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SUL FILO DELLA MEMORIA

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CALENDARIO EVENTI

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Così scoprii Michael Schumacher

FLAVIO BRIATORE RACCONTA LA SUA STORIA IN FORMULA 1.

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di Danilo Castellarin

Delicato mica tanto perché è un uomo dalle risposte brucianti e i commenti abrasivi. Questo non ha impedito a Flavio Briatore un palmarès invidiabile: sette titoli mondiali di F1, di cui quattro Campionati del Mondo Piloti con Schumacher e Alonso e tre Campionati del Mondo Costruttori con Benetton e Renault. Nonostante i successi, un certo mondo imprenditoriale lo ha sempre evitato, come fanno quelli che girano al largo dalle granturismo taroccate piene di adesivi. Qualcuno ha scritto che il Billionaire era il “covo della pacchianeria italiana” negandogli il ruolo di simpatica canaglia alla Jean Paul Belmondo o alla Vittorio Gassman del ‘Sorpasso’, quello che strombazza per arrivare primo. Lui ha sempre risposto a muso duro, con la moneta sonante della vittoria, talvolta glissando sulle tasse ma conquistando belle donne e lavorando a fanco di Benetton, Trump, Renault. Mai di Ferrari. Non è un caso se, futando la sua esperienza, Liberty Media lo abbia richiamato proprio quest’anno nel Circus della F1 per sviluppare collaborazioni commerciali e costruire relazioni con sponsor e promoter. «Credo che la mia forza sia stata di non accontentarmi mai dei luoghi comuni, dei santoni, dei personaggi affermati che dettavano legge. Ho sempre cercato di scoprire o valorizzare i tecnici e i piloti che valevano di più e che, per una ragione o per l’altra, restavano nell’ombra. Le squadre vincenti si anno cos futan o i mig iori e metten o i a avorare insieme. on a Benetton sono partito dai cervelli di Ross Brawn, Pat Symond, Rory Byrne, Nigel Stepney». Con i piloti è stato il mentore di Michael Schumacher, Mar Webber, arno Trulli, Giancarlo Fisichella, Alex Wurz, Fernando Alonso e Romain Grosjean. Spontaneo domandargli come scoprì il più grande di tutti, Schumacher. «Bastava poco per capire che era un vincente.

A dire il vero non ho mai capito perché gli altri team non l’avessero già ingaggiato. aveva ca ito enissimo erfno i gran e rton enna che gli fece una ramanzina, roba da ridere. E sa perché? In Formula 1, quando uno va forte, non è che lo accolgono con violini, rose rosse, sorrisi e pacche su e s a e. e acche, se ossono, g ie e rif ano a un a tra arte erch dà fastidio, rompe gli equilibri consolidati. Succede così in ogni ambiente di lavoro e in Formula 1 ancora di più». Fedele al suo metodo, quando Schumacher arriva alla Benetton, Briatore caccia Roberto Moreno che, l’anno prima, aveva sostituito Alessandro Nannini dopo l’incidente con l’elicottero. «L’ho fatto per un semplicissimo motivo: Schumi andava più forte. Anche Piquet si trovò in squadra con Michael e non fu sempre contento. E pure Patrese si lamentava con me in continua ione. Facevamo iscussioni infnite e io g i icevo iccar o, ai un po’ quello che vuoi, prendi la macchina che preferisci, adattala come ti pare’. E Michael restava il più veloce. È così, non c’è niente da fare». Probabilmente nemmeno Leclerc sarebbe felice di avere in squadra Verstappen. « a verit che a Formu a non un ente i enefcen a o un centro residenziale per pensionati. Se nella vita normale ci sono tante diplomazie, premure e incertezze, in Formula 1 conta una cosa soltanto: il lap time, il tempo sul giro. E chi lo fa più basso è il più bravo. Punto». Certo Briatore non ha il tocco delicato del neurochirurgo e forse in un negozio di porcellane farebbe disastri. Ma al boss di Verzuolo (il paese in provincia di Cuneo dov’è nato il 12 aprile 1950) va riconosciuto che è stato l’unico italiano a conquistare raffche di allori mondiali, pur non lavorando a Maranello. Non è poco. La sua avventura inizia con Luciano Benetton. Lavora per lui a New York dove apre una serie di negozi. «Quando capii che quell’esperienza era fnita stavo per accettare un incarico da Donald Trump. Ma poco prima di frmare, Luciano mi disse Vieni con me in Inghilterra e segui il mio team di F1’. Gli chiesi sei mesi di tempo. Dovevo occuparmi della parte commerciale. Dopo tre mesi ero il responsabile della squadra. Ci sono rimasto parecchi anni». Impressionante la sua logica stringente, che guarda sempre al sodo. Se ad esempio gli domandi qual era stato il suo rapporto con l’automobilismo sportivo e le corse prima di ricevere l’incarico da Benetton, lui ti guarda dritto negli occhi e risponde «zero assoluto». Poi ridacchia e aggiunge: «non avevo visto neppure una gara, ma non c’entra. Una macchina di Formula 1 è un prodotto. Lo sanno tutti che la Formula 1 è più business che sport come tutti sanno che, se non hai i soldi, non puoi correre. E i soldi arrivano dal business, mica dallo sport o dalla passione». Ma Flavio Briatore è sempre e solo il duro che sembra? «Mi sono fatto questa fama perché pretendevo molto e non andavo per le spicce con i piloti. Però bisogna essere consapevoli che questi ragazzi guadagnano cifre importanti. E devono meritarsi i soldi che si portano a casa. Devono impegnarsi, darsi da fare. Altrimenti cambiano lavoro. C’è gente che fa fatica a arrivare a fne mese. uin i chi ha a ortuna i gua agnare in un anno quello che una persona normale guadagna in dieci, vent’anni, deve dimostrare che non è un allocco. Deve dare di più»

