell’immediato futuro, è possibile che tale centralità del museo non rappresenti più un elemento dato per scontato. Si pensi ad esempio alle mostre di opere d’arte digitale. Se l’opera è digitale, e se non può quindi rompersi irrimediabilmente, allora nulla toglie che possa trovare spazio in un supermercato o in un garage. Così come nulla vieta che possa continuare a essere allestita nei musei, se ci sono le condizioni ideali per la fruizione.
ANDARE OLTRE IL MUSEO
Finora i musei hanno rappresentato la sede naturale delle mostre e i professionisti adattavano i display alla struttura. Se tuttavia i musei divengono soltanto una delle potenziali tipologie di strutture espositive, allora la possibilità che altre tipologie di immobili presentino maggiore coerenza culturale con la mostra va presa in considerazione. E qui i musei dovrebbero, per una volta, iniziare ad anticipare i tempi, intercettando
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il cambiamento e modellandosi per poter mantenere la propria centralità. I musei continueranno senza dubbio a rappresentare la sede naturale per molte mostre. Ma per molte altre il processo di evasione dal museo sarà sempre più evidente. A meno che il museo non inizi ad agire come struttura di servizio più che come semplice luogo espositivo, creando partnership con il produttore della mostra, fornendo competenze e coordinamento logistico.
Nulla toglie che l’opera d’arte digitale sia esposta fuori dai musei IL MUSEO COME ATTIVATORE DI OPPORTUNITÀ
Questa strategia potrebbe trasformare una potenziale criticità in un’opportunità concreta di estendere ancor più il ruolo del museo come attivatore e non come semplice attrattore culturale. Sfruttando la propria rappresentatività culturale, il proprio brand, le proprie relazioni sul territorio e le competenze presenti in molti musei, si potrebbero anche creare strutture leggere di collaborazione con professionisti locali per favorire la nascita di nuovi format di mostre: dal real-estate scouting a campagne di comunicazione meno istituzionali, il museo, attraverso opportune scelte strategiche, potrebbe acquisire un ruolo ancor più importante nella vita cittadina, strutturando partnership pubblico-private realmente remunerative per il privato, e che non si limitino a vedere nella cultura una semplice vetrina. Intervenire nelle periferie, piuttosto che fare campagne di promozione per le stesse, agire da riqualificatore immobiliare, piuttosto che ospitare convegni sulla rigenerazione urbana, essere il museo stesso il motore che porta l’arte fuori dai musei, anziché subire un processo che, per alcune tipologie di linguaggi, più che naturale pare quasi inevitabile.
JENNY SAVILLE E IL RINASCIMENTO A FIRENZE a città di Firenze accoglie una delle più grandi pittrici viventi e voce di primo piano nel panorama artistico internazionale, Jenny Saville (Cambridge, 7 maggio 1970), protagonista di un progetto espositivo ideato e curato da Sergio Risaliti, Direttore del Museo Novecento, in collaborazione con alcuni dei maggiori musei della città: Museo di Palazzo Vecchio, Museo dell’Opera del Duomo, Museo degli Innocenti e Museo di Casa Buonarroti. L'esposizione, promossa dal Comune di Firenze, organizzata da MUS.E e sostenuta da Gagosian, rappresenta un incontro unico tra antico e contemporaneo e invita il pubblico a scoprire l'opera di Jenny Saville attraverso una serie di dipinti e disegni degli Anni Novanta e lavori realizzati appositamente per la mostra. Il percorso delinea la forte correlazione tra Jenny Saville e i maestri del Rinascimento italiano, in particolare con alcuni grandi capolavori di Michelangelo, come si può evincere sia dalla misura monumentale dei dipinti dell’artista britannica, tratto distintivo del suo linguaggio figurativo fin dagli esordi, sia dalla sua ricerca incentrata sul corpo, sulla carne, e su soggetti femminili nudi, mutilati o schiacciati dal peso e dall’esistenza, sulle maternità e i compianti. Jenny Saville trascende i limiti tra figurativo e astratto, tra informale e gestuale, riuscendo a trasfigurare la cronaca in un’immagine universale, un umanesimo contemporaneo che rimette al centro della storia dell’arte la figura, sia essa un corpo o un volto, per dare immagine alle forze che agiscono dentro e contro di noi. Dall’impatto con l’esistenza e la nuova vita risorge una dimensione spirituale che credevamo perduta nell’arte d’avanguardia. L’artista si è lasciata alle spalle il postmoderno per ricostruire un serrato dialogo con la grande tradizione pittorica europea in costante confronto con il modernismo di Willem de Kooning e Cy Twombly e la ritrattistica di Pablo Picasso e Francis Bacon. Sempre alla ricerca della verità in pittura per mettere a nudo l’immanenza espressiva del corpo, l’artista lavora sul modello in studio e sulla fotografia. Per costruire le sue immagini, così potenti e abbaglianti, così travolgenti e impressionanti, raccoglie fotografie e ritagli da giornali e cataloghi, mescolando storia dell’arte e archeologia, immagini scientifiche e di cronaca, senza creare gerarchie o distinguo tra bellezza e abiezione, brutalità e venustà, tenerezza e crudeltà. I suoi soggetti appartengono alla tradizione classica: volti, corpi nudi, gruppi di più figure, figure distese o in piedi, maternità e coppie di amanti presentati in pose che ricordano la statutaria etrusca o modelli classici, dipinti e sculture della tradizione rinascimentale e moderna, l’arte egizia o arcaica.
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IDENTIKIT DI JENNY SAVILLE La percezione umana del corpo è così acuta e consapevole che il più piccolo accenno di un corpo può innescarne il riconoscimento Jenny Saville
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ata nel 1970 a Cambridge, Inghilterra, Saville ha frequentato la Glasgow School of Art dal 1988 al 1992, trascorrendo un periodo all’Università di Cincinnati nel 1991. I suoi studi hanno concentrato il suo interesse sulle “imperfezioni” della carne, con tutte le relative implicazioni sociali e tabù. Saville è stata affascinata da questi dettagli fin da bambina; ha raccontato di aver visto i lavori di Tiziano e Tintoretto durante i viaggi con lo zio, e di aver osservato il modo in cui i due seni della sua insegnante di pianoforte, schiacciati insieme nella camicia, diventavano un’unica grande massa. Durante una borsa di studio nel Connecticut nel 1994, Saville ha potuto osservare un chirurgo
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plastico di New York al lavoro. Studiare la ricostruzione della carne umana è stato formativo per la sua percezione del corpo – la sua resilienza, così come la sua fragilità. Il tempo trascorso con il chirurgo ha favorito il suo approfondimento sui modi apparentemente infiniti in cui la carne viene trasformata e sfigurata. Ha esplorato le patologie mediche; visto i cadaveri all’obitorio; esaminato gli animali e la carne; studiato la scultura classica e rinascimentale e osservato coppie intrecciate, madri con i loro figli, individui i cui corpi sfidano le differenze di genere, e altro ancora.
LA POETICA DI JENNY SAVILLE
Membro degli Young British Artists (YBA), il gruppo sciolto di pittori e scultori salito alla ribalta tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, Saville ha rinvigorito la pittura figurativa contemporanea sfidando i limiti di genere e sollevando domande sulla percezione che la società ha del corpo e del suo potenziale. Benché lungimirante, il suo lavoro rivela una profonda consapevolezza, sia intellettuale che sensoriale, di come il corpo sia stato rappresentato nel tempo e attraverso le culture – dalla scultura antica e indù, al disegno e alla pittura rinascimentale, al lavoro di artisti moderni come Henri Matisse, Willem de Kooning e Pablo Picasso. Nei volti impressionanti, nelle membra disordinate e nelle pieghe cadenti dei suoi dipinti, si possono percepire echi della Venere di Urbino di Tiziano (1532 ca.), del Cristo nella Deposizione dalla croce di Rubens (1612-14), dell’Olympia di Manet (1863), e di volti e corpi presi da riviste e giornali scandalistici. I dipinti di Saville rifiutano di inserirsi regolarmente in un arco storico; al contrario, ogni corpo si fa avanti, autonomo, voluminoso e sempre rifiutando di nascondersi.
