354 aprile giugno 2012
Per un pensiero postcoloniale Premessa Roberto Beneduce La potenza del falso. Mimesi e alienazione in Frantz Fanon Simona Taliani Per una psicanalisi a venire. Politiche di liberazione nei luoghi della cura Nigel C. Gibson “I dannati” di Fanon e la razionalità della rivolta Archivio di immagini Annalisa Oboe Sull’invito a “pensare oltre” di Achille Mbembe Achille Mbembe Pensare oltre. Perché è utile la prospettiva postcoloniale INTERVENTI E DISCUSSIONI Sergia Adamo Sulla “letteratura mondiale” di Gayatri Chakravorty Spivak Gayatri Chakravorty Spivak Una letteratura mondiale: la posta in gioco Antonello Sciacchitano “L’ignorante e il folle” ovvero la follia e la sragione in Foucault Edoardo Greblo Il fantasma dell’universale Alessandro Dal Lago Contare o perire. L’uso degli indici bibliometrici nella valutazione della ricerca MATERIALI Luigi Azzariti-Fumaroli Nota a “Ricordi di Walter Benjamin” di Ernst Bloch Ernst Bloch Ricordi di Walter Benjamin
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rivista fondata da Enzo Paci nel 1951 direttore responsabile: Pier Aldo Rovatti redazione: Sergia Adamo, Paulo Barone, Graziella Berto, Deborah Borca (editing, deborahborca@libero.it), Silvana Borutti, Damiano Cantone, Mario Colucci, Alessandro Dal Lago, Giovanna Gallio, Edoardo Greblo, Raoul Kirchmayr, Giovanni Leghissa, Massimiliano Nicoli, Ilaria Papandrea, Fabio Polidori, Rosella Prezzo, Pier Aldo Rovatti, Massimiliano Roveretto, Antonello Sciacchitano, Giovanni Scibilia, Davide Zoletto direzione: c/o il Saggiatore, via Melzo 9, 20129 Milano sito web: autaut.saggiatore.it collaborano tra gli altri ad “aut aut”: G. Agamben, H.-D. Bahr, R. Bodei, L. Boella, J. Butler, M. Cacciari, A. Cavarero, R. De Biasi, G. Dorfles, M. Ferraris, U. Galimberti, P. Gambazzi, S. Givone, A. Heller, F. Jullien, J.-L. Nancy, A. Prete, M. Serres, G.C. Spivak, G. Vattimo, M. Vegetti, P. Veyne, V. Vitiello, S. Žižek per proposte di pubblicazione: redazioneautaut@gmail.com Si fa presente che “aut aut” non pubblica recensioni e non accetta testi di ampiezza superiore a 40.000 battute (note e spazi compresi).
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Premessa
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l pensiero della postcolonia deve moltissimo a Frantz Fanon (1925-1961). Il suo gesto, ripetuto da Pelle nera, maschere bianche alle ultime righe di I dannati della terra, è l’invito a pensare una rivolta che non cessa di rinnovarsi: degli oppressi contro il dominio, del sapere contro la violenza delle sue categorie, e di ciascuno contro il proprio narcisismo. Fanon ha in mente donne e uomini in carne e ossa, stregati dall’inganno, ne conosce i corpi piegati dalla tortura: soggettività il cui desiderio e il cui dolore ascolta a partire dal suo essere psichiatra. Da qui la forza unica delle sue parole, della sua poetica, e di una critica che mentre dissolve interi campi di conoscenza già ne semina di nuovi (sono i temi dell’intervento di Roberto Beneduce). Fanon guarda a un’Africa a venire, come ricorda il titolo di uno dei suoi scritti, a una comunità liberata tanto dalle frontiere visibili quanto da quelle interiori; parla anche di un sapere a venire, nel quale sia diversamente articolato il rapporto fra storia e psichismo (una psicanalisi a venire, come suggerisce Simona Taliani). Fanon non insegue una verità che detti la sua legge: cerca piuttosto una verità come tentativo e come prassi, inquieta e aperta, ricorda Nigel C. Gibson, e tale perché in grado di rifiutare le seduzioni di un’oggettività ambigua che spesso si abbatte contro i più deboli. La sua attualità nasce dalla capacità di anticipare molti dei problemi di quella che si conviene ormai definire postcolonia, ma anche e soprattutto dalla densità di domande che attraversano da parte a parte ogni scabro confine temporale. aut aut, 354, 2012, 3-4
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La seconda parte della sezione ospita un ampio saggio di Achille Mbembe (introdotto da Annalisa Oboe) nel quale si invita a Pensare oltre ogni forma di provincialismo. Di origine camerunese, Mbembe è nella condizione culturale più favorevole per dialogare, da “immigrato” in Europa, con la teoria postcoloniale di matrice anglosassone e con gli studi critici afro-americani e della diaspora africana negli Stati Uniti. Secondo lui è venuto il momento di voltare le spalle all’approccio “protezionista” nell’ambito degli studi sociali, e di aprire al massimo l’orizzonte critico, curvandolo da uno sguardo tendenzialmente rivolto al passato a una prospettiva in cui voci e “colori” si mescolino in vista di un sapere rinnovato e di nuove soggettivazioni. Il che vale anche per gli studi postcoloniali in Italia.
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La potenza del falso. Mimesi e alienazione in Frantz Fanon ROBERTO BENEDUCE
1. “E poi ci fu dato di affrontare lo sguardo bianco.” Dentro il labirinto Vista la richiesta depositata il 1° dicembre 1981 da parte di Schin Oua Siron, notaio a Fort de France, […] considerato che Frantz Marguerite Victor FANON è nato a Fort de France il 20 luglio 1925 da Félix Casimir FANON e da Eléonore Félicia MEDELICE, sua moglie, che in seguito a diverse circostanze Frantz Marguerite Victor FANON ha fatto uso di un’altra identità, quella di Ibrahim FANON, e che egli è deceduto con tale identità il 6 dicembre 1961 a BALTIMORA (MARYLAND), Stati Uniti, secondo quanto risulta da un certificato di morte stilato il 13 dicembre 1961, [considerato inoltre] che l’identità tra la persona deceduta e Frantz Marguerite Victor FANON non può essere messa in dubbio […], il Procuratore della Repubblica ha l’onore di concludere che c’è identità di persona tra Frantz Marguerite Victor FANON […] e Ibrahim FANON, deceduto a BALTIMORA (MARYLAND, Stati Uniti) il 6 dicembre 1961.1 1. Ringrazio Hervé M. Zenoki, responsabile della biblioteca Frantz Fanon di RivièrePilote (Martinica), per avermi reso disponibile questo documento, così come altri materiali inerenti alla vita e alle opere di Fanon (in particolare quelli riportati alle pp. 77 e 79-80 in questo fascicolo). I termini in maiuscolo sono quelli del testo originale.
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Recitava così, nel linguaggio pedante di un atto anagrafico, la rettifica del nome riportato sul certificato di morte di Fanon. Deceduto negli Stati Uniti a causa di una leucemia, Frantz Fanon aveva cambiato il proprio nome in quello di Ibrahim. Ciò che il certificato non spiega sono però le ragioni di quella scelta, le “diverse circostanze” che l’avevano determinata: due attentati, uno in Tunisia, l’altro a Roma, ai quali Fanon era sfuggito per miracolo, e che lo avevano già indotto ad adottare, nel corso di un precedente viaggio in Europa, un nome diverso. Un’atmosfera di “insicurezza permanente”,2 di morte e di inganno, che ne aveva provocato il sussulto e la rivolta, e che aveva colpito l’anno prima un altro protagonista della lotta anticoloniale, il camerunese Félix Moumié, morto avvelenato a Ginevra dai servizi segreti francesi con del tallio. Un clima “di guerra totale” che era penetrato anche tra gli uomini del Fronte di liberazione nazionale, dando origine al massacro di Melouza e all’assassinio di Abane Ramdane.3 La stessa atmosfera di terrore che, ancora nell’ottobre del 1961, aveva visto a Parigi la violenta repressione di una manifestazione in favore dell’indipendenza dell’Algeria.4 2. F. Fanon, Œuvres, La Découverte, Paris 2011, p. 648. Tutti i riferimenti agli scritti di Fanon sono tratti da questa edizione, che comprende le seguenti opere: Peau noire, masques blancs, 1952; L’an V de la révolution algérienne, 1956; Pour la révolution africaine, 1959; Les damnés de la terre, 1961. Lo stesso vale per le prefazioni e le postfazioni ai suoi lavori, riprese da questa stessa edizione. In seguito mi riferirò alle singole opere con i seguenti acronimi: PNMB, AVR, RA e DT rispettivamente. Le citazioni di passaggi tratti dagli articoli riporteranno invece di volta in volta la fonte. 3. A Melouza, nella notte del 28 maggio 1957, diverse centinaia di algerini furono massacrati in modo atroce, i loro corpi letteralmente smembrati, all’interno della lotta fratricida fra l’Aln, braccio militare dell’Fln, e gli uomini del Mouvement national algérien (Mna), diretto da Messali: un gruppo nazionalista le cui posizioni ambigue nei confronti dell’indipendenza erano state condannate come espressione di un tradimento della guerra di liberazione. Quanto a Ramdane, quest’ultimo fu strangolato in Marocco, a Tétouan, dove era stato convocato dall’ala oltranzista dell’Fln. Fanon ne fu molto turbato e confessò a Simone de Beauvoir di sentirsi in qualche misura responsabile della sua morte (D. Macey, Frantz Fanon, une vie, La Découverte, Paris 2011, pp. 376-377). 4. Alle cariche della polizia e ai numerosi arresti era seguito l’assassinio di diversi manifestanti, i cui corpi erano stati gettati nella Senna quando erano ancora in vita. Un recente film di Yasmina Adi, apparso in Francia nel 2011, Ici on noie des algériens, ricorda quei fatti e riporta le testimonianze dei sopravvissuti e dei familiari delle vittime. Sulle torture in Algeria, cfr. P. Kessel, G. Pirelli (a cura di), Lettere della rivoluzione algerina (1962), Einaudi, Torino 1963.
