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335 luglio settembre 2007

L’antropologia interpretativa di Clifford Geertz Alessandro Dal Lago Tra soggetto e oggetto. L’importanza di Geertz per la conoscenza della 3 cultura Clifford Geertz “Non faccio sistemi” (Intervista di 19 Arun Micheelsen) [2002] Pier Paolo Giglioli Da Parsons a Ricœur passando per Bali. Note sul concetto di cultura in Geertz 37 Nadia Urbinati Relativismo come mentalità, non 56 teoria ARCHIVIO 71 Jean Baudrillard Requiem per i media [1971] Jean Baudrillard L’implosione del senso nei media e 96 l’implosione del sociale nelle masse [1979] INTERVENTI Giacomo Marramao, Manuel Orazi Identità multipla, narrazione, contingenza. Per una 111 critica della ragione multiculturalista Paulo Barone Panikkar, Spivak e il motivo orientale 123 Gaspare Polizzi Bergson e Bachelard lettori di 142 Einstein DISCUSSIONE SULLA CONSULENZA FILOSOFICA Nicola Gaiarin, Massimiliano Nicoli Filosofia in 166 azienda? Antonello Sciacchitano Allora, meglio la consulenza 186 filosofica


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rivista fondata da Enzo Paci nel 1951 direttore responsabile: Pier Aldo Rovatti redazione: Graziella Berto, Laura Boella, Paulo Barone, Giovanna Bettini, Deborah Borca (editing, deborahborca@libero.it), Silvana Borutti, Damiano Cantone, Alessandro Dal Lago, Rocco De Biasi, Maurizio Ferraris, Edoardo Greblo, Raoul Kirchmayr, Giovanni Leghissa, Anna Maria Morazzoni (coordinamento, tel. 02 70102683), Ilaria Papandrea, Gabriele Piana, Fabio Polidori, Rosella Prezzo, Pier Aldo Rovatti, Antonello Sciacchitano, Giovanni Scibilia, Davide Zoletto direzione: via Pacini 40, 20131 Milano. collaborano tra gli altri ad “aut aut”: G. Agamben, H.-D. Bahr, R. Bodei, M. Cacciari, G. Comolli, G. Dorfles, U. Galimberti, P. Gambazzi, S. Givone, A. Heller, A. Prete, M. Serres, G.C. Spivak, M. Trevi, G. Vattimo, M. Vegetti, P. Veyne, V. Vitiello, S. Zˇizˇek

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Tra soggetto e oggetto. L’importanza di Geertz per la conoscenza della cultura ALESSANDRO DAL LAGO

È più difficile interpretare le interpretazioni che interpretare le cose. Montaigne1

1. Non troppi si sono accorti della morte di Clifford Geertz, alla fine del 2006, tranne naturalmente i suoi colleghi americani, soprattutto antropologi. Sic transit… A un vago oscuramento del nome hanno contribuito diversi fattori: le critiche, non sempre benevole, di colleghi e allievi la cui opera si situa comunque nel suo solco; i sospetti che, in Europa, prima i marxisti di stretta osservanza e poi gli antropologi più o meno strutturali hanno sollevato sul suo metodo o sul suo stile. Soprattutto, come ha notato lo stesso Geertz, l’affievolirsi della voga postmoderna, qualunque cosa questa sia o sia stata. Diciamo che concetti chiave come thick description (“descrizione spessa” o “densa”) o blurred genre, cioè il rimescolamento dei generi a cui Geertz è associato a torto o ragione, benché ormai canonizzati al di là dell’Atlantico, qui da noi sono stati visti a lungo come il fumo negli occhi.2 E non parliamo del suo interesse per le questioni ermeneutiche legate all’impresa antropologica. Consideriamo una tipica dichiarazione geertziana: La relazione personale [dell’antropologo] con il suo oggetto di ricerca è forse, più che tra gli studiosi di altre discipline, inevitabilmente problematica. Se sapete che cosa egli pensi 1. Citazione in epigrafe a J. Derrida, “La struttura, il segno e il gioco nel discorso delle scienze umane”, in La scrittura e la differenza (1967), Einaudi, Torino 1971, p. 359. 2. C. Geertz, “Verso una teoria interpretativa della cultura”, in Interpretazione di culture (1973), il Mulino, Bologna 19982; Id., “Generi confusi: la rappresentazione allegorica del pensiero sociale”, in Antropologia interpretativa (1983), il Mulino, Bologna 1988, p. 25 sgg.

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che sia un nativo, avete una chiave per comprendere il suo lavoro. Se sapete che cosa pensa di essere lui, sapete in generale che cosa sta per dire di qualsiasi tribù che gli capiti di studiare. Tutta l’etnografia è una specie di filosofia e buona parte del resto è confessione.3 Una vaga conoscenza dell’opera di Geertz suggerisce che con “confessione” – l’inevitabile autobiografismo che si insinua nelle descrizioni antropologiche dei nativi – Geertz sta esponendo un dato di fatto e non formulando un auspicio. Ma rimane che avere collocato l’antropologia in una tradizione inaugurata da Agostino di Ippona e da Rousseau (Geertz parla di confessioni autoriali) non poteva renderlo popolare tra gli scienziati sociali all’antica, gente convinta che le scienze della cultura siano simili al lavoro degli architetti (tirar su edifici incrollabili) e non invece, come dice sant’Agostino da qualche parte, a quello di un bambino che pretende di svuotare il mare con un cucchiaio. Mi si perdoni a questo proposito una citazione personale. Tanti anni fa, in pieno clima geertziano e anche derridiano, osai scrivere che, non diversamente dall’antropologia o dalla storia, la sociologia, la scienza o disciplina che mi dà da vivere, in fondo è una questione di scrittura (volevo dire in sostanza che bisognava occuparsene anche da questo punto di vista).4 Apriti cielo. Un collega di cui non farò il nome – ma che probabilmente pensava che Derrida fosse il cognome di una cantante e Geertz quello di un ciclista – mi accusò, durante un seminario, di immoralità scientifica, lesa sociologia e corruzione dei giovani (forse pensava che volessi trasformare i dottorandi in sociologia in romanzieri). Questo, si parva licet componere magnis, solo per dare un’idea del clima in cui l’opera di Geertz è stata accolta da comunità accademiche che si vogliono molto hard, ma forse sono solo thick, per usare, in un’accezione diversa, un aggettivo che riveste una certa importanza nella metodologia di Geertz. 3. C. Geertz, The Cerebral Savage, “Encounter”, 4, 1967, p. 25. 4. A. Dal Lago, La sociologia come genere di scrittura, “Rassegna italiana di sociologia”, 2, 1994, ora in I nostri riti quotidiani. Prospettive nell’analisi della cultura, Costa & Nolan, Genova 1995.

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Quando, verso la fine degli anni settanta, la sua opera cominciò a essere conosciuta al di là della cerchia degli antropologi (di lingua inglese), la temperie culturale era favorevole alla trasformazione di Geertz in icona culturale alternativa. Era l’epoca dell’interpretive turn che, in termini molto semplici, significa attenzione ai problemi interpretativi nelle scienze della cultura e, in chiave più complessa, una dislocazione ai confini dell’eresia rispetto all’opinione pubblica positivista.5 All’epistemologia fisicalista, secondo cui la società e la cultura possono essere studiate rigorosamente come enti misurabili, in base a ipotesi generalizzabili (semplifico), subentrava quella ermeneutica, che invece pone l’accento sui rapporti spesso opachi, o comunque complicati, tra soggetti e “oggetti”. Detto in poche parole: se in fisica – a onta di Feyerabend – il falsificazionismo può anche funzionare, nelle scienze sociali no, o molto meno (come si vede anche dalle imbarazzanti incursioni di Popper in psicologia e nella critica del grande fratello televisivo).6 Uno studioso di cultura sa di non essere un osservatore esterno, ma interno alla cultura, se non altro alla propria, e quindi dovrà continuamente chiedersi: non è che le mie ipotesi sono condizionate dalle premesse culturali in cui anch’io mi situo? Non è, per dirne solo una, che il mio status di ricercatore (con tutte le premesse che porta con sé, comprese quelle epistemologiche) mi condiziona nelle definizioni dei miei “oggetti”? È un po’ come la storia di Chuang Tzu e della farfalla. Chi sogna chi? Chi pensa cosa? Mi rendo conto che messa in questi termini la faccenda è banale. Ma è la banalità della condizione di chi riflette – direbbe 5. Per uno sguardo d’assieme, cfr. D.R. Hiley, J.F. Bohman e R. Shusterman (a cura di), The Interpretive Turn. Philosophy, Science, Culture, Cornell University Press, Ithaca-London 1991. 6. Ma il fatto che funzioni in una scienza non significa che questa sia esclusivamente il prodotto del rigore epistemologico, che spesso appare come una sorta di legislazione ex post. Si veda in particolare B. Latour, Il culto moderno dei fatticci (1996), Meltemi, Roma 2005. “Fatticcio” è in sostanza un ente culturale mezzo fatto o mezzo feticcio. Come nel caso dei centauri, è però molto difficile stabilire dove finisca l’animale e inizi l’uomo. Un’applicazione del metodo di Latour, usato soprattutto nell’analisi culturale delle procedure di ricerca in biologia, sarebbe di straordinario interesse nelle scienze della cultura. Che abbiano o no un senso (talvolta ce l’hanno), gran parte dei precetti che si vogliono scientifici in tali scienze assomigliano a creature composite, centauri e ippogrifi.

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Geertz – su se stesso mentre studia i nativi. È in fondo lo stesso pensiero che regge alcune imprese di Bourdieu nel campo dell’analisi della cultura e della società. Penso a libri come Homo academicus, anche se bisogna dire che raramente Bourdieu ha applicato fino in fondo il principio a se stesso, in particolare alla sua singolare e acritica accettazione dei pregiudizi di Proudhon in campo artistico.7 Geertz ne è invece consapevole, quando, nel saggio introduttivo di Interpretazione delle culture, ripropone con forza, sulla scorta di Weber, la definizione di cultura come rete di simboli che gli uomini creano ma in cui finiscono per impigliarsi (anche gli scienziati sociali, mi sembra ovvio). Se vogliamo, Geertz ha compiuto un’operazione di convergenza problematica della prospettiva simbolica – inevitabilmente fondante in antropologia – con quella “comprendente” che invece fa capo a Weber o Simmel e all’ermeneutica.8 Con in più una spiccata sensibilità per la filosofia contemporanea. Se è pensabile e rappresentabile un universo culturale, bisognerà anche lavorare su ciò che costituisce lo sfondo produttivo dei processi di interpretazione: da qui l’interesse di uno scienziato sociale, formatosi con Talcott Parsons, per quel pensiero “continentale” (Ricœur ecc.) che ancora oggi, negli USA, trova asilo soprattutto nei dipartimenti di letteratura comparata.9 Tuttavia, l’importanza di Geertz non sta solo nell’avere reso evidente l’inevitabilità del circolo ermeneutico per gli scienziati sociali e specialmente per gli antropologi. Risiede nell’avere aperto la strada a uno stile di lavoro in cui la messa a fuoco degli oggetti culturali trascende sia i limiti sia i piani privilegiati delle singole discipline. Si consideri, per fare solo un esempio, il modo in cui analizza il rapporto tra il centro di un potere e le sue articolazioni. Come in molti altri casi, egli trova nella performance la congiuntura in 7. P. Bourdieu, La distinzione. Critica sociale del gusto (1979), il Mulino, Bologna 1983. 8. Ma non solo. Geertz ha rivendicato, (in Antropologia e filosofia. Frammenti di una biografia intellettuale, 2000, il Mulino, Bologna 2001) il suo debito con Wittgenstein, per quanto riguarda lo “scabro” rispetto al mondo “liscio” dell’analisi in termini esclusivi di razionalità. 9. Cfr. R. Handler, An Interview with Clifford Geertz, “Current Anthropology”, 5, 1991, p. 603 sgg.

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cui il contingente (l’evento) illumina il sistema. Ecco il resoconto dell’ultimo viaggio del re del Marocco Mulay Hassan verso la fine dell’Ottocento. Come un imperatore del tardo impero romano, il re doveva mostrarsi incessantemente nelle regioni più remote per manifestare la sua potenza alle tribù turbolente e recalcitranti, per “confonderle e non esserne confuso”. Nel 1893 una spedizione di 30.000 uomini, con il re a cavallo e sormontato dal baldacchino regale, mosse da Fez verso sud, tra le tribù berbere ostili e voci di complotti architettati dai francesi e dalle fazioni di corte. Il viaggio, sotto il sole del deserto e nei miasmi dell’accampamento, volse rapidamente al disastro. Benché relativamente giovane, il re morì di stenti poco prima di Marrakech. A questo punto, con l’esercito ridotto a un terzo, la spedizione prese la via del ritorno verso la reggia di Rabat. Cito da Geertz: La sua morte, tuttavia, fu tenuta nascosta dai suoi ministri. Essi temevano che, con la morte del re, la carovana si sarebbe dispersa e le tribù l’avrebbero assalita e che i cospiratori che sostenevano altri candidati sarebbero riusciti a impedire l’ascesa al trono del successore scelto da Mulay Hassan, il suo figlio dodicenne Mulay Abdul Aziz. Si disse quindi che era solamente indisposto e che riposava da solo, il suo corpo fu posto su un palanchino chiuso da cortine e la spedizione fu inviata verso Rabat in una marcia forzata, brutale sotto il calore estivo. Il cibo veniva portato alla tenda del re e poi portato via come se fosse stato consumato. I pochi ministri informati si affrettavano alla sua presenza e se ne andavano come se stessero occupandosi degli affari di stato. Ad alcuni sceicchi locali, dopo averli avvisati che stava dormendo, fu anche concesso di dargli un’occhiata. Nel momento in cui il corteo si stava avvicinando a Rabat, due giorni dopo, il corpo del re aveva cominciato a puzzare talmente che la sua morte si annunciava da sola, ma ormai le tribù pericolose erano state lasciate indietro e Abdul Aziz era stato proclamato re in città, dopo che i suoi sostenitori erano stati informati da un messaggero. Dopo altri due giorni, la compagnia ridotta unicamente ai ministri 7


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del vecchio re e alla sua guardia del corpo – gli altri si erano dispersi o erano rimasti indietro – entrò zoppicando a Rabat, avvolta nel fetore della morte regale.10 Simili descrizioni abbondano nelle ricerche di Geertz o nei saggi metodologici. C’è in lui la capacità, molto rara nelle scienze sociali, di comunicare, attraverso la narrazione e la descrizione, il “laggiù” (in senso tanto spaziale quanto temporale) di una cultura – che si tratti di combattimenti di galli, cerimonie politiche di corte o contrattazioni in un suq del Medio Atlante marocchino.11 E questo può spiegare il fascino crescente che il suo lavoro esercita sugli storici. Non è tanto un altro esempio di “rimescolamento dei generi” – anche se Geertz fa un uso ampio e libero di documenti storici, fino a rendere in certi casi indistinguibile la differenza tra narrazione storica e antropologica. Parlerei piuttosto dell’inevitabilità, per gli storici, di chiamare in causa quel “senso del luogo” in cui di solito gli antropologi si insediano. “Nessuno vive nel mondo in generale”, Geertz ha osservato una volta ironicamente.12 Così, la conoscenza del locale in senso ampio (mi si perdoni il bisticcio) fa parte stabilmente della strumentazione storica più innovativa.13 Il telescopio va alternato con la lente di ingrandimento. Si potrebbero citare le ricerche sulla “sociabilità”, che devono molto all’interazionismo simbolico e a quella che si chiamava microsociologia.14 Ma più ancora, probabilmente, stili di ricerca in cui gli oggetti storici di lungo periodo o lunga distanza sono ricostruiti in riferimento a una “situazione” contingente. Lavori come quelli di Peter Brown sul sentimento del sacro nella tarda antichità, o di Michael Baxandall sul mercato dell’arte rinascimentale, corrispondono 10. C. Geertz, “Centri, re e carisma: riflessioni sul simbolismo del potere”, in Antropologia interpretativa, cit., pp. 178-179. 11. Id., Suq. The bazaar economy in Sefrou, in C. Geertz, H. Geertz e L. Rosen, Meaning and Order in Moroccan Society, Cambridge University Press, New York 1979. 12. C. Geertz, Afterword, in S. Feld, K.H. Basso (a cura di), Senses of Place, School of American Research Press, Santa Fe (N.M.) 1996, p. 259 sgg. 13. P. Manning, The Problem of Interactions in World History, “American Historical Review”, 3, 1996, p. 771 sgg. 14. M. Agulhon, Il salotto, il circolo e il caffé. I luoghi della sociabilità nella Francia borghese (1810-48), Donzelli, Roma 1993. “Sociabilità” (Geselligkeit) è un termine di Simmel.

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esattamente all’innovazione di Geertz in antropologia. Più che confusi, in tutti e tre i casi, i generi si prestano aiuto l’un altro. Lo sguardo antropologico, che si basa costitutivamente su una local knowledge, è divenuto, anche grazie a Geertz, parte integrante della prospettiva storiografica. 2. Tributati a Geertz questi riconoscimenti, bisogna subito stabilire un punto essenziale: chi è interessato esclusivamente all’epistemologia o alla mise en abyme si inoltrerà nell’universo filosofico (mi sembra che Derrida abbia compiuto un lavoro egregio, in questo senso); chi invece fa, anche nella dimensione interpretativa, il ricercatore sociale o culturale dovrà mettere alla prova la consapevolezza ermeneutica nella comprensione dei suoi “oggetti” – o problemi empirici o forme di vita. Se Geertz si fosse limitato a suggerire ai suoi colleghi di darsi all’interpretazione o allo scambio di prospettive disciplinari, non sarebbe così importante per noi che, pur interessati a quanto fanno i colleghi filosofi, nuotiamo, felicemente o no, in una ontologia regionale. Il fatto è che, in misura diversa, per chi si occupa di cultura (storici, sociologi interpretativi, antropologi) le questioni interpretative sgorgano dalle preoccupazioni empiriche, le quali a loro volta riflettono questioni ermeneutiche. E così via. Ma non si tratta di aspetti separabili. Sono piuttosto due lati della stessa impresa. È l’eterna ghirlanda, talvolta fiorita ma anche disseccata, che incorona i ricercatori.15 Credo che alcune ricerche di Geertz mettano brillantemente in evidenza questo ancoramento nell’empiria (anche se intesa in senso molto ampio, non limitato ai “dati” raccolti). Il famoso e citatissimo saggio sul combattimento dei galli a Bali è forse l’esempio più noto.16 Qui il corpo a corpo con la dimensione empi15. R. Hofstadter, Gödel, Escher e Bach. Un’eterna ghirlanda fiorita (1979), Adelphi, Milano 1975. Libro scritto da uno scienziato che manifesta l’importanza del riconoscimento della circolarità ermeneutica in ogni impresa conoscitiva. Chi si occupa di “cornici” sa di essere in qualche misura framed. Si veda l’introduzione in E. Goffman, Frame Analysis. L’organizzazione dell’esperienza (1974), traduzione italiana (non ineccepibile), Armando, Roma 2001. 16. C. Geertz, “Deep Play. Note sul combattimento dei galli a Bali”, in Interpretazione di culture, cit.

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rica, in cui ogni ricercatore non può non muoversi, sta nel fatto che un mondo sociale è necessariamente studiato dall’antropologo a contatto con il suo oggetto. È vero che sui viaggi antropologici verso i loro nativi (o dei sociologi verso i loro devianti, ma anche degli storici verso i fantasmi del passato) gravano sospetti di ogni tipo: chi ti manda, con quale diritto, con quali pregiudizi ecc.17 Ma si suppone che si analizzi quello che si è visto, che siano riportati da quei mondi bauli o cassette pieni di note sul terreno. Io ci sono stato e ve lo descrivo – questo è il messaggio dell’interprete, anzi il suo contratto antropologico con noi.18 Come mostra il saggio in questione, l’interpretazione dell’“oggetto” risiede nella capacità di fare interagire, in un luogo esotico, tra galli e balinesi, struttura sociale (la stratificazione, come diciamo noi sociologi) e performance culturale. La struttura si rivela nel suo essere performativa, nel gambling associato a uno sport, tra svolazzare di penne, schizzi di sangue e speroni acuminati:

17. Lo stesso lavoro che Geertz ha compiuto nei confronti della tradizione antropologica classica: Id., Opere e vite. L’antropologo come autore (1988), il Mulino, Bologna 1990. Che nel resoconto di viaggio sia facile (a posteriori, per la critica) individuare lacune, reticenze, opacità mi sembra inevitabile: diversamente da Flaubert o Nabokov, i quali inventano mondi di carta, e quindi sono ossessionati dalla perfezione, il ricercatore è di casa nell’imperfezione: crea nel descrivere qualcosa che più o meno esiste e quindi è naturale che sorvoli su alcune questioni che coinvolgono il suo essere là, a partire dalle sue difficoltà molto umane (zanzare, dissenterie, incomprensioni linguistiche). Oppure, che ci ricami a fini di abbellimento o distrazione. O che giochi un po’ con quanto di personale o interpersonale sta alla base del suo lavoro di ricerca. Di conseguenza, non darei troppa importanza alle critiche che gli antropologi radicali, in gran parte allievi diretti o indiretti, hanno sollevato sulla trasparenza della sua impresa (cfr. V. Crapanzano, Hermes’ dilemma. The masking of subversion in ethnographic description, in J. Clifford, G.E. Marcus, a cura di, Writing Cultures. The Poetics and Politics in Ethnography, University of California Press, Berkeley 1986, p. 68 sgg., poi tradotto a sé come Il dilemma di Hermes. Il mascheramento della sovversione nella descrizione etnografica, Anabasi, Milano 1995). Non che non ci sia del vero nelle critiche: ma è molto dubbio che l’opera di sovversione antropologica condotta da Clifford, Marcus, Crapanzano, Rosaldo ecc. sarebbe stata possibile senza la strada aperta da Geertz. Ma si vedano comunque, per un riesame molto sobrio, ai limiti dell’understatement, del ruolo giocato dalla sua ricerca nell’antropologia contemporanea, C. Geertz, Oltre i fatti. Due paesi, quattro decenni, un antropologo (1995), il Mulino, Bologna 1995, e Id., Antropologia e filosofia. Frammenti di una biografia intellettuale, cit., passim. 18. Questo non significa che il viaggio non possa essere problematizzato nei suoi presupposti politici e culturali. Ciò è stato fatto abbondantemente, a partire dai primi anni ottanta. Cfr. J. Clifford, Strade. Viaggio e traduzione alla fine del secolo XX (1997), Bollati Boringhieri, Torino 1999.

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Alla fine, tutto cominciò a delinearsi come una lotta tra diversi gruppi per lo status e il prestigio sociale – e allora le scommesse acquistavano un senso. Non avevano senso, cioè, in termini di teoria delle probabilità o di teoria dell’azione razionale, ma ne avevano in base al modo in cui, a Bali, i gruppi parentali, gli individui, le caste e le classi privilegiate competono tra loro. È questo, di fatto, un aspetto importantissimo di quella cultura. Emerse quindi che i combattimenti dei galli, anziché essere avvenimenti frivoli, erano in realtà molto vicini al cuore degli interessi principali dei balinesi. E questo non perché lo status venga determinato dai combattimenti dei galli (esso viene infatti determinato, come al solito, dalla nascita e da altri fattori, come per esempio la ricchezza), ma perché in questa occasione viene messo in risalto, viene drammatizzato, trasformandosi così in un testo. E come tale si offre alla lettura dell’antropologo. Con questo non intendo tuttavia affermare che necessariamente i balinesi darebbero questa interpretazione dei combattimenti dei galli, e anzi è impossibile che lo facciano, perché essi si limitano a vivere tali avvenimenti.19 Più che interessarsi all’analisi culturale della performance (per esempio il teatro),20 Geertz lavora sulla performatività della cultura. Il termine “testo” citato sopra non dovrebbe essere inteso in senso rigidamente semiologico: è piuttosto un impasto di necessità e azione contingente, in cui si dovrà vedere come il profondo, il determinante o strutturale, è “messo in gioco”. La distanza ipotetica tra struttura e performatività esprime appunto lo spessore, o densità, dell’interpretazione reso dalla formula thick description. Può essere che talvolta Geertz si sia fatto prendere la mano dal fascino che la complessità delle interpretazioni offre all’antropologo (ammiccamenti, ammiccamenti di ammiccamenti, deviazioni, depistaggi dei nativi ecc.). Ma in ogni caso, 19. Da un’intervista RAI a Geertz (disponibile in <http://www.emsf.rai.it/interviste/interviste.asp?d=398>). Data non specificata. Corsivi miei. 20. Cfr. V. Turner, Dal rito al teatro (1982), il Mulino, Bologna 1989, e Id., Antropologia della performance (1986), il Mulino, Bologna 20042.

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è chiaro che la distanza tra la vita vissuta dei nativi e l’interpretazione che ne dà l’antropologo resta. Si dovrebbe parlare, nel suo caso, di una sorta di universalismo temperato, non di relativismo. Le narrazioni, rappresentazioni o discorsi che una cultura produce intorno a se stessa sono i testi che l’antropologo legge, e di cui scrive, ma che non si limita a trascrivere.21 Qui il principio della “distanza”, che Lévi-Strauss ribadì sino a una paradossale apologia dell’etnocentrismo,22 viene attenuato, non negato. Geertz ritiene che si possa ricostruire la soggettività degli altri senza la dissoluzione della propria. Comprendere i nativi non comporta il risucchio nel loro punto di vista. Anzi – benché la sua prospettiva sia espressa in modo spesso reticente, allusivo – è proprio nella distanza dell’interprete, chino sui testi dei nativi come se cercasse di decifrare una poesia, che si manifesta una sorta di comunione con loro.23 Questo punto esprime secondo me la specificità dello stile geertziano, un’apertura ermeneutica che non cela un certo conservatorismo professionale e in senso lato politico. Geertz ribadisce che l’antropologo è comunque altro dai nativi, finché è antropologo, e quindi prende le distanze da qualsiasi tentazione di fusione, il che tutto sommato appare onesto: infatti, o si tenta di fondersi fino in fondo e si arriva all’annullamento, a una negazione del proprio ruolo; oppure la fusione è una retorica politico-culturale (come avviene nei cosiddetti subaltern studies), una versione politicamente corretta di uno sguardo che comunque rimane a distanza (non è quello dei nativi), e quindi produce una specie di double bind – ci si appella all’alterità, ma si resta insediati nelle premesse etnocentriche e logocentriche della propria professione.24 21. C. Geertz, “Anti-relativismo”, in Antropologia e filosofia. Frammenti di una biografia intellettuale, cit. Ecco dunque il limitato postmodernismo di Geertz. L’interpretazione da parte dei nativi – il loro punto di vista – può essere fondamentale per la ricostruzione di una cultura, ma quella dell’antropologo è un’altra cosa. 22. C. Lévi-Strauss, Lo sguardo da lontano (1983), Einaudi, Torino 1984. 23. C. Geertz, “Dal punto dei vista dei nativi”: sulla natura della comprensione antropologica, in Antropologia interpretativa, cit., p. 90. 24. È una difficoltà a cui non si sottraggono i tentativi di innovare, anche sul piano empirico, la ricerca sociale. Ho già citato il caso di Bourdieu. Ma si veda anche L. Wacquant, Anima e corpo. La fabbrica dei pugili nel ghetto nero americano (2000), DeriveApprodi, Roma

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Dunque, nel suo universalismo problematico ed ermeneutico, Geertz dà una bella prova di dirittura scientifica: non gioca con la Einfühlung e nemmeno con la tentazione di sprofondare in quella che Foucault chiamerebbe la “scrittura di sé”. Infatti, se si parte dal presupposto che la conoscenza degli altri è in fondo una questione di intersoggettività, una mossa complementare e speculare alla “fusione” è quella dell’auto-narrazione: vi racconto le mie esperienze là tra i nativi perché io e loro siamo la stessa cosa. Ma anche questa si rivela una specie di fuga rispetto a quello che si è, in quanto scienziati della cultura. Un antropologo scrive di oggetti culturali, per quanto interpretati in modo aperto, non di sé. E per un buon numero di motivi, che spaziano da preoccupazioni di stile personale e riservatezza professionale alla consapevolezza che, comunque, il sé è un effetto linguistico o testuale, non una realtà che possa, in quanto tale, sgorgare dal soggetto e trasferirsi integralmente nel discorso o sulla carta. Il linguaggio privato è una finzione, per dirla con Wittgenstein. Ma anche se fosse qualcosa che rimanda fluidamente alla soggettività, l’antropologo non ha di mira se stesso, ma il mondo che ha scelto di de-scrivere. Il suo contratto scientifico lo vincola a un ruolo oggettivante, per quanto questo possa essere sgradevole o sempre più dubbio nel mondo contemporaneo. 3. Eppure, se la questione della distanza viene spostata dal piano dei rapporti tra soggetto conoscente e soggetti nativi (inevitabilmente oggetti di ricerca) a quello dei rapporti tra culture o meglio tra mondi, la soluzione di Geertz non appare del tutto soddisfacente. La sua è una posizione coerente, date le premesse accettate, quelle che ho sintetizzato nella formula di “contratto antropologico”. Ma il vero problema è proprio il contratto. Per 2002, una ricerca certamente brillante in cui in qualche modo si mette alla prova l’incorporazione dell’etnografo nella soggettività dell’oggetto. Il sociologo/etnografo si sottopone al training pugilistico per comprendere la costruzione culturale dei fighters neri. Alla fine, il vecchio trainer gli suggerisce di lasciar perdere e tornare al suo lavoro di sociologo (una conclusione onesta, tra il realistico e l’amarognolo). Ora il punto è: in che misura ci si libera anche in questo caso della mitologia dello stoicismo dei subalterni, celebrata in un film come Million Dollar Baby di Clint Eastwood?

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spiegarmi su questo punto, devo ricorrere ancora a una citazione personale. Tanti anni fa, mi pare fosse il 1995, fui invitato come discussant a una conferenza di Geertz alla Fondazione San Carlo di Modena. Ecco il mio quesito (cito a memoria): “Lei ci ha insegnato a guardare alle culture privilegiando l’interpretazione e soprattutto de-reificando lo stesso concetto di cultura, che nei suoi lavori appare come una sovrapposizione di testi da cui estrarre problematicamente un senso. Ora, lei ha lavorato principalmente in Indonesia e Marocco, due luoghi esotici. Ma perché l’antropologia è così restia a fare un lavoro analogo sui nostri mondi culturali? Voglio dire, la stessa rinuncia agli schemi ristretti dell’azione razionale potrebbe valere anche nel caso, che so, della politica estera americana, delle politiche migratorie o delle grandi feste sportive occidentali, e non solo del combattimento dei galli o della teatralizzazione della politica a Bali.25 Se questa non è proprio una sciocchezza [ero evidentemente intimorito dal trovarmi faccia a faccia con il celebre antropologo], perché l’antropologia non tenta davvero un rimpatrio nel suo luogo d’origine. E poi ha senso oggi la distanza epistemologica tra ‘loro’ e ‘noi’? Lei come la vede?”. Una precisazione: la mia domanda era retorica. In realtà, il rimpatrio era già cominciato da alcuni anni. Non soltanto come autocritica o decostruzione dell’antropologia, o ricerca di potenzialità alternative nella ricostruzione dei rapporti tra “noi” e “loro”,26 quanto sul piano della comparazione di realtà culturali diverse ma “paritarie”. I conflitti urbani a Londra e Bombay, o a Parigi e Kinshasa, venivano studiati sotto uno stesso cielo teorico, e anche nelle loro possibili interazioni e rifrazioni reciproche, senza più pretendere, implicitamente o no, che da noi fossero questioni sociologiche, mentre da loro antropologiche (la distinzione non è solo banalmente disciplinare, rimanda appunto a una 25. Mi riferivo ovviamente a C. Geertz, Negara. The Theatre State in Nineteenth-Century Bali, Princeton University Press, Princeton (N.J.) 1980, in cui, tra l’altro, si descrivono le cerimonie di corte come tentativi di stabilire l’età aurea del regno. 26. Un esempio tra molti: P. Gilroy, The Black Atlantic. L’identità nera tra modernità e doppia coscienza (1993), Meltemi, Roma 2003.

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questione di gerarchie).27 Fenomeni globali come la mobilità umana – le migrazioni – ci costringono a vedere in chiave molto diversa problemi tradizionali come “identità personale” e “identità collettiva” (etnica, religiosa ecc.), “acculturazione” o “deculturazione”, “integrazione culturale” e così via. Pensare al globo come uno spazio virtualmente liscio e continuo, in cui le culture si fondono amabilmente (questo è il senso di un’espressione come “intercultura”) è ovviamente una sciocchezza. Tuttavia, le culture non sono blocchi più o meno rigidi. Le “emergenze” globali le trasformano, le piegano, talvolta le irrigidiscono, e in ogni caso complicano i rapporti tra identità personali, riconoscimenti e rappresentazioni collettive. Proprio Geertz ci ha insegnato quanto sia densa di storicità la dimensione antropologica.28 Comunque, Geertz mi rispose con aria sorniona: “Beh, qualcuno ci prova e fa bene. Ma sa, noi antropologi abbiamo una tradizione e io non vedo perché dovrei uscirne. Ci provi lei, se crede”. Touché. In realtà, a parte la mia iattanza giovanile e la leggera ironia della risposta (ho un ricordo di Geertz come una persona veramente affabile), lui era ovviamente consapevole che l’esistenza stessa di una tradizione antropologica è divenuta problematica nel mondo globalizzato. In un certo senso, la “globalizzazione” scompagina le categorie e le gerarchie mentali in cui l’antropologia ha sempre trovato posto: “essere qui” ed “essere là” tendono a confondersi. Di lì a poco Geertz avrebbe pubblicato un volumetto in cui affrontava la questione dei cosiddetti conflitti di cultura nel mondo in senso lato, compreso il nostro.29 Geertz descrive un mondo in frammenti, in cui gli stati si sono moltiplicati a dismisura, analizza i confitti “culturali” che attraversano spazi occidentali come il Canada o la ex Jugoslavia, 27. U. Hannerz, Esplorare la città. Antropologia della vita urbana, il Mulino, Bologna 1992 (ma l’edizione originale è del 1980). 28. È proprio in questo senso che ho cercato di mettere in discussione il concetto di “conflitto di culture” o “scontro di civiltà”. Cfr. A. Dal Lago, Esistono davvero i conflitti tra culture? Una riflessione storico-metodologica, in C. Galli (a cura di), Multiculturalismo. Ideologie e sfide, il Mulino, Bologna 2006. 29. C. Geertz, Mondo globale, mondi locali. Cultura e politica alla fine del ventesimo secolo, il Mulino, Bologna 1999 (l’edizione americana è del 1995).

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riflette sul gioco reciproco di dimensione politica e religiosa nella formazione delle identità personali e collettive. Ora, si direbbe che questo nuovo mondo lo sconcertasse fino a una sorta di ripiegamento. Quando, per esempio, riflette sulla re-islamizzazione30 in Indonesia (il ritorno al velo che oggi si può osservare anche tra le giovani di origine maghrebina in città come Parigi o Londra), sembra interessato soprattutto al profondo significato esistenziale, se non metafisico (la “paura della morte”), che si rivela in tali scelte. Non a caso, il volume si conclude con un richiamo a William James. È quest’ultimo resoconto circostanziato delle inflessioni personali dell’impegno religioso che si spinge al di là del personale fino a raggiungere i conflitti e i dilemmi del nostro tempo ed è di questo che abbiamo bisogno. È per questo che abbiamo bisogno di James, per quanto oggi ci possano sembrare distanti la sua epoca e la sua personalità. O quanto meno abbiamo bisogno di quel tipo di indagine che egli ha inaugurato, quel tipo di talento che egli possedeva e quel tipo di apertura che egli mostrava per ciò che era estraneo e poco familiare, particolare e occasionale, perfino estremo e malato.31 È possibile che un antropologo interessato alle sette evangeliche in America latina, al risveglio del pentecostalismo o alle tendenze New Age (che oggi germogliano anche nel terreno recintato della chiesa cattolica) possa ritrovare l’apertura di William James per cercare di comprendere l’estraneità e il singolare delle nuove fedi? E questo vale per gli islamici tra noi, se si è interessati alla loro esperienza religiosa. C’è però la sensazione che in questo ritorno alle “inflessioni personali” – in fondo alla lettura delle esperienze come poesia – si perda di vista qualcosa. In un mondo strano come il nostro – in cui, per semplificare, una rete di estremisti islamici, temprata nella guerriglia in Afghanistan contro i 30. Ivi, p. 118 sgg. 31. Ivi, p. 126. Il riferimento è a W. James, The Varieties of Religious Experience. A Study in Human Nature (1902).

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russi, può essere in grado di radere al suolo due grattacieli a Manhattan, con la conseguenza di innescare una guerra senza fine in Iraq (e in Afghanistan) –, la religione è difficilmente concepibile come esclusiva esperienza locale. Qualunque cosa sia, connette la persona ai “dilemmi” globali e questi le danno visibilmente forma, fino al punto in cui non riusciamo più a capire se sia la paura a convertirsi in dilemmi o questi in paura. Certamente i luoghi e i tempi contano. La re-islamizzazione nell’Indonesia di Geertz, una dozzina d’anni fa, non è quella della Parigi contemporanea, dove può apparire una risposta tra le altre alla definizione che la società francese produce dei suoi cittadini di origine straniera (né più né meno, la racaille evocata dall’attuale neopresidente della Repubblica francese). Tuttavia, la forza che il messaggio politico dell’Islam radicale ha assunto negli ultimi due decenni non può essere riportata solo alle tradizionali questioni di ansia cosmica o di teodicea. Riguarda, mi si perdoni il neologismo, la geodicea. Gli orizzonti di riferimento sono certamente la comunità locale, la nazione, la religione dei padri più o meno rivista, ma sempre di più il mondo. Il giovane guerrigliero che dal Marocco si sposta in Iraq o Afghanistan o Cecenia per combattere gli infedeli o il fresco diplomato di high school che si arruola nei marines per distruggere le fonti del terrorismo rappresenta tragicamente l’attuale conflitto sulle questioni globali di giustizia che travaglia il nostro tempo. Di queste cose si occupano gli studi strategici e le relazioni internazionali. Forse, sarebbe opportuno che l’antropologia se ne occupasse di più. Ma resterebbe antropologia nel senso tradizionale del termine? Dal quartiere europeo di Rabat, con i suoi viali alberati, le ambasciate e i ristoranti francesi, si vede la città gemella di Salé, considerata una roccaforte islamica. Si sussurra in giro che prima o poi “loro” vinceranno le elezioni politiche, forse le prossime. Che cosa farà il re in caso di successo islamista? Gli scenari si moltiplicano. Quello algerino, Dio non voglia, con un colpo di stato che ha precipitato il paese in una guerra civile terrificante. O quello turco, in cui tra difficoltà di ogni tipo, e grazie al pugno di ferro dei militari, gli islamici sono stati in qualche misura inte17


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grati, urbanizzati. E che farà l’alleato americano? E l’Europa? Ecco domande che si scambiano facilmente con i “nativi”. Può l’antropologia limitarsi a studiare medine, madrase, suq (in base a un richiamo del folklore locale da cui, nelle sue versioni vecchie o nuove, è stata raramente immune) o invece connettere queste densità umane e culturali a portata di mano alle invisibili nervature dei mondi che le contengono? In ogni modo, qualsiasi tentativo di mettere a fuoco questa dimensione, in cui, locale e globale, politica e cultura, violenza e religione si intrecciano, dovrà sempre qualcosa a Geertz. Che si chiami antropologia globale o sociologia internazionale, o sia semplicemente una scienza sociale priva di paraocchi, esige – forse in una dimensione diversa – quel gioco sottile di distanza e prossimità, messa a fuoco degli oggetti e apertura ermeneutica, di cui Geertz ha dato prova nelle sue ricerche sul terreno e nella sua opera di riflessione teorica.

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“Non faccio sistemi” (Intervista di Arun Micheelsen) [2002] CLIFFORD GEERTZ

Arun Micheelsen. Vorrei cominciare chiedendole come è arrivato a focalizzare il suo lavoro esplicitamente sul concetto di cultura. Clifford Geertz. In Available Light racconto estesamente come ho lavorato con Clyde Kluckhohn e A.L. Kroeber sul loro libro sulla cultura. Ero il loro assistente e l’esperienza mi ha naturalmente molto influenzato (Geertz 2000: 12; Handler 1991: 604; Kluckhohn e Kroeber 1963 [1952]: V). L’altra ragione è che ho avuto una formazione umanistica. All’inizio ho studiato filosofia e letteratura, non antropologia o scienze sociali. In effetti, non avevo mai seguito un corso di antropologia prima di arrivare a Harvard. Perciò mi sono occupato di cultura a partire da un tipo di sfondo filosofico. Micheelsen. Si può dire che anche il lavoro sul campo in Indonesia negli anni cinquanta l’abbia spinta a concentrarsi sulla cultura? Geertz. Andai in Indonesia con una squadra di ricercatori e il mio compito era di studiare la religione, il che porta abbastanza rapidamente alle questioni culturali. Poiché ho fatto una tesi di dottorato sulla religione, sono finito a occuparmi di cultura in quel contesto, ma credo che ci sarei finito comunque (Geertz 1960). Intervista pubblicata in “Method & Theory in the Study of Religion. Journal of the North American Association for the Study of Religion”, 1, 2002, pp. 2-20. Titolo originale: “I Don’t Do Systems.” An Interview with Clifford Geertz. Arun Micheelsen insegna all’Università di Aarhus, in Danimarca.

