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OGGI COME IERI
VOLKSWAGEN PHAETON L’AMMIRAGLIA DEL POPOLO
È UN OSSIMORO RISPETTO ALLA TRADIZIONE (E ALLA TRADUZIONE) DEL MARCHIO CHE PORTA: “L’AUTO DEL POPOLO”. MA ALL’ALLORA CAPO DI VOLKSWAGEN PIËCH, NON INTERESSA: LA PHAETON SARÀ UNA DELLE AUTO PIÙ INNOVATIVE E TECNOLOGICHE DEL SUO TEMPO. SARÀ POCO CAPITA E PRODOTTA IN PERDITA. SVELATO IL PROTOTIPO DELLA II SERIE.
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La storia del motorismo è costellata di uomini geniali e istrionici che però, talvolta, hanno peccato di tracotanza imbarcandosi in progetti che, poi, si sarebbero ritorti contro a loro stessi e le aziende. Uno di questi è Ferdinand Piëch: nipote di Ferdinand Porsche, l’inventore del Maggiolino e dell’iconica Casa che porta il suo nome, ingegnere validissimo e, soprattutto, spregiudicato uomo d’affari, è presidente del gruppo Volkswagen dal 2002 al 2015, carica che riveste applicando rigidamente la sua massima: “un’azienda effciente deve essere governata da 5, massimo 10 persone e solo uno deve prendere le decisioni fnali”. Lui, ovviamente.
Così, se la guardiamo dal lato storico-tecnico, la sua vicenda in Volkswagen è costellata da successi clamorosi, innovazioni tecniche mai pensate prima ma anche da alcune grosse ombre, fra queste uno dei più grandi ossimori della storia dell’auto: piazzare sul cofano di una vettura alto di gamma, un’ammiraglia che faccia concorrenza a Mecedes S, BMW Serie 7 e Audi A8 (in questo caso, interna…), lo stemma Volkswagen che, in italiano si traduce con… Auto del Popolo. Ma dalle parti di Wolfsburg tutti hanno paura che, se non faranno quello che impone Herr Piëch, verrà loro indicata la porta…
di Luca Marconetti
e allora, tra fne anni ’90 e primi ’00 ecco il concepimento e lo
sviluppo della Phaeton (nome che richiama le aristocratiche carrozze dell’800 ma che rimanda anche al latino “risplendere di luce propria”), presentata in forma di prototipo nel 1999 (Concept D)
e, come modello di serie nel 2002, non prima di aver realizzato la megagalattica “Glaserne Manufa tur” (“Fabbrica di Vetro”) di Dresda dove l’auto viene assemblata. Fuori, anche se molti la considerano una “maxi-Passat”, è bella,
moderna ed espressione di una sobrietà e di un’eleganza che la sua clientela-tipo, fno a quel momento, ha cercato nelle concorrenti. All’interno invece il lusso, a tratti vero e proprio sfarzo, si esprime in pellami di prima scelta, radica diffusa, tecnologie avanzatissime, confort da prima della classe. Raffnatissima, ovviamente, la meccanica, in gran parte condivisa con l’Audi A8 (tranne il telaio in alluminio) e perfno con le inedite Bentley (marchio intanto entrato nell’orbita VW). Tra i motori si spazia dal “piccolo” VR6 di
3,2 litri da 241 CV al mastodontico W12 6 litri da 420 CV, passando dal prestante V8 di 4.2 litri della S8. Tra i diesel un leggero V6 3.2 da 222 CV e “il capolavoro nel capolavoro”, il V10 TDI di 5 litri da 309 CV (l’amore di Pi ch per il gasolio, gli sarebbe stato fatale…). Poi trazione integrale 4 Motion, cambio automatico Tiptronic, sospensioni multilink (anteriori a 4 bracci, posteriori a bracci oscillanti trapezoidali), ammortizzatori a gas, peso che sfora le 3
tonnellate, prezzi che superano i 100.000 euro… Nonostante tutto, comunque, la vettura diventerà “bandiera” di un marchio in continua evoluzione, che eleva lo standard e si pone costantemente come nuovo punto di riferimento anche nei settori inferiori. Secondo molti, con la Phaeton, l’intento di Piëch, è quello di rivalersi su Mercedes colpendola nel settore dove è più esperta, quello delle ammiraglie, poiché La Stella ha messo a repentaglio la supremazia