MOSTRE E CARRIERA
Jenny Saville attualmente vive e lavora a Oxford, in Inghilterra. Le sue opere sono incluse, tra le altre, nelle seguenti collezioni: Metropolitan Museum of Art, New York; The Broad, Los Angeles; Museum of Contemporary Art, San Diego; Saatchi Collection, Londra. Tra le sue mostre recenti si annoverano: 50° Biennale di Venezia (2003); Museo d’Arte Contemporanea Roma, Roma (2005); Norton Museum of Art, West Palm Beach, FL (2011, poi al Modern Art Oxford, Inghilterra, nel 2012); Egon Schiele-Jenny Saville, Kunsthaus Zürich (2014-15); Jenny Saville Drawing, Ashmolean Museum of Art and Archaeology, University of Oxford, Inghilterra (2015-16); Now, Scottish National Gallery of Modern Art, Edimburgo (2018); e George Economou Collection, Atene (2018-19).
n occasione della mostra dedicata a Jenny Saville, una vetrina aperta giorno e notte rende visibile il grande dipinto Rosetta II (2005-06), esposto sopra l’altare all’interno dell’antica cappella al piano terra. L’opera, che ritrae una giovane donna non vedente conosciuta dall’artista, si colloca nello spazio occupato in precedenza da una grande tavola di Ludovico Buti, raffigurante la Moltiplicazione dei pani. La scelta iconografica di un episodio del Vangelo con al centro un miracolo si conformava alla funzione dello Spedale, all’epoca adibito a convalescenziario. La decisione di Jenny Saville riporta alla ribalta le funzioni di un complesso monumentale storicamente connotato da una forte vocazione sociale, ispirata a una delle principali virtù della religione cristiana: la carità. A ribadire questo tacito dialogo, l’innovativo allestimento consente di istituire il confronto con il Crocifisso ligneo di Giotto sospeso al centro della navata di Santa Maria Novella, ben riconoscibile fin dall’esterno del sagrato quando il portale della basilica è aperto. Nelle sale del Museo attigue alla cappella è esposta una serie cospicua di ritratti, sempre di grande formato e quasi sempre frontali. Sono volti di giovani di arcaica bellezza, un olimpo di divinità terrestri dagli sguardi intensi, che restano totalmente concentrati nei confini della propria irraggiungibile intimità. Nonostante la vita scavi sui volti, oltraggiandoli e sfigurandoli, la bellezza dei ritrattati, riflesso di una bellezza interiore, rimane intatta. I visi di Jenny Saville, monumentali e sensuali allo stesso tempo, ci indicano pertanto di cosa sia fatta la vera bellezza, illuminata di immensità ed energia purissima. Ne sono elementi rivelatori gli occhi sempre luminosi, capaci di comunicare tutto della persona. Al primo piano viene riservato ampio spazio al disegno, che per Jenny Saville è un’attività quotidiana. L’artista lavora in uno studio dedicato esclusivamente a questa pratica, che si differenzia dallo spazio riservato ai dipinti per illuminazione e organizzazione di strumenti e arredi. Saville parte da disegni di carattere figurativo, sui quali interviene ripetutamente, fino ad arrivare a uno stravolgimento dell’impianto tradizionale della visione. L’incessante e vorticoso ritornare sulle figure denota una scrupolosa osservazione del corpo e dei suoi movimenti, in un’indagine che muove dallo studio del visibile per lasciar
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a cura di Sergio Risaliti MUSEO NOVECENTO Piazza Santa Maria Novella 10 – Firenze 055 286132 Stazione di S. Maria museonovecento.it Novella
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In un’epoca in cui l’avanguardia modernista pare aver perduto la forza propulsiva del secolo scorso arrestandosi ai limiti del progresso, mentre la tradizione offre la possibilità di percorrere sentieri interrotti, ecco che i dipinti di Jenny Saville possono sconvolgere per il tipo di bellezza che fanno apprezzare. I suoi nudi, i ritratti, gli studi sulla maternità, i suoi ‘compianti’ sono così esageratamente moderni, eppure così compiutamente classici, che ci sentiamo strattonati in opposte direzioni e non possiamo restare indifferenti; ne veniamo sopraffatti e dobbiamo ammettere di dover fronteggiare la pittura con tutti i sensi, profondamente coinvolti e interrogati davanti a quello che non stentiamo a vivere come misterioso shock visivo. Sergio Risaliti Direttore del Museo Novecento
emergere la complessità dei ‘moti dell’anima’. L’artista si sofferma sulle espressioni, i gesti e il loro costante mutamento. Coglie sfumature impercettibili, quasi impossibili da contenere e definire in un’unità compiuta. Rinnovando la più classica delle tradizioni rinascimentali, i disegni di Jenny Saville riescono a racchiudere e a fermare, in un’immagine imperitura, l’infinita molteplicità dell’io.
in alto: Jenny Saville, Installation view, Museo Novecento, Firenze 2021 © Jenny Saville. Tutti i diritti riservati, DACS 2021 Photo Sebastiano Pellion di Persano, Courtesy Gagosian a sinistra: Jenny Saville al Museo dell'Opera del Duomo, Firenze © photo Ela Bialkowska OKNOstudio
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l Salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio ospita Fulcrum (1998-99), l’opera di maggior risonanza del presente progetto espositivo che consacrò definitivamente Jenny Saville con la sua prima mostra personale, Jenny Saville: Territories, da Gagosian a New York nel 1999. Il grande dipinto (3×5 metri circa) entra dialetticamente in antitesi con i capolavori riuniti nella sublime cornice del Salone delle Battaglie, così detto per gli affreschi realizzati dal Vasari e dalla sua scuola per celebrare le vittorie dei fiorentini contro gli avversari. Il Salone è arricchito da gruppi scultorei con le Fatiche di Ercole (1562-84) di Vincenzo de’ Rossi, nonché dal Genio della Vittoria (1532-34) di Michelangelo, straordinario esempio di contrapposto anatomico e di non finito. Dal punto di vista formale, il dipinto di Jenny Saville pare voler esibire un confronto con il linguaggio della scultura, date le dimensioni imponenti dell’opera e la forte plasticità delle figure. Lo spazio di rappresentazione di Fulcrum è interamente occupato dalla massa di tre corpi riversi. L’artista ci mette di fronte alla forte esuberanza delle carni, in una composizione densa e disturbante in cui mal si distinguono i volti e le individualità delle due donne e della giovinetta, costrette in un abbraccio dai toni drammatici. La violenza, il potere, l’egemonia maschile sembrano essere messi in chiaro dalla presenza eloquente di queste tre figure femminili, strette carnalmente e spiritualmente in un abbraccio che sa di difesa e di angoscia.
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a cura di Sergio Risaliti MUSEO DI PALAZZO VECCHIO Piazza della Signoria – Firenze 055 2768325 Piazza Santa Maria del Fiore museonovecento.it
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in alto: Jenny Saville, Fulcrum, 1999, olio su tela 261.6 x 487.7 cm © Jenny Saville. Tutti i diritti riservati, DACS 2021 Collezione privata. Courtesy Gagosian a sinistra: Vincenzo De' Rossi, Fatiche di Ercole, Ercole e il centauro Nesso, 1570 ca., Salone dei Cinquecento, Palazzo Vecchio, Firenze. © Fototeca dei Musei Civici Fiorentini
MUSEO DELL’OPERA DEL DUOMO a sinistra: Jenny Saville, Pietà I, 2019-21, carboncino e pastello su tela, 280 × 160 cm © Jenny Saville. Tutti i diritti riservati, DACS 2021. Photo Prudence Cuming Associates. Courtesy Gagosian in basso: Pietà di Michelangelo, Museo dell’Opera del Duomo, Firenze. Courtesy Opera di Santa Maria del Fiore. Photo Alena Fialová
Il corpo come espressione dello spirito è un tema chiave dell’arte rinascimentale, e il maestro che più sviluppò il concetto fu il fiorentino Michelangelo Buonarroti, la cui Pietà nel Museo dell’Opera del Duomo riassume lo sforzo dell’artista a dare alla carne un’anima. […]. L’atmosfera di ‘spazio sacro’ della Tribuna, idonea al gruppo rinascimentale, funziona anche per l’immagine della Saville, in cui, in analogia con la Pietà, i corpi intrecciati comunicano una rete di rapporti d’intenso pathos umano. Mons. Timothy Verdon Direttore del Museo dell’Opera del Duomo
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a cura di Sergio Risaliti MUSEO DELL'OPERA DEL DUOMO Piazza del Duomo 9 – Firenze 055 2302885 museonovecento.it
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appassionato e coinvolgente dialogo di Jenny Saville con le opere e le iconografie di Michelangelo raggiunge qui la sua acme. Nella sala dove si conserva la Pietà Bandini (1547-55 ca.), tra le ultime ‘fatiche’ del ‘divino’ Buonarroti, è esposto un disegno di grande formato – circa tre metri di altezza – a cui l’artista britannica ha iniziato a dedicarsi dopo un sopralluogo a Firenze due anni orsono. Dichiara Mons. Timothy Verdon, Direttore del Museo dell’Opera del Duomo: “Non sorprende che Jenny Saville, uno dei pochi artisti contemporanei a credere nell’eloquenza del corpo, abbia dedicato un’opera alla Pietà di Michelangelo, un’interpretazione profondamente personale esposta accanto al gruppo marmoreo del Buonarroti nella ‘Tribuna’, una sala creata durante l’ampliamento 2013-15 del museo e la riprogettazione specifica per il capolavoro di Michelangelo”. Secondo Antonio Natali, Consigliere dell’Opera di Santa Maria del Fiore: “Si può ben capire il rapporto ideale fra la composizione di Jenny Saville e la Pietà di Michelangelo nel Museo dell'Opera del Duomo. Se ne può cogliere l’ascendente e financo
la fascinazione; eppure par di leggere nell’opera moderna qualcosa che precede nel tempo il marmo del Buonarroti, quasi discendesse dalle fonti medesime di lui”. Il corpo levigato e lucente del Cristo della Pietà michelangiolesca, fortemente disarticolato nella sua posa, l’espressione amorevole di Nicodemo, che cela l’autoritratto dell’artista stesso e che sostiene il peso del Messia, lo strazio contenuto della Madre, trovano nel disegno Pietà I (2021) di Saville un naturale contraltare animato dagli intensi sguardi dei personaggi che sorreggono un giovane ragazzo, vittima forse della barbarie politica o ideologica, magari un migrante, un antagonista o un martire del terrore. Evitando di identificare spazio e tempo, Saville dichiara, in una versione contemporanea ma altrettanto universale e archetipica, la condanna di ogni violenza umana, facendo parlare con segni drammatici il tema della pietas, l’esperienza del lutto e del compianto. Wesperbild attuale e senza tempo, di una stessa universale poetica tragicità quanto quella del gruppo scultoreo realizzato da Buonarroti, l’opera di Saville pare esprimere sentimenti di dolore in una drammatica coincidenza con gli ultimi fatti della cronaca mondiale.