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Micheelsen. Se guardiamo al suo lavoro e al suo metodo, lei scrive per esempio in Person, Time, and Conduct in Bali: Quello che cerchiamo e ancora non abbiamo è un metodo sviluppato per descrivere e analizzare la struttura significativa dell’esperienza [qui, l’esperienza delle persone] così come essa viene colta da membri rappresentativi di una particolare società in un particolare momento nel tempo – in una parola, una fenomenologia scientifica della cultura. (Geertz 1966: 7) Pensa di esserci riuscito, cioè di avere sviluppato una fenomenologia scientifica della cultura? Geertz. Non so se ci sono riuscito, ma sicuramente continuo a lavorarci. Recentemente ho fatto un seminario con Thomas Luckmann e abbiamo parlato di fenomenologia – del suo e del mio modo di usarla. Il mio stile fenomenologico non è diverso da quello di Luckmann o di Berger (Berger e Luckmann 1967). Anche se per loro – come per Edmund Husserl – la fenomenologia è un tema prioritario: fanno fenomenologia prima di analizzare qualsiasi cosa, cioè intendono la fenomenologia come uno sguardo generale sul mondo della vita. Non ho niente da obiettare a tutto ciò, ma non è il mio modo di lavorare. Io lavoro direttamente in modo empirico nel senso che – indipendentemente dal taglio fenomenologico delle mie considerazioni – esso ha senso nel contesto dell’analisi di materiale empirico. Di conseguenza non ho una nozione o una filosofia della cultura a priori: non che sia contrario per principio, ma non è quello che faccio. Qui poi si pone un’altra questione, che è quella di cosa sia la scienza. Comunque, penso che quel che ho fatto in tutto il corso del mio lavoro non sia altro che fenomenologia della cultura: non solo in Person, Time, and Conduct in Bali, ma anche in Negara quando parlo della fenomenologia del potere (Geertz 1980: 85). Forse non ho usato proprio quei termini, ma il punto di vista generale che propongo è quello: descrivere il mondo della vita in cui la gente vive; e per far ciò uso più il secondo Wittgenstein che Husserl. Potrei lasciare da parte la questione della 20


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scienza per ora, ma non mi sento vicino a nessun particolare punto Omega, a una fenomenologia scientifica della cultura di tipo conclusivo – anche se penso di avere sviluppato una prospettiva fenomenologica generale sulla cultura, o quantomeno coerente con quella di fenomenologi quali Luckmann e Berger. Ci sono delle cose in Husserl e nella sua tradizione rispetto a cui ho delle riserve, come l’ego transcendentale e il cartesianesimo di certi tipi di fenomenologia. Nondimeno credo di aver imparato molto da questi studiosi: cerco di applicare il loro metodo al mio lavoro; soprattutto con il passare del tempo, dal momento che mi sono sempre più interessato a come la gente vede le cose e a come comprende il proprio mondo della vita. Micheelsen. Significa che tiene conto anche dell’ermeneutica? Geertz. Sì, sono stato molto influenzato da Paul Ricœur e HansGeorg Gadamer. Forse più da Ricœur. Tuttavia, l’ermeneutica inevitabilmente ti porta alla fenomenologia, o quantomeno a una prospettiva descrittiva di tipo fenomenologico (Geertz 1980: 103104). Lo ripeto, io lavoro empiricamente. Sia Ricœur sia Gadamer sono interessati alla possibilità generale della conoscenza. Da questa impostazione ho imparato molto, ma non è quello che faccio nel mio lavoro: io cerco di raggiungere qualche conoscenza su qualche oggetto. Cerco di fare una fenomenologia applicata, un’ermeneutica applicata, di fare un vero lavoro ermeneutico sull’oggetto che sto cercando di comprendere. Il combattimento dei galli è un esempio del tentativo di portare la fenomenologia dentro un accostamento ermeneutico per poi tornare alla fenomenologia, come avviene anche in From the Native’s Point of View (Geertz 1980: 103-104; Geertz 1983: 55-70; Geertz 1995: 114). Di conseguenza sento di appartenere a una tradizione fenomenologica, anche se il mio lavoro tende a essere un po’ restìo a formulare una filosofia generale della cultura. Micheelsen. Si potrebbe dunque dire che lei è piuttosto eclettico quanto a ispirazione teorica – mi riferisco per esempio al suo uso di 21


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Ludwig Wittgenstein, Susanne Langer, Gilbert Ryle, Talcott Parsons, Paul Ricœur, Alfred Schutz, Max Weber e altri. Geertz. Diciamo che sono eclettico nel senso che si tratta di persone diverse; ma tutti questi autori hanno un interesse comune, cioè il simbolico, l’ambito del significato, o persino una filosofia della mente. Parsons mi ha introdotto al lavoro di Weber, di conseguenza ho in qualche misura una visione parsonsiana di Weber. L’interpretazione di Weber, e di conseguenza la discussione su Weber, è naturalmente se egli credesse in una scienza sociale di taglio scientista oppure interpretativa. Credo che si possa leggerlo in entrambi i modi, sebbene io lo usi in prospettiva interpretativa: per esempio, sono più interessato alla sociologia della religione che ai tipi di fede e così via. Langer, Wittgenstein, Schutz e Ricœur sono tutti in qualche modo interessati al significato. Ryle era interessato alla filosofia della mente (Ryle 1976). Insomma, non credo che si tratti di una lista poi così eclettica; manca parecchia gente – per esempio sono esclusi tutti i positivisti. È eclettica in termini disciplinari, ma ha una notevole coerenza interna. Micheelsen. Pensa che, quando lei ha iniziato a studiare la cultura, nell’antropologia mancassero gli strumenti adeguati per farlo? Geertz. Sì, uno doveva guardarsi intorno – prima verso Langer e Ryle, ma sempre verso Weber. Poi verso Wittgenstein, Gadamer e Schutz. L’antropologia è più una utilizzatrice che una sviluppatrice di concetti. La maggior parte dei suoi concetti sono presi in prestito da altre discipline perché l’antropologia è così orientata all’empirico, o quantomeno lo era. Micheelsen. Rispetto al significato, lei sostiene che: Non si può scrivere una “Teoria generale dell’interpretazione culturale”. O meglio, si può, ma non sembra esserci molto profitto in essa, perché il compito essenziale della costruzione di una teoria non è qui quello di codificare delle regolarità astratte 22


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ma di rendere possibile una “descrizione densa” [thick description], non di generalizzare tra casi ma di generalizzare al loro interno. (Geertz 1993: 26) Ciò nonostante, una qualsiasi interpretazione specifica non è pur sempre basata su qualche “teoria del significato”? E, se lo è, qual è la sua teoria del significato? Geertz. No, non penso che un’interpretazione debba essere basata su una teoria generale del significato, di qualsiasi tipo essa sia. Non sono un realista del significato: non penso che i significati siano qualcosa “là fuori” su cui teorizzare. Si cerca di osservare il comportamento, quel che la gente dice, e si cerca di trarne un senso – questo è il mio accostamento teorico al significato. Ma no, non penso di aver bisogno di una teoria generale del significato. Per questo dico di essere un po’ diverso dai fenomenologi: loro si occupano delle questioni generali del significato indipendentemente da qualsiasi caso empirico; a me invece interessa cosa significhi una certa cosa – cosa significa il combattimento di galli, cosa significa un funerale. Ho un quadro concettuale – non si può non averlo – ma una teoria del significato, che classifichi il significato e ne formuli delle leggi, non appartiene al mio stile di lavoro. Non riesco a pensare a nessun punto del mio lavoro in cui io abbia cercato di sviluppare una teoria del significato, nemmeno nelle discussioni più generali come in Thick Description (Geertz 1993: 6-10). Non sono neppure sicuro di come apparirebbe una tale teoria. Tuttavia, il mio lavoro è sicuramente fondato su diverse concezioni di cosa siano per esempio i simboli, il riferimento e così via, che si riallacciano alla tradizione semiotica o semantica. Ma non ho contribuito alla discussione di una teoria generale del significato. Ho imparato molto da Gottlob Frege, ma non è chiaramente il tipo di lavoro che pratico. Imparo da altri e cerco di usare a modo mio ciò che imparo. Micheelsen. Rispetto a ciò, lei dice che la sua visione della cultura è essenzialmente di tipo semiotico, cioè che la cultura può essere vista come un insieme di segni (o simboli) e che il mezzo per trovare il 23


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significato inerente a questi sistemi simbolici è la thick description (Geertz 1993: 5, 6, 14). Inoltre afferma: Questa prospettiva non è né introspezionista né behaviorista; è semantica. Si concentra sui pattern di significato creati collettivamente che gli individui usano per dar forma all’esperienza e per puntare all’azione, con concezioni incorporate in simboli e in grappoli di simboli e con la forza direttiva di queste concezioni nella vita pubblica e privata. (Geertz 1970: 9596) D’altra parte, in Meaning and Order in Moroccan Society (Geertz et al. 1979: 200-201) lei usa una terminologia semiotica. Dunque, intende l’antropologia interpretativa come un’impresa semiotica? Geertz. Posto che naturalmente la semiotica non è una cosa sola, sì, sono interessato al significato e ai simboli, e in quel senso si può intendere il mio lavoro come semiotico, attraverso la prospettiva di una teoria generale del significato. Lo strutturalismo (da Saussure in poi) non è però la mia prospettiva di lavoro. Ho imparato da Saussure – nessuno può ignorarlo – ma, come ho già detto, così come non sono interessato a una scienza separata della fenomenologia, non sono neppure interessato a una scienza separata della semiotica. L’altra tradizione in questo ambito è quella di Charles S. Peirce che, con il suo punto di vista fenomenologico, è fin troppo realista per me. Mi colloco nella tradizione peirceana, ma la semiotica come disciplina formale, scientifica, astratta, oggettivistica non fa per me (Geertz 1983: 120). Così, quando dico semiotica, la intendo nel senso di una concezione generale della funzione del segno o del simbolo. La tradizione pragmatica e la tradizione concettuale fenomenologica sono quelle con cui mi sento più a mio agio, mentre la semiotica come disciplina quasi-logica e quasi-formale non fa per me. Micheelsen. Dal mio punto di vista, Umberto Eco ha cercato di collegare le due tradizioni, Saussure e Peirce, e – come fa anche lei – ha 24


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posto il segno nel campo della cultura (Eco 1975: 66). Si è ispirato al suo lavoro? Geertz. Ho letto qualche lavoro di Eco. Non sono stato molto influenzato da lui – non perché non mi piaccia il suo lavoro. Solo che non l’ho letto abbastanza. Come me, anche lui tende a essere un po’ un saggista. Apprezzo quel che ha da dire sull’interpretazione ma, di nuovo, io tendo a essere anti-strutturalista, il che significa che mi sono tenuto alla larga dai suoi lavori più formalistici. Micheelsen. Se riconosce che in qualche misura anche lei fa semiotica, perché parla di simboli e non di segni, perché usa una terminologia differente? Geertz. Beh, la distinzione viene da Susanne Langer (Geertz 1993: 100; Langer 1949: 60-61). Veramente non mi interessano i termini in se stessi, mi va bene usare il termine segno finché si intende che un segno è concettuale e non è un segnale (Langer 1962: 54-65). Una nuvola nera è un segno della pioggia ma non ne è un simbolo, se non in una poesia (Geertz 1993: 91). Non ho obiezioni contro il termine segno, finché lo si intende in senso peirceano e non saussuriano. C’è differenza tra un indice, un’icona e un simbolo. Micheelsen. Il che significa che si attiene all’idea che il segno abbia un referente? Geertz. Sì, direi che il segno riguarda qualcosa. Questa mi sembra una formulazione migliore di “avere un referente”. I segni hanno, in senso peirceano, una aboutness (Langer 1962: 112, 147). Di conseguenza quando uso il termine simbolo nel mio lavoro, deve essere inteso come un segno (per esempio un indice), che diviene simbolico attraverso un’interpretazione culturale. Dal mio punto di vista, i cani non possono rispondere ai simboli, possono solo rispondere a segni. Questo è il famoso esempio di Langer, quando racconta di una persona che entra in una stanza dove c’è un cane. La persona dice il nome del padrone – diciamo “James” – e il 25


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cane risponde cercando James. Se si fa lo stesso con un essere umano, la persona risponderebbe: “James cosa?” (Langer 1962: 149). Come si vede, c’è una aboutness. Questa è la distinzione cui voglio attenermi. Micheelsen. Se guardiamo alle critiche che ha incontrato, riserve contro l’antropologia interpretativa come programma sono state sollevate da Paul Shankman (Shankman 1984) per tre motivi principali: la “particolarità generale” dell’antropologia interpretativa, il concetto di “analisi culturale [come] intrinsecamente incompleta” (Geertz 1993: 29) e il metodo pratico di “scommettere sul significato, valutare queste scommesse e trarre delle conclusioni esplicative dalle migliori scommesse” (Geertz 1993: 20). Talal Asad, poi, si è concentrato sulla costruzione del significato e sul potere in una prospettiva storica e istituzionale, un tema che, secondo il suo giudizio, lei non è in grado di affrontare (Asad 1983). Come risponde? Geertz. Non sono d’accordo con le loro critiche. Se lo fossi cambierei quel che faccio. Shankman ha una comprensione molto superficiale di che cosa sia un’interpretazione. Parla di Wilhelm Dilthey, ma non conosce veramente cosa è successo nella tradizione interpretativa. Quando Shankman formulò la sua critica, Dilthey non era tradotto in inglese e non mi risulta che lo abbia letto in tedesco. Per questi motivi ammetto di non aver prestato molta attenzione alla sua critica. Asad è una figura più significativa, e qui credo che ci sia un vero disaccordo di sostanza. Io ritengo di aver utilizzato un inquadramento storico-istituzionale nel mio lavoro, ma secondo lui non l’ho fatto. Sinceramente penso che Asad sia un riduzionista centrato sul potere: pensa che l’unica cosa che conti sia il potere, che le credenze siano irrilevanti. Il suo concetto di definizione e la critica che ne deriva ignorano gran parte di quel che stavo facendo (Asad 1993: 29). Sospetto che Asad sia un marxista che non può essere più un material-riduzionista, e dunque diventa un riduzionista centrato sul potere.

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Micheelsen. Al contrario di Asad, ritiene che il significato venga prima del potere? Geertz. No. Non penso che il potere abbia alcuna esistenza indipendente al di fuori di un contesto culturale o storico. Inoltre mi sembra che oggi ci sia una tendenza a considerare tutti i fenomeni umani essenzialmente come lotta di potere. Da questa prospettiva, qualsiasi tipo di significato non è che un velo steso sopra la lotta di potere. Nondimeno, dire che il significato sta prima del potere farebbe di me un realista e un idealista del significato, cosa che non sono. Semplicemente non penso che tutto il significato discenda dalla distribuzione di potere. Micheelsen. Sebbene lei dica di “non fare sistemi” (Geertz 2000: X), si riferisce all’arte, all’ideologia, al senso comune e alla religione come sistemi (Geertz 1983; Geertz 1993). Come lo spiega? Geertz. Beh, non credo di fare sistemi, ma mi sembra una domanda legittima. Termini come arte, religione ecc. sono solo dei titoli: se si leggono le mie analisi di questi fenomeni si vede che non sono così sistematiche. Io sostengo semplicemente che c’è in questi fenomeni qualche tipo di coerenza interna e che si dovrebbe guardarli in modo contestuale. Più in là di così non mi spingo con l’analisi sistemica, e non uso neppure più questa espressione. Qui è forse riscontrabile in me un’influenza di Parsons, il quale però ha finito per considerare la cultura come un puro e semplice sistema (Parsons 1968: 762-763). Io non considero la cultura in questo modo. Il titolo cui si riferiva non è che un tentativo di attualizzare il programma sui sistemi culturali di Parsons, che è qualcosa che ancora faccio, vale a dire cercare di mostrare delle relazioni sistematiche (Parsons 1951). Tuttavia le relazioni sistematiche devono essere rinvenute in quel che si studia, non formulate prima dell’analisi attraverso una filosofia o una teoria generale. Io non formulo teorie generali su nulla! Micheelsen. Però il punto di vista filosofico prima che uno inizi lo studio della cultura…? 27


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Geertz. In primo luogo, prima non è la parola giusta. Il presupposto è sempre già. È normale avere una prospettiva quando si comincia. Nel mio caso, prima dell’antropologia c’erano la filosofia e la letteratura. All’inizio ero interessato al rapporto tra idee e società, o tra idee e pratica, che in fondo è ancora il mio interesse principale. Quando ho iniziato a studiare antropologia, ho cercato di identificare la stessa relazione in termini di cultura e struttura/pratica; poi, più tardi, nella tradizione wittgensteiniana, attraverso l’azione e così via. Quindi, lei ha ragione: si parte sempre da qualche parte – tranne che non si comincia con una posizione filosofica e poi la si cambia quando la si raffronta ai fatti. Si comincia con una visione generale del mondo e, almeno come antropologo, questo avviene all’interno di un contesto professionale. Ma anche così penso che se pure ho trasformato le mie idee nel corso del tempo, sono ancora riconoscibili in quelle da cui sono partito. Micheelsen. Ma quel che produce quando scrive i suoi libri o quando va a fare delle analisi sul campo non ha qualche valore o rilevanza indipendente? Geertz. Sì, cose che si presentavano come oscure e confuse diventano più chiare quando si riesce a comprenderle. Il combattimento dei galli è un buon esempio (Geertz 1993: 412-453). La prima volta che ho osservato un combattimento di galli non avevo idea di cosa stesse succedendo. Visto un combattimento li hai visti tutti, ma i balinesi erano così appassionati e non riuscivo a capire perché. Perciò ho cercato di chiarificarmi quel che stava succedendo perché non lo comprendevo. Una mera descrizione potrebbe presentare l’evento come un semplice gioco d’azzardo, ma in realtà c’era in ballo molto di più. Quel che volevo fare era comprendere o chiarificarmi la natura del combattimento, comprendere come i partecipanti potessero comprenderla e, allo stesso tempo, cercare di mostrare come si potrebbe fare un’analisi di questo tipo. L’analisi del combattimento dei galli è perciò un modello o un esempio di come fare questo tipo di lavoro. Si deve cercare di trovare il senso dell’evento, cioè comprendere perché ha senso per chi vi parteci28


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pa, cercare di comprendere come i partecipanti danno senso al loro mondo. È un esercizio fenomenologico ed ermeneutico, un tentativo di comprendere le cose dal punto di vista del nativo, anche se nei nostri termini, quelli dell’osservatore. Micheelsen. Dopo l’analisi, si dovrebbe tornare dai nativi e mostrare loro i propri risultati? Geertz. In generale no! Nel caso del combattimento di galli è più difficile da dire. Ho cercato di farlo, ma il combattimento è basato su un’illusione, perciò è naturale che i partecipanti non vogliano comprenderlo: se lo facessero, non funzionerebbe. A volte la gente ha una resistenza naturale a comprendere quel che sta facendo. D’altra parte, sono tornato là e ho parlato con loro di quel che stavano facendo, ma loro non erano interessati alla scienza sociale o a comprensioni/interpretazioni alternative di quel che stavano facendo. Giustamente a loro non interessava l’ermeneutica del combattimento di galli. Sapevano già cosa significava per loro. Quindi, quel che voglio fare io è spiegarlo a qualcuno che non lo sappia già. Micheelsen. Anche in prospettiva psicologica? Geertz. Ci sono delle dimensioni psicologiche in questo lavoro, ma io non mi occupo di psicologia. Micheelsen. Per passare alla sua prospettiva sulla religione, in Islam Observed lei scrive: Quel che cerchiamo non è una proprietà universale – la “sacralità” o la “credenza nel sovrannaturale” – che divida i fenomeni religiosi da quelli non religiosi con nettezza cartesiana, bensì un sistema di concetti che possa riassumere un insieme di somiglianze imperfette, ma comunque somiglianze reali che intuiamo pertinenti a un dato corpus di materiale. Cerchiamo di articolare un modo di osservare il mondo, non di descrivere un oggetto insolito […]. Il nucleo di questo modo di osservare il mon29


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do, ovvero della prospettiva religiosa, è […] la convinzione che i valori che si possiedono siano fondati nella struttura intrinseca della realtà, la convinzione che, tra il modo in cui si dovrebbe vivere e il modo in cui le cose realmente sono, esiste una intima e inscindibile connessione. Quel che i simboli sacri rappresentano per coloro per i quali essi sono sacri è formulare un’immagine della costruzione del mondo e un programma per la condotta umana che sono l’una il riflesso dell’altro. (Geertz 1970: 96-97) Questa posizione sembra escludere l’antropomorfismo, che invece è evidente nella sua definizione di religione (Geertz 1993: 90). Perché sceglie questa prospettiva sul fenomeno religioso e sullo studio della religione e come si dovrebbero comprendere, in questo contesto, i simboli sacri se non si può parlare di “sacralità”? Geertz. Asad mi accusa proprio di questo, di dare una definizione essenzialistica di religione, per affermare poi che questa è una visione molto cristiana e perciò parziale e inutilizzabile (Asad 1993). Per essere precisi: questo non è quello che faccio, ma quello di cui sono accusato. Il mio focus è empirico, mentre se si comincia con un concetto di “sacro” non credo che questo possa poi tenere empiricamente. Non credo che la credenza nel sovrannaturale sia necessariamente parte della religione – il buddhismo del primo periodo non sarebbe una religione in questo senso. Certo, si può fare del concetto di sovrannaturale una componente della religione, ma in questo modo credo che si occultino molti altri aspetti. Penso inoltre che il concetto di sovrannaturale sia un’idea occidentale. Persino le culture e le società che credono negli spiriti – come i nativi americani – non li considerano sovrannaturali in quel senso, e quindi non dividono il mondo in un mondo naturale e uno sovrannaturale; quantomeno, sono aperto alla possibilità che non lo facciano. Perciò non voglio avanzare nessuna definizione essenzialistica di religione. Micheelsen. Armin Geertz suggerisce, nella sua definizione, il concetto di “transempirico” (A.W. Geertz 1999: 471). 30


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Geertz. Sì, e apprezzo il lavoro di Armin Geertz, ma anch’esso sembra postulare che la gente compia una separazione tra l’empirico e il trans-empirico. Io penso – in qualche misura – che le concezioni dicotomiche come sacro/profano, sovrannaturale/naturale o anche trans-empirico/empirico, siano un’idea occidentale che non è necessariamente vera in tutti i casi; perlomeno, mi trovo piuttosto scettico al riguardo. Nella maggior parte dei casi, la persona religiosa intenderebbe le sue credenze come naturali, e persino quel che noi consideriamo sovrannaturale lo intenderebbe come naturale – ovviamente nella misura in cui possieda queste nozioni. È proprio rispetto a ciò che ho le mie riserve sulle tesi di Melford Spiro (Spiro 1968: 91, 96). Micheelsen. È perché lei vuole rimanere il più vicino possibile ai dati? Geertz. Non direi che sono più vicino ai dati di Armin Geertz, che è un ricercatore straordinario. Voglio solo essere aperto e reattivo alla direzione che i dati possono prendere, piuttosto che a quella che io vorrei che prendessero. Non voglio mettere nella testa delle persone delle idee che non hanno, come la distinzione tra naturale e sovrannaturale, a meno che queste distinzioni non derivino da quel che le persone stanno facendo. Micheelsen. Mi sembra che a questo punto non possiamo aggirare la questione di che cosa sia la scienza. Armin Geertz cerca di formulare nel suo lavoro un punto di vista scientifico per studiare la religione (A.W. Geertz 1999: 446-447). Geertz. Sì, io cerco di non farlo. Il modello di scienza in antropologia è essenzialmente ripreso dalle scienze naturali, il che ci riporta a Edward Tylor. Questo modello ci spinge a cercare soprattutto leggi e regolarità astratte – di nuovo secondo un modello di Wissenschaft – che non si applica alla Geisteswissenschaft. Non vorrei neppure porre una distinzione così netta, ma penso che i tentativi di scientizzare al massimo la scienza sociale, dal behaviorismo de31


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gli anni venti alla biologia sociale di oggi, distruggano la possibilità di quel che invece mi interessa fare, ovvero aiutare la gente a comprendersi reciprocamente.1 In fondo non mi interessa se la chiamiamo scienza o scienza sociale, basta che ci emancipiamo da una concezione positivistica di scienza. Micheelsen. Ma ci sono teorie dell’interpretazione e di conseguenza limiti o confini all’interpretazione come prospettiva. Geertz. D’accordo, non sto dicendo che non si dovrebbe pensarlo; semplicemente penso che il modello della scienza naturale non dovrebbe essere applicato acriticamente alle scienze sociali. Non sono contro la ragione, e neppure contro la scienza, a patto di intenderla con la “s” minuscola. Micheelsen. Dopo la critica del linguaggio privato da parte di Wittgenstein, l’accresciuto interesse per l’evoluzione della mente umana come parallela all’evoluzione della cultura e infine la nozione dei sistemi culturali come guide per la percezione umana, qual è la sua opinione sulla scienza cognitiva in generale e sulla “seconda rivoluzione cognitiva”, per esempio Mark Turner, George Lakoff, Jerome Bruner, e persino, da questo punto di vista, Umberto Eco (Geertz 1963: 67; Geertz 1993: 12, 55-83, 216)?2 Geertz. Bruner afferma di non essere più un cognitivista. Quel che è accaduto nelle scienze cognitive, dopo la rivoluzione cognitiva, è che esse hanno finito per essere dominate da un modello naturalistico, in questo caso l’intelligenza artificiale e il chomskismo, che sono divenuti per così dire una super-scienza. Quindi penso che la “seconda rivoluzione cognitiva”, se esiste – sebbene io trovi l’idea interessante –, è più simile a quella che Bruner chiamerebbe una psicologia culturale, come Turner e Lakoff. Penso che questi auto1. “Osservato in questo modo, lo scopo dell’antropologia è l’ampliamento dell’universo del discorso umano” (Geertz 1993: 14). 2. Vedi Bruner 1983, 1990; Eco 1997; Turner 1987, 1998; Lakoff e Johnson 1981; Lakoff e Turner 1989.

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ri si siamo mossi nella direzione giusta, in quanto si sono opposti alla tradizione cognitivista altamente formalizzata derivata da Noam Chomsky. Il lavoro di Turner e Lakoff è interessante, anche se un po’ ridondante. Nel mio lavoro, parlo di evoluzione del cervello e di crescita della cultura, non di evoluzione della cultura (Geertz 1993: 55). Non credo nell’evoluzione culturale – la cultura cambia e cresce e forse, secondo qualche standard, si evolve. Credo che la cultura sia coinvolta nell’evoluzione del nostro cervello, ma la cultura non si evolve in senso darwinistico. Micheelsen. Quale potrebbe essere il potenziale sviluppo dell’antropologia interpretativa nel nuovo millennio, specialmente rispetto al paradigma postmoderno? Geertz. Penso che il postmodernismo abbia passato la sua data di scadenza. Non è stato irrilevante, ha avuto anzi un’incredibile importanza critica. Tuttavia, come possibilità di sviluppo futuro credo che sia un vicolo cieco. Penso che dovremmo ascoltare i postmodernisti, imparare da loro e poi andare oltre. Con la loro critica ci hanno aiutato a chiarificare alcuni dei nostri concetti fondamentali, come cultura o interpretazione, ma non sono stati in grado di proporre un programma durevole. Il processo di chiarificazione e di critica ha cambiato la direzione dell’antropologia, il mio tipo di antropologia interpretativa ne è stato piuttosto temprato. Oggi non si può più avere una nozione semplificante di cosa sia l’interpretazione, perché ora siamo consapevoli di problemi come quello del significato, del realismo e così via. Tutto ciò è estremamente importante. Personalmente, i postmodernisti mi hanno influenzato e in qualche misura faccio forse ancora parte di quel movimento. Per quanto riguarda l’antropologia culturale, proseguirà secondo me con ragionevole continuità rispetto al passato. Micheelsen. Ma pensa che l’antropologia interpretativa potrebbe diventare più sistematica con il tempo? Geertz. Penso che tutte le discipline si muovono con un ritmo che 33


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le porta a diventare sempre più sistematiche fino a trasformarsi in camicie di forza, al punto che poi la gente deve spezzarle e cambiare rotta. Non vedo però nell’antropologia interpretativa un semplice movimento lineare verso la sistematizzazione, anche se penso che alcune parti di essa diverranno più sistematiche e date per scontate. C’è quasi un movimento dialettico tra sistematizzazione e rinnovamento, ma in ogni caso non sono in grado di prevedere il futuro!

Traduzione dall’inglese di Andrea Brighenti

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Da Parsons a Ricœur passando per Bali. Note sul concetto di cultura in Geertz PIER PAOLO GIGLIOLI

1. La sindrome di Natasˇ a Verso la metà di Guerra e pace, l’eroina del romanzo, Natasˇa, dibattuta tra il sentimento di fedeltà verso il fidanzato, il principe Andrej, e l’attrazione che prova per un giovane aristocratico dissoluto, scivola in uno stato di profondo abbattimento e confusione morale. Le pare che il mondo non abbia più senso, la sua volontà diviene debole, la sua percezione degli oggetti ed eventi esterni si fa indistinta. In questo stato, una sera si reca al teatro dell’opera, a Mosca. Ed ecco ciò che “vede”: La scena era formata di tavole unite, e dai lati sorgevano tele dipinte che figuravano alberi; dietro c’era una tela stesa su tavole. Nel mezzo della scena erano delle fanciulle in corpetti rossi e gonne bianche. Una, molto grassa, in un vestito di seta bianca, sedeva in disparte su di un panchetto basso, al quale era incollato dietro un cartone verde. Tutti cantavano qualche cosa. Quando ebbero finito il loro canto, la fanciulla in bianco si avvicinò alla cupola del suggeritore e a lei si accostò un uomo, in calzoni di seta attillati su due grosse gambe, con una piuma al berretto e si mise a cantare e ad agitare le braccia. L’uomo in calzoni attillati cantò un po’ di tempo solo, poi cantò lei. Poi tutti e due tacquero, sonò la musica e l’uomo prese fra le sue dita la mano della fanciulla vestita di bianco, evidentemente aspettando di nuovo la battuta per ricominciare a cantare insieme. Ripresero a cantare in due, e tutti nel teatro si misero aut aut, 335, 2007, 37-55

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a batter le mani e a gridare, e l’uomo e la donna della scena, che figuravano due innamorati, si diedero a fare inchini, sorridendo e allargando le braccia.1 La descrizione dura diverse pagine, ma le poche righe che ho citato sono sufficienti per trasmettere al lettore l’effetto di spaesamento che prova Natasˇa. Prescindendo dalle convenzioni dell’opera lirica, essa coglie soltanto il lato esteriore dello spettacolo: invece di una vicenda drammatica, vede solo tavole di legno, fondali dipinti e individui corpulenti che cantano – insomma, un evento senza senso. Goffman avrebbe considerato l’episodio un esempio di esperienza negativa:2 togliete la cornice convenzionale intorno a un evento e vi ritrovate con un pezzo di raw behavior. Nella vita ordinaria questi errori si verificano abbastanza di rado. Solo una persona molto turbata, come Natasˇa in quell’episodio di Guerra e pace, non riesce a interpretare correttamente ciò che si svolge sul palcoscenico: per tutti gli altri spettatori è facile capire che si tratta di un melodramma, perché durante la socializzazione hanno appreso a decifrare il mondo sociale secondo regole e convenzioni condivise, incluse quelle relative alle rappresentazioni teatrali e agli ammiccamenti. Ma basta che i quadri di riferimento si sfalsino, ovvero che la cultura dell’osservatore sia diversa da quella dei partecipanti, perché sorgano problemi. Questa, secondo Geertz, è la costante condizione dell’etnografo (e, si potrebbe aggiungere, dello storico), per il quale stabilire quale sia il significato di un’azione in una cultura remota può essere un compito assai difficile. Si tratta di una cerimonia religiosa o di un’assemblea deliberante? Di un conflitto o di un gioco rituale? Di una contrattazione o di una sfida? Potenzialmente, l’etnografo è sempre esposto alla sindrome di Natasˇa. “L’etnografo – scrive Geertz – si trova di fronte a una molteplicità di strutture concettuali complesse, molte delle quali sovrappo1. L. Tolstoj, Guerra e pace (1878), Einaudi, Torino 1974, vol. II, p. 657. 2. E. Goffman, Frame Analysis, Harper & Row, New York 1974, pp. 379-438.

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ste o intrecciate fra di loro, che sono al tempo stesso strane, irregolari e non esplicite, che egli deve in qualche modo riuscire prima a cogliere e poi a rendere. E questo è vero ai livelli più bassi della sua attività di lavoro sul campo: intervistare gli informatori, osservare i rituali, definire i termini usati per la parentela, tracciare i confini delle proprietà, censire le famiglie… e scrivere il diario. Fare etnografia è come cercare di leggere (nel senso di ‘costruire una lettura di’) un manoscritto – straniero, sbiadito, pieno di ellissi, di incongruenze, di emendamenti sospetti e di commenti tendenziosi, ma scritto non in convenzionali caratteri alfabetici, bensì con fugaci esempi di comportamento strutturato.”3 L’etnografo può riuscire in questa impresa soltanto se tratta i dati in maniera non riduttiva, cioè se li fa oggetto di una “descrizione spessa” che preservi la stratificazione di significati che vi sono incorporati. Quindi l’analisi sociale della cultura “non è una scienza sperimentale in cerca di leggi, ma una scienza interpretativa in cerca di significati”.4 Per descrivere i sistemi simbolici dal punto di vista degli attori non è tuttavia necessario ricorrere a una misteriosa empatia, né tanto meno entrare nelle loro teste: l’operazione non ha niente di mentalistico. I significati degli attori infatti si esprimono attraverso forme simboliche e queste, come Geertz ripete spesso in polemica con l’antropologia cognitiva, sono pubbliche, sono oggetti culturali percepibili con i sensi e aperti all’ispezione dell’osservatore come di chiunque altro.5 Naturalmente, le descrizioni offerte dall’etnografo rimangono descrizioni di un osservatore e, in quanto tali, hanno qualità diverse da quelle dei partecipanti. La comprensione del partecipante del proprio mondo simbolico è immediata e spontanea, egli vi si muove come un pesce nell’acqua. L’osservatore deve invece formulare esplicitamente norme e principi di una cultura, non può condividere il sapere pratico, non riflessivo che 3. C. Geertz, The Interpretation of Cultures, Basic Books, New York 1973; trad. Interpretazione di culture, il Mulino, Bologna 1988, p. 17. 4. Ivi, p. 11. 5. Per un’analisi di questo tema si veda soprattutto C. Geertz, “From the native’s point of view: On the nature of anthropological understanding”, in Local Knowledge, Basic Books, New York 1983, pp. 55-70; trad. Antropologia interpretativa, il Mulino, Bologna 1988, pp. 71-90.

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ne ha un membro. Tuttavia, per quanto la descrizione da parte dell’antropologo (o del sociologo della cultura) non faccia parte, diversamente da quella del partecipante, della realtà che descrive, e sia improntata a problematiche di tipo analitico, dettate da interrogativi teorici piuttosto che da esigenze pratiche, secondo Geertz deve essere espressa nei termini delle interpretazioni alle quali i membri sottopongono le proprie esperienze. Certamente Geertz non è stato né il primo, né l’unico ad avanzare la tesi che i dati con cui lavorano il sociologo e l’antropologo sono costruzioni di secondo ordine, costrutti dei costrutti con cui i soggetti studiati già danno un senso alla loro vita. Ma con maggiore energia di Schutz, Panofsky, Baxandall, degli interazionisti simbolici, di Goffman o Garfinkel, per non nominare che alcuni tra questi studiosi, Geertz ha perseguito l’intento programmatico di riconfigurare lo studio sociologico della cultura sulla base dell’interpretive turn, allontanandolo dai temi cari alla sociologia funzionalista come l’istituzionalizzazione e l’interiorizzazione dei valori e focalizzandolo invece sull’analisi delle strutture significanti degli attori. Abbastanza curiosamente, il suo successo è stato maggiore nelle discipline affini, come la storia, la filosofia e la letteratura che nella propria, dove malgrado fosse considerato come l’antropologo americano più influente dell’ultimo quarto del secolo scorso, è stato spesso attaccato da colleghi provenienti dai più diversi orientamenti intellettuali. In primo luogo, ovviamente, dai positivisti, severamente contrari all’idea di abbandonare spiegazioni in termini di leggi causali a favore di accounts basati sulla ricchezza della descrizione e la profondità dell’interpretazione. Poi dai cultori della teoria del conflitto che gli hanno rimproverato il suo disinteresse, vero o presunto, per il potere e il mutamento sociale. Infine, da alcuni esponenti di una generazione più giovane di antropologi postmoderni, che egli stesso aveva contribuito a far nascere, che gli hanno obiettato non di aver fatto un passo troppo lungo, ma troppo breve, rifiutandosi di applicare alla sua stessa démarche teorica l’interpretazione riflessiva che applicava ai dati. Così, divisa tra critici ed estimatori, la letteratura su Geertz è divenuta 40


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molto ampia nell’ultimo trentennio – articoli, libri, dissertazioni, numeri speciali di rivista. Non è certo possibile esaminare in questa breve nota tutti questi lavori. Mi concentrerò, quindi, su un unico punto, che peraltro è cruciale per l’opera di Geertz, la sua analisi del concetto di cultura. 2. Testi e contesti Sebbene queste distinzioni siano sempre approssimative, si possono individuare due fasi principali nella carriera intellettuale di Geertz. Nella prima, che termina alla fine degli anni sessanta, Geertz si muove del tutto all’interno del mainstream della sociologia e dell’antropologia americana. Allievo di Parsons a Harvard, fu reclutato, quando era ancora studente di dottorato, in un gruppo composto da una decina di giovani studiosi che nel 1952 si recò per un paio d’anni in Indonesia, a Giava,6 per studiare le trasformazioni che il paese attraversava dopo la fine del dominio coloniale olandese. Era uno dei primi casi in cui gli antropologi abbandonavano lo studio di piccoli e isolati gruppi tribali per passare all’analisi di società su larga scala, con una storia ben documentata e nel mezzo di un periodo di profondo mutamento sociale. Nell’ambito accademico americano, questa problematica era trattata allora sotto l’egida della teoria della modernizzazione che, sebbene si richiamasse all’analisi di Max Weber del processo di razionalizzazione dell’Occidente, era influenzata più dal funzionalismo e dall’evoluzionismo che dal pathos weberiano. Essa concepiva lo sviluppo economico e politico come un percorso sostanzialmente unilineare alimentato da fattori prevalentemente endogeni (in primo luogo, processi di differenziazione strutturale), che poteva subire arresti e rallentamenti, ma che in definitiva tutte le società, incluse quelle postcoloniali, avrebbero inevitabilmente seguito nel loro trapasso dalla tradizione alla modernità.7 6. Successivamente, nel 1957-58, Geertz ritornò per un anno in Indonesia, a Bali. 7. Per una valutazione critica degli assunti concettuali e dei presupposti ideologici della teoria della modernizzazione rimane ancora valido il saggio di R. Bendix, Tradition and Modernity Reconsidered, “Comparative Studies in Society and History”, 9, 1967, pp. 292-346.

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In apparenza, questa prospettiva guidò anche la ricerca di Geertz in Indonesia.8 Ma, in realtà, l’interesse dei suoi lavori sul terreno consiste proprio nel rapporto ambiguo che essi instaurano con la teoria della modernizzazione. Da una parte, la sua diagnosi sullo sviluppo indonesiano è chiaramente ispirata all’ottimismo della teoria: “l’Indonesia è ora – scrive nel 1963 –, in mezzo a un periodo di pre-decollo economico. […] Si sono verificati gli inizi di una fondamentale trasformazione dei valori e delle istituzioni sociali verso strutture che generalmente associamo a un’economia sviluppata […]. Mutamenti nel sistema della stratificazione sociale, nella visione del mondo e nell’ethos, nell’organizzazione politica ed economica, nell’istruzione e anche nella struttura della famiglia hanno avuto luogo in una larga parte della società”.9 Ma, dall’altra parte, Geertz mette continuamente in guardia contro una concezione olistica e reificata del processo di modernizzazione e vede con preoccupazione l’erosione delle strutture culturali tradizionali. È significativo che questa ambivalenza si incentri proprio sul concetto di cultura, che l’ortodossia funzionalista considerava principalmente in termini di equilibro e integrazione sociale, ma al quale Geertz, sulla scorta della concettualizzazione di Parsons, assegna un ruolo molto più autonomo e dinamico. All’inizio degli anni cinquanta, nelle scienze sociali americane, specialmente nell’ambito antropologico, la nozione di cultura era divenuta una sorta di vaga etichetta che designava tutto ciò che non era determinato dall’ambiente biologico.10 Parsons cercò di 8. I risultati della ricerca furono pubblicati in diversi saggi e quattro monografie. Queste ultime, sostanzialmente ignorate in Italia, sono dedicate rispettivamente alla religione di Giava, alla sua struttura agraria, alla prima timida comparsa di una classe imprenditoriale moderna e alla storia sociale di Pare, la cittadina in cui Geertz aveva risieduto: The Religion of Java, Free Press, Glencoe (Ill.) 1960; Agricultural Involution: The Process of Ecological Change in Indonesia, University of California Press, Berkeley 1963; Peddlers and Princes: Social Change and Economic Modernization in Two Indonesian Towns, Chicago University Press, Chicago 1963; e The Social History of an Indonesian Town, MIT Press, Cambridge (Mass.) 1965. Nel loro insieme questi scritti sono stati considerati come “il più significativo contributo di un antropologo a [quello che era il] grande problema del giorno, il destino dei nuovi stati” (A. Kuper, Culture: The Anthropologists’ Account, Harvard University Press, Cambridge, Mass., 1999, p. 84). 9. C. Geertz, Peddlers and Princes, cit., p. 3. 10. All’origine di questa concezione vi era evidentemente la celebre definizione di Tylor:

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dare nuova utilità euristica al concetto, restringendone e precisandone la portata. Secondo Parsons, la cultura andava definita non più, come facevano gli antropologi, in opposizione alla natura (questo era ormai considerato scontato), ma all’organizzazione sociale.11 Essa si riferiva al sistema di simboli e significati in termini dei quali gli esseri umani interpretano la propria esperienza e che guidano il loro agire, mentre il concetto di organizzazione o struttura sociale si riferiva alla rete delle relazioni sociali. Beninteso, per Parsons sistema culturale e sistema sociale erano astrazioni analitiche dalla totalità concreta dell’azione, ma in quanto costrutti teorici erano caratterizzati da una logica propria e da principi specifici di organizzazione e mutamento. Geertz accetta pienamente questa riformulazione ed è proprio all’analisi dell’autonomia relativa di cultura e struttura sociale che dedica uno dei suoi saggi più significativi di questo periodo, lo studio di un funerale mal riuscito di un ragazzo appartenente agli strati popolari che ebbe luogo nel sobborgo della cittadina giavanese dove Geertz abitava.12 Il rito funebre delle classi popolari, ispirato alla loro religiosità sincretica – una commistione di elementi indiani, islamici e indigeni dell’Asia sud-orientale – consisteva in una festa comunitaria (slametan), durante la quale, dopo avere lavato e sepolto il cadavere sotto la supervisione di un funzionario religioso musulmano, un pasto preparato in modo speciale veniva offerto ai vicini. Ma in questa particolare circostanza, il religioso si rifiutò di intervenire, perché era un membro attivo di un partito politico islamico e nella cittadina esisteva un forte conflitto tra questo partito e un “La cultura […] è quell’insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo come membro di una società” (E.B. Tylor, Primitive Culture, John Murray, London 1871, p. 1, corsivo mio). 11. T. Parsons, The Social System, Routledge and Kegan Paul, London 1951; trad. Il sistema sociale, Ed. di Comunità, Milano 1965; T. Parsons, E. Shils (a cura di), Toward a General Theory of Action, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1951; A. Kroeber, T. Parsons, The Concepts of Culture and of Social System, “American Sociological Review”, 23, 1958, pp. 582-583. 12. C. Geertz, “Rituale e mutamento sociale: un esempio giavanese”, in Interpretazione di culture, cit., pp. 161-194 (originariamente pubblicato come Ritual and Social Change: A Javanese Example, “American Anthropologist”, 59, 1957, pp. 32-53).

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partito popolare anti-islamico, di cui i parenti del ragazzo facevano parte. Pressato dalle autorità locali, il religioso disse che avrebbe partecipato al rito solo se la famiglia del ragazzo avesse affermato in pubblico di aderire integralmente all’Islam – un atto che avrebbe comportato un ripudio della loro appartenenza politica. Finalmente, dopo un intero giorno di negoziazioni, con la salma che aspettava di essere interrata, la crisi fu risolta con un compromesso che lasciò tutti insoddisfatti – i parenti del defunto, i vicini e i funzionari religiosi islamici. Invece di agire come un elemento di integrazione che colmasse il vuoto prodotto dalla morte, il funerale generò un’acuta tensione psicologica e un diffuso imbarazzo sociale. A prima vista l’evento può apparire come un occasionale incidente di ordine politico, causato da un religioso troppe zelante, sullo sfondo della tensione esistente allora a Giava tra le classi popolari, che avevano un orientamento religioso sincretistico, e le classi commercianti, che erano invece favorevoli a un Islam puritano e riformato. Ma questa spiegazione, secondo Geertz, trascura la rilevanza strutturale dell’evento. La vera causa dell’insuccesso del rituale, egli sostiene, era la discontinuità esistente tra struttura sociale e universo simbolico. La realtà sociale di un sobborgo popolato da contadini provenienti dalla campagna e da commercianti era una realtà urbana che promuoveva un modo di esistenza di tipo Gesellschaft; l’universo culturale a cui era legato lo strato popolare era invece tuttora un modello Gemeinschaft. Per Geertz, era questa incongruenza che aveva prodotto la tensione che circondò il funerale del ragazzo. A livello simbolico, lo slametan era divenuto ambiguo perché i suoi simboli avevano assunto “un significato sia religioso che politico, erano carichi di valenze sacre e profane”.13 A livello di interazione sociale, il modello di integrazione proposto dallo slametan non era più coerente con i modelli di integrazione realmente esistenti nella società, perché era fondato sulla solidarietà territoriale del vicinato, mentre in un ambiente urbano le unità solidali non avevano più basi territoriali, ma si riferivano ad altri fattori – classe, preferenza religiosa, età, etnia ecc. 13. Ivi, p. 189.

