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by Arnaldo Bibo Cecchiniproduct
Prefazione Forewords
by Arnaldo Bibo Cecchini
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Arnaldo Bibo Cecchini, professore
di Tecniche urbanistiche, Università di Sassari; Associazione per il Diritto alla città AC/DC
Arnaldo Bibo Cecchini, Professor of Urban Planning Techniques, University of Sassari; Association for the Right to the City AC/DC
e-mail: abcecchini@gmail.com
Il titolo del prodotto
Vorrei anzitutto giustificare il titolo di questo “prodotto”. Con l’amico e collega Francesco Indovina ci disputiamo il merito (o la colpa) di avere proposto di definire la città come “nicchia ecologica della specie umana”; forse non siamo stati noi, ma sicuramente l’abbiamo molte volte ripetuto in questi anni. È questa un’affermazione molto forte e in parte imprecisa e tuttavia è difficile negare che i tempi della storia e della città coincidano e che - seppure la nostra specie esista da forse 300 mila anni - la città in poco più di 6 mila anni abbia finito per rappresentare il luogo di vita di una maggioranza della nostra specie e abbia avuto, in epoca storica (ovvero per l’appunto negli ultimi 6/7 mila anni), un’influenza enorme anche quando in essa viveva una minoranza, anche un’esigua minoranza, della nostra specie. Non vogliamo esprimerci sul futuro, diciamo oltre questo millennio, ma mi sento di poter affermare che almeno per alcuni secoli ancora - cigni neri ed effetti del cambiamento climatico a parte - la città potrà essere ancora il miglior ambiente della nostra specie. C’è un aspetto che non trascurerei tuttavia. E su cui mi azzardo una piccola “deviazione”. Una specie unica
50 mila anni fa sulla Terra esistevano probabilmente tre specie del genere Homo (sapiens, neandethalensis, denisova) tra loro interfeconde e forse con prole - debolmente - feconda. Le tre specie si sono fuse o due di esse sono state assorbite nella nostra attuale. Il genere Homo è considerato (ad oggi) mono-specie e appartiene alla “tribù” tassonomica degli Hominini cui appartengono i generi Homo e Pan.
The title of the product
First of all I would like to justify the title of this “product”. Together with my friend and colleague Francesco Indovina, we dispute the merit (or the fault) of having proposed to define the city as the “ecological niche of the human species”; perhaps it was not us, but we have certainly repeated it many times in recent years. This is a very strong statement and in part inaccurate. It is, however, difficult to deny that the times of history and the city coincide and that - although our species has existed for perhaps 300,000 years - the city in just over 6,000 years has come to represent the place of life of a majority of our species and has had, in historical times (that is, in the last 6/7,000 years), an enormous influence even when a minority, even a small minority, of our species lived there. We do not want to express ourselves on the future, let’s say beyond this millennium, but I feel I can say that at least for a few centuries yet - black swans and effects of climate change aside - the city can still be the best environment of our species. There is one aspect that I would not overlook, however, and on which I venture a small “detour”.
A unique species
Fifty thousand years ago on Earth there were probably three species of the genus Homo (‘sapiens, neandethalensis, denisova’) interfecund with each other and perhaps with - weakly - fecund offspring. The three species have merged or two of them have been absorbed into our present one. The genus ‘Homo’ is considered (to date) monospecies and belongs to the taxonomic “tribe” of the ‘Hominini’ to which belong the genera ‘Homo’ and ‘Pan’.
In the genus ‘Pan’ are included the species of chimpanzees and bonobos (‘Pan troglodytes’ and ‘Pan paniscus’). Some would tend to unify the two genera calling them ‘Homo troglodytes’ and ‘Homo paniscus’ or on the contrary calling our species ‘Pan sapiens’. There are obvious implications of various kinds (primarily ethical) of this choice. To date, however, our species is the only one, which has recognized rights in the proper sense. We could also argue, albeit with some stretch, that, if it is true that the environment of our species is the city, among these rights should also be included the right to the city. Very roughly it would seem that an essential condition for enjoying the fullness of rights is to be aware of what they are (and here Peter Singer would have many objections) and to have the desire to enjoy them (and this is the central argument for which the robot of Asimov’s ‘Bicentennial Man’ claims them). It has not seemed so far and would not yet seem necessary to say that subjects of rights are “natural” (perhaps because it was not needed and still is not needed). To date, the only beings on Earth that fill these two conditions are human beings. A share of rights, however, is (by some) recognized to other beings that do not belong to our species, for various reasons, among which particularly strong (but not the only ones) are those that they can suffer and suffering is (for them) unpleasant and that they “want” to survive. At least, even for those who only talk about duties (more or less extensive) of our species towards others, it seems questionable that living beings of other species, can all be considered as mere property of humans and as such can be used without limits; in short, towards other animals there is at least an “ethical responsibility” by our species. Nel genere Pan sono compresi le specie degli scimpanzé e dei bonobo (Pan troglodytes e Pan paniscus). Alcuni tenderebbero a unificare i due generi chiamando questi ultimi Homo troglodytes e Homo paniscus o al contrario chiamando la nostra specie Pan sapiens. Sono evidenti le implicazioni di varia natura (in primis etiche) di questa scelta. Ad oggi comunque la nostra specie è l’unica specie cui sono riconosciuti diritti in senso proprio. Potremmo anche argomentare, seppure con qualche forzatura, che, se è vero che l’ambiente proprio della nostra specie è la città, tra questi diritti dovrebbe essere compreso anche il diritto alla città. Molto approssimativamente parrebbe che condizione essenziale per godere della pienezza dei diritti sia essere consapevoli di quel che essi sono (e qui Peter Singer avrebbe molte obiezioni) e avere desiderio di goderne (e questo è l’argomento centrale per cui il robot dell’Uomo del bicentenario di Asimov li rivendica). Non è parso sinora e non parrebbe ancora necessario dire che i soggetti di diritti siano “naturali” (forse perché non serviva e non serve ancora). Ad oggi gli unici esseri presenti sulla Terra che riempiono queste due condizioni sono gli esseri umani. Una quota di diritti tuttavia viene (da alcuni) riconosciuta ad altri esseri che non appartengono alla nostra specie, per varie ragioni tra cui particolarmente forti (ma non le sole) sono quelle che essi possono soffrire e soffrire è (per loro) spiacevole e che “vogliono” sopravvivere. Quanto meno, anche per chi si limita a parlare solo di doveri (più o meno estesi) della nostra specie verso le altre, appare discutibile che gli esseri viventi di altre specie, possano tutti essere considerati come mera proprietà degli umani e in quanto tale utilizzabili senza limiti; insomma verso gli altri animali c’è almeno una “responsabilità etica” da parte della nostra specie.
Anche nel caso di diritti limitati o di responsabilità etiche non è sembrato in passato necessario precisare che i soggetti dovessero essere “naturali” e forse non sembra ancora necessario. Abbiamo la fortuna di essere l’unica specie (oggi esistente) all’interno di un genere (almeno questa è l’opinione più diffusa) e questo - in qualche misura - circoscrive il problema dell’universalità dei diritti: da qualche decennio c’è un consenso vasto che tutti gli appartenenti alla nostra specie godano della pienezza dei diritti, che sono appunti i diritti umani, per i quali c’è una “dichiarazione universale”. Ci sarà sempre un’unica specie che goda delle caratteristiche di consapevolezza di cosa siano i diritti e del desiderio di goderne? Non sembra irragionevole pensare che non siamo lontani dall’opportunità di poter o dovere estendere alcuni di questi “diritti limitati” (o il dovere da parte degli essere umani verso di essi) anche ad altri esseri (anche artefatti, macchine) che abbiano un “istinto di sopravvivenza” purchessia. E non siamo lontani dal momento in cui questi esseri esistano. Tanto più che alcuni di questi esseri, seppure meno soggetti alla nostra simpatia per il mancato possesso delle caratteristiche fisiche cha la favoriscono e neppure alla nostra empatia, possono mostrare doti intellettive che possiamo riconoscere come molto simili alle nostre e superiori a quelle di alcune - e forse tutte - le specie viventi. Sicché non è impensabile che in un futuro non remotissimo si possa anche ragionare e discutere di “diritti pieni” per esseri intelligenti artificiali. Forse la possibilità che si dia in artefatti un’intelligenza di tipo umano passa attraverso un percorso di apprendimento, una capacità di empatia e di provare emozioni e desideri, di avere bisogni, di soffrire e di godere, di morire: a quel punto che la base sia il carbonio o il silicio ha poca importanza.