della Golf con la nuova Classe A. Purtroppo però l’operazione - come sosterranno anche molti collaboratori di Piëch in fase di sviluppo ma prontamente zittiti - avrà tutt’altro che gli effetti sperati: nonostante i (pochi) clienti siano entusiasti della vettura, ogni esemplare di Phaeton sarà costruito in drammatica perdita. Così, dopo il 2016 e meno di 84.000 esemplari, l’alto di gamma
Volkswagen sarà rappresentato da un modello ben più remunerativo, il maxi-SUV Touareg (che condividerà molti elementi con Phaeton), oggi giunto alla 3^ generazione. In questi mesi, un prototipo defnitivo della Phaeton II serie (D2)
riapparso dai garage di Volkswagen dopo 3 anni dalla scomparsa di Pi ch e 20 dal lancio della I serie, la modernissima ammiraglia del 2016 ma mai nata che vedete in queste pagine, riapre il “caso Pi ch”:
l’erede di Porsche avrebbe negato l’evidenza portando l’azienda nuovamente alla progettazione e sviluppo di un modello inedito, nonostante le perdite. Solo uno scandalo di proporzioni globali come il Dieselgate, scoppiato proprio in quegli anni, avrebbe messo una pietra tombale sull’“Ammiraglia del Popolo”
CAMEL TROPHY 1985 IL BORNEO FA “NOVANTA”
Ci sono competizioni che vanno oltre la velocità e il semplice obiettivo di arrivare per primi. Anche se l’interazione uomomacchina è sempre la discriminante fondamentale, ci sono gare dove il rapporto diventa talmente intimo e imprescindibile da farne una cosa sola. Il Camel Trophy, per esempio, evento estremo in grado di modifcare drasticamente il concetto di spedizione e di vita con l’automobile, spingendo le capacità umane, oltre che quelle meccaniche, a limiti fno a quel momento nemmeno lontanamente pensati.
IL CAMEL TROPHY IN BREVE
Per il 1980, il colosso statunitense del tabacco R.J. Reynolds, decide di utilizzare il più evocativo e pregiato dei suoi marchi, Camel, per lanciare una sfda a esploratori e amanti dei viaggi estremi nei luoghi più impervi della Terra. Ne sarebbe nata una “saga” d’avventura che avrebbe riacceso, nell’edonistico Occidente degli anni ’80, il mito dell’eroe duro e puro protagonista dell’impresa estrema, ideale poi diffuso anche dal cinema con flm come Indiana ones (1981) o Rambo (1982). L’iniziativa originariamente coinvolge la sola Germania dell’Ovest, dove rispondono tre team di due persone ciascuno che, a bordo di altrettante Jeep CJ5, costruite su licenza da Ford Brasile, percorrono i 1600 km che collegano la città brasiliana di Belém, alla foce del Rio delle Amazzoni, con l’entroterra e che prende il nome di Transamazzonica. Si tramuterà in 12 giorni durissimi, per la resistenza fsica ma soprattutto per i veicoli, che saranno letteralmente dilaniati dalle diffcoltà. Per il 1981 infatti, Camel lascia il partner americano e si rivolge all’inglese Land Rover, la cui ammiraglia della gamma, la Range Rover, sta mietendo successi da ormai 10 anni. Questa volta le squadre - sempre della Germania Federale - sono cinque ma le “Range” V8 sono chiamate ad affrontare un territorio se possibile ancora
ALLA PIÙ ESTENUANTE DELLE EDIZIONI DEL CAMEL TROPHY, SULL’ISOLA DEL BORNEO, DEBUTTANO LE NUOVE LAND ROVER “NINETY” A PASSO CORTO EREDI DELLE “SERIES”. UN APPASSIONATO PIEMONTESE HA SCOVATO E PROCEDUTO AL RESTAURO CONSERVATIVO DELL’ESEMPLARE USATO DAGLI ITALIANI ROBERTO IVE E BEPPE GUALINI.