SUA MAESTÀ “SCUDETTO STRETTO”

COMPIE 50 ANNI LA PRIMA DI TUTTE LE ALFETTA, COMPLEANNO CHE LA CONSEGNA ALLA LEGGENDA. INNOVATIVA, BELLA NONOSTANTE IL DESIGN DI FORTE ROTTURA E CARATTERIZZATA DA UNA MECCANICA SOPRAFFINA, DA MACCHINA DA CORSA. SI RICONOSCE PER L’IMMANCABILE SCUDETTO LUNGO E STRETTO AL CENTRO DEL MUSO, COME UN DIADEMA.

di Luca Marconetti

“Quando fnisce un amore ti senti un vuoto nella testa e non capisci niente”, canta Riccardo Cocciante. Non certo una bella sensazione che, per , a un certo punto, dirigenti e tecnici Alfa Romeo, sarebbero stati obbligati a far vivere alla clientela, costretta a sostituire la Giulia (in realtà, primariamente la “derivata” 1750), auto eccezionale ma ormai bisognosa di un’erede totalmente nuova, innovativa e in grado di rinverdire i proverbiali pregi Alfa Romeo: sportività, potenza, blasone. Stiamo parlando del “Progetto 116”, avviato già nel 1967 per defnire la nuova berlina vertice di gamma, partendo letteralmente dal foglio bianco, sia meccanicamente che esteticamente.

MECCANICA SOPRAFFINA

Il Reparto Progetti infatti, per stupire concepirà un’architettura pi consona a una vettura da competizione che non a una stradale, specialmente se berlina. Si parte da un test, effettuato sul passo della Futa, fra tre delle pi performanti Alfa Romeo allora