È come se Jenny fosse stata insieme a Michelangelo nel manipolo d’artisti che sbalordivano al cospetto degli affreschi di Piazza della sui quali lo scultore Masaccio al Carmine, Signoria MUSEO s’era affaticato in copieDI d’attori e posture. PALAZZO Nella piramide familiareVECCHIO disegnata da Jenny Saville [Pietà I, 2019-21, N.d.R.] rivive l’impaginazione solidaMuseo della Sant’Anna Ponte degli si sente allignare Metterza e nei protagonisti Vecchio Uffizi ium l’energia Fumanissima della stessa razza rude e Ar dei popolani chenoanimano le ribalte della cappella Brancacci. Antonio Natali Consigliere dell'Opera di Santa Maria del Fiore MUSEO NOVECENTO FIRENZE
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MUSEO DEGLI INNOCENTI La maternità e la ‘cultura dell’infanzia’ rappresentate nelle opere di Della Robbia e Botticelli, a confronto con il forte impatto visivo delle due di Saville, The Mothers e Byzantium, ci fanno riflettere sull’universo della cura dei più piccoli e sull’investimento di sensibilità, attenzioni ed energie che tale cura richiede. Una riflessione che trova ambientazione ideale nell’edificio progettato dal Brunelleschi che, ieri come oggi, è dedicato all’accoglienza e all’educazione dei bambini. Maria Grazia Giuffrida Presidente dell’Istituto degli Innocenti
ei due dipinti di Jenny Saville esposti nella Pinacoteca del Museo degli Innocenti è racchiusa la concezione della figura femminile in relazione alla maternità. Tra la Madonna col Bambino (1445-50 ca.) di Luca della Robbia e la Madonna col Bambino e un angelo (146576), opera giovanile di Botticelli, il grande quadro The Mothers (2011) di Jenny Saville, di forte impatto evocativo, rivela il fulminante cortocircuito atemporale di questa tematica, accolta in un edificio dove, fin dai tempi del progetto di Brunelleschi, si è avvertito il bisogno di un impegno nell’accoglienza dei bambini abbandonati e nella promozione e tutela dei diritti dell’infanzia. Un secondo dipinto di grandi dimensioni, Byzantium (2018), mostra una diversa versione di Pietà in cui il lavoro grafico accompagnato da interventi di colore assai risentiti sembra non essersi fermato alla ricerca della giusta posa, seguendo altresì il movimento dei corpi. “Il tema della maternità compare prepotentemente quando l’artista stessa diviene madre” — sottolinea la Direttrice scientifica del Museo degli Innocenti Arabella Natalini. “Il rapporto con i figli alimenta la sua creatività e genera nuove opere vigorose, come ‘The Mothers’, dove Saville si ritrae durante la gravidanza della secondogenita mentre tiene in braccio il primo figlio, scalpitante fino a ‘sdoppiarsi’ in quel movimento indomito che caratterizza la prima infanzia. Se in questo quadro convivono simultaneamente l’attesa della nascita e i primi anni di vita, con ‘Byzantium’ l’artista ci pone in presenza della perdita. La morte, sodale della vita, si incarna in un corpo ‘vivissimo’, tratteggiato naturalisticamente, con gesti veloci e mobili, in contrasto con il volto statico della figura ieratica che lo sostiene e con il fondo oro, atemporale e immobile”.
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Jenny Saville, The Mothers, 2011, olio e carboncino su tela, 270 x 220 cm © Jenny Saville. Tutti i diritti riservati, DACS 2021. Collezione di Lisa e Steven Tananbaum. Photo Mike Bruce. Courtesy l’artista e Gagosian
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a cura di Sergio Risaliti MUSEO DEGLI INNOCENTI Piazza della SS. Annunziata 13 – Firenze 055 2037122 museonovecento.it
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Sandro Botticelli, Madonna col Bambino e un angelo, 1465 ca., tempera su tavola
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Il corpo e la carne sono da sempre temi cari a Jenny Saville che, con la sua pittura materica, genera opere dirompenti tramite le quali affronta l’esistenza della specie umana e, attraversando la propria, quella delle donne innanzitutto. Il suo corpo diviene così oggetto e soggetto di un’indagine reiterata dove la carne, le pieghe, la pelle prendono forma monumentale ricordandoci al tempo stesso la forza e la fragilità della vita. Arabella S. Natalini Direttrice del Museo degli Innocenti
CASA BUONARROTI La Casa Buonarroti, sebbene dedicata dall’Ottocento alla celebrazione della memoria e dell’arte di Michelangelo, si è già aperta in passato all’arte moderna e contemporanea […]. Continuando con questa tradizione, il palazzo di Via Ghibellina, residenza della famiglia Buonarroti e oggi sede del museo, è divenuto uno dei ‘luoghi’ della mostra fiorentina della celebre artista britannica Jenny Saville ove le sue opere possono mettersi in rapporto con i capolavori del sommo artista. Alessandro Cecchi Direttore della Fondazione Casa Buonarroti
Michelangelo Buonarroti, Madonna col Bambino, 1525 ca., penna, 54, 1 x 39, 6 cm. Firenze, Casa Buonarroti, inv.71 F © Fondazione Casa Buonarroti
Jenny Saville, Aleppo, 2017 - 18, pastello e carboncino su tela, 200 x 160 x 3.2 cm © Jenny Saville. Tutti i diritti riservati, DACS 2021 Foto: Lucy Dawkins, National Galleries of Scotland. Collezione dell'artista. Courtesy Gagosian
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n questo luogo della memoria e L’incontro fra Jenny Saville e il cosiddetto della celebrazione del genio di Mi- ‘cartonetto’, ovvero il grande e finito chelangelo, i disegni di Jenny Sa- disegno di Michelangelo Buonarroti con la ville Study for Pietà I (2021) e Mother Madonna che stringe al seno il Bambino, è and Child Study II (2009) presentano un omag- stato commovente per l’artista anzitutto, gio consapevole e per nulla anodino ai di- ma anche per noi della Casa Buonarroti segni e ai bozzetti michelangioleschi (1517- che vi assistevamo. L’occhio dell’artista 20). Non mancano tuttavia, con dipinti quali perlustrava l’immagine con intelligenza Aleppo (2017-18) e Compass (2013), le tema- amorosa, rivelando a se stessa e a noi il tiche care alla poetica di Saville, così tenace- segreto della nascita di volumi pieni e già mente legate alla contemporaneità. scultorei, attraverso il segno potente del Pietà, compianti e deposizioni, moderni e divino maestro. antichi allo stesso tempo, rispondono alla cro- Cristina Acidini naca dei nostri giorni, perché le tragedie della Presidente della Fondazione vita e della morte, del conflitto e del sopruso, Casa Buonarroti sono sempre in corso, sempre attuali. Disegni di forte impatto emotivo e segnico concertano con una delle opere su carta più celebri e ammirate del Buonarroti, il cosiddetto ‘cartonetto’, Madre con bambino (1525 ca.). Completano questo dialogo due bozzetti in terracotta, uno attribuito a un artista della cerchia di Michelangelo e l’altro di Vincenzo Danti, una riproduzione in piccola scala della Madonna Medici, oltre a una coppia di piccole invenzioni michelangiolesche per una Trasfigurazione e un’urna cineraria etrusca. Scocca qui “con piena evidenza” – come ricorda la Presidente della Fondazione Casa Buonarroti Cristina Acidini – “la scintilla dell’intesa a distanza tra i disegni e i bozzetti di Michelangelo e le opere di Saville, la quale, come lui, non solo pone al centro la figura umana, ma ne esplora la fisicità fino allo sforzo, mettendo alla prova le proprie capacità nel raggiungere, con una materia artistica perennemente gravida, i limiti del sostenibile”.