Even in the case of limited rights or ethical responsibilities, it did not seem necessary in the past to specify that the subjects had to be “natural”, and perhaps it still does not seem necessary. We have the good fortune to be the only species (existing today) within a genus (at least this is the most widespread opinion) and this - to some extent - circumscribes the problem of universality of rights: since a few decades there is a broad consensus that all members of our species enjoy the fullness of rights, which are precisely human rights, for which there is a “universal declaration”.
Will there always be a single species that enjoys the characteristics of awareness of what rights are and the desire to enjoy them? It does not seem unreasonable to think that we are not far from the opportunity to be able or to have to extend some of these “limited rights” (or the duty of human beings towards them) also to other beings (even artifacts, machines) that have a “survival instinct” as well.
And, we are not far from the time when these beings exist. Especially since some of these beings, although less subject to our sympathy for the lack of physical characteristics that favor it and even to our empathy, may show intellectual abilities that we can recognize as very similar to ours and superior to those of some - and perhaps all - living species. Therefore, it is not unthinkable that in a not remote future we could also reason and discuss about “full rights” for artificial intelligent beings. Perhaps the possibility of developing a human-like intelligence in artifacts passes through a learning process, an ability to empathize and to feel emotions and desires, to have needs, to suffer and enjoy, to die: at that point that the base is carbon or silicon has little importance.
This small ‘detour’ is due to the fact that the prediction on the possible survival of the citysystem in the next decades passes also (and especially) through the technological development, in particular of what we call “artificial intelligence”: facing the challenges posed by the effects of climate change and the growing inequalities within all societies requires a development of technologies. And a rediscovery, or rather a reinvention of class conflict (a bit of what Karl Marx believed necessary). Are we sure it’s our fault? About Anthropocene
I am not entirely convinced by the proposal to call the era we are living in the ‘Anthropocene’ (which is still officially the ‘Holocene’): it reinforces the idea that everyone is to blame for the ills of society, and therefore that it is our fault if the world we live in is at risk.
Without denying the responsibilities of each person, we must reiterate that they are not equal, that there are those who have more and those who have less, those who are part of the problem and those who are part of the solution. Even individual good practices, attention to the environment, separate waste collection, reducing the consumption of food of animal origin, limiting the use of fossil fuels, active solidarity, civic participation, have a meaning and are important only if they are accompanied by collective organization, by the fight against the real culprits (and not only because their guilt is much greater, morally and in terms of practical consequences, but because their goal is to appropriate even the efforts of individuals for the indefinite growth of profits and thus to reverse its meaning), by the rediscovery of the new dimension of the struggle between classes. Questo piccolo detour è dovuto al fatto che la previsione sulla possibile sopravvivenza del sistema-città nei prossimi decenni passa anche (e soprattutto) per lo sviluppo tecnologico, in particolare di quella che chiamiamo “intelligenza artificiale”: far fronte alle sfide che ci pongono gli effetti del cambiamento climatico e delle crescenti disuguaglianze interne a tutte le società richiede un sviluppo delle tecnologie. E una riscoperta, o meglio una reinvenzione del conflitto di classe (un po’ quel che credeva necessario Carlo Marx). Siamo sicuri che è colpa nostra? A proposito di Antorpocene
Non mi convince del tutto la proposta di denominare Antropocene l’era che viviamo (che è ancora ufficialmente l’Olocene): ci rafforza nell’idea che la colpa dei mali della società è di tutti, quindi che è colpa nostra se il mondo in cui viviamo è a rischio. Senza negare le responsabilità di ciascuno, bisogna ribadire invece che esse non sono uguali, che c’è chi ne ha di più e chi ne ha di meno, chi è parte del problema e chi è parte della soluzione Anche le buone pratiche individuali, l’attenzione all’ambiente, la raccolta differenziata, la riduzione del consumo di cibo di origine animale, la limitazione dell’uso di combustibili fossili, la solidarietà attiva, la partecipazione civica, hanno un senso e sono importanti solo se sono accompagnati dal’organizzazione collettiva, dalla lotta contro i colpevoli veri (e non solo perché la loro colpa è molto più grande, moralmente e come conseguenze pratiche, ma perché il loro obiettivo è di appropriarsi anche degli sforzi degli individui per la crescita indefinita dei profitti e quindi per rovesciarne il senso), dalla riscoperta della nuova dimensione della lotta tra le classi.
Non è colpa tua, degli esseri umani nel loro insieme. Il sistema che ha una vera e grande influenza sull’ambiente è il sistema capitalistico: quindi il nome corretto dell’era in cui viviamo, diciamo aa partire dal XVIII secolo, dovrebbe essere “era del capitalismo”, ovvero Cefalocene (si potrebbe anche dire Capitalocene, ma è meglio forse evitare gli ibridi tra più lingue: in greco Il Capitale di Marx è To Κεφάλαιο, to Kefàlaio). Caso mai sarebbe opportuno che il Cefalocene divenga un vero Antropocene, ovvero un’era della nostra specie tutta. Anche se qui rischiamo di scivolare ancora. Alcuni millenni di dominio patriarcale rendono difficile un uso delle parole non sessista, ma forse il termine “essere umano” (che tuttavia già di suo ha una derivazione da homo), che in greco si rende con anthropos, può essere con cautela utilizzato per indicare tutta la nostra specie. Da anthropos abbiamo antropico, antropologia, filantropia e anche antropocene; ma per usarlo senza discriminare (troppo) dobbiamo dimenticare la sua parentela con anér e il fatto che è homo a indicare l’intera nostra specie; tuttavia la misantropia è la paura delle persone, che si può specializzare in misandria e misoginia; quindi forse l’era della nostra specie potrebbe essere chiamata con non troppi problemi Antropocene. Con queste cautele, a me non dispiacerebbe vivere in un vero Antropocene, in cui in prospettiva gli esseri umani rinuncino alla hybris che il modo di produzione capitalistico ha imposto alla nostra società: cosicché l’Antropocene futuro non sia solo centrato sulla nostra specie, insomma. Vaste programme. Teniamo a mente queste due cose: ne riparleremo quando parleremo del futuro di questo prodotto.
It is not your fault, of human beings as a whole. The system that has a real and great influence on the environment is the capitalist system: therefore the correct name of the era in which we live, let’s say since the eighteenth century, should be “era of capitalism”, or ‘Cephalocene’ (we could also say Capitalocene, but it is perhaps better to avoid hybrids between different languages: in Greek “The Capital” of Marx is To Κεφάλαιο, to Kefàlaio). If anything, it would be appropriate for the Cephalocene to become a true Anthropocene, or an era of our entire species. Although here we risk to slip again. Several millennia of patriarchal domination make it difficult to use words in a non-sexist way, but perhaps the term “human being” (which, however, already has a derivation from homo), which in Greek is ‘anthropos’, can be used with caution to indicate our entire species. From ‘anthropos’ we have anthropic, anthropology, philanthropy, and also anthropocene; but to use it without discriminating (too much) we must forget its kinship with ‘anér ‘and the fact that it is ‘homo’ to indicate our entire species; however, misanthropy is the fear of people, which can be specialized into misandry and misogyny; so perhaps the era of our species could be called Anthropocene with not too much trouble.
With these cautions, I wouldn’t mind living in a real Anthropocene, where in perspective human beings give up the ‘hybris’ that the capitalist mode of production has imposed on our society: so that the future Anthropocene is not only centered on our species, in short. ‘Vaste Programme’. Let’s keep these two things in mind: we’ll talk about them again when we talk about the future of this product.
The reasons for the product
Secondly, I would like to justify this “product”: who is it for and what is it for? First, I want to say what kind of product it is. First of all, it is incomplete and idiosyncratic, as it is easy to see by going through the index and scrolling down the list of Authors. It comes about because a small course I was supposed to teach at the Architecture and Environment PhD had to be rescheduled due to Covid-19 syndemic. I could have done the course remotely. But perhaps it would not have been particularly useful. Obviously so-called DAD (distance learning) has been necessary in universities and schools for emergency, just as obviously it can be useful in normal situations.
But for this it has to be something more and different from the mere reproduction of frontal lectures; nothing against frontal lectures and nothing against distance lectures, when you can’t do without them (‘faute de mieux’), but the latter lose a lot: those who teach know that it is difficult to do it well if you don’t look at the people listening to you (and often this is true also for conferences and seminars). But I thought it would be more useful to try a different operation. These communications are born in the midst of a syndemic. This “product” talks little about this event, but it is permeated by it. I asked a few people (there were more, some did not accept for various reasons, but I trust to recover them in other “products”) to prepare a short speech, with very few other constraints on the format. They were to address topics that were within their expertise and related to their research activities.