esistenti: la 2000 Sportiva del 1954, dotata di sospensione posteriore a ponte De Dion e due prototipi di Giulia GTA (proprio per scegliere l’architettura pi adatta a questo modello) dotate nientemeno che del V8 di 2 litri della 33, una a ruote indipendenti come la Giulia T , una a quadrilateri trasversali. Il pilota e storico capo collaudatore Consalvo Sanesi sceglierà, come base del progetto, la 2000 Sportiva. Così, a opera ultimata, nonostante per la GTA si scelga, per questioni di omologazioni, di mantenere il pianale Giulia Sprint GT, portando Autodelta a utilizzare il famoso “slittone”, la prima caratteristica a saltare all’occhio è il raffnatissimo retrotreno: ponte De Dion con ancoraggio trasversale tramite parallelogramma di Watt (per mantenere sullo stesso piano le oscillazioni verticali evitando scuotimenti trasversali) in grado di sostenere lo schema “Transaxle”, ossia il gruppo cambio (a 5 marce), differenziale e frizione (monodisco a secco, che permette quindi all’albero di trasmissione di innestarsi direttamente sul volano ruotando sempre alla medesima velocità dell’albero motore) tutto collocato al retrotreno per neutralizzare i pesi sui due assi. Completano l’insieme: struttura di sostegno tubolare formata da uno snodo di collegamento alla scocca e bracci longitudinali per sostenere le ruote freni a disco in-board per eliminare le masse non sospese barra stabilizzatrice, ammortizzatori idraulici telescopici e molle elicoidali. Avantreno a ruote indipendenti, quadrilateri trasversali che ospitano gli ammortizzatori telescopici, barre di torsione longitudinali, barra stabilizzatrice, puntone di reazione superiore obliquo. I freni sono, ovviamente, a disco anche all’anteriore. Certamente non inedito ma sempre validissimo è il propulsore, il 1779 cm 4 cilindri in linea longitudinale con distribuzione bialbero in testa, totalmente in lega leggera, montato sulla 1750, a sua volta di derivazione Giulia. Qui per , l’alimentazione con due carburatori doppio corpo orizzontali Weber 40 DCOE/32, il nuovo disegno dei collettori di scarico e una coppa dell’olio anch’essa in lega, permetteranno una potenza di 122 CV DIN a 5500 giri/min. Novità anche per il raffreddamento, garantito da una ventola azionata da un termostato e non pi dal motore.

AFFASCINANTE DISEGNO DI ROTTURA

A inizio 1968, il Progetto 116, è approvato. Per il design si parte dallo studio di una berlina di grandi dimensioni, già in stato avanzato, interni compresi, presso il Centro Stile Alfa Romeo di Arese. Il design quindi, sarebbe evoluto di pari passo alla meccanica, permettendo una perfetta fusione fra le due componenti: fn da subito apparirà chiaro che l’Alfetta avrebbe introdotto uno stile di rottura ma in grado di reinterpretate alcuni stilemi irrinunciabili per la casa. Ci si concentra sulle fgure geometriche, sui tagli netti, su un andamento che segua morbidamente il proflo del cuneo, flone stilistico che avrebbe caratterizzato le grosse Alfa fno a tutti gli anni 2000. Come possiamo vedere fn dalle immagini dei primi prototipi, il frontale, leggermente spiovente, con cofano piatto e proflo orizzontale incassato, presenta i tradizionali 4 fari tondi inscritti in una mascherina interrotta al centro, dove un “supporto” ricavato sulla lamiera incornicia e nobilita lo stupendo scudetto a 7 listelli col logo del Biscione in cima, dal proflo esile e allungato (questo, quando nel 1975 sarebbe stato sostituito da uno pi largo e dall’aspetto un po’ posticcio, avrebbe portato gli appassionati a soprannominare la prima Alfetta, con un misto di malinconia e riverenza, “Scudetto Stretto”). Pi complessa la defnizione della fancata: fn da subito elemento considerato irrinunciabile è il proflo a diedro onnipresente, che si interrompe solo per lasciare spazio al “labbro” del passaruota anteriore, il “timone” fondamentale di una vettura sportiva e prestazionale e zona dove maggiormente cade lo sguardo. Il motivo, in effetti, rende la fancata dinamica, slanciata e visivamente leggera. Anche la linea di cintura non è dritta ma, all’altezza del de ettore del fnestrino posteriore, “sfugge” verso l’alto con un proflo a gomito che in uisce sulla uidità del disegno. I montanti sono sottilissimi, i vetri, per la prima volta su un’Alfa Romeo, curvi, parabrezza e lunotto inclinati (incollati alla carrozzeria senza guarnizioni). Così, gli interni risultano luminosi, spaziosi e confortevoli - nonostante il massiccio tunnel centrale - mentre l’ampia superfcie vetrata apribile (compresi gli ampi de ettori anteriori), garantisce una ventilazione ottimale. A rappresentare continuità con il resto della gamma Alfa, le cromature discrete e i cerchi a 14 fori con dadi a vista e “colonnina” coprimozzo recante il Biscione. Importante, quasi monolitica, benché proporzionata, la coda alta e corta, mossa dal “solito” proflo a diedro orizzontale, ripulita da ogni orpello, se non per la scritta in corsivo del modello e i due grandi gruppi ottici rettangolari e ospitante un bagagliaio capientissimo.