Biblioteca Nazionale lungarno alle Gr
azie
Ponte alle Grazie
fino al 20 febbraio
Fiume Arno
JENNY SAVILLE
a cura di Sergio Risaliti CASA BUONARROTI Via Ghibellina 70 – Firenze 055 241752 museonovecento.it
MUSEO NOVECENTO FIRENZE
in collaborazione con
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FOTOGRAFIA / MARGARET BOURKE-WHITE / ROMA
La fotografia in prima linea di Margaret Bourke-White Angela Madesani
M
argaret Bourke-White è stata una professionista nel senso più completo del termine. “La mia vita e la mia carriera non hanno nulla di casuale. Tutto è stato accuratamente progettato”, diceva. Nata a New York nel 1904, figlia dell’alta borghesia imprenditoriale, studia fotografia con la pittorialista Clarence H. White. Apre il suo primo studio fotografico a Cleveland, in Ohio, nel ‘28. Influenzata dall’attività del padre, in un primo tempo si dedica alla fotografia di industria, architettura e design. Tra i suoi clienti più importanti, le acciaierie Otis. La fotografa – perfezionista, ambiziosa, mai spaventata dal lavoro – riesce a dare una chiave autoriale alla fotografia industriale. Le sue inquadrature, il suo utilizzo delle luci sono magistrali. Risale al 1929 la sua conoscenza con Henry Luce, caporedattore di Time, che la invita a collaborare con la neonata rivista Fortune. Margaret accetta, ma vuole rimanere indipendente, condizione che mantiene sino al 1936. Dello stesso anno è la pubblicazione di una sua fotografia sulla copertina del primo numero di Life. Luce aveva, infatti, comprato i diritti di una storica rivista umoristica americana, per dare vita a quella che in breve sarebbe diventata la più famosa rivista illustrata e di fotogiornalismo al mondo. La foto aveva per soggetto i lavori ultimati per la costruzione della diga di Fort Peck, nel Montana. Un’immagine che rappresenta in pieno la ricostruzione, nell’epoca del New Deal, che segna gli anni della presidenza Roosevelt.
UNA FOTOGRAFA SENZA PAURA
Nel 1930 è la prima tra i fotografi occidentali ad andare in Unione Sovietica, dove ottiene il raro permesso di fotografare Stalin. Suo, infatti, è il primo ritratto non ufficiale del dittatore, con circolazione autorizzata al di fuori del territorio sovietico. “Con il mio entusiasmo per la macchina come oggetto di bellezza, sentivo che la storia di una nazione che cercava di industrializzarsi, praticamente da un giorno all’altro, era disegnata su misura per me […]. Nonostante il mio approccio non fosse tecnico, frequentai le fabbriche a sufficienza per capire che l’industria produce una storia, le macchine si sviluppano e gli uomini crescono insieme a loro. Era un’occasione unica per osservare un Paese nel passaggio da un passato medievale a un futuro industriale”. Per Life, dove la chiamano “Maggie l’indistruttibile”, è corrispondente di guerra durante il secondo conflitto mondiale. Documenta così,
nel 1941, l’assedio di Mosca ed è al seguito dell’esercito americano in Italia. È presente alla liberazione di Buchenwald, di cui racconta le atrocità commesse. Nel 1947 è in Pakistan e in India, dove realizza la famosa fotografia di Gandhi che lavora all’arcolaio. Qualche anno dopo arriva in Sudafrica, dove descrive l’Apartheid e discende nelle profondità della terra per narrare la terribile vita dei minatori d’oro neri.
IMMAGINI E PAROLE
La sua forza è stata quella di capire quanto stava accadendo nel mondo per trovarsi nel posto giusto al momento giusto, senza mai realizzare immagini sensazionaliste. Lei stessa nella sua preziosa autobiografia, Portrait of Myself, redatta negli anni dolorosi della malattia, scrive: “Mi svegliavo ogni mattina pronta a ogni sorpresa che il giorno mi avrebbe portato.
FOTOGRAFIA / MARGARET BOURKE-WHITE / ROMA fino al 27 febbraio
PRIMA, DONNA. MARGARET BOURKE-WHITE
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INTERVISTA ALLA CURATRICE ALESSANDRA MAURO
a cura di Alessandra Mauro Catalogo Contrasto MUSEO DI ROMA IN TRASTEVERE Piazza S. Egidio 1b museodiromaintrastevere.it a sinistra: Margaret Bourke-White al lavoro in cima al grattacielo Chrysler, New York City, 1934 © Oscar Graubner. Courtesy Estate of Margaret Bourke White a destra: Greensville, Carolina del Sud, 1956. © Images by Margaret Bourke-White. 1956 The Picture Collection Inc. All rights reserved
Amavo il passo veloce delle commissioni di ‘Life’, la felicità di attraversare l’ingresso di un nuovo territorio. Tutto poteva essere conquistato. Niente era troppo difficile. E se avevi tempi stretti, tanto meglio. Dicevi sì alla sfida e costruivi la storia”. Una storia che Margaret ha costruito sino al 1971, l’anno della sua morte, prima con le immagini e poi con la scrittura.
LE SEZIONI DELLA MOSTRA A ROMA
La mostra dedicata a Margaret Bourke-White dal Museo di Roma in Trastevere è divisa in undici sezioni. La prima L’incanto delle acciaierie, propone il lavoro realizzato durante gli anni giovanili nel campo della fotografia industriale. Conca di polvere, la seconda sezione, documenta i lavori di tematica sociale, portati a termine durante gli anni della Grande Depressione nel Sud degli Stati Uniti. La terza è dedicata alla proficua collaborazione di Bourke-White con Life, mentre Sguardi sulla Russia racconta gli anni sovietici di Margaret, durante i quali documenta le fasi del piano quinquennale. La quinta sezione, Sul fronte dimenticato, esamina il periodo della Seconda Guerra Mondiale, epoca in cui la fotografa è corrispondente in Europa per Life. La liberazione di Buchenwald è documentata in Nei Campi. Qui la fotografa, sconvolta da quanto si trova di fronte, dichiara: “Per lavorare dovevo coprire la mia anima con un velo”. La settima sezione guarda all’India, alla sua indipendenza e alla separazione dal Pakistan. Il Sudafrica durante l’Apartheid è il protagonista dell’ottava sezione, mentre è un lavoro a colori del 1956 a costituire il nono capitolo della mostra, Voci del Sud bianco, incentrato sul tema del segregazionismo nel Sud degli Stati Uniti. In alto e a casa è la penultima sezione, che raccoglie le più importanti immagini aeree di Bourke-White. La sezione conclusiva, biografica, è intitolata La mia misteriosa malattia, in cui la fotografa, colpita dal morbo di Parkinson, è il soggetto del reportage dal grande Alfred Eisenstaedt.