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Generalizzando questa analisi, Geertz afferma che, a metà del XX secolo, le tradizionali risorse culturali dei giavanesi non erano più in grado di dare un significato alle loro rapidamente mutate esperienze sociali. La via di uscita da questo disorientamento morale e cognitivo consisteva in un aggiustamento della sfera simbolica che, pur senza ripudiare l’eredità religiosa del passato, sostituisse i valori tradizionali con un sistema culturale più generalizzato, capace di esprimere un’ideologia nazionale e un senso di appartenenza per tutti i membri del nuovo stato indonesiano.14 Quale che fosse la validità empirica della tesi di Geertz, tesi che si inserisce perfettamente nella teoria della modernizzazione, la concezione della cultura che si manifesta in questo saggio come in altri suoi scritti degli anni cinquanta e degli anni sessanta è molto chiara. La sfera culturale non è un riflesso dell’organizzazione sociale, ma gode di un’autonomia relativa da essa. Tuttavia non è neppure un sistema ermeticamente sigillato: è esposta alle pressioni della struttura sociale, anche se queste sono tradotte nella sua logica specifica, ed è quindi soggetta a cambiamenti e manipolazioni. La situazione in Indonesia non evolse affatto nel modo pacifico e moderato che Geertz si aspettava. Appena due anni dopo le sue ottimistiche previsioni, nel 1965, proprio nei luoghi dove aveva svolto le sue indagini di comunità, Giava e Bali, migliaia di persone furono massacrate da attivisti politici locali, nel quadro di un colpo militare che, provocando in tutto il paese un milione e mezzo di morti tra coloro che furono accusati di simpatie comuniste, portò al potere il generale Suharto. Invece della democratizzazione emerse una dittatura; invece della progressiva creazione di un’unità culturale intorno a valori nazionali propiziata da Sukarno, deflagrarono feroci lotte politico-religiose; invece di uno sviluppo 14. Geertz aveva in mente l’ideologia nazionalista della pantjasila, una sorta di religione civile creata dal presidente Sukarno (C. Geertz, Interpretazione di culture, cit., pp. 257-268). L’argomento viene ripreso e ampliato da Geertz in un’opera successiva nella quale discute gli effetti della secolarizzazione religiosa sul nation-building in Indonesia e Marocco: C. Geertz, Islam Observed: Religious Development in Morocco and Indonesia, Yale University Press, New Haven (Conn.)-London 1968; trad. Islam: analisi socio-culturale dello sviluppo religioso in Marocco e in Indonesia, Morcelliana, Brescia 1973.

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economico alimentato dai mercanti musulmani che seguivano strettamente i precetti di un Islam riformato (quindi una sorta di equivalente dei puritani calvinisti), come prevedeva – o, forse, semplicemente si augurava – Geertz, si verificò una crescita economica finanziata da investimenti stranieri, i cui soggetti imprenditoriali provenivano dalle famiglie politiche dominanti. In un recente saggio autobiografico, Geertz ha riconosciuto che non aveva previsto nessuno di questi sviluppi e che la teoria della modernizzazione si era rivelata largamente fallace (non solo in Indonesia, ma in tutti i paesi in via di sviluppo): “qualunque cosa stesse succedendo nel terzo mondo, non sembrava certo la progressiva avanzata della razionalità, comunque definita”.15 Questo fallimento della teoria, soggiunge nello stesso scritto, lo spinse a rivedere “le procedure, gli assunti, gli stili di lavoro, la stessa concezione di ciò che stavo cercando di fare”. La revisione, che coincise con il mutamento di clima politico negli Stati Uniti, con la progressiva erosione della egemonia di Parsons sulla sociologia americana e con il passaggio di Geertz nel 1970 dall’Università di Chicago al prestigioso Institute for Advanced Study di Princeton, fu assai profonda e toccò molti aspetti del lavoro di Geertz. In primo luogo, l’oggetto di studio e gli interlocutori: i lavori degli anni sessanta erano rivolti a sociologi, economisti e scienziati politici e gli argomenti affrontati riguardavano questioni di sviluppo economico e di nation-building, più precisamente gli ostacoli che fattori di ordine culturale potevano creare al decollo economico e alla modernizzazione politica. A partire dal 1970, Geertz abbandona questi temi e si dedica per lo più a problemi di ordine teorico e concettuale, spesso dichiaratamente filosofico, indirizzandosi a rappresentanti delle humanities – filosofi, studiosi di estetica, letterati, storici – più che a scienziati sociali. Weber e, soprattutto, Parsons sono citati sempre più raramente, e tra gli autori di riferimento compaiono altri nomi (e altre discipline) – Kenneth Burke, Wittgenstein, Suzanne Langer, Ricœur. Anche lo stile 15. C. Geertz, An Inconstant Profession: The Anthropological Life in Interesting Times, “Annual Review of Anthropology”, 31, 2002, pp. 1-19, citazione p. 9.

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cambia: dalle monografie Geertz passa al genere più agile e meno connotato disciplinariamente del saggio16 e la sua prosa, prima semplice e diretta, diviene più letteraria, quasi ricercata. All’interno di questo mutamento, l’oggetto centrale della riflessione di Geertz rimane tuttavia un tema rigorosamente antropologico, anzi il tema antropologico per eccellenza, il concetto di cultura. Ma ora esso viene declinato in maniera diversa. Al posto delle metafore cibernetiche parsoniane, appare una nuova metafora, quella ermeneutica del testo. Cosa comporta questo mutamento? La metafora del testo ha due principali implicazioni. La prima è che per capire un testo, è necessario interpretarlo. In linea di principio, questa affermazione avrebbe potuto essere tranquillamente accettata da Parsons. Ma in Parsons l’interpretazione non aveva mai avuto una particolare salienza, perché non era interessato alla natura del sistema culturale, bensì solo alle sue relazioni con il sistema sociale e il sistema della personalità. Essenzialmente, egli concepiva la cultura come insieme di valori univocamente leggibili, il cui senso era chiaro a tutti, e quindi i problemi prioritari erano quelli della loro istituzionalizzazione e interiorizzazione. Non avrebbe mai insistito, come fa Geertz, sul contrasto tra analisi sociali condotte in termini nomotetico-causali e analisi condotte con un approccio ermeneutico: anzi, l’opposizione gli sarebbe parsa un ritorno al Methodenstreit, un vero e proprio arretramento scientifico, data la sua concezione evolutiva dello sviluppo della teoria sociale. Quindi, anche se potrebbe sembrare solo una differenza di enfasi, il risalto che Geertz conferisce al momento interpretativo di fatto sovverte dall’interno la teoria parsoniana o, almeno, ne modifica le priorità. La seconda implicazione della metafora testuale è che essa, come ha sottolineato Ricœur,17 concentra l’attenzione più sull’enunciato che sulle condizioni di enunciazione, sul detto che sul dire, sull’oggetto culturale che sul suo processo di produzione. 16. L’unica monografia che Geertz scrive dopo il 1970 è Negara: The Theatre State in Nineteenth-Century Bali, Princeton University Press, Princeton (N.J.) 1980. 17. P. Ricœur, “Che cos’è un testo” e “Il modello del testo: l’azione sensata considerata come un testo”, in Dal testo all’azione, Jaca Book, Milano 1989, pp. 133-154 e 177-203 (ed. originale Du texte à l’action, Seuil, Paris 1986).

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Per comprendere meglio questi punti è utile soffermarsi su quello che certamente è lo scritto più famoso di Geertz, il saggio sul combattimento dei galli a Bali.18 Il testo è talmente conosciuto che non c’è bisogno di riassumerlo. Basti dire che la tesi di Geertz è che il grande volume di scommesse e l’agitato mondo degli scommettitori che circonda i combattimenti non possono essere compresi sulla base di considerazioni improntate alla razionalità economica: ciò che è in palio è qualcosa di diverso e di più importante del denaro – è l’onore, lo status sociale, la “faccia” degli scommettitori individuali e collettivi. La connessione tra combattimento e status sociale è evidente innanzitutto al livello dell’organizzazione delle scommesse che rappresenta una simulazione della matrice sociale balinese. Non si scommette mai contro un gallo del proprio gruppo parentale o di un gruppo che vi è alleato, né contro un gallo del proprio villaggio che combatte contro un gallo di un altro villaggio e, nelle scommesse di gruppo, non si accetta mai denaro in prestito proveniente dal di fuori dell’unità strutturale rappresentata dal gruppo stesso. Quindi le scommesse mobilitano coalizioni legate da solidarietà di status. Ma la connessione esiste anche a livello testuale, a livello di ciò che il combattimento metaforicamente “dice”. In quanto testo, per Geertz il combattimento dei galli è essenzialmente un commento sulla gerarchia di status e sui sentimenti che genera. Ma non sui sentimenti ufficiali, manifestati nella vita di tutti i giorni, bensì sulle passioni profonde e nascoste, che sarebbe vergognoso evidenziare in una cultura così composta e autocontrollata come quella balinese. E queste passioni sono passioni sanguinarie: Ciò di cui più animatamente parla il combattimento dei galli sono i rapporti di status, e quello che ne dice è che si tratta di una questione di vita e di morte. […] Ma solo nei combattimenti dei galli i sentimenti su cui si basa questa gerarchia si rivelano nei lo18. C. Geertz, “Note sul combattimento di galli a Bali”, in Interpretazione di culture, cit., pp. 383-436.

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ro colori naturali: avvolti altrove in un alone di etichetta, una spessa coltre di eufemismi e di cerimonie, gesti e allusioni, essi sono qui espressi sotto il più esile travestimento di una maschera animalesca, una maschera che di fatto li svela molto più di quanto li nasconda. A Bali la gelosia costituisce un elemento importante tanto quanto la padronanza di sé, l’invidia quanto la grazia, la brutalità quanto il fascino; ma senza il combattimento dei galli i balinesi ne avrebbero certamente una comprensione molto minore.19 Geertz non offre alcuna prova che i balinesi condividano questa interpretazione. Anzi, è assai probabile che sarebbero rimasti sorpresi e irritati dall’equiparazione che Geertz instaura tra loro e degli animali assetati di sangue. Ma questa obiezione, avanzata da alcuni esponenti dell’antropologia postmoderna20 per sostenere che Geertz non fa altro che proiettare la sua soggettività, ammantata dall’autorevolezza dell’antropologo, sulla soggettività nativa, non mi sembra così decisiva come essi ritengono. Il fatto che l’interpretazione dell’etnografo sia un costrutto di un costrutto non implica assolutamente che il metro della sua validità risieda nella sua accettazione (o anche nella sua accessibilità) da parte dei nativi. Caso mai si dovrebbe chiedere a Geertz quali sono i criteri che, all’interno della comunità scientifica, rendono un’interpretazione più plausibile di altre. Geertz non dice molto neppure su questo argomento, salvo affermare che l’analisi culturale è intrinsecamente incompleta e che la superiorità di un account su un altro consiste nella sua capacità di stimolare altri accounts che, intersecandosi con altri ancora, estendano le loro implicazioni e aumentino la loro efficacia – ovvero che una interpretazione è superiore a un’altra quanto più è generalizzabile, quanto più è capace di illuminare fatti e circostanze ulteriori rispetto a quelli presi originariamente in esame (una 19. Ivi, pp. 428-429. 20. Si veda per tutti V. Crapanzano, Hermes’ dilemma: The masking of subversion in ethnographic description, in J. Clifford, G. Marcus (a cura di), Writing Culture: The Poetics and Politics of Ethnography, University of California Press, Berkeley 1986; trad. Scrivere le culture. Poetiche e politiche in etnografia, Meltemi, Roma 1997, pp. 81-110.

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formulazione che, in un’epoca post-positivista, mi sembra del tutto soddisfacente).21 La questione centrale, tuttavia, non riguarda le obiezioni simmetriche avanzate dalla nouvelle vague antropologica, che rimprovera a Geertz di non essere relativista fino in fondo, e dall’ortodossia positivista, che lo rimprovera di esserlo troppo. Riguarda piuttosto cosa si guadagna (e cosa si perde) dal punto di vista sociologico a considerare la cultura come un insieme di testi. Chiaramente, il vantaggio principale consiste nell’evitare ogni forma di riduzionismo simbolico che tenti di spiegare i simboli come un semplice riflesso della struttura sociale o di processi psicologici interni all’individuo. La sociologia, anche la sociologia della cultura più avvertita, tende per lo più a focalizzarsi sulle cause e sugli effetti degli oggetti culturali, trascurando la loro natura e struttura intrinseca. Per esempio, si definisce l’ideologia come la risposta a una tensione o se ne studiano gli effetti sul voto e altre attività politiche, senza preoccuparsi di indagare la natura e il processo di costruzione simbolica del discorso ideologico.22 Ma la cultura non è semplicemente un prodotto della struttura sociale, né una forza che produce effetti “misurabili”, come vorrebbero i positivisti. “Poetry does not make anything happen”, afferma Geertz, citando Auden. La cultura non crea “effetti”, ma un contesto simbolico nel quale emerge il significato della società e delle personalità. Considerare gli oggetti culturali come testi obbliga finalmente la sociologia a trattare le forme culturali nei loro stessi termini, come qualcosa che dice qualcosa a qualcuno, non come prodotti o cause di altri fattori. Dall’altro lato, però, considerare gli oggetti culturali solo come testi implica anche diversi svantaggi. Il più importante consiste nel rischio di separare i prodotti culturali dal loro processo di produzione e dalle relazioni di competizione, conflitto e dominio in cui sono inevitabilmente inseriti. Ciò vale anche per un saggio magi21. C. Geertz, After the Fact, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1995, pp. 17-20; trad. Oltre i fatti, il Mulino, Bologna 1995, pp. 25-29. 22. Geertz ha trattato questo problema nel suo saggio sull’ideologia come sistema culturale: Interpretazione di culture, cit., pp. 223-272.

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strale come il combattimento dei galli. Per esempio, alcuni critici23 hanno notato come Geertz accenni a diversi aspetti della società balinese attinenti al combattimento – che alle donne sia espressamente proibito di parteciparvi, pur in una società dove le attività non sono sessualmente marcate; che il combattimento fosse un’attività importante, anche a fini fiscali, nell’epoca precoloniale, un’attività successivamente proibita dagli olandesi e dal nuovo stato indonesiano; che i balinesi amino raffigurare la forma geografica di Bali come quella di un gallo in atteggiamento di sfida contro la più grande, ma debole e informe Giava –, aspetti che suggeriscono interpretazioni aggiuntive, se non alternative, a quella formulata da Geertz (cioè che il combattimento fosse anche un commento sulle relazioni di genere e sui sentimenti di appartenenza nazionalista in una situazione postcoloniale), ma di cui egli non tiene conto. Egualmente problematico è scindere il senso intrinseco del testo (l’intentio operis) dall’uso che ne viene fatto, dall’intentio lectoris. Prendere in esame l’uso sociale di una forma simbolica conduce infatti a esplorare le differenze culturali tra diversi gruppi (ceti, classi, generi, etnie ecc.) all’interno di una società, un altro punto non sempre adeguatamente sottolineato da Geertz. Come è stato osservato,24 spesso egli offre generalizzazioni sui “balinesi”, i “giavanesi”, i “francesi”, i “marocchini”, gli “hindu” ecc., senza considerare che vi sono importanti diversità di idee, valori e vocabolari simbolici all’interno di queste categorie. Geertz, ovviamente, sapeva benissimo che la cultura non è un’entità omogeneamente distribuita tra tutti gli abitanti di un determinato territorio e avrebbe risposto alla critiche facendo notare che la validità delle generalizzazioni è sempre una questione di scala. Per esempio, esistono certamente importanti differenze culturali all’interno della società marocchina e di quella indonesiana, ma se l’analisi riguarda il paragone tra (non le variazioni in) queste due società, è lecito non porle 23. Per esempio, W. Rosenberry, Balinese Cockfighting and the Seduction of Anthropology, “Social Research”, 49, 1982, pp. 1013-1028; J. Clifford, On Ethnographic Authority, “Representations”, 1, 1983, pp. 118-146. 24. W.H. Sewell, Geertz, Cultural Systems, and History: From Synchrony to Transformation, “Representations”, 59, 1997, pp. 35-55.

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in primo piano.25 Vero, naturalmente; ma leggendo Geertz talvolta si ha l’impressione che accetti acriticamente l’idea di Ruth Benedict che le culture sono insiemi coerenti, con un’essenza specifica, che plasmano gli individui a loro immagine e somiglianza, un’idea che oggi, con l’avvento della globalizzazione, sembra avere perso ogni valore euristico, ammesso che ne abbia mai avuto uno.26 Per concludere, l’interpretazione di una forma culturale alla stregua di un testo è il primo passo importante, ma non l’unico nell’analisi sociologica della cultura. Dopo tutto, le forme culturali vengono in essere e sono trasmesse di generazione in generazione, quando lo sono, perché sono sorrette, per usare il termine weberiano, da “portatori” che, a seconda della loro posizione nella struttura sociale, hanno particolari incentivi e disincentivi, materiali e ideali, a produrle e a tramandarle. Questo non significa “ridurre” il significato di una forma culturale a processi strutturali, ma cercare di integrare nell’analisi aspetti strutturali e aspetti simbolici, perché, se è vero che l’azione ha sempre una dimensione simbolica (testuale), non tutto, malgrado Ricœur, nell’azione è testuale. Geertz non riesce sempre a riconciliare le due dimensioni, simbolica e sociale. Anzi, passando da una posizione parsoniana a un approccio ermeneutico, abbandona l’ambizione di costruire una teoria multidimensionale dell’azione. Non disconosce la legittimità di altri approcci: “il funzionalismo vive, così come lo psicologismo”, afferma alla fine del saggio sul combattimento dei galli.27 Ma, nonostante abbia sempre rifiutato le accuse di idealismo, perde progressivamente interesse per i problemi di ordine sociologico e concepisce sempre più la cultura in isolamento dalla società, come se l’opposizione analitica tra sistema simbolico e sistema sociale fosse divenuta una divisione sostanziale tra sfere concrete, da una parte i simboli, le cerimonie, i rituali, dall’altra gli interessi, le risorse economiche, il dominio. Questa prospettiva è espressa nel modo più completo nella sua 25. Si veda C. Geertz, Islam: analisi socio-culturale dello sviluppo religioso in Marocco e in Indonesia, cit., e Oltre i fatti, cit. 26. Si veda P.P. Giglioli e P. Ravaioli, Bisogna davvero dimenticare il concetto di cultura?, “Rassegna Italiana di Sociologia”, XLV, 2004, pp. 267-298.

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ultima monografia, Negara, che descrive lo stato-teatro del XIX secolo a Bali. Nell’Ottocento, e nei quattro secoli precedenti, a Bali lo stato (ammesso che si possa usare questo termine per definire una realtà così distante da quella occidentale alla quale siamo abituati) non era il luogo del potere, ma il luogo della rappresentazione: un insieme di rituali, dedicati a raffigurare la sacralità del centro esemplare rappresentato dal sovrano, egli stesso l’incarnazione del sacro. Tali rituali non erano meri ornamenti estetici, celebrazioni di un dominio che esisteva indipendentemente da essi: erano la cosa stessa, perché rappresentavano i principali temi del pensiero politico balinese: il centro è esemplare, lo status è la base del potere, l’arte di governo un’arte teatrale. La sacralità del re escludeva la presenza a corte di conflitti e di manovre di potere, che erano confinate nei rapporti politici ed economici che avevano luogo nei villaggi, nei sistemi di irrigazione e nei templi: il potere secolarizzato era quindi decentrato e parcellizzato. Inoltre, se coloro che lo detenevano volevano salire nella gerarchia, dovevano abbandonarlo per acquistare potere sacro. A Bali, afferma Geertz, “la cultura discendeva dall’alto, mentre il potere sorgeva dal basso”.28 È un’immagine suggestiva, che, indipendentemente dalla sua rilevanza empirica nel caso specifico, sembra riassumere il punto di arrivo della concettualizzazione geertziana della cultura. Ma, come è stato suggerito, è un’immagine che evoca una separazione, “una rimozione della cultura dalle fonti dell’azione, dell’interazione, del potere, della prassi”.29 3. Conclusione Non c’è quasi più nessuno oggi, salvo quei dottorandi in sociologia che vi sono costretti, che legga i saggi metodologici di Weber o il compendio delle categorie della prima parte di Economia e società. Di Weber, per fortuna, si leggono altre cose: L’etica protestante, le “Considerazioni intermedie”, la descrizione del sistema degli esa27. C. Geertz, Interpretazione di culture, cit., p. 436. 28. Id., Negara: The Theatre State in Nineteenth-Century Bali, cit., p. 85. 29. W. Rosenberry, Balinese Cockfighting and the Seduction of Anthropology, cit., p. 1027.

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mi nella burocrazia patrimoniale cinese, le analisi del potere e della religione nella seconda parte di Economia e società, le due conferenze di Monaco sulla politica e la scienza. Insomma, gli scritti che ci dicono qualcosa sul mondo e sull’esperienza umana all’interno di esso piuttosto che quelli che spiegano come costruire tipi ideali. La stessa cosa, probabilmente, accadrà a Geertz. Per quanto i suoi scritti teorico-metodologici siano redatti con una penna assai più leggera e vivace di quella di Weber, tra qualche anno è possibile che essi vengano pian piano dimenticati, insieme agli ammiccamenti e ai furti di greggi di cui parla nel saggio introduttivo a Interpretazione di culture.30 Di Geertz rimarranno altre cose. Innanzi tutto, la sua grande abilità e sensibilità etnografica e capacità di osservazione, disciplinate dalla sua familiarità con i classici della teoria sociale. Geertz era in primo luogo un etnografo. Le sue descrizioni dei mercati, delle città indonesiane e marocchine, delle attività agricole, delle feste, dei funerali e, ovviamente, dei combattimenti dei galli sono virtuosistici pezzi di bravura, difficilmente superabili non solo nell’ambito del genere resoconto antropologico, ma in tutta la letteratura di viaggio. In secondo luogo, la caparbia determinazione con la quale è riuscito a riportare, anche se certamente non da solo, il problema del significato all’interno della teoria sociologica e antropologica contemporanea. Istintivamente era una volpe alla quale piaceva molto scorrazzare tra i territori più vari: politica, ecologia, religione, economia, filosofia; ma, come un riccio, tornava sempre sulla stessa questione, il conferimento di senso all’azione e le ragnatele di significato che ne derivano. Oggi, questo può apparire abbastanza scontato. Ma quarant’anni fa, quando si è iniziato a udire la sua voce, la teoria antropologica era incagliata nelle secche del raffinato razionalismo di Lévi-Strauss e della pedanteria sistematica dell’antropologia cognitiva ed è in larga parte grazie a Geertz che è riuscita a riprendere il largo. Infine lo stile. In uno dei numerosi “coccodrilli” apparsi dopo la sua morte, un collega l’ha definito un literary dandy, la cui mag30. C. Geertz, Interpretazione di culture, cit., pp. 9-42.

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giore preoccupazione era la forma letteraria dei suoi scritti.31 Non so se fosse vero. Certo, Geertz è uno dei pochi scienziati sociali che sia leggibile non solo dai suoi colleghi, ma anche, e con godimento, da un pubblico di non accademici. La sua prosa ha molti registri, dalla scarna precisione degli scritti che vertono sullo sviluppo economico alla ricchezza quasi barocca dei suoi ultimi lavori, dove enfasi, autoironia e talvolta un sommesso tono di rassegnazione sono sapientemente mischiati. Lévi-Strauss ha scritto da qualche parte che, prima di mettersi al lavoro su qualche problema difficile, leggeva tre o quattro pagine del Diciotto Brumaio, per assegnarsi un esempio da emulare. Forse l’occasionale lettura di qualche brano di Geertz potrebbe essere altrettanto utile ai membri della corporazione sociologica e antropologica.

31. A. Kuper, Clifford Geertz, “The Guardian”, 15 novembre 2006.

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Relativismo come mentalità, non teoria NADIA URBINATI

li scritti di Clifford Geertz sono la rappresentazione di un’epoca intellettuale attraverso il contributo di uno dei suoi più autorevoli protagonisti. Offrono una traccia eloquente degli effetti di longue durée che lo spirito innovatore degli anni sessanta e settanta ha esercitato nelle scienze sociali e umane, con diramazioni dirette nelle discipline storiche, estetiche, politiche e filosofiche. Clifford Geertz ha contribuito a riposizionare la ricerca antropologica fuori dall’orizzonte strutturalista e a ristabilire i legami interdisciplinari su basi antideterministiche. Come Quentin Skinner in relazione alle idee politiche o Richard Rorty in relazione alla filosofia, egli ha inoltre contribuito in maniera fondamentale a smentire la diagnosi della morte della filosofia (o delle ideologie) pronosticata da Peter Laslett e salutata con favore da Daniel Bell a conferma della vittoria del behaviorismo e della razionalità analitica contro le distorsioni della teleologia e del prospettivismo. L’analisi dei linguaggi e delle attribuzioni di significato (delle ideologie in senso lato) ha caratterizzato il progetto di Geertz; un progetto volto ad affrancare l’antropologia dalla gabbia positivistica ma anche dalla paralisi interpretativa provocata dai movimenti anticoloniali nei paesi occidentali, dove l’antropologia era nata come disciplina scientifica nella seconda metà del XIX secolo, quando il colonialismo era la politica estera dei paesi europei. La ricerca di oggettività ha spesso corrisposto al desiderio di neutralizzare la tendenza pregiudiziale di fare dell’Occidente il punto di vista dal quale leggere

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le culture altre e definire il primitivismo. In questo clima di crisi identitaria, Geertz ha proposto una nuova direzione teorica e metodologica: l’antropologia interpretativa, ovvero lo studio dei sistemi di significato, delle credenze, dei valori, delle visioni del mondo e degli stili di pensiero attraverso i quali i singoli popoli costruiscono la loro esistenza. Geertz ha portato il punto di vista “locale” al centro della riflessione antropologica, ma ha anche elaborato una filosofia della “conoscenza locale” sostenendo che l’etnocentrismo metodologico, se interpretato come ricostruzione circostanziale di un contesto di significati specifico, avrebbe contribuito a liberare gli studiosi da due confortanti e intolleranti assunti metafisici: che l’“umanità” sia un’entità normativa al di sopra (o al di sotto) dei popoli e dei gruppi umani concreti, sintesi di valori innati o dotati di un carattere quasi biologico; e che la comunità occidentale rifletta la “natura umana” nella sua forma più compiuta, espressione di valori, principi e norme universali. Infine, e come conseguenza, che categorie elaborate nella modernità occidentale siano le migliori guide esplorative e interpretative per la comprensione di mentalità e culture non europee e non “moderne”. Difendere la conoscenza locale era per Geertz lo stesso che resistere alla vocazione moderna all’uniformità. Tuttavia, egli non ha mai condiviso visioni fataliste sull’erosione del pluralismo culturale; pensava invece, che malgrado gli sforzi di omologazione culturale e linguistica, l’uniformità non sarebbe riuscita a cancellare le differenze (“i francesi non mangiano comunque burro salato”); ne avrebbe semmai generate delle nuove; avrebbe anzi complicato il lavoro dell’antropologo e dell’etnologo che sarebbe consistito non più nel racconto di “differenze spettacolari”, ma nella difficile arte di vedere ciò che a prima vista non appariva, di saper vedere le “differenze più sottili”.1 Trentacinque anni or sono, parlando alla “tribuna cosmopolita” dell’UNESCO, Claude Lévi-Strauss aveva definito la “diversità” come l’espressione del desiderio di ogni cultura di resistere alle 1. C. Geertz, The Uses of Diversity, Tanner Lecture tenuta all’Università del Michigan nel 1985, ora in “Michigan Quarterly Review”, XXV, 1986, p. 105.

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culture circostanti per sopravvivere; l’incontro tra le culture non poteva essere più di un’“occasione” di conoscenza perché la sopravvivenza imponeva alle comunità di conservare qualcosa di “impenetrabile”. Se l’utopia cosmopolita si fosse realizzata davvero, il risultato sarebbe stato l’“entropia” delle comunità, la solitudine individuale e il più completo disinteresse dei singoli per le sorti del mondo e dei loro simili (come Aristotele aveva scritto della repubblica dei guardiani di Platone, se i cittadini fossero identici e liberati da ogni appartenenza locale, essi diventerebbero estranei gli uni agli altri e indifferenti al bene della città, perché è la vita etica della comunità che educa i sentimenti sui quali si regge la vita associata). In sostanza, Lévi-Strauss suggeriva di pensare che la “creatività” richiede una certa “sordità” perché soltanto gli ostacoli (tra individui e gruppi come tra valori) hanno il potere di stimolare le attitudini intellettuali e artistiche. La “comunicazione integrale”, se davvero si realizzasse, cancellerebbe a un tempo la diversità e la cultura.2 L’idea di impermeabilità delle culture ha fatto molta strada nel corso degli anni settanta, conquistando la filosofia morale e politica, con il relativismo etnocentrico e il comunitarismo come sue gemmazioni più radicali. Eppure Geertz ha criticato questa concettualizzazione isolazionista della conoscenza locale e non ha proposto una filosofia relativista; ha invece educato e difeso una mentalità attenta alla pluralità, non attaccata irriflessivamente ai propri punti di vista; infine, più dinamica e pragmatica. Se un antropologo – ha obiettato in The Uses of Diversity – pensasse davvero all’etnia e alla cultura locale in questi termini assoluti, finirebbe per vanificare la propria professione, perché il culto della differenza e dell’impermeabilità lo condannerebbe a una “inazione che nessuna manipolazione dei dati oggettivi potrebbe compensare”.3 Ber-

2. C. Lévi-Strauss, Race and Culture (1971), in R. Bellour e C. Clément (a cura di), Claude Lévi-Strauss. Textes de et sur Claude Lévi-Strauss, Gallimard, Paris 1979, pp. 459-462; trad. di P. Levi, Razza e cultura, in Lo sguardo da lontano. Antropologia, cultura, scienza a raffronto, Einaudi, Torino 1984, pp. 27-30; e inoltre, De près et de loin, intervista rilasciata a Didier Eribon, Odile Jacob, Paris 1988, pp. 205-211. 3. C. Geertz, The Uses of Diversity, cit., p. 111.

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nard Williams aveva in quegli anni illustrato molto efficacemente il paradosso del relativismo: se ogni descrizione che aspirasse alla “convergenza” fosse un semplice artificio culturale, se ciascuno fosse immerso così profondamente nella propria cultura da non poter formulare giudizi universali o generali, non ci sarebbe nessun punto dal quale sviluppare una prospettiva “locale”.4 In sostanza, la visione delle cose ci sarebbe negata tanto se pretendessimo di metterci dal punto di vista di nessun luogo, come chiedono di fare i filosofi analitici, quanto se per reazione attribuissimo alla nostra etnia implicazioni più forti di quelle che la sorte della nascita e della socializzazione ci ha dato. Geertz non ha proposto una dottrina o una soluzione particolarista, anche se la sua teoria della conoscenza locale ha ispirato posizioni postmoderne relativistiche. Prestare attenzione al contesto nel quale la “rivoluzione geertziana” è maturata consente di comprendere in quale senso “conoscenza locale” non è lo stesso di relativismo. Il contesto è quello della tradizione anglo-americana della filosofia del linguaggio dove l’analisi concettuale si fa strumento di comunicazione, un mezzo per risolvere dissensi e discrepanze, per creare o rompere tradizioni di significato e infine inaugurare svolte interpretative. Linguaggio è comunicazione e creazione di ponti piuttosto che isolamento. Come un fiume carsico, la filosofia del linguaggio ha attraversato varie discipline e cambiato la fisionomia di molte, sia quando ha preso la strada della chiarificazione e della valutazione dei concetti valutativi (politici e morali) come nel caso di Brian Barry (Political Argument, 1965); sia quando ha orientato gli storici a interpretare le tradizioni politiche come eventi costitutivi di sistemi di credenze, come nel caso di J.G.A. Pocock (Politics, Language and Time, 1971); sia quando ha consentito di interpretare i concetti politici come contesti di significato attraverso i quali un’epoca storica si esprime, come nel caso di Quentin Skinner (The Foundations of Modern Political Thought, 1978). Comune a questi diversi

4. B. Williams, Ethics and The Limits of Philosophy, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1985, pp. 136-137; trad. di R. Rini, L’etica e i limiti della filosofia, Laterza, RomaBari 1987, pp. 165-166.

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ambiti di riflessione è stata la feconda eredità della tradizione ermeneutica e del suo incontro con l’analisi linguistica e semantica di Ludwig Wittgenstein e J.L. Austin; per esempio, la considerazione del testo (o di un corpo di tradizioni comunitarie) come segno o testimonianza di un problema da risolvere e dell’impresa interpretativa come ricostruzione del dialogo tra gli attori (autori o popoli) e i loro ambienti di significato.5 Questo metodo interpretativo, incentrato non sul “fatto” ma sull’agire degli individui o dei gruppi all’interno di determinati contesti, ha dato agli studi storici e antropologici un ruolo trasformativo perché nel momento in cui lo studioso si pone la domanda “che cosa questo o quell’autore o questo o quel gruppo fa o intende fare quando dice o fa questo o quello”, egli solleva una costellazione di problemi concernenti il contesto di significato peculiare a quell’autore o a quel gruppo in quel tempo e luogo, questioni che non possono essere risolte attraverso la deduzione da modelli sistematici a priori canonizzati dalla comunità accademica. La metodologia di Geertz, mentre ha offerto una nuova interpretazione di eventi e credenze già interpretati da precedenti scuole di pensiero antropologico, ha funto anche da rimedio terapeutico, se così si può dire, presentandosi come un antidoto contro l’hybris della spiegazione coltivata dall’indirizzo strutturalista nelle sue versioni più o meno sofisticate. La “costruzione del contesto” è stata la più importante attuazione di questa metodologia: un compito che ha portato Geertz a uscire dal proprio ambito disciplinare, raccogliendo “informazioni” dalla letteratura, dalla storia, dalla scienza politica con lo scopo di produrre rappresentazioni pittoriche circostanziate di strutture sociali (come la religione o lo stato) con le quali poter poi ordinare i materiali pre- e proto-storici (o etnografici), come ha fatto nelle sue ricerche sull’Indonesia. Per tutte queste ragioni sommariamente ricapitolate, il progetto di Geertz emerge come punta eccellente del più ampio fenomeno di renovatio filosofica che ha attraversato l’Europa e gli Stati 5. Sulle applicazioni delle idee di Wittgenstein nell’etnografia si veda C. Geertz, Available Light: Anthropological Reflections on Philosophical Topics, Princeton University Press, Princeton (N.J.) 2000, pp. XI-XIII.

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Uniti a partire dal primo decennio successivo alla fine della Seconda guerra mondiale. Il suo lavoro deve essere messo accanto e anzi valutato insieme a quello di altri “innovatori”, come Jacques Derrida e Michel Foucault, Paul Ricœur e Charles Taylor, John Pocock e Quentin Skinner, W.V.O. Quine e Richard Rorty, Thomas Kuhn e Paul Feyerabend. Molti di loro hanno del resto condiviso gli stessi luoghi e collaborato negli stessi istituti di ricerca apportando un contributo fondamentale alla nascita e al successo della svolta antianalitica degli anni settanta. Il più importante centro di diramazione del nuovo corso è stato senza dubbio l’Institute for Advanced Study di Princeton, del quale quasi tutti gli “innovatori” sono stati membri. L’Institute è il luogo dove Geertz ha trascorso anni decisivi della sua vita intellettuale e da lui stesso trasformato in “una vera fucina dell’anti-fondazionalismo”. Vi era giunto da Chicago nel 1970 con il compito di creare un centro di ricerca innovativo nelle scienze sociali. A lui si deve la fondazione della School of Social Science (la quarta School dell’Institute dopo quella di matematica, scienze naturali e studi storici) che venne completata insieme a Carl Kaysen nel 1974, con la nomina di Albert Hirschman. Per attivarla, Geertz chiamò a farne parte, tra gli altri, William Sewell Jr. e Quentin Skinner. Inoltre, tra il 1970 e il 1980 gli intellettuali princetoniani, fossero essi docenti dell’Università o membri dell’Institute, pubblicarono opere decisive e sorprendentemente vicine tra loro per ispirazione e scopo: Richard Rorty (allora professore assistente nel Department of Philosophy della Princeton University) stava completando il suo Philosophy and the Mirror of Nature che sarebbe uscito nel 1979 (senza tuttavia procurargli la cattedra), l’anno successivo al quale Skinner pubblicò i due volumi delle Foundations, scritti nei cinque anni di permanenza all’Institute. Infine, in quegli stessi anni era membro della School of Social Science Thomas Kuhn, il cui Structures of Scientific Revolutions del 1962 – un’opera che Geertz ha definito “rivoluzionaria” – ebbe grandissima influenza nella revisione anti-deterministica e sul gruppo dell’Institute. L’animatore del gruppo era Geertz, fondatore e per anni direttore di un seminario (il “social theory group” che da allora si riu61


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nisce ogni giovedì all’ora di pranzo) che si può a ragione considerare come il cenacolo più rappresentativo dell’indirizzo pluralista e contestualista, foro di discussione incentrato per due decenni almeno sul progetto di erodere i fondamenti metafisici per ridare voce alla “specificità delle tradizioni linguistiche e concettuali”.6 La battaglia del metodo fu condotta su diversi fronti: contro le varie forme di positivismo e la mitologia dell’oggettività (il mito dei fatti e delle strutture archetipe); contro l’immanentismo e lo storicismo teleologico (il mito degli agenti sociali e storici depersonalizzati, prodotti dalla filosofia hegeliana e marxista); contro la trasformazione dei testi (o dei corpi di significato come le culture) in eventi decontestualizzati ed entità metaforiche (il mito della irrecuperabilità di significato o della perdita di senso accreditato dalle correnti più radicali del decostruttivismo ispirate da Derrida). Come Skinner con la storia delle idee politiche così Geertz ha sfidato gli studiosi a spostare l’attenzione dai “fatti” ai “facitori”, se così si può dire, dalle norme e istituzioni alle credenze e ai significati, per mettere al centro l’attività umana in concerto, denunciando di anacronismo e cecità quegli approcci che trattavano le culture umane o le epoche storiche come corpi unitari, codificazioni di categorie a priori o di abiti mentali prodotti dall’adattamento a strutture e istituzioni. Questa prospettiva, che la teoria normativa e la filosofia universalista hanno identificato come relativismo, ha consentito a Geertz e a Skinner (in questo solidali) di individuare e contrastare diverse specie di anacronismo o “fallacia” o “pregiudizio” scientistico; per esempio l’idea che i problemi di interpretazione e comprensione siano eterni e immutabili e il mondo della mente e della vita associata assomigli a un lavoro di Sisifo che senza sosta si trova a rispondere agli stessi quesiti, quasi che la storia e la cultura siano il rispecchiamento di idee e problemi eterni, il prodotto del lavoro imper6. P. Koikkalainen, S. Syrjämäki, On Encountering the Past: An Interview with Quentin Skinner, “Finnish Yearbook of Political Theory”, VI, 2002, p. 52. Ma cfr. anche Q. Skinner, Reply to my critics, originariamente in Meaning and Context (1988) e ora rivisto e ripubblicato con il titolo Interpretation, rationality and truth, in Visions of Politics, 3 voll., Cambridge University Press, Cambridge 2002, vol. I.

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sonale delle strutture della ragione e della realtà. Situare un testo o un fenomeno culturale nel proprio contesto di significato, ci hanno insegnato Skinner e Geertz, consente di comprenderlo come un atto di comunicazione per realizzare un’intenzione specifica; ovvero come un prodotto storico e culturale nel vero senso del termine. Come si legge in Negara, per capire che cosa per la Bali pre-coloniale sia stato lo “stato” (appunto “negara”), anzi per contravvenire all’opinione, questa sì relativistica, che prima delle conquiste coloniali degli olandesi Bali non abbia avuto lo stato ma conosciuto al massimo una vita tribale, occorre non restare intrappolati nella categoria di stato che gli europei hanno lentamente edificato dal tempo di Machiavelli a quello di Weber e Pareto. Nello stesso tempo, occorre saper dare rilevanza a quegli aspetti ornamentali, estetici e simbolici che nella moderna società occidentale hanno gradualmente perso di rilevanza per lasciare posto alla razionalità delle procedure e alla macchina di regolamentazione e repressione delle norme e delle istituzioni. Andare a Bali con questo bagaglio, ha scritto Geertz, non ci farebbe capire nulla, non ci consentirebbe di ordinare quei materiali che la ricerca entografica insegna a raccogliere. Ma il fatto che l’idea di stato che la nostra modernità ha coniato non si trovi a Bali non significa che Bali non abbia avuto forme statali di vita sociale e dominio del territorio.7 In sostanza, situare un testo (o una costellazioni di dati etnografici) nel proprio contesto linguistico vuol dire interpretarlo come un atto comunicativo mosso internamente da uno scopo: quello di realizzare un’intenzione teoricamente specifica e storicamente situata. La distinzione tra motivi e intenzioni è certamente una delle acquisizioni più importanti dell’indirizzo contestualista. L’intenzionalità, ha spiegato Skinner, è il ragionamento strategico presupposto da uno speech act (il piano o il disegno di un autore, singolo o collettivo, per creare o fare qualcosa di specifico); mentre i motivi sono gli standard di razionalità personale o individuale antecedenti all’apparire di un fatto specifico e congenitamente connessi a es7. C. Geertz, Negara: The Theater State in Nineteenth-Century Bali, Princeton University Press, Princeton (N.J.) 1980, pp. 3-10.

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so.8 Il primo è l’oggetto dell’interpretazione dell’antropologo o dello storico; come il lavoro del detective, esso si esplica in un complesso processo di decodificazione di strategie linguistiche per portare in superficie l’intenzione degli attori, che non è necessariamente contenuta nel testo in forma esplicita né espressa dagli attori in maniera volontaria o come decisione razionale. Considerare un fatto umano come un testo o un insieme di speech acts relativi a un determinato contesto equivale a demolire alla radice non solo l’oggettivismo ma anche il soggettivismo (il luogo delle “motivazioni” dei singoli attori). Questo è stato il tema centrale dei dibattiti sul e contro il fondazionalismo. Conoscere un testo, ha sostenuto Geertz, non significa ri-creare o rimettere in vita l’esperienza di culture aliene, o perché lontane nel tempo o perché culturalmente diverse rispetto a chi le guarda.9 Come lo storico non può entrare nella mente degli uomini e delle donne del passato che intende studiare, così l’antropologo non può diventare altro da quello che è e certamente non può diventare parte delle culture che ha di fronte a sé come un testo da interpretare. Ciò che la teoria del contesto interpretativo richiede e consente di fare è di recuperare dai segni linguistici la disposizione ai concetti o lo stile dei ragionamenti che quegli uomini e quelle donne concreti hanno messo in campo usando il loro linguaggio, cioè i simboli, le credenze, le istituzioni religiose o politiche. Comprendere significa imparare a leggere o a seguire stili di pensiero che non sono necessariamente identici a quelli ai quali di solito siamo abituati e che spesso, quando pecchiamo di anacronismo o etnocentrismo, riteniamo che corrispondano a vere e proprie idee universali. Per parafrasare Wittgenstein, riconoscere l’intenzione di chi parla, con parole o con gesti, non significa né richiede comprendere le idee che hanno mosso chi parla (in questo senso, Skinner ha scritto che nessuno può entrare nella testa di un altro) – l’attenzione al contesto è ciò che si richiede, ovvero la registrazione e l’interpretazione delle convenzioni che operano in quel determinato caso attraverso 8. Q. Skinner, Motives, intentions and interpretation (1972), in Visions of Politics, cit., vol. I, p. 98. 9. C. Geertz, Local Knowledge, Basic Books, New York 1983, pp. 55-70.