Al lancio è disponibile nei colori biancospino, grigio indaco, beige cava, bleu olandese, azzurro Le Mans, prugna, rosso Alfa, faggio, giallo Piper e verde pino. A richiesta: nero e i tre metallizzati grigio medio, grigio chiaro e verde oliva.

L’INIZIO DELLA LEGGENDA

L’auto viene svelata uffcialmente alla stampa nei pressi di Trieste a maggio 1972. Il nome scelto è Alfetta, che rimanda alla tradizione corsaiola del marchio milanese: è quello che, gli appassionati affbbiarono alle monoposto 158 e 159 che vinsero i Campionati del Mondo F1 nel 1950 con Nino Farina e nel 1951 con uan Manuel Fangio. Ma non solo: quelle vetture, così come l’Alfetta, che seppur è una berlina da famiglia, presentano struttura meccanica Transaxle. A stupire, sono gli interni, squisitamente Alfa, moderni e ben costruiti: l’attenzione è al conducente, che pu contare su 5 strumenti protetti da un’ampia palpebra nera, su una leva del cambio corta e ben impugnabile e sull’ampio volante - regolabile in altezza e inclinazione - con corona in legno, lo stesso materiale usato per guarnire il cruscotto davanti al passeggero, la scritta del modello. Ampi ma suffcientemente proflati i sedili, in panno. Curioso (e scomodo) il lavavetro a pedale. Optional i poggiatesta regolabili, i rivestimenti in vinile Texalfa e il lunotto termico. I tester rilevano un comportamento neutro e preciso grazie alla perfetta ripartizione dei pesi, una tenuta di strada eccellente e un brio notevole: lo 0-100 m/h si copre in appena 9,8 secondi mentre la velocità massima è di 180 m/h Proprio le doti che ci si aspetta dalla pi veloce berlina 1.8 della sua epoca, col nome di una vettura due volte campionessa del Mondo. Durante tutti gli anni ’70 le lotte sindacali e le agitazioni all’interno delle fabbriche scuotono il comparto automobilistico e pure l’Alfa Romeo si trova in acque molto agitate. Il risultato sarà che anche l’Alfetta andrà incontro, purtroppo, a problemi di corrosione oltre a una cronica fragilità dei leveraggi del cambio, lunghi e articolati, essendo in blocco col retrotreno. Nonostante questo, oggi, guidare un’Alfetta signifca divertirsi con un’auto veloce, progressiva e brillantissima e poi: con quel magnifco bialbero che suona appena davanti ai piedi, non le si perdona tutto La storia dell’Alfetta berlina è lunghissima e costellata di innovazioni come probabilmente per nessun’altro modello del Biscione. Noi ci fermiamo alla prima versione, pura e originale. Ma solo per ora: tra un paio d’anni, torneremo su questo portento di vettura per raccontarvi anche le altre Alfetta berlina ugualmente meritevoli di attenzione.

Si ringrazia per la sempre preziosa e amichevole collaborazione Giovanni e Laura Ricci, legatissimi alla loro Alfetta, che preferiscono spesso ai tanti modelli prestigiosi della loro collezione.