Qual è il testimone, umano e professionale, lasciato da Margaret Bourke-White alle generazioni successive? Mi affascina la sua costruzione del personaggio, una costruzione fatta scientemente, in modo sistematico. Margaret ha sconfitto una serie di barriere apparentemente insormontabili, arrivando dove voleva arrivare. Al punto che, alla fine della sua vita, nel momento della malattia, diventa lei stessa soggetto dei ritratti che Alfred Eisenstaedt le fa, non temendo di andare contro l’immagine che aveva creato di sé. Era così forte da permettersi di dimostrarsi debole. La sua è stata una lezione di vita e di fotografia importante e spero che la mostra riesca a porre in evidenza questi due aspetti. Vorrei affrontare un problema un po’ annoso, che riguarda le mostre di fotografia: materiali vintage o ristampati? Secondo me è un problema che va affrontato a seconda dei casi. Talvolta ha senso fare delle mostre in cui si recuperano i vintage, ma Bourke-White non aveva una grande passione per le foto d’epoca e inoltre già negli Anni Trenta, tra i primi a farlo, realizzava delle gigantografie giocando con i formati e gli ingrandimenti. Lavorando alla preparazione della mostra insieme a Life, abbiamo recuperato una serie di stampe ai sali d’argento, non vintage, realizzate una trentina di anni fa. Mancavano alcune immagini che sono state ristampate in occasione della mostra, per esempio la sezione di fotografie a colori del 1956.
Per alcune mostre di fotogiornalismo non sempre è così importante mostrare materiali vintage. In questo caso, ad esempio, avrei mai potuto non esporre il suo ritratto a Gandhi, funzionale per capire la sua modalità operativa, così connaturata alla tradizione di Life? In che senso? Bisogna considerare che Life è nata e ha avuto la sua massima espansione in un momento in cui il mezzo di comunicazione più diffuso era la radio. Life svolgeva il compito di colmare con le immagini le informazioni solo sonore. I ritratti “alla Life” dovevano essere come quelli di Margaret: immediati, sintetici, spesso frontali e senza possibili doppie letture. Così i lettori potevano subito ritrovarvi tutti gli elementi identificativi di un particolare personaggio. Se oggi di ogni personaggio abbiamo mille immagini e a un fotografo chiediamo di mostrarci qualcosa di più, per Margaret e i suoi colleghi di Life era diverso. Oggi possono ancora esistere personaggi come lei? L’attualità ha bisogno di essere raccontata in modo diverso, perché è cambiato il mondo, in particolare quello dell’informazione. Esiste oggi un equilibrio differente tra fotografia privata e fotografia pubblica, documentazione intima e documentazione storica. Per Margaret era completamente diverso: infatti noi non conosciamo le sue immagini private e sembra che negli ultimi anni della sua vita abbia distrutto tutta la documentazione che non voleva fosse tramandata. [ha collaborato Celeste Sgrò]
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GRANDI CLASSICI / GOTICO / MILANO
Bagliori gotici a Milano Marta Santacatterina
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ecoli bui? Ma non scherziamo! Il Medioevo è luminosissimo, anche grazie a quei bagliori che scaturiscono dalle tavole a fondo oro, il più caratteristico genere pittorico di un periodo così affascinante e ricco di cultura. Per lasciarsi “folgorare” dagli antichi dipinti si può visitare la mostra organizzata dalla Galleria Salamon di Milano che, per qualità delle opere e per gli studi condotti, può essere senza dubbio considerata di livello museale.
LA GENESI DELLA MOSTRA
Bagliori gotici è un progetto messo a punto da Matteo Salamon negli ultimi due anni e reso possibile anche dal lungo periodo di chiusure e stand by di alcune attività di mercato in presenza: se l’idea era già in nuce nel 2019, durante la pandemia l’équipe di cui fanno parte lo storico dell’arte Angelo Tartuferi e la restauratrice Loredana Gallo ha potuto affinare le ricerche sulle opere, svelando autentiche sorprese: i venti pezzi esposti, provenienti da collezioni private, erano infatti per la maggior parte sconosciuti o noti solo tramite vecchie fotografie. Ma qual è l’opera più preziosa della mostra? “Per il portafoglio o per il cuore?”, ci ha risposto il gallerista. Salamon svela allora come la tavola che ha un maggior valore monetario sia il Giudizio Finale (1360-65) di Niccolò di Tommaso: il suo costo? Poco più di un milione di euro. Tanti denari, in termini assoluti, ma se pensiamo alle quotazioni di molta arte contemporanea la percezione di questa cifra si ridimensiona subito: “È più facile vendere un Banksy che un Giotto”, commenta Salamon con ironia.
IL MAESTRO DEL 1310
Veniamo però al cuore: quello pulsante di Bagliori gotici è una Madonna con bambino attribuita al Maestro del 1310, e che per spirito è ancora pienamente duecentesca pur essendo datata entro i primi cinque anni del Trecento. “È il dipinto più antico che io abbia mai avuto”, ci confida Salamon, il quale fin dalla prima volta che l’ha visto ha pensato: “Questo sarà il primo mattone di una mostra”. Del pittore si conoscono pochissimi altri lavori: “Il quadro eponimo è conservato nel museo di Avignone e sul mercato negli ultimi vent’anni ne sono passati solo due, uno dei quali è curiosamente stato acquistato dalla rockstar Madonna”, spiega ancora il gallerista. La sua rilevanza non è solo di oggi: è infatti dipinto davanti e dietro, dove reca uno splendido intreccio di nodi, e le indagini effettuate dal CNR fiorentino hanno rivelato come l’opera sia stata “restaurata” negli Anni Settanta del Trecento, momento in cui è stata rifatta l’aureola della Vergine. Ciò testimonia
dall’11 novembre al 17 dicembre
BAGLIORI GOTICI. DAL MAESTRO DEL 1310 A BARTOLOMEO VIVARINI GALLERIA SALAMON – PALAZZO CICOGNA Via San Damiano – Milano salamongallery.com
Maestro del 1310, Madonna con bambino, 1300-05
come fosse considerato un prezioso oggetto di devozione già in epoca antica, poiché invece di sostituirlo lo si è aggiornato sulla lezione di Masolino da Panicale.
LE OPERE
Tra la teoria di santi, Madonne e crocefissi, nelle opere fanno la loro comparsa dettagli iconografici assai originali, come la Trinità raffigurata nella forma di tre uomini sulla cuspide del tabernacolo portatile di Cenni di Francesco, opera considerata l’apice della produzione di questo autore; oppure, una santa Margherita che, con aria serafica, emerge dalla bocca del drago che l’ha inghiottita. Lo sguardo trova poi un altro punto magnetico irresistibile: si tratta della tavola assegnata al Maestro dell’Annunciazione Ludlov: un gioiello elegantissimo che fonde elementi della cultura bizantina a una ricchezza di decorazioni che occhieggiano al Gotico internazionale e a una dolcezza nei volti e nei gesti ormai pienamente quattrocentesca. Una porta aperta sull’est, sulla Dalmazia da cui proveniva il raffinatissimo pittore che lavorò anche a Venezia.
DIETRO LE QUINTE / ALBERT OEHLEN / LUGANO
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Albert Oehlen: artista e collezionista fino al 20 febbraio
ALBERT OEHLEN “GRANDI QUADRI MIEI CON PICCOLI QUADRI DI ALTRI” a cura di Francesca Benini e Christian Dominguez Catalogo Mousse Publishing MASI LUGANO, sede espositiva LAC Via Bernardino Luini 6 – Lugano masilugano.ch
Richard Phillips, Venetia Cuninghame Left (After John D Green), 2002. Olio, alluminio e grafite su tela, 213.5 x 164.4 cm. Photo def image © 2021, ProLitteris, Zurich
Arianna Testino
È
un legame viscerale e senza compromessi quello che unisce Albert Oehlen (Krefeld, 1954) alla pittura. Non incasellabile in definizioni, movimenti o etichette, lo stile dell’artista tedesco ha affermato la propria coriacea indipendenza a più riprese, scegliendo il linguaggio pittorico quando la sua impopolarità era evidente e decostruendone le categorie formali. Nelle mani di Oehlen figurazione e astrazione diventano recinti da scavalcare, insieme all’interpretazione a tutti i costi del contenuto dell’opera. Come riportato nel catalogo che accompagna la mostra allestita al MASI Lugano, la posizione assunta dall’artista su questi temi è sempre stata netta: “In realtà non mi interessa il significato dei quadri. Le persone possono interpretarli come vogliono. La pittura, secondo me, significa provare ad allontanarsi il più possibile dal significato, e questa è forse la cosa più difficile di tutte. In realtà, cerco solo di creare qualcosa di nuovo ogni volta. Sono uno sperimentatore che riesce a convivere con le contraddizioni e con gli errori che la sperimentazione comporta”. LA MOSTRA E LA COLLEZIONE DI OEHLEN Un approccio aperto e fluido, echeggiato dall’attività collezionistica di Oehlen, che nella mostra svizzera riveste un ruolo complementare a quello di artista. Fin dal titolo – “grandi quadri miei con piccoli quadri di altri” –, l’esposizione gioca sul filo dell’acume e dell’ironia per
sovvertire catalogazioni e logiche di facciata: una selezione di opere incluse nella raccolta di Oehlen (i “piccoli quadri di altri”, che in realtà hanno spesso dimensioni molto ampie) sono al cospetto della pittura dell’artista (i “grandi quadri miei”), innescando dialoghi inaspettati e mai definitivi, che svelano non solo l’orientamento di Oehlen nei confronti del suo stesso medium, ma anche le traiettorie del desiderio di un collezionista animato dall’impulso, per sua stessa natura allergico alle mediazioni. La mostra a Lugano procede nel solco dell’intuizione, accostando a opere che racchiudono l’inquieta energia creativa di Oehlen – capace di spaziare dalle colate di colore degli Anni Novanta ai richiami pop di inizio Anni Zero fino all’acceso minimalismo cromatico del 2020 con Space is the Place – lavori di Mike Kelley, Richard Phillips, Daniel Richter, Paul McCarthy, Rebecca Warren, Gino De Dominicis, Richard Artschwager, Duane Hanson e Julian Schnabel. Alla stregua della pittura, anche il collezionismo per Oehlen non conosce dinamiche ferree, ma conversazioni liquide, mutevoli, non per forza comprensibili e certamente non didascaliche, tuttavia di una potenza visiva indubitabile. Proprio come la mostra progettata dallo stesso Oehlen per il museo elvetico.