di Luca Marconetti
pi impervio dell’Amazzonia, l’Isola di Sumatra. A sfancare i partecipanti sono l’umidità e i repentini mutamenti climatici, elementi che, per , non scalfscono minimamente l’affdabilità delle Range Rover, che taglieranno tutte e cinque il traguardo: la ricaduta pubblicitaria per il marchio, è enorme. Le Range saranno ancora protagoniste delle edizioni 1982 (Papua Nuova Guinea, 77.000 richieste di iscrizione, appena 8 accettate, con team provenienti da Germania, Olanda, Italia e Stati Uniti, tra fango imperante e ponti improvvisati con assi di legno), vinta dagli italiani Cesare Giraudo e Giuliano Giongo e 1987 (in Madagascar, 14 team coinvolti, 2252 m tra Savana e foresta, con le Range 4 porte 2.4 TD), di nuovo appannaggio di un team italiano, quello di Mauro Miele e Vincenzo Tota, come italiano - della VM di Cento - è il diesel delle Range. Ma il successo clamoroso del Camel Trophy, è sempre stato sfruttato da Land Rover per accrescere la credibilità della sua immagine, dimostrare la robustezza dei suoi mezzi e rivendicare la propria supremazia nel settore dei 4x4. Ci si traduce nell’adozione di altri modelli, magari appena presentati: fatta eccezione per il 1983 ( aire), quando sono protagoniste le immarcescibili Series III 88 e 109 che hanno già fatto da veicoli di supporto per le Range nell’81 e ’82, dal 1984 verranno adottate le ultime evoluzioni delle “Land Classic”, le One Ten (1984, Brasile, la Transamazzonica che festeggia le 5 edizioni, vinta di nuovo da italiani, Maurizio Levi e Alfredo Redaelli 1988, Sulawesi 1989, ancora Amazzonia) e Ninety (1985, Borneo, lo vedremo tra poco e 1986, Australia), mentre le nuove compatte Discovery saranno protagoniste assolute dal 1990 al 1997 e, per il 1998 - quando la gara ha ormai perso il suo spirito originario di simbiosi col mezzo meccanico, per privilegiare l’aspetto fsico e l’utilizzo di mountain bi e e aya - perfno le appena nate Freelander.
ONE TEN E NINETY (1983-1990), LA “LAND” DAL MUSO PIATTO
Nonostante il successo di Range Rover, l’evoluzione delle classiche Land è imprescindibile e costante: nel ’79 viene lanciato il motore V8 sulle “Stage I”: per ospitarlo, è necessario spostare la mascherina a flo con i parafanghi, elemento che, abbandonando per sempre la soluzione del muso rientrato al centro, caratterizzerà le nuove Land Classic (sigla di progetto “Stage II”), le “One-Ten” e “Ninety”. Spirito e forma generale non cambiano ma le modifche sono tante, a partire dai passi indicati nelle denominazioni: 110” contro 109” per la station wagon a passo lungo del 1983 e 90” (in realtà esattamente sono 92,9) invece di 88”
per la passo corto del 1984. Questo perché il telaio deriva da quello delle Range, così come il complesso di trazione integrale (permanente, con terzo differenziale bloccabile) e le nuove sospensioni a molle elicoidali. Il grande parabrezza è ora in un pezzo unico, i passaruota sono allargati con appendici in plastica verniciata per ospitare le carreggiate aumentate, il cofano motore è bombato, l’abitacolo, seppur ancora spartano e votato alla massima funzionalità, è rivisto. Fra i motori i 4 cilindri di 2,3 litri a benzina e diesel e il V8 3.5 benzina ma il diesel diventerà 2,5 già nel 1984 il benzina “base” adotterà la stessa cubatura nel 1986, quando il diesel diventerà turbocompresso (85 CV e 203 Nm di coppia). Il cambio è il nuovo 5 marce Land Rover, sull’avantreno i freni sono a disco, a richiesta c’è il servosterzo.