BELLEZZA CLANDESTINA

AVREBBE DOVUTO RINVERDIRE I FASTI DELLE TRADIZIONALI COUPÉ ALFA (DALLA GIULIETTA SPRINT ALLA 2000 GT) MA ARRIVÒ NEL MOMENTO SBAGLIATO, IN PIENA CRISI PETROLIFERA. LA VERSIONE SBARAZZINA DELL’ALFETTA EBBE COMUNQUE UN DISCRETO SUCCESSO MA PER FASCINO, POTENZA E PRESTIGIO, AVREBBE MERITATO BEN ALTRA SORTE.

di Luca Marconetti

Se fosse stata presentata in concomitanza con la berlina, avrebbe avuto sicuramente ben altro successo. Invece, come spesso accade nella storia dell’Alfa Romeo, la versione più ricercata dell’Alfetta, la GT, destinata a riprendere i gloriosi fasti di modelli ormai tradizionali in gamma, quali 1900 e Giulietta Sprint, o Giulia, 1750 e 2000 GT, avrà la sola colpa di arrivare sul mercato tardi, nel 1974, e nel momento sbagliato, in piena crisi energetica conseguente la guerra del Kippur. Inoltre, il mercato dell’auto di quel periodo, in continua evoluzione, non apprezza più come prima le versioni coupé, ritenute frivole e poco pratiche. Eppure i presupposti per realizzare una vettura di successo ci sono tutti: su commissione della Casa, Giugiaro, che ha già disegnato per Bertone la Giulia GT, ora, fondata l’Italdesign, propone subito concetti interessanti e piacevoli dal punto di vista estetico, come per esempio grandi coupé flanti e sportive ma adatte a ospitare 4 persone comode; proprio quello che l’Alfa Romeo, scartata l’idea di una 2 porte derivata dall’Alfetta berlina, vuole. Il suo lavoro comincia tra il 1967 e il 1968 su base 1750 e perfno su un’auto estrema come la 33, sulla quale base nascerà l’Iguana… Se non ci credete, basta confrontare la linea di cintura e il trattamento del proflo di coda di questa e della futura Alfetta GT.

L’ALFETTA GT (1974-1976)

Ma torniamo alla nostra protagonista. Dopo continui rinvii e ripensamenti, in Alfa si decide di portare avanti comunque la tradizione delle coupé derivate dalle berline, a partire dal nome: la nuova auto

si chiamerà Alfetta GT, sigla storica che la dice lunga sull’eredità che questa vettura raccoglierà. Contemporaneamente a Giugiaro - al quale viene consegnato uno schema di abitabilità che prevede un passo accorciato di 110 mm (2400 invece che 2510 mm) e la possibilità di abbassare il tetto di 10 cm - anche il Centro Stile Alfa Romeo lavorerà al progetto. Entrambi proporranno una linea fastbac ma, mentre l’ultimo sarà in uenzato da troppe richieste provenienti dagli altri reparti presentando delle linee non convincenti, Giugiaro, fn dai primi prototipi (3 in tutto), imposta una linea allo stesso tempo sportiva e molto abitabile, fortemente caratterizzata specialmente in coda. Questa risulterà infatti alta, con il lunotto decisamente inclinato, quasi senza soluzione di continuità col tetto, che conclude sfuggente e dinamica su un accenno di spoiler posto sullo spigolo superiore, mentre il portellone (voluto da Giugiaro) risulta incassato fra due pinnette leggermente abbozzate. La zona inferiore invece, presenta l’ampia fanaleria suddivisa in quattro spicchi, inserita, insieme alla targa, in un proflo incassato, eco delle precedenti Giulia e Giulia GT. Inediti risultano invece il parabrezza molto spiovente e le prese d’aria di sfogo abitacolo all’altezza dei montanti. Fiancata e frontale, pur distinguendosi nettamente dalla berlina, presentano elementi comuni ad essa: la linea dei fnestrini con proflo a gomito (nel caso della GT accennato anche sotto al de ettore anteriore), il muso a sviluppo orizzontale con 4 fari, lo scudetto centrale (più schiacciato, a 4 listelli), i paraurti a lama (senza rostri) mentre le maniglie incassate sono inedite (saranno successivamente adottate anche dalla berlina).