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È dentro questo tempo di minaccia e di abiezione, dentro questa notte “da scuotere”,5 che prende corpo la sua critica del sapere e dello sguardo coloniale, la corrosiva analisi dei modi attraverso i quali la colonia produce soggettività alienate. E questi modi non sono solo quelli della schiavitù, della coercizione o dello sfruttamento: sono anche quelli operanti attraverso la colonizzazione dell’immaginario e del desiderio, attraverso l’ingiunzione fatta ai colonizzati di rappresentare un’alterità mummificata, da paccottiglia, e di identificarsi – nel medesimo tempo – nelle verità e nel gesto del Soggetto occidentale, sino a imitarlo (quella di Fanon è anche una riflessione sulle politiche della mimesi e dell’identificazione). Occorre ricordare quel tempo perché siano contestualizzati i suoi argomenti, ma anche perché diventi possibile, oggi, riconoscerne ed esplorarne l’attualità. Tutti i suoi scritti vedono la luce fra il 1951 e il 1961.6 Fanon decostruisce le teorie psicologico-psichiatriche sulla “criminalità nordafricana”, scuote la psicanalisi dal proprio torpore e dai propri silenzi, compie il suo viaggio scontroso nell’esistenzialismo e nella fenomenologia, di cui indica amnesie e limiti resi intollerabili dall’asprezza di quegli anni. La filosofia hegeliana, e persino Sartre, per il quale sarebbe stato disposto a spendere “ventimila franchi al giorno pur di parlare con lui per due settimane”,7 interrogati a più riprese nel corso dei suoi testi, sembrano infatti girare a vuoto e dimenticare l’essenziale: il Nero non è nella possibilità di vivere la sua condizione umana perché “essere per l’Altro” diventa per 5. DT, p. 673. Termini come “scuotere”, “scossa”, “atmosfera”, “notte”, “buio”, “oscurità” ricorrono spesso nel vocabolario di Fanon: sono l’ordito segreto di una scrittura che invita a restare insonni. 6. Appare nel 1951, sulla rivista “Esprit”, quello che diventerà poi il quinto capitolo di Peau noire, masques blancs, con un titolo più breve di quello dell’articolo originale (La plainte du Noir. L’expérience vécue du Noir, “Esprit”, 19, 1951, pp. 657-679), mentre esce nel 1961, pochi giorni prima della morte, Les damnés de la terre. Quest’ultimo, osserva Lewis Gordon, sarebbe stato un lavoro considerevole in qualsiasi epoca. Se si tiene conto però che fu scritto in sole dieci settimane da un uomo che lottava contro la morte e aveva un limitatissimo accesso alle biblioteche, quel libro rivela un carattere propriamente “prometeico”; L.R. Gordon, Requiem on a life well lived: In memory of Fanon, in N.C. Gibson (a cura di), Living Fanon. Global Perspectives, Palgrave Macmillan, New York 2011, pp. 11-26. 7. Lanzmann, citato in J. Khalfa, Fanon. Corps perdu, “Les temps modernes”, 635-636, 2005-2006, p. 100.
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lui la maledizione di essere un Nero “di fronte al Bianco”. La dialettica, nella colonia, si inceppa, stregando questa relazione in un’oscillazione infinita fra mimetismo, parodia e finzione. “A qualcuno verrà in mente di ricordarci”, continua Fanon, “che la situazione è reciproca. Noi rispondiamo che è falso. Al cospetto del Bianco il Nero non ha più resistenza ontologica.”8 E quel “qualcuno” potrebbe essere Sartre, al quale rimprovera: “Sartre ha dimenticato che il negro soffre nel suo corpo diversamente dal bianco”.9 Ecco che cosa è la colonia. Una “zona di non essere”, “una regione sterile”: non senso d’inferiorità ma “di non esistenza”, scrive Fanon. Quale che sia il luogo, il colonizzato, il nero vive sempre “sovradeterminato dall’esterno”.10 Lo sguardo del colono lo attraversa da parte a parte pietrificandone i gesti, come lo sguardo di Medusa (nel Congo belga, i convertiti al cristianesimo rimangono immobili durante le cerimonie religiose per timore di commettere peccato, al punto da non muoversi nemmeno se punti dalle zanzare).11 La sua voce ne squarcia i timpani: il colono è paura, umiliazione, paternalismo, frusta. Il colono è ossessione. Il colonizzato sente il suo corpo impacciato, la sua respirazione sorvegliata. In Algeria non c’è “un’occupazione dello spazio e un’indipendenza delle persone. Sono l’intero paese, la sua storia, la sua pulsazione quotidiana a essere contestati, sfigurati, nella speranza di un suo definitivo annientamento. In queste condizioni, la respirazione dell’individuo è una respirazione osservata, occupata”.12 Confuso fra il desiderio di occupare il posto del colono, dormire nel suo letto, parlare la sua lingua, e una situazione che gli ricorda ogni giorno che non può essere ammesso in quel mondo, il corpo 8. PNMB, p. 53. 9. PNMB, p. 175 (corsivo mio). 10. “Il negro è un giocattolo nelle mani del Bianco” (PNMB, p. 176). 11. “Anche se sentiva un grande rumore, il cristiano dell’epoca coloniale non osava spostarsi” (Dibwe dia Mwembu, citato in R. Beneduce, Corpi e saperi indocili. Guarigione, stregoneria e potere in Camerun, Bollati Boringhieri, Torino 2010, p. 60). Sulla nozione di “pietrificazione” in Fanon, cfr. D. Ficek, Reflections on Fanon and petrification, in N.C. Gibson (a cura di), Living Fanon. Global Perspectives, cit., pp. 75-84. 12. AVR, p. 300.
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Per una psicanalisi a venire. Politiche di liberazione nei luoghi della cura SIMONA TALIANI
1. La densità della Storia: “Je n’ai pas le droit de me laisser engluer par les déterminations du passé” Non credo di forzare la mano dicendo che Frantz Fanon si rivela per intero nella migrazione. Tra la “situazione culturale” e la “situazione coloniale” ci sono sette anni di sua migrazione in Francia. Come soldato disilluso che combatté per valori che vide sistematicamente disapplicati e negati nell’esercito (“Se morirò non sarà stato per una nobile causa”, scriverà ai genitori, “ma per difendere un ideale obsoleto: mi sono sbagliato”). Come studente, specializzando in medicina che si allontanò con determinazione dall’ambiente dei suoi connazionali, per arrischiarsi da solo nella società francese e “lattificarsi” un po’, come amava ripetere all’amico Manville (“‘Meno ci si vede, meglio si vive’, diceva in creolo ai suoi amici”1); come medico internista che iniziava a visitare i pazienti delle colonie, altri emigrati. La sua iniziale domanda sulla formazione del soggetto coloniale nasceva dall’esperienza originaria, in terra natale; ma le condizioni della sua emersione risiedono altrove, in Francia. Come era possibile spiegare la persistenza nel XX secolo di drammi individuali se il trauma storico era passato, se il ragazzino nero non aveva visto suo padre picchiato o linciato da un Bianco? “C’è un trauma reale?” tornava a ripetere con insistenza. “A tutto questo rispondiamo:
1. A. Cherki, Frantz Fanon. Portrait, Seuil, Paris 2000, p. 29.
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no. E allora?”2 Allora – provo qui a rispondere – in mezzo c’è stata una situazione migratoria che ha fatto precipitare due temporalità distinte (la vecchia e la nuova colonia) in un regime di socialità dannatamente moderno, connotato dal disincanto per l’anonimia, dall’impossibilità di passare inosservati e da quella strana sensazione di guardarsi sempre attraverso gli occhi di qualcun altro. Della migrazione, sua e degli altri, Fanon parla a più riprese. Li osserva, si osserva. Li vede, gli antillani, quando arrivano nella metropoli (nei loro goffi fallimenti imitativi per non mangiarsi la R: Garrrçon!), quando tornano a casa (come quel giovane che, dopo un periodo trascorso in Francia, davanti a un attrezzo agricolo, chiese a suo padre, un bitaco “al-quale-non-la-si-fa”, come si chiamasse. In tutta risposta l’anziano contadino gli lanciò l’arnese sui piedi e l’amnesia scomparve. “Singolare terapia”, commenterà tagliente).3 Li vede poi quando entrano nello studio del medico e iniziano a lamentare dolori immaginari e sempre mal posti: “Dove hai dolore? Lo stomaco (e indica il fegato)”.4 Svela il profilo ironico e sofferente delle fratture interne, tra colonizzati: fratture che si rivelano per intero solo nella migrazione (quando commilitoni originari del Dahomey o del Congo si spacciano per antillani e quando degli antillani sono tormentati dall’idea di essere presi per senegalesi). Il fatto è che “l’antillano è un negro”, ma questo “non lo percepisce che una volta in Europa: quando si parlerà dei negri lui saprà che si tratta tanto di lui quanto dei senegalesi”.5 Chi sono allora tutti questi uomini e queste donne, affetti da tetanizzazioni affettive anche se non hanno vissuto traumi reali in patria, ma che si trovano confrontati con esperienze di disincanto e disillusione in Europa; che non necessariamente hanno preso parte a rivendicazioni politiche; che si sono tenuti ben lontani dal formulare una critica all’ordine disumano delle cose e i cui 2. F. Fanon, Peau noire, masques blancs, Seuil, Paris 1952, p. 118. 3. Ivi, p. 18. 4. F. Fanon, “La ‘sindrome nordafricana’” (1952), in Decolonizzare la follia. Scritti sulla psichiatria coloniale, a cura di R. Beneduce, ombre corte, Verona 2011, p. 97. 5. Id., Peau noire, masques blancs, cit., p. 121.
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spasmi – di questo Fanon ne è sicuro già in Peau noire, masques blancs – non hanno nulla di culturale (non sono cioè riducibili alla sola differenza culturale)? “Ve lo chiedo, me lo chiedo”, scrive Fanon in La “sindrome nordafricana”. Sono gli immigrati di Francia, “creature che si nascondono, che sono nascoste dalla verità sociale sotto la qualifica di caproni, negretti, arabi, topi, ‘sì, padrone’”.6 L’esperienza migratoria è per Fanon come il reagente in una soluzione chimica. Su questo punto non c’è soluzione di continuità nei suoi scritti; parlerà in continuazione di questi immigrati in Francia ed emigrati a casa. La situazione coloniale e quella culturale si manifestano per intero in Europa e si svelano solo attraverso lo sguardo dell’europeo (senza il quale, è bene ricordarlo, il Nero può restare alienato nel discorso del Padrone e nella credenza di esserecome-il-Bianco). Lo scambio di sguardi che l’immigrato incontra e intreccia per strada o dentro uno studio medico contribuisce a un cambiamento di stato radicale, irreversibile, che dischiude a nuove possibilità di esistenza. “Andare a vedere altrove”, come amava dire Fanon:7 era questa spinta che lo aveva obbligato, forse suo malgrado, a riconoscersi attraverso lo sguardo dell’altro, scoprendosi alterato e alienato. Ma questo sguardo che lo distorceva, che lo snaturava, che lo fissava in stereotipi volgari, era lo stesso che lo spronava a una lotta verso identificazioni integre e relazioni autentiche. Fanon inizia a scrivere da immigrato non solo per denunciare, ma quando crede nella possibilità di un incontro reale, autentico dirà, non condizionato dai determinismi della storia e dal fardello della violenza: quando pensa di potersi decostituire, modalità peculiare di soggettivazione. Se parla è perché riesce a sopportarne il peso. La sua presa della parola procede deviando: passa attraverso lo sguardo dell’altro, per riuscire a emergere come soggetto con un immaginario senso unitario di sé. Questa è la sfida, lo sforzo (disumano) che propone a se stesso prima che agli altri. E scrive senza cadere in errore, spacciando cioè per facile ciò che è un’impresa che riesce a pochi. “Bisogna convenirne: sul piano 6. Id., “La ‘sindrome nordafricana’”, cit., p. 93. 7. A. Cherki, Frantz Fanon. Portrait, cit., p. 28.