Le ragioni del prodotto
In secondo luogo vorrei giustificare questo “prodotto”: a chi e a cosa serve? Intanto voglio dire che prodotto è. In primo luogo è incompleto e idiosincratico, come è facile constatare percorrendo l’indice e scorrendo l’elenco degli Autori. Nasce perché un piccolo corso che dovevo tenere al Dottorato Architettura e Ambiente ha dovuto essere riprogrammato a causa della sindemia di Covid-19. Avrei potuto fare il corso a distanza. Ma forse non sarebbe stato particolarmente utile. Ovviamente la cosiddetta DAD è stata necessaria nelle Università e nelle scuole per l’emergenza, altrettanto ovviamente può essere utile anche in situazioni normali. Ma per questo deve essere qualcosa di più e di diverso dalla mera riproduzione di lezioni frontali; nulla contro le lezioni frontali e nulla contro le lezioni frontali a distanza, quando non se ne può fare a meno (faute de mieux), ma quest’ultime perdono molto: chi insegna sa che è difficile farlo bene se non guardi le persone che ti ascoltano (e spesso questo vale anche per conferenze e seminari). Ma ho pensato che fosse più utile tentare un’operazione diversa. Queste comunicazioni nascono in piena sindemia. Questo “prodotto” parla poco di questo evento, ma ne è permeato. Ho chiesto a un po’ di persone (erano di più, alcune non hanno accettato per diverse ragioni, ma confido di recuperarle in altri “prodotti”) di preparare un breve intervento, con pochissimi altri vincoli sul formato. Dovevano affrontare temi che erano di loro competenza e che erano legati alle loro attività di ricerca.
Il mio piccolo corso era rivolto a dottorandi di un dottorato interdisciplinare, quello di Architettura e Ambiente nel Dipartimento di Architettura, Design e Urbanistica (DADU) dell’Università di Sassari. I dottorati interdisciplinari lo sono per amore o per forza, a volte solo per amore (ma servono Università grandi) o solo per forza, non raramente per amore e per forza. Questo dottorato deriva da un dottorato che era interdisciplinare per amore e che se ha dovuto forzarsi a cambiare nome e a ampliare il suo areale, lo ha fatto per passione e con convinzione. La nostra curatrice Nađa Beretić, che l’ha frequentato, ci racconta qualcosa di questo nella sua prefazione. Ma i dottorati interdisciplinari pongono diversi problemi che, se non vengono affrontati, impediscono di cogliere le opportunità. Uno di questi è che studenti provenienti da lauree diverse e con temi di ricerca su discipline diverse hanno difficoltà a interagire, a parlare, a capirsi. E se per fornire le basi possono bastare dei buoni manuali, per capire le sfide che le discipline devono affrontare e le direzioni che le ricerche prendono e le questioni che esplorano serve vedere gli “esperti” al lavoro, sentire da loro cosa succede. Per la disciplina dell’Urbanistica è quel che ho voluto cominciare a fare. Tenete presente che già l’Urbanistica è un disciplina composita, al crocevia di molte discipline. Come era inevitabile ho potuto affrontare solo pochi dei temi rilevanti e altrettanto inevitabilmente ho pensato a quelli a me più vicini. Gli interventi hanno avuto un piccolo, ma amorevole e competente, lavoro di post-produzione e mi paiono, nel loro insieme e singolarmente, interessanti e utili.
My small course was aimed at doctoral students in an interdisciplinary doctoral program, that of Architecture and Environment in the Department of Architecture, Design and Urbanism (DADU) at the University of Sassari. Interdisciplinary PhDs are so by love or by force, sometimes just by love (but you need big universities) or just by force, not infrequently by love and force. This PhD comes from a doctorate that used to be interdisciplinary by love, and if it had to force itself to change its name and expand its range, it did so by passion and conviction. Our curator Nađa Beretić, who attended it, tells us something about this in her preface. But interdisciplinary doctorates pose several problems that, if not addressed, prevent opportunities from being seized. One is that students from different degrees and with research topics in different disciplines have difficulty interacting, talking, and understanding each other.
And while good textbooks can provide the basics, to understand the challenges that disciplines face and the directions that research takes and the issues that it explores, you need to see the “experts” at work, to hear from them what is going on. For the discipline of Urban Planning, that is what I wanted to start doing. Keep in mind that Urban Planning is already a composite discipline, at the crossroads of many disciplines. As it was inevitable, I have been able to address only a few of the relevant issues and equally inevitably, I have thought about those closest to me. The contributions have had a small, but loving and competent, work of post-production and seem to me, as a whole and individually, interesting and useful.
The future of the product
As I said, I had invited other colleagues, others I had in mind, and others came to mind as I went along. Up to now (with one exception, that of the historian Antonio Brusa) only colleagues working in the field of Urban Planning and Architecture have contributed (even if, among them, we have 5 architects, 2 urban planners, 2 engineers, 1 geographer, 1 physicist and 1 jurist; I have not considered the double degrees and I am not forgetting the fact that for the last two the training is very remote in time and that perhaps we can rightly count them - not only for academic affiliation - among the urban planners). But I’m thinking of going further: as I was saying, I’d like to think of other more thematic “volumes”; at least three, I would say. One on the new technologies for the future of the city, but I would like to do it - as I said - from the point of view of the perspectives, even bold ones, of the so-called Artificial Intelligence, also taking into account the ethical questions that it will (inevitably) pose to us. One on the spatial injustice in cities and on the ambivalence of good architecture and good urban planning; not a few architects and urban planners think about this and make it a reason for their work (not only street architects, but also successful professionals, as we have seen in some Pritzker prizes, including the very recent one of Lacaton and Vassalle), but there is much to think about and there are many successes and defeats. One on territorial imbalances, on depopulation and on policies for internal areas: spatial injustice is also that between city and countryside, between areas in development and areas in regression; it is not that everyone necessarily has to go at the same speed, but accelerated imbalances, not governed, are highly unsustainable and dangerous. As I think, other themes come to mind, but I would like to be cautious.
Il futuro del prodotto
Come dicevo avevo invitato altre colleghe e altri colleghi, altre ne avevo in mente, altre mi sono venute in mente man mano. Sinora hanno contribuito (con un’unica eccezione, quello del storico Antonio Brusa) solo colleghe e colleghi che operano nel campo dell’Urbanistica e dell’Architettura (anche se, tra questi, come formazione abbiamo 5 architetti, 2 urbanisti, 2 ingegneri, 1 geografo, 1 fisico e 1 giurista; non ho considerato le doppie lauree e non dimentico il fatto che per gli ultimi due la formazione è assai remota nel tempo e che forse più a buon diritto li possiamo annoverare - non solo per appartenenza accademica - tra gli urbanisti). Ma sto pensando ad andare oltre: come dicevo vorrei pensare ad altri “volumi” più tematici; almeno tre direi. Uno sulle nuove tecnologie per il futuro della città, ma piacerebbe farlo - come dicevo - nell’ottica delle prospettive, anche audaci della cosiddetta Intelligenza Artificiale, anche tenendo conto delle questioni etiche che (inevitabilmente) ci porrà. Uno sull’ingiustizia spaziale nelle città e sulle ambivalenze della buona architettura e della buona urbanistica; non pochi architetti e urbanisti ci pensano e ne fanno una ragione del loro lavoro (non solo architetti di strada, ma anche professionisti di successo (come abbiamo visto in alcuni premi Pritzker, tra cui quello recentissimo di Lacaton e Vassalle), ma c’è molto da riflettere e molte sono i successi e le sconfitte. Uno sugli squilibri territoriali, sullo spopolamento e sulle politiche per le aree interne: l’ingiustizia spaziale è anche quella tra città e campagna, tra aree in sviluppo e aree in regresso; non è che necessariamente tutti debbano andare stessa velocità, ma gli squilibri accelerati, non governati, sono altamente insostenibili e pericolosi. Man mano che penso, mi vengono in mente altri temi, ma vorrei essere prudente.