PAROLA AD ALBERT OEHLEN In questa mostra lei è l’artista, il collezionista e anche il curatore. Come ha combinato i tre ruoli e che cosa hanno in comune, dal suo punto di vista? Collezionista e curatore hanno qualcosa in comune. Come artista ho un ruolo diverso e, sempre come artista, in rapporto agli autori delle opere, possono entrare in campo sentimenti come l’ammirazione, il rispetto, l’invidia. Essere un artista, in particolare un pittore, influenza le sue scelte come collezionista? Sì, l’opera può confermare qualcosa che voglio esprimere con il mio lavoro. Oppure essere qualcosa che trovo del tutto impossibile. Parlando di scelte, in base a quali criteri ha selezionato le opere della sua collezione da includere nella mostra insieme ai suoi dipinti? Ho cercato di non prendere in considerazione la fama né il valore di mercato.
C’è una logica specifica che ha guidato l’allestimento della mostra e il dialogo tra le opere? Poiché non ci sono uno o più temi generali in questa raccolta di opere, ho dovuto raggrupparle in qualche modo. Mentre lo facevo, ho individuato un paio di argomenti che sembravano interessarmi. L’iperrealismo e le strade parallele al Surrealismo, ad esempio. Il titolo della mostra è geniale. Ritiene che l’umorismo conti nell’essere un artista (e anche un collezionista e magari un curatore)? Credo che l’umorismo sia così essenziale nell’arte e nella vita che non sia necessario pensarci molto. Le opere, al pari delle persone, che si portano dietro il loro umorismo come una etichetta non sono divertenti. Qual è la necessità che la guida nel momento in cui sceglie un’opera da aggiungere alla sua collezione? Non lo so. Vedo una cosa e penso: ecco!
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RUBRICHE
ARTE E PAESAGGIO
IL MUSEO NASCOSTO
Sulle colline tra Piemonte e Liguria, nel meraviglioso paesaggio del Gavi, esiste un luogo speciale: Fondazione La Raia, che invita artisti internazionali a creare opere in dialogo con il territorio. DA AZIENDA AGRICOLA A FONDAZIONE La storia di questo progetto agricolo-artistico parte da lontano. Quasi vent’anni fa nasce l’azienda agricola biodinamica La Raia, allo scopo di operare in sintonia con l’ambiente, rispettando i cicli naturali delle stagioni e valorizzando il lavoro dell’uomo. L’azienda punta su una produzione vitivinicola di qualità, recupera antiche varietà di cereali e l’allevamento brado di mucche di razza fassona. Allo stesso tempo investe in progetti educativi e didattici e ospita una scuola steineriana. La stessa ristrutturazione della cantina è avvenuta seguendo i principi di sostenibilità, utilizzando un tradizionale metodo locale in terra cruda detto pisé, con terra di scavo mescolata a sassi frantumati, per permettere maggiore traspirazione delle pareti. All’interno della tenuta è stato inoltre recuperato un piccolo borgo destinato in parte ad alloggi per i lavoranti, in parte ad agriturismo. ARTE A LA RAIA Più recentemente la missione della Fondazione amplia gli orizzonti rispetto all’azienda agricola e introduce il progetto Nel paesaggio. Artisti, paesaggisti, fotografi sono invitati a vivere e sperimentare i vigneti, i campi, i boschi del territorio. Questi interventi sono occasione di una nuova conoscenza dello straordinario paesaggio circostante. Tra le installazioni nella tenuta, oltre alle sculture permanenti di Remo Salvadori, sono visibili Coreografia e cartografia del collettivo COLOCO con Gilles Clément, un orto-giardino che circonda la guest house a forma di grande foglia, con alternanza di alberi da frutto e centinaia di essenze aromatiche, che vengono quotidianamente utilizzate nelle cucine. Palazzo delle Api, opera permanente site specific realizzata da Adrien Missika, che, in risposta alle attività dell’azienda biodinamica, crea un grande bee hotel, struttura destinata a fornire riparo alle diverse specie di insetti solitari. Tra i vari autori invitati al programma, Michael Beutler realizza Bales, balle di fieno multicolore disseminate sulle colline del Gavi. L’autore tedesco, noto per le sue grandi installazioni scultoree create con materiali semplici, legati a pratiche artigianali, ha da poco inaugurato la nuova opera Oak Barrel Baroque. Si tratta di una installazione realizzata in travi di legno e doghe di barrique riciclate dalla cantina vinicola. Ispirata alle pievi rurali, l’opera strizza l’occhio alle architetture neoclassiche palladiane: una sorta di piccolo teatro tra le vigne, dove rifugiarsi e riconnettersi con la natura. Claudia Zanfi
ARTE TRA LE VIGNE. FONDAZIONE LA RAIA
Michael Beutler, Oak Barrel Baroque. Fondazione La Raia, photo Claudia Zanfi
Lo studio è il luogo della genesi, è lo spazio (segreto e non) in cui avviene fino in fondo il miracolo dell’arte. Anche se negli ultimi decenni, cambiando metodi e approcci, gli artisti hanno generato nuove tipologie di relazione con esso, uscendo dai suoi confini ed entrando nella sfera nomade e pubblica del fare creativo, lo studio continua a essere, nell’immaginario collettivo, un perimetro di magiche imprese. Accessibili e non, gli studi sono luoghi da visitare perché spesso custodiscono l’anima di chi li ha vissuti e vive, luoghi in cui poter interagire con opere, oggetti, amuleti e semplici reperti di un’esistenza trascorsa in stretta congiunzione con l’arte e le sue declinazioni. Arte e vita, quindi. LO STUDIO DI SALVATORE MEO A ROMA Ed è ciò che si avverte entrando nello studio di Salvatore Meo a Roma. Pochi passi dal caos turistico di Fontana di Trevi ed ecco che, salite alcune rampe di scale e scansando le lenzuola di un b&b, è possibile assistere a un’autentica rivelazione: ogni millimetro di questo appartamento costituito da una manciata di stanze è rimasto com’era quando Meo, artista americano classe 1914, morto a Roma nel 2004, ci lavorava giornalmente. Due mezze bottiglie di plastica, schiacciate e quindi modificate, sono inquadrate in un box di legno; segni nevrotici si muovono nello spazio bidimensionale di un supporto di recupero, componendo grammatiche nuove e impenetrabili; sassi e altri profili contundenti vivono in strutture autoportanti e poi dipinti segnici, vortici fragorosi in grado di elaborare nuovi limiti. L’ARTE DI MEO Pionieristicamente Meo comprende le potenzialità degli scarti, perciò pratica compulsivamente l’assemblaggio per dare nuova linfa a ciò che non ce l’ha più, costruendo – da autentico homo faber qual è – un repertorio maniacale di nuove immagini, teatrini di una vita domestica impossibile in cui convivono frammenti di bambole con reti di ferro, bottiglie dalla forma collassata e plastica assembrata a pietre e legni. Sulla scia delle esperienze di Schwitters – avverte Mario Diacono nel 1965 – sperimenta “la pittura nella dimensione dell’uomo raccoglitore”. A dare il benvenuto ai visitatori c’è la curatrice Mary Angela Schroth, amica di Meo e testimone oculare della sua esperienza esistenziale nel segno dell’arte, nonché angelo custode di queste stanze e direttrice artistica di Sala 1 a Roma, il più antico spazio non profit d’Italia. Racconterà con passione e competenza la storia di questo artista che il sistema dell’arte ha accantonato, invitando a osservare le accumulazioni a parete o sui mobili, ma anche le complessità che sussistono per rendere fruibile e sostenibile un luogo di questo genere. Sperando che nel mentre un museo della città – magari proprio il Macro diretto da Luca Lo Pinto – possa rendere noto al grande pubblico il percorso straordinario di un artista che a Roma ha dato tanto. Lorenzo Madaro