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il linguaggio delle parole, delle convenzioni e dei gesti. Nella misura in cui i significati di un determinato episodio o evento possono essere compresi intersoggettivamente, le intenzioni che sottostanno a quell’atto performativo non possono che avere un carattere pubblico – non sono fatti privati contenuti nella mente di questo o quell’attore, e non appartengono alla sfera delle motivazioni. Se così fosse, l’intero mondo umano resterebbe a noi sconosciuto e infine non ci sarebbe comunicazione alcuna. Come Geertz ha osservato in Negara, le idee sono “significati veicolati” (envehicled meanings), non sono necessariamente “roba mentale inosservabile” o invisibile (unobservable mental stuff).10 Viene in questo modo a cadere il dualismo fra “esterno” e “interno” sul quale la filosofia analitica ha costruito la propria fortuna, e insieme a esso mostrano la loro problematicità altre distinzioni schematiche alle quali siamo abituati: privato e pubblico, personale e sociale, psicologico e storico, sperimentale e comportamentista invece che relazionalità intelligibile. Se la tradizione filosofica post-cartesiana ha insegnato a isolare e distinguere per generalizzare e sistematizzare, Geertz ha proposto di cercare di vedere le connessioni fra il mondo che “sta dentro la mente” e quello che sta “fuori”. “A partire dalla demolizione di Wittgenstein dell’idea stessa di un linguaggio privato con la conseguente socializzazione del discorso e del significato, la localizzazione della mente nella testa e della cultura fuori di essa non sembra essere più un così ovvio e incontrovertibile senso comune.”11 Rendere intelligibile la relazione tra “interno” ed “esterno” vuole essere una risposta non solo al realismo platonico e cartesiano, ma anche al suo opposto, il soggettivismo. Infatti, recuperare o interpretare un contesto linguistico non ha nulla a che fare con l’empatia (l’entrare nella vita o nella mente degli altri per capire che cosa motiva le loro azioni) ma è un vero e proprio lavoro razionale – è un esempio di comunicazione non privata ma pubblica; di vera e propria intersoggettività, la quale è impossibile tanto se ci 10. Id., Negara: The Theater State in Nineteenth-Century Bali, cit., p. 135. 11. Id., Culture, mind, brain/brain, mind, culture (1999), in Available Light. Anthropological Reflections on Philosophical Topics, cit., p. 204.

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poniamo di fronte agli altri come soggetti privati (mente-a-mente), quanto se ci poniamo di fronte agli altri con nella nostra mente schemi o idealtipi preformati nella convinzione che siano in grado di farci capire tutto. Nel primo caso siamo ciechi perché mossi dalla pretesa della medesimezza esistenziale; nel secondo siamo ciechi perché mossi dalla presunzione che la ragione contenga la chiave che apre tutte le porte culturali. Interpretare è invece un lavoro che mette in moto uno stile della ragione e del pensiero (nostro, non soltanto dell’oggetto studiato), e in questo senso non è né segno di una deriva soggettivistica, né capitolazione relativistica della razionalità come i critici di parte strutturalistica e platonica hanno lamentato. Come Hans Gadamer e Richard Rorty hanno a loro volta sostenuto, questo tipo di investigazione ermenutica ci rende capaci di mettere in discussione l’appropriatezza di ogni radicale distinzione tra questioni puramente storiche (o contestuali) e questioni puramente filosofiche (o normative) perché ci consente di riconoscere che le nostre descrizioni e concettualizzazioni, storiche o teoriche che siano, “non sono in alcun modo privilegiate”.12 La questione del relativismo è collegata a questa prospettiva e può essere tradotta nella seguente domanda: che valore o senso ha vedere noi stessi come una tribù o un gruppo tra gli altri? Geertz ha cercato di dare una risposta a questa domanda ritornando ancora una volta allo stile del pensiero invece di insistere sul contenuto dei nostri valori o pensieri (in questo caso, sarebbe approdato al particolarismo come dottrina). In un modo che ricorda a tratti la teoria kantiana del giudizio, egli ha scritto in Local Knowledge che noi possiamo al massimo sperare di acquisire una prospettiva dalla quale guardare la nostra forma di vita in una maniera più critica, meno autocompiaciuta, e nel frattempo di allargare il nostro giudizio e il nostro orizzonte mentale così da meglio comprendere chi non è a noi simile, invece di rafforzare i nostri pregiudizi.13 Ma, come Skinner ha osservato commentando il lavoro di Geertz, questo me12. Cfr. Q. Skinner, Interpretation and the understanding of speech acts (1988), in Visions of Politics, cit., vol. I, p. 125. 13. C. Geertz, Local Knowledge, cit., pp. 3-16.

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todo ci dà più che una visione allargata del mondo dei valori e una visione critica del nostro mondo di valori; esso ci permette anche di affinare le nostre categorie e i nostri concetti, molto spesso ingessati nelle generalizzazioni che la modernità ci ha consegnato, impermeabili all’esame critico. Per esempio, “noi siamo portati a pensare che non ci può essere concetto di stato nell’assenza di sistemi centralizzati di potere. Ma lo studio classico di Bali di Clifford Geertz ci ha mostrato che il primo può fiorire anche senza la presenza dei secondi”.14 L’accusa di produrre il relativismo dei valori è spesso un segno di pigrizia mentale, mentre riflettere su come gli altri vivono o “parlano” è una lezione di auto-comprensione critica e nello stesso tempo un allenamento a pensare in chiave di società aperta. L’aspetto più interessante della svolta anti-analitica consiste nel fatto che essa riflette uno stile di razionalità più che una nuova forma di irrazionalismo – e questo è certamente distintivo della tradizione anglo-americana. L’argomento geertziano di una razionalità contestuale o di una intelligibilità relazionale contro standard interpretativi meta-storici e meta-linguistici non conduce alla distruzione della ragione. L’analogia del detective, coniata da R.G. Collingwood quasi un secolo fa e alla quale Geertz e gli “innovatori” hanno spesso fatto diretto riferimento, rende assai bene l’idea di una razionalità elastica e pragmatica contro una rigida e sistemica. Il metodo contestualista ha cercato di dare forza a una razionalità debole rispetto e contro una razionalità positivista, ma non ha inteso celebrare la debolezza della ragione. Il contestualismo può anzi essere visto come un incremento di potere della comprensione e delle nostre potenzialità interpretative. Al contrario, sono gli approcci positivistici, strutturalisti e analitici a mettere in evidenza la debolezza della razionalità a causa della loro inabilità a dar conto di fenomeni che non si adattano al loro modello di spiegazione. Contrariamente a ciò che a prima vista appare, l’approccio contestualista o della conoscenza locale è parte del progetto illuminista invece che la sua sepoltura; a patto che per progetto illuminista si intenda un progetto di espansione delle nostre opportunità di conoscenza e di comprensione. 14. Q. Skinner, Interpretation and the understanding of speech acts, cit., p. 126.

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Archivio

Ripubblichiamo qui due testi di Jean Baudrillard dedicati ai media. Entrambi ci sembrano, nonostante gli anni, di estrema attualità e ci invitano a pensare “ancora”, come cercheremo di fare sul prossimo fascicolo. È il nostro modo per ricordare Baudrillard, scomparso il 6 marzo 2007. Il primo, Requiem per i media (pubblicato in “aut aut”, 139, gennaio-febbraio 1974, pp. 71-91) è la traduzione italiana di Mario Spinella di un saggio comparso per la prima volta in “Utopie” (4, ottobre 1971, pp. 35-51), poi parte di Pour une critique de l’économie politique du signe, Gallimard, Paris 1972 (Per una critica dell’economia politica del segno, Mazzotta, Milano 1974). In queste pagine, Baudrillard parte dal vuoto di riflessione da parte della sinistra (del tempo/nel tempo?) a proposito dei media, vuoto che riflette una sostanziale impossibilità di integrare i mezzi di comunicazione all’interno della teoria marxiana della struttura e della sovrastruttura. Riprendendo le mosse dalla critica di un celebre saggio di H.M. Enzensberger (Constituents of a Theory of the Media, originariamente pubblicato in “New Left Review”, 64, 1970, pp. 13-36), Baudrillard distingue tra “reciprocità” e “reversibilità” dei media, distinzione che sarebbe oggi più che utile riprendere a proposito dei dibattiti sulla “interattività” caratteristica dei nuovi media. I mezzi risultano apparentemente sempre più reversibili (la “posta dei lettori”, oggi la “mail alla trasmissione”, il televoto…) ma, in realtà, non lasciano spazio a vere risposte (a nessuna reciprocità), impostando la comunicazione all’interno di precisi “modelli” di significazione che pre-strutturano il

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senso di ogni avvenimento e ogni informazione. La fuoriuscita da questo modello era per Baudrillard, agli inizi degli anni settanta, la possibilità di una “comunicazione immediata”, come per esempio quella praticata sui muri parigini nel maggio del ’68. Sarebbe interessante chiedersi cosa comunichino oggi i muri delle nostre città, oggi che anche i graffiti nascondono azioni promozionali e mercantili. Sostanzialmente diversa l’ottica del secondo saggio, L’implosione del senso nei media e l’implosione del sociale nelle masse (“aut aut”, 169, gennaio-febbraio 1979, pp. 105-116, traduzione di Giampiero Comolli, poi pubblicato in Simulacres et simulation, Galilée, Paris 1981). Qui Baudrillard parte dall’ineluttabilità del processo di annullamento del senso e della comunicazione nella scena iperreale attraverso l’informazione e i media. Crolla, però, ogni credenza nel mito di una immanenza comunicativa, come recupero del senso e della comunicazione, mentre si afferma una logica “rovesciata”, volontariamente anti-illuminista, che vuole la massa come un non-soggetto che resiste al senso in modo “implosivo”, e non rivoluzionario, attraverso la potenza, l’“arma assoluta” del silenzio e dell’indifferenza inerziali. L’assenza di una possibile risposta, nel modello comunicativo imposto dai media, era nel 1971 una strategia di potere. Nel 1979 diventa, invece, una controstrategia delle masse, un loro modo per rispondere e sottrarsi alle logiche di potere. È sul valore di questa controstrategia che Baudrillard ha continuato a interrogarci e ancora oggi ci interroga. [Giovanni Scibilia]

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Requiem per i media [1971] JEAN BAUDRILLARD

Introito Non esiste una teoria dei mezzi di comunicazione di massa: la “rivoluzione dei media” è rimasta, sinora, empirica e mistica, sia in McLuhan sia in coloro che gli si oppongono. McLuhan, con la sua brutalità di canadese texano diceva che la teoria di Marx, contemporanea del vapore e delle ferrovie, era già superata quando egli era ancora vivo, dal momento che il telegrafo aveva fatto la sua comparsa. Con il suo modo candido di esprimersi egli vuol dire che Marx, nella sua analisi materialistica della produzione, ha circoscritto un campo delimitato di forze produttive, dal quale vengono a essere esclusi il linguaggio, i segni e la comunicazione. A dire il vero, in Marx, non vi è neppure una teoria delle ferrovie come media, come modo di comunicazione: ci si occupa di esse, e ciò vale per lo sviluppo tecnico in genere, sotto l’aspetto della produzione, della produzione di base, materiale, infrastrutturale, che costituisce il solo aspetto determinante dei rapporti sociali. Il “modo di comunicazione”, idealmente considerato come un intermediario, e trattato in maniera cieca dalla pratica sociale, ha avuto agio, da un secolo a questa parte, di “compiere la sua rivoluzione” senza cambiare minimamente la teoria del modo di produzione. Da questo punto di vista, e a condizione (il che rappresenta già una rivoluzione rispetto al marxismo tradizionale) di non considerare lo scambio dei segni come una dimensione marginale, sovrastrutturale, per degli esseri che la sola teoria valida (materialistica) definisce irrevocabilmente “produttori della loro vita reale” (dei aut aut, 335, 2007, 71-95

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beni destinati a soddisfare i loro bisogni), ci si può muovere secondo una duplice prospettiva: 1. Si può mantenere la forma generale dell’analisi marxista (contraddizione dialettica tra forze produttive e rapporti di produzione), ma ammettendo che la definizione “classica” di “forze produttive” è una definizione ristretta, e ampliando l’analisi, nei termini di forze produttive, a tutto questo campo cieco della significazione e della comunicazione. Ciò implica far emergere in tutta la loro originalità le contraddizioni che scaturiscono da questa estensione teorica e pratica del campo dell’economia politica. È l’ipotesi da cui muove Enzensberger nel suo articolo sulla “New Left Review” (Constituents of a Theory of the Media, 1970): “Il capitalismo monopolistico sviluppa l’industria della coscienza più rapidamente e in modo più estensivo di ogni altro settore di produzione. Ma, in pari tempo, deve frenarla e limitarla. Una teoria socialista dei mezzi di comunicazione di massa deve studiare questa contraddizione”. Questa ipotesi, in ultima analisi, non fa che prendere atto della virtuale estensione della forma di merce a tutti gli ambiti della vita sociale (e, sotto questo aspetto, giunge già in ritardo); nonché del fatto che esiste sin d’ora una teoria “classica” della comunicazione, una economia politica “borghese” dei segni e della loro produzione, così come, già nel secolo XVIII, esisteva una teoria della produzione materiale: una disciplina teorica di classe,1 cui non è stata data sinora una risposta critica fondamentale che si presenti con l’estensione logica di quella fornita da Marx a suo tempo. Questa critica dell’economia politica del segno è stata resa impossibile, perché si è relegata tutta questa materia nell’ambito della sovrastruttura. Pertanto, nella migliore delle ipotesi, l’impostazione di Enzensberger non farebbe altro che colmare l’immenso ritardo in cui si trova la teoria marxista classica.

1. Questa economia politica del segno è la linguistica strutturale (compresa, naturalmente, la semiologia e tutti i suoi derivati, tra i quali la teoria della comunicazione che tratteremo più avanti). Sappiamo che è proprio questa a rappresentare oggi, nel quadro dell’ideologia generale, la disciplina guida, che ispira l’antropologia, le scienze umane ecc., come un tempo lo fu l’economia politica, i cui postulati ispiravano profondamente tutta la psicologia, la sociologia e le scienze “morali e politiche”.

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2. Perciò, questa ipotesi è radicale solo in riferimento al marxismo ufficiale, che, interamente immerso nei modelli dominanti, e per la sua stessa sopravvivenza, si vieta anche di porsela. Ma l’alternativa radicale è altrove. Invece di reinterpretare il problema cruciale posto alla teoria rivoluzionaria dalla produzione del senso, dei messaggi e dei segni nei termini di quella delle forze produttive classiche – di generalizzare, cioè, un’analisi marxista considerata definitiva e garantita dal sigillo dei “portavoce della rivoluzione” –, l’alternativa è di trasformare radicalmente questa analisi, alla luce dell’irruzione, nel campo teorico, di questo problema (cosa che nessun marxista “degno del nome” farà mai, neanche a titolo di ipotesi). Per dirlo altrimenti: è possibile che la teoria marxista della produzione sia irrimediabilmente parziale e non si possa generalizzare. O ancora: la teoria della produzione (il nesso dialettico delle contraddizioni legato allo sviluppo delle forze produttive) è rigorosamente omogenea rispetto al proprio oggetto, e non è possibile trasferirla come postulato o quadro di riferimento teorico a contenuti che essa non si è mai posti.2 La forma dialettica è adeguata a un certo contenuto, la produzione materiale: di questa esaurisce il senso, ma non va oltre, come un archetipo, la definizione di tale oggetto. La dialettica va in pezzi in quanto si è posta come sistema di interpretazione dell’ambito separato della produzione materiale. Questa ipotesi si presenta, nell’insieme, come logica. Concede all’analisi marxista una coerenza globale, una omogeneità interna che vieta di conservarne taluni elementi, ma di escluderne altri, secondo una tecnica di bricolage che trova negli althusseriani i più sottili inventori di giochi d’artificio. Noi, al contrario, daremo atto alla teoria marxista del massimo di coerenza, e proprio perciò affermeremo che tale coerenza va spezzata, giacché ci lascia senza ri2. In questo caso l’espressione “industria della coscienza”, adoperata da Enzensberger per caratterizzare i mezzi contemporanei di comunicazione di massa, è una metafora pericolosa. E questa metafora sta alla base di tutta la sua ipotesi di analisi, che si propone di estendere ai media l’analisi marxista del modo di produzione capitalistico, sino a ritrovare una analogia strutturale nei rapporti: classe dominante/classe dominata, produttore-imprenditore/consumatore, emittente-trasmittente/ricettore.

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sposta di fronte a un processo sociale che va ben oltre quello della produzione (materiale).3 Enzensberger: una strategia “socialista” In mancanza di una teoria e di una strategia offensiva – dice Enzensberger – la “sinistra” rimane disarmata, e si contenta di denunziare la cultura generata dai mezzi di comunicazione di massa come manipolazione ideologica. Sogna di assumere il potere sui media, a volte come mezzo per aiutare la presa di coscienza rivoluzionaria delle masse, a volte come conseguenza di un cambiamento radicale delle strutture sociali: una velleità contraddittoria che riflette semplicemente l’impossibilità di integrare i media entro una teoria dell’infrastruttura e della sovrastruttura. In luogo di considerarli come un nuovo e gigantesco potenziale di forze produttive (Enzensberger), i media (e, occorre aggiungere, tutto il campo dei segni e della comunicazione) rimangono per la “sinistra” un mistero sociale. La “sinistra” si trova divisa tra un atteggiamento di fascinazione e un atteggiamento pratico nei confronti di questo incantesimo al quale non sfugge, ma che condanna intellettualmente e moralmente (ed è proprio l’“intellettuale di sinistra” che parla per bocca di Enzensberger e compie la propria autocritica). Questa ambivalenza si limita a riflettere la stessa ambivalenza dei mezzi di comunicazione di massa, senza superarla, né ridurla. Da buon sociologo marxista, Enzensberger imputa questa “fobia” degli intel3. In realtà l’analisi marxista può venir messa in questione a due diversissimi livelli: in quanto sistema di interpretazione dell’ordine separato della produzione materiale; oppure in quanto sistema di interpretazione dell’ordine separato della produzione (in generale). Nel primo caso, l’ipotesi della non pertinenza della dialettica al di fuori del suo campo “di origine” deve essere, da un punto di vista logico, spinta più lontano. Se infatti le contraddizioni “dialettiche” tra forze produttive e rapporti di produzione scompaiono in larga misura nel campo del linguaggio, dei segni e della ideologia, forse non sono state mai presenti neanche nel campo della produzione materiale, giacché un certo sviluppo capitalistico delle forze produttive ha potuto cancellare, se non ogni conflitto, certo gli antagonismi rivoluzionari al livello dei rapporti sociali. Qual è, allora, la validità di questi concetti, al di fuori di una coerenza meramente concettuale? Nel secondo caso, è alla sua stessa radice (e non nei suoi diversi contenuti) che occorre mettere in questione il concetto di produzione, con la forma separata che istituisce, con lo schema di rappresentazione e di razionalizzazione che impone. In ultima analisi, è certamente a questa conclusione che è necessario arrivare.

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lettuali e dei movimenti di sinistra alla loro origine borghese o piccolo-borghese: si difendono dalla cultura di massa perché manda in frantumi il loro privilegio culturale.4 Sia vero o falso questo riferimento, sarebbe più utile chiedersi quale responsabilità abbia, per questo disprezzo affascinato, per questa confusione tattica, per questo rifiuto all’impegno degli intellettuali di sinistra di fronte ai media, proprio il pregiudizio marxista, il suo idealismo pieno di nostalgia per l’infrastrutturale e la sua allergia teorica per tutto quanto non sia produzione “materiale” e “lavoro produttivo”. La dottrina “rivoluzionaria” non ha mai fatto un uso, se non meramente funzionale, dello scambio dei segni: per l’informazione, la diffusione, la propaganda. E i nuovi atteggiamenti in materia di relazioni pubbliche, tutta la subcultura modernista dei partiti di sinistra non contribuisce certo a romperla con questa tendenza: dimostrano anzi a sufficienza come l’ideologia borghese può affermarsi attraverso vie ben diverse dall’“origine sociale”. Il risultato di tutto ciò, secondo Enzensberger, è una schizofrenia politica della sinistra. Da una parte, tutta una frazione rivoluzionaria (sovversiva) si lancia nella esplorazione apolitica dei nuovi media (subcultura, underground), dall’altra i gruppi politici “militanti” vivono ancora, nell’essenziale, sulla base di un modo arcaico di comunicazione, rifiutano di “stare al gioco”, di sfruttare le enormi possibilità dei mezzi di comunicazione elettronici. Egli rimprovera altresì agli studenti del maggio ’68 di aver fatto ricorso a mezzi artigianali (le belle arti) per diffondere le loro parole d’ordine, e di avere occupato l’Odéon, vecchio serraglio della cultura, piuttosto che la televisione. Il pensiero di Enzensberger vuole presentarsi come ottimista e improntato all’offensiva. I media costituiscono oggi un monopolio delle classi dominanti, che li distorcono a loro vantaggio. Ma la loro

4. Troviamo questo genere di determinismo riduttivo in Bourdier e nella fraseologia del Partito comunista francese. Esso è privo di ogni valore teorico: fa del meccanismo di democratizzazione un valore di per se stesso rivoluzionario. Il fatto che gli intellettuali abbiano della ripugnanza per la cultura di massa non basta a fare di quest’ultima un’alternativa rivoluzionaria. Gli aristocratici hanno arricciato il naso allo stesso modo di fronte alla cultura borghese: ma ciò non ha certo impedito che questa fosse una cultura di classe.

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struttura rimane “fondamentalmente egualitaria”, e spetta alla pratica rivoluzionaria il compito di far emergere questa virtualità, che essi contengono, ma che la pratica capitalistica perverte: diciamo pure la parola, spetta alla pratica rivoluzionaria liberarli, restituirli alla loro vocazione sociale di comunicazione aperta e di scambio democratico illimitato, alla loro vera destinazione socialista. È chiaro che qui si tratta dello stesso schema impiegato da sempre, da Marx e Marcuse, per le forze produttive e per la tecnica, che costituirebbero la promessa della realizzazione dell’uomo, ma vengono bloccate o confiscate dal capitalismo: sono liberatrici, ma occorre liberarle.5 I media, a quanto pare, non sfuggono alla fantastica logica secondo la quale la rivoluzione sarebbe inscritta in filigrana nelle cose. Affidare i mezzi di comunicazione di massa alla logica delle forze produttive non rappresenta perciò un’azione critica, giacché altro non si fa in tal modo che imprigionarli nella metafisica rivoluzionaria. Come di consueto, un’impostazione di tal genere finisce per perdersi nelle sue contraddizioni. Da una parte i media, in base al loro stesso sviluppo (capitalistico), assicurano una socializzazione sempre più spinta – sebbene tecnicamente la cosa sia pensabile, non esiste un circuito chiuso televisivo per gli happy few “perché ciò andrebbe contro la struttura del mezzo televisivo” (against the grain of the structure) – “per la prima volta nella storia, i media rendono possibile una partecipazione di massa in un processo produttivo sociale e socializzato, una partecipazione i cui strumenti pratici sono nelle mani delle masse stesse” – dall’altra parte “i movimenti socialisti devono battersi, e si batteranno, per avere proprie lunghezze d’onda”. Perché battersi (e soprattutto per una lunghezza d’onda) se i mezzi di comunicazione di massa realizzano di per se stessi il socialismo? Se è questa la loro vocazione strutturale? L’ordine attuale – afferma Enzensberger sulla scia di Brecht (Teoria della radio, 1932), riduce i media a un semplice “strumento di distribuzione”; occorre farne un vero strumento di comunica5. Lo stesso accade con le istituzioni, con il potere, con lo stato: a seconda che essi si trovino nelle mani del Capitale, o che il popolo se ne appropri, si svuotano o si riempiono di un contenuto rivoluzionario, senza che ci si interroghi sulla loro forma.

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zione (sempre lo stesso sogno che ossessiona l’immaginazione marxista: strappare gli oggetti al loro valore di scambio e restituire loro il proprio valore d’uso), e questa trasformazione – aggiunge – “tecnicamente, non è un problema”. Ma: 1. È falso che i media rappresentino, nell’ordine attuale, uno strumento “di pura e semplice distribuzione”. Ancora una volta, in tal modo, non si fa che collegarli a una ideologia che trova altrove (nel modo di produzione materiale) le sue determinazioni. Per dirlo altrimenti: i media sarebbero un mezzo per la diffusione e la vendita dell’ideologia dominante; e da qui risulterebbe l’assimilazione del rapporto capitalista/salariato con il rapporto tra produttore/emittente dei media e masse fruitrici irresponsabili. Ma non è in quanto veicoli di un contenuto, bensì per la loro forma e per il loro stesso modo di operare che i media costituiscono un rapporto sociale che non è di sfruttamento, ma di astrazione, di separazione, di abolizione dello scambio. I media non sono coefficienti, ma operatori dell’ideologia. Non solo la loro destinazione non è rivoluzionaria, ma essi non sono neanche – in un’altra situazione, o virtualmente – neutri o non ideologici (questo non è che il fantasma del loro statuto “tecnico”, o del loro “valore d’uso” sociale). E reciprocamente, l’ideologia non esiste affatto in qualche altro luogo come discorso della classe dominante prima di venire investita nei media. La stessa cosa accade nella sfera delle merci: la sua realtà non è altrove (nel “valore d’uso del prodotto”), ma è unicamente nella forma che la merce assume nel funzionamento del sistema del valore di scambio. L’ideologia, perciò, non è qualcosa di immaginario che fluttua sotto il sigillo del valore di scambio, ma è la stessa operazione costitutiva del valore di scambio. Dopo aver eseguito il Requiem per la Dialettica, occorre eseguire quello per l’Infrastruttura e per la Sovrastruttura. 2. Ne consegue che quando Brecht ed Enzensberger affermano che la trasformazione dei media in un vero strumento di comunicazione non rappresenta un problema dal punto di vista tecnico (“non è – dice Brecht – che la naturale conseguenza del loro sviluppo tecnico”), occorre intendere, viceversa (e senza giocare con le parole), che non si tratta di un problema tecnico, giacché l’ideologia 77


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dei media si situa al livello della forma, della separazione che istituiscono, che è una divisione sociale. La parola senza risposta Ciò che caratterizza i mezzi di comunicazione di massa è il fatto che impediscono ogni mediazione, sono “intransitivi” – se siamo d’accordo che la comunicazione deve venir definita come uno scambio, come lo spazio reciproco di una parola e di una risposta, e perciò di una responsabilità; ma non certo di una responsabilità psicologica e morale, bensì di una correlazione tra l’uno e l’altro sul piano dello scambio: se la definiamo, cioè, come qualcosa di diverso dalla mera emissione/ricezione di un’informazione, anche nel caso che questa possa divenire reversibile attraverso la controreazione (feedback). Ma tutta l’attuale costruzione dei media è fondata sulla seguente definizione: essi sono ciò che proibisce per sempre una risposta, che rende impossibile ogni processo di scambio (tranne che sotto forma di una simulazione di risposta, una forma integrata al processo di emissione; ciò che non cambia nulla alla unilateralità della comunicazione). In questo consiste la loro vera astrazione; ed è su questa che si fonda il sistema di controllo sociale e di potere. Per comprendere bene il termine risposta, è necessario dargli un significato “forte”, riferendosi a quanto ne è l’equivalente nelle società “primitive”: il potere tocca a colui che può dare, e al quale non può essere restituito nulla. Dare, e fare in modo che non vi si possa restituire, significa rompere lo scambio a proprio profitto e istituire un monopolio: il processo sociale viene così a perdere il suo equilibrio. Restituire, al contrario, significa spezzare questa relazione di potere e istituire (o restituire), sulla base di una reciprocità antagonistica, il circuito dello scambio simbolico. Nella sfera dei media avviene la stessa cosa: vi si parla, ma si fa in modo che da nessuna parte possa esserci una risposta. Pertanto, la sola rivoluzione in questo campo – e in qualsiasi altro campo: la rivoluzione in ogni senso – consiste nella restituzione di questa possibilità di risposta. Questa semplice possibilità presuppone il rovesciamento di tutta l’attuale struttura dei media. Non esiste un’altra possibile teoria, o strategia. Ogni velleità di 78


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democratizzare i contenuti, di sovvertirli, di ridare “trasparenza al codice”, di organizzare una reversibilità dei circuiti, o di prendere il potere sui media, è senza speranza, ove non si spezzi il monopolio della parola, non certo per darla individualmente a ciascuno, ma perché la parola possa scambiarsi, darsi e restituirsi6 senza che mai la si possa fermare, bloccare, immagazzinare e ridistribuire in una qualche zona del processo sociale.7 Attualmente ci troviamo in una situazione di non risposta, di irresponsabilità. “Attività autonoma minima da parte dello spettatore o dell’elettore”, dice Enzensberger. In realtà il primo e il più efficace dei mezzi di comunicazione di massa è il sistema elettorale: il referendum ne rappresenta il coronamento, giacché la risposta è implicita nella domanda, come nei sondaggi di opinione. Si tratta di una parola che risponde a se stessa, simulando il processo di una risposta; e, ancora una volta, l’assolutizzazione di una parola sotto il travestimento formale dello scambio rappresenta la costituzione stessa del potere. Barthes ha segnalato la stessa non reciprocità nella letteratura: “La nostra letteratura è contrassegnata dal crudele divorzio tra il fabbricante e l’utente del testo, fra il suo proprietario e il suo cliente, tra l’autore e il lettore. Il lettore viene immerso in una specie di pigrizia, di non-reciprocità e, per così dire, di serietà: invece di giocare anche lui, di attingere pienamente all’incantesimo del significante…, non gli viene lasciata che la ben povera libertà di accogliere o di rifiutare il testo: la lettura è soltanto un referendum”. La situazione di consumatore definisce oggi questa forma di relegazione, e l’ordine generalizzato del consumo non è altro che un ordine nel quale non è più permesso dare, restituire, o scambiare, ma soltanto prendere e usare (appropriazione, valore d’uso individualizzato). In questo senso, i beni “di consumo” sono anch’essi un mezzo di comunicazione di massa: rispondono alla 6. Non si tratta del “dialogo”, che non è altro che un accomodamento funzionale di due parole astratte senza risposta, mentre i due “interlocutori” non sono mai presenti l’uno nei confronti dell’altro, ma l’unica presenza è il loro discorso modellizzato. 7. È chiaro che la conquista dell’ORFT [la radio-televisione francese] nel maggio ’68 non avrebbe cambiato nulla, tranne per la “diffusione” dei “contenuti” sovversivi; o viceversa per mandarla a picco in quanto tale, giacché tutta la sua struttura tecnica e funzionale riflette l’uso monopolistico della parola.

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forma generale che abbiamo descritto. Poco importa la loro funzione specifica: il consumo dei prodotti o dei messaggi; ciò che conta è la relazione sociale astratta che istituiscono, il divieto di ogni forma di risposta e di reciprocità. Perciò non è vero – come dice Enzensberger – che “per la prima volta nella storia, i media rendono possibile una partecipazione di massa in un processo produttivo sociale”, né che “gli strumenti pratici di questa partecipazione sono nelle mani delle masse stesse”. Come se il possesso di un’emittente televisiva o di una cinepresa aprisse una nuova possibilità di relazione e di scambio; a rigore, non più del possesso di un frigorifero o di un tostapane. Non esiste una risposta a un oggetto funzionale: la sua funzione è là, parola integrata alla quale si è già risposto, che non lascia alcuno spazio a un gioco reciproco, a una posta per cui si gareggi (a eccezione della possibilità di distruggerlo o di usarlo inmodo diverso dalla sua funzione).8 L’oggetto funzionale, come tutti i messaggi resi funzionali dai media o come il referendum, controlla perciò la rottura, l’emergere di un senso, e la censura. Al limite, il potere (se non fosse anch’esso ossessionato dai contenuti e convinto della forza di “persuasione” ideologica dei media, e perciò della necessità di un controllo dei messaggi) potrebbe offrire a ogni cittadino un televisore senza preoccuparsi dei programmi. In realtà, è inutile fantasticare su una distorsione poliziesca della televisione a opera del potere (Orwell, 1984): la televisione rappresenta, con la sua stessa presenza, il controllo sociale in casa propria. Non occorre affatto immaginarsela come il periscopio-spia del regime nella vita privata di ognuno. Essa è meglio di questo: è la certezza che le persone non parlino più tra loro, che siano definitivamente isolate di fronte a una parola senza risposta. In questo senso, McLuhan, che Enzensberger disprezza trattandolo da ventriloquo, si avvicina molto di più a una teoria allorché afferma che “il mezzo è il messaggio” (a parte il fatto che, del 8. La molteplicità delle funzioni non cambia assolutamente nulla a tale proposito. Multifunzionalità, pluridisciplinarità, polivalenza in tutte le forme non sono che la risposta del sistema alla sua ossessione di centralismo e di unitarietà. Si tratta di una reazione del sistema alla propria patologia: che non tocca, però, la sua logica.

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tutto cieco nei confronti della forma sociale di cui ci occupiamo, esalta i media e il loro messaggio planetario con un delirante ottimismo tribale). The medium is the message non è una proposizione critica, ma, nella sua forma paradossale, una proposizione analitica, mentre l’ingenuità di Enzensberger sulla “natura strutturale dei media”,9 per cui “nessun potere può permettersi di liberarne la potenzialità”, vuole apparire rivoluzionaria, ma in realtà è solo mistica: una mistica della predestinazione socialista dei media, opposta ma complementare al mito di Orwell della loro manipolazione terroristica a opera del potere. Lo stesso Dio sarebbe dalla parte del socialismo: sono i cristiani a dirlo. Strategia sovversiva e “azione simbolica” Si è obiettato che, nel 1968, i mezzi di comunicazione di massa avevano assolto a una funzione importante, amplificando spontaneamente il movimento rivoluzionario. Almeno in una certa fase dell’azione si sarebbero (involontariamente) ribaltati contro il potere. Su questi interstizi e su questo possibile ribaltamento si fonda la strategia sovversiva degli yippies americani (Hoffman, Rubin), ed è stata elaborata, nei movimenti rivoluzionari mondiali, la teoria dell’“azione simbolica”. Deviare i mezzi di comunicazione di massa avvalendosi del loro potere di reazione a catena; utilizzare la loro funzione di generalizzazione istantanea dell’informazione. Si sottintende che l’effetto dei media è reversibile, e costituisce una variante della lotta di classe che occorre saper integrare a proprio vantaggio. Bisogna interrogarsi su queste posizioni, che potrebbero rappresentare ancora una volta una grande illusione strategica. Il maggio ’68 può valere come esempio. Tutto può far pensare a un effetto sovversivo dei media durante quei giorni. Le radio periferiche, i giornali, hanno dato ovunque un’eco all’azione degli studenti. Se questa è stata il detonatore, i media ne sono stati la cassa di risonanza. Il potere, del resto, non ha mancato di accusarli di “fare 9. Enzensberger dà la seguente interpretazione: il mezzo è il messaggio è un’affermazione borghese, e sta a significare che la borghesia non ha più nulla da dire. Poiché non ha più alcun messaggio da trasmettere, gioca la carta del mezzo-per-il-mezzo. Ma se la borghesia non ha più nulla da dire, il “socialismo” farebbe meglio a tacere.

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il gioco” dei rivoluzionari. Ma questa diffusa opinione si basa sulla mancanza di un’analisi. Al contrario, direi che mai come allora i media abbiano assolto al loro ruolo e siano stati, nella loro funzione abituale di controllo sociale, all’altezza degli avvenimenti. E questo perché hanno conservato (nella trasformazione dei contenuti) la loro forma; ed è questa forma, qualunque sia il contesto, che li rende inevitabilmente solidali con il sistema di potere. Col diffondere l’evento nell’universo astratto dell’opinione pubblica, gli hanno imposto uno sviluppo improvviso e fuori di misura, e, con questa estensione forzata e anticipata, hanno spogliato il movimento originario del suo proprio ritmo e del suo senso: in una parola, lo hanno messo in cortocircuito. Nel campo tradizionale della politica (di sinistra o di destra)10 nel quale si scambiano modelli consacrati e una parola canonica, i media trasmettono senza alterare il senso. Sono omogenei a questo tipo di parola, come lo sono alla circolazione delle merci. Ma la trasgressione e la sovversione non passano sulle onde senza venir sottilmente negate in quanto tali: trasformate in modelli, neutralizzate in segni, vengono svuotate del loro senso.11 Non esiste, della trasgressione, né un modello, né un prototipo, né una riproduzione in serie. Farle una pubblicità mortale è perciò il miglior modo di diminuirla. In un primo momento questa operazione può far credere a risultati “spettacolari”; ma in realtà equivale a smantellare il movimento, impedendolo nel proprio specifico impulso. L’atto di rot10. Nel campo dei media questa distinzione non ha più senso; bisogna anzi dar loro atto di aver largamente contribuito a eliminarla. Essa è propria di un ordine caratterizzato dalla trascendenza del momento politico, e non ha niente a che vedere con ciò che si annunzia, nelle forme più varie, come trasversalità della politica. Ma non bisogna lasciarsi ingannare: i mezzi di comunicazione di massa contribuiscono sì a liquidare la trascendenza della politica, ma solo per sostituirvi la propria trascendenza: una trascendenza astratta che è tipica della forma dei media, e che è definitivamente integrata al punto da non offrire più una struttura conflittuale (sinistra/destra). La trascendenza dei media si presenta dunque come riduttiva nei confronti della tradizionale trascendenza della politica, ma lo è ancora di più nei confronti della nuova “trasversalità” del momento politico. 11. Possiamo analizzare altrettanto bene questa forma di “divulgazione” o di “propagazione” nel campo della scienza e dell’arte. La riproducibilità generalizzata nasconde il processo del lavoro e del senso per darci unicamente contenuti modellizzati (cfr. R. Ergmann, Le miroir en miettes, “Diogène”, 68, 1969; e B. Jurdant, Vulgarisation scientifique et idéologie, “Communications”, 14, 1969).

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tura si è trasformato in modello burocratico a distanza – ed è proprio questo il modo di operare dei media.12 Ciò appare chiaramente nella dislocazione e nella distorsione del termine “simbolico”. L’azione del “22 marzo” a Nanterre era simbolica perché era trasgressiva, perché in un determinato momento e in un determinato luogo inventava una rottura radicale, ovvero, per riprendere l’analisi prima proposta, inventava una risposta là dove l’istituzione del potere amministrativo e pedagogico era il solo a parlare e aveva la funzione di non permettere alcuna risposta. Non è affatto per la diffusione e il contagio attraverso i mezzi di comunicazione di massa che l’azione è stata simbolica. Oggi, tuttavia, è sempre più quest’ultima accezione (l’effetto della divulgazione), a venir considerata sufficiente a definire l’azione simbolica. Al limite, l’azione sovversiva è prodotta soltanto in funzione della sua riproducibilità.13 Non la si inventa più, ma la si produce immediatamente come modello, come gesto. L’aspetto simbolico è scivolato dall’ordine della stessa produzione di senso (politico, o altro), all’ordine della sua riproduzione, che è sempre quello del potere. L’azione simbolica diventa un puro e semplice coefficiente simbolico, la trasgressione diventa valore di scambio. 12. Occorre segnalare che questo lavoro si accompagna sempre con un lavoro di selezione e di reinterpretazione al livello del gruppo di appartenenza (il two-step flow of communication di Lazarsfeld). Da qui deriva la pregnanza estremamente relativa dei contenuti dei media, e le molteplici resistenze che essi provocano (ma bisognerebbe chiedersi se queste resistenze non riguardino, piuttosto che i contenuti, il carattere astratto proprio dei media: la “doppia articolazione” di Lazarsfeld ci indurrebbe a pensare proprio questo, giacché la doppia articolazione che si oppone al messaggio generalizzato dei media, sarebbe costituita dalla rete delle relazioni personali). Tuttavia, questa “seconda” lettura, nella quale il gruppo di appartenenza contrappone il proprio codice a quello degli emittenti (vedi, più avanti, la tesi di Umberto Eco), non riesce certo a neutralizzare, a “ridurre” i contenuti ideologici dominanti nella stessa misura di quanto avviene con i contenuti critici o sovversivi. Nella misura in cui i primi (modelli culturali, sistemi imposti di valori, senza alternativa né risposta, contenuti burocratici) sono omogenei alla forma generale dei mezzi di comunicazione di massa (non-reciprocità, irresponsabilità) e vi si integrano, rafforzandola, avviene come un effetto di sovradeterminazione e dunque di maggiore pregnanza dei contenuti ideologici dominanti. Questi “passano” meglio dei contenuti sovversivi. Ma non è questo l’essenziale: ciò di cui bisogna essere consapevoli è che la forma della trasgressione non “passa più o meno bene”, ma è radicalmente negata dalla forma dei media. 13. Così, per Walter Benjamin (L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità), l’opera riprodotta diventa sempre più l’opera “concepita” in funzione della sua riproducibilità (designed for reproducibility). E così, secondo lui, l’opera passa dal carattere rituale a quello “politico”. Il “valore di esibizione” rivoluziona l’opera d’arte e le sue funzioni.