I meriti del prodotto
Io l’ho pensato; ma il collega Vincenzo Pascucci, coordinatore del dottorato Architettura e Ambiente ha sostenuto in modo convinto questa idea, anche finanziariamente. Nađa Beretić ha preso in mano la curatela dell’opera trasformando una serie di interventi in un prodotto finito. Adriana Perra ha fatto il montaggio e la postproduzione, con competenza e gusto e sopportando la disorganizzazione che mi è propria. Le amiche e gli amici che hanno preparato il loro contributo, tutte persone che conosco da anni (non pochi sono state mie allieve e uno mio allievo) e che oltre ad essere eccellenti ricercatrici sono anche brave persone a tutto tempo (nel mondo accademico è abbastanza raro, ma non è rarissimo). Nessuno se ne avrà a male se tra loro segnalo soltanto il “decano” dell’opera: Francesco Indovina è ancora in prima linea e propone sempre idee e riflessioni stimolanti e mai banali: devo dire che quasi sempre sono d’accordo con lui, ma qualche volta no e i dissensi non sono su questioni marginali; se non lo conoscete vi raccomando il suo blog Felicità futura (http://felicitafutura.blogspot.com/) o fatevi inserire nella sua mailing list. Mi smentisco e vi segnalo anche il blog di Oriol Nel.lo (http://oriolnello.blogspot.com/) e di Ivan Blečić (http:// memesumeme.blogspot.com/) e i siti di riferimento per Nađa Beretić & Zoran Đukanović (https://www.publicartpublicspace.org/), per Antonio Brusa (http://www. historialudens.it/), per Zaida Muxi (https://blogfundacion. arquia.es/author/zaida/) e per Valentina Talu (https:// tamalaca.com/). Per ultimo ringrazio due soggetti collettivi:
The merits of the product
I thought so, but my colleague Vincenzo Pascucci, coordinator of the Architecture and Environment doctorate, supported this idea in a decisive way, also financially. Nađa Beretić took over the editing of the work, transforming a series of interventions into a finished product. Adriana Perra did the editing and post-production, with competence and gusto, bearing the disorganization that is typical of me. The friends who prepared their contributions, all people I’ve known for years (quite a few have been my students) and who, besides being excellent researchers, are also good people all round (in the academic world this is quite rare, but not at all). No one will be offended if among them I point out only the “dean” of the work: Francesco Indovina is still in the forefront and always proposes stimulating and never banal ideas and reflections: I must say that almost always I agree with him, but sometimes I don’t and the disagreements are not on marginal issues; if you don’t know him I recommend his blog Felicità futura (Future Happiness) (http://felicitafutura.blogspot.com/) or let yourself be included in his mailing list.
I also recommend Oriol Nel.lo’s blog (http:// oriolnello.blogspot.com/) and Ivan Blečić’s blog (http://memesumeme.blogspot.com/) and the reference sites for Nađa Beretić & Zoran Đukanović (https://www.publicart-publicspace.org/), for Antonio Brusa (http://www.historialudens.it/), for Zaida Muxi (https://blogfundacion.arquia.es/ author/zaida/) and for Valentina Talu (https:// tamalaca.com/). Lastly, I would like to thank two collective subjects:
‘Tamalacà’ (https://tamalaca.com/), a spin-off company supported by the University of Sassari (originating from a research group at DADU) whose mission is to “develop innovative projects, services and tools to improve the quality of life and promote the urban rights of all inhabitants, starting with the people and groups who have less”, which has made its editorial line “Tutta mia la città” (Whole city is mine) available to the project. ‘AC/DC Collective Action for the Right to the City’ (https://associazioneacdc.blogspot.com/), a newly founded Social Promotion Association whose President is Valeria Saiu and of which several of the contributors to this product are members. I like to conclude with what the premise of the Association AC/DC’ founding act says: “At the time of the establishment of this Association, the whole planet is experiencing the serious consequences of an epidemic that for the first time in history is affecting a world where most people live in cities, so much so that it can be defined as an “urban planet”. The consequences of this epidemic are not the same for everyone; they are more serious for the most fragile and disadvantaged people in terms of health, economic and work conditions. There is empirical evidence, in fact, that the extent and severity of the contagion and its effects are linked to the possibility of leading a healthy life, as well as defending oneself and fighting the disease also through the access to those facilities and services that in the urban context can be summarized as the “right to the city”. Going beyond the first theoretical formulation proposed by Lefebvre at the beginning of the Seventies (“The right to the city is the possibility for everyone, to enjoy the goods constituted by the urban organization of the territory, and the equal possibility for everyone to participate at the decisions above the transformations”), the right to the city today also takes on an institutional form and a strong operational value; it is Tamalacà (https://tamalaca.com/), un’impresa spin-off sostenuta dall’Università di Sassari (che origina da un gruppo di ricerca del DADU) che ha come missione quella di “sviluppare progetti, servizi e strumenti innovativi per migliorare la qualità della vita e promuovere i diritti urbani di tutti gli abitanti, a partire dalle persone e dai gruppi che ne hanno meno”, che ha messo a disposizione del progetto la sua linea editoriale “Tutta mia la città”. AC/DC Azione Collettiva per il Diritto alla Città (https:// associazioneacdc.blogspot.com/), un’Associazione di Promozione Sociale appena fondata di cui è Presidente Valeria Saiu e di cui sono soci diversi dei contributori di questo prodotto. Mi piace concludere con quanto dice la premessa dell’atto costituivo dell’Associazione: “Al momento della costituzione di questa Associazione tutto il pianeta sta vivendo le gravi conseguenze di un’epidemia che per la prima volta nella storia colpisce un mondo in cui la maggior parte delle persone vive in città, tanto da poter essere definito un “pianeta urbano”. Le conseguenze di questa epidemia non sono uguali per tutte e tutti, sono più gravi per le persone più fragili e svantaggiate per condizioni di salute, economiche e lavorative. Vi sono evidenze empiriche, infatti, che l’estensione e la gravità del contagio e dei suoi effetti sono legate alla possibilità di condurre una vita sana, nonché di difendersi e contrastare la malattia anche attraverso l’accesso a quelle dotazioni e servizi che nell’ambito urbano possono essere sintetizzati come “diritto alla città”. Andando oltre la prima formulazione teorica proposta da Lefebvre agli inizi degli anni Settanta (“II diritto alla città è la possibilità, per tutti, di fruire dei beni costituiti dall’organizzazione urbana del territorio, e uguale possibilità, per tutti, di partecipare alle decisioni sulle trasformazioni”), il diritto alla città assume oggi anche una veste istituzionale e un forte valore operativo; è considerato all’interno della Nuova Agenda Urbana delle Nazioni
Unite come “un nuovo paradigma per lo sviluppo urbano” fondato su tre pilastri: giustizia ambientale e spaziale, partecipazione effettiva, diversità sociale, economica e culturale. Il diritto alla città rappresenta un elemento costitutivo e imprescindibile della democrazia e una componente essenziale dei diritti della persona (la libertà, l’eguaglianza e la fraternità) attraverso cui è possibile ripensare le città e più in generale i sistemi insediativi e ambientali. Il diritto alla città, infatti, per come lo intendiamo, va interpretato in chiave sistemica, considerando ogni elemento del territorio come parte di un complesso e articolato ambiente di vita. È proprio la rottura di questo equilibrio a generare le contraddizioni e gli squilibri da cui si originano eventi come quello pandemico attuale. La pandemia, nella sua gravità ed estensione, non è infatti l’unica minaccia cui far fronte: storicamente molto di frequente è stata la combinazione di crisi ambientali di lungo periodo, catastrofi puntuali, diseguaglianze a produrre il collasso di molte civiltà. Il perseguimento del diritto alla città tiene conto di tutti questi fattori e consente a una società non solo di sopravvivere, ma anche di evolvere e prosperare. Per queste ragioni un gruppo di cittadine e cittadini danno vita a un’Associazione di iniziativa culturale denominata Azione Collettiva per il Diritto alla Città (AC/DC) con lo scopo di promuovere o sostenere le azioni e le esperienze di conquista e di estensione del diritto alla città in tutte le forme.” Io la penso esattamente così.
considered within the New Urban Agenda of the United Nations as “a new paradigm for urban development” based on three pillars: environmental and spatial justice, effective participation, social, economic and cultural diversity. The right to the city represents a constitutive and essential element of democracy and an essential component of personal rights (freedom, equality and fraternity) through which it is possible to rethink cities and, more generally, settlement and environmental systems. The right to the city, in fact, as we understand it, should be interpreted in a systemic way, considering each element of the territory as part of a complex and articulated living environment.