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“I dannati” di Fanon e la razionalità della rivolta NIGEL C. GIBSON
Risveglio Quale modo migliore per celebrare, commemorare e riflettere criticamente sul cinquantesimo anniversario dei Dannati della terra di Fanon se non una nuova sindrome nordafricana: la Rivoluzione, o quanto meno una serie di rivolte e resistenze che coinvolgono l’intera regione. Fanon apre il suo libro parlando della decolonizzazione come programma di disordine generale, un capovolgimento dell’ordine – spesso contro ogni previsione – voluto collettivamente dalla base. Senza che ci sia il tempo o lo spazio per una transizione, vi è la completa sostituzione di una “specie” con un’altra.1 In un periodo di cambiamento radicale, questi assoluti appaiono piuttosto normali, quando, malgrado tutte le reazioni contrarie, le idee oltrepassano le frontiere e la gente riprende a “fare la Storia”.2 In breve, una volta che la mente dell’oppresso sperimenta la libertà nelle azioni collettive, e attraverso di esse, la sua ragione diventa una forza rivoluzionaria. Come hanno detto gli egiziani il 25 gennaio 2011: “Nel momento in cui abbiamo smesso di avere paura, abbiamo capito che avremmo vinto. Non ci lasceremo più intimorire da un governo. È questa la rivoluzione nel nostro paese, la rivoluzione nelle nostre menti”.3 Diventa questa la nuova normaTitolo originale: Fanon’s Les damnés and the Rationality of Revolt. 1 F. Fanon, I dannati della terra (1961), Einaudi, Torino 1962, p. 3. 2. Ivi, p. 33. 3. Cfr. <http://www.guardian.co.uk/commentisfree/2011/feb/09/egypt-north-africarevolution>.
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lità, e malgrado ciò, mentre le rivolte fronteggiano inevitabilmente un’ulteriore repressione, la controrivoluzione, i compromessi delle élite e le macchinazioni imperiali, le questioni poste da Fanon – che riecheggiano in tutto il mondo postcoloniale – si fanno sempre più urgenti. Come può la rivoluzione ricominciare da capo, dal suo momento epistemologico, dalla razionalità della rivolta? Il tempo secondo Fanon e i cicli più profondi Cos’è una pratica fanoniana? In una parola revolvoluzione (per usare il neologismo di Aimé Césaire) o un ciclo di cicli. Da un lato, è un continuo ritorno. Pelle nera, maschere bianche (del 1952) la vede come una frustrazione, un grido di lamento, una pietrificazione. La dialettica è bloccata e non sembra esserci via d’uscita. Ma nella conclusione Fanon cita il 18 Brumaio di Marx, dove si dice che la nuova rivoluzione – la rivoluzione decoloniale – dovrà abbandonare l’Europa e lasciare che i morti seppelliscano i morti. In Anno V della rivoluzione algerina (del 1959) la rivoluzione anticoloniale, e in particolare quella algerina in cui Fanon era impegnato, suggerisce una risposta. Si fonda sulla razionalità della rivolta, quando Fanon parla di un cambiamento radicale di coscienza che gli individui subiscono nel momento in cui ricorrono a tutte le proprie risorse collettive per trasformare la società e se stessi. Ma I dannati della terra (del 1961) racconta un’altra storia. In contrasto con l’apertura di spazio delineata in Anno V, la dialettica dei Dannati descrive il soffocamento della politica. Ricordandoci le esperienze spaziali di oppressione di Pelle nera, ora, dopo l’indipendenza, gli spazi per la politica sono rapidamente serrati. E così il ciclo continua. Se le mobilitazioni insurrezionali dei “dannati della terra” di città e campagne diventano la linea di divisione epistemologica su cui si fonda I dannati della terra, la seconda linea di divisione è descritta da Fanon come uno scarto temporale tra i leader del partito nazionalista e la massa delle persone.4 Questo scarto temporale è spesso espressione di una divisione epistemologica tra ciò che Fanon chiama la 4. F. Fanon, I dannati della terra, cit., p. 64.
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“razionalità”5 della rivolta e il (pigro) razionalismo strumentale o semplicemente astuto dei leader e degli intellettuali nazionalisti. Ne deriva che la maturità della lotta politica per la decolonizzazione è in stridente contrasto con ciò che Fanon chiama l’immaturità e la senilità precoce della borghesia nazionale. Le masse iniziano a chiedersi se “valeva la pena di battersi”6 per l’indipendenza e i leader, che compaiono sventolando le bandiere della lotta solo al momento delle elezioni, sono davvero sorpresi che la gente sia così scontenta. Fanon sostiene che la mancanza di legami pratici,7 la distanza – temporale e spaziale (in particolare nelle esperienze vissute) – tra loro e la massa delle persone, significa che non hanno idea di cosa pensi o provi la gente. Ma i leader nazionalisti e la borghesia nazionale, spesso sedotti da una mentalità “cosmopolita”,8 non modificano il proprio modo di pensare. Quando si sostituiscono alla nazione, il nazionalismo viene a essere definito dall’esclusione, assumendo spesso una forma xenofobica, religiosa o etnica, e da nozioni di cultura socialmente conservatrici – che spesso proclamano il patriarcato e la sottomissione delle donne – come mezzi politici per controllare il dissenso. Se, da un lato, i cinici e gli opportunisti vedono lo stato neocoloniale come un personale pozzo di ricchezza, dall’altro, anche il politico onesto è ancora convinto che il sistema coloniale sia radicato nelle loro teste, che la massa di povera gente sia retrograda e abbia bisogno di una dittatura “illuminata”. Il partito nazionale crea semplicemente uno schermo che rinforza la sua forma e le sue pratiche gerarchicamente centralizzate e autoritarie, creando spesso, per Fanon, una dittatura in divisa militare. È la forma perfettamente adeguata a una borghesia arrogante e senza scrupoli,9 sostiene Fanon, la quale vede lo stato semplicemente come un trofeo da conquistare e i suoi apparati oppressivi da brandire contro chiunque lo contesti. Il partito, con l’aiuto della polizia, diventa il mezzo per
5. Ivi, p. 96. 6. Ivi, p. 37. 7. Ivi, p. 98. 8. Ivi, p. 99. 9. Ivi, pp. 113-114.
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Sull’invito a “pensare oltre” di Achille Mbembe ANNALISA OBOE
L’
invito di Achille Mbembe a “pensare oltre” nel saggio che segue corrisponde a un’argomentata esortazione ad abbandonare forme di provincialismo, in particolare francesi e più in generale europee, volte a difendere narrazioni della storia e costruzioni dell’identità nazionale che impediscono il superamento di strutture di pensiero e pratiche sociali razziste, ancora legate all’esperienza coloniale e all’ideale repubblicano, che bloccano l’apertura a una modernità inclusiva, democratica e transnazionale. L’analisi e la proposta vengono da un intellettuale di origine camerunese che si colloca – da un punto di vista biografico, linguistico, culturale e filosofico – ai confini tra Africa, Europa e America. La vita e il pensiero di Mbembe, che è una delle voci più importanti del discorso africano della/sulla contemporaneità, si intrecciano con particolari esperienze storiche e culturali dei tre continenti nel secondo Novecento, le quali diventano oggetto, nella scrittura e nel dibattito pubblico, di una riflessione critica originale e in costante divenire, che è sempre alla ricerca della relazione ma si colloca spesso fuori dal coro per la sua singolarità e, di conseguenza, innesca vivaci dibattiti teorici e politici. Mbembe dialoga con la tradizione filosofica francese, con la teoria postcoloniale di origine anglosassone, e con le prospettive critiche degli studi afro-americani e della diaspora africana negli Stati Uniti. I suoi continui spostamenti lungo le rotte dell’Atlantico
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“nero” producono un discorso ibrido che si nutre di molteplici forme di esperienza e conoscenza e spesso diventa pensiero attivo.1 Nato in Camerun nel 1957 e cresciuto in un ambiente cattolico impegnato in politica e nel sociale, Mbembe si sposta in Francia nel 1982, dove intraprende un duplice percorso di studi con cui ottiene un dottorato in storia alla Sorbona e un diploma di ricerca in scienze politiche all’Institut d’études politiques di Parigi. Alla fine degli anni ottanta si trasferisce negli Stati Uniti. Dapprima insegna storia alla Columbia University di New York, poi lavora per il Brookings Institute di Washington e in seguito alla University of Pennsylvania. Pur mantenendo un legame costante con il mondo accademico americano e con numerose istituzioni d’eccellenza quali l’Università della California (Irvine), Berkeley, Yale, Boston, Chicago e Duke, lo sguardo di Mbembe è costantemente rivolto all’Africa, che continua a essere oggetto privilegiato di indagine sociopolitica e filosofica e dove ritorna dal 1996 al 2000 per dirigere il Codesria (Consiglio per lo sviluppo della ricerca nelle scienze sociali in Africa) a Dakar. L’esperienza senegalese è conflittuale e segnata da forti polemiche con l’ambiente intellettuale degli afro-radicali e nativisti locali, in contrasto con l’impostazione critica di Mbembe, che in quegli anni matura una serie di studi importanti poi confluiti nella sua opera più famosa, De la postcolonie. Essai sur l’imagination politique dans l’Afrique contemporaine (2000), uscita in Italia presso Meltemi con il titolo piuttosto fuorviante di Postcolonialismo (2005). Il libro è una pietra miliare nell’ambito degli studi sull’Africa postcoloniale e da un punto di vista teorico rappresenta un contributo al contempo centrale ed eccentrico rispetto al canone composito che ha individuato in Edward Said, Homi Bhabha e Gayatri Spivak il cuore della riflessione postcoloniale dagli anni ottanta in poi. In De la postcolonie Mbembe rinnova la nostra concezione dei 1. Per una riflessione sulle coordinate geoculturali che sottendono l’opera di Mbembe si veda l’intervista Africa and the Night of Language, “The Johannesburg Salon”, 2, 2010, <http:// jwtc.org.za/the_salon/volume_2/annalisa_oboe_africa_the_night_of_language.htm>.