Questi accorgimenti permetteranno un miglioramento del Cx e un aumento della brillantezza. Giugiaro addirittura, presenterà, prima un frontale con fari a scomparsa, poi parzialmente celati da palpebre, come sulla Montreal ma entrambi verranno accantonati per ragioni di costi, così come sarà eliminato il labbro superiore del cofano per carenare i tergicristalli, accorgimento mai visto prima di quel momento su un’auto di serie: sono i segnali che, gli ultimi dettagli, sarebbero stati approntati dal Centro Stile interno. Luminosissimo l’interno - totalmente realizzato dal Centro Stile Alfa - comodo per 4 persone su poltrone singole dedicate (in panno o Alfatex) e il bagagliaio, che risulta perfno pi ampio della berlina, mentre l’elemento di maggior novità è sicuramente l’originalissimo cruscotto (che, della berlina, mantiene appena il volante) con il solo contagiri davanti al guidatore, come sulle auto da competizione di una volta, in totale sprezzo della velocità che si sta raggiungendo, mentre tutti gli altri strumenti sono raggruppati in un blocco centrale. Fra le raffnatezze, i vetri discendenti anche dietro.

L’auto viene approvata nel luglio del 1971 ma presentata solo nel giugno del 1974: tolto il già citato accorciamento del passo, la meccanica col motore di 1,8 litri, è inalterata rispetto alla berlina. Le tinte disponibili sono le stesse della berlina, alle quali si aggiungono l’avorio e i metallizzati beige chiaro, luce di bosco e blu Pervinca.

ALFETTA GT 1.6/2.0 GT VELOCE/2.0 GT VELOCE L (1976-1980)

A fne maggio 76 esce di scena la 1.8 e la gamma si sdoppia in due modelli, 1.6 e 2000 GT Veloce. Entrambi mantengono i due carburatori orizzontali doppio corpo da 40” Weber DCOE o Dell’Orto DHLA ma il primo è un 1570 cm³, stessa cilindrata dell’originario motore Giulia, sempre bialbero, in grado di erogare 109 CV a 5600 giri/min per una velocità massima di 175 km/h; il secondo è un’unità di 1962 cm³, cilindrata ottenuta da un rialesaggio del 1.8, erogante la medesima potenza di 122 CV a 5300 giri/min ma più elastico grazie a una coppia decisamente più importante, in grado di raggiungere i 195 km/h. Pochi gli elementi che permettono di identifcare le nuove Alfetta GT: a partire dalla 1.6 troviamo inedita grigliatura tra il paraurti e la mascherina anteriori, il tappo carburante nero con serratura a vista, la scritta Alfa Romeo in stampatello per estero sopra la targa dietro; sulla 2000 invece esordiscono due baff cromati ai lati dello scudetto, i cerchi con fenditure quadrangolari in luogo dei fori (che rimangono per 1.6),

i rostri ai paraurti (avanti e dietro) e gli sfoghi dell’aria lisci con la denominazione “GTV” ricavata nel lamierino. All’interno la 1.6 si distingue per la tappezzeria con inserti in tessuto tartan, mentre la GT Veloce vede la comparsa del volante in fnta pelle e delle fniture in simil-legno, mentre i sedili sono in velluto. Per entrambe rimane disponibile l’Alfatex. Fra gli accessori a richiesta i cerchi in lega (i leggeri “Mille Righe Cromodora” i più apprezzati) e le cinture di sicurezza e, per la GT Veloce, il condizionatore d’aria. A fne 1978, il top di gamma diventa GT Veloce 2000 L, il cui 2 litri è in grado di erogare 8 CV in più (130 CV DIN totali). Per l’occasione, tornano le guarnizioni ai vetri, prima incollati come sulla berlina.