It is precisely the breakdown of this balance that generates the contradictions and imbalances from which events such as the current pandemic originate. The pandemic, in its severity and extension, is not in fact the only threat to be faced: historically, it has very frequently been the combination of long-term environmental crises, punctual catastrophes and inequalities that have produced the collapse of many civilizations. The pursuit of the right to the city takes all these factors into account and allows a society not only to survive, but also to evolve and prosper. For these reasons, a group of citizens give life to an Association of cultural initiative called Collective Action for the Right to the City (AC/DC) with the purpose of promoting or supporting actions and experiences of conquest and extension of the right to the city in all forms.” I feel exactly that way.
Introduzione Introduction
by Nađa Beretić
Nađa Beretić, architetto paesaggista e urbanista, Università di Sassari, DADU e Public art & Public space - PaPs, Facoltà di Architettura, Università di Belgrado
Nađa Beretić, Landscape Architect and Urbanist, University of Sassari, DADU and Public art & Public space - PaPs, Faculty of Architecture, University of Belgrade:
e-mail: nberetic@uniss.it
Questa pubblicazione vuol mostrare quanto siano eterogenei gli approcci disciplinari e tematici alla pianificazione urbana per favorire la comunicazione tra i dottorandi. Come disciplina composita, l’urbanistica è una miscela per definizione. Allo stesso modo, i nostri autori hanno un background disciplinare eterogeneo. Come ha già detto Bibo Cecchini, gli autori di questa pubblicazione includono cinque architetti, due urbanisti, due ingegneri, un geografo, un fisico, un giurista e un filosofo (senza considerare i doppi titoli). Come ha detto Bibo Cecchini, la composizione di questa pubblicazione è “incompleta e idiosincratica”. Non vorrei nemmeno discutere la sua incompletezza. L’idiosincrasia invece, credo, è necessaria per la ricerca urbana. Tra i vari significati, l’idiosincrasia è un modo di pensare e di esprimersi inerente a una comunità (Webster’s New World College Dictionary, 4th Edition, 2010). La definizione è adeguata per questa pubblicazione, se definiamo l’urbanistica come il campo comune dei nostri autori. Tutti i contributi degli autori riguardano la città, la vita quotidiana e il ruolo dell’urbanistica nella creazione di un futuro migliore per tutti. Inoltre, tutti i contributi sono ricerche urbane interdisciplinari perché comunicano una comprensione della città che deriva da un background personale invece di dare una semplice prospettiva disciplinare dei punti di vista sulla città. Tuttavia, forse una definizione più adatta di idiosincrasia sarebbe la sensibilità intrinseca a qualcosa o la caratteristica di qualcuno di rispondere a qualche irritazione/ stimolazione (Cambridge Advanced Learner’s Dictionary & Thesaurus, on line). Bibo Cecchini ha spiegato che ha chiesto agli autori di parlare delle loro attività di ricerca, lasciando loro una libertà quasi totale: la limitazione della libertà avrebbe potuto portare a temi, stili, lunghezze o
This publication aims to communicate the heterogeneous disciplinary and thematic approaches to urban planning in order to enhance the communication amongst the PhD students. As a composite ‘discipline’, urban planning is a mixture by its definition. Likewise, our authors come from a heterogeneous background. As per Bibo Cecchini, the authors in this publication include five architects, two urban planners, two engineers, one geographer, one physicist, one jurist and one philosopher (without considering the double degrees). As Bibo Cecchini said, the composition of this publication is “incomplete and idiosyncratic”. I would not even dare to discuss the incompleteness of this publication. Idiosyncrasy, I believe, is necessary for urban research. Even though it has various meanings, for us idiosyncrasy can be defined as a way of thinking and expressing the inherent in community (Webster’s New World College Dictionary, 4th Edition, 2010). That definition is appropriate for this publication if we define urban planning as a field our authors share. All the authors’ contributions are about the city, everyday life and the role of urban planning in creating a better future for everyone. Explaining different ways of understanding the city as a complex system, all contributions are interdisciplinary. Instead of providing simple disciplinary perspectives, the authors included personal background in the approach to urban research.
However, maybe a more suitable definition of idiosyncrasy would be that it is an inherent sensitivity to something, or someone’s characteristic to respond to some irritation/stimulation (Cambridge Advanced Learner’s Dictionary & Thesaurus, online). Bibo Cecchini asked authors to
speak about their research activities, giving them almost complete freedom to express. Restriction of ‘freedom’ could have resulted in more similar themes, styles, lengths, or approaches. However unusual this format may be, perspective-taking is inevitable in urban planning, and it will not or should not matter when it comes to academic restrictions. Correspondingly, the topics and approaches of authors convey their core passions and communicate some of the possible differences in urban research. The differences correspond to the number of languages and concepts used by authors to express each point of view. This publication is dedicated to the PhD students in Alghero, and they come from various disciplinary backgrounds. This publication can have educational value for interdisciplinary research as it simultaneously offers a common basis and diverse approaches in urban research. Hopefully, it will inspire students to cross the threshold of their disciplinary boundaries. This short introduction additionaly aims to illustrate the evolution and the mixed disciplinary character of the PhD course in Architecture and Environment at the Department of Architecture, Design and Urban Planning (DADU) at the University of Sassari, Italy. “All science should be scholarly, but not all scholarship can be rigorously scientific. ... The ‘terrae incognitae’ of the periphery contain fertile ground awaiting cultivation with the tools and in the spirit of the humanities.” (Wright J.K., in Tuan, 1974/1990: 1). Although Tuan spoke about theories of place, I believe that the same is true for urban planning. Urban planning interacts with more or less fertile land, envisioning, anticipating, and “cultivating” a better quality of life, and future for people. Instead of being a discipline, urban planning has drawn on other foundation disciplines (Grant, 1999). This position in-between humanities and sciences is essential for education and practice in urban planning. approcci più simili. Per quanto insolito possa essere questo formato, la presa di posizione, la scelta di una prospettiva è inevitabile nella pianificazione urbana, e non cambierà o non dovrebbe cambiare a prescindere dalle restrizioni accademiche. Così, i temi e gli approcci degli autori trasmettono le loro passioni principali e comunicano alcune delle possibili differenze nella ricerca urbana. I contributi differenziati corrispondono al numero di linguaggi e concetti utilizzati dagli autori per esprimere il loro punto di vista. I dottorandi di Alghero, a cui è dedicata questa pubblicazione, hanno diversi background disciplinari. Offrendo contemporaneamente una base comune e diversi approcci nella ricerca urbana, questa pubblicazione può avere un alto valore educativo per la ricerca interdisciplinare. Si spera che possa ispirare gli studenti a varcare la soglia dei loro confini disciplinari. Questa breve introduzione ha anche lo scopo di illustrare l’evoluzione e il carattere disciplinare misto del corso di dottorato in Architettura e Ambiente presso il Dipartimento di Architettura, Design e Urbanistica (DADU) dell’Università di Sassari, Italia. “Tutta la scienza dovrebbe essere erudita, ma non tutta la erudizione può essere rigorosamente scientifica. ... Le terrae incognitae della periferia contengono un terreno fertile che attende di essere coltivato con gli strumenti e nello spirito delle scienze umane.” (Wright J.K., in Tuan, 1974/1990: 1). Anche se Tuan parla qui di “teorie del luogo”, quel che dice vale anche la pianificazione urbana, credo. L’urbanistica interagisce con questo “terreno fertile”, immaginando e “coltivando” una migliore qualità della vita e del futuro delle persone. Un elemento fondamentale per la formazione e la pratica dell’urbanistica è che invece di essere semplicemente una disciplina, essa ha attinto ad altre discipline di base (Grant, 1999). Così, l’urbanistica è a metà strada tra le scienze umane e le scienze dure.
Risulta quindi che il carattere interdisciplinare è l’unica possibilità logica per la pianificazione urbana. Ciononostante alcuni considerano questa base interdisciplinare come una debolezza proprio perché la pianificazione urbana ha bisogno della conoscenza di altre discipline; sostengono che questo rende difficile sapere cosa appartiene precisamente all’urbanistica. Allo stesso tempo, l’accademia contemporanea, almeno in Italia, richiede e impone una classificazione delle discipline e degli studiosi in settori scientifici (concorsuali o disciplinari). Mentre alcuni vedono la base interdisciplinare come una debolezza, altri la vedono come un punto di forza fondamentale. Infatti, l’interdisciplinarietà è da alcuni considerata una virtù, operativamente impegnativa e intellettualmente stimolante (Davoudi, 2018). Avendo conseguito due diversi MSc. in Architettura del paesaggio e Urbanistica, credo profondamente nell’importanza della formazione interdisciplinare. Qui uso il termine interdisciplinare, ma vorrei provare a fare una chiara distinzione tra i tre termini talvolta usati in modo intercambiabile. Questi termini sono: multi-disciplinare, inter-disciplinare e trans-disciplinare. Un approccio multidisciplinare significa che varie discipline interagiscono e coesistono, ma ognuna lavora indipendentemente e principalmente con i propri strumenti e metodi (Hunt & Shackley, 1999). Quindi, probabilmente usare la parola multidisciplinare sarebbe tecnicamente il modo più corretto di parlare di studenti di uno stesso dottorato articolato su discipline diverse. L’interdisciplinarità implica la sovrapposizione di spazi tra le discipline per costruire nuove conoscenze (Sands, 1993). Con questo approccio, la nostra conoscenza si integra e si modifica con altre prospettive disciplinari. In alcuni casi, questa interdisciplinarità è presente nei corsi di dottorato, e la trovo desiderabile per la pianificazione urbana che richiede una prospettiva complessa.