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rapporti fra potere e soggettività nella postcolonia, contestando sia i discorsi occidentali che rappresentano l’Africa come “incubo” e notte senza fine della ragione, del linguaggio e della storia, sia le più recenti rivendicazioni dei discorsi afrocentrici e neonativisti di matrice continentale. Muovendosi liberamente fra storia, filosofia, politica, psicanalisi, sociologia, antropologia, arti visive, letteratura e media, il pensiero di Mbembe si pone come sfida all’episteme che ha caratterizzato l’Africa per secoli – il discorso di origine hegeliana che vede il continente come negazione, vuoto, epitome del nulla e inscrutabile cuore di tenebra – e comincia a individuare e studiare i momenti e i modi di produzione di conoscenza del soggetto africano. Rivede dunque completamente le condizioni di possibilità del discorso postcoloniale in Africa proprio mentre ci accompagna in un percorso inquietante attraverso il significato della violenza, della morte e della sessualità nel periodo coloniale e nel tempo locale-globale della postcolonia contemporanea. Lo sforzo suggerito da Mbembe sta nella progressiva individuazione della varietà di esperienze posizionate fra localismo/nazionalismo e cosmopolitismo/transnazionalismo che costituiscono gli archivi dell’esistenza e della conoscenza africana. In questo contesto la “postcolonia” non si pone come elaborazione teorica, ma come un tipo di critica che si costituisce in un movimento dinamico di sedimentazione ancora in divenire. La nascita di un universo creolo complesso – dal continuo riassemblaggio socio-culturale e dallo spostamento incessante di uomini e culture all’interno del continente e nelle sue molteplici diaspore – è al centro dell’opera più recente di Mbembe, Sortir de la grande nuit. Essai sur l’Afrique décolonisée (La Découverte, Paris 2010) – omaggio a Frantz Fanon e riflessione sulla decolonizzazione a partire da un racconto autobiografico –, che si concentra sul profilarsi di una modernità africana cosmopolita che l’autore chiama “afropolitana”. Grazie all’attenzione particolare per le forme e le pratiche di manifestazione dell’oggi, rispondente a un progetto consapevole di controllo vigile del presente distopico dall’interno di una vo84
Pensare oltre. Perché è utile la prospettiva postcoloniale ACHILLE MBEMBE
Comment? Ils causent tout seuls? (Come? Discutono da soli?) J.-P. Sartre, Situations V, p. 168
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el resto del mondo la svolta postcoloniale nelle scienze sociali e negli studi umanistici è avvenuta circa un quarto di secolo fa. Da allora la critica postcoloniale ha ispirato numerosi dibattiti politici, epistemologici, istituzionali e disciplinari negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, in Australia e in un certo numero di regioni del Sud del mondo (America Latina, subcontinente indiano e Africa meridionale).1 Fin dall’inizio il postcoloniale è stato oggetto di varie interpretazioni e ha suscitato, a intervalli più o meno regolari, ondate di polemiche e controversie che si tramandano ai posteri.2 Ha anche dato origine a pratiche intellettuali, politiche ed estetiche feconde e divergenti, al punto che talvolta ci si è chiesti che cosa ne costituisca l’unità.3 Nonostante questa frammentazione si può affermare che, nel suo nodo centrale, la critica postcoloniale ha per oggetto ciò che si potrebbe chiamare l’entremêlement des histoires et la concaténation des mondes (il A. Mbembe, Faut-il provincialiser la France?, “Politique africaine”, 119, 2010, pp. 159-188. 1. Per l’America Latina, si veda M. Morana, E. Dussel, C.A. Jauregui (a cura di), Coloniality at Large. Latin America and the Postcolonial Debate, Duke University Press, Durham (N.C.) 2008. 2. “New Formations”, 59, 2006; “PMLA”, 122-123, 2007. Si vedano anche il numero speciale di “Social Text”, 2-3, 1999 e A. Ahmed, In Theory: Classes, Nations, Literatures, Verso, London 1992. 3. In particolare R. Young, Postcolonialism: An Historical Introduction, Blackwell, Oxford 2001.
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rimescolamento delle storie e la concatenazione dei mondi). Poiché la schiavitù e soprattutto la colonizzazione (ma anche le migrazioni, la circolazione delle forme e degli immaginari, dei beni, delle idee e delle persone) hanno giocato un ruolo decisivo in questo processo di collisione e di groviglio di popoli, non è senza ragione che se ne fa oggetto privilegiato di indagine. Il meglio del pensiero postcoloniale non considera la colonizzazione come una struttura immutabile e astorica, o come un’entità astratta, ma come un processo complesso di invenzione di frontiere, zone di passaggio e spazi interstiziali o di transito. Parallelamente, tale pensiero afferma che, in quanto forza storica e moderna, una delle sue funzioni è stata la produzione di subalternità. Le diverse potenze coloniali avevano esercitato nei rispettivi imperi una subordinazione fondata su basi razziali e statuti giuridici talvolta differenti ma pur sempre, in ultima istanza, inferiorizzanti. A loro volta, nell’intento di rivendicare l’uguaglianza, i soggetti coloniali dovettero procedere alla critica dei torti che la legge della razza e la razza della legge (e quella del genere e della sessualità) avevano contribuito a creare. Il pensiero postcoloniale esamina, così facendo, il lavoro compiuto dalla razza e dal sesso nell’immaginario coloniale e le loro funzioni nel processo di creazione della soggettività dei colonizzati. Si interessa inoltre dell’analisi dei fenomeni di resistenza che puntellarono la storia coloniale, delle diverse esperienze di emancipazione e dei loro limiti, del modo in cui le popolazioni oppresse si costituirono come soggetti storici e intervennero con un peso proprio nella costituzione di un mondo transnazionale e diasporico. Si preoccupa infine del modo in cui le tracce del passato coloniale diventano oggetto di un lavoro simbolico e pratico, così come delle condizioni in cui tale lavoro dà vita alle forme inedite, ibride o cosmopolite della vita e della politica, della cultura e della modernità. Stallo e discordanza dei tempi A causa di confini più o meno impermeabili fra ambiti disciplinari, del provincialismo più o meno accentuato delle conoscenze prodotte e dispensate, e del proprio narcisismo culturale, la Francia è 90
stata per molto tempo ai margini di questi nuovi percorsi di riflessione planetaria. Fino a poco tempo fa il pensiero postcoloniale è rimasto, se non incompreso, almeno poco noto in questo paese. Nobile indifferenza o semplice insolenza doppiata d’ignoranza? Ostracismo calcolato, disinvoltura o semplice incidente? Di sicuro tale riflessione non è stata oggetto di alcuna critica informata né dibattito degno di questo nome fino all’inizio del millennio.4 Eccetto per qualche testo di Edward Said, quasi nessun teorico che si sia appellato a questa corrente di pensiero o ai suoi diversi affluenti (i Subaltern Studies per esempio) è stato oggetto di traduzione.5 Al contrario, nel momento in cui gli studi postcoloniali cominciano ad avere seguito negli ambienti accademici e artistici anglosassoni, la Francia politica e culturale (che avanza in direzione opposta) entra in ciò che si potrebbe chiamare una sorta di “inverno imperiale”. Dal punto di vista della storia intellettuale, questo inverno si caratterizza per una serie di “stalli” che si concludono con la relativa provincializzazione del pensiero francese e con la sua retrocessione nell’orizzonte internazionale. Significativo è da questo punto di vista lo smantellamento del marxismo e di una concezione dei rapporti tra la produzione del sapere e l’impegno militante ereditata non dagli anni sessanta, come si tende spesso a credere, ma da una lunga storia direttamente legata al movimento operaio, all’internazionalismo e all’anticolonialismo. Di fatto, dato che l’impero era profondamente iscritto nell’identità francese, soprattutto tra le due guerre mondiali, la sua perdita (e in particolare quella dell’Algeria) assume le sembianze di una vera amputazione nell’immaginario nazionale, orfano di una delle risorse della propria fierezza. La storia imperiale – di cui una delle funzioni era di cantare la gloria della nazione, di disegnare la sua galleria di ritratti eroici, le sue immagini di conquista, le sue epopee e le sue rappresentazioni esotiche – è relegata a una regione periferica e marginale della coscienza nazionale. Disastri, morti e 4. Si legga a tale proposito la nota di J. Pouchepadass, Les Subaltern Studies ou la critique postcoloniale de la modernité, “L’Homme”, 156, 2000. 5. Si veda la compilazione di testi d’autore che si appellano ai Subaltern Studies apparsa per le Éditions Karthala a cura di M. Diouf, Les historiographies indiennes en débat, Karthala, Paris 2000.
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Sulla “letteratura mondiale” di Gayatri Chakravorty Spivak SERGIA ADAMO
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n questo testo, presentato originariamente in una conferenza tenuta a Istanbul nel dicembre del 2008,1 Gayatri Chakravorty Spivak dialoga con alcuni studiosi e studiose di letteratura che hanno contributo negli ultimi dieci-quindici anni circa ad alimentare un dibattito su un tema tanto evanescente quanto problematico, ciò che si definisce come “letteratura mondiale”. In quella che potrebbe sembrare una discussione specialistica, limitata a pochi cultori e cultrici di un oggetto di antiquariato o dell’ultima tendenza del mercato accademico (cosa che, di certo, in parte è), Spivak introduce una serie di correttivi e possibili direzioni alternative che mostrano come proprio a partire da qui si delinei l’importanza di una posta in gioco, che è quella degli studi umanistici e di un’educazione estetica, non come obiettivo, ma come doppio legame da imparare persistentemente. Spivak non è nuova a riflessioni sul tema. Nel 2003, con il suo Morte di una disciplina,2 aveva contribuito a sparigliare le carte del dibattito che si era allora riaperto da poco riprendendo un’intuizione di Goethe, lasciata per molto tempo inattiva nella storia culturale dell’Occidente. Rispetto a Franco Moretti, che nel 1999 aveva “congetturato” che la letteratura mondiale potesse essere la nuova 1. World Literature in Between, Istanbul, Bilgi University, 18-20 dicembre 2008 (testo pubblicato in turco in E. Efe Cakmak, a cura di, Dunya Edebiyati Deyince, Varlik, Istanbul 2009, pp. 35-39). 2. G. Chakravorty Spivak, Morte di una disciplina (2003), Meltemi, Roma 2003.