UNA NINETY PER IL FANGO
Le Ninety per il Borneo, come quella del nostro servizio, sono equipaggiate con la meccanica di serie, ossia quella caratterizzata dall’unità 4 cilindri di 2495 cm alimentata a gasolio (sigla interna 12 ), a iniezione indiretta assicurata dalla nuova pompa rotativa CAV-DPA e distribuzione a 2 valvole per cilindro con monoasse a camme laterale, aste, bilancieri e catena. La potenza massima è di 68 CV a 4000 giri/min, la coppia di 158 Nm a 1800 giri/min. Gli pneumatici sono i Michelin CL 7,50x16”. Ovviamente, l’auto viene adeguata alle massacranti condizioni delle piste sterrate del Borneo: presenta due ruote di scorta (una ancorata al portellone e una al cofano motore) due estintori (fssati al roll bar interno) quattro taniche di carburante e due piastre da sabbia (fssate al portapacchi Brownchurch piazzato sul tetto) snor el assicurato al roll cage esterno (fa parte della dotazione di sicurezza Safety Devices) griglie parasassi per la fanaleria “Pioneer Tools”, ossia un kit composto da piccone, pala e ascia montati sui parafanghi e sopra al portellone posteriore 4 proiettori supplementari al tetto specchi retrovisori maggiorati fssati a braccetti tipo camion piastra di protezione della tiranteria sterzo infne l’indispensabile verricello elettrico Warn 8274 dotato di paranco, cavo di recupero e cavo di strappo ad altra resistenza, inserito in una vasca di protezione, con un bull bar fssato alla traversa anteriore. Completano l’opera l’immancabile tinta Sandglow, il giallo Camel che verrà adottato da tutte le Land del trofeo, e i loghi su fancate e tetto.
BORNEO 1985: LA GIUNGLA NON PERDONA
Sono 16 in tutto da 8 nazioni i team partecipanti - mai così tanti - e altrettante le Ninety (pi 4 di supporto insieme a 6 OneTen): Belgio, Germania Ovest,
Olanda, Italia, Spagna (un equipaggio dal “Continente” e uno, per la prima volta, dalle Isole Canarie), Svizzera e le debuttanti Giappone e Brasile. Dall’Italia, dopo ben 40.000 richieste di partecipazione (250.000 in tutto dagli 8 Paesi) poi ridotte a 6 contendenti, i migliori emersi nei test su un percorso realizzato ad hoc in enia, infne a 4, dopo l’ultima estrema selezione all’Eastnor Castel, nell’Herefordshire, leggendario terreno di prova per tutte le “Land”: per il Borneo partono Flavio Dematteis e Stefano Gasi (equipaggio Italia 1), Roberto Ive e Beppe Gualini (Italia 2) a bordo della “nostra”. Le miglia da percorrere nel territorio della terza isola più grande del mondo, sono 1000: la partenza è prevista dalla città portuale di Balikpapan, città sulla costa orientale della parte di Isola sotto il controllo dell’Indonesia, l’arrivo, dopo un itinerario in senso orario, è previsto a Samarinda.
Le prime diffcoltà sorgono ancora prima della partenza, prevista per il 16 aprile, con violente precipitazioni che rendono le strade degli acquitrini e i fumi, in fase di ricognizione considerati guadabili, dei muri alti anche due metri di acqua impetuosa e fango. Ma alla fne, con qualche taglio al roadboo originario, si parte. Il caldo tropicale e l’umido sono il clima ideale per il proliferare di mostruosi sciami di vespe, cimici, zanzare e orde di formiche velenose. Le diffcoltà pi ardue, le Land diesel, le incontreranno sulle montagne dell’East alimantan dove, per guadare i corsi d’acqua, si realizzano ponti improvvisati con legna di recupero. Il percorso è durissimo e la carovana procede di 1, 2 miglia al giorno. Finché non accade l’irreparabile: le Land si troveranno intrappolate in un’angusta zona di secca nel bel mezzo della palude, dalla quale sarebbero potute uscire sulle loro ruote solo al sorgere della successiva stagione secca, almeno dopo sei mesi: e qui che l’organizzazione decide, una dopo l’altra, di “traghettare” avanti di 15 miglia le vetture… con degli elicotteri (i Si ors y S 58T). la prima volta che le Land del Camel Trophy prendono il volo! Alla fne, la vittoria è dell’equipaggio tedesco einz Kalin e Bernd Strohdach, mentre, novità del 1985, il premio “Spirit Award” per il miglior affatamento di squadra, spetterà ai brasiliani Probst/Rosenberg: sarà questo il riconoscimento che darà inizio al cambio di passo del Camel Trophy che porterà, a fne anni ’90, a ruoli sempre più marginali per le automobili. Non riesce, invece, la terza vittoria consecutiva a un equipaggio italiano.