It seems that interdisciplinary character is the only logical possibility of urban planning. Yet, some consider the interdisciplinary basis as a weakness precisely because urban planning relies on knowledge of other disciplines. They argue that this makes it difficult to know what exactly belongs to urban planning while the contemporary academy requires a classification of people in the scientific sectors. At the same time, others see it as a key strength. Indeed, interdisciplinarity is now considered a virtue, operationally demanding and intellectually challenging (Davoudi, 2018). Having MSc. degrees in both landscape architecture and urban planning, I firmly believe in the importance of interdisciplinary education. I used the term interdisciplinary, and I would like to make a clear distinction between the three terms often used interchangeably. These terms include multidisciplinary, interdisciplinary, and transdisciplinary. A multi-disciplinary approach means that various disciplines interact and co-exist, but each working independently and primarily with their own tools and methods (Hunt and Shackley, 1999). Therefore, multidisciplinary education would sound technically most correct when talking about doctoral students of the same cycle. An interdisciplinary approach implies the spaces between disciplines in which new knowledge builds (Sands, 1993) - our knowledge integrates and modifies by gaining knowledge in other disciplinary perspectives. In some cases, PhD course use an interdisciplinary approach that is particularly desirable for urban planning education, which requires a complex perspective. The trans-disciplinarily approach is the highest possible mix of knowledge in which different disciplines intersect, problematize and challenge each other (Sands, 1993), making traditional disciplinary boundaries disappear.
This is the reason why I decided to illustrate the disciplinary diversity in the evolution of the PhD School in Alghero.
The processed data refer to the period between 2003-2018, which corresponds to the national PhD system of cycles from XIX to XXXIV. Academic years are referent to the date of inscription in the PhD school in Architecture and Environment at DADU. Initially, the PhD school was entitled the Environmental Project of Space, and the first two generations (XIX and XX cycle) obtained this doctorate. The PhD school was named Architecture and Urban Planning from XXI to XXVIII cycle. Successively, from the XXIX cycle, the school has changed the name to Architecture and Environment.
The selected period includes students who have completed a doctoral school until the XXXIX cycle. Although the PhD candidates from the XXXIV have not yet discussed their PhD thesis, they have completed all the steps required during the three years of the PhD course. Therefore, they are included in this research. This involves data of 75 people in total. The elaboration might contain minor flaws in data accuracy because available data on the web page are insufficient for this research. In some cases, PhD candidates were contacted personally in order to gather the information, but not all the contacts were possible to find. Another cause for minor flaws occurrence might be the gap between master/magisterial degrees and the classification of scientific sectors. This gap appears because master courses differ from one to another due to the specific program. L’approccio transdisciplinare è il massimo mix possibile: in esso le diverse discipline si intersecano, si problematizzano e si sfidano a vicenda (Sands, 1993), facendo scomparire i tradizionali confini disciplinari. Cercherò di illustrare la varietà disciplinare nell’evoluzione della Scuola di Dottorato di Alghero. Fatti
I dati elaborati si riferiscono al periodo 2003-2018, che corrisponde al sistema nazionale di dottorato dei cicli dal XIX al XXXIV. Gli anni accademici si riferiscono alla data di iscrizione alla scuola di dottorato in Architettura e Ambiente del DADU, che ha cambiato nome nel tempo. Inizialmente, la scuola di dottorato era intitolata Progetto Ambientale dello Spazio, e le prime due generazioni (XIX e XX ciclo) hanno ottenuto questo dottorato. La scuola di dottorato è stata chiamata Architettura e Pianificazione dal XXI al XXVIII ciclo. Successivamente, dal XXIX ciclo, la scuola ha cambiato nome in Architettura e Ambiente. Il periodo selezionato include studenti che hanno completato la scuola di dottorato fino al XXXIV ciclo. Anche se i dottorandi del XXXIV non hanno ancora discusso la loro tesi di dottorato, hanno completato tutti i passi richiesti durante i tre anni del corso di dottorato quindi, inclusi nella ricerca. In totale, si tratta dei dati di 75 persone. L’elaborazione potrebbe contenere piccoli difetti nell’accuratezza dei dati perché i dati disponibili sulla pagina web sono insufficienti per questa ricerca. Così, in alcuni casi, i dottorandi sono stati contattati personalmente per raccogliere le informazioni, ma non è stato possibile contattare tutti. Un’altra causa del verificarsi di piccoli difetti potrebbe essere il divario tra i diplomi di master/ laurea magistrale e la classificazione dei settori scientifici o delle classi di laurea, perché i corsi di master o laurea magistrale differiscono da uno all’altro a causa del programma specifico.
Inoltre, i laureati possono avere diverse conoscenze di base; per esempio, si può ottenere un master o una laurea magistrale in architettura del paesaggio alla facoltà di architettura, agraria o forestale. Per esperienza personale, anche se la laurea ottenuta porta lo stesso titolo o un titolo simile, le conoscenze di base, gli strumenti e i metodi differiscono notevolmente a causa della scuola e del programma. Inoltre, quasi ogni ciclo del corso di dottorato ad Alghero ha iscritto almeno uno studente straniero, e i loro sistemi nazionali potrebbero avere diverse classificazioni dei settori disciplinari e delle classi di laurea. Comunque, tutti i possibili errori minori nella raccolta dei dati non hanno un’influenza significativa sui risultati e sulla discussione. I risultati hanno mostrato che il 77,33% degli studenti che entrano nel dottorato ha una laurea riguardante i settori disciplinari inclusi nell’area 08a Ingegneria Civile e Architettura. Tra questi, il 56% ha un riferimento alle lauree che si possono ottenere al DADU: architettura (73.81%), urbanistica (21.43%) e design (7.76%); per essi. Più del 26% del totale dei dottorandi si è laureato alla DADU, con un rapporto tra studenti di architettura e urbanistica di 65 a 35. Più del 17% proviene dalla Facoltà di Ingegneria e Architettura dell’Università di Cagliari, e quasi tutti sono ingegneri dell’ambiente e del territorio o ingegneri civili-edili. Quindi, meno della metà dei dottorandi proviene dalle Università sarde. Possiamo vedere che la maggior parte di questi studenti (che in totale, lo ripetiamo sono quasi 8 su 10) non sono urbanisti, quindi, potrebbero non avere familiarità con la comprensione della città come un sistema complesso. Tuttavia, questa presunzione potrebbe essere ambigua a seconda di numerosi fattori.
Degree holders can have different background knowledge; for example, from personal experience, one can obtain a master in landscape architecture at the faculty of architecture, agriculture, or forestry. Although the degree obtained bears the same or similar title, basic knowledge, tools and methods differ significantly due to the school/department/ faculty and programme. Moreover, almost every cycle of the PhD course in Alghero enrolled at least one international student, and their national systems might have different classifications of disciplinary sectors. However, all possible minor errors in collecting data have no significant influence on the results and the discussion.
Results showed 77.33% of the student entering the PhD had a degree concerning the disciplinary sectors included in area 08a Civil Engineering and Architecture. Amongst them, 56% with a disciplinary reference to the degrees, which one can obtain at DADU: architecture (73.81%), urbanism (21.43%), and design (7.76%). More than 26% of the total number of PhD students graduated at DADU, with the ratio of 65 to 35% amongst students in architecture and urbanism. More than 17% came from the Faculty of Engineering and Architecture, University of Cagliari, and almost all of them are Engineers in Environment and Territory or Civil-Construction Engineers. Thus, less than half of PhD students come from Sardinian schools. We can see that the majority of the students are not urbanist (which, in total, are almost 8 out of 10) and might not be familiar with understanding the city as a complex system. However, this presumption might be ambiguous depending on numerous factors.
