Il Calciatore Agosto_Settembre 2020

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femminile

di Bianca Maria Mettifogo

Shiva Amini, da Teheran a Chiavari alla ricerca di un futuro

“Mi manca la vita che avevo costruito in Iran” Sono Shiva, ho 30 anni e vivo a Chiavari. In Iran ho lasciato la mia famiglia, gli amici, il mio cane. In Iran ho lasciato la vita che mi ero costruita faticosamente. Perché essere donne, in Iran, è faticoso. Lo dice anche Masih Alinejad, giornalista, attivista, che vive in esilio tra Londra e New York: “Essere donna in Iran è una battaglia continua. Devi lottare ogni giorno per affermare diritti basilari”. È da un po' che non racconto la mia storia, la gente a volte non ascolta, scrive cose diverse da quelle che dico, preferisco non espormi se questo è il rischio. Oggi però ho deciso di condividere un pezzo della mia vita, di dare un messaggio di speranza e di forza. In Iran giocavo a calcio: per 12 anni ho militato in Super League, la Serie A. Non è stata una scelta facile. Le bambine non dovrebbero giocare a calcio ma io avevo la passione, una passione così forte che mi ha portata ad andare avanti, a lottare per poter continuare nel mio sogno. I miei genitori non mi hanno mai obbligata a fare scelte diverse, mi hanno sempre aiutata ad essere me stessa, ad inseguire le mie aspirazioni, i miei desideri. Sono entrata nella Nazionale di Calcio a 5; mi sarebbe piaciuto far parte della Nazionale a 11 ma la Federazione aveva scelto per me. Ricordo con piacere quel periodo: abbiamo giocato

viaggiavo molto anche da sola, la mia famiglia non mi impartiva divieti. Era il 2017, a marzo avevo due settimane di vacanze, per noi era Capodanno: andai a Zurigo, da amici. Ma anche là non potevo resistere lontana dai campi da calcio. Giocai con degli amici, in pantaloncini corti e senza velo. Ero felice, pensai di celebrare quel momento e di postare una foto su Instagram: il mio profilo era privato, pochi amici, la famiglia. Come ero solita fare durante le vacanze, spegnevo il telefono per riaccenderlo ogni tanto: dopo 3 giorni trovai un lungo elenco di chiamate senza risposta e tantissimi messaggi. Temevo per la salute di papà. Non potevo immaginare che quel momento avrebbe rappresentato il conto da pagare per essere una donna iraniana, la svolta del mio destino. Mi avevano cercato le compagne di calcio, la federazione, oltre alla mia famiglia: avevo giocato con una squadra che era ritenuta contraria al regime. Ero scesa in campo senza velo, in pantaloncini e con degli uomini. La mia famiglia fu interrogata, anche il governo prese posizione sulla mia “situazione”: non ero più una persona gradita in Iran. Intanto iniziai a stare male: ebbi una crisi respiratoria. Fui ricoverata a Zurigo. Pensavo al mio negli ultimi dieci “Cosa significa essere donna in Paese: anni avevo costruito la Iran? Vuol dire vivere l’inferno” mia attività, la mia vita. Avevo la mia famiglia, il il Mondiale, siamo state in Ucraina, in mio fidanzato ed il mio cane Berandi. Giordania, in Vietnam. A Zurigo non conoscevo la lingua, ero Giocavamo con il velo, a volte faceva disorientata. Molti Paesi si mobilitadavvero caldo ma la gioia di calcare un rono per me. Iniziavo intanto a stare campo da calcio era immensa ed anmeglio, fui dimessa dall’ospedale, imdava oltre ogni difficoltà ed ogni tentaparai il tedesco… che fatica! tivo di dissuasione: ripenso a quando Al mio fianco avevo un “angelo”: un il Kuwait ci invitò a giocare, facendoci avvocato, allenatore di calcio, che mi una buona proposta economica, ma la aiutava in tutto, portandomi ad allenaFederazione Iraniana ci vietò questa re, dopo un lungo recupero fisico, una possibilità. Ma noi andavamo avanti. Io squadra di bambini.

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Entrai ufficialmente nella black list del governo iraniano, insieme ad altri 10.000.000 – diecimilioni – di iraniani: politici, cantanti, sportivi, intellettuali… Il governo svizzero non sapeva cosa fare: il visto sportivo non bastava più, era arrivato il momento di chiedere asilo politico. Ma non volevo. Era come ammettere che non sarei rientrata nel mio Paese, tra i miei affetti. Lasciai il mio fidanzato: una decisione comune, in fondo cosa potevo offrirgli, quando ci saremmo potuti rivedere? Non sapevo nemmeno cosa ne sarebbe stato di me. Ma per la richiesta di asilo mi mandarono in Italia, dopo aver cercato di ricostruire una “nuova me” in Svizzera. Ricordo il calore degli amici, la mobilitazione di tutte le persone care che avevo conosciuto per farmi restare, ma non si poteva fare diversamente. Grazie ad una conoscenza arrivai a Genova, da una famiglia americana. Ricordo il giorno in cui andai in questura per la richiesta di asilo: ero in fila, in mezzo a molti altri immigrati, percepivo che non sarebbe stato semplice e che non c’era la volontà di accettarci. Arrivò il mio turno: non parlavano inglese e nemmeno tedesco, io non conoscevo l’italiano. Poi un poliziotto mi portò da una signora che conosceva l’inglese ed iniziò la mia avventura italiana. Trascorsi due mesi in un campo per immigrati a Genova: se ci penso ora mi viene la pelle d’oca. Cercavo solo di so-


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