CHRISTIAN CALIANDRO [ storico e critico d’arte ]
#67
SFUMATURE
GIUGNO L AGOSTO 2022
O
Il fastidio per la "rottura" dell’arte – che coincide con la finzione – è principalmente il fastidio per ioioio, per il protagonismo e l’egocentrismo. E, di contro – o meglio: su un altro, differente piano di esistenza – un approccio orizzontale che tuteli la relazione e l’interrelazione, lo “sbocciare nella reciprocità” di cui parlava Carla Lonzi negli Anni Settanta dopo essere però stata profondamente delusa proprio dalla mancata “reciprocità” da parte degli artisti alla fine del decennio precedente. L’orizzontalità riguarda naturalmente anche il tempo, organizzato non in una linea progressiva che promuove opzioni e soluzioni escludendone altre, operando sostituzioni e successioni, ma in un insieme di curve, fatte di recuperi e di ritorni. Il discorso è che, evidentemente, alcune opzioni importanti rimangono sempre uguali a se stesse, anche finendo provvisoriamente nel dimenticatoio perché “non servono più”, “non sono più utili” o “attuali”…
Occorre comprendere, ma comprendere sulla propria pelle, che l’attuale non è il contemporaneo, che l’attualità non ha nulla a che fare con il contemporaneo. Artaud è contemporaneo, certo, Kaprow è contemporaneo, il Living Theatre è contemporaneo. Si tratta probabilmente di riattivare delle funzioni, di recuperare dei codici, di reimmettere linguaggi e ricostruire situazioni.
Occorre comprendere, ma comprendere sulla propria pelle, che l’attuale non è il contemporaneo, che l’attualità non ha nulla a che fare con il contemporaneo. Un’arte sfrangiata, smagliata, aperta, e un’opera propensa a fondersi e inoltrarsi, hanno bisogno necessariamente di un altro tipo di spazio rispetto a quello espositivo, e soprattutto di un altro tipo di interazione e di incontro con gli individui rispetto a quello concesso e garantito dal dispositivo della “mostra”. L’arte sfrangiata è un’arte utile, in grado cioè di fondersi sempre più con il contesto in cui si inserisce e a cui appartiene: l’opera, in questo senso, serve a compiere un percorso. L’artista comprende così che, a un certo livello, il suo lavoro diventa realmente e non retoricamente collettivo, fatto cioè da molti, dagli individui che conosce e che incontra, e con cui condivide l’esperienza profonda, immateriale, relazionale (che è poi la vera opera, intangibile, effimera, living: l’esistenza che accade; l’esistenza nel momento stesso in cui accade). Questo vuol dire di fatto ammettere senza riserve gli stili e i non-stili, i gusti e i non-gusti distanti da sé. Ammettere cioè l’Altro, accoglierlo. In caso contrario, si ricade inevitabilmente nella routine artista-opera-dispositivo/mostra-spettatore che ammira e contempla, passivamente. Si ricade cioè nell’artista troppo concentrato sulla sua “opera”, e sul fatto che l’opera sia distinta e separata da tutto il resto, che coincide con l’eliminazione e la rimozione dell’imprevisto: vale a dire, ancora una volta, l’evento – qualsiasi evento – interpretato (erroneamente) come errore. Si ricade nell’artista che interpreta il cedere parti, porzioni, quote e gradienti di autorialità come perdita di controllo rispetto al proprio stile, alla propria ricerca e soprattutto alla propria identità.
L EDITORIALI L
ggi siamo invasi, inondati da opere scagliate come oggetti aggiunti al mondo, come oggetti in più: sembra quasi che ci sia un’insegna luminosa, un grande segnale che recita: “Ehi, eccomi, sono un’opera d’arte! Guardatemi! Sono stata fatta da un artista!”. Beh, credo che questo funzionamento sia esattamente opposto a quello che ci vorrebbe in questo momento storico… Amo infatti le artiste e gli artisti in grado di costruire qualcosa che sia come “tutto ciò che scorre”, che non segnali e non indichi ossessivamente di essere un’opera ma che si interessi a tutto il resto meno che all’(auto)affermazione. Il fastidio per la “rottura” dell’arte – che coincide con la finzione – è principalmente il fastidio, ormai l’hai capito, per ioioio, per il protagonismo e l’egocentrismo che si manifestano a sfavore dell’opera e del suo funzionamento. Questa centralità fittizia, questo continuo, ossessivo riproporre formule perché esse confermano un’idea e una pratica dell’identità che è anch’essa fittizia, illusoria, artificiale (l’anticultura di cui parlava Carmelo Bene).
21