ROMA STUDIO-MUSEO SALVATORE MEO Vicolo Scavolino 61 339 2397762
Veduta dello studio-museo Salvatore Meo, Roma. Courtesy Mary Angela Schroth
RUBRICHE
IL LIBRO
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ASTE E MERCATO
È una monografia particolarmente attesa quella data alle stampe da 24 ORE Cultura e dedicata a una delle artiste più incisive dell’epoca attuale, che dal prossimo 26 novembre sarà in mostra al Gropius Bau di Berlino. A ritmare le pagine del volume Zanele Muholi. Somnyama Ngonyama – Ave, Leonessa nera sono una novantina di scatti in bianco e nero realizzati dalla fotografa sudafricana classe 1972 che ha colpito nel segno durante la Biennale Arte di Venezia 2019. Chiunque abbia attraversato le Corderie dell’Arsenale non può non ricordare gli autoritratti in grande formato di Zanele Muholi come un elemento ricorsivo e ipnotico. GLI AUTORITRATTI DI ZANELE MUHOLI E proprio gli autoritratti tengono le redini della storia, individuale e globale, che si dispiega all’interno della monografia. A prendere forma è la vicenda di Zanele Muholi, testimone diretta dell’Apartheid e artista che ha scelto la via dell’attivismo visivo e politico per rispondere, colpo su colpo, alla minaccia del razzismo e della discriminazione, ferite aperte e sanguinanti del tempo presente. “Alla base dell’intolleranza, del razzismo e della violenza c’è l’ignoranza, alla quale si può porre un limite solo attraverso l’istruzione. Questo messaggio è per le generazioni future e per quanti avranno il desiderio di imparare”, ha affermato Zanele Muholi nell’intervista pubblicata sulle nostre pagine a pochi giorni dall’avvio della Biennale veneziana che ha consegnato al grande pubblico il suo messaggio, diretto, chiaro, senza mediazioni. “Il punto non è quando ho deciso di essere un’attivista, ma perché. È stata una necessità. Le circostanze in cui mi trovavo hanno determinato il mio attivismo. La gente non può cambiare il sistema se non si considera parte di esso”. ARTISTA E ATTIVISTA Dagli autoritratti raccolti nel volume emerge la presa di posizione di un essere umano – non solo e soltanto artista, fotografa e attivista – che fa scendere in campo il proprio corpo nel dibattito sulla blackness e sui diritti LGBTQIA. Il pensiero di Zanele Muholi trova una potente cassa di risonanza nelle parole delle autrici e poetesse che hanno consegnato alle pagine della monografia riflessioni dense – sulla poetica di Muholi, sul mezzo fotografico e sul nodo dell’identità –, alternate agli scatti, come in un racconto corale. Ama Josephine Budge, Fariba Derakhshani, Ruti Talmor e Deborah Willis sono alcune delle voci che si uniscono a quella di Zanele, accompagnando lo sguardo del lettore sino al dialogo finale tra l’artista e la curatrice Renée Mussai, intitolato emblematicamente Archivio del Sé, dove è il termine “archivio” a essere posto in discussione e calato nel cuore di un dibattito che non può più attendere. Arianna Testino
ZANELE MUHOLI (a cura di) ZANELE MUHOLI. Somnyama Ngonyama Ave, Leonessa nera
24 ORE Cultura, Milano 2021 Pagg. 212, € 79,90 ISBN 9788866485582 24orecultura.com Pag. 146, © Zanele Muholi. Courtesy of Stevenson Gallery, Cape Town/ Johannesburg, and Yancey Richardson Gallery, New York. Zanele Muholi, Faniswa, Seapoint, Cape Town 2016. Da Zanele Muholi: Somnyama Ngonyama, Hail the Dark Lioness (Aperture, 2018)
Ottima l’accoglienza per l’arte italiana alle aste londinesi di ottobre, che hanno visto nelle sale room il ritorno della presenza fisica, oltre che di record e atmosfere da pre-Covid. Da Christie’s, la Thinking Italian del 15 ottobre, così come la selezione presentata il giorno prima da Sotheby’s, continua a convincere, e tutti i lotti offerti hanno trovato un nuovo proprietario. L’OPERA DI GNOLI Tra questi, Sous la Chaussure di Domenico Gnoli (Roma, 1933 – New York, 1970) del 1967, già più che affascinante, arrivava in catalogo con una allure ancora più vivida, per essere tra i desiderata della grande retrospettiva dedicata all’artista dalla Fondazione Prada di Milano, che porta a compimento il progetto concepito da Germano Celant e sviluppato in collaborazione con gli archivi di Gnoli a Roma e Maiorca. L’opera aveva stime pre-asta tra 1,5 e 2 milioni di sterline ed è stata aggiudicata per un totale di £ 2.182.500 (oltre 2,5 milioni di euro). Tra le provenienze, pochi passaggi di proprietà precedenti, un lungo intervallo di tempo nella stessa collezione, dal 1985 a oggi, e partecipazione a importanti occasioni espositive internazionali. LA MOSTRA A MILANO Eseguita, secondo la caratteristica tecnica di Gnoli, con un misto materico di acrilico e sabbia, la tela vede campeggiare sulla superficie di grandi dimensioni (185x140 cm) una scarpa – tema ricorrente nella produzione dell’artista – dalle proporzioni monumentali. In procinto di staccarsi dal suolo nel compiere un passo, mostrando una visione ravvicinata di tacco e suola, l’oggetto viene osservato e restituito minuziosamente, diventando fuoco dell’attenzione e generatore di una sottile dissonanza che si apre tra l’adesione al dettaglio realistico e la sospensione allucinata, in quella “sfasatura rispetto a quanto sarebbe richiesto da una visione ‘normale’”, di cui Barilli scriveva nel catalogo per la mostra alla Galleria de’ Foscherari nel 1968, dove pure si legge: “Ma si tratta di un vedere, di un percepire che non si possono più dire neutri e passivi, bensì in funzione di segrete ossessioni, tali da ridare alle cose un potere di choc, di ‘nausea’ attraente e repellente nello stesso tempo”. E nel Podium della Fondazione Prada, che fino al 27 febbraio ospita 100 opere realizzate da Domenico Gnoli tra il 1949 e il 1969 e altrettanti disegni, c’è finalmente occasione di fare esperienza di questa fascinazione per gli oggetti, della magia insita in presenze apparentemente consuete, ordinarie, familiari, e di aprire nuove ipotesi su quanto quest’artista, innamorato del Rinascimento italiano, risuoni ancora nella ricerca visiva contemporanea. Cristina Masturzo
CHRISTIE’S DOMENICO GNOLI
Domenico Gnoli, Sous la Chaussure (Under the Shoe), 1967. Acrilico e sabbia su tela, 184,7 x 140 cm. Courtesy Christie’s Images Ltd, 2021
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IN COLLABORAZIONE CON IN COLLABORATION WITH
MAIN PARTNER
ALEXANDER CALDER – DIMANCHE DANS LE JARDIN – 1974 – GOUACHE SU CARTA – 100 X 75 CM – FONDAZIONE MARGUERITE E AIMÉ MAEGHT, SAINT-PAUL-DE-VENCE © 2021 CALDER FOUNDATION, NEW YORK / ARTISTS RIGHTS SOCIETY (ARS), NEW YORK / SIAE, ROME
ALEX URSO [ artista e curatore ]
on il suo mezzo milione di follower su Instagram, Giulio Mosca (Genova, 1991), detto “Il Baffo”, è un autentico fenomeno del fumetto italiano. Lo abbiamo incontrato per sapere qualcosa in più su di lui e sul suo ultimo libro: Clorofilla.