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frontiera degli studi letterari, a patto di cambiare radicalmente l’approccio ai testi, imparando a guardarli “da lontano”, o rispetto a Pascale Casanova, che nello stesso anno aveva delineato i tratti di una quanto mai eurocentrica “repubblica mondiale delle lettere” come nuova prospettiva cui guardare alla modernità letteraria,3 Spivak all’epoca aveva lanciato un monito tanto tetro (“morte” di una disciplina), quanto cruciale: non è riducendo la problematicità dell’intuizione goethiana a una pratica codificata o a un oggetto storiografico dai confini delimitati che si può raccogliere la sfida. Non è lasciando non interpellata la dimensione del mondo e il suo possibile ripensamento come pianeta, né occultando il problema della diversità linguistica su scala globale che si può individuare uno spazio dove il perturbante dell’a-venire diventi un imperativo di ri-immaginazione. Ma altri interlocutori e interlocutrici erano stati determinanti nel dare origine a questa risposta: primo tra tutti, il lavoro infaticabile di David Damrosch,4 ripetutamente citato qui, come punto di riferimento, con la volontà esplicita di aprire un dialogo. Nel suo intervento, ora compreso nel volume appena uscito in inglese An Aesthetic Education in the Era of Globalization,5 di cui questa traduzione costituisce un’anticipazione italiana, Spivak aggiunge altri elementi di perturbamento. Kant e Benjamin, prima di tutto, perché, di nuovo, il problema di una dimensione che si identifichi come “mondo” e dello statuto del linguaggio in relazione a essa resta cruciale. E poi Gramsci, un vero e proprio sottofondo del lavoro di Spivak negli ultimi anni, soprattutto per
3. F. Moretti, Conjectures on World Literature, “New Left Review”, 1, 2000 (concetti ripresi in La letteratura vista da lontano, Einaudi, Torino 2005); P. Casanova, La République mondiale des lettres, Seuil, Paris 1999; cfr. anche C. Prendergast (a cura di), Debating World Literature, Verso, London 2004. 4. Cfr. tra l’altro D. Damrosch, What Is World Literature?, Princeton University Press, Princeton (N.J.) 2003 e Id., How to Read World Literature, Blackwell, London 2003, oltre alla cura della Longman Anthology of World Literature. Damrosch era presente tra il pubblico durante l’intervento di Spivak a Istanbul nel dicembre del 2008. 5. G. Chakravorty Spivak, An Aesthetic Education in the Era of Globalization, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 2012, pp. 455-466 (testo rivisto rispetto a quello qui pubblicato).
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la sua definizione del ruolo dell’educazione umanistica in un nesso inscindibile con la subalternità. Ma per capire perché queste riflessioni di Spivak non rappresentino solo una voce in una ristretta discussione disciplinare e tuttavia da questa discussione non possano prescindere sarebbe forse necessario fare un passo indietro, proprio quel “passo indietro” che Spivak invoca ripetutamente anche in questo testo come suo metodo di indagine e di riflessione. Si tratterebbe, dice Spivak qui, di non smettere di indagare la proliferazione del colonialismo (l’orientalismo goethiano degli anni venti dell’Ottocento che sfocia nella formulazione della Weltliteratur) e del capitalismo (la strumentalità con cui Marx ed Engels nel 1848, quasi isolati, si ricordano della definizione di Goethe e la rivedono alla luce delle tesi del Manifesto). Ma si tratterebbe anche di porre in questione, quanto mai radicalmente, la definizione del letterario: nelle sue genealogie occidentali, nel suo rappresentare una rivendicazione di accesso al globale, nel suo persistere irriducibile come dimensione del singolare e dell’inverificabile (tra Nimai Lohar e Schiller, i nomi che aprono e chiudono il saggio). Letteratura mondiale, dunque, come evento, in una continuità in cui solo un’educazione estetica può continuare a prepararci a pensare che la globalizzazione stessa non è già avvenuta, ma accade continuamente, a pensare a “una contemporaneità irregolare, mutevole e solo apparentemente accessibile”6 che non può più essere interpretata secondo tradizionali e concilianti opposizioni binarie. Imparare questo doppio legame (e non solo imparare qualcosa a proposito di questo doppio legame) è la posta in gioco. Una posta in gioco che, tradotta in italiano, apre a ulteriori sfide.
6. Ivi, p. 2.
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Una letteratura mondiale: la posta in gioco1 GAYATRI CHAKRAVORTY SPIVAK
Per Ralph Cohen
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uesto è un testo fatto di pratica, perché abita il mio lavoro e la mia vita. Lo dedico a Nimai Lohar, l’unico membro analfabeta dell’avanguardia rurale povera con cui lavoro in India. Quando leggo questo testo, canto un verso di una canzone popolare che quest’uomo ha cantato per me nel dicembre del 2008, nel corso di una mia visita alle scuole. Nimai continua a cantare, canta perché è analfabeta, ma si vergogna di farlo davanti ad altre persone. Non si può considerare tutto ciò come “letteratura subalterna”. Si tratta di una canzone che Nimai ha imparato come parte della sua conformità culturale. La interpreta bene, ma nulla di eccezionale. Il verso che canto suona così: Mon kore uribar torey, bidhi dey na pakha. Grossolanamente si potrebbe tradurre: “Vorrei volare, ma il destino non mi dà le ali”. Oppure, con acribia letterale: “La mia mente immagina di volare, ma – e qui arriva la parola bidhi, che può significare Legge, Giustizia, ma anche fato/Dio – bidhi non mi dà le ali”. Canto e leggo questo verso, perché esso può anche descrivere le sfide che una letteratura mondiale ci mette davanti. Kant ha detto che il concetto di mondo in generale è un’idea regolativa della ragione meramente speculativa. Possiamo pensare che ogni essere dotato di esperienza, forse persino gli animali non umani, possieda l’assunto di un mondo. Sul modello del tentativo di Walter Benjamin di comprendere il linguaggio, potrei inventarmi Titolo originale: The Stakes of a World Literature.
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un titolo come: “Il mondo come tale e i mondi degli esseri dotati di esperienza”.1 Tali sforzi non sono molto di più di un metodo di indagine che ci fa sentire che stiamo evitando di presupporre un mondo e un sé come base autoevidente per l’indagine empirica. Dovrei essere più precisa su questo punto, ma per mancanza di tempo salterò al punto successivo. Ricordiamoci che in questo metodo di indagine si fa un passo indietro. Sul terreno incerto a malapena garantito dal nostro metodo di indagine, la parola inglese literature non ci serve ancora a nulla. Né ci servono i termini corrispondenti usati nelle lingue romanze, tra cui l’italiano “letteratura”, saldamente racchiusi nel tedesco Literatur per ragioni storiche che non prenderemo qui in esame. Tutte le traduzioni di questo termine in altre lingue sono parte dell’oggetto della ricerca, non ancora strumenti di essa. Vi prego di notare il fatto che sto usando ripetutamente la locuzione “non ancora”. Nel dibattito intercorso tra Stephen Owen e Rey Chow, menzionato da David Damrosch nel suo libro What Is World Literature?, non viene prestata alcuna attenzione a questo “non ancora”,2 Owen e Chow lo trasformano in un “o questo o quello”, perdendo così il filo della riflessione prima che essa possa essere garantita dalla sua assenza di garanzie. Non sono solo i termini usati nelle lingue europee per “letteratura” a non essere ancora utili quando facciamo i passi indietro necessari per questo tipo di analisi; anche le rivendicazioni delle “grandi civiltà non occidentali” di avere avuto storicamente parole che avrebbero potuto assolvere, o che hanno effettivamente assolto, la stessa funzione che “letteratura” ha assolto nel contesto europeo, o una simile o addirittura migliore, diventano ancora meno utili, qui e ora. E davvero su questo punto le Rey Chow e gli Stephen Owen dei dibattiti attuali dimostrano di condividere tale sistema di valori. Perché nemmeno le controrivendicazioni 1. I. Kant, Critica della ragione pura (1781), a cura di P. Chiodi, Utet, Torino 2005, p. 639; W. Benjamin, “Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo” (1916), in Angelus Novus, Einaudi, Torino 1962, pp. 50-67. 2. D. Damrosch, What Is World Literature?, Princeton University Press, Princeton (N.J.) 2003, pp. 19-20.
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delle diverse scritture delle diaspore che aspirano ad acquisire lo status di “letteratura” sono utili qui. Proviamo a pensare piuttosto a uno spazio pieno di qualcosa che non è ragione né assenza di ragione e che tuttavia sembra irriducibile. È chiaro che questo è, letteralmente, lo spazio dei sogni, il più letterale dei testi che aiuta gli esseri dotati di esperienza a riempire gli spazi vuoti nel presupporre un mondo. Si potrebbe addirittura pensare a questo spazio come a ciò che sta tra quello che gli esseri dotati di esperienza possono fare e quello di cui hanno bisogno? L’irriducibile riempimento di questo spazio è stato ed è quel luogo di lotta che chiamiamo storia e cultura, semplicemente perché sembra che qui prenda forma il cambiamento e che qui esso si radichi in forma di lotta. Non c’è caccia di sussistenza, non c’è attività di raccolta di sussistenza, non c’è attività agricola di sussistenza, non c’è alcuna economia di sussistenza. Una differenza che può essere ripetuta abita ognuna di queste: la differenza irriducibile tra il bisogno e il fare. Oggi, mentre cerco un registro adatto per questa conferenza, un basso continuo che risuoni dietro e dentro le mie parole, e anche davanti a loro, vi chiedo di pensare a questa forma non solo come a qualcosa che è sempre diverso, ma anche come a qualcosa che è sempre ripetibile. Per questo non si tratta solo della storia, ma anche della singolarità, nel senso ristretto che ci deriva dal pensiero post-spinoziano. Qui l’umano si differenzia dall’animale con la proposta di una credenza. Quello spazio di differenza che intercorre tra quanto l’essere che vive l’esperienza può fare e quanto può necessitare è riempito dal credere, in un simulacro della ragione. È qui che la linea tra l’umano e l’animale viene fatta vacillare. Questa è la religione. Vorrei poter credere, per quanto poco so del mondo che considero come presupposto, che l’economia della credenza e della meraviglia (uso questa espressione in mancanza di un termine migliore) sia una caratteristica della predicazione definitiva di una parte consistente dell’essere che prova esperienza; può diventare ed è diventato un tiro alla fune, una battaglia, battaglie, guerre. L’economia stessa è il segno di ciò che qui oggi possiamo chiamare letteratura e che speriamo venga capito, qualunque cosa questo “capire” significhi. Questa economia segna l’arroganza del 142
“L’ignorante e il folle” ovvero la follia e la sragione in Foucault ANTONELLO SCIACCHITANO
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inquantun anni fa usciva il capolavoro di Foucault, La storia della follia nell’età classica. In La follia in poche parole Pier Aldo Rovatti lo definisce un libro-evento1 e paradossalmente precisa che l’evento deve ancora avvenire: il libro attende ancora di essere letto, anche se oggi può essere considerato un classico. Ma chi legge più i classici, oggi? Se è vero, freudianamente parlando, che un evento diventa rilevante per il soggetto solo nel tempo secondo della ripetizione, quando verrà il tempo della Storia della follia? Di seguito propongo di leggere la Storia della follia attraverso il saggio di Rovatti, anch’esso poco letto. Intendo poco letto da me. All’epoca, infatti, ero ancora under influence della dottrina lacaniana, che pretende di spiegare la follia come effetto della “fuorclusione” (forclusion) del Nome del Padre, così come la fuorclusione dalla dieta dell’acido ascorbico causa lo scorbuto.2 Abbandonata la visione medica (eziologica) della follia ho potuto Riprendo il titolo della pièce di Thomas Bernhard Der Ignorant und der Wahnsinnige, rappresentata a Salisburgo il 29 luglio 1972, dove l’ignoranza è l’appannaggio del medico, mentre la follia è rappresentata come bene diffuso e comune, come l’aria che respiriamo – un’“esternalità” si direbbe in economia. La citazione mi serve per tematizzare la connessione tra sapere e follia. 1. P.A. Rovatti, La follia in poche parole, Bompiani, Milano 2000. 2. Il termine forclusion, proposto dallo psichiatra Lacan, non è un termine medico ma giuridico. Andrebbe tradotto preclusione. La mia traduzione per assonanza pretende, attraverso il gioco di parole, di cogliere la consonanza tra discorso medico e giuridico, che fa vibrare al massimo il suo diapason proprio nella loro versione psichiatrica.