A MUSO DURO
Oggi, in tempo di social, molti hanno sviluppato la buffa tendenza di riconoscere un po’ dappertutto le “emoticon”, le faccine gialle, a metà fra un manga giapponese e un’invenzione grafca elementare, che utilizziamo nella messaggistica istantanea per esprimere i nostri sentimenti. Per esempio, se ci si trova davanti alla Aprilia RSV 1000, sembra di vedere un muso duro, cattivo e molto agguerrito: merito dei suoi caratteristici tre proiettori che, già nel 1998, anno di presentazione di un modello spartiacque che chiude la moda delle touring degli anni ’90 e apre quella delle supersportive dei ‘2000, la dicono lunga sui suoi intenti, ossia fare tremendamente sul serio e lanciarsi in un settore dove, la Casa di Noale, non c’è mai stata, quella delle stradali potenti da un litro di cilindrata. È, questo, nella seconda metà dei ’90, un settore che inizia a essere popolato e redditizio per i costruttori, oltre che categoria molto apprezzata nelle competizioni. È soprattutto partendo da tale ultimo aspetto che, l’Aprilia, considerata la supremazia consolidata nel Motomondiale nelle categorie 125 e 250, vuole “chiudere il cerchio” sparigliando le carte della Superbike, dove corrono moto di grossa cilindrata derivate dalla serie.
DOVEVA NASCERE SPORT TOURER
Nei primi anni ’90 in Aprilia i tempi sono maturi per realizzare una moto di grossa cilindrata veloce e potente ma adatta anche ai lunghi viaggi in coppia: una sport tourer, per tutti i big dell’epoca “ansa” del mercato necessariamente da riempire, guidata dal successo di un modello in particolare, la Honda VFR. L’idea iniziale è una cilindrata attorno agli 800 cm³ ma ben presto tutto sarebbe cresciuto per avvicinarsi sempre pi a una supersportiva fno al cambio di rotta defnitivo: il patron della Casa di Noale Ivano Beggio, decide che la nuova moto dovrà essere, prima di tutto, adatta a scendere in pista per competere con i mostri sacri del motociclismo mondiale nel Campionato a loro dedicato, la Supebike… con buona pace per il confort di viaggio (a tal scopo nel 2001 sarebbe nata la Aprilia RST 1000 Futura).
A METÀ ANNI ’90, C’È LA CONVINZIONE CHE LA CASA DI NOALE CONCENTRI TUTTE LE SUE FORZE SU MOTO DI PICCOLA CILINDRATA 2 TEMPI. INVECE APRILIA ARRIVERÀ A SPARIGLIARE LE CARTE CON LA SUA PRIMA SUPERSPORT, LA RSV 1000. VELOCE, BELLA E VINCENTE IN SUPERBIKE, SAREBBE STATO UN NUOVO, STRAORDINARIO BIGLIETTO DA VISITA PER IL MARCHIO.