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Tutto il pensiero critico razionalista (Benjamin, Brecht, Enzensberger) vede in ciò un decisivo progresso. I media attualizzano e rafforzano la “natura dimostrativa di una qualsiasi azione politica” (Enzensberger). Ciò è in linea con la concezione didattica della rivoluzione, e, ancora più in là, con la “dialettica della presa di coscienza”, ecc. Questo pensiero razionalista non ha rinnegato il pensiero borghese dell’Illuminismo, ed è l’erede di tutte le sue concezioni sul valore democratico (nel nostro caso rivoluzionario) della diffusione dei “lumi”. Nella sua illusione pedagogica questo pensiero dimentica che se l’azione politica si rivolge deliberatamente ai media e si aspetta da questi il suo potere, i media, a loro volta, guardano all’azione politica per spoliticizzarla. Possiamo osservare, in appoggio alla nostra tesi, un fatto interessante: l’irruzione contemporanea dei “fatti diversi” nella sfera della politica (ciò che converge con l’idea di Benjamin del passaggio dell’opera d’arte allo stadio politico mediante la sua riproducibilità). Una mareggiata nel Pakistan, un incontro di pugilato tra neri negli Stati Uniti, il padrone di un’osteria che spara su un giovane, ecc., questo tipo di avvenimenti, una volta considerati minori e apolitici, vengono investiti da una forza di diffusione che dà loro una portata sociale e “storica”. Non vi è dubbio che il senso nuovo assunto da questi avvenimenti, l’attribuzione di un carattere conflittuale a incidenti che un tempo facevano parte della cronaca, e nei quali si cristallizzano nuove forme della politica, siano in gran parte effetto dei media. Questi fatti diversi sono “azioni simboliche” non volute, ma che rientrano nel medesimo processo di significazione politica. E non può esservi dubbio che essi vengano recepiti in modo ambiguo, e che se, grazie ai media, la politica riemerge sotto la categoria dei fatti diversi, è anche vero che, grazie ai media, la categoria dei fatti diversi invade ovunque la politica. Il fatto diverso, del resto, con l’estensione dei mezzi di comunicazione di massa, si presenta con uno statuto mutato: da categoria parallela (derivata dagli almanacchi e dalle cronache popolari) si è trasformato in sistema totale di interpretazione mitologica, fitto reticolato di modelli di significazione, al quale non sfugge nessun avvenimento. È questo che caratterizza i mezzi di comunicazione di massa: non si 84


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tratta di un insieme di tecniche per la diffusione di messaggi, ma della imposizione di modelli. Occorre a questo punto rivedere la formula di McLuhan: l’espressione the medium is the message compie un trasferimento di senso sul mezzo stesso in quanto struttura tecnologica. Siamo ancora nell’ambito dell’idealismo tecnologico. In realtà il grande mezzo di comunicazione di massa è il modello. Ciò che viene comunicato attraverso i media non è quanto è trasmesso dalla stampa, dalla televisione, dalla radio, ma quanto è ristrutturato dalla forma/segno, articolato in modelli, retto da un codice; così come la merce non è ciò che viene prodotto industrialmente, ma ciò che passa attraverso la mediazione del sistema di astrazione del valore di scambio. È chiaro che, al più, sotto il segno dei media, si può verificare il superamento formale delle categorie dei fatti diversi e della politica e della loro tradizionale separazione, ma per attribuirle meglio entrambe allo stesso codice generale. È strano che non si sia mai voluto valutare la portata strategica di questa socializzazione forzata come sistema di controllo sociale. Ancora una volta, il sistema elettorale ne è il primo grande esempio storico. Né sono mai mancati i rivoluzionari (un tempo tra i maggiori, oggi tra i minori) che hanno creduto di poterlo “utilizzare”. Anche lo sciopero generale, mito insurrezionale di tante generazioni, è divenuto uno schema riduttivo. Quello del 1968, cui i media hanno largamente contribuito, esportando lo sciopero in ogni angolo della Francia, rappresentò apparentemente il momento culminante della crisi, ma in realtà ne fu il momento di attenuazione, di asfissia a causa della sua stessa estensione, della disfatta. Di questo sciopero passato attraverso i media, trasmesso e ricevuto come un modello di azione (sia dai media che dai sindacati) non si è più saputo che cosa farsene. Azione in certo senso astratta, lo sciopero ha neutralizzato le forme di azione locali, trasversali, spontanee (anche se non tutte). Non sono stati gli accordi di Grenelle a tradirlo: hanno solo sancito il passaggio a un’azione politica generalizzata che pone termine alla singolarità dell’azione rivoluzionaria. Oggi (sotto la forma dell’estensione calcolata dello sciopero) questo modello di azione è diventato l’arma assoluta dei sindacati contro gli scioperi selvaggi. 85


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Il sistema elettorale, lo sciopero generale sono, in qualche modo, anch’essi dei media. Poiché puntano sulla socializzazione formale, estensiva, rappresentano le istituzioni più sottili e più sicure di decantazione, di smantellamento e di censura. Non esistono né eccezioni, né miracoli. Il vero mezzo di comunicazione rivoluzionario nel Maggio sono stati i muri e la loro parola, le serigrafie o i manifesti scritti a mano, la strada ove la parola si riceve e si scambia, tutto ciò che è iscrizione immediata, data e restituita, parlata e seguita da una risposta, mobile, presente nello stesso tempo e nello stesso luogo, reciproca e antagonistica. In questo senso, la strada è la forma alternativa e sovversiva di tutti i mezzi di comunicazione di massa, giacché, al contrario di questi, non è un supporto oggettivato di messaggi senza risposta, nodo di transito a distanza, ma è lo spazio aperto dello scambio simbolico della parola, effimera e mortale, della parola che non si riflette per nulla sullo schermo platonico dei media. Una volta istituzionalizzata dalla riproduzione, trasformata in spettacolo dai media, questa parola muore. È dunque un’illusione strategica il credere a una dislocazione critica dei media. La parola cui ci siamo riferiti passa oggi attraverso la distruzione dei media in quanto tali, la loro demolizione in quanto sistema di non comunicazione. Ciò non implica affatto la loro liquidazione, come la critica radicale del discorso non implica la negazione del linguaggio in quanto materiale significante. Ma implica certamente la liquidazione di tutta la loro struttura attuale, funzionale e tecnica, della loro forma operativa, se così si può dire, che riflette in ogni caso la loro forma sociale. Al limite, certo, è lo stesso concetto di mezzo di comunicazione di massa che deve sparire, e sparirà: la parola scambiata, lo scambio reciproco e simbolico, nega la nozione e la funzione dei media, dell’intermediario. Può implicare un dispositivo tecnico (suono, immagine, onde, energia ecc.), o anche un dispositivo corporeo (gesti, linguaggio, sensualità), ma in questo caso un tale dispositivo non agisce più come un “mezzo”, come un sistema autonomo retto da un codice. La reciprocità passa attraverso la distruzione del mezzo di comunicazione di massa in quanto tale. “Si incontrano finalmente 86


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i propri vicini quando si contempla con loro la propria casa incendiata” (Jerry Rubin, Do it). Il modello teorico della comunicazione Ricapitoliamo le diverse ipotesi: 1. McLuhan (per promemoria): i media fanno, sono, la rivoluzione, indipendentemente dal loro contenuto, a causa della loro sola struttura tecnica. Dopo l’alfabeto e il libro, la radio e il cinema. Dopo la radio, la televisione. Siamo già fin da ora nell’era della comunicazione immediata e planetaria. 2. I media sono controllati dal potere. È necessario strapparglieli, sia attraverso la conquista del potere, sia trasformandoli mediante un aumento spettacolare dei contenuti sovversivi. In tal caso i media sono considerati unicamente come messaggio; la loro forma non è messa in questione (non lo è neanche in McLuhan in cui essi sono considerati solo in quanto mezzi). 3. Enzensberger: la forma attuale dei media provoca un certo tipo di rapporto sociale (assimilabile a quello del modo di produzione capitalistico). Ma in essi, per la loro struttura e il loro sviluppo, vi è la potenzialità di un modo socialista e democratico di comunicazione, di una razionalità e di una universalità dell’informazione. È perciò sufficiente liberare questa potenzialità. Ci interessano unicamente (non parliamo della pratica della sinistra ufficiale, marxista o meno, che si confonde con quella della borghesia) l’ipotesi di Enzensberger (marxista illuminato), e quella della sinistra radicale americana (di estrema sinistra, spettacolare). Le abbiamo analizzate come illusioni strategiche, in quanto entrambe condividono con l’ideologia dominante un implicito riferimento a una stessa teoria della comunicazione: una teoria accettata ovunque, forte dell’evidenza che ha ricevuto e per la formalizzazione altamente “scientifica” che le ha dato una disciplina, la semiolinguistica della comunicazione, che poggia da un lato sulla linguistica strutturalista, dall’altro sull’informatica, avallata nelle università e nella cultura di massa (coloro che agiscono all’interno dei mezzi di comunicazione di massa se ne leccano le labbra). Tutta l’infrastruttura concettuale di questa teoria è ideologicamente soli87


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dale con la pratica dominante, come lo è stata e lo è ancora quella dell’economia politica borghese nel campo della comunicazione. Personalmente ritengo che, se la pratica rivoluzionaria non è andata al di là di un’illusione strategica sui media, ciò è accaduto perché non ha compiuto che un’analisi critica superficiale, senza mai giungere alla critica radicale della matrice ideologica rappresentata dalla teoria della comunicazione. Questa, formalizzata in particolare da Jakobson, assume come unità di base la sequenza: EMITTENTE – MESSAGGIO – RICETTORE

(CODIFICATORE – MESSAGGIO – DECODIFICATORE) Il messaggio è strutturato dal codice e determinato dal contesto; mentre a ognuno di questi “concetti” corrisponde una funzione specifica: referenziale, poetica, fatica ecc. Ogni processo di comunicazione si svolge così a senso unico: dall’emittente al ricettore: quest’ultimo può divenire a sua volta emittente, il medesimo schema si riproduce, poiché la comunicazione si può sempre ridurre a questa unità semplice in cui i due termini opposti non si scambiano tra loro. Questa struttura viene presentata come obiettiva e scientifica, in quanto segue la regola del metodo: scomporre il suo oggetto in elementi semplici. In realtà essa si limita a formalizzare un dato empirico, è un’astrazione dell’evidenza e della realtà del vissuto: cioè le categorie ideologiche mediante le quali si esprime un certo tipo di rapporto sociale, precisamente quello in cui uno parla e l’altro no, in cui uno sceglie il codice e l’altro ha l’unica libertà di sottomettervisi o di astenersi. Questa struttura si fonda sulla stessa arbitrarietà di quella della significazione: due termini vengono isolati artificialmente e altrettanto artificialmente riuniti mediante un contenuto oggettivato definito messaggio. Non esiste né una relazione reciproca né una presenza, l’uno rispetto all’altro, dei due termini,14 giacché 14. I due termini sono così poco presenti a vicenda che è stato necessario creare una categoria di “contatto” per ricostituire teoricamente l’insieme!

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l’uno e l’altro si determinano in modo isolato rispetto al messaggio e al codice, “intermediario” che mantiene i due termini in una posizione rispettiva (è il codice che li tiene entrambi “a rispetto”), a distanza l’uno dall’altro: una distanza colmata dal “valore” pieno e autonomo del messaggio (in realtà il suo valore di scambio). Questa costruzione “scientifica” istituisce pertanto un modello di simulazione della comunicazione, dal quale sono esclusi immediatamente la reciprocità, l’antagonismo di chi vi prende parte, o l’ambivalenza del loro scambio. Ciò che in realtà circola è solo un’informazione, il cui contenuto si suppone abbia un senso leggibile e univoco. L’istanza del codice garantisce questa univocità, e perciò stesso le rispettive posizioni del codificatore e del decodificatore. Ogni cosa è al suo posto: la formula possiede una coerenza formale che la garantisce come l’unico schema possibile della comunicazione. Ma basta supporre una reazione ambivalente per far crollare tutto, giacché non esiste un codice dell’ambivalenza. Se non vi è un codice, non esistono un codificatore e un decodificatore: le figure scompaiono. Ma non vi è più neanche il “messaggio”, giacché questo viene definito come “emesso” e “ricevuto”. Tutta la formalizzazione serve solo a evitare questa catastrofe: in ciò consiste la sua “scientificità”. Ciò che in realtà essa fonda è il terrorismo del codice. Il codice, in questo schema obbligato, diviene la sola istanza che parla, che si scambia e si riproduce attraverso la dissociazione dei due termini e l’univocità (o l’equivocità o la multivocità, ciò non ha importanza: attraverso la non ambivalenza) del messaggio. (Allo stesso modo, nel processo economico dello scambio, non sono delle persone che scambiano, ma il sistema del valore di scambio che si riproduce attraverso di esse.) Questa formula di base della comunicazione riesce così a dare, come in un modello ridotto, una sintesi perfetta dello scambio sociale quale esso è, quale, in ogni caso, l’astrazione del codice, la razionalità forzata e il terrorismo della separazione lo regolano. Ecco l’oggettività della scienza. Separazione e chiusura: siamo già al medesimo schema che agisce al livello del segno nella teoria linguistica, in cui ogni segno è squartato vivo in un significante e un significato, attribuiti uno al89


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l’altro, ma in posizione “rispettiva”, e ogni segno “comunica”, dal fondo del suo arbitrario isolamento, con tutti gli altri, mediante un codice chiamato lingua. Anche in questo caso viene lanciato l’interdetto della scienza sulla possibilità, per i termini, di scambiarsi simbolicamente, al di là della distinzione significante/significato, come avviene, per esempio, nel linguaggio poetico. In quest’ultimo, come nello scambio simbolico, i termini si rispondono al di là del codice. È un tipo di risposta che abbiamo sottolineato nel nostro testo, in quanto demolisce ogni codice, ogni controllo, ogni potere, i quali, al contrario, si fondano sulla separazione dei termini e sulla loro articolazione astratta. Così, la teoria della significazione serve da modello nucleare alla teoria della comunicazione, e l’arbitrarietà del segno (questo schema teorico della repressione del senso) assume tutta la sua portata politica e ideologica nell’arbitrarietà dello schema teorico della comunicazione e dell’informazione. E quest’ultimo si ripercuote, come abbiamo visto, non solo nella pratica sociale dominante (caratterizzata dal virtuale monopolio del polo emittente e dalla irresponsabilità del polo ricettore, dalla discriminazione dei termini dello scambio e della dittatura del codice), ma anche, senza che essa ne abbia coscienza, attraverso ogni velleità di una pratica rivoluzionaria dei media. È chiaro, per esempio, che tutti coloro che mirano a sovvertirne i contenuti non fanno che rafforzare nella sua autonomia la nozione separata di messaggio, e pertanto l’astratta bipolarità dei termini della comunicazione. L’illusione cibernetica Enzensberger, sensibile alla non reciprocità del processo attuale, ritiene di poter porvi rimedio esigendo che, al livello dei media, si verifichi lo stesso tipo di rivoluzione che ha sconvolto le scienze esatte e la relazione soggetto/oggetto nella conoscenza, ormai impegnate in una continua reazione reciproca “dialettica”. I media dovrebbero assumersi tutte le conseguenze della reazione reciproca, e questo avrebbe come effetto la rottura del monopolio e la possibilità di integrare tutti in un processo aperto. “I programmi dell’industria della coscienza devono integrare in se stessi i propri 90


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risultati, le reazioni, e le correzioni che queste esigono […]. È necessario concepirli non come mezzi di consumo, ma come mezzi della loro stessa produzione.” Tuttavia, questa seducente prospettiva: 1. lascia intatta l’istanza separata del codice e del messaggio, 2. ma tenta di rompere la discriminazione fra i due poli della comunicazione, andando verso una struttura più articolata di scambi di ruoli e di retroazioni (“reversibilità dei circuiti”). “Nella loro forma attuale, dispositivi quali la televisione o il film non servono alla comunicazione, ma la bloccano. Da un punto di vista tecnico riducono la controreazione al tasso minimo compatibile con il sistema.” Anche in questo caso non si va al di là delle categorie di “emittente” e di “ricettore”, qualunque sforzo poi si faccia per mobilitarli per “avvicendamento”. La reversibilità non ha nulla a che vedere con la reciprocità. È senza dubbio a causa di questa ragione profonda che i sistemi cibernetici si danno volentieri da fare per attuare oggi questa regolazione complessa, questa controreazione, senza cambiare nulla dell’astrazione del processo complessivo, né permettere in qualsiasi modo una reale “responsabilità” nello scambio. Non è più possibile, in realtà, concepire, come dimostra Enzensberger nella sua critica del mito di Orwell, un supersistema centralizzato di controllo (un sistema di controllo dell’attuale sistema telefonico dovrebbe superarlo n volte in complessità, ed è pertanto praticamente escluso). Ma è abbastanza ingenuo che in tal modo la censura venga liquidata dall’estensione dei media. Anche a lungo termine, l’impossibilità dei supersistemi polizieschi significa semplicemente che i sistemi attuali integrano in se stessi, mediante la controreazione, i metasistemi di controllo ormai inutili. Sono in grado di introdurre ciò che li nega come variabile supplementare. Nel loro stesso modo di operare rappresentano la censura: non hanno bisogno di metasistemi. Non cessano perciò di essere totalitari: in certo qual modo realizzano l’ideale di ciò che si potrebbe definire un totalitarismo decentralizzato. A un livello più pratico, i media sanno benissimo mettere in opera una “reversibilità” formale dei circuiti (posta dei lettori, inter91


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venti telefonici degli ascoltatori, sondaggi di opinione, ecc.), senza lasciare spazio ad alcuna risposta, senza modificare in nulla la distinzione dei ruoli.15 È la forma sociale e politica della controreazione. Pertanto, Enzensberger rimane sempre, nella sua “dialettizzazione” della comunicazione, così stranamente simile alla regolazione cibernetica, vittima, anche se in modo più sottile, del modello ideologico del quale parliamo. Nella medesima prospettiva: rompere l’unilateralità della comunicazione, che si traduce in pari tempo con il monopolio degli specialisti e degli addetti ai lavori e del nemico di classe sui media, Enzensberger propone, come soluzione “rivoluzionaria”, che ognuno divenga un manipolatore, nel senso di operatore attivo, di tecnico del montaggio, ecc.; che passi, in breve, dalla situazione di ricettore a quella di produttore emittente. Si tratta, in certo senso, di una dislocazione critica del concetto ideologico di manipolazione. Ma, anche in questo caso, poiché questa “rivoluzione” mantiene alla base la categoria di “emittente”, contentandosi di generalizzarla, ma lasciandola separata, e facendo di ciascuno il suo proprio emittente, non dà affatto scacco al sistema delle comunicazioni di massa. Si sa bene che cosa risulti dal fatto che ognuno possiede il suo ricetrasmettitore, o la sua Kodak, e giri da sé i propri film: il dilettantismo personalizzato, l’equivalente del bricolage domenicale alla periferia del sistema.16 Evidentemente Enzensberger non vuole che accada questo: egli pensa a una stampa redatta, distribuita, elaborata dai suoi stessi lettori (come, in parte, la stampa underground), a reti televisive a disposizione dei gruppi politici, ecc. 15. Anche in questo caso Enzensberger, che analizza e denunzia questi circuiti di controllo, vuole accattivarseli idealisticamente: “Ma ciò, naturalmente (!), va contro la struttura, e le nuove forze produttive non solo permettono ma esigono (!) il rovesciamento di questa tendenza”. Retroazione e interazione costituiscono la logica stessa della cibernetica, e ci si illude del pari sottovalutando le possibilità del sistema di integrare queste innovazioni “rivoluzionarie”, e sottovalutando la capacità del capitalismo di sviluppare le forze produttive. 16. Enzensberger si avvale dell’argomento che la Rank Xerox conserva il monopolio della fotocopiatura elettrostatica con carta normale (possibilità generale di “free press”) e non accetta che di affittare le sue fotocopiatrici a prezzo esorbitante. Ma se tutti avessero la propria macchina Rank Xerox, o la propria lunghezza d’onda, l’essenziale non consisterebbe in questo. Il vero monopolio non è mai quello dei mezzi tecnici, ma quello della parola.

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Sarebbe questo il solo modo di sbloccare una situazione cristallizzata: “Nei movimenti socialisti la dialettica tra disciplina e spontaneità, tra centralismo e decentralizzazione, tra direzione autoritaria e disintegrazione antiautoritaria ha raggiunto da molto tempo un punto morto. Unicamente dei modelli di reti di comunicazione fondati sul principio della reversibilità dei circuiti potrebbero permettere di superare una tale situazione”. Si tratta, dunque, di far risorgere una pratica dialettica. Ma può il problema continuare a essere posto in termini dialettici? Non è forse la stessa dialettica che è giunta a un punto morto? Gli esempi forniti da Enzensberger sono interessanti, in quanto vanno al di là di una “dialettica” tra emittente e ricettore. Vi si ritrova, in realtà, un processo di comunicazione immediata, non filtrata attraverso modelli burocratici, una forma di scambio originale, in quanto di fatto non vi sono più né emittenti né ricettori. In tal modo il problema della spontaneità e dell’organizzazione non viene superato dialetticamente, ma ne vengono trasgrediti i suoi stessi termini. In ciò consiste la differenza essenziale: le altre ipotesi lasciano sussistere le categorie separate. Nel primo caso (la diffusione a livello privato dei media), emittente e ricettore vengono semplicemente riuniti nella stessa persona: la manipolazione è, in certo qual modo, “interiorizzata”.17 Nel secondo caso (la “dialettica dei circuiti”), emittente e ricettore si trovano contemporaneamente dalle due parti: la manipolazione è diventata reciproca (combinazione ermafrodita). Il sistema può giocare su questi due piani, oltre che su quello del modello burocratico classico. Può giocare su tutte le combinazioni possibili delle due categorie. L’essenziale è che siano salve queste due categorie ideologiche, e con esse la struttura fondamentale dell’economia della comunicazione. Ancora una volta, nella relazione reciproca di scambio vi è una risposta simultanea, non vi sono né emittente, né ricettore a un polo e all’altro del messaggio, e non vi è neanche un “messaggio”, 17. Questo è il motivo per cui il cineasta dilettante, individuale, rimane nell’astrazione separata della comunicazione di massa. A causa della dissociazione interna tra le due istanze, tutto il codice e i modelli dominanti si sommano e si impadroniscono della sua pratica.

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vale a dire un insieme di informazioni da decifrare in modo univoco sotto l’egida di un codice. Il simbolico consiste precisamente nel fatto di rompere questa univocità del “messaggio”, nel restituire l’ambivalenza del senso, nel liquidare in pari tempo l’istanza del codice. Ciò ci può aiutare a dare un giudizio sull’ipotesi di Umberto Eco.18 In breve, egli afferma che non serve a nulla cambiare i contenuti del messaggio; è invece necessario modificare i codici di lettura, imporre altri codici di lettura. Il ricettore (che in realtà non è più tale) interviene in tal modo sul punto essenziale, oppone il suo proprio codice a quello dell’emittente, inventa una vera risposta sfuggendo all’inganno della comunicazione diretta dall’alto. Ma che cosa sarebbe questa lettura “sovversiva”? Sarebbe ancora una lettura, vale a dire una decifrazione, l’individuazione di un senso univoco? E qual è il codice che viene contrapposto? Un minicodice del singolo (un idioletto, che sarebbe allora senza interesse), o di nuovo uno schema che dirige la lettura? In quest’ultimo caso ci troveremmo unicamente di fronte a una variazione testuale. Un esempio può chiarire la prospettiva di Eco: la dislocazione della pubblicità mediante i graffiti, dopo il maggio ’68: un fatto trasgressivo non in quanto sostituisce un altro contenuto, un altro discorso, ma proprio perché risponde, là, nel posto stesso, e spezza la regola fondamentale di tutti i mezzi di comunicazione di massa: la non risposta. Vi è qui opposizione di un codice a un altro codice? Non lo penso affatto: vi è semplicemente una rottura del codice. Non propone una sua decifrazione come testo concorrente al discorso pubblicitario, ma si presenta come trasgressione. Così, il motto di spirito, dislocazione del discorso a carattere trasgressivo, non si fonda su un altro codice, ma sulla destrutturazione istantanea del codice discorsivo dominante. Volatilizza sia la categoria di codice, sia quella di messaggio. La chiave del problema è qui: se si vuol conservare (non importa se “superandola dialetticamente”) una qualsiasi delle istanze separate della griglia strutturale della comunicazione, ci si vieta di 18. Cfr. U. Eco, La struttura assente, Bompiani, Milano 1968.

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cambiare alcunché di fondamentale e ci si condanna a fare uso di fragili pratiche di manipolazione che sarebbe pericoloso scambiare per una “strategia rivoluzionaria”. Ha carattere strategico, in questo campo, soltanto ciò che dà scacco radicalmente alla forma dominante.

Traduzione dal francese di Mario Spinella

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L’implosione del senso nei media e l’implosione del sociale nelle masse [1979] JEAN BAUDRILLARD

i troviamo in un universo nel quale si dà sempre più informazione e sempre meno senso.

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Tre ipotesi, allora: – o l’informazione produce senso (fattore anti-entropico), ma non riesce a compensare la brutale dispersione di significazione che avviene in ogni campo. In questo caso si può ben continuare a reintrodurre messaggi e contenuti, a forza di media, ma la dispersione, il risucchiamento di senso, avanzano più velocemente della sua reintroduzione. Stando così le cose, occorre fare appello a una produttività di base, in modo da compensare l’insufficienza dei media. Questa è tutta l’ideologia della parola libera, dei media demoltiplicati in innumerevoli cellule individuali di emissione, e quindi anche degli “anti-media”; – o l’informazione non ha nulla a che vedere con la significazione. È un’altra cosa, un modello operativo di altro ordine, esterno rispetto al senso e alla circolazione del senso propriamente detta. Questa è l’ipotesi di Shannon: una sfera dell’informazione puramente strumentale, medium tecnico che non implica alcuna finalità di senso, e che dunque non deve neanche essere implicata in un giudizio di valore. Una sorta di codice, come può esserlo il codice genetico: esso è quel che è, funziona come funziona, mentre il senso è tutt’altro, una cosa che in un certo senso sopraggiunge in seguito, come nel Caso e la necessità secondo Monod. Stando così le cose, non ci sarebbe, molto semplicemente, 96

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alcuna relazione significativa tra l’inflazione dell’informazione e la deflazione del senso; – oppure, al contrario, c’è una correlazione rigorosa e necessaria tra informazione e senso, nella misura in cui l’informazione distrugge in modo diretto, o neutralizza il senso e la significazione. La dispersione del senso è allora direttamente connessa con l’azione dissolvente, dissuasiva, dell’informazione dei media e dei mass media. Questa è certo l’ipotesi più interessante, ma essa si oppone a ogni accezione corrente. Si pensa sempre infatti che la socializzazione possa essere misurata attraverso il grado di esposizione ai messaggi dei media. Desocializzato, o virtualmente asociale, sarà dunque colui che è sotto-esposto ai media. Si presume sempre che l’informazione produca una circolazione accelerata del senso, un plusvalore di senso omologo al plusvalore economico che deriva dalla rotazione accelerata del capitale. L’informazione viene presentata come creatrice di comunicazione, e anche se lo spreco è immenso, un consenso generale pretende che nell’insieme del processo risulti in ogni caso un eccesso di senso, il quale si ridistribuisce in tutti gli interstizi del sociale – proprio come una forma simile di consenso vuole affermare che la produzione materiale, nonostante tutte le sue disfunzioni e le sue irrazionalità, porti comunque verso un aumento di ricchezza e di finalità sociale. Noi siamo tutti complici di questo mito: esso è l’alfa e l’omega della nostra modernità, e senza di esso la credibilità della nostra organizzazione sociale andrebbe a fondo. Ora, il fatto è che essa va effettivamente a fondo, e proprio per questa ragione. Perché mentre noi pensiamo che l’informazione produca senso, comunicazione, socialità, quel che accade è esattamente l’inverso. Il sociale non si costituisce come un processo chiaro e univoco. Le società moderne rispondono a un processo di socializzazione o di desocializzazione progressiva? Tutto dipende dall’accezione dei termini, dato che essi sono reversibili e non hanno nulla di stabilmente definito. In questo senso, infatti, si può dire che quelle istituzioni che hanno aperto la strada al “progresso sociale” (e cioè l’urbanizzazione, la concentrazione, la produzione, il lavoro, la 97


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medicina, la scolarizzazione, la sicurezza sociale, le assicurazioni ecc. – compreso pure il capitale, che senza dubbio è stato il più intenso medium di socializzazione), tutte, senza eccezioni, producono e contemporaneamente distruggono il sociale nello stesso movimento. Se il sociale è costituito da istanze astratte costruite una sopra l’altra sulle rovine dell’edificio simbolico e rituale delle società precedenti, allora queste istituzioni lo producono in misura sempre maggiore. Ma nello stesso tempo esse consacrano questa astrazione divorante, divoratrice forse proprio della “sostanza profonda” del sociale. In questo senso si può dire che il sociale regredisce proprio in proporzione dello sviluppo delle sue istituzioni. E questo è un processo accelerato che raggiunge la sua massima estensione con i mass media e con l’informazione. I media, tutti i media, l’informazione, tutta l’informazione, si muovono in questa doppia direzione: producono un aumento di sociale in apparenza, mentre in profondità neutralizzano i rapporti sociali e il sociale stesso. L’informazione divora i suoi propri contenuti. Divora la comunicazione così come il sociale. E questo per due ragioni: 1. Invece di fare comunicare, essa si esaurisce nella messa in scena della comunicazione. Invece di produrre senso, si esaurisce nella messa in scena del senso. Un gigantesco processo di simulazione che ben conosciamo. L’intervista non direttiva, la parola, le telefonate degli ascoltatori, la partecipazione in tutti i sensi, il ricatto alla parola: “voi siete direttamente interessati, questo è un avvenimento che vi tocca, ecc.”. L’informazione è sempre più invasa da questa sorta di contenuto fantasma, di innesto omeopatico, di sogno diurno della comunicazione. Dispositivo circolare in cui viene messo in scena il desiderio della platea, antiteatro della comunicazione, che, come si sa, non è mai nient’altro che il riciclaggio in negativo dell’istituzione tradizionale, il circuito integrato del negativo. Energie immense che vengono dispiegate per tenere insieme questo simulacro, per evitare la brutale desimulazione che ci metterebbe di fronte all’evidente realtà di una perdita radicale del senso. Inutile domandarsi se è la perdita della comunicazione a comportare que98


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sta maggiore offerta nell’ambito del simulacro, o se è il simulacro a essere già da subito presente con dei fini dissuasivi, quelli di un cortocircuito che precede qualsiasi possibilità di comunicazione (precessione del modello che pone fine al reale). Inutile domandarsi qual è il termine primo, esso infatti non esiste, dato che si tratta di un processo circolare: quello della simulazione, quello dell’IPERREALE. Iperrealtà della comunicazione e del senso. Più reale del reale stesso. Ed è così che il reale viene abolito. Tanto la comunicazione, quanto il sociale, funzionano quindi in circuito chiuso, come un’esca ingannevole – alla quale si lega la forza di un mito. La credenza, la fede nell’informazione, si legano a questa prova tautologica che il sistema dà di se stesso, raddoppiando nei segni una realtà introvabile. Si può anche pensare che questa credenza sia tanto ambigua quanto quella che ci collega ai miti delle società arcaiche. Ci si crede e non ci si crede. La questione semplicemente non si pone. “Lo so bene, ma fa lo stesso.” Una sorta di simulazione inversa fa riscontro nelle masse, in ciascuno di noi, a questa simulazione di senso e di comunicazione in cui il sistema ci rinchiude. Alla tautologia del sistema si risponde con l’ambivalenza, alla dissuasione con la disaffezione o con una credenza sempre più enigmatica. Il mito esiste, ma bisogna guardarsi dal credere che la gente vi creda: qui sta la trappola in cui cade il pensiero critico, il quale non può esercitarsi se non basandosi sul presupposto di una ingenuità e una stupidità delle masse. 2. Dietro questa esacerbata messa in scena della comunicazione, i mass media, l’informazione, perseguono insistentemente una irresistibile destrutturazione del sociale. Bombardamento di segni, rinviati, si crede, come un’eco dalla massa, interrogazioni attraverso onde convergenti, stimoli luminosi o linguistici, proprio come le stelle lontane, o i nuclei degli atomi bombardati da particelle in un ciclotrone; l’informazione è questo: non un modo di comunicazione e neanche di senso, ma un modo di emulsione incessante, di input-output e di reazioni a catena guidate, esattamente come nelle camere di simulazione atomiche. Bisogna liberare l’“energia” della massa, per trasformarla in “sociale”. 99


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Ma questo è un processo contraddittorio, perché l’informazione in tutte le sue forme, invece di intensificare o di creare la “relazione sociale”, è al contrario un processo entropico, una modalità della fine del sociale. Si crede di strutturare le masse introducendo informazione, si crede di liberare la loro energia sociale imprigionata, per mezzo di informazioni e di messaggi (a tal punto che non è più la partizione istituzionale, ma piuttosto la quantità di informazione e il tasso di esposizione ai media, ciò che oggi dà la misura della socializzazione). Eppure è tutto il contrario. Invece di trasformare la massa in energia, l’informazione produce sempre una maggior quantità di massa. Invece di informare, come essa pretende, cioè di dare forma e struttura, essa neutralizza sempre più il “campo sociale”, crea sempre più massa inerte, impermeabile alle istituzioni classiche del sociale, e ai contenuti stessi dell’informazione. Alla fissione delle strutture simboliche prodotta dal sociale e dalla sua violenza razionale, fa oggi seguito la fissione del sociale stesso prodotta dalla violenza “irrazionale” dei media e dell’informazione – e il risultato finale di tutto ciò è proprio la massa atomizzata, nuclearizzata, molecolarizzata. Non ci sono più che masse fluide e silenziose, equazioni variabili dei sondaggi, oggetti di continui test che, come un acido, le dissolvono. Testare, sondare, contattare, sollecitare, informare – questa è una tattica microbica, una tattica di virulenza in cui il sociale finisce per dissuasione infinitesimale, in cui non è nemmeno più dato il tempo perché si possa cristallizzare. La violenza, una volta, cristallizzava il sociale, faceva emergere con la forza un’energia sociale antagonistica. Demiurgia repressiva. Oggi, è la semiurgia dolce quella che ci dirige. Così l’informazione dissolve il senso e dissolve il sociale in una sorta di nebulosa che non tende per nulla verso un sovrappiù d’informazione, ma proprio al contrario, verso l’entropia totale.1 1. Abbiamo parlato qui dell’informazione, solo per quel che riguarda il registro sociale della comunicazione. Ma sarebbe molto avvincente spingere quest’ipotesi fin nel campo della teoria cibernetica dell’informazione. Anche qui la tesi fondamentale afferma che infor-

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Ciò che i media dunque portano a compimento non è la socializzazione, ma all’opposto l’implosione del sociale nelle masse. E questo fatto non è altro che l’estensione macroscopica dell’implosione del senso al livello microscopico del segno. Un’implosione che deve essere analizzata a partire dalla formula di McLuhan “il medium è il messaggio”; e di questa formula siamo ben lontani dall’aver tratto tutte le conseguenze. Il significato di essa è che tutti i contenuti di senso sono assorbiti nell’unica forma dominante del medium. Soltanto il medium produce avvenimento – e questo succede quali che siano i contenuti, conformisti oppure sovversivi. Certo un grave problema per tutta la controinformazione, le radio pirata, gli anti-media ecc. Ma c’è una cosa più grave ancora, e che lo stesso McLuhan non ha messo in evidenza. Infatti, al di là di questa neutralizzazione di tutti i contenuti, si potrebbe ancora sperare in un lavoro sul medium in quanto forma, in una trasformazione del reale attraverso l’utilizzo del medium come forma. Una volta annullati tutti i contenuti, potrebbe però sussistere ancora un valore d’uso rivoluzionario, sovversivo, del medium in quanto tale. Ora – e qui la formula di McLuhan ci porta al suo limite estremo –, non c’è soltanto un’implosione del messaggio nel medium, ma anche, nello stesso movimento, un’implosione del medium stesso nel reale, un’implosione del medium e del reale, dentro una sorta di nebulosa iperreale, dove anche la definizione e l’azione differenziata del medium non sono più reperimazione sia sinonimo di antientropia, di resistenza all’entropia, di aumento di senso e di organizzazione. Ma sarebbe opportuno invece porre l’ipotesi inversa: INFORMAZIONE = ENTROPIA. Per esempio: l’informazione o la conoscenza che si può avere di un sistema o di un avvenimento si costituisce già come una forma di neutralizzazione e di entropia di tale sistema (ipotesi da estendersi alle scienze in generale, e alle scienze umane e sociali in particolare). L’informazione nella quale si riflette o attraverso la quale si diffonde un avvenimento, è già una forma degradata di questo avvenimento. Non bisogna esitare nel fare un’analisi in questo senso dell’intervento dei media durante il maggio ’68. L’ampiezza di informazione che venne data all’azione degli studenti permise lo sciopero generale, ma essa si costituì anche proprio come una scatola nera di neutralizzazione della originale virulenza del movimento. Il processo di amplificazione fu veramente una trappola mortale e non un’estensione positiva. Bisogna diffidare dell’universalizzazione delle lotte attraverso l’informazione. Diffidare delle campagne di solidarietà estesa in tutte le direzioni, di questa solidarietà contemporaneamente elettronica e mondana. Qualsiasi strategia di universalizzazione delle differenze è una strategia che porta verso l’entropia del sistema.

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bili. Per dire le cose nel loro insieme, la formula “il medium è il messaggio” non significa soltanto la fine del messaggio, ma anche la fine del medium. Non esistono più dei media nel senso letterale del termine (parlo soprattutto dei media elettronici di massa) – non esiste più cioè un’istanza mediatrice fra una realtà e un’altra, fra uno stato del reale e un altro. Né per quel che riguarda i contenuti, né per la forma. Questo è ciò che in senso rigoroso significa l’implosione. Assorbimento dei poli l’uno nell’altro, cortocircuito fra i poli di qualsiasi sistema differenziale di senso, annullamento dei termini e delle opposizioni distinte, fra cui quella del medium e del reale – e quindi impossibilità di qualsiasi mediazione, di qualsiasi intervento dialettico fra i due o dell’uno sull’altro. Circolarità di tutti gli effetti dei media. Impossibilità di un senso, inteso nel significato letterale di vettore unilaterale che porta da un polo all’altro. Bisogna esaminare fino in fondo questa situazione critica ma originale: essa infatti è l’unica situazione che abbiamo di fronte. Inutile sognare una rivoluzione attraverso i contenuti, come pure attraverso la forma, dal momento che il medium e il reale costituiscono ormai un’unica nebulosa indecifrabile nella sua verità. Constatare l’implosione dei contenuti, l’assorbimento del senso, l’evanescenza del medium stesso, il risucchiamento di qualsiasi dialettica della comunicazione in una circolarità totale del modello, l’implosione del sociale nelle masse, può apparire come un fatto catastrofico e disperato. Ma esso è tale solo nei confronti dell’idealismo che domina tutto il nostro modo di considerare l’informazione. Ci nutriamo tutti di un idealismo forsennato della comunicazione e del senso, un idealismo della comunicazione attraverso il senso e, una volta posti in questa prospettiva, è proprio la catastrofe del senso quella che ci aspetta al varco. Ma bisogna anche considerare che il termine di “catastrofe” non possiede quel senso “catastrofico” di fine e di annientamento che si accompagna alla visione lineare di accumulazione, di finalità produttiva, impostaci dal sistema. Il termine stesso non significa etimologicamente altro che la curvatura, l’avvolgimento verso il basso di un ciclo che porta verso qualcosa che può essere chiamato 102


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come “orizzonte dell’avvenimento”, un orizzonte insuperabile del senso: al di là di esso non c’è più nulla che abbia senso, per noi – ma basta liberarsi da questo ultimatum del senso perché la catastrofe stessa non appaia più come scadenza ultima e nichilista, quale essa funziona invece nel nostro immaginario attuale. Al di là del senso esiste la fascinazione, che risulta dal processo di neutralizzazione e di implosione del senso. Al di là dell’orizzonte del sociale, ci sono le masse, che risultano dal processo di neutralizzazione e di implosione del sociale. La posta in gioco dell’informazione non è forse la fascinazione contro il senso? Quale che sia il contenuto politico, pedagogico, culturale, dell’informazione, il progetto rimane sempre quello di far passare il senso, di mantenere le masse sotto l’ambito del senso. Un imperativo di produzione di senso che si manifesta nell’imperativo continuamente rinnovato di moralizzare l’informazione: informare meglio, socializzare meglio, elevare il livello culturale delle masse, ecc… Ma queste sono tutte inezie: le masse resistono scandalosamente a tale imperativo della comunicazione razionale. Si offre loro del senso, quando esse vogliono dello spettacolo. Nessuno sforzo ha mai potuto convertirle alla serietà dei contenuti, come nemmeno alla serietà del codice. Si danno loro dei messaggi, ed esse non vogliono che segni, idolatrano il gioco dei segni e degli stereotipi, idolatrano tutti i contenuti, purché si risolvano in una sequenza spettacolare. Ciò che esse respingono, è la “dialettica” del senso. E non serve a nulla addurre il fatto che esse sono mistificate. Ipotesi questa, sempre ipocrita, che permette di salvaguardare la tranquillità intellettuale dei produttori di senso: tutto si risolve nel fatto che le masse sarebbero impedite nell’accesso ai lumi naturali della ragione. E si pretende che le cose stiano così, per poter scongiurare l’ipotesi inversa, e cioè che con piena “libertà” le masse oppongono il loro rifiuto del senso e la loro volontà di spettacolo all’ultimatum del senso. Esse diffidano, come della morte, di questa trasparenza e di questa volontà politica. Esse subodorano il terrore semplificante che si situa dietro l’egemonia ideale del senso, e reagiscono a esso a loro modo, respingendo tutti 103


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i discorsi articolati verso una sola dimensione irrazionale e senza fondamento, là dove i segni perdono il loro senso e si esauriscono nella fascinazione. Si tratta di una loro propria esigenza, di una controstrategia espressa e positiva – un lavoro di assorbimento e di annullamento della cultura, del sapere, del potere, del sociale. Un lavoro che dura da tempo immemorabile, ma che viene ad assumere oggi tutta la sua ampiezza. Un antagonismo in profondità che costringe a invertire gli scenari correnti: non è più il senso ciò che costituirebbe la linea di forza ideale delle nostre società, mentre quel che sfugge a esso sarebbe soltanto uno scarto destinato a venir riassorbito un giorno o l’altro, ma tutto al contrario, è il senso a essere soltanto un accidente ambiguo e senza prosecuzione possibile, un effetto dovuto alla convergenza ideale di uno spazio prospettico in un dato momento (la Storia, il Potere ecc.); ma tutto ciò ha in fondo riguardato soltanto una frazione minimale, una pellicola di superficie, delle nostre “società”. Cosa questa vera anche per gli individui: solo episodicamente noi siamo dei portatori di senso, mentre per l’essenziale facciamo massa in profondità, vivendo la maggior parte del nostro tempo in un modo panico e aleatorio, al di qua o al di là del senso. Si può a questo punto fare un esempio: la notte dell’estradizione di Klaus Croissant, la televisione trasmette una partita di calcio in cui la Francia gioca la propria qualificazione per la Coppa del Mondo. Alcune centinaia di persone manifestano davanti alla Santé, alcuni avvocati corrono nella notte, mentre venti milioni di persone passano la loro serata davanti allo schermo. Esplosione di gioia popolare quando la Francia vince. Abbattimento e indignazione degli spiriti illuminati di fronte a questa scandalosa indifferenza. “Le Monde”: “Ore 21. In questo momento l’avvocato tedesco è già stato prelevato dalla prigione della Santé. Fra qualche minuto, Rocheteau segnerà la prima rete”. Melodramma dell’indignazione. E non una sola domanda sul mistero di questa indifferenza. Un’unica ragione, sempre invocata: quella della manipolazione delle masse da parte del potere, la loro mistificazione attraverso il gioco del cal104


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cio. In ogni modo, questa indifferenza non dovrebbe esistere, e quindi essa non ha nulla da dirci. In altri termini, la “maggioranza silenziosa” viene spossessata perfino della sua indifferenza, non ha nemmeno il diritto che questa venga imputata e riconosciuta a essa, è ancora necessario che una simile apatia sia stata a essa inculcata da parte del potere. Che disprezzo si nasconde dietro tale interpretazione! Mistificate, le masse non sarebbero in grado di avere un comportamento proprio. Gli si concede, di tempo in tempo, una spontaneità rivoluzionaria, attraverso la quale esse possono intravedere la “razionalità del proprio desiderio”, questo sì, ma che Dio ci protegga dal loro silenzio e dalla loro inerzia. Ora, è proprio questa indifferenza che dovrebbe essere analizzata nella sua brutalità positiva, invece di venire rimandata a una magia bianca di alienazione e di manipolazione, che distoglierebbe sempre le moltitudini dalla loro vocazione naturale. Ma d’altra parte, com’è che essa riesce in quest’opera di sviamento? Ci si può interrogare su questo strano fatto, e cioè che, dopo molte rivoluzioni e uno o due secoli di apprendistato politico, a dispetto dei giornali, dei sindacati, dei partiti, degli intellettuali e di tutte le energie spese per educare e mobilitare il popolo, ci si trova ancora (e ci si troverà esattamente nella stessa situazione fra dieci o venti anni) con mille persone disposte a muoversi e venti milioni che rimangono “passivi” – e non soltanto passivi, ma addirittura francamente disposti a preferire, in tutta buona fede, con gioia, e senza neanche chiedersi perché, una partita di calcio a un avvenimento umano e politico carico di gravità? È per lo meno curioso che questa constatazione non abbia mai spinto verso un’analisi, ma piuttosto abbia rinforzato la teoria nella sua visione di un potere onnipotente nel campo della manipolazione, e di una massa prostrata in un coma inintelligibile. Ora, nulla di tutto questo è vero, e tutte e due le affermazioni sono un inganno: il potere non manipola nulla, e le masse non sono né sviate, né mistificate. Il potere è fin troppo contento di far pesare sul gioco del calcio una facile responsabilità, come anche di prendere su di sé la diabolica responsabilità di un abbrutimento delle masse. Tutto ciò lo 105


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conforta nella sua illusione di essere il potere, così come svia l’attenzione da un fatto ben più pericoloso: e cioè che questa indifferenza delle masse è la loro vera indifferenza, la loro sola pratica, che non se ne può immaginare un’altra ideale, che non c’è nulla da deplorare, ma tutto qui deve essere analizzato come fatto bruto di denegazione collettiva e di rifiuto a partecipare a degli ideali, peraltro illuminati, che vengono proposti. La posta in gioco delle masse non si trova lì. Bisogna per lo meno prenderne atto e riconoscere che le cose stanno così: tutte le attese di rivoluzione, tutte le speranze del sociale e di cambiamento sociale hanno potuto funzionare finora soltanto grazie a questo inganno, a questa zona oscura, a questa fantastica dimenticanza. Bisogna dunque ripartire, come Freud ha tentato di fare per l’ordine psichico, da questo resto, da questo sedimento cieco, da questo scarto di senso, da questo inanalizzato e forse inanalizzabile. Nella rappresentazione immaginaria, le masse fluttuano da qualche parte tra passività e spontaneità selvaggia, ma in ogni caso come un’energia potenziale, uno stock di sociale e di energia sociale, oggi referente muto, domani protagonista della storia, allorché esse prenderanno la parola e cesseranno di essere la “maggioranza silenziosa”. Ora, giustamente, le masse non posseggono storia da scrivere, né passata, né futura, non hanno energie virtuali da liberare, né desiderio da attuare: la loro potenza è attuale, essa è già interamente data, ed è la potenza del loro silenzio. Potenza di assorbimento e di neutralizzazione fin da ora superiore a tutte le forze che si esercitano su di essa. Specifica potenza di inerzia, la cui efficacia è diversa da quella di tutti i nostri sistemi di forze, da tutti gli schemi di produzione, di irradiamento e di espansione sui quali funziona il nostro immaginario, compresa pure la volontà di distruggerli. Figura inaccettabile e inintelligibile dell’implosione (è ancora essa un “processo”?) – che preme sui nostri sistemi di senso, e contro la quale essi si armano di tutte le loro resistenze, coprendo con una recrudescenza di ogni possibile significazione lo sprofondamento centrale del senso. Ogni maggioranza è sempre stata silenziosa, ma oggi lo è per de106


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finizione. Forse essa è stata ridotta al silenzio, ma questo non è affatto sicuro. Perché se questo silenzio vuol dire che essa non parla, significa però soprattutto che non è più possibile parlare in suo nome: di nessuno si può dire che rappresenta la maggioranza silenziosa o le masse. Esse non sono più un’istanza alla quale ci si possa riferire come già una volta alla classe o al popolo. Ritirata nel suo silenzio, la massa non è più soggetto (soprattutto non lo è più della storia), essa quindi non può più essere parlata, articolata, rappresentata, come non può più passare per lo stadio dello specchio politico e per il ciclo delle identificazioni immaginarie. Si può vedere allora quale potenza risulti da tutto ciò, perché, non essendo soggetto, la massa non può nemmeno più essere alienata: né nel suo proprio linguaggio (essa ne ha), né in nessun altro che pretendesse parlare in suo nome. Fine delle speranze rivoluzionarie. Perché esse hanno sempre speculato sulla possibilità per le masse, come per la classe, di negarsi in quanto tale. Ma la massa non è un luogo di negatività, come nemmeno di esplosione; è un luogo di assorbimento e di implosione. Tale è il senso paradossale di questo silenzio: esso può apparire come la forma assoluta dell’alienazione, ma è pure un’arma assoluta. La massa è inaccessibile agli schemi di liberazione, di rivoluzione e di storicità, ma questo è il suo proprio modo di difesa, il suo modo di ritorsione. Essa è modello di simulazione, alibi per l’uso di una classe politica fantasma e che fin d’ora non sa più che razza di potere “politico” esercita su di essa, mentre nello stesso tempo questa massa costituisce anche la morte, la fine del processo politico dal quale si crede che essa sia retta. Dentro di essa si inabissa la politica come volontà e rappresentazione. Il pensiero critico giudica e sceglie, produce delle differenze, vigila sul senso attraverso la selezione. Le masse invece non scelgono, non producono differenze, ma indifferenziazione – cercano la fascinazione del medium, che viene preferita all’esigenza critica del messaggio. Poiché la fascinazione non dipende dal senso, essa è anche esattamente proporzionale alla disaffezione dal senso. Essa si ottiene neutralizzando il messaggio a profitto del medium, l’idea a profitto dell’idolo, la verità a profitto del simulacro. Ora, è proprio 107


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a questo livello che funzionano i media. La fascinazione è la loro legge e la loro violenza specifica, violenza massiccia esercitata sul senso, violenza negatrice della comunicazione attraverso il senso a profitto di un altro modo di comunicazione. Ma quale? Ipotesi per noi insostenibile: che sia possibile comunicare al di fuori del medium del senso, che l’intensità stessa della comunicazione sia proporzionale all’assorbimento del senso e al suo sprofondare. Poiché non è il senso, né l’aumento di senso, ciò che procura violentemente piacere, ma è la sua neutralizzazione che ci affascina (vedi per esempio il Witz, l’operazione del motto di spirito, in L’echange symbolique et la mort2). E non per la presenza di qualche pulsione di morte – una cosa questa che sottintenderebbe per noi che la “vita” è ancora dalla parte del senso – ma molto semplicemente per una sfida, sfida alla referenza, al messaggio, al codice, e a tutte le “categorie” dell’impresa linguistica, per sconfessione di tutto ciò a profitto della sola implosione del segno nella fascinazione (non più significante né significato: riassorbimento dei poli della significazione). Nessuno dei guardiani del senso potrà arrivare a capirlo: è tutta la morale del senso infatti a ergersi contro la fascinazione. La cosa essenziale oggi è quella di riuscire a valutare questa doppia sfida – sfida al senso da parte delle masse e del loro silenzio (che non è affatto una resistenza passiva) – sfida al senso da parte dei media e della loro fascinazione. Tutti i tentativi marginali, alternativi, di risuscitare il senso risultano secondari rispetto a questo fatto. Evidentemente c’è un paradosso in questa inestricabile congiunzione delle masse e dei media: sono infatti i media che neutralizzano il senso e che producono la massa “informe” (o informata), o è la massa che resiste vittoriosamente ai media sviando oppure assorbendo senza rispondervi tutti i messaggi che questi producono? Avevo già analizzato (e condannato), in Requiem per i media,3 i media come l’istituzione di un modello irreversibile di comunicazione senza risposta. Ma oggi? Questa assenza di risposta non può per nulla essere intesa come la strategia del potere, ma come una controstrategia delle masse stesse di fronte al potere. E allora? 2. Cfr. J. Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte (1976), Feltrinelli, Milano 20074. 3. Cfr. Id., Requiem per i media (1971), in questo fascicolo.