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apprezzare la fine ermeneutica di Rovatti, registrandone al contempo i limiti. Che sono quelli di Foucault. Forse è il caso che mi spieghi. Follia, fuorclusione prima Nel secondo capitolo della Follia in poche parole – nel merito del primo entrerò alla fine – Rovatti scrive: Storia della follia è un libro-evento che spiazza l’ambiente accademico perché introduce un argomento inabituale con uno sguardo altrettanto insolito. Foucault vuole ricostruire un gesto di esclusione che secondo lui caratterizza tutta la modernità. La psichiatria, che trasforma a partire dall’Ottocento il grande internamento degli esclusi nel piccolo internamento dei malati di mente, sarebbe solo la piegatura medica di un regime di esclusione-internamento che poi […] si perpetua e si dissemina fino a diventare la cifra del nostro attuale regime sociale, caratterizzato dalla sorveglianza e dall’autosorveglianza.3 Facciamo i nomi. Anzi, facciamone uno solo: Philippe Pinel può bastare. Il suo Traité médico-philosophique sur l’aliénation mentale ratifica raddoppiandola l’esclusione del folle dal legame sociale vigente. Infatti, ne promuove la transizione da soggetto da custodire, perché deviante, a malato di mente, perché da curare. Già prima di confinare il folle nell’istituzione manicomiale, Pinel segrega la follia nella patologia medica. Quindi proponeimpone al folle una terapia morale, antesignana della moderna psicoterapia, che all’internamento fisico sostituisce-aggiunge quello psichico in nome della salute individuale e collettiva, intese entrambe in senso medico-giuridico. Sull’operazione ideologica della medicina la scienza ufficiale non trovò nulla da dire. Sarà per questo che nella sua ricostruzione storica Foucault non convocò la scienza?
3. P.A. Rovatti, La follia in poche parole, cit., pp. 12-13.
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La scienza, fuorclusione seconda Soffermiamoci sul titolo originale: Folie et déraison. Histoire de la folie à l’âge classique, in Italia verrà dimezzato in Storia della follia nell’età classica, lasciando sopravvivere la metà più problematica, pur di censurare la metà più provocatoria. Perché Foucault parla di “età classica”? Perché in francese si dice così e non “età moderna”. Allora, giro la domanda: cosa c’è di classico nell’età moderna? Ebbene, esito a dirlo: Foucault sembra ignorarlo. Dico “sembra”, perché mi sembra incredibile che un pensatore della portata di Foucault, con una sensibilità storica come la sua, possa avere scotomizzato il fatto storicamente più rilevante del XVII secolo. Forse l’ha fuorcluso, direbbe Lacan; l’ha espunto dal proprio universo di pensiero. Dell’avvento della scienza il filosofo non parla né nel primo né nel secondo atto del suo récit, La nascita della clinica, di due anni successivo. Amnesia? Non sto istruendo un processo contro Foucault, anche perché la sua “amnesia” non è solo sua ma sembra caratteristica della fenomenologia dei suoi tempi.4 Senza voler processare nessuno, mi limito al riscontro di un dato evidente: il singolare parallelismo tra due gesti di esclusione. Da una parte, è esclusa la follia, di cui il filosofo tenta la problematica storia; dall’altra, è esclusa la scienza dallo stesso filosofo che parla di medicina, ritenendola scienza, cioè “ragione” che esclude la “sragione”. Cos’hanno in comune scienza e follia, da subire l’analogo destino di fuorclusione? L’evento è singolare. Due esclusi, il folle e lo scienziato, non hanno diritto di parola nella Storia della follia. Cadono nel silenzio. Come si fa la storia del silenzio? si chiede Rovatti. “È paradossale la storia di qualcosa che non ha storia.”5 Foucault non parla di e non fa parlare la scienza. Parla di e fa parlare la medicina, come se scienza e medicina fossero la stessa 4. In modo particolare resiste alla scienza la fenomenologia francese. Tuttora in Francia è poco recepito Darwin, per non parlare della sintesi darwiniana moderna. I francesi hanno Lamarck. L’amnesia di Foucault ha precedenti letterari illustri. La montagna magica di Thomas Mann (1924) mette in scena l’aspra contrapposizione di due concezioni della malattia organica e mentale (ultimamente del corpo): quella umanistica di Settembrini e quella medievale di Nafta. La scienza non ha voce in capitolo, essendo rappresentata dalla medicina. 5. P.A. Rovatti, La follia in poche parole, cit., p. 13.
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Il fantasma dell’universale EDOARDO GREBLO
1. Non è certo da oggi che si guarda alle rivendicazioni improntate alla logica dei diritti con un atteggiamento che oscilla tra il larvato scetticismo e il radicato sospetto. Se per alcuni i diritti sono altrettante “leggi del più debole”, che servono alla domesticazione istituzionale di un potere politico che sarebbe altrimenti espressione della sola legge del più forte, per altri il loro ruolo di strumento organizzativo del potere statuale spiana la strada “alla crescita inesorabile della registrazione, classificazione e controllo degli individui e delle popolazioni”.1 Il disincanto non dipende soltanto dalla sfiducia per la concreta attuabilità delle istanze pratico-morali incorporate nei programmi e nelle iniziative giuridiche. Le obiezioni investono la stessa “grammatica dei diritti”, sia per mettere in dubbio la natura stessa di “diritti” di molte delle situazioni alle quali i poteri pubblici cercano di estendere il loro sistema di garanzie, sia per contestare la presunzione che lo strumento del diritto risulti sempre il più adatto a risolvere tutte le legittime pretese di libertà e autonomia individuale e sociale. In particolare, nella riflessione sui paradossi dell’intervento giuridico traspare l’idea che un mondo sempre più “normato” corrisponda in realtà a una società della “normalizzazione”, e che ciò imponga di guardare ai diritti non tanto dal lato dei bisogni da soddisfare o della legittimità da stabilire quanto, piuttosto, da quello delle 1. C. Douzinas, Human Rights and Empire: The Political Philosophy of Cosmopolitanism, Routledge Cavendish, London 2007, p. 129.
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procedure di assoggettamento che mette in opera. Il diritto, in questa prospettiva, assume inevitabilmente tinte autoritarie. Occorrerebbe perciò evitare ogni compromesso con un discorso che, per un paradossale effetto di riproduzione dei rapporti di potere ai quali si contrappone, corre il rischio di far confluire la lotta per l’eguaglianza giuridica in una nuova forma di soggezione, quella depositata nella teoria della cittadinanza.2 Siccome infatti, così suona l’argomento, i diritti rivendicati da un gruppo che si mobilita politicizzando la propria esclusione vengono conferiti (o riconosciuti) uti singuli, quasi fossero una sorta di guscio protettivo per la privata condotta di vita della singola persona, le determinazioni collettive di classe o di genere finiscono per essere ascrivibili tramite attributi presuntivamente immanenti, intrinseci o costitutivi, e non invece alle matrici sociali che generano disparità e diseguaglianze. Con lo strumento dell’imposizione giuridica si creano così delle astrazioni reali che hanno reali conseguenze politiche, in quanto finiscono per cristallizzarsi in istituzioni, codici, pratiche ecc. La genealogia liberale dell’individuo sovrano si configura perciò come un processo di progressiva spoliticizzazione, con il quale si garantisce l’uguaglianza formale solo a patto di fare astrazione dalle disparità di status radicate in una diseguale distribuzione delle opportunità sociali. Ma non è solo la neutralizzazione connaturata alle procedure di inclusione nella cittadinanza tipica del liberalismo classico a spingere i critici dei “diritti” a considerarli come la forma giuridica che impedisce di rendere giustizia alle facoltà di autoaffermazione di chi è o si sente discriminato. Quando le pretese individuali delle persone giuridiche sono premodellate, per così dire, dai predicati della norma giuridica, esse non possono che limitarsi a ciò che le persone giuridiche possono aspettarsi l’una dall’altra e che dipende, alla fine, dalle disposizioni formali immanenti al diritto. Ma il fatto che le argomentazioni in favore di una diversa concezione della giustizia rimandino a una dimensione al di là del diritto non dipendono solo dalla critica alle astrazioni 2. S.V. Hartman, Scenes of Subjection. Terror, Slavery, and Self-Making in NineteenthCentury America, Oxford University Press, New York 1997.
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forzose che la legge infligge alle persone interessate. A essere presa frontalmente di mira è anche la presunta convergenza tra il discorso dei diritti e la modalità specificamente disciplinare di esercizio del potere, che serve a garantire una formazione della volontà entro la cornice di modelli identitari convenzionali. L’esempio addotto a sostegno è rappresentato dalle legislazioni orientate a colpire le discriminazioni che ostacolano l’accesso al lavoro, alla casa o ai servizi sociali sulla base di caratteristiche come l’orientamento sessuale, la “razza”, la religione o il genere. Il disciplinamento giuridico di materie come queste si vede infatti costretto a fare i conti con un duplice ordine di conseguenze spiacevoli: da un lato deve ricondurre le differenze a un “intero” (il “noi” universale della comunità politica) che le rende indifferenti, e dall’altro deve invadere i mondi vitali e impadronirsi di intere sfere dell’esistenza, finendo per ridimensionarne il potenziale di critica nei confronti dei modelli d’azione e di pensiero socialmente e culturalmente codificati. Come si diceva, “normare” le differenze equivale a “normalizzarle”. Il diritto contribuisce a fare in modo che l’idea riflessa di sé dei membri di comunità svantaggiate coincida con una immagine che dipende da circostanze fattuali sottratte all’intervento sociale, invece di essere, piuttosto, la conseguenza più o meno diretta dei poteri discorsivi e istituzionali che impongono ai soggetti i vissuti di subordinazione che generano patologie sociali e fallimenti esistenziali. Non è insolito trovare chi, “a sinistra”, sostiene la tesi secondo la quale ciò rappresenta un chiaro esempio di come il linguaggio del diritto si possa trasformare in un linguaggio di illibertà, in un veicolo di subordinazione perseguito tramite l’individualizzazione, la normalizzazione e la regolazione – anche quando l’impegno esplicito è quello di produrre visibilità e accettazione.3 L’identità politica o viene neutralizzata, poiché l’inclusione può avere come oggetto soltanto gli individui in quanto astratti soggetti di diritti, spogliati dalle caratteristiche e dalle identità particolari, 3. W. Brown, States of Injuries. Power and Freedom in Late Modernity, Princeton University Press, Princeton (N.J.) 1995, p. 66.