di Luca Marconetti
ROMPERE LE UOVA NEL PANIERE
Per primeggiare in Superbike, la RSV 1000 deve quindi entrare nel mercato “con prepotenza”, imponendosi fra modelli ormai diventati mostri sacri come Ducati 916, MV Agusta F4 ma soprattutto la già citata Honda VFR. E ci riesce perfettamente e subito. Vediamo perché. Alla presentazione, avvenuta nel 1998, 3 anni dopo il lancio, stupisce innanzitutto per la tecnica: il motore, sviluppato dall’austriaca Rotax, è un rivoluzionario 4 tempi longitudinale V2 di 60°, architettura scelta per favorire la uodinamica e adottare un telaio che non si discosti troppo dai modelli 125 e 250 da GP ma che non si è ancora mai vista su una 1000. La cilindrata è infatti di 997,62 cm³; l’alimentazione, a 4 valvole per cilindro con doppio albero a camme in testa per bancata, azionato da ingranaggi e catena, è gestita da un sistema a iniezione elettronica indiretta con un iniettore per ogni cilindro (Multipoint) con corpi farfallati da 51 mm, integrata anche con la doppia accensione per cilindro; per diminuire le vibrazioni, il propulsore è dotato di due alberi di equilibratura brevettati da Aprilia (AVDC).
La potenza è di 128 CV a 9250 giri/min, erogata a piacere del pilota: docile e progressiva oppure immediata e brutale. Il raffreddamento è a liquido. La frizione ha un comando idraulico dotato di dispositivo “antisaltellamento” meccanico (PPC, Pneumatic Power Clutch, brevetto Aprilia), che appare per la prima volta su un modello di serie proprio con la RSV e una doppia pompa trocoidale per la circolazione dell’olio. Non meno raffnato è il telaio, un doppia trave in alluminio, laterale parallelo scatolato e inclinato, leggero ma robusto alla stesso tempo, in grado di far registrare il miglior dato di rigidità torsionale della categoria. All’anteriore troviamo una forcella Öhlins upside down con steli da Ø 43 mm, dietro un forcellone monobraccio in alluminio, l’ammortizzatore è idraulico Sachs. I freni sono i “Serie Oro” Brembo, anteriore ottante a doppio disco da Ø 320 mm, posteriore singolo da Ø 220 mm. I cerchi sono da 17”. Esteticamente, oltre al design rastremato e sfaccettato delle carene (realizzato per la prima volta in galleria del vento), aderenti al superbo telaio come una seconda pelle, a colpire sono le grafche futuriste e la vasta gamma di livree disponibili. E poi, il già citato “faro” anteriore, che farà scuola. La RSV 1000 è modernissima - forse ancora più di allora - anche oggi. Ne risulterà una moto veloce, potentissima, precisa ma - sfruttando gli echi dell’originaria destinazione d’uso, quella del turismo sportivo anche intuitiva e guidabile in ogni situazione, mai scorbutica, sempre sincera. In poche parole una moto che va a scardinare i rigidi “schemi” costruttivi dei concorrenti per proporre un modello lanciato di gran carriera verso il nuovo Millennio. Inoltre, con lei, Aprilia avrebbe fnalmente avuto una gamma di sportive, le RS appunto, in grado di offrire cubature da 50 a 1000 cm³. Anche la discesa nel Campionato Superbike sarà un successo: grazie alla tecnica sopraffna che, come abbiamo visto, regala una moto potente, veloce ed estremamente bilanciata, il team De Cecco, per il Mondiale 1999, incarica l’ingegnere e ottimo collaudatore australiano Peter Goddard di sviluppare il modello da competizione. A fne campionato sarà buon 9° assoluto così, per l’anno successivo, Aprilia Axo deciderà di ingaggiare un top player, l’australiano Troy Corser, “Il Coccodrillo”. Corser con le spettacolari vittorie di Philip Island, a casa sua, di Misano, di Valencia ma, soprattutto, di Laguna Seca, porta l’Aprila, al secondo anno di partecipazione in Supebike, sul gradino più basso del podio: la sua RSV 1000 è terza davanti alle blasonate Ducati e Honda.