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I mass media sono forse dalla parte del potere nella manipolazione delle masse, o sono al contrario dalla parte delle masse nella liquidazione del senso, nella violenza fatta al senso e nella fascinazione? Le masse sono indotte alla fascinazione a causa di ciò che sono i media, oppure sono i media a essere stornati verso lo spettacolare a causa di ciò che sono le masse? Mogadiscio-Stammheim: i media si costituiscono come il veicolo della condanna morale del terrorismo e dello sfruttamento della paura a fini politici, ma simultaneamente, con la più profonda ambiguità, diffondono la fascinazione bruta dell’atto terroristico, sono essi stessi terroristici, nella misura in cui essi stessi procedono verso la fascinazione (eterno dilemma morale; vedi Umberto Eco: come non parlare del terrorismo, come trovare un buon uso dei media – ma un buon uso non esiste). I media convogliano il senso e il controsenso, manipolano contemporaneamente in tutti i sensi, nessuno può controllare questo processo, essi veicolano la simulazione interna al sistema e la simulazione distruttrice del sistema, secondo una logica assolutamente moebiana e circolare – e tutto è proprio così. Non esistono alternative né risoluzioni logiche, ma soltanto un’esacerbazione della logica e una risoluzione catastrofica. Con un correttivo però. Noi ci troviamo di fronte a questo sistema in una situazione doppia e insolubile – double bind – esattamente come i bambini di fronte alle esigenze dell’universo adulto. Essi si trovano sotto l’ingiunzione di costituirsi come soggetti autonomi, responsabili, liberi e coscienti, e contemporaneamente di costituirsi come oggetti sottomessi, inerti, obbedienti, conformisti. Il bambino allora resiste su tutti i piani e risponde anch’egli con una doppia strategia a un’esigenza contraddittoria. All’esigenza di essere oggetto oppone tutte le pratiche di disobbedienza, di rivolta, di emancipazione, in breve, tutta una rivendicazione del soggetto. All’esigenza di essere soggetto oppone con altrettanta ostinazione ed efficacia una resistenza di oggetto, cioè esattamente qualcosa di contrario: infantilismo, iperconformismo, dipendenza totale, passività, idiozia. Nessuna di queste due strategie possiede un valore oggettivo superiore all’altra. La resistenza-soggetto viene oggi uni109


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lateralmente valorizzata e ritenuta positiva – allo stesso modo in cui, nella sfera politica, soltanto le pratiche di liberazione, emancipazione, espressione, costituzione come soggetto politico sono ritenute valide e sovversive. Questo però significa ignorare l’impatto concomitante e senza dubbio ben superiore, di tutte le praticheoggetto, di rinuncia alla posizione di soggetti e di senso – esattamente le pratiche di massa – che noi seppelliamo sotto il termine sprezzante di alienazione e di passività. Le pratiche liberatorie rispondono a uno dei versanti del sistema, al costante ultimatum che ci viene fatto di costituirci come oggetto, ma esse non rispondono affatto all’altra esigenza, quella di costituirci come soggetti, di liberarci, di esprimerci a ogni costo, di votare, di produrre, di decidere, di parlare, di partecipare, di giocare il gioco – un ricatto e un ultimatum altrettanto grave dell’altro, senza dubbio oggi più grave. A un sistema la cui pratica è quella dell’oppressione e della repressione, la resistenza strategica diventa allora quella del rifiuto di senso e del rifiuto di parola – o della simulazione iperconformista dei meccanismi stessi del sistema, cosa che si costituisce come una forma di rifiuto e di non ricezione. Questa è la resistenza strategica delle masse: essa rimanda al sistema, raddoppiandola, la logica che appartiene a esso, rinvia, come uno specchio, senza assorbirlo, il senso. Se tale strategia (ammesso che si possa parlare ancora di strategia) emerge oggi in modo preponderante, lo è proprio perché è stata fatta emergere da questa fase del sistema. Sbagliare strategia è un fatto grave. E tutti quei movimenti che puntano soltanto sulla liberazione, l’emancipazione, la resurrezione di un soggetto della storia, del gruppo, della parola, su una presa di coscienza, e anche su una “presa di inconscio” dei soggetti e delle masse, non si rendono conto di tendere nello stesso senso del sistema, il cui imperativo è oggi proprio quello della sovrapproduzione e della rigenerazione del senso e della parola.

Traduzione dal francese di Giampiero Comolli

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Identità multipla, narrazione, contingenza. Per una critica della ragione multiculturalista GIACOMO MARRAMAO MANUEL ORAZI

0. Uno dei principali motivi conduttori della riflessione contemporanea è costituito, non solo nella filosofia ma anche nelle scienze e nelle arti, da un curioso “doppio movimento”. La natura singolare di questa Doppelbewegung consiste nel fatto che alla dissoluzione dello statuto sostanzialistico del Soggetto fa riscontro la riscoperta della doppia natura relazionale dell’identità: ogni identità si costituisce tramite una relazione interna fra l’io presente e l’io passato, fra la percezione e la memoria, e tramite una relazione esterna fra l’io e l’altro. Entrambi questi poli, la faccia interna come quella esterna della relazione, si presentano – una volta che si sia congedata ogni tradizionale veduta essenzialistica – come momenti costitutivi della “persona”: dell’io individuale non meno che dell’io comune. Scopo di questo contributo è fare emergere come sul tema dell’identità dell’io – tema classico della gnoseocritica moderna, a partire da Locke e Hume – sia dato oggi riscontrare un significativo punto di intersezione tra filosofia analitica e filosofie “continentali” di ispirazione ermeneutica. Tale convergenza consiste nella presa d’atto del carattere multiplo e contingente tanto dell’identità personale quanto di quella collettiva o “comunitaria”. E, di conseguenza, nella revoca in questione del presupposto atomistico soggiacente alle filosofie moderne del soggetto: sia nella loro versione individualistica, sia in quella comunitaristica. Tra gli autori implicati in questa riflessione troviamo, su un versante, Derek Parfit, Jon Elster e, per certi aspetti, Robert Nozick; sull’altro, Paul Ricœur, Julia Kristeva, Gilles Deleuze e, per certi aspetti, Jacques aut aut, 335, 2007, 111-122

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Derrida. Per ragioni di economia dell’argomentazione, abbiamo preferito affacciare il nostro punto di vista in forma di tesi. 1. A testimonianza del fenomeno di overlapping tra le due tradizioni, o meglio tra i due differenti stili filosofici, dell’analitica e dell’ermeneutica è possibile addurre il fatto, già di per sé eloquente, che il celebre testo di Parfit del 1984, Reasons and Persons, reca una citazione di Nietzsche: circostanza inconsueta per un filosofo analitico. Abbiamo qui, in effetti, la ripresa e lo svolgimento di un motivo che era stato già al centro di quello che viene convenzionalmente (e impropriamente) chiamato “secondo” Wittgenstein, ossia il Wittgenstein delle Philosophical Investigations: il motivo dell’identità come successione di “io” contingenti e parziali. Ognuno di noi – humianamente e nietzschianamente – non “ha” tanto un’identità che “si fa” nel tempo: visione in tutto e per tutto conciliabile con il modello del processo dialettico – in quanto modello del divenirese-stesso in una coincidenza circolare di fine e inizio. Ciascuno di noi, piuttosto, “è” composto di soggettività part-time. In breve: siamo tutti un insieme, una pluralità di “io” part-time che si svolgono nel tempo. 2. Il contributo di Parfit consiste, pertanto, nel compiere un’analisi della scomposizione diacronica dell’io, sottolineando come nel corso della nostra vita diamo luogo a più identità la cui coerenza – sempre provvisoria e precaria – è determinata di volta in volta dalla nostra ricostruzione autobiografica dell’esperienza e della memoria. Se volessimo indicare il pendant sincronico di questa pluralità diacronica dell’io, dovremmo riferirci alla riflessione di un altro filosofo postanalitico: Jon Elster. La nozione-chiave introdotta da Elster – attraverso un confronto con le diverse sfide della psicanalisi, delle neuroscienze e dell’intelligenza artificiale – è quella di multiple Self: di un Sé al tempo stesso singolare e irriducibilmente “molteplice”. L’identità multipla non è mai un io autoreferenziale, unitario e omogeneo (come postulato dalle filosofie del soggetto). All’interno di ogni spazio identitario convivono, anzi coabitano talora conflittualmente, più identità. Il punto deci112


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sivo sta allora proprio qui: nell’inerenza della comunità all’individuo e nei contrasti che questa stessa inerenza induce. In parole più semplici: l’io non è né un soggetto-sostanza, né una struttura omogenea. È piuttosto uno spazio d’esperienza: una sorta di cavea teatrale all’interno della quale riecheggiano imperativi, valori e quadri normativi diversi (provenienti da tradizioni non solo eterogenee, non-contemporanee, “asincrone”, ma a volte anche fra loro incompatibili e confliggenti). 3. Non ci pare illegittimo ravvisare in questi esiti della riflessione analitica e postanalitica sul problema dell’identità alcuni significativi punti di contatto o addirittura di convergenza con certe posizioni cosiddette “continentali”, provenienti dalla più avvertita riflessione ermeneutica. Si ha tuttavia l’impressione che un approccio di tipo ermeneutico possa fruttuosamente interagire con queste tematiche solo a patto di abbandonare taluni atteggiamenti apologetici o edificanti, riconducibili a un’eccessiva fiducia nelle virtù di una “comunicazione” o dialogicità storicisticamente confortata dall’autorità della tradizione. La sfida dell’approccio analitico al tema dell’identità personale pone, in altri termini, all’ermeneutica una questione delicata e difficilmente aggirabile: l’io situato, immerso nelle “forme di vita” e nei contesti linguistici della tradizione, lungi dal costituire una soluzione o una risposta, rappresenta piuttosto il problema e il punto di avvio della ricerca filosofica intorno all’identità. L’io situato è in se stesso problematico, proprio in quanto costitutivamente molteplice. Quale di questi “io” (osservando le cose a parte subjecti) è di volta in volta chiamato all’interpretazione? E (osservando le cose a parte objecti) quale tradizione interpreta? Sono tanti gli “io” interpretanti e tante le tradizioni interpretate. Di qui un inevitabile incremento del tasso di contingenza “interpretativa”. Con la paradossale conseguenza che il fraintendimento e il “malinteso” cessano di fungere da eccezione per divenire – a dispetto di ogni “principio di carità” o “indulgenza” – la norma della comunicazione.

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4. La contingenza retroagisce, così, anche sul programma ermeneutico di un “indebolimento” ontologico delle nozioni classiche di verità e soggetto, finendo per investire la stessa portata liberatoria di un’interpretazione intesa come approdo dissolutivo della metafisica. Si tratta, in parole povere, di intendere la scomposizione del soggetto in modo più drammatico e meno irenico di quanto non risulti dal pragmatismo postfilosofico di Richard Rorty o dall’“ontologia del declino” di Gianni Vattimo: come una linea di frattura che taglia trasversalmente tanto l’individuo quanto la comunità, tanto gli spazi dinamici di esperienza/aspettativa quanto i singoli contesti o “mondi-della-vita”. 5. I transiti filosofici che abbiamo rapsodicamente delineato ci restituiscono così, nel loro punto di convergenza, quanto avevamo già appreso dalla grande letteratura del Novecento: la dissoluzione di un soggetto – per dirla con Musil – mit Eigenschaften. Di un uomo “con proprietà”: identificabile solo in quanto legittimo proprietario di certe qualità e detentore di certi attributi. Solo dalla presa d’atto della natura relazionale e irrimediabilmente intricata della nostra storia – musilianamente intessuta di innumerevoli Schneidungen e Kreuzungen – nasce quell’attività incessante di connessione che, seguendo strategie narrative o costruttive sempre contingenti, getta un ponte tra fasi e aspetti diversi del nostro io. 6. Ma, come accade a ogni differenziazione strutturale, allo stesso modo la scomposizione del soggetto non determina soltanto separazioni e fratture, ma anche nuove possibilità di relazione e interazione con l’alterità. Può accadere che il nostro io futuro sia una persona B diversa dalla persona A che oggi siamo. Ma può accadere anche che alcuni tratti di A (della nostra identità attuale) vengano ripresi e sviluppati da un’altra persona. È nel senso di questo doppio movimento di disarticolazione a riarticolazione – dove la scomposizione non è solo dissoluzione o frattura, ma anche virtualità di nuovi intrecci relazionali – che dobbiamo allora intendere il rivoluzionamento della nozione classica di identità: oggi rimpiazzata dall’immagine di una migrazione ininterrotta di io successivi. 114


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7. Sotto questo profilo, il pensiero postanalitico riprende la concezione federativa della mente di Hume: un autore che può essere recuperato all’interno di una riflessione postmetafisica (come del resto ha fatto Deleuze) proprio in direzione del superamento dell’ossessione identitaria che sembra contrassegnare, nella sua natura di fenomeno reattivo alla dissoluzione del soggetto-sostanza, la nostra società globale. Ma, proprio per questa ragione, appare oggi sempre meno accettabile quel riduzionismo o “unilateralismo” metodologico delle scienze sociali che porta a stilizzare ogni forma di relazione secondo il paradigma della rational choice o del “comportamento razionale” . Dobbiamo tenere conto che l’identità è determinata fondamentalmente da due fattori: la razionalità e la normatività. Ciò di cui l’“imperialismo dell’identità” non si avvede è – prima ancora del “fatto del pluralismo”, evocato dall’ultimo scorcio della riflessione rawlsiana – il dato di fatto della pluralità del Sé, del multiple Self: con il connesso fenomeno delle lealtà conflittuali. Segnatamente da qui – ossia dall’inosservanza di questo fenomeno – discende la tendenza del comunitarismo a trattare gli aggregati socioculturali alla stregua di blocchi compatti e internamente omogenei: applicando così alla comunità quella stessa logica identitaria, e in ultima analisi individualistico-atomistica, che esso aveva denunciato come limite e vizio d’origine della concezione liberale. 8. La sola via d’uscita dal presupposto atomistico e dal circolo autoreferenziale comune ad ambedue i fronti della concorde discordia tra liberals e communitarians – o, sul terreno più squisitamente teoretico, tra universalisti e contestualisti – può darsi solo a partire dalla consapevolezza che ogni cultura presenta al suo interno non solo differenze notevoli, ma anche rimarchevoli dissensi normativi e conflitti di valore; e che, per converso, ogni individuo è attraversato da imperativi normativi diversi, che possono essere fra loro conflittuali o – come aveva a suo tempo lucidamente osservato Bernard Williams – tragicamente incompatibili. 9. Affermare ciò implica l’assunzione di un paradigma radicalmen115


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te nuovo rispetto a quello della rational choice e del comportamento razionale standard. L’idea di un individuo “già costituito”, portatore di preferenze e soggetto di scelte razionali va pertanto sottoposta al paradosso di Herbert Simon: come si preferiscono le preferenze? Ma una domanda del genere chiama immediatamente in causa non solo la tematica dell’intreccio tra ragione e passioni, non solo il ruolo svolto dalle emozioni nell’orientare le nostre scelte, ma più in generale la dimensione che opera alle spalle della coscienza e dell’agire intenzionale e progettuale. 10. Passare a un nuovo paradigma significa dunque operare una conversione dinamica – ossia una saldatura capace di tenere aperto un campo di tensione – tra lato-Weber e lato-Durkheim, integrandoli come ottiche complementari improntate rispettivamente alla razionalità e alla normatività. Una delle più tenaci divisioni nell’ambito della moderna teoria della società è rappresentata – secondo un’acuta notazione di Jon Elster – dal contrasto paradigmatico tra homo œconomicus e homo sociologicus. Il primo, l’uomo economico, stilizzato in fasi successive (e in un crescendo di “disincarnazione”) dall’economia politica classica e dalla Economics, sarebbe un individuo in sé autonomo, strategicamente orientato, guidato dalla razionalità strumentale e “infuturato”, ossia attratto dalla prospettiva di ricompense future. Il secondo, l’uomo sociologico, delineato da una tradizione di pensiero che da Durkheim e Mauss giunge attraverso Bataille alle antropo-filosofie e bio-filosofie dei giorni nostri, sarebbe invece parte di una totalità, membro di una comunità governata da norme sociali che affondano le loro radici in una dimensione pre-contrattuale e pre-riflessiva, e di conseguenza passivo esecutore di forze inerziali che agiscono alle sue spalle (cfr. al riguardo Elster 1989, cap. III). 11. La coppia categoriale di homo œconomicus e homo sociologicus è un’efficace esemplificazione del contrasto tra i due lati della razionalità e della normatività: o, più in generale, della ragione e dell’identità-appartenenza. La razionalità è, nel suo tratto caratteristico, un progetto: vale a dire un programma condizionale orientato 116


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al futuro, secondo la formula “se vuoi conseguire X, allora fai Y”. Gli imperativi della razionalità sono pertanto ipotetici e, in quanto dipendono dagli obiettivi intenzionati e perseguiti, declinati al futuro. Gli imperativi espressi dalle norme sociali, invece, sono incondizionati, secondo la formula: “fai X” o “non fare X”. Ovvero, anche se condizionati, non orientati al futuro: come nelle formule “se fai Y, allora fai X”, o “se gli altri fanno Y, allora fai X”, o ancora – su un piano di prescrizione più complesso – “fai X se è bene che lo facciano tutti”. 12. Il tratto dirimente tra le due ottiche della razionalità e della normatività non risiede però, come sembra ritenere Elster, nella semplice circostanza che la prima dipende dal futuro e la seconda dal passato: ragion per cui, mentre gli “attori razionali” tendono a ignorare ciò che è stato mettendoci una pietra sopra e guardando al futuro, viceversa “nell’operare delle norme sociali il passato gioca un ruolo essenziale”. La differenza decisiva pare piuttosto consistere nel carattere inconscio e transindividuale della normatività, a fronte del carattere consapevole, autoriflessivo e individualisticoprogettuale della razionalità. E tuttavia, per delineare un paradigma capace di dar conto del campo di tensione dinamico esercitato dai due poli nella costituzione del fenomeno della prassi intersoggettiva, del legame e dell’agire sociale, occorrerà incrociare gli assi dell’opposizione simmetrica tra razionalità individuale e normatività sociale, contemplando simultaneamente la possibilità di una normatività individuale e di una razionalità sociale: di una dimensione inconscia operante come vis a tergo alle spalle della coscienza e dell’azione individuale; e, per converso, di una dimensione razional-progettuale agita da soggetti collettivi. 13. Per questa via ragione e identità cessano di essere poli antagonistici, paradigmi concorrenti animati da reciproche pulsioni “colonizzatrici” (volte ad affermare la precedenza-supremazia dell’una o dell’altra), per trasformarsi in lati a un tempo conflittuali e interdipendenti dell’ordine sociale: del “cemento della società”. E, sempre lungo questa traccia, acquista un senso nuovo il passaggio 117


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dal classico tema della razionalità a quello della ragionevolezza. Tenendosi ben discosto da ogni versione eclettica, compromissoria e “sedata” della Ragione, volta a smorzare il pathos del conflitto che è alla base di ogni nostra scelta, l’impervio passaggio che abbiamo tentato qui di schizzare implica la sobria consapevolezza della natura limitata e imperfetta della razionalità. Una razionalità e progettualità il cui tasso di contingenza dipende in larga misura dalle “tempeste dell’anima”: dall’imprevedibilità dei vortici emotivopassionali e dalla pressione tacita e sotterranea degli imperativi provenienti da una normatività latente. 14. Tutto ciò comporta delle conseguenze decisive nel modo di intendere la comunità e il ruolo della soggettività nella sfera pubblica. L’idea di un individuo “già costituito”, portatore di preferenze e soggetto di scelte razionali, va pertanto sottoposta – come si è visto in precedenza – al paradosso di Herbert Simon: come si preferiscono le preferenze? Una domanda del genere oltre a essere una critica indiretta alla rational choice, chiama immediatamente in causa non solo la tematica dell’intreccio tra ragione e passioni, non solo il ruolo svolto dalle emozioni nell’orientare le nostre scelte, ma più in generale la dimensione che opera alle spalle della coscienza e dell’agire intenzionale e progettuale. 15. Già in Max Weber – cui pure i francofortesi e Habermas attribuiscono la responsabilità di aver amputato la dimensione propriamente emancipativa del Progetto moderno in una stilizzazione esclusiva della “ragione tecnico-strumentale” – la normatività della Gesinnungsethik, dell’“etica della convinzione”, appariva legata a doppio filo alla carica emotivo-passionale implicita nell’adesione assoluta a un valore. In realtà, se assumiamo il tema del “politeismo dei valori” nella sua effettiva drammaticità, non possiamo evitare di porre a tema la questione del rapporto tra sfera pubblica e narrazione. Anche Habermas, certo, ha sentito il bisogno di criticare il proceduralismo di John Rawls, per la sua pretesa di mettere tra parentesi i referenti di valore sottesi alle diverse e confliggenti “visioni complessive” del bene al fine di circoscrivere l’ambito del “poli118


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tico” come spazio di un overlapping consensus funzionale alla negoziazione delle regole di giustizia procedurale. E tuttavia non meno aporetica appare la sua idea di una sfera pubblica intesa come terreno di confronto – finalizzato all’intesa – tra modelli e schemi argomentativi volti a giustificare le diverse opzioni di valore. 16. Una tale proposta, infatti, benché costituisca – con la sua distinzione tra verità e giustificazione (in virtù della quale i valori, che pure non possono essere “dimostrati” come le verità scientifiche, possono comunque essere “giustificati” tramite l’argomentazione razionale) – un indiscutibile progresso rispetto alle versioni strettamente proceduralistiche della democrazia, ha l’inconveniente di un’implicita discriminazione tra i soggetti dotati di competenza comunicativo-argomentativa e i soggetti che ne sono sprovvisti. E tuttavia anche soggetti fortemente deficitari quanto a logica dell’argomentazione razional-discorsiva, possono essere in grado di dar conto delle proprie scelte etiche o delle conseguenze che l’adozione autonoma o eteronoma di determinate norme e stili di vita comporta per la loro esistenza. 17. La dimensione comunicativo-relazionale posta in essere dalla sfera pubblica non può essere pertanto solo argomentativa, ma deve altresì includere in sé la stessa dimensione narrativa. Si possono dare infatti dei soggetti che, pur non avendo la possibilità di produrre una giustificazione argomentativa dei propri valori, della propria cultura, della propria visione del mondo, sono tuttavia in grado di narrare l’esperienza che di quegli stessi valori essi quotidianamente fanno: un’esperienza, con ogni evidenza, non solo razionale ma anche emotiva. Una ragazza islamica della banlieu parigina – per fare l’esempio più ovvio, ma anche più drammaticamente ravvicinato – non sarà magari capace di argomentare la propria scelta (più o meno libera) di indossare il velo, ma non per questo non sarà in grado di raccontare l’esperienza emotivo-razionale del valore che quella decisione comporta e le sue implicazioni esistenziali. Nella sfera pubblica il diritto di cittadinanza non spetta solo alle procedure formali del diritto (certo, essenziali e irrinunciabili: 119


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poiché senza di esse non potremmo dirci effettivamente liberi), e neppure alla logica dell’argomentazione. Occorre che quel diritto si estenda anche alle differenti “narrative” dell’identità. 18. Lo spazio di Cosmopolis, della città globale, deve dunque – infrangendo l’interdetto di Platone – estendere i diritti di cittadinanza anche alla retorica, al racconto di sé, alle esperienze di voci narranti. Il che, però, non autorizza affatto – è bene sottolinearlo con forza – ad assumere le narrazioni senza alcun beneficio di inventario. Nulla garantisce, infatti, che una strategia narrativa non possa avere risvolti autogiustificativi e autoapologetici al pari di una strategia argomentativa di stampo ideologico. Nell’inevitabile miscela di ragione ed esperienza, argomentazione e narrazione, che segna i rapporti tra i diversi gruppi umani nel mondo “glocalizzato”, una sfera pubblica democratica può ammettere sì, dunque, la retorica: ma – come ha opportunamente sottolineato Carlo Ginzburg – a condizione che si tratti di retoriche con prova, non di retoriche senza prova. È questo il passo da compiere se vogliamo lasciarci alle spalle tanto le versioni etnocentriche dell’universalismo quanto le derive nichilistiche di quel relativismo storico che assume come un a priori le forme di autocomprensione di ciascuna cultura, rendendo l’incommensurabilità sinonimo di incomparabilità e incomponibilità. 19. Per fronteggiare i “rischi globali” connessi all’attuale interim tra il non-più del vecchio ordine interstatale e il non-ancora del nuovo ordine sovranazionale che stenta a delinearsi, non vi è che una strada: dar mano a una ricostruzione del pattern dell’universalismo illuministico a partire dal criterio – i.e. dal discrimine e dal vertice ottico – della differenza. Si tratta, in altri termini, di delineare una politica universalista della differenza tracciando una duplice linea di demarcazione. Per un verso, rispetto alla politica universalista dell’identità, che ha la sua espressione più nobile nel programma eticotrascendentale kantiano. Per l’altro, rispetto alla politica antiuniversalista delle differenze, portata avanti nel Nordamerica dai communitarians e in Europa dalle etnopolitiche dei vari regionalismi e 120


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leghismi (sotto questo profilo, coglie nel segno chi – come Slavoj Žižek o Giorgio Agamben – ha sottolineato la tacita complicità tra la “tolleranza” multiculturale e il fondamentalismo). 20. Certo, non si tratta di una soluzione, ma soltanto – non è facile sbarazzarsi del Cogito cartesiano, né della svolta copernicana di Kant per chiunque intenda tenere insieme l’istanza della critica con il signum prognosticum del presente… – di una morale provvisoria. Ma nell’interregno tra il non-più del vecchio ordine e il nonancora di un nuovo ordine che stenta a delinearsi, in questa fase di “passaggio a Occidente” destinata a durare ancora a lungo, ci toccherà scrivere con una mano la parola universalità, con l’altra la parola differenza. Resistendo alla tentazione di scriverle entrambe con una mano sola: poiché – allo stato attuale delle cose – sarebbe comunque la mano sbagliata. Riferimenti bibliografici essenziali Bhabha, Homi K., The Location of Culture, Routledge, London 1994; trad. I luoghi della cultura, Meltemi, Roma 2001. Bodei, Remo, Scomposizioni. Forme dell’individuo moderno, Einaudi, Torino 1987. Cavarero, Adriana, Tu che mi guardi, tu che mi racconti, Feltrinelli, Milano 1997. Deleuze, Gilles, Différence et répétition, PUF, Paris 1968; trad. Differenza e ripetizione, il Mulino, Bologna 1971. Elster, Jon (a cura di), The Multiple Self. Studies in Rationality and Social Change, Cambridge University Press, Cambridge 1985; trad. L’io multiplo, Feltrinelli, Milano 1991. – The Cement of Society. A Study of Social Order, Cambridge University Press, Cambridge 1989; trad. Il cemento della società. Uno studio sull’ordine sociale, il Mulino, Bologna 1995. Ginzburg, Carlo, Rapporti di forza. Storia, retorica, prova, Feltrinelli, Milano 2000. Giometti, Gino, Der Mensch ist ein Selbst. L’idea dell’uomo in Heidegger a partire da una definizione del 1934, “Discipline filosofiche”, 2, 1999, pp. 309-316. 121


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Habermas, Jürgen, Theorie des kommunikativen Handelns, 2 voll., Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1981; trad. Teoria dell’agire comunicativo, 2 voll., il Mulino, Bologna 1986. – Die postnationale Konstellation, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1998; trad. La costellazione postnazionale, Feltrinelli, Milano 1999. Hall, Stuart, The question of cultural identity, in A. McGrew, S. Hall, D. Held (a cura di), Modernity and Its Futures, Polity Press, Cambridge 1992. Hobsbawm, Eric J., On History, Weidenfeld & Nicolson, London 1997; trad. De historia, Rizzoli, Milano 1997. Marramao, Giacomo, Potere e secolarizzazione. Le categorie del tempo, nuova edizione riveduta e ampliata, Bollati Boringhieri, Torino 2005. – Dopo il Leviatano. Individuo e comunità, Bollati Boringhieri, Torino 2000. – Passaggio a Occidente. Filosofia e globalizzazione, Bollati Boringhieri, Torino 2003. – Reason and identity, in R. Dottori (a cura di), Reason and Reasonabless, LIT, Münster-Hamburg-London 2005, pp. 399-406. Parfit, Derek, Reasons and Persons, Clarendon Press, Oxford 1984; trad. Ragioni e persone, il Saggiatore, Milano 1989. Ricœur, Paul, Soi-même comme un autre, Seuil, Paris 1990; trad. Sé come un altro, a cura di D. Iannotta, Jaca Book, Milano 1993. Williams, Bernard, Problems of the Self, Cambridge University Press, Cambridge 1973. – Moral Luck, Cambridge University Press, Cambridge 1981. – Identity and identities, in H. Harris (a cura di), Identity. Essays Based on Herbert Spencer Lectures Given in the University of Oxford, Oxford University Press, New York-Oxford 1995. Žižek, Slavoj, Multiculturalism, or the Cultural Logic of Multinational Capitalism, “New Left Review”, 225, 1997.

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Panikkar, Spivak e il motivo orientale PAULO BARONE

1. Che per orientarsi nei testi di Gayatri Chakravorty Spivak sia raccomandato l’uso della bussola chiamata “decostruzione” non è davvero una novità. (E nemmeno una gran scoperta, visto che negli stessi testi il rinvio al nome di Derrida è esplicito e sistematico.) C’è però una variante più subdola di questa raccomandazione secondo cui il “metodo” di lavoro di Derrida avrebbe in realtà il compito di “garantire concettualmente” le trame di Spivak, così da assicurare alla loro tormentata marca stilistica – che strozza ripetutamente il filo del discorso e con esso anche la comprensione di noi lettori – la dovuta “copertura filosofica”. Per quanto criptico o dubbio sia il contenuto argomentato, nonostante la fatica a volte richiesta per seguire la sua complessa architettura, si tratterà pur sempre di qualcosa che ha a che fare con la decostruzione (che può non piacere, ma è, filosoficamente parlando, una certezza). Si dice per esempio che Spivak “vuole portare la decostruzione al di là degli ambiti accademici nei quali è stata confinata”,1 oppure che “la decostruzione diventa qui una strategia politica”.2 In ogni caso il significato di queste formule è dubbio. Se da un lato esse ci aiutano a non rimanere preda dei mille spifferi collaterali che i testi spivakiani ci soffiano continuamente addosso frastornandoci, dall’altro, tuttavia, riducono talmente la superficie esplorabile – trasformandola nell’applicazione di un metodo precostituito – da 1. P. Calefato, “Introduzione all’edizione italiana”, in G.C. Spivak, Critica della ragione postcoloniale (1999), trad. di A. D’Ottavio, Meltemi Roma 2004, p. 12. 2. Ivi, p. 11.

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estromettere comunque il lettore e renderlo stufo anzitempo. In effetti, se consideriamo la mole e la varietà del materiale che viene mobilitato – i casi tratti dagli angoli più disparati del pianeta, la confluenza tra quelli di alto e di basso rango, le numerose lingue citate, i generi (storia, letteratura, filosofia, critica letteraria) con cui si costruisce il testo – non v’è dubbio che il giro d’aria che qui viene spalancato è davvero vertiginoso, ostico. Ma siamo davvero sicuri che un simile volo debba le sue supposte acrobazie al pilota mai domo della decostruzione? A ben vedere il ricorso alle procedure derridiane da parte di Spivak ha perlomeno un obiettivo che possiamo sinteticamente isolare con relativa semplicità: rimettere in discussione la linearità solo presunta delle contrapposizioni binarie di cui la nostra tradizione è infarcita – stesso/altro, essenza/esistenza, necessità/contingenza ecc. – in modo da resistere adeguatamente alla funesta tentazione (che a un certo punto insorge per forza) di capovolgerle e basta, attraverso una manovra, cioè, altrettanto lineare. Se lo scopo è quello di emancipare uno dei due elementi della coppia dialettica – magari quello che a noi pare più bistrattato e ingiustamente malfamato – l’atto del capovolgimento fallisce l’impresa, dal momento che un’azione uguale e contraria riafferma indirettamente il dispositivo di partenza, consacrandolo, a dispetto delle intenzioni, una volta per tutte (come insegna la critica alla cosiddetta “metafisica della differenza” che rimane sempre una “metafisica dell’identità” travestita). All’interno del multiverso contesto degli studi “postcoloniali” – e innanzitutto rispetto a quella corrente che ha messo in luce il carattere predatorio e devastante del colonialismo e dell’imperialismo occidentali sia da un punto di vista materiale che da uno culturale – ciò ha significato rimettere in discussione la sin troppo elementare ripartizione tra dominanti e subalterni, colonizzatori e nativi, residenti e migranti, centro e periferia, mostrando le contraddizioni radicali che affliggono tanto la melensa pedagogia multiculturalista quanto i rivendicativismi nazionalisti o i fondamentalismi terzomondisti. Sia la prima che i secondi ignorano il fatto di riprodurre un unico, perentorio, modello di razionalità che, mentre si propone di dare 124


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astrattamente voce all’altro – “invitandolo” a diventare come il “sé” che noi siamo (cittadini di un mondo “senza ormai vie d’uscita”), oppure “ribaltandolo” in un diverso “sé”, ma pur sempre un “sé” – ne rinnova al contrario l’esclusione e il mutismo. Proprio quando il mondo in cui viviamo sta subendo un traumatico processo di uniformizzazione e di presentificazione, occorre riconoscere che l’altro non compare alla fine di un raffinato itinerario conoscitivo, né si riabilita da solo eliminando quel sedimento di rappresentazioni erronee che lo ha seppellito. Va preso atto, insomma, che la sua conoscenza è “teoreticamente impossibile”,3 la sua collocazione “irreparabilmente eterogenea”.4 La decostruzione costituirebbe il sostegno filosoficamente più scaltro ed elaborato in questa operazione di resistenza alle scorciatoie. Essa infatti “disfa”, “disloca” le opposizioni senza “capovolgerle”. Riesce a essere “non accusatoria, non-giustificativa, accorta, situazionalmente produttiva attraverso gli smantellamenti”.5 È in grado di discutere ogni volta del chi compie l’indagine. In un “presente in dissolvenza” come il nostro, ci aiuterebbe fare i conti con le “figure elusive” che lo abitano, quelle su cui “né la medicina né il veleno – (né il concetto né il suo contrario) – fanno presa”.6 2. Il ricorso alle virtù decostruttive non è, per quanto capillare, soltanto intermittente e non procede solo per cenni. In almeno un luogo spivakiano, dal significativo titolo La messa in opera della decostruzione,7 esso viene esplicitamente tematizzato. E di questa tematizzazione almeno un punto è utile sottolineare. Nella seconda fase – più “affermativa” – del suo pensiero, dice Spivak, Derrida metterebbe in scena delle opposizioni “imponderabili”, come quelle tra giustizia e legge, etica e politica, dono e responsabilità. Tali opposizioni formerebbero delle strutture “senza struttura” 3. G.C. Spivak, Critica della ragione postcoloniale, cit., p. 295. 4. Ivi, p. 282. 5. Ivi, p. 101. 6. Ivi, p. 259. 7. Id., “Appendice. La messa in opera della decostruzione”, in Critica della ragione postcoloniale, cit., pp. 429-437. Ma cfr. anche Id., L’imperativo di re-immaginare il pianeta (1999), trad. di D. Zoletto, “aut aut”, 312, 2002.

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“perché il primo termine di ciascuna coppia non è né disponibile né indisponibile”.8 Esse sarebbero delle esperienze di alterità radicale. Dove non ha senso dire che si “passa” da un termine all’altro, come nelle questioni logico-dialettiche, quanto piuttosto che qualcosa va “deciso” aporeticamente, senza “passaggio” alcuno. Le aporie “vengono conosciute nell’esperienza di essere attraversate, sebbene esse siano dei non-passaggi”.9 La legge, per esempio, non è certamente la giustizia, benché sia giusto che ci sia della legge. Mai si potrebbe “passare” dalla giustizia alla legge per linea diretta. Una connessione del genere sarebbe piuttosto un non-passaggio, un’aporia. Stesso discorso per le connessioni tra etica e politica o tra dono e responsabilità. Giustizia, dono, etica – benché direttamente inaccessibili e di sicuro non scambiabili con i loro “opposti” – sopravviverebbero così “per cancellazione” nelle forme più prosaiche della legge, della responsabilità e della politica in cui si ritrovano ospitati, modificandole. Comunque si voglia intendere questa piccola istantanea dell’ultimo Derrida (fedele, sommaria, semplificatoria, ridondante, acuminata) una cosa sembra emergerne con nitore: per mettersi in condizioni di fare delle esperienze dell’altro – dunque le uniche esperienze degne di questo nome – è necessario screziare il vetro del nostro sguardo filosofico, rigarlo senza infrangerlo. Anche se sappiamo che, gira gira, esso tende a instaurare la solita messa a fuoco, la prospettiva di sempre, non possiamo con ciò saltarne fuori. Queste “esperienze” definite dell’impossibile – che non alludono a chissà quale rarefatta circostanza ma punteggiano ormai quotidianamente la nostra vita – hanno dunque bisogno, per essere esplorate e valorizzate a dovere, di preparazione. La posizione che le sperimenterà va raggiunta, guadagnata, portando le nostre lenti concettuali – l’usuale processo di soggettivazione, i riduzionismi e le assimilazioni mascherate, il tradizionale primato accordato all’autocoscienza, ecc. – al massimo dell’incrinatura loro consentita, evitando tuttavia che si spezzino. In questo senso Spi8. Id., “Appendice. La messa in opera della decostruzione”, cit., p. 433. 9. Ibidem.