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Contare o perire. L’uso degli indici bibliometrici nella valutazione della ricerca ALESSANDRO DAL LAGO
Tre statistici vanno a caccia e vedono una lepre. Il primo spara: un metro a destra. Spara il secondo: un metro a sinistra. “Colpita!” urla il terzo.
D
a qualche tempo, grazie all’impulso dell’Anvur, l’Agenzia nazionale di valutazione dell’università e della ricerca, il dibattito sugli indici bibliometrici è letteralmente esploso nell’università italiana, che così sembrerebbe allineata a quelle straniere e in particolare anglo-americane. Nella mia corporazione sociologica, il rating delle riviste ha dato luogo a forti polemiche tra direttori e, a quanto mi consta, l’Associazione italiana di sociologia sta faticosamente cercando di mettere mano a criteri di classificazione condivisi. Naturalmente, dietro l’eccitazione per la scienza bibliometrica o, come si dice con un orribile neologismo, per la “scientometria”, non appaiono soltanto problemi reali, ma evidenti questioni di potere accademico. Se una rivista ottiene un punteggio (relativamente) alto, i giovani ricercatori o i candidati a un qualsiasi posto all’università (ai quali non si può applicare il calcolo di indici individuali)1 tenderanno a pubblicare in quella rivista, il cui direttore o comitato direttivo acquisterà quindi un’evidente influenza.2 E così di seguito. Aggiungo che, stabilendo che un professore possa essere commissario di un concorso 1. Per il semplice motivo che sono necessari alcuni anni perché le citazioni di un lavoro compaiano in una banca dati. 2. E quindi il giovane ricercatore non sarà valutato per che cosa ha cominciato a fare, ma per dove l’ha pubblicato. Come il Marchese del Grillo, sarà considerato non per quello che vale, ma per la sua livrea accademica.
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solo se il suo indice bibliometrico è pari o superiore alla mediana del suo settore scientifico-disciplinare, l’Anvur ha sancito di fatto la legittimazione del potere accademico in base ai numeri e ha per così dire misurato la statura dei baroni. La quantità si trasforma automaticamente in qualità, per parodiare Hegel. Dico subito che il mio interesse in questo dibattito è puramente speculativo o, se vogliamo, estetico (nel senso della Critica del giudizio di Kant). Inoltre non nasce da alcun interesse personale. Francamente, data la mia età, la valutazione della mia carriera in base a indicatori quantitativi mi lascia del tutto indifferente. Quel che ho dato ho dato e il resto è solo malinconia per le cose che avrei potuto fare e non ho fatto. Sono prossimo alla pensione, a Dio o al governo Monti piacendo, e non ho grande voglia di partecipare ad altre commissioni concorsuali. Per farla breve, la mia contrarietà è motivata da un sostanziale dissenso di metodo e di sostanza nei confronti sia dei criteri Anvur, sia in generale della quantificazione delle citazioni o, per essere più precisi, del suo uso esclusivo nella valutazione. È evidente che un’idea più o meno esatta di quanto un ricercatore ha pubblicato e della sua notorietà, misurata dalle citazioni dei suoi lavori, è anche, in determinate circostanze, un criterio utile per valutarlo. Ma non può essere prevalente, perché esclude a priori la considerazione della qualità di quello che ha fatto, che è di pertinenza dei suoi colleghi (della peer review, come si dice), e quindi del loro giudizio. Inoltre, gli indici bibliometrici si prestano a distorsioni anche comiche di cui darò alcuni esempi e quindi a una vera e propria falsificazione dell’impatto scientifico. La letteratura critica in materia è diventata imponente e stupisce che, a partire dai ministri Gelmini e Profumo nonché, immagino, dei loro consulenti, l’uso degli indicatori sia stato promosso dal Miur in modo sostanzialmente acritico. Ma andiamo con ordine. Il calcolo dell’impact factor è notoriamente adottato nelle scienze in cui la valutazione dipende dalla forte condivisione dei metodi e delle tecniche di ricerca (in cui prevale la scienza normale, per dirla con Thomas S. Kuhn), ovvero dall’esistenza di una potente e ramificata comunità scientifica, e quindi soprattutto la fisica, l’in192
gegneria, ma anche la biologia, la medicina ecc. In questi settori, i ricercatori pubblicano molto, solitamente brevi articoli, teorici o sperimentali, a firma multipla. Tra i sistemi di valutazione dell’impact factor (Isi, Scopus ecc.), grande fortuna è arrisa da qualche anno al cosiddetto indice di Hirsch (h-index), dal nome del fisico americano, Jorge Hirsch, che l’ha proposto nel 2005. L’indice è così definito dal suo inventore: Un ricercatore o una ricercatrice ha un indice h se h dei suoi Np articoli hanno almeno h citazioni ciascuno e gli altri (Np - h) articoli hanno h citazioni ciascuno.3 Questo indice è stato immediatamente criticato perché non renderebbe conto dell’eccellenza di determinati articoli rispetto all’insieme della produzione scientifica di un ricercatore (spuntando l’articolo più citato dall’elenco dei lavori presenti su un motore di ricerca, cioè quello che spesso stabilisce la notorietà di un ricercatore, l’indice non cambia). Di conseguenza, sono stati proposti correttivi, tra cui il g-index: Dato un insieme di articoli elencati nell’ordine decrescente delle citazioni ottenute, il g-index è il numero più grande tale che i g articoli più citati hanno ricevuto insieme almeno g2 citazioni.4 In ogni caso i due indici sono strettamente correlati e tenderanno a variare, per i singoli autori, più o meno in parallelo. Entrambi hanno ricevuto nuovo impulso da quando si è diffuso l’uso della banca dati Google Scholar che documenta il numero delle citazioni ottenute, per ogni autore, dai saggi o articoli pubblicati. Grazie al programma “Publish or Perish”, scaricabile gratuitamente dal web,5 ogni autore o 3. J. Hirsch, An Index to Quantify an Individual’s Scientific Research Output, “Proceedings of the National Academy of Sciences USA”, 46, 15 novembre 2005, pp. 16569-16572. In generale sugli indici bibliometrici, i loro paradossi e i loro usi, buoni e cattivi, A. Baccini, Valutare la ricerca scientifica. Usi e abusi degli indici bibliometrici, il Mulino, Bologna 2010. 4. L. Egghe, Theory and Practice of the G-Index, “Scientometrics”, 1, 2006, pp. 131-152. 5. Cfr. <http://www.harzing.com/pop.htm>.
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Nota a “Ricordi di Walter Benjamin” di Ernst Bloch LUIGI AZZARITI-FUMAROLI
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Si paga troppo caro questo po’ di vita col tremito struggente di un’ora simile”, si legge nel Peer Gynt,1 ed è come se queste parole avessero accompagnato, simili a un cupo bordone, l’intera parabola esistenziale di Walter Benjamin, ponendola sotto una minaccia dalla quale è impossibile trovare scampo. Quando infatti la vita di una persona è perennemente afflitta dallo sguardo sinistro di quell’omino gobbo che, una volta che ha lanciato il suo sguardo su una persona, questa non può che lasciarsi condurre là dove il coboldo maligno impone, ovvero nelle angustie di un mondo ridotto in cocci,2 il vivere stesso diventa letale. È con questa ordalia, la quale sembra essersi insinuata con la prepotenza strisciante di un ronzio nella mente di Benjamin sin dall’infanzia e che solo in apparenza, da adulto, sembrò farsi meno greve e insistente, che egli dovette strenuamente combattere lungo l’intero arco della sua vita, finché, con gesto disperatamente calcolato, non andò incontro alla morte con la ferma consapevolezza – come pure sottolinea Bloch nelle pagine qui tradotte – che, se il precipizio della dispe-
1. H. Ibsen, Peer Gynt (1867-1876), trad. di A. Rho, Einaudi, Torino 1975, p. 43. 2. W. Benjamin, Infanzia berlinese intorno al millenovecento (1938), trad. di E. Ganni, Einaudi, Torino 2001, p. 72. Al riguardo si veda, oltre al saggio di H. Arendt, Walter Benjamin 1892-1940 (1968), trad. di M. De Franceschi, SE, Milano 2004, in particolare pp. 18-19, il profilo biografico di G. Schiavoni, Walter Benjamin. Il figlio della felicità, Einaudi, Torino 2001, in particolare pp. 29-31.
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razione non può vedersi in vita, appare incontrovertibile ammettere che “solo per chi non ha più speranza è data la speranza”.3 È proprio il non voler far violenza a un destino che volle compiersi con risoluta quanto rassegnata lucidità a rendere il ritratto di Benjamin lasciatoci da Bloch esemplare per la capacità di valersi di una fisiognomica ermeneutica che, dimostrandosi in grado non soltanto di trattenere, salvare e preservare, ma anche di scoprire e rivelare i tratti costitutivi del carattere dell’amico,4 sembra riuscire a percepire e riflettere quella “somiglianza [Ähnlichkeit]” che, ratta e fugace, guizza e balena nell’orizzonte della conoscibilità entro il quale ambisce a essere colta in un istante irripetibile.5 In essa il passato viene a convergere con il presente, e ne risulta la forma di un’immagine che non si lascia leggere in modo determinato, potendosi cogliere unicamente nei modi di un ricordo involontario e improvviso.6 Non a caso l’esercizio di rammemorazione, nel quale Bloch indugia rievocando la figura e l’opera di Benjamin, matura nella consapevolezza che per commemorare l’esperienza umana e intellettuale dell’autore delle Tesi sul concetto di storia occorra interpretare senza opporre alcuna resistenza il concetto di “tempo adesso [Jetztzeit]” per come esso è stato elaborato da Benjamin, e dunque assumendolo nell’accezione di un impatto che fa schizzare fuori il passato dal continuum della storia e ne determina la contrazione in un attimo che solo nel ricordo può essere fissato.7 3. W. Benjamin, “Le affinità elettive di Goethe”, in Opere complete, vol. I, trad. di R. Solmi, Einaudi, Torino 2008, p. 589. 4. Cfr. Id., “Destino e carattere” (1919), in Opere complete, cit., vol. I, trad. di R. Solmi, pp. 452-458. 5. Id., Dottrina del somigliante (1933), trad. di C. Cappelletto, “Materiali di estetica”, 3, 2000, pp. 29-33, in particolare p. 30. 6. Id., “Appendice a Sul concetto di storia” (1940), in Opere complete, vol. VII, trad. di G. Bonola e M. Ranchetti, Einaudi, Torino 2006, pp. 494-517, in particolare p. 507. 7. Ivi, p. 498. D’altra parte, che la storia dovesse intendersi come “raccolta in un punto focale” era stata una convinzione che Benjamin era andato maturando sin dai suoi anni giovanili, come dimostra l’inizio dello scritto del 1915, “La vita degli studenti”, in Opere complete, cit., vol. I, trad. di A. Marietti Solmi, pp. 250-261, in particolare p. 250. Ma cfr. E. Bloch, Experimentum mundi (1975), trad. di G. Cunico, Queriniana, Brescia 1980, pp. 132-133. Pregevoli sull’argomento sono le pagine di R. Bodei, Multiversum. Tempo e storia in Ernst Bloch, Bibliopolis, Napoli 1982, in particolare pp. 73-79, nonché quelle di F. Desideri, “Ad vocem Jetztzeit” (1981), in La porta della giustizia. Saggi su Walter Benjamin, Pendragon, Bologna 1995, pp. 153-165.