Above all, we can discuss whether understanding the city depends on a degree or a program. In this sense, more research about master programs that students obtained before enrolling in a PhD course is needed.
Other times, some organisational circumstances may facilitate closer collaboration amongst students who attend different courses. For example, in the case of Alghero, the small size of the Department might be an additional advantage. Students are in a physically smaller space, sharing information and meeting more often during breaks or preparation for class. They can attend the same elective subjects, conferences, summer schools, etc. It all allows students a greater familiarisation with each other, with research topics, and with a range of professionals - including regular and visiting professors and non-academic experts. Thus, students have the opportunity to “contaminate” their professional languages, ways of communication and collaboration even before enrolling on the PhD. Yet, no matter the circumstances, this “contamination” is not an easy task until one chooses to be contaminated.
The remaining 22.67% are diplomas in natural (12.00%) and human (10.67%) sciences. Within the mixed degrees in natural sciences, the highest percentage belongs to biology and agriculture. These disciplinary fields have an equal share and make 66.67% of the total number concerning natural sciences. In the context of humanities, diplomas in philosophy are predominant, with a share of 50.00%, and the following are diplomas in archaeology (25.00%). Observing professional representation over time, we can see changes in the trend. In the first generation (XIX cycle), all degrees of access bordered on Urbanism - e.i. Engineers of architecture and territory (66.67%), and civil engineers. The varied disciplines at the PhD course first appeared with the second generation. Architects accounted for 42.86%, which in total was the same as the presence of engineers and landscape architects. Philosophers Soprattutto, possiamo discutere se la comprensione della città dipende da una laurea o da un programma. In questo senso, è sarebbe necessaria una maggiore ricerca sui programmi dei master o delle lauree magistrali e triennali che gli studenti hanno ottenuto prima di iscriversi al corso di dottorato. Altre volte, alcune circostanze organizzative possono facilitare una più stretta collaborazione tra studenti di corsi diversi. Per esempio, nel caso di Alghero, le piccole dimensioni del Dipartimento potrebbero essere un ulteriore vantaggio. Gli studenti si trovano in uno spazio fisicamente più piccolo, condividono informazioni e si incontrano più spesso durante le pause o la preparazione delle lezioni. Inoltre, possono frequentare le stesse materie elettive, conferenze, scuole estive, ecc. Tutto ciò permette agli studenti una maggiore familiarità tra loro e l’incontro con una serie di professionisti, tra cui professori regolari e in visita ed esperti non accademici. Così, gli studenti hanno l’opportunità di ‘contaminare’ i loro linguaggi professionali, i modi di comunicazione e di collaborazione ancor prima di iscriversi al dottorato. Eppure, a prescindere dalle circostanze, questa ‘contaminazione’ non è un compito facile soprattutto finché non si sceglie di essere contaminati. Il restante 22,67% sono diplomi in scienze naturali (12,00%) e umane (10,67%). All’interno dei diplomi misti in scienze naturali, la percentuale più alta appartiene ai campi della biologia e dell’agraria che hanno una quota uguale e costituiscono i due terzi del numero totale riguardante le scienze naturali. Nel contesto delle scienze umane, i diplomi in filosofia sono predominanti, con una quota della metà e seguono con un quarto diplomi in archeologia. Osservando la rappresentanza professionale nel tempo, possiamo vedere dei cambiamenti di tendenza. Nella prima generazione (XIX ciclo), tutte le lauree di accesso provenivano dai settori ai confini con l’Urbanistica - ad esempio Ingegneri ambientali e ingegneri civili. Nella seconda generazione gli architetti rappresentavano il 42,86%, la stessa quota degli ingegneri e degli architetti
del paesaggio. I filosofi erano il 14,29%. Nella terza generazione (XII ciclo), gli architetti e gli ingegneri erano equamente distribuiti (80,00% combinato). In questo ciclo, i primi designer si sono iscritti al corso di dottorato. Il numero di architetti e archeologi era equivalente nella generazione successiva. Il numero di architetti predominò (66,67%), e il primo urbanista entrò nel corso di dottorato nella quinta generazione. Il ciclo successivo era composto da architetti (66,67%) e un filosofo. Gli architetti hanno prevalso nella settima generazione (80,00%), accompagnati da un urbanista. Nel ciclo successivo si sono iscritti architetti (60,00%), un urbanista e un ingegnere. La metà della nona generazione era composta da architetti, mentre l’altra metà era formata da un urbanista e un archeologo. Nella decima generazione, il 71,43% dei dottorandi aveva diplomi appartenenti ai settori disciplinari inclusi nell’area 08a Ingegneria Civile e Architettura; la rappresentanza delle diverse discipline era quasi equamente distribuita, includendo architetti, urbanisti e ingegneri. I dottorandi provenienti da discipline umanistiche (filosofia e sociologia) costituivano il restante 28,57%. L’undicesima generazione aveva anche una presenza eterogenea di discipline cioè architetti, urbanisti, paesaggisti, designer. Costituivano il 66,67% del totale dei dottorandi. Il resto del 33,33% era composto da studenti di dottorato provenienti da discipline umanistiche (filosofia e diritto). I primi studenti provenienti dai campi delle scienze naturali si sono iscritti a un corso di dottorato di dodici generazioni. Tuttavia, tutti i rimanenti studenti erano architetti (80,00%). Nella tredicesima generazione, la metà dei dottorandi proveniva dalle scienze naturali (biologia e geologia) e l’altra metà da discipline appartenenti all’area 08a (architettura e ingegneria). Gli architetti e gli urbanisti costituiscono il 66,67% della quattordicesima generazione, mentre il resto dei dottorandi proviene dalle scienze naturali. Nell’ultimo ciclo elaborato, i dottorandi di scienze naturali (57,14% in totale, includendo biologia e agricoltura) dominano su quelli che provengono dalle discipline architettoniche (architettura, urbanistica e ingegneria).
made up 14.29%. In the third generation (XII cycle), architects and engineers were evenly distributed (80.00% combined). In this cycle, the first designers enrolled in a PhD course. The number of architects and archaeologists was equivalent in the next generation. The number of architects predominated (66.67%), and the first urban planner entered the PhD course in the fifth generation. The following cycle was composed of architects (66.67%) and a philosopher. Architects prevailed in the seventh generation (80.00%), accompanied by an urban planner. Architects (60.00%), an urban planner and an engineer enrolled in the next cycle. Half of the ninth generation consisted of architects, while the other half formed by an urban planner and an archaeologist. In the tenth generation, 71.43% of PhD students had diplomas belonging to the disciplinary sectors included in area 08a Civil Engineering and Architecture; the representation of different disciplines was almost evenly distributed, including architects, urban planners and engineers. The PhD students coming from humanities (philosophy and sociology) made up the remaining 28.57 %. The eleventh generation also had a heterogeneous presence of disciplines from field 08a, namely, architects, urban planners, landscape architects, designers. They made 66.67% of the total number of PhD students. The rest of 33.33% composed of PhD students coming from humanities (philosophy and law). The first students from the fields of natural sciences enrolled in the twelfth-generation doctoral course. However, all the remaining students were architects (80.00%). In the thirteenth generation, half of the PhD students came from the natural sciences (biology and geology) and the other half from disciplines belonging to area 08a (architecture and engineering). Architects and urban planners made 66.67% of the fourteenth generation, while the rest of PhD students came from natural sciences. In the last elaborated cycle, PhD students from natural sciences (57.14% in total, including biology and agriculture) dominate over those who came from the architectural disciplines (architecture, urban planning and engineering).