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vak, invece che esserne da tergo manovrata, sembra piuttosto utilizzare lucidamente la decostruzione come il sistema più rapido (ed efficace) in vista di un simile risultato. Trattandolo, dunque, come quell’insieme di pratiche capace di lavorare “aporeticamente” – e tenere retrospettivamente a bada – il patrimonio culturale. Il motto di questo decostruzionismo “forzato” sarebbe: girovagare di meno nelle stanze della tradizione e fornire invece quanti più siti filosoficamente “stremati” possibili della medesima. Si tratta forse di un eccesso di fiducia nelle risorse della decostruzione, chiamata a un così duro surplus di lavoro? A ogni modo il discorso di Spivak esige screziature e incrinature concettuali continue con le quali sovente esso si inasprisce (motivo non ultimo del suo fascino). Eppure non è un estremismo fine a se stesso. Perché è vero che “l’interruzione dell’epistemologico” – che ricorre di frequente – non è una parola d’ordine molto originale, ma la sua diffusione in larga scala – il “tagliuzzamento” pressoché integrale del corpo teorico – è ritenuto l’unico modo per provare ad alterarne davvero gli equilibri consueti. (Come dice Spivak, occorrerebbe desistere dal proposito di “produrre conoscenza intorno ad altra conoscenza”10 o “costruire la migliore teoria possibile” per “riconoscere piuttosto il fatto che la pratica eccede sempre la giustificazione teoretica”.11 “Il nostro compito come lettori – infatti – è quello di prendere una decisione rischiosa nella ‘notte del non-sapere’, e non soltanto imparare a pensare il positivo e il negativo nello stesso momento.”12) Una Ragione disseminata di ferite non è, allora, che lo sfondo su cui stendere il materiale eterogeneo dei casi concreti, degli episodi letterari, dei fatti di cronaca, delle circostanze del mondo o della sua storia. Per Spivak si tratta evidentemente di materiale aureo. L’attraversamento aporetico dei dispositivi teorici avrebbe il compito di rendere finalmente porosa la membrana concettuale in modo da illuminarla con incontri mai 10. Id., Raddrizzare i torti (2002), in N. Owen (a cura di), Troppo umano. La giustizia nell’era della globalizzazione (2003), trad. di V. Versace e M. Riccucci, Mondadori, Milano 2005, p. 251. 11. Ivi, p. 205. 12. C.G. Spivak, Critica della ragione postcoloniale, cit., p. 345.

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avuti prima. Fatti minori, marginali, più o meno disgraziati: le lotte per una nuova conduttura d’acqua, storie di donne adivasi dell’India rurale, di bambini dei sobborghi di Calcutta, di integrazioni fallite, ritagli di giornali di posti lontani, citazioni di rango inferiore. Ogni pagina di Spivak è un tentativo, a volte riuscito a volte no, di dare loro spazio, provando così a smentire l’amata Mahasweta Devi quando afferma che “ci sono persone che varano leggi, persone che guidano le jeep, ma nessuno che accenda il fuoco”,13 per seguire piuttosto la raccomandazione della Virginia Woolf di Una stanza tutta per sé: “lavorare così, anche se in povertà e nell’oscurità, vale certamente la pena”.14 3. Da un punto di vista ristretto l’incontro tra i pori della superficie concettuale e i fatti “minori” dovrebbe servire quantomeno a confondere certi pregiudizi. L’altro cui ci rivolgiamo, per esempio, non è sempre e necessariamente “un mondo che sta chiedendo aiuto” o “il fardello dell’uomo bianco”; e, viceversa, è assurdo non considerare positivamente l’ingresso dei gruppi subalterni nei circuiti della cittadinanza come se la subalternità fosse un valore da preservare. Tali “rimescolamenti”, che potrebbero sembrare delle semplici toppe, acquistano il senso che loro compete alla luce di un punto di vista allargato. La posta che quest’ultimo mette in gioco è altissima, dal momento che mira, senza mezzi termini, a un cambiamento radicale e generale di “disposizione mentale”, di habitus (e dunque a un ripensamento dei modi usuali di formare una soggettività). C’è così bisogno di una nuova idea (e una nuova pratica) di responsabilità che sia “orientata” alla e dall’alterità. La tradizione dalla quale noi proveniamo, tuttavia, è abituata a considerare l’altro in modo “derivato”, come la mera negazione di sé. Procede attraverso la logica del “riconoscimento” e riconduce tutto, compreso l’altro sinonimo di trascendente, entro le maglie strette delle giustificazioni razionali. La laicità disperata che ci caratterizza – 13. Citato in Id., Terrore. Un discorso dopo l’11 settembre (2004), trad. di D. Zoletto, “aut aut”, 329, 2006, p. 14. 14. Citato in Id., Morte di una disciplina (2003), trad. di L. Gunella, introduzione e cura di V. Fortunati, Meltemi, Roma 2003, p. 57.

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“la più inconsistente delle sistemazioni possibili per riflettere la condizione umana”15 –, dove il trascendente viene “privatizzato e razionalizzato”, ne è la prova. Rivendicarla significa come minimo “non avere alcun contatto con i popoli del mondo”,16 chiudersi in se stessi e imporre questa chiusura (ignorando inoltre – come almeno a partire da Kant dovrebbe invece essere chiaro – che solo una ragione che incorpori alcune intuizioni del trascendente darà il meglio di sé). Per contro, quasi tutte le culture religiose “precapitalistiche” diffuse tra i subalterni, sensibili a un’origine ultra-razionale e ultra-individualistica degli imperativi etici, vincolano però l’altro a una determinata rappresentazione. Inoltre, proprio la vittoria del capitalismo su vasta scala (globalizzazione) pone le diverse rappresentazioni religiose in conflitto tra loro, compromettendo il nostro accesso all’eventuale patrimonio custodito dall’una o dall’altra. E per quanto ricche, nessuna delle religioni tradizionali ha più la capacità di governare da sola lo scenario attuale. Come costruire allora una responsabilità che non sia né un obbligo né una finzione, ma un diritto di ciascuno? Per Spivak è, per esempio, grazie all’immagine del “pianeta” che ciò può avvenire. Una sensibilità planetaria, orientata al “pianeta” (“quello che impariamo sui banchi di scuola durante le lezioni di astronomia”,17 quello che noi abitiamo, ma “in prestito”) possiede molti pregi: incarna plausibilmente l’altro, incrinando così la versione solo “negativa” della dialettica; e lo incarna abbracciando – ma senza sottostare a – la numerosa sfilza di nomi con cui viene di regola sequestrato: Madre, Nazione, Dio, Natura. Tale immagine pone, cioè, la nostra origine “fuori” di noi, lasciandola però libera. Sicuramente all’altezza dei nostri tempi “globali”, si rivolge insieme al dominante e al subordinato, sia alla ragione che al trascendente, giocando al limite di entrambi. L’alterità planetaria, insomma, interpella tutti nella pluralità delle diverse culture. Che questa idea assomigli a un compromesso è inevitabile: si muove lungo una linea mediana. I pori e le screziature, le aporie e le 15. Id., Terrore. Un discorso dopo l’11 settembre, cit., p. 39. 16. Ivi, p. 34. 17. Id., L’imperativo di re-immaginare il pianeta, cit., p. 87.

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ferite della ragione stanno nel mezzo. I fatti minimi portati alla luce anche. La stessa priorità qui accordata alla facoltà dell’immaginazione (e alle materie letterarie che la stimolano), la continua valorizzazione del dialogo, dimostrano che il punto nevralgico è quello del “tra”. Un testo del genere, teso a promuovere una sensibilità planetaria, non può essere giudicato dall’originalità o meno delle sue formule, dalla meticolosità o no delle sue analisi filosofiche, dalla sottigliezza o dalla tenuta presunta di alcune sue trovate, dal tasso di pirotecnicità del materiale proposto. Esso brilla invece per l’urgenza, l’impellenza, l’ostinazione con cui cerca questa soglia nevralgica, per l’ossessione con cui la sollecita, per l’insoddisfazione nei confronti di qualsivoglia tradizione o appartenenza culturale. Solo le immediate prossimità al loro punto di rottura lo attraggono. In questa zona risicata ogni tradizione lascia intravedere tracce della responsabilità a-venire di cui siamo in cerca, tracce imperdibili del cambiamento di mentalità auspicato. La predilezione della decostruzione per le tracce può considerarsi il motivo più sintetico per spiegare il privilegio costante che qui le viene accordato. Nella sua versione forzata, estrema – infine –, la decostruzione mostra non a caso “affinità” con “molte cosiddette etno-filosofie (quali ad esempio il Tao, lo Zen, il Sunyavada, la filosofia di Nagarjuna, varietà di Sufi e simili)”.18 Si tratta di rilievi preziosi. Pur tuttavia, se le tracce sono tutto, questo tutto sembrerà sempre poco. Come dimostrerebbe, in fondo, la particolare genericità delle parole d’ordine più frequenti del discorso spivakiano: “imparare a imparare dal basso”, “apprendere dal singolare e dall’inverificabile”, “imparare le lingue”, “risistemare in modo non coercitivo il desiderio”. 4. Senza prestare attenzione a tale “zona nevralgica” e alla sua specifica conformazione, il riferimento a un autore come Raimon Panikkar può sembrare campato per aria. L’aria si trasforma in luminescenza, invece, se riconosciamo che – decostruzione o no – le questioni più urgenti passano proprio da qui, da questo crocevia. 18. Id., “Appendice. La messa in opera della decostruzione”, cit., p. 435.

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La dimestichezza con cui Panikkar vi si aggira gli deriva probabilmente dalla sua storia biografica – è figlio di una catalana e di un indiano e ha trascorso un terzo della sua vita in Europa, un terzo negli Stati Uniti e un terzo in India – nonché dalla sua eterogenea formazione culturale (teologia, chimica, filosofia). Dati “personali” di cui nessuno sa calcolare l’esatto “peso”. Forse tutto l’insieme permette a Panikkar di esprimersi in modo ancora più drastico del previsto: non di “cambiamento di mentalità” abbiamo bisogno, ma di una metanoia intesa come “superamento del mentale”.19 Per non dire dell’ormai abusatissimo (e irrinunciabile) termine di dialogo. Troppo facile rifarsi il trucco e mostrare con esso un volto amichevole e conciliante. Prima ancora di sondarne le pieghe e le valenze, Panikkar impugna l’etimologia più radicale di “dialogo”: dià ton lògon, attraversamento, “perforazione” del logos.20 O ancora: molti di noi sono senz’altro pronti a riconoscere che occorre distinguere l’autentico dialogo “dialogale” da quello “dialettico” a cui assomiglia ma in cui resta strozzato. E altrettanti che un dialogo si avvera solo in una dimensione “interculturale”. E, tuttavia, quanti ne rimarrebbero disposti ad ammettere che – “a meno di non ridurre la religione a un sistema istituzionalizzato di credenze” – “l’anima di ogni cultura è la religione” e dunque che “il dialogo interculturale sfocia, in ultima istanza, in un dialogo interreligioso”, che è “religioso” addirittura – “in forma cosciente o meno” – “ogni dialogo”?21 A ogni modo il senso di questi giri concentrici via via più sottili è chiaro: hanno il compito di circoscrivere una strategia dialogica quanto possibile autonoma dalle ordinarie procedure razionalistiche. Senza illudersi cioè che queste ultime siano ancora riformabili, addomesticabili, che producano in loro stesse dei varchi momentanei, o che siano scomponibili a piacimento (come alla fin fine ritengono il multiculturalismo e il relativismo assoluto). L’il19. R. Panikkar, La realtà cosmoteandrica (1993), a cura di M. Carrara Pavan, Jaca Book, Milano 2004, p. 101. 20. Id., L’esperienza della vita. La mistica (2004), a cura di M. Carrara Pavan, Jaca Book, Milano 2005, p. 123. 21. Id., Pace e interculturalità (1999), a cura di M. Carrara Pavan, Jaca Book, Milano 2002, pp. 13, 25 e 30.

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lusione, in altri termini, è sempre quella di pensare di ricavare un criterio metaculturale e principi validi per tutti. Così facendo si presuppone l’idea di un campo logico impersonale. Questo, tuttavia, non è un assetto “oggettivo”, ma un atteggiamento “parziale”, solo un punto di vista. Giungere a considerarlo tale – di parte – (e rimettere un dialogo unicamente a se stesso, privo di modelli di riferimento) non va da sé, poiché una concatenazione concettuale produce conoscenza e autocoscienza: torna costantemente sui propri passi. E tuttavia, “la vita si riduce – forse – alla sua comprensione logica”?22 Se per noi una domanda del genere rinfocola il dubbio, per Panikkar è semplicemente retorica. C’è infatti una bella differenza tra “coscienza e conoscenza” e “la coscienza è più ampia della comprensione”.23 Non posso – è vero – comprendere qualcosa che non comprendo, “ma posso essere cosciente del fatto che non lo comprendo”. Insomma, ci si può genericamente rendere conto di qualcosa, si può discernere un determinato stato di cose, senza con ciò dare per forza avvio alla sequenza che conduce all’intelligibilità, dove lo stato di cose si fa intellettualmente trasparente e identico a noi che l’abbiamo pensato. (Pensare l’essere, la realtà, non significa che l’uno e l’altra cadano del tutto nelle maglie del pensiero. E se pare una contraddizione è solo perché abbiamo già eletto la ragione – una parte – ad arbitro neutrale.) Esisterebbe così una realtà “incomprensibile, ma non incredibile”24 – una sorta di “evidenza acustica” –, alla quale avrebbe accesso una coscienza capace di non ripiegarsi su se stessa. Un dialogo inteso come “perforazione del logos” a questo servirebbe: bucare il nostro intellectus curvus per giungere “a un livello di coscienza libero da concettualizzazione”.25 Qualcosa che si potrebbe benissimo definire una zona spensierata. Secondo Panikkar essa ci compete senz’altro. Grazie alla sua frequentazione acquista un tono più morbido affermare che “non c’è via d’uscita cosciente e moti22. Ivi, p. 41. 23. Id., L’esperienza della vita. La mistica, cit., p. 90. 24. Id., Tra Dio e il cosmo. Dialogo con Gwendoline Jarczyk (1998), trad. di M. Sampaolo, Laterza, Roma-Bari 2006, p. 175. 25. Id., La nuova innocenza (1991), a cura di M. Carrara Pavan, Servitium editrice, Bergamo 2003, p. 182.

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vata”,26 potendo sorridere della presunta autosufficienza del lume concettuale. “Un poliziotto trova un ubriaco che in piena notte cerca carponi qualcosa accanto a un lampione. ‘Che cosa stai facendo?’, gli chiede. ‘Cerco la chiave di casa’, risponde. ‘L’hai persa qui?’ ‘No, ma è l’unico posto in cui c’è luce’, dice l’ubriaco.”27 5. Anche le procedure logiche della nostra tradizione contattano una simile zona, sebbene negativamente o loro malgrado. È noto, infatti, che la ragione non può dimostrare da sé il proprio avvio, che del suo fondamento non può “dare ragione”, pena una regressione all’infinito. Sulla scia di Schelling, Rosenzweig, Florenskij (ma pure di Nietzsche, Wittgenstein e molti altri), Panikkar sottolinea come a un certo punto ci si fermi, si diano le cose per scontate, per acquisite, senza pensarci ulteriormente su. Ebbene, “ciò in cui crediamo, senza sentire il bisogno di porci alcun altro perché”,28 lì dove anche la ragione riposa e si acquieta soddisfatta ohne warum, senza perché, fermando un’indagine altrimenti destinata a girare senza fine, troviamo il mythos. Il mythos costituisce “l’ultimo orizzonte di presenzialità”, l’“ultima istanza” che abbraccia “più che la mera intellegibilità”.29 Insomma il mito non è oggetto di conoscenza razionale (le due cose non sono simmetriche), e casomai è il mito che ci permette di “credere” nella conoscenza. Naturalmente i “miti” cambiano: ma a ogni demitizzazione (quando un mythos è compreso e diviene mitologia) si passa a un’altra mitizzazione (che il logos accetta miticamente). Inoltre essi sono molteplici, almeno tanti quanti le diverse culture e le differenti lingue. Questa presenza del mythos è decisiva, dato che è proprio la partecipazione a essa che ci permette di intraprendere un dialogo interculturale degno di questo nome. Solo la faglia invisibile del mito, infatti, “ha a che fare con ciò che si accetta senza comprendere”:30 “io non ti tollero

26. Ivi, p. 18. 27. Id., Pace e interculturalità, cit., pp. 42-43. 28. Id., L’esperienza della vita. La mistica, cit., p. 87. 29. Ivi, p. 90. 30. Id., Mito, fede ed ermeneutica (1979), trad. di S. Costantino, Jaca Book, Milano 2000, p. 47.

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a causa delle idee che abbiamo in comune, ossia a causa del contenuto di logos del nostro rapporto, ma grazie al mito che unisce te a me… Laddove esiste un dissenso intellettuale, posso tollerarti soltanto se riesco a mettermi in comunione con te su un piano mitico”.31 Come la presenza di una coscienza spensierata modula posizioni dialetticamente inconciliabili (e impedisce che la ragione abbia l’ultima parola), così il mythos, attingendo a quella stessa spensieratezza, distribuisce su più piani le forze d’urto provenienti da differenti culture, smussandone il dissidio altrimenti inevitabile. Anche se sul piano empirico nulla garantisce il buon esito dell’incontro, il dialogo rimane in linea di principio senz’altro necessario. La regola dichiara infatti che: “se non conosco l’altro non potrò conoscere nemmeno me stesso”.32 Solo tenendo conto dell’immagine che l’altro si fa di me riesco a divenire consapevole dei miei presupposti reali, dei miei miti e a prendere dunque atto dei limiti e della costitutiva contingenza che mi caratterizzano. Ecco perché il corollario della regola recita: “quanto più siamo l’altro, tanto più siamo noi stessi”.33 Essere perciò il più possibile “discepoli e non maestri”, conformarsi “al mondo delle cose imparate”.34 In questo senso – è chiaro – nessuna appartenenza culturale è autosufficiente. Qualcosa sfugge ai “pensieri” di ciascuna, e così facendo ci costringe a parlare di pluralismo, di molteplicità de jure delle tradizioni (e non della loro semplice “pluralità”, del loro mero e plurimo stato di fatto). Simultaneamente questo “qualcosa” sfugge secondo quella particolare, irriducibile e insopprimibile modalità – o linguaggio – che ogni tradizione rappresenta. Dunque esso apparenta le diverse culture non per analogia, come farebbe una presunta e comune “cosa in sé” di stampo kantiano, ma rendendo ognuna l’equivalente omeomorfico dell’altra, attraverso cioè una corrispondenza di posizione, secondo cui Dio, Brahman e Nirvana, per esempio, pur non essendo affatto la stessa cosa, sono “equivalenti” perché nei loro rispettivi contesti giocano un ruolo 31. Ibidem. 32. Id., Pace e interculturalità, cit., p. 64. 33. Id., La nuova innocenza, cit., p. 107. 34. Ivi, p. 217.

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sovrapponibile. Quello che emerge, insomma, non è né la verità di un fondamento assoluto, né la sua negazione (né il neocolonialismo multiculturale, né il puro relativismo), ma una insuperabile e radicale relatività. Al fondo di tutto c’è relazione, medialità, interin-dipendenza, interconnessione. Davvero incontenibile, in-teorizzabile e spensierato sarebbe dunque questo tra, questa relazione che vincola tutto con tutto e che è la realtà. Consideriamo infine la situazione attuale. Se è innegabile che “nessuna religione, nessuna civiltà, nessuna cultura” possiede ormai la capacità di fornire una versione esclusiva delle cose; se tutte avrebbero perciò bisogno di “convertirsi”35 e di dialogare tra loro senza perdere nemmeno un minuto; se insomma conveniamo sulla indispensabilità di un incontro multilaterale, è perché questo “tra” marcherebbe per intero lo scenario attuale. Secondo Panikkar non si tratta di una congiuntura momentanea, ma di una nuova piega assunta dalle cose. Di qui la sua insistenza sullo spensieramento. La “coscienza spensierata” costituirebbe il requisito minimo necessario di una forma di sopravvivenza inusitata e in piena espansione. Di un nuovo modo di essere che non ammetterebbe deroghe. Per restare vivi è di una visione mistica che avremmo bisogno: una “nuova innocenza”, la sola all’altezza del tra. (“Comunque vorrei insistere sul fatto che, nel mondo moderno, solo i mistici sopravviveranno. Gli altri saranno soffocati dal ‘sistema’, se vi si ribellano, o affogheranno nel sistema, se vi si rifugiano.”36) 6. “Superare il mentale” e guadagnare uno stato di spensieramento può apparire sulle prime un’idea stantìa. In realtà la proposta panikkariana ha ben poco a che vedere con il misticismo tradizionale, “riduttivo”, “specializzato”, distaccato, appannaggio esclusivo di alcuni e di alcune, più o meno eccezionali, facoltà, regolarmente identificato con rapimenti, estasi e allucinazioni. Per Panikkar, invece, non si tratta in alcun modo di una “caduta da cavallo”. Il “terzo occhio” – dovendo prendere posto 35. Id., Tra Dio e il cosmo, cit., p. 133. 36. Id., La nuova innocenza, cit., p. 167.

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nel “tra” – non potrà che essere la composizione, l’integrazione e la piena soddisfazione degli altri due. Non solo l’occhio razionale dovrà rimanere ben aperto, ma anche quello sensibile. Uno sguardo così integrato è terzo e innocente perché non fa in tempo a riflettersi in se stesso, perché non ha un luogo proprio, specifico, dove annidarsi e ripiegarsi. Ogni riflessione costituisce, al contrario, una forma di frazionamento della realtà – sebbene le frazioni ottenute possano essere più o meno dorate. L’Occidente, in generale, ne conosce molte: monoteismo, logocentrismo, storicismo, individualismo. Di volta in volta a un certo singolo aspetto è assegnata una posizione di predominio che a ritroso ordina e orienta l’insieme dei rimanenti. Produrre “trascendenza” – subordinare e sacrificare le nostre azioni a un fine ulteriore, orizzontale o verticale che sia – pare così una mossa ineluttabile. D’altra parte – nota Panikkar – un comportamento del genere non è del tutto casuale. Per una mentalità prevalentemente occidentale, infatti, una cosa è considerata, in generale, tanto più se stessa quanto più riesce a differenziarsi e a “non-essere” un’altra. Siamo governati dal principio di non-contraddizione. (In ambito abramitico Dio potrà così essere descritto come ganz Anderes, “totalmente Altro”.) In India invece – e in generale in Oriente – una cosa è tanto più se stessa quanto più si libera di ogni carattere distintivo e si fa generica, comune. (“L’identità del Brahman è talmente infinita che non si distingue da niente. La sua identità non è la sua differenza. La sua identità è così infima che non la si può distinguere – e quindi separare – da niente.”37) Piuttosto che il principio di non-contraddizione, prevale qui il principio di identità. Questo riferimento all’atteggiamento orientale illustra assai bene in che senso lo sguardo panikkariano si definisca “innocente”. La “spensieratezza” in questione vorrebbe sottrarre la realtà al frazionamento sistematico, alla sua scomposizione per differenze esclusive e dualismi irricomponibili, alle fughe idealizzanti con cui essa viene, a vario titolo, mortificata. Caratteri del genere 37. Id., Tra Dio e il cosmo, cit., p. 31. Cfr. anche Id., Le fondament du pluralisme herméneutique dans l’hinduisme, in E. Castelli (a cura di), Demitizzazione e immagine, CEDAM, Padova 1962, pp. 243-269.

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costituiscono il marchio di fabbrica dell’Occidente (ma sempre più in auge ormai anche in Oriente). E tuttavia senza cedere a un monismo indifferenziato – di stampo orientale ma sempre più in uso anche in Occidente –, senza sentirsi costretti a optare per il polo opposto, senza dover cadere dalla padella dell’autocoscienza alla brace dell’incoscienza. Al contrario, invece, seguendo una certa aria orientale, ciascun elemento differenziale – così dannatamente decisivo per la nostra mentalità – potrebbe venire salvaguardato, a patto che la sua “verità” non fosse più necessariamente collegata alla “non-verità” di un altro elemento. Questa coscienza a-duale, integrante, valorizzerebbe semplicemente quello che è. Sperimenterebbe ogni gesto, ogni istante della nostra generica e anonima quotidianità come pienamente realizzato, già ricompensato, libero dall’idea di legittimarsi in funzione di qualcos’altro, di ottenere un senso solo alla luce di un’istanza che lo sovraintende e che ne esorbita, “vero” in quanto tale. In un modo non dissimile dalle “illuminazioni profane” di Benjamin, dal Wittgenstein dei “giochi linguistici” – in contatto con lo spinozismo di Deleuze e vicino allo statuto delle eterotopie di Foucault –, lo spensieramento di Panikkar coinciderebbe – né più né meno – con le nostre attività di sempre. La “nuova innocenza”? “Tornare”, o semplicemente “ritrovarsi”, ad “amare, conoscere, camminare, parlare”.38 Sciogliere, lasciar dissolvere la questione su come ciò sia possibile – superare la domanda, invece di negarla o evitarla – per (ri-)aderire, addirittura e più radicalmente ancora, alla dimensione quotidiana per eccellenza, ovvero al fatto nudo e crudo di respirare, al puro “sentirsi vivo”, senza nessun altro attributo, senza alcuna ulteriore qualità. Prerogativa di una simile (ri-)adesione? Godere di una certa “calma”, essere “acquietati”, in “pace”. Quello della coscienza spensierata sarebbe finalmente uno sguardo appagato, sazio: non perché, avendo ridotto le cose al minimo e rinunciato a quasi tutto, si accontenterebbe, giocoforza, del nonnulla – di un respiro; ma perché sarebbe riuscito a sperimentare già ora, nell’immediato della circostanza più 38. R. Panikkar, La nuova innocenza, cit., p. 100.

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banale e concomitantemente a essa, l’insieme dei “beni” che ci vengono solitamente “promessi” per un “dopo” più o meno lontano e indefinito. Realizzando ed esaurendo “adesso” tutto il possibile, questo sguardo, senza rinuncia alcuna, avrebbe dotato il proprio tempo di tutta la “pienezza” immaginabile, liberandosi, così, tanto dall’opprimente illusione di dover sempre “cercare” un risultato migliore, quanto dalla continua frustrazione di non essere in grado di ottenerlo. Lungi, allora, dall’esaltare il grado più spelacchiato delle cose, il riferimento al semplice atto del respiro indicherebbe che una “coscienza spensierata” e appagata si trova, benché inavvertita o celata, alla portata di chiunque, sottesa a qualunque condizione e presente in ogni momento. Perciò nessuna paura: “se vedi il Buddha, uccidilo!”, “se incontri il Cristo, mangialo!”,39 così da riconoscere che “anche se (prima) non lo sapevamo, eravamo già quello”,40 eravamo già redenti, risorti, salvi; sin dalla prima mossa “là” dove si “doveva”. Al di là delle sue implicazioni più squisitamente “spirituali”, un simile carattere di pienezza impedisce di ricondurre lo spensieramento entro l’ambito specifico della coscienza estatica (presumibilmente in auge nel nostro passato arcaico), e, insieme, di considerarlo in alternativa alla coscienza riflessiva (che si è successivamente imposta). La nuova innocenza, infatti, mentre sancisce la perdita definitiva dell’innocenza primitiva, non si contrappone frontalmente alle procedure razionali allo scopo di proteggere dalla corrosività della critica un certo angolo aureo dell’esperienza. Al contrario, lascia che il dubbio si potenzi, esalti al massimo grado la propria natura e si ritorca infine contro se stesso, autodistruggendosi come criterio ultimo. Così facendo, essa semplicemente si accomoda, “siede” nel bel mezzo dei circoli viziosi, nelle macchie cieche delle opzioni indecidibili – esiti inconfondibili di ogni fioritura concettuale – e ne interrompe il gesticolare alla fin fine disperante. 7. Il profilo dello spensieramento panikkariano, e in particolare il rapporto che esso intrattiene con la coscienza riflessiva, getta sul 39. Ivi, p. 42. 40. Ivi, p. 45.

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discorso di Spivak, a cui è per certi versi accomunabile, una luce non priva di interesse. Malgrado, infatti, l’esplicita insofferenza nei confronti delle mere prestazioni concettuali, dell’accatastamento compiaciuto e fine a se stesso di elementi conoscitivi; nonostante la denuncia della monotona prevedibilità degli ordinari dispositivi di sapere e il privilegio accordato alla “discontinuità etica”, il procedimento spivakiano rischia di apparire prigioniero di un indefinito rimescolamento del patrimonio culturale. Proprio tenendo conto che il suo gesto-limite di “tagliuzzamento” (di decostruzione “forzata”) del corpo teorico tratta con un materiale considerato evidentemente già sfinito e lo valorizza solo come un blocco stremato di filamenti discorsivi, qualunque ulteriore – anche minima – sollecitazione imposta a questo insieme è fonte di innumerevoli resistenze: esso reclama più di una giustificazione. Figurarsi quando Spivak ipoteca addirittura un “impegno a lungo termine”. Così, perché continuare a spostare un mobile che è stato ottimamente disfatto in mille pezzi? Quanto può “durare” l’iniziativa – se l’a-venire non è un futuro ordinario ma già qui incombe? Con quali risorse – se tutti i beni di famiglia sono stati impegnati? E in vista di che – se anche l’altro lega il suo destino alle medesime maglie consunte dei tradizionali regimi discorsivi? Arrestando senza contraddire questo processo di infinita “tagliuzzabilità” delle cose, lo “spensieramento” offrirebbe alla loro infragilita e quasi evanescente condizione una chance inaspettata – “incomprensibile ma non incredibile”: potersi percepire realizzata e acquietata proprio in una vita filamentosa e puntiforme, una vita che – anche volendo – non sarebbe (più) in grado di andare da nessuna parte. Gli stessi testi di Spivak sembrano adombrare e qua e là quasi preannunciare una simile opportunità, anche se in forma ancora rovesciata, “disperata”, come, per esempio, nel caso delle citazioni di Tagore – “mio sfortunato paese, dovrai essere uguale nella disgrazia a ognuno e ognuna di tutti e tutte coloro cui tu hai portato disgrazia per millenni”41 – o di Coetzee –“comincia41. G.C. Spivak, Etica e politica in Tagore, Coetzee e in certe scene dell’insegnamento (2002), trad. di S. Adamo, “aut aut”, 329, 2006, p. 113.

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re dal fondo. Con niente. Non con niente altro che. Con niente. Nessuna carta da giocare, nessuna arma, nessuna proprietà, nessuna dignità”.42 Citazioni in cui il richiamo spivakiano alla “sensibilità planetaria” – quell’alterità che “ci contiene e a un tempo ci allontana”43 – pare acquistare una risonanza effettiva. Come delineare insomma questa chance? Sappiamo che una coscienza spensierata pur non essendo “individuale” non è automaticamente e per contrasto “collettiva”. Il suo carattere “statico”, inoltre, non significa “perenne”: l’“eternità” qui non dura e batte piuttosto il momento, sgrana e acuisce il tempo, lo intreccia e lo colora, esaltandone così l’andamento lampeggiante e intermittente, la cadenza rapida e il volteggio breve. In ogni caso lo spensieramento non sussiste mai in maniera “isolata”, “pura”. Simultaneamente esso non è “proprietà” di nessuno, non giunge alla fine di un percorso, non matura in giardini preposti alla sua coltivazione e contemplazione. Sopravvive invece all’insaputa di qualunque forma di “consapevolezza”, inconfigurato, libero. E pur tuttavia non chissà dove, ma “vicinissimo”, tra le righe, “addossato”. Si tratta di un “riconoscimento ignorante”? Di un riconoscimento che procede oltre le parole, o meglio, che si esercita valorizzando il “retro” insignificante della loro significatività? Giungendo infine alla Mellah, il quartiere ebraico di Marrakech, Canetti racconta del suo incontro con il patriarca del luogo, un vecchio dalla “barba bianca e gli occhi ridenti”. Questi, una volta venuto a conoscenza per mezzo di un interprete delle origini ebraiche di Canetti, prese a pronunciarne ripetutamente il nome, sillabandolo con cura. “Dicendolo non mi guardava in faccia, e anzi teneva gli occhi fissi davanti a sé, come se il nome fosse più vero di me, e come se esso, il nome, meritasse di essere indagato… Lo soppesò con magnanimità quattro o cinque volte; mi sembrò di udire il suono dei pesi… Sapevo che avrebbe trovato il senso e il peso del mio nome, e quando ebbe finito, alzò lo sguardo su di me e di nuo42. Ivi, p. 116. 43. Id., L’imperativo di re-immaginare il pianeta, cit., p. 73.

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vo mi rise negli occhi. Ora stava lì come a voler dire: il nome è buono; ma non esisteva una sola lingua nella quale potesse dirmelo. Lo lessi sul suo volto e provai per lui un amore invincibile.”44 Attraverso questa perlustrazione sonora del nome, Canetti sperimenta un riconoscimento di sé tanto sottile quanto discorsivamente muto. Quello stesso tipo di riconoscimento che egli eserciterà a sua volta – nel capitolo conclusivo del racconto – per “intendere” lo speciale, radicale, splendore di una vita raggomitolata attorno a un unico dettaglio, qualcosa non altrimenti raggiungibile: un “piccolo fagotto scuro” steso per terra nella piazza grande della città, incappucciato, probabilmente senza gambe, né braccia, né lingua. Fatto neppure di una voce, ma di un semplice suono – “a-a-a-a-a” – emesso per ore “con uno zelo e una costanza senza pari”, “il suono che sopravviveva a tutti gli altri suoni”.45 Sappiamo che Canetti, per riferirsi a “riconoscimenti” del genere, utilizzò, verso la fine della sua vita, l’espressione “motivo orientale”.46 Questo potrebbe benissimo essere il termine con cui riassumere in via provvisoria i molteplici fili tematici che intrecciano la questione dello spensieramento. Se è vero che le nostre vite avanzano ormai per singoli filamenti sonori, il motivo orientale è senz’altro all’ordine del giorno. E se è altresì vero che nessuno, al momento, può scommettere su un suo possibile uso “politico”, è quanto mai certa, invece, la “mossa” solitaria attorno alla quale esso stesso si restringe e si tende come un arco, e di cui sin d’oggi sollecita la pronta esecuzione. Per provare a vincere la scommessa che lo riguarda, il motivo orientale esige la mossa dell’estinguere. Non distruzione, decostruzione, oltrepassamento, rovesciamento – né tanto meno restaurazione –, ma estinzione spensierata del patrimonio culturale, del nostro serbatoio metafisico: anch’esso, in fondo, ristretto oggigiorno a nulla più di un “piccolo fagotto scuro”, a un unico suono emesso per ore. (Si tratterà allora di una mossa rapida e indolore?) 44. E. Canetti, Le voci di Marrakech (1964), trad. di B. Nacci, Adelphi, Milano 1983, p. 90. 45. Ivi, p. 126. 46. Y. Ishaghpour, Elias Canetti. Metamorfosi e identità (1990), trad. di S. Pietri, a cura di A. Borsari, Bollati Boringhieri, Torino 2005.

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Bergson e Bachelard lettori di Einstein GASPARE POLIZZI

Introduzione: il contesto francese Vorrei delineare sommariamente due modalità di ricezione della teoria della relatività negli ambienti filosofici francesi focalizzando l’attenzione sull’interpretazione fornita da Henri Bergson e indicando contrastivamente il percorso che condurrà all’epistemologia di Gaston Bachelard. Mi propongo un duplice obiettivo. Da un lato, mostrare con un piccolo esempio un modello di definizione del rapporto tra scienza e filosofia agli inizi del Novecento, che potrebbe essere fatto giocare in altri contesti, come quello della cultura filosofica di lingua tedesca, tra le posizioni di Ernst Cassirer, Hans Reichenbach e Moritz Schlick.1 Dall’altro cogliere in un dettaglio la definizione di un nuovo spazio di sapere – quello dell’epistemologia contemporanea – alternativo rispetto alla filosofia della scienza tradizionale e autonomo rispetto alla ricerca scientifica vera e propria, che costituisce, a mio avviso, uno dei maggiori tratti distintivi della filosofia contemporanea.2 1. Tra gli studi più recenti sull’argomento trascelgo, per la sua completezza, P. Parrini, L’empirismo logico. Aspetti storici e prospettive teoriche, Carocci, Roma 2002; nella prospettiva di una rilettura del kantismo del Novecento rinvio a G. Cacciatore, Cassirer interprete di Kant e al mio Oltre l’ansia della certezza. Reichenbach e la critica del sintetico a priori, entrambi in A. Anselmo (a cura di), La presenza di Kant nella filosofia del Novecento, A. Siciliano, Messina 2004, pp. 13-67 e 69-117. Una diversa versione di questo mio contributo è uscita con il titolo Bergson o Bachelard? Due interpretazioni della fisica relativistica tra metafisica ed epistemologia, in A. Anselmo (a cura di), Einstein e la relatività cento anni dopo, A. Siciliano, Messina 2007, pp. 401-436. 2. È una linea di ricerca alla quale mi dedico da tempo: cfr. Forme di sapere e ipotesi di traduzione. Materiali per una storia dell’epistemologia francese, Franco Angeli, Milano 1984

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La fondazione dell’epistemologia contemporanea si erge anche sul pilastro della teoria della relatività, nell’intreccio delle competenze specialistiche dei fisici e delle esigenze problematiche dei filosofi della scienza e della conoscenza. Un intreccio che è in particolare costitutivo dell’epistemologia francese, tramite l’opera di Bachelard, ma anche della più estesa configurazione epistemologica del Novecento – l’empirismo logico – che in esponenti di spicco come Schlick e Reichenbach ha visto nella teoria della relatività un cardine per la nuova filosofia scientifica.3 Gli studi al riguardo sono numerosi e illuminano in modo pressoché completo le vicende scientifiche e filosofiche connesse a tale ricezione,4 ma al fine di una maggiore perspicuità richiamo qualche breve informazione di contesto. La teoria della relatività acquista in Francia un rilievo “filosofico” a partire dal 1911. Nell’aprile di quell’anno il fisico Paul Langevin, principale promotore della diffusione delle teorie di Einstein in Francia, espone i tratti essenziali della teoria della relatività al IV Congresso internazionale di filosofia di Bologna e in ottobre presso la Société française de philosophie.5 Nello stesso anno Maximilien Winter pubblica La méthode dans la philosophie des mathématiques, che tratta specificamente anche delle teorie di Eine Tra Bachelard e Serres. Aspetti dell’epistemologia francese del Novecento, A. Siciliano, Messina 2003. 3. Basti ricordare i due volumi usciti tra il 1917 e il 1920: M. Schlick, Spazio e tempo nella fisica contemporanea. Una introduzione alla teoria della relatività e della gravitazione (1917, 19224), a cura di E. Galzenati, prefazione di L. Geymonat, Bibliopolis, Napoli 1983 e H. Reichenbach, Relatività e conoscenza a priori (1920), a cura di P. Parrini, trad. di S. Ciolli Parrini e P. Parrini, Laterza, Roma-Bari 1984. 4. Ricordo i più significativi: A. Pais, “Sottile è il Signore…”. La scienza e la vita di Albert Einstein (1982), trad. di L. Belloni e T. Cannillo, Bollati Boringhieri, Torino 1986, pp. 178 e 538; M. Paty, The scientific reception of relativity in France e M. Biezunski, Einstein’s reception in Paris in 1922, in Th. Glick (a cura di), The Comparative Reception of Relativity, D. Reidel, Dordrecht 1987, pp. 113-168 e 169-188; S. Marcucci, “Tempo” e “relatività” nella filosofia francese contemporanea, Pacini Fazzi, Lucca 1996; C. Vinti, Meyerson e la relatività nell’epistemologia francese degli anni ’20, in E. Meyerson, La deduzione relativistica, a cura di C. Vinti, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, Pisa-Roma 1998, pp. 1-71; Id., 6 aprile 1922: Einstein alla “Société française de philosophie”, “Nuova Civiltà delle Macchine”, XXIV, 2006, pp. 70-85. 5. Mi riferisco a P. Langevin, L’évolution de l’espace et du temps. Conférence au Congrès de Bologne 1911, “Scientia”, 1911, pp. 31-54 e a Id., Le temps, l’espace et la causalité dans la physique moderne, “Bulletin de la Société française de philosophie”, 1911, pp. 1-46.

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stein.6 Langevin, che aveva già esposto la teoria della relatività nei suoi corsi di fisica sperimentale tenuti al Collège de France (dal 1906), conosce direttamente Einstein al primo Congresso Solvay di Bruxelles del 1911, divenendone amico e condividendone anche le opzioni etiche e politiche. Ma la ricezione delle teorie relativistiche in Francia non è lineare: è innanzitutto ostacolata dalla guerra mondiale; ma viene anche fortemente contrastata da due fisici di spicco, quali Pierre Duhem ed Émile Picard, e viene “censurata” da Henri Poincaré.7 Quando Langevin riuscirà a organizzare nel 1922 il viaggio di Einstein in Francia, non troverà un’accoglienza del tutto favorevole: l’Académie des sciences, nella persona del suo segretario generale Picard, gli sarà ostile (insieme alla Société de physique), talché lo stesso Einstein eviterà di intervenire alla seduta ivi organizzata, mentre parteciperà agli incontri tenuti al Collège de France e alla Sorbonne. Quest’ultimo, promosso il 6 aprile dalla Société française de philosophie, rimase memorabile per la qualità del dibattito, che vide la partecipazione dello stesso Langevin, di Xavier Léon, presidente della Société, di fisici e matematici quali Paul Painlevé, Jacques Hadamard, Élie Cartan, Paul Lévy, Jean Becquerel, di filosofi, storici della scienza e psicologi come Léon Brunschvicg, Bergson, Édouard Le Roy, Émile Meyerson, Henri Piéron, e va considerato “la prima occasione in cui Einstein accetta di discutere con esponenti della cultura, non solo scientifica, ma anche filosofica”.8 Al seguito dell’iniziativa si moltiplicano 6. Cfr. M. Winter, La méthode dans la philosophie des mathématiques, F. Alcan, Paris 1911. 7. Cfr. P. Duhem, La teoria fisica: il suo oggetto e la sua struttura (1906), trad. di D. Ripa di Meana, il Mulino, Bologna 1978, p. 5 e Id., La science allemande, supplément. Quelques réflexions sur la science allemande, A. Hermann, Paris 1915, pp. 101-143 (già in “Revue des Deux Mondes”, 1° febbraio 1915). La questione del rapporto tra Poincaré e Einstein è più complessa. Poincaré aveva introdotto nel 1904 il “principio di relatività fisica”, ma aveva asserito che esso “è un fatto sperimentale”, mentre per Einstein è un postulato; H. Poincaré, Ultimi pensieri (1913), in Opere epistemologiche, a cura di G. Boniolo, Piovan Editore, Abano 1989, vol. II, p. 225. Sulla vicenda cfr. anche G. Boniolo, Ma che storia è questa? Mistificazioni e interpretazioni sull’origine della relatività ristretta, “Didattica delle scienze”, 131, 1987, pp. 14-18 (sono grato a Giovanni Boniolo per la sua gentile disponibilità a un’attenta lettura del mio saggio). 8. C. Vinti, Meyerson e la relatività nell’epistemologia francese degli anni ’20, cit., p. 8. Gli interventi dell’incontro della Sorbonne sono trascritti in La théorie de la relativité, “Bulletin de la Société française de philosophie”, 1922, pp. 91-113 (cito con la sigla BULL, seguita dal numero di pagina).