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Cosa significa per te essere fumettista? Essere fumettista mi dà la possibilità di fare ciò che mi riesce meglio e ciò di cui ho più bisogno: comunicare. La mia non è stata una scelta ponderata: arrivo dall’illustrazione e dalla grafica. Un giorno ho deciso di aggiungere del testo a quel che disegnavo, e ho capito che in questo modo riuscivo a esprimere tanto con poco.
Il tuo ultimo libro è da pochi mesi in libreria per Feltrinelli Comics. Si tratta di una storia d’amore semplice, e quindi difficilissima, tra due giovani. Ce la racconti? Clorofilla racconta una storia d’amore tra due giovani adulti. Subito dopo le prime delusioni e i grandi amori adolescenziali. È una di quelle storie d’amore che deve incastrarsi con la vita vera, nella quale si comprende che lo stare insieme non è solo coccole e tramonti. Non definirei Clorofilla solo una storia d’amore ma piuttosto la parentesi di vita di due persone che stanno insieme. Un amore che si deve districare tra un rapporto a distanza, gli straordinari non pagati e la prima convivenza.
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Sei nato a Genova nel 1991 e sei considerato uno dei talenti più brillanti dell’illustrazione e del fumetto italiano. Ci aiuti a conoscerti meglio? A Genova ci sono stato fino alla fine delle scuole superiori. Mi sono trasferito a Torino dopo aver vinto una borsa di studio allo IED, dove mi sono laureato. Ho cominciato a fare il freelance già durante gli studi e ho fondato una startup insieme a due amici. Ci ho lavorato come direttore creativo per circa quattro anni. È in quel periodo che è nato “Il Baffo”. Avevo bisogno di ritrovare la mia creatività, qualcosa che fosse separato dal lavoro. Ho aperto la mia pagina Facebook a dicembre 2016 con l’intento di pubblicare una striscia al giorno. Da allora non ho mai smesso.
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Eppure è un libro che tu stesso hai definito “senza pretese”. Spesso noi autori crediamo (o ci convinciamo) di avere una missione: scrivere storie che pretendono di insegnare qualcosa a qualcuno. Clorofilla no, è solo una storia. È sicuramente un racconto nel quale possono rivedersi in molti e sarà proprio l’esperienza intima del lettore a dargli un significato più profondo. I tuoi fumetti sono quasi sempre sguardi “romantici” sulle relazioni umane. Cosa ti interessa raccontare? Utilizzo l’archetipo della coppia come “cavallo di Troia” per raccontare tematiche complesse che sarebbe difficile condensare in una sola vignetta. Mi piace pensare che leggere una mia opera possa essere un equilibrio fra intrattenimento e riflessione. Su Instagram hai più di mezzo milione di follower. Quanto il rapporto con i social influenza la tua professione? Come sta cambiando il mondo del fumetto, anche in relazione alle nuove modalità di autopromozione sul web? Instagram è il luogo in cui il maggior numero di persone entra in contatto con le mie creazioni. Quindi sì, influenza la mia professione: è la mia professione! È fantastico poter arrivare a così tante persone in così poco tempo, e soprattutto è bello che queste persone possano parlare tra loro o direttamente con me creando una community viva e attiva. ilbaffogram
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a scena è di quelle che non puoi scordare. Osservatela bene: un professore con tanto di tocco e toga tiene un importante discorso davanti a una platea fantasma di tremila sedie bianche e vuote nel curatissimo campus dell’americana James Madison Academy. Che dire? Certo, non può che essere l’installazione di un grande artista. E pure capace di toccare le paure più nascoste dell’America di oggi, ma forse non solo: il senso dell’insegnamento, il vuoto delle parole, una certa atmosfera di morte e di spaesamento – con in più quella sfumatura magistrale di simulazione, dato che tutto sembra una perfetta messinscena... Sì, giusto – praticamente esatto, tranne che per una cosa: che non si tratta affatto di un’opera d’arte, e che non è stato un artista a realizzarla. Tutto è infatti nato da Patricia e Manuel Oliver, due coniugi che persero il figlio 17enne, Joaquin, nella strage alla scuola di Parkland, in Florida, nel 2008 – una delle tante, si direbbe, dato che solo nel 2020 le vittime di questo genere di episodi ammontano a oltre 3mila (senza contare altri 15mila giovani feriti da armi da fuoco ogni anno). Per sensibilizzare l’America a mobilitarsi per fermare queste odiose stragi di giovani, che troppo spesso hanno luogo in licei e campus universitari, i coniugi Oliver, hanno fondato l'associazione “Change The Ref”, che più o meno significa "cambiamo i referees" – cioè gli arbitri, coloro che stabiliscono le "regole del gioco". Insieme hanno organizzato questa gigantesca scenografia intitolata The Lost Class –
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cioè la “classe perduta” di giovani vittime che non hanno potuto vivere il giorno del diploma, dato che sono state uccise prima. “Abbiamo perso nostro figlio tre mesi prima che si diplomasse”, hanno commentato gli Oliver, “conosciamo esattamente cosa si prova a essere lì a ricevere il diploma. Proprio per questo sappiamo cosa stanno vivendo migliaia di genitori come noi”. Il gruppo ha pertanto messo in piedi la cerimonia, con tanto di palco, microfoni, luci e distesa di sedie vuote, tutte per onorare i “nuovi diplomati” della fantomatica James Madison Academy. Ma non si è limitato a questo: per tenere un bel discorso a questi “assenti” ha invitato come keynote speaker nientemeno che David Keene, ex presidente della National Rifle Association (NRA), la potente lobby delle armi, e John Lott, giornalista trumpiano e sostenitore del diritto all’autodifesa. Così, quando il 4 giugno scorso i due sono saliti sul palco a parlare in favore del Secondo Emendamento e del diritto di difendersi con le armi, non hanno capito che gli studenti erano assenti non a causa della pandemia, ma che quella platea vuota era lì solo per loro, a ricordare le vittime della loro stessa sconsiderata politica. In realtà, l’università James Madison non è mai esistita: il nome era solo una beffa per ricordare il presidente degli USA che nel 1789 aveva introdotto proprio quel fatale emendamento. Come se non bastasse, Change The Ref ha poi diffuso sui social un video della lecture di Keene, in cui il suo pomposo discorso viene intervallato dagli audio agghiaccianti di studen-
ti che cercano di comunicare durante una di queste stragi. I coniugi Oliver infine hanno realizzato The Incomplete Museum, con gli oggetti, le foto, i diari del figlio – la cui vita è rimasta appunto "incompiuta". A tutti coloro che si lamentano che l’arte di oggi non sa prendersi carico della realtà che la circonda, che non riesce a incidere sulle coscienze, che è diventata un orpello per miliardari globali, forse, si dovrebbe ricordare che, se l’arte si è ridotta così, la colpa è anche di chi la fa. Forse, dovremmo guardarci di più intorno: intorno non c’è più una folla di spettatori passivi, contemplanti o magari osannanti, ma un numero sempre crescente di attori e di autori in grado di impugnare la realtà, per sgradevole che sia, e di trasformarla in una immagine – come quella potentissima che avete sotto gli occhi. (Devo la segnalazione di questo enactment a Jacopo Bedogni)
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LA CLASSE DEGLI ARTISTI ASSENTI testo di
MARCO SENALDI [ filosofo ] L
03.10.2021 – 13.02.2022 MASI Palazzo Reali
dal 09.05.2021
Partner principale
Partner scientifico Antonio Ciseri Cesira Bianchini, 1850 Olio su tela MASI Lugano Deposito da collezione privata
Oehlen
05.09.2021 – 20.02.2022 MASI LAC
Sentimento e Osservazione
Arte in Ticino 1850 –1950 Le collezioni del MASI
Con il sostegno di
Marianne von Werefkin Il Ticino, 1927 Olio e tempera su cartone Museo d’arte della Svizzera italiana, Lugano Collezione Cantone Ticino © Museo d’arte della Svizzera italiana, Lugano
grandi quadri miei con piccoli quadri di altri
Fondatori
Albert Oehlen Space is the Place (dettaglio) 2020 Olio su tela Foto: Simon Vogel © 2021, ProLitteris, Zurich
Nicolas Party Rocks, 2014 Pastello morbido su tela 150 x 180 cm Collezione Donald Porteous Foto: Michael Wolchover © Nicolas Party
27.06.2021 – 09.01.2022 MASI LAC
Albert
Partner istituzionale