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Invero, da un generale punto di vista gnoseologico – come Benjamin stesso si avvide soffermandosi sulle pagine blochiane di Spirito dell’utopia8 –, la lontananza fra i due autori è manifesta. Bloch ritiene infatti che nel “tempo adesso” possa verificarsi lo scontro di “præsentiæ di tipo non trascendente”,9 nel cui apparire o, meglio, pre-apparire è indicato il salvacondotto che può riuscire sì a far superare l’oscurità che deriva da un eccesso di prossimità al nostro presente, ma senza per questo far ritenere che si debba necessariamente “conservare il ricordo del futuro racchiuso nel passato”10 negando così quella impermanenza che costituisce la cifra fondamentale del rapporto uomo-mondo, mentre Benjamin sostiene che impadronirsi di un ricordo sia l’unico modo per interrompere il corso della storia e redimere l’umanità. Tuttavia la testimonianza che Bloch reca nell’intervista che segue permette di ravvisare la soluzione, pur momentanea, di ogni distanza fra le due esperienze di pensiero nei modi di una conciliazione che l’autore del Principio speranza pare voler trovare, lasciando che l’assenza dell’amico, avvolta nel ricordo, ecceda non solo lo schema di un tempo omogeneo e vuoto, ma pure quella “inafferrabilità della distanza [Unfaßbarkeit der Distanz]” verso cui l’intera sua riflessione si protende. A ben vedere, però, quanto Bloch sperimenta non sarebbe semplicemente una, ancorché estemporanea, palinodia rispetto alla coerenza di un pensiero che, forse non a torto, è sembrato tanto a Scholem quanto a Benjamin essenzialmente votato a una 8. Cfr. W. Benjamin, “Brief an G. Scholem vom 13 Februar 1920”, in Briefe, a cura di T.W. Adorno e G. Scholem, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1966, pp. 234-237, in particolare pp. 234-235. Ma per un più disteso confronto fra Benjamin e Bloch, si vedano almeno: P. Ivernel, Soupçons. D’Ernst Bloch à Walter Benjamin, in G. Raulet (a cura di), Utopie-marxisme selon Ernst Bloch, Payot, Paris 1976, pp. 265-277; A. Luther, Variationen über die Endzeit. Bloch contra Benjamin, “Bloch Almanach”, 4, 1984, pp. 57-73; A. Münster, Figures de l’utopie dans la pensée d’Ernst Bloch, Aubier, Paris 1985, in particolare il cap. VI, pp. 111-129; A. Rabinach, “Between apocalypse and enlightenment. Benjamin, Bloch, and modern GermanJewish messianism”, in In the Shadow of Catastrophe, University of California Press, Berkeley 1997, pp. 27-65; D. Gentili, Messianismo storico: Walter Benjamin tra Emmanuel Lévinas ed Ernst Bloch, “Links”, 2, 2002, pp. 73-90; M.F. Camellone, Categorie come immagini: Bloch e la mano di Benjamin, in Seminario di studi benjaminiani (a cura di), Le vie della distruzione, Quodlibet, Macerata 2010, pp. 55-79. 9. E. Bloch, Experimentum mundi, cit., p. 133. 10. Ivi, p. 54.
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Ricordi di Walter Benjamin1 ERNST BLOCH
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onobbi Benjamin a Berna nel 1918. Conduceva una vita appartata, con i libri sino al collo, come diceva sua moglie Dora. Lo incontrai di nuovo alcuni anni dopo a Berlino, dove risiedeva infelice e a disagio nella villa paterna. Per questo ci si frequentava molto intensamente. Benjamin era allora occupato, e ancora a lungo lo sarebbe stato, con il suo libro, L’origine del dramma barocco tedesco. Ci incontrammo nuovamente a Capri e a Positano, dove si trovava pure Asja Lacis, la regista lettone, la quale lo influenzò, familiarizzandolo con il movimento di pensiero marxista. Più tardi, dopo questo soggiorno che trascorremmo assai piacevolmente nell’Italia meridionale, vi fu una vera simbiosi a Parigi nel 1926 che durò sei mesi, durante la quale ci frequentammo quotidianamente, soprattutto di notte. Si deve dire, tuttavia, che l’intimità era così profonda fra noi che ne derivò una sorta di sindrome di trincea, come sempre accade quando si instaura un’eccessiva vicinanza e una reciproca dipendenza in una grande città, ancorché si trattasse di Parigi, le cui personalità e i cui intellettuali, a quel tempo, giravano con freddezza le spalle a Benjamin. Il testo rappresenta la trascrizione di un’intervista concessa da Ernst Bloch a Peter Szondi nel 1966 per la radio di Berlino Ovest, ed è stato dapprima pubblicato in “Der Monat”, 216, 1966, pp. 38-41, quindi in AA.VV., Über Walter Benjamin, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1968, pp. 16-23. La traduzione è stata condotta su quest’ultima edizione. Una precedente versione italiana, ancorché parziale, può leggersi in W. Benjamin, Sul concetto di storia, a cura di G. Bonola e M. Ranchetti, Einaudi, Torino 1997, pp. 318-321.
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Con questo intendo dire che, stante la troppo intensa intimità, su di noi era calata una leggera noia. Questa finì e si spense in modo effimero, come è naturale che sia, quando ci incontrammo di nuovo a Berlino in un’amicizia al crepuscolo, che in seguito, nel 1933, a causa di Hitler, si interruppe del tutto. Non ho più rivisto Benjamin prima della sua morte, voglio dire poco prima della sua morte. Il nostro incontro avvenne di nuovo a Parigi, nel 1935. In modo tanto più terribile e inatteso mi colse la notizia della sua dipartita. Un modo di morire, tuttavia, non del tutto incongruente rispetto a una frase di Benjamin di cui mi sovviene il ricordo: “Tanto meno si ha potere su un morto!”. Mi è stato domandato su che cosa vertessero più di sovente i nostri argomenti di conversazione. Dunque, già per il nostro comune senso per i dettagli e per l’importanza, spesso ignorata, di quanto è secondario nell’osservazione del piccolo, del trascurato – detto senza alcun pathos –, della testata d’angolo che i muratori non hanno scelto e che esiste ovunque; dunque, per questo condiviso senso del dettaglio, dal quale potevano discendere le più importanti spiegazioni, i nostri discorsi trattavano – per esprimermi nello stile del XVII secolo – de omnibus rebus et de quidibusdam aliis. Benjamin aveva uno spiccato senso per gli aspetti secondari, di cui era invece del tutto privo Lukács; egli aveva uno sguardo unico per il dettaglio significativo, per ciò che resta discosto, per gli elementi nuovi, che da qui si diffondono nel pensiero e nel mondo, per il non comune e per ciò che nella sua unicità è schematicamente ininterrotto, per quanto non si trova sulla strada maestra e che perciò merita una particolare e scrupolosa considerazione. Benjamin ebbe un senso micrologico-filosofico senza pari per il dettaglio, per il significativo elemento accessorio, per il segno secondario (pure Lichtenberg ebbe questa dote, ma senza possedere una statura metafisica). Dico da un punto di vista filologico, perché le cose erano da lui osservate così come erano lette, ed erano lette per trovarne il senso come pure per trovare il testo perduto, non solo nei libri, bensì pure, sebbene non esclusivamente, al di là dei libri che lo sommergevano. Egli era infatti sommerso sino al collo dall’esperienza di un mondo da interpretare accuratamente. Tale peculiare senso filologico era al 213
contempo anche il più chiaro e gli presentava, come fossero lettere, i fenomeni esterni e l’invisibile che è manifesto, ovvero il manifesto che è invisibile in questa visione e nelle forme dell’apparizione. Ciò accadeva in una maniera appena perturbante, come se il mondo fosse scrittura, come se descrivesse l’andamento delle cose, mentre descriveva quasi un cerchio o qualcosa di simile, come se scrivesse al contempo un libro pieno di emblemi, un libro sconosciuto; come se questo descrivere – nella doppia accezione che la parola “descrivere” possiede (ossia che si descrive qualcosa e che si descrive con una penna un cerchio) – fossero codici cifrati da leggersi in senso micrologico-filologico. Queste definizioni stanno in superficie, ma non soltanto in superficie. Piuttosto, com’è caratteristico di Benjamin, esse vengono lette e allo stesso tempo dedotte. Ciò accadeva per mezzo di concetti chiari, attraverso uno scavare che procede al di sotto delle cose, ma in modo completamente nuovo, sicché la parola scavare deve, forse, qui essere sostituita. Quanto è stato compiuto da Benjamin è stato piuttosto un sezionare, un intagliare una sezione obliqua, di modo che anche nell’atto di sezionare è portato all’evidenza un elemento secondario, un qualcosa di non comune, come attraverso un’agata, per dirla con Benjamin. Attraverso questa sezione trasversale si manifestano perspicuamente le strutture, le figure e le figurine che l’agata mostra nel suo intaglio. Viene così a manifestarsi la struttura-“scritta” e – per Benjamin – soltanto in virtù di essa diviene per noi visibile l’oggettivo geroglifico delle cose. Al riguardo lo stesso Benjamin poteva prendere in giro la sua passione per le cose stravaganti. E così, per esempio, poteva chiedere alla mia fidanzata di allora – questa fu la prima domanda che le rivolse, allorché lo vedemmo assorto, per così dire, mentre camminava lungo il Kurfürstendamm con il capo chino –, a Karola, la quale, dopo avere sentito molte cose su di lui, vedendolo per la prima volta, gli chiese che cosa stesse pensando: “Cara, lei ha mai fatto caso all’aspetto egro delle figure di marzapane?”. Una domanda autoironica, tipica di Benjamin, ma nulla era abbastanza bizzarro, anche in presenza di altri, da non potergli richiedere, eventualmente, una particolare attenzione, un’introspezione. Era in tal modo all’opera una micrologia con la mano mancina – dico –, 214