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le pubblicazioni sulla teoria della relatività: tra di esse vanno segnalati un volume di Langevin, il saggio di Reichenbach La signification philosophique de la théorie de la relativité, un libro di Brunschvicg che contiene una parte dedicata alla teoria della relatività e il noto libro di Bergson Durée et simultanéité.9 In questo contesto molto mosso vanno inserite le interpretazioni di Bergson e di Bachelard: le prime espresse soprattutto nel libro del 1922, ma soggette a non irrilevanti integrazioni successive, le seconde raccolte nel libro del 1929 e anche in questo caso variamente aggiornate.10 Cercherò di dimostrare come la prima possa 9. Mi riferisco rispettivamente a: P. Langevin, Le principe de relativité. Conférence faite à la Société française des électriciens, Chiron, Paris 1922 (ristampa di una conferenza del dicembre 1919); H. Reichenbach, La signification philosophique de la théorie de la relativité, “Revue philosophique de la France et de l’étranger”, 7-8, 1922, pp. 16-61; L. Brunschvicg, L’expérience humaine et la causalité physique, F. Alcan, Paris 1922; H. Bergson, Durée et simultanéité. À propos de la théorie d’Einstein (1922), PUF, Paris 19687; trad. Durata e simultaneità (a proposito della teoria di Einstein) e altri testi sulla teoria della Relatività, a cura di P. Taroni, Pitagora Editrice, Bologna 1997; ora in Durata e simultaneità (a proposito della teoria di Einstein) e altri testi sulla teoria della Relatività, a cura di F. Polidori, Raffaello Cortina, Milano 2004 (nelle citazioni userò la sigla DS, seguita dai numeri di pagina della settima edizione francese e dell’ultima traduzione italiana). Sulla vicenda, con un’attenzione rivolta specificamente al rapporto tra Bergson e Einstein, sono ora disponibili gli studi di Angelo Genovesi, Bergson e Einstein. Dalla percezione della durata alla concezione del tempo, prefazione di V. Mathieu, Franco Angeli, Milano 2001 e di Paolo Taroni, Bergson, Einstein e il tempo. La filosofia della durata bergsoniana nel dibattito sulla teoria della relatività, QuattroVenti, Urbino 1998. 10. Per quanto riguarda Bergson, oltre a Durée et simultanéité, gli altri scritti sulla materia sono: H. Bergson, Les temps fictifs et le temps réel, “Revue de Philosophie”, 3, 1924, pp. 241-260 (ripubblicato in Mélanges, a cura di A. Robinet con la collaborazione di M.-R. Mossé-Bastide, M. Robinet e M. Gauthier, prefazione di H. Gouhier, PUF, Paris 1972, pp. 14321449; trad. in Durata e simultaneità, 1997, cit., pp. 179-194 e in Durata e simultaneità, 2004, cit., pp. 201-218) (che costituisce una risposta ad A. Metz, Le temps d’Einstein et la philosophie. À propos de la nouvelle édition de l’ouvrage de M. Bergson Durée et simultanéité, “Revue de Philosophie”, 1, 1924, pp. 56-88); Id., Bergson à E. Peillaube, “Revue de Philosophie”, 4, 1924, p. 440 (ripubblicato in Mélanges, cit., pp. 1450-1451; trad. in Durata e simultaneità, 1997, cit., p. 195 e in Durata e simultaneità, 2004, cit., p. 219); Id., Note de la Direction, “Revue de Philosophie”, 4, 1924, p. 440 (trad. in Durata e simultaneità, 1997, cit., p. 197 e in Durata e simultaneità, 2004, cit., pp. 219-220); Id., “Introduction (deuxième partie)”, in La pensée et le mouvant. Essais et conférences, in Œuvres, a cura di A. Robinet, introduzione di H. Gouhier, PUF, Paris 1959, pp. 1280-1283, nota 1 (trad. in Durata e simultaneità, 1997, cit., pp. 199-202, da cui si cita con la sigla NOTA 1, seguita dal numero di pagina; cfr. anche Pensiero e movimento, trad. di F. Sforza, Bompiani, Milano 2000, pp. 244-247). Per Bachelard, cfr. La valeur inductive de la relativité, Vrin, Paris 1929 (si cita con la sigla VIR, seguita dal numero di pagina); Id., L’expérience de l’espace dans la physique contemporaine, F. Alcan, Paris 1937; trad. L’esperienza dello spazio nella fisica contemporanea, a cura di M.R.

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essere assunta a modello di una lettura “metafisica” e la seconda di una “epistemologica” della teoria della relatività, come la prima intenda inglobare la teoria della relatività ristretta nella propria metafisica, la seconda la valorizzi come la nuova forma di una ragione scientifica in progresso dialettico. La prospettiva metafisica di Bergson Esaminiamo qualche aspetto di dettaglio della riflessione bergsoniana, oggetto di svariate e ricorrenti indagini critiche.11 Nell’opera del 1922 Bergson intende liberare la teoria della relatività riAbramo, A. Siciliano, Messina 2002; Id., La dialettica filosofica dei concetti della relatività, in P.A. Schilpp (a cura di), Albert Einstein, scienziato e filosofo. Autobiografia di Einstein e saggi di vari autori, trad. di A. Gamba, Einaudi, Torino 1958, pp. 511-526 (ed. fr. “La dialectique philosophique des notions de la relativité”, in L’engagement rationaliste, PUF, Paris 1972, pp. 120-136; altre edizioni italiane: G. Bachelard, “La dialettica filosofica delle nozioni della relatività”, in La ragione scientifica, a cura di G. Sertoli, trad. di M. Chiappini, Bertani, Verona 1974, pp. 225-241 e Id., “La dialettica filosofica delle nozioni della relatività”, in L’impegno razionalista, prefazione di G. Canguilhem, a cura di F. Bonicalzi, trad. di E. Sergio, Jaca Book, Milano 2003, pp. 131-145, da cui cito con la sigla DFNR, seguita dal numero di pagina). Va segnalato che in L’attività razionalista della fisica contemporanea (1951), a cura di F. Bonicalzi, trad. di C. Maggioni, Jaca Book, Milano 1987 – libro che sintetizza le posizioni più mature della sua epistemologia della fisica – Bachelard non tratta la teoria della relatività. Maria Rita Abramo ha di recente ricostruito con acribia la filiazione epistemologica del pensiero bachelardiano dalla teoria della relatività: cfr. M.R. Abramo, Il razionalismo di Gaston Bachelard, A. Siciliano, Messina 2000 e Id., Gaston Bachelard e le fisiche del Novecento, Guida, Napoli 2002, nonché Id., Einstein per Meyerson e Bachelard, in A. Anselmo (a cura di), Einstein e la relatività cento anni dopo, cit., pp. 15-54. 11. Oltre ai ricordati studi di Taroni e Genovesi (cfr. nota 9) e all’Introduzione di Fabio Polidori, in Durata e simultaneità, 2004, cit., pp. IX-XX, vanno segnalati, in ordine cronologico: G. Voisine, La durée des choses et la Relativité. À propos d’un livre récent de Bergson, “Revue philosophique de la France et de l’étranger”, 5, 1922, pp. 498-522; A. Metz, Le temps d’Einstein et la philosophie, cit.; Id., Bergson, Einstein et les relativistes, “Archives de Philosophie”, 3, 1959, pp. 369-384; W. Berteval, Bergson et Einstein, “Revue philosophique de la France et de l’étranger ”, 1942, pp. 17-28; V. Mathieu, Il tempo ritrovato. Bergson e Einstein, “Filosofia”, 4, 1953, pp. 625-656 (quindi in Id., Bergson. Il profondo e la sua espressione, Edizioni di Filosofia, Torino 1954; ripubblicato presso Guida, Napoli 1971, pp. 187-222); M. Čapěk, Bergson and Modern Physics: A Reinterpretation and Revaluation, Humanities Press, New York-Reidel-Dordrecht 1971 (Čapěk ha studiato la questione a partire da Stream of Consciousness and “durée réelle”, “Philosophy and Phenomenological Research”, 3, 1950, pp. 331-353, fino a Ce qui est vivant et ce qui est mort dans la critique bergsonienne de la Relativitè, “Revue de Synthèse”, 99-100, 1980, pp. 319-333); F. Heidsieck, Henri Bergson et la notion d’espace, PUF, Paris 1966; H. Barreau, Bergson et Einstein. À propos de Durée et simultanéité, “Les études bergsoniennes”, 1973, pp. 73-134; M. Boudot, L’espace selon Bergson, “Revue de métaphysique et de morale”, 1980, pp. 332-356; O. Costa de Beauregard, Essai sur la physique du temps, son équivalence avec l’espace, son irréversibilité, in AA. VV., Bergson et nous. Actes du X Congrès des sociétés de philosophie en langue française, A. Colin,

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stretta dai “malintesi” presenti “presso alcuni che avevano innalzato questa fisica, così come stava, a filosofia” (DS, X e 4), favoriti da un’estrapolazione filosofica realista e ontologica che produce una concezione della relatività parallela alla filosofia della durata. Tali fraintendimenti sarebbero originati anche dalle esemplificazioni divulgative espresse con i paradossi della relatività: primo fra tutti quello proposto da Langevin nel 1911, noto come “le voyage en boulet”. Proprio per contrastare tale paradosso, che farebbe immaginare durate accelerate o ritardate, Bergson intende dimostrare che le tesi di Einstein non sono in contrasto né con la filosofia della durata, né con il senso comune: esse confermano e provano “la credenza naturale degli uomini in un Tempo unico e universale” (DS, X e 4). Il tempo unico e l’estensione indipendente dalla durata non vengono cancellati dal raddoppiamento relativistico dei sistemi di riferimento, in quanto anche nella misurazione del fisico permarrebbe preliminarmente un sistema fissato come punto di riferimento assoluto. Le esemplificazioni popolari della teoria della relatività introducono una surrettizia spazializzazione del tempo, mettendolo sullo stesso piano delle tre dimensioni spaziali. Per dimostrare tale assunto Bergson non si limita a scrivere un saggio di filosofia della scienza, ma interviene, con una competenza non sempre sicura, sullo stesso apparato fisico-matematico della teoria della relatività, provocando in tal modo le reazioni dei “relativisti”.12 I primi tre capitoli del libro (La demi-relativité, La relativité complète e De la nature du temps) costituiscono un compatto corpus dimostrativo che si serve di un apparato fisico-matematico raffinato, connesso a un’analisi dettagliata delle trasformazioni di Lorentz. Si tratta però di un processo dimostrativo che avrebbe più di una simmetria con l’interpretazione fisico-matematica elaParis 1959, 2 voll., pp. 77-80; V. Fano, De Broglie, Bergson e la rappresentazione spazio-temporale, in G. Tarozzi (a cura di), Formalismo matematico e realtà fisica, Accademia Nazionale di Scienze Lettere Arti, Modena 1996, pp. 211-233; A. Sokal, J. Bricmont, Imposture intellettuali. Quale deve essere il rapporto tra filosofia e scienza? (1997), trad. di F. Acerbi e M. Ugaglia, Garzanti, Milano 1999, pp. 170-188. 12. Cfr. al proposito F. Polidori, “Introduzione”, in H. Bergson, Durata e simultaneità, 2004, cit., pp. XI-XII.

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borata dal fisico Édouard Guillaume, che aveva tentato senza successo di reintrodurre nella cinematica elaborata da Einstein la variabile indipendente del tempo universale.13 A partire dalla traduzione della teoria della relatività ristretta in una teoria del tempo universale Bergson sviluppa quindi un’analisi critica del concetto di simultaneità, che implica il carattere osservativo (e quindi sottoposto a misura) della reciprocità del movimento. Dato un sistema di riferimento S, in riposo rispetto ad altri sistemi, il tempo reale in S corrisponde ai tempi multipli misurati in altri sistemi in moto rispetto a S, che risultano equivalere a finzioni matematiche. Il tempo reale partecipa del movimento interno al sistema di riferimento e la simultaneità va definita in termini di percezione interna al movimento, ovvero si dà soltanto una simultaneità di flussi esterni in riferimento alla durata reale della coscienza. “I teorici della Relatività – rileva Bergson – parlano sempre e soltanto della simultaneità dei due istanti. Prima di quella ce n’è tuttavia un’altra, la cui idea è più naturale, ed è la simultaneità di due flussi” (DS, 50 e 52). Mentre il tempo reale non ha istanti, ma flussi di durata, l’istante “nasce dal punto matematico, cioè dallo spazio” (DS, 52 e 53), consente di passare dalla “continuità della nostra vita interiore” alla “continuità di un movimento volontario” e quindi a quella “di un movimento qualunque attraverso lo spazio” (DS, 53 e 54). In altre parole, il tempo viene misurato tramite la simultaneità dell’istante, ma questa poggia sull’aspetto qualitativo profondo della simultaneità delle durate. I tempi multipli sussistono come finzioni matematiche, non come tempi reali, e le esperienze esterne sono continue in quanto partecipano tutte di un’unica durata interna. Tale congruenza a partire dal tempo reale della durata dovrebbe corrispondere con la definizione di simultaneità della teoria della relatività, risolvendo il tempo conosciuto in tempo percepito e vissuto, ma la corrispondenza richiede la reintroduzione del concetto di istante, se pure non risolto in un elemento costitutivo della temporalità vissuta: “Se adesso si osserva che la scienza opera esclusivamente su 13. Mi riferisco alla dimostrazione fornita da Genovesi; cfr. A. Genovesi, Bergson e Einstein, cit., pp. 71-72, nota 35.

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misure, ci si renderà conto che, per quanto riguarda il tempo, la scienza conta gli istanti, registra le simultaneità ma resta esclusa da ciò che accade negli intervalli. Per quanto possa aumentare all’infinito il numero delle estremità, per quanto possa accorciare all’infinito gli intervalli, l’intervallo le sfuggirà sempre, rivelandole niente altro che le sue estremità” (DS, 57 e 57-58). In questi intervalli si presenta la durata reale percepita dalla coscienza allo stesso modo delle simultaneità: senza una coscienza spettatrice non vi sarebbe nessuna simultaneità.14 Questo criterio di traducibilità sottende l’intera dimostrazione prodotta nel libro, introducendo – con un ribaltamento speculare dell’oggettivazione relativistica – un “fondamento” dei tempi multipli nel tempo fisico reale esperito nella dimensione veritativa della coscienza. Pietro – esemplifica Bergson – ha un tempo vissuto interno al proprio sistema di riferimento, ma se intende misurare il tempo di Paul usa un tempo spazializzato esterno al proprio sistema di riferimento: la teoria della relatività ristretta dà nuovo peso al tempo reale di Pietro, caso particolare dei tempi virtuali, perché permette di tradurre il tempo misurato a partire dal tempo vissuto dello stesso Pietro. Così, ciascun fisico misura i tempi molteplici che gli si presentano sulla base dell’unico tempo individuale. Riprendendo il noto esperimento mentale del treno proposto da Einstein,15 Bergson commenta che “il fisico che si trova sul treno si darà dunque una visione matematica dell’universo in cui tutto si ritroverà convertito da realtà percepita in rappresentazione scientificamente utilizzabile, a eccezione di ciò che concerne il treno e gli oggetti collegati al treno. 14. Nonostante abbia asserito che “il tempo reale non ha istanti” (DS, 51 e 53), Bergson abbisogna di una riconsiderazione del concetto di istante. Come ha ben evidenziato Genovesi; cfr. A. Genovesi, Bergson e Einstein, cit., pp. 77 e 71. 15. Cfr. A. Einstein, Relatività: esposizione divulgativa (1916), a cura di B. Cermignani, Bollati Boringhieri, Torino 1967, pp. 61-63. Mi sono servito della presentazione della relatività speciale e generale fornita in un utile e aggiornato manuale di filosofia della fisica: G. Boniolo, M. Dorato, Dalla relatività galileiana alla relatività generale, in G. Boniolo, Filosofia della fisica, Bruno Mondadori, Milano 1997, pp. 5-168 (per l’esperimento del treno, cfr. p. 38). Per una rigorosa descrizione dello status quaestionis, in un contesto che sa assumere anche ritmi narrativi, cfr. A. Sparzani, Relatività, quante storie. Un percorso scientifico-letterario tra relativo e assoluto, Bollati Boringhieri, Torino 2003, cap. 6, pp. 181-230.

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Il fisico che sta sulla banchina si darà una visione matematica dell’universo in cui tutto sarà altrettanto trasposto, a eccezione di ciò che interessa la banchina e gli oggetti solidali con la banchina” (DS, 102 e 94-95). La comprensione non schematica del tempo unico della durata costituisce – secondo Bergson – una svolta radicale rispetto alla fisica meccanicistica, in quanto pone al centro l’esperienza vissuta del fisico all’interno di un dato sistema di riferimento; come asserirà dopo aver esaminato le conseguenze dell’esperimento di Michelson-Morley, il fisico “non dovrà mai perdere però di vista che, in tutta questa faccenda, lui soltanto è reale, mentre l’altro è un osservatore fantasma” (DS, 121-122 e 110; per la discussione dell’esperimento di Michelson-Morley, cfr. DS, 118-123 e 107-111). In tal modo la fisica relativistica viene avvalorata come una vera e propria fisica della qualità che nega la divisibilità temporale e favorisce una costante sottolineatura della realtà qualitativa del tempo. Nel contesto del pensiero bergsoniano si potrebbe ipotizzare che qui si consuma il tentativo di utilizzare la teoria della relatività per forzare l’impianto meccanicistico della fisica newtoniana, dopo che Bergson aveva innescato – con L’évolution créatrice (1907) – una procedura simile sul versante biologico evolutivo. La simultaneità bergsoniana, concetto squisitamente psicologico, “garante della comunicazione tra durata e materia nello spazio” “diviene lo strumento che consente al Nostro di raggiungere l’obiettivo perseguito: la riduzione di ogni possibile concezione del tempo – e il filosofo francese ha qui presente il tempo matematico – al fondamento soggettivo della durata”.16 Un unico tempo reale si trova al fondo della scienza come della coscienza, unisce la dimensione soggettiva della durata con quella oggettiva secondo un percorso esplicitamente proposto da Bergson: “Vogliamo soppesare tutti i passaggi tra il punto di vista psicologico e il punto di vista fisico, tra il Tempo del senso comune e quello di Einstein” (DS, 1 e 9). A un estremo e all’altro della relatività ristretta permane il tempo reale, l’unico che dura; la pluralità dei tempi fittizi e relati16. A. Genovesi, Bergson e Einstein, cit., p. 75.

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vi rafforza e rende necessaria la presupposizione di un unico tempo reale, della durata pura. Anche se questo presupposto è del tutto ipotetico: “Ma se occorresse risolvere la questione noi opteremmo, allo stato attuale delle nostre conoscenze, a favore dell’ipotesi di un Tempo materiale uno e universale. Non è che una ipotesi, ma è fondata su un ragionamento per analogia che dobbiamo considerare decisivo finché non avremo a disposizione niente di più soddisfacente” (DS, 44 e 47).17 17. Gilles Deleuze si domanda la ragione della scelta – in Durée et simultanéité – dell’interpretazione monistica della durata, con il conseguente abbandono del pluralismo, e risponde che essa è dovuta al confronto con la teoria della relatività e ancor prima con la nozione di molteplicità di Riemann. Bergson “non rinuncerà mai all’idea che la durata, cioè il tempo, sia essenzialmente molteplicità”, ma distinguerà le molteplicità attuali da quelle virtuali, continue e qualitative. La durata è “un tipo molto particolare di coesistenza, una simultaneità di flussi”: se nella molteplicità virtuale c’è un unico tempo dei flussi, in quella attuale si assiste alla loro suddivisione. Paradossalmente il confronto con la teoria della relatività consentirebbe di rendere convincente la dimostrazione bergsoniana del carattere contraddittorio della pluralità dei tempi: “È stato spesso affermato che il ragionamento di Bergson implicava un fraintendimento di Einstein. Ma anche il ragionamento di Bergson è stato spesso frainteso. Bergson non si limita a fare la seguente affermazione: un tempo diverso dal mio non può essere vissuto né da me né da altri, ma implica l’immagine che io mi faccio degli altri (e viceversa). Bergson infatti ammette la legittimità di quest’immagine che esprime le diverse tensioni e relazioni tra le durate, cosa che non smetterà mai di riconoscere. Ciò che egli rimprovera alla Relatività è una cosa molto diversa: l’immagine che io mi faccio degli altri, o che Pietro si fa di Paolo, è un’immagine che non può essere vissuta o pensata come possibile da vivere senza contraddizione (né da Pietro, né da Paolo, né da Pietro immaginato da Paolo). In termini bergsoniani, non si tratta di un’immagine ma di un ‘simbolo’. Di qui l’avvertimento che Bergson ricorda alla fine di Durée et simultanéité […]: ‘Ma questi fisici non sono immaginati come reali né come se potessero esserlo…’”. E Deleuze ne conclude: “In breve, ciò che Bergson, in Durée et simultanéité, rimprovera a Einstein è di aver confuso il virtuale con l’attuale (questa contraddizione è espressa dall’introduzione del fattore simbolico, cioè di una finzione). Di aver quindi confuso i due tipi di molteplicità, quella virtuale e quella attuale”; “Secondo Bergson solo l’ipotesi del Tempo unico può rendere conto della natura delle molteplicità virtuali. Einstein, confondendo la molteplicità spaziale attuale e la molteplicità temporale virtuale, avrebbe inventato solo un nuovo modo di spazializzare il tempo” e “ciò che distingue la Relatività è il fatto di aver spinto avanti questa spazializzazione e di aver saldato il misto in un modo del tutto nuovo: […] la Relatività considera l’assimilazione del tempo allo spazio come necessaria per esprimere il carattere invariante della distanza, e la introduce esplicitamente nei calcoli cancellando la distinzione reale. La Relatività ha quindi formato una mescolanza molto compatta, ma che comunque ricade nella critica bergsoniana del ‘misto’ in generale”, G. Deleuze, Il bergsonismo (1966), trad. di F. Sossi, Feltrinelli, Milano 1983, pp. 72-83 (citazioni alle pp. 74, 75, 78 nota 20, 79-80, 80, 81) (cfr. anche Id., Il bergsonismo e altri saggi, a cura di P.A. Rovatti e D. Borca, Einaudi, Torino 2001, pp. 70, 71, 74 nota 20, 76-77, 78, 79). L’analisi mi pare, dal punto di vista bergsoniano, impeccabile, ma mi chiederei se Bergson volesse criticare la relatività o non invece assumerla a sostegno della sua filosofia della durata. Lo stesso Deleuze fornisce una risposta in un libro dedicato al cinema. L’ambiguità non sarebbe del libro del 1922, ma dei lettori, che cre-

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La distanza rispetto alla concezione einsteiniana è radicale: mentre Bergson mira a risolvere nel tempo soggettivo il tempo relativistico, Einstein tende a vedere il tempo come una variabile dipendente dei sistemi fisici nei quali gli eventi oggettivi sono indipendenti dagli individui.18 Bergson ritiene di aver così garantito il collegamento tra il mondo della qualità e la speculazione filosofica contro la spazializzazione astratta della scienza. Non è un caso che la sua critica si appunti specificamente sui paradossi relativistici. In particolare, il “paradosso dei gemelli” sarebbe il frutto di una confusione tra tempi fittizi e tempo reale: utilizzando i primi non si possono trattare processi fisiologici inerenti al tempo reale, che implicano mutamenti esclusivamente qualitativi.19 La teoria della relatività ristretta dimostrerebbe la funzione orientativa del tempo vissuto, parametro centrale per la misura fisica del tempo, in quanto affermerebbe una pluralità di sistemi di riferimento cui è connessa una molteplicità di tempi fittizi. Il paradosso della relatività sorge nel momento in cui si traspone la teoria einsteiniana sul piano metafisico, affermando che i tempi multipli sono reali. La distinzione ontologica tra tempo reale e spazio puro verrebbe confermata, secondo Bergson, proprio dal salto espresso nel passaggio dallo spazio della teoria della relatività generalizzata ai tempi multipli di quella ristretta: il primo è localizzato a partire dal luogo in cui è posto il fisico, i secondi sono fittizi, eccetto l’unico tempo reale proprio del fisico che osserva. Nelle osservazioni finali del libro che si aprono sulla devano che Bergson discutesse le teorie di Einstein, mentre egli accettava il primato della luce e i blocchi di spazio-tempo; cfr. G. Deleuze, Cinema I. L’ immagine-movimento (1983), trad. di J.-P. Manganaro, Ubulibri, Milano 1984, p. 79 nota 14. Ma la risposta di Deleuze condurrebbe ancora a chiedersi perché Bergson “non poteva dissipare questo malinteso” e abbia invece tentato di fondare la teoria della relatività sulla metafisica della durata, dandole lezioni improprie di scientificità. 18. Bisogna aggiungere che qui si trova un punctum centrale dell’incomprensione: l’invarianza della velocità della luce per Bergson è un fatto, non un postulato come vuole Einstein. 19. Le Roy aveva parlato di una distinzione tra differenti zone di realtà: più sofisticata sul piano epistemologico, rispetto alla distinzione metafisica tra tempi fittizi e tempo reale qualitativo di Bergson; cfr. E. Le Roy, Les paradoxes de la relativité sur le temps, “Revue philosophique de la France et de l’étranger”, 1-2, 1937, pp. 10-47 e 3-4, pp. 195-245 (specificamente pp. 14-15). Secondo Metz, Le Roy avrebbe così infine compreso l’errore di Bergson distinguendo nella reciprocità delle accelerazioni il punto di vista matematico da quello fisico, cfr. A. Metz, Bergson, Einstein et les relativistes, cit., p. 378.

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considerazione della relatività generale la fisica geometrica della relatività generale viene intesa come una conferma ulteriore della filosofia della durata (cfr. DS, 178-179 e 158). Mentre il tempo rimane intrinsecamente qualitativo, la definizione relativistica dello spazio coglie la sua essenza ontologica, il suo essere “relazione”. Il processo di generalizzazione che conduce dalla relatività ristretta a quella generale è comunque in sé congruente, oltre a essere in linea con la spazializzazione intrapresa nella scienza moderna a partire da Descartes: Aggiungevamo [in Matière et Mémoire] che per la fisica, il cui ruolo consiste nello studiare le relazioni tra i dati visivi nello spazio omogeneo, ogni movimento doveva essere relativo. E tuttavia certi movimenti non potevano esserlo. Possono esserlo ora. Già solo per questa ragione, la teoria della Relatività generale segna una data importante nella storia delle idee. Non sappiamo quale sorte finale la fisica le riservi. Ma, qualunque cosa accada, la concezione del moto spaziale che troviamo in Descartes, e che così bene si armonizza con lo spirito della scienza moderna, sarà stata resa da Einstein scientificamente accettabile tanto nel caso del moto accelerato quanto nel caso del moto uniforme (DS, 33 e 37). Lungo questa direzione la relatività generalizzata mostra il percorso conseguente della fisica contemporanea verso lo spazio puro e così attualizza l’indicazione, già cartesiana, sull’equivalenza tra fisica e geometria (cfr. DS, 180-181 e 160). Se in definitiva la metafisica può accogliere al suo interno la scienza, non è dato il processo inverso. La riflessione contenuta nel libro del 1922 viene preceduta dalla discussione nella seduta del 6 aprile, alla quale Bergson, espressamente invitato da Le Roy, propone in termini più generici la stessa prospettiva, che evidentemente a quella data era già acquisita.20 20. Riporto la nota dei curatori dei Mélanges: “Le présent ouvrage permet, pour la première fois, de mettre en relation directe les écrits qui entourent Durée et simultanéité, avec cet ouvrage au sujet duquel il convenait de dissiper un évident malentendu, comme le rap-

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Dopo aver notato che la teoria di Einstein configura una nuova maniera di pensare, Bergson muove dall’idea comune di un tempo universale. Si tratta sì di “une simple hypothèse”, “mais c’est une hypothèse que je crois fondée, et qui, à mon sens, n’a rien d’incompatible avec la théorie de la Relativité” (BULL, 103). La concezione relativista e quella del senso comune si completano e si prestano un mutuo appoggio, in quanto – come si dimostra per la simultaneità – il punto di vista relativistico implica necessariamente quello intuitivo. La dimostrazione qui prodotta da Bergson ricalca a grandi linee quella articolata nel libro: l’affermazione che la simultaneità relativista non esclude la presenza “reale” di simultaneità assolute, che a loro volta rinviano a una coscienza sovraumana coestensiva della totalità delle cose segue una procedura dimostrativa simile a quella di Durée et simultanéité, testimoniando la presenza già a questa data di un disegno articolato. Il suo presupposto “filosofico” consiste nella necessità di determinare il significato filosofico dei concetti relativistici, collegandoli con la sfera dell’intuizione e del senso comune: questo è il compito stesso della filosofia bergsoniana. All’argomentazione di Bergson dà sostegno in questa sede un’osservazione dello psicologo Piéron: il confronto sperimentale di ordine psico-fisiologico tra le impressioni percettive di successione e simultaneità e la simultaneità fisica dimostrerebbe che è fisiologicamente impossibile ottenere “une traduction mentale exacte d’une simultanéité physique entre des impressions sensorielles hétérogènes” (BULL, 112). Piéron ne conclude che la durata bergsoniana debba restare estranea alla caratterizzazione fisica del tempo, compresa quella einsteiniana. Bergson tuttavia, pur dichiarandosi d’accordo con Piéron sulla centralità delle constatazioni psicologiche di simultaneità, non smentisce il suo tentativo di congruenza. pelle M. Gouhier dans son Avant-propos. On se rend compte, en dépouillant les textes de l’année 1922, date de parution de l’ouvrage, qu’Einstein est à Paris, et qu’il fait une communication à la Société française de philosophie. Un long entretien, ou plutôt un double monologue, s’engage avec Einstein. Bergson paraît être en possession des thèses et des arguments que le livre révèle: mais il ne semble pas, à la date de la réception d’Einstein, que Durée et simultanéité soi déjà paru, car il n’en est nullement question dans les débats du 6 avril 1922”, “Notes des éditeurs”, in H. Bergson, Mélanges, cit., pp. 1599-1600.

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Einstein risponde con poche battute al “monologo” di Bergson, evidenziando chiaramente la propria distonia con il filosofo parigino e mettendo subito in discussione l’esistenza di un “temps du philosophe”, ovvero di un tempo descritto da una metafisica come quella bergsoniana: c’è un tempo psicologico legato alla nozione di simultaneità della percezione, ma ci sono anche “événements objectifs indépendants des individus” e su di essi poggia il tempo del fisico. Mi pare che qui appaia in tutta la sua evidenza l’incommensurabilità tra l’ingenua pretesa bergsoniana di poter confrontare le procedure operative e matematiche della fisica con la realtà dell’esperienza vissuta, e il concetto di tempo proprio della teoria della relatività che, con un’ulteriore rivoluzione copernicana, si pone su un piano controintuitivo rispetto all’evidenza vissuta del divenire nel tempo. Numerose e immediate saranno – come è noto – le critiche all’interpretazione bergsoniana proposta nel 1922, sia di campo scientifico che filosofico. Non è questo il luogo per ricostruirne le vicende.21 Per alcuni, tale levata di scudi, unita allo sviluppo della teoria della relatività generale, sarà la causa principale della decisione di Bergson di non ristampare Durée et simultanéité. Altri interpreti più recenti mettono in discussione questa tesi, sostenendo che la mancata ripubblicazione sia la presa d’atto di un fallimento teorico.22 Anche la nota del 1934 non cambia nella sostanza le posizioni di Bergson. La realtà dello spazio-tempo è puramente matematica, non può essere “vissuta”; rimane fondamentale la distinzione tra fisico reale e fisico rappresentato come reale, esterno al sistema di riferimento dato, e l’universo di Einstein non è un insieme di cose ma di relazioni garantito dall’“espressione matematica del 21. Per una dettagliata ricognizione della vasta letteratura critica, specie contraria all’interpretazione bergsoniana, cfr. M. Čapěk, Bergson and Modern Physics: A Reinterpretation and Revaluation, cit. 22. Sulla possibilità di una ristampa del libro del 1922 i curatori della settima edizione si rifanno alla lettera scritta da Le Roy a M.me Rose-Marie Mossé-Bastide il 29 settembre 1953 (cfr. DS, V e 1). Bergson già nel 1934 si renderà definitivamente conto che non può utilizzare la teoria della relatività ristretta a difesa della metafisica della durata e sosterrà direttamente la possibilità di un nuovo concetto di realtà, avvalorando quanto affermerà successivamente Le Roy; cfr. NOTA 1, 1281 e 200.

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mondo” (NOTA 1, 1283 e 202). Se si permane nel tessuto delle relazioni non vi sono cose, ma parametri matematici; una volta scelto un sistema determinato di riferimento ritornano le cose e il fisico in carne e ossa, con la sua coscienza temporale reale. Tuttavia Bergson coglie bene nel 1934 la dissimmetria fra la dimensione metafisica del problema del tempo e quella scientifica proposta dalla teoria della relatività, che va nella direzione del determinismo assoluto: “Il metodo einsteiniano consiste essenzialmente nel cercare una rappresentazione matematica delle cose che sia indipendente dal punto di vista dell’osservatore (o più precisamente dal sistema di riferimento) e che costituisca, di conseguenza, un insieme di relazioni assolute. Niente di più contrario alla relatività come è intesa dai filosofi quando considerano come relativa la nostra conoscenza del mondo esterno. L’espressione ‘teoria della Relatività’ ha l’inconveniente di suggerire ai filosofi l’inverso di ciò che si vuole esprimere” (NOTA 1, 1280 e 199). Riaprendo la distinzione tra scienza e metafisica Bergson smentisce parzialmente il suo tentativo del 1922, ma comprende che il problema posto da Einstein richiede un diverso spazio epistemologico. Nonostante le diverse sfumature e le aperte divergenze tra favorevoli e contrari alla metafisica della durata, risulta acquisito il riconoscimento degli errori interpretativi prodotti da Bergson, poggianti in gran parte sull’accettazione della dimensione psicologico-intuitiva della simultaneità propria del senso comune che produce un’incomprensione di fondo dell’orizzonte teorico della teoria della relatività ristretta (e generale). La simultaneità degli eventi oggettivi indipendenti dagli individui non si può ridurre a quella psicologica degli stati della coscienza, come Bergson vorrebbe. Ne conseguono una serie di errori interpretativi che mostrano la scarsa dimestichezza con l’apparato teorico della teoria della relatività. Tra questi va segnalata la confusione tra tempo coordinato, “il tempo relativo a un sistema di riferimento” e non invariante, e tempo proprio, “il tempo segnato da un orologio associato a un sistema di riferimento fisico rispetto al quale l’orologio è in quiete”, che è assoluto e invariante. Bergson parla del secondo ogniqualvolta si riferisce al tempo reale della durata e del 156


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primo quando descrive il tempo esterno al sistema di riferimento fissato.23 Peraltro, la negazione relativistica del carattere assoluto della simultaneità è strettamente connessa al principio di invarianza della velocità della luce, vero postulato cardine della teoria della relatività, che Bergson non considera tale. In realtà proprio la frattura fra il tempo intuitivo e quello fisico costituisce l’acquisizione più profonda della teoria della relatività ristretta, che opera così una rivoluzione simile a quella copernicana, con l’affermazione della “non-esistenza di un presente cosmico” e della credenza propria della comune esperienza che “il mondo divenga nel tempo”: “l’universo non esiste in un istante in modo oggettivo come avveniva nella teoria newtoniana”.24 Non va quindi criticata la pretesa bergsoniana di voler fondare la teoria della relatività sulla propria metafisica della durata, bensì l’incomprensione di una diversa concezione del tempo, ancora più “geometrica” rispetto a quella newtoniana: non è improprio asserire che la visione metafisica più affine alla teoria della relatività ristretta capovolge l’impianto bergsoniano in una visione “spinoziana” di linee di universo prospettando un mondo in cui ogni evento è determinato rispetto a ogni altro evento, e non esiste alcuna differenza ontologica tra passato, presente e futuro. Questa concezione, che vede il futuro come reale o “pieno”, fu sostenuta dallo stesso Einstein, ed è in genere considerata quella “più naturale” all’interno della struttura dello spaziotempo di Minkowski.25 La prospettiva epistemologica di Bachelard Passo ora brevemente a indicare la linea di fuga che disgiunge la metafisica bergsoniana della relatività dall’epistemologia di Ba23. G. Boniolo, M. Dorato, Dalla relatività galileiana alla relatività generale, cit., p. 37. 24. Ivi, p. 44. 25. Ivi, p. 47. Ritengo che Polidori abbia ragione nell’affermare che la reazione dei fisici contro Bergson dimostri “quanto sensibile ancora sia la scienza, il mondo delle scienze esatte, a quella che Bergson definirebbe la propria metafisica, [di] quanto sensibile e affezionata sia alla propria pretesa di verità” (F. Polidori, “Introduzione”, in H. Bergson, Durata e simultaneità, 2004, cit., p. XX), tuttavia la risposta non è quella di sostituire tale metafisica con un’altra, più reale e vissuta, tuttavia quella di seguire dall’interno i problemi “metafisici” posti dalle scienze del Novecento, come avverrà nella tradizione epistemologica (e in Bachelard), a un nuovo livello di approssimazione.

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chelard. Bachelard non entra mai in discussione diretta con Bergson, ma come avviene anche su altri temi (quello della durata e del tempo innanzitutto)26 l’impianto della sua costruzione epistemologica costituisce un’alternativa di secondo ordine rispetto alla lettura metafisica di Bergson. Nell’intervallo che si apre tra le due interpretazioni bisogna tuttavia ricordare il ruolo di Brunschvicg, pensatore che esprime bene una visione razionalistica neokantiana aperta allo sviluppo delle nuove teorie fisico-matematiche. Nel libro del 1922 Brunschvicg sostiene la compenetrazione tra apparato geometrico e parametri fisici, formulando un’adesione alle geometrie non euclidee nel contesto della teoria della relatività generale e mutando così la sua posizione rispetto al saggio sulla filosofia della matematica.27 Il 26. Bergson viene citato marginalmente due volte, ma sempre con funzione di sostegno: nella prima Bachelard si appoggia a Bergson per ricordare come il disordine apparente nella teoria newtoniana, in difficoltà dinanzi ad alcuni dettagli applicativi, è un “ordre mal compris” (VIR, 42); nella seconda discute del carattere artificiale della lunghezza, proprietà tanto del contenente quanto del contenuto, e aggiunge: “Mais pour le Relativiste, comme pour le psychologue bergsonien, le langage habituel est essentiellement inadéquat. Il y a dans la vie, d’après M. Bergson, un élément dynamique qu’aucune langue ne peut traduire” (VIR, 110), e questa difficoltà linguistica è resa quasi insormontabile dalla relatività in quanto “l’intuition de l’espace-temps n’est pas à la source de notre pensée comme un don que l’esprit peut toujours raviver, elle ne peut venir que d’un effort d’extension de la raison pour prolonguer son action et son rythme” (VIR, 110). Bachelard accetta quindi la prospettiva bergsoniana, ma si orienta in direzione opposta: bisogna estendere la ragione discorsiva a scapito della dimensione intuitiva della coscienza. Va segnalato che in altro contesto Bachelard torna, a proposito delle immagini semplici dei filosofi relative al moto, contrapposte alle matematiche complesse, sulla “filosofia dinamica di Bergson”, esempio della “secessione dei filosofi di fronte all’evoluzione dei problemi scientifici”: “Ci sembra infatti che si possa schematizzare facilmente questa dualità dei punti di vista seguendo la tradizionale distinzione dei filosofi: il bergsonismo ha cercato di arricchire la comprensione del movimento – la scienza contemporanea cerca di moltiplicare l’estensione della nozione. Il bergsonismo approfondisce una intuizione, associando alle immagini esterne le nostre esperienze interiori di esseri in movimento – le meccaniche ondulatoria e quantica sviluppano una induzione a lunga gittata, un’induzione che estende e dialettizza i principi della scienza classica”, G. Bachelard, L’attività razionalista della fisica contemporanea, cit., pp. 78-83 (citazioni pp. 78-79). Può essere di qualche interesse segnalare che Bergson cita correttamente Bachelard tra i filosofi entrati “en intime contact avec les travaux techniques des savants”, H. Bergson, La philosophie française, “La Revue de Paris”, 15 maggio 1915, pp. 236-256, quindi in Id., Mélanges, cit., pp. 1157-1189 (citazione alla p. 1178). Sul complesso rapporto tra i due in riferimento alla durata e alla sua dialettica, cfr. il mio Istante e durata. Per una topologia della temporalità in Bachelard e Bergson, “aut aut”, 213, 1986, pp. 53-75; ora in Tra Bachelard e Serres, cit., pp. 93-130. 27. Mi riferisco a L. Brunschvicg, Les étapes de la philosophie mathématique, F. Alcan, Paris 1912.

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suo è un approccio relazionale che esige una corrispondenza tra spazio reale e spazio geometrico. Nella ricordata seduta del 6 aprile Brunschvicg è il promotore di un altro “double monologue”, parallelo a quello di Bergson ed Einstein:28 il monologo di Brunschvicg risponde alla richiesta di spiegare il significato della teoria della relatività per il mondo filosofico, nel quadro del “rapport entre les théories de la relativité et la conception kantienne de la science” (BULL, 99). Essa si pone oltre l’estetica trascendentale, cancellando ogni separazione tra il contenente (spazio e tempo) e il contenuto (materia e forza) e “cette transformation provoque chez le philosophe une intense joie intellectuelle” (BULL, 100). Aggiunge Brunschvicg: A ce point de vue – l’avènement de la relativité marque bien une révolution – mais au sens littéral de la métaphore, comme l’achèvement du processus de pensée – que l’on voit se dessiner avec le relativisme kantien, où l’espace, en raison du paradoxe des objets symétriques, est une forme d’intuition qui appelle un contenu, où la cause réclame l’expérience d’un temps irréversible. Avec Kant, déjà, le parallélisme des idées et des choses se change en connexion, en réciprocité; avec M. Einstein, cette connexion, cette réciprocité, acquiert une profondeur insoupçonnée, parce que la relativité fait apparaître plus abstraite l’expression de la réalité physique, en même temps qu’elle précise la signification de pur instrument de travail, qui appartient au mathématique (BULL, 101). Anche in quest’occasione Einstein risponde brevemente: dopo aver detto che “chaque philosophe a son Kant propre” (BULL, 101), osserva la necessità di presupporre concetti arbitrari per fondare la conoscenza scientifica, senza tuttavia sbilanciarsi sul loro carattere a priori (come vorrebbe Kant) o convenzionale (à la Poincaré). 28. L’espressione è riportata nei Mélanges a proposito del monologo di Bergson; cfr. supra, nota 20.

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Nella sua ricognizione sulla teoria della relatività Bachelard prende le mosse dal razionalismo aperto di Brunschvicg. Richiamando una considerazione di Reichenbach, egli sostiene, in Le nouvel esprit scientifique, che le nuove teorie fisiche hanno comportato veri e propri conflitti generazionali, tali che “il fisico è stato costretto tre o quattro volte da vent’anni a questa parte a ricostruire la propria ragione e, intellettualmente parlando, a rifarsi una vita”.29 Anche per questo motivo, fin dallo studio del 1929 il modo con cui Bachelard legge e interpreta la “rivoluzione” einsteiniana è epistemologico e non filosofico. La teoria della relatività opera una “rottura epistemologica” e sottolinea la fine dell’unità o assolutezza dei concetti di spazio e di tempo, propri della fisica newtoniana che Kant aveva “metafisicizzato” e la fine dell’unità e assolutezza della Ragione. Si tratta di un nuovo discorso sul metodo, nettamente anticartesiano che indaga sull’attività costruttiva razionale, dinamica e dialettica, che poggia sull’induzione matematica. Con perfetta specularità rispetto alle tesi di Bergson, Bachelard vede la relatività come un modello del progresso discontinuo della scienza e della ragione: essa attua una rottura nei confronti dell’esperienza immediata e del senso comune. E lo stesso Einstein non trae tutte le conclusioni dalla sue teorie rimanendo ancora legato a un’immagine tradizionale e realista della scienza, di contro al relativismo di Arthur Stanley Eddington che “a préparé la révolution einsteinienne de l’idéalisme” (cfr. VIR, 219-241, la citazione è alle pp. 229-230). Per Bachelard la teoria della relatività possiede una dimensione teorica e costruttiva: “Il ne s’agit pas de trouver et de décrire une réalité qui se désignerait à nous par des caractères mathématiques particuliers. C’est au contraire une tâche toute constructive qui s’impose au théoricien; il doit constituer, parmi des conditions mathématiques générales, d’autres conditions mathématiques particulières qui joueront le rôle de limitation, de restriction, rôle imparti traditionnellement à la Réa29. G. Bachelard, Il nuovo spirito scientifico (1934), a cura di F. Albergamo, nuova edizione riveduta a cura di L. Geymonat e P. Redondi, Laterza, Roma-Bari 1978, p. 156.

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lité” (VIR, 157). Egli accentua il teoreticismo di Einstein fino a trasformarlo in un “idealismo scientifico, tecnico”, espressione di “une science de rapports sans supports” (VIR, 238). Il termine “induttivo”, proposto in opposizione consapevole e polemica al deduttivismo di Meyerson, non ha niente a che fare con il realismo empirico: indica il potere generalizzante inventivo e dinamico degli assiomi e la capacità delle teorie di configurare realtà sempre più vaste, di progettare e realizzare sempre nuove esperienze. Per il fatto stesso di essere un sistema formale strutturato, una teoria fisica avrà una sua “forza induttiva”, una “prensione” crescente e allargata sulla realtà, cioè sarà in grado di realizzare