UN EVOLUZIONE COSTANTE
Nel 2000 viene presentata la II serie dell’RSV 1000. La grossa novità consiste in un affnamento che passa attraverso ben 200 interventi al peso, alla ciclistica, al propulsore e all’elettronica, il tutto fnalizzato ad aumentare la precisione e il divertimento di guida, soprattutto in pista. La modifca pi importante è al telaio, con motore posizionato pi in alto e pivot più basso. Il motore ha bielle aggiornate e i corpi farfallati da 57 invece che 51 mm; i dischi freno sono ora i Triple Bridge sempre Brembo; esteticamente sono rivisti codino, muso, faro, serbatoio (ora è in nylon su tutte le versioni), sella, estrattori (più grandi). Nel 2003, sulla R appaiono per la prima volta su un modello di serie le forcelle Öhlins con attacco radiale e un codone più importante, che sarà poi condiviso con la Tuono. Sempre sulla sola RSV 1000 R, telaio e forcellone sono verniciati in nero. A fne dello stesso anno esordisce la III serie: la potenza passa a 138,7 CV; il motore si chiama Magnesium perché ha carter frizione e coperchi punterie in magnesio, oltre a perdere l’accensione Twin Spark per permettere il montaggio di valvole di scarico più grandi; i comandi freno e frizione sono semiradiali; la carena è nuovamente rivista (il frontale ha una presa d’aria e due proiettori separati, gli estrattori sono triangolari e piazzati più in alto, le pance
inferiori sono pi esili) per ridurre l’ingombro e migliorare la maneggevolezza. Raffnatissima la versione “Factory” con cerchi in alluminio forgiato, mono-ammortizzatore e forcella Öhlins e particolari in carbonio. Nel 2006 è ora della IV serie: 143 CV con nuove valvole di aspirazione più grandi, carena frazionata per facilitare lo smontaggio, coda rivisitata e più esile. Nel 2009 la RSV viene sostituita dalla RSV4, come suggerisce il numero, una 4 cilindri: tutte le case, in quel periodo, abbandonano i bicilindrici (Aprilia sarà l’ultima), consegnando questi piccoli capolavori di ingegneria, alla leggenda.
LE SERIE SPECIALI
Come molte supersportive, anche la RSV 1000 ha avuto le sue serie speciali. La prima degna di nota è sicuramente la SP del 1999, prodotta i 150 esemplari per l’omologazione nel campionato Superbike. Ha alesaggio aumentato a 100 mm e corsa diminuita a 63,4 (cilindrata di 995,8 cm³), per una potenza salita a 145 CV a 11.000 giri/min; i corpi farfallati sono maggiorati, l’airbox in carbonio; per ottimizzare i cicli termodinamici, l’albero a camme è rivisitato; il telaio è più rigido del 20% con gli attacchi del motore spostati per migliorare il baricentro e allungare il passo le carene in fbra di carbonio permettono un alleggerimento di 5 g. In onore del pilota australiano Troy Corser, a fne 2000, in occasione della presentazione della II serie del modello, ecco invece la RSV 1000 R, subito riconoscibile dalla bellissima livrea a fondo giallo con lo sponsor “IP” e i grintosi cerchi blu che replicano quella utilizzata sulla RSV di Corser a Brands Hatch, 10^ tappa del Mondiale Superbike del 2000. Verrà realizzata in 1500 esemplari. Seguiranno altre due edizioni dedicate a piloti Aprilia e due serie esclusive: la R Haga Replica del 2002 - per Noriyuki Haga, 4° in Superbike 2001, livrea PlayStation 2 e doppio scarico Akrapovic, 3 CV in più della R normale -, R Edwards Replica del 2003 - per il campione di MotoGP Colin Edwards, livrea Alice.it o Laguna Seca Replica, due terminali Akrapovic, 3 kg in meno di peso e 6 CV in più - l’esclusiva R Nera del 2004 - 200 esemplari numerati (000-199) totalmente in carbonio, magnesio, titanio e alluminio forgiato, più di 15 kg più leggera e con 6 CV più della standard - R Bol d’Or Replica del 2007 - voluta dall’appassionato Alessandro Imeri in collaborazione col mensile Motociclismo che scelse la livrea indaco/rosso/bianco con grafche Aprilia anni ’80 per partecipare alla più celebre 24 Ore motociclistica al mondo, a Magny Cours.
Un ringraziamento per l’amichevole disponibilità al proprietario della RSV 1000 R del servizio Marco Gatto.