In summary, presented data showed the PhD school at DADU had interdisciplinary potentials from the very beginning - i.e. second generation, which involved PhD students from the architectural fields mixed with the humanities. The first PhD students who are urban planners first appeared in 2008. This fact coincides with the general dynamics of the school. The percentage of those coming from humanities and natural sciences changed over time. PhD students from the fields of humanities were present
SSD: ICAR 08a Ingegneria Civile e Architettura SCI. SECTOR: 08a Civil Engineering and Architecture
settori confini bordering sectors
Progetto Ambientale dello Spazio Environmental Project of Space
56.00%
In sintesi, i dati presentati hanno mostrato che la scuola di dottorato al DADU aveva potenzialità interdisciplinari fin dall’inizio - cioè la seconda generazione, che ha coinvolto studenti di dottorato dai campi dell’architettura mescolati con le scienze umane. Come abbiamo detto nel 2008 sono apparsi i primi urbanisti. Questo fatto coincide con la dinamica generale della scuola. Allo stesso tempo, la percentuale di quelli provenienti dalle scienze umane e naturali è cambiata nel tempo. I dottorandi provenienti dai settori delle scienze umane
SCIENZE UMANE HUMANITIES SCIENZE NATURALI NATURAL SCIENCES
XIX XX XXII XXIII XXIV XXV XXVI XXVII XXVIII XXIX XXX XXXI XXXII XXXIII XXXIV
21.33% 12.00% 10.67%
77.33%
erano presenti fin dall’inizio del corso di dottorato, mentre i primi studenti provenienti dalle scienze naturali sono apparsi nel 2015 (la tredicesima generazione del corso di dottorato). D’altra parte, la compresenza di studenti di scienze naturali o umanistiche non si è verificata. Da quando il numero di studenti di scienze naturali iscritti al corso di dottorato (2015) ha iniziato a crescere, quelli provenienti dalle scienze umane sono scomparsi. I dottorandi di scienze umane e naturali non si sono mai mescolati nello stesso ciclo.
from the beginning of the PhD course, while the first students coming from natural sciences appeared in 2015 (the thirteenth generation of the PhD course). The presence of students from the natural sciences and humanities is mutually exclusive. Since the number of students from the natural sciences enrolled in the PhD course (2015) has started to grow, those coming from humanities have decreased in numbers. PhD students from humanities and natural sciences have never mixed in the same cycle.
Although there was an intention to form a doctoral school with an interdisciplinary character, it took eleven years before it gained a predisposition to become one; from the eleventh generation and forward, several disciplines continued to grow. This statement is true if we observe the presence and change of different disciplines within one cycle and over time. If we look at the general picture, as mentioned above, there is a need to strengthen the simultaneous mixture of natural and human sciences with architectural disciplines in the same PhD cycle. Represented data doubtlessly showed the PhD School at DADU as a multi-disciplinary school. As Bibo Cecchini said in his preface, the school was founded “as interdisciplinary out of love”. Data has proven a growing trend towards higher disciplinary diversity. This position should be treasured, representing an excellent base to experiment with the boundaries of disciplinary knowledge and possibilities for innovation in research - i.e. the capacities of trans-disciplinarity. While some students are more interested or even educated in interdisciplinary work, others are not. Thus, the presence of a multidisciplinary group of PhD students is only a predisposition, and it does not mean that the course is necessarily interdisciplinary. Without planned interaction, PhD students are not challenged to leave the comfort zone of their professional knowledge. They can mix more or less while each works independently and primarily with their own tools and methods. Hence, unless managed within a group, we can say that the interdisciplinarity remains a personal choice. To gain an interdisciplinary character, the PhD School must plan shared educational and research activities to inspire students’ collaboration and “contamination” between their diverse disciplinary fields or, at least, to aid the communication among them. This interaction will provide the opportunities for the construction of new knowledge in interface in-between different disciplines. Having said that, we cannot argue the interdisciplinary character without previously Anche se c’era l’intenzione di formare una scuola di dottorato con un carattere interdisciplinare, ci vollero undici anni prima che lo diventasse; dall’undicesima generazione in poi, un certo numero di discipline diverse continuò a crescere. Questa affermazione è vera se osserviamo la presenza e il cambiamento delle diverse discipline all’interno di un ciclo e nel tempo. Se guardiamo il generale, come detto, c’è la necessità di pensare alla possibilità di una miscela simultanea di scienze naturali e umane con le discipline architettoniche nello stesso ciclo di dottorato. I dati rappresentati mostrano senza dubbio che la scuola di dottorato del DADU è multidisciplinare. Come ha detto Bibo Cecchini nella sua prefazione, la fondazione della Scuola di dottorato interdisciplinare è stata un matrimonio d’amore. I dati hanno dimostrato una tendenza crescente verso una maggiore diversità disciplinare. Questa posizione dovrebbe essere apprezzata, rappresentando una base eccellente per sperimentare i confini della conoscenza disciplinare e le possibilità di innovazione nella ricerca - cioè le capacità di trans-disciplinarietà. Mentre alcuni studenti sono più interessati o addirittura educati al lavoro interdisciplinare, altri non lo sono. Così, la presenza di un gruppo multidisciplinare di studenti di dottorato è solo una predisposizione, e non significa che il corso sia necessariamente interdisciplinare. Senza un’interazione pianificata, i dottorandi non sono sfidati a lasciare la zona di comfort delle loro conoscenze professionali. Possono mescolarsi più o meno mentre ognuno lavora indipendentemente e principalmente con i propri strumenti e metodi. Quindi, a meno che non sia gestito all’interno di un gruppo possiamo dire che l’interdisciplinarietà rimane una scelta personale. Per acquisire un carattere interdisciplinare, la Scuola di dottorato deve pianificare attività didattiche e di ricerca condivise per ispirare la collaborazione e la contaminazione degli studenti tra i loro diversi campi disciplinari o, almeno, per aiutare la comunicazione tra loro. Questa interazione fornirà opportunità per la costruzione di nuove conoscenze nell’interfaccia tra le diverse discipline.
Detto questo, non si può argomentare il carattere interdisciplinare senza analizzare prima la relazione tra la diversità disciplinare, il programma di dottorato e la qualità delle tesi stesse - cioè i campi a cui contribuiscono e in che modo. Non vorrei approfondire questa relazione qui, ma vorrei sottolineare che la coordinazione e la comunicazione condizionano il livello di interdisciplinarità di un gruppo. Infine, circa il 15% (14,67%) del totale degli studenti che hanno finito il dottorato ad Alghero sono stranieri. La maggior parte di loro sono architetti, mentre altri sono urbanisti, paesaggisti e ingegneri, cioè tutti appartenenti alle discipline architettoniche. Il carattere internazionale, dal mio punto di vista, è un elemento prezioso che contribuisce e in qualche modo facilita il cammino verso la ricerca interdisciplinare e transdisciplinare. Questa affermazione si riferisce specificamente alla ricerca urbana per due ragioni principali. In primo luogo, tutti noi abbiamo un’esperienza con una città, quindi anche gli urbanisti ce l’hanno. Anche quando prendiamo decisioni razionali, agiamo più o meno a causa delle costruzioni culturali delle città con cui abbiamo familiarità. In secondo luogo, questa relazione emotiva con un contesto abituale può legare il nostro sguardo a una prospettiva fissa. Così, una visione esterna inala la freschezza che riflette un approccio più aperto a soluzioni alternative. Per queste ragioni, la ricerca di studenti stranieri in Sardegna giova qualitativamente alla Scuola, per cui lo scambio di esperienze tra studenti può essere maggiormente favorito. Alla fine, vorrei concludere con una dichiarazione personale. Ho scelto il percorso ma ho anche avuto la fortuna di lavorare sempre in team interdisciplinari. Le persone che mi hanno insegnato il lavoro interdisciplinare mi hanno anche mostrato che la comunicazione e lo scambio di prospettive diverse sono presupposti necessari per superare i confini personali della conoscenza verso la interdisciplinarietà. Quindi, vorrei ringraziare tutti gli autori che hanno condiviso un pezzo di se stessi con tutti noi.
analysing the relationship between disciplinary diversity, the PhD program, and the quality of the dissertations themselves - i.e. the fields to which they contribute and in what way. However, I would like to emphasise that coordination and communication condition the level of interdisciplinarity in a group. Finally, about 15 % (14.67%) of the total number of students who finished their PhD in Alghero are foreigners. The majority of them are architects, while others are urbanists, landscape architects and engineers - i.e. all belonging to the architectural disciplines. From my point of view, the international character of the PhD course is a precious element that contributes and, somehow, facilitates the road towards interdisciplinary and trans-disciplinary research. This statement relates specifically to urban research for two principal reasons. First, we all have an experience with a city, so urban planners have it too. Even when we make rational decisions, we act more or less due to the cultural constructions of the cities that we are familiarised with. Second, this emotional relationship with a customary context can bind our view to a fixed perspective. So, an external view inhales the freshness that reflects a more open-minded approach to alternative solutions. For these reasons, research by foreign students in Sardinia qualitatively benefits the School, so exchange of experiences among students can be more fostered. In the end, I would like to finish with a personal statement. I choose the path of interdisciplinary education but had the luck to work all the time in interdisciplinary teams. People who taught me interdisciplinary work showed me that it simultaneously requires a lot of communication and exchange of different perspectives. These are necessary preconditions for crossing personal boundaries of knowledge towards interdisciplinarity. I would like to thank all authors who shared a piece of themselves with all of us.