ALFETTA GTV/GTV6 II SERIE (1980-1986)

La carriera dell’Alfetta coupé, così come quella della berlina, è lunga e complessa. Nel 1980, a 8 anni dal lancio, in un’ottica di collocamento del modello in una fascia di mercato più alta, avrebbero esordito le maggiori novità stilistiche e meccaniche. Innanzitutto, accanto al 2 litri da 130 CV della GTV, ecco uno dei propulsori più importanti nella storia dell’Alfa Romeo, il leggendario 6 cilindri a V di 60° progettato dall’ingegner Giuseppe Busso, di 2492 cm³, in lega leggera, con distribuzione monoalbero in testa per bancata, nel caso della “nostra” a iniezione elettronica Bosch L-Jetronic (novità assoluta in Casa Alfa, da sempre affezionata e specialista nell’alimentazione a carburatori), erogante 160 CV a 6000 giri/min: nasce così la GTV6 (con la V che indica sia la denominazione “Veloce” che la disposizione dei cilindri), una vettura veloce e potente, adatta a una clientela esigente e competente mentre, con lei, il “Busso”, come l’avrebbero affettuosamente chiamato da quel momento in poi gli appassionati, avrebbe trovato la prima degna collocazione, esprimendosi al meglio delle sue possibilità (avrebbe potuto perfno esordire sulla GTV6 ma la dirigenza preferirà dare la precedenza alla sfortunata ammiraglia Alfa 6). Sulla GTV6 troviamo freni anteriori autoventilanti, cambio maggiorato, albero di trasmissione e semiassi rinforzati. La frizione è a doppio disco, l’assetto ribassato e la geometria dell’avantreno rivista per compensare l’aumento di peso. La carrozzeria, come successo per molti modelli a cavallo tra gli anni ’70 e ’80, si arricchisce di vistose appendici plastiche: paraurti “a fascione” (arrivano a lambire la zona inferiore dei passaruota) ad assorbimento d’urto grigi con inserti neri e, davanti, indicatori di direzione integrati; scudetto ridisegnato e stilizzato senza listelli; spoiler anteriore maggiorato che incorpora le prese d’aria motore; eliminazione di tutte le cromature a favore di profli in gomma nera (cornici vetri, gocciolatoi, maniglie) come di plastica scura opaca sono le nuove minigonne laterali, l’inedito specchietto retrovisore e lo sfato d’aria sul terzo montante. In coda ecco i nuovi gruppi ottici a parabola unica che seguono il proflo del diedro, mentre le targhette identifcative sono omologate al resto della produzione Alfa anni ’80. I cerchi sono gli stessi della precedente GTV L ma hanno il coprimozzo in plastica nera. Piccola rivoluzione anche per l’abitacolo, che perde l’originale contagiri davanti al pilota per presentare una strumentazione più completa e integrata e guadagnare in fnitura e confort, con nuovi sedili proflati in robusto

velluto (sempre disponibili in Alfatex e pelle). Il volante - di disegno rivisto - è in pelle o, a richiesta, in legno. Caratterizzata da un’immagine più importante la GTV6: vistosa gobba sul cofano motore per ospitare il nuovo plurifrazionato, con un improbabile coperchio in plastica, modanatura in plastica antiurto sulla fancata, cerchi in lega dedicati, i Cromodora da 15” con 5 colonnette di fssaggio. La gamma colori è ridotta al rosso Alfa, al nero, al grigio chiaro o il grigio Nube (entrambi metallizzati). Fra gli accessori per GTV e GTV6, il condizionatore d’aria e il tetto apribile. Nel 1983 su GTV e GTV6 interviene l’ultimo, leggero restyling: fascia grigio scuro nella parte bassa della carrozzeria (tranne che su nero e grigio Nube), stesso colore delle appendici plastiche e calotte specchietti in tinta; all’interno vetri azzurrati di serie, parabrezza con antenna radio incorporata, sedili sportivi con poggiatesta fsso “a retina” e impianto audio a richiesta. Oltre ai modelli esposti, l’Alfetta coupé ha avuto moltissime serie speciali, la più interessante è la versione Turbodelta del 79 (ne abbiamo parlato nel numero di marzo 2021 de La Manovella) ma anche un’inedita V8 (di origine Montreal) realizzata in 20 esemplari per il solo mercato tedesco e una V6 di 3 litri per il Sud Africa. Discreto il successo del modello negli USA, disponibile con paraurti ad assorbimento d’urto e marmitta catalitica, in tutte le cilindrate.

Si ringraziano per la disponibilità Bruno Stella, Leonardo Pietà e Gabriele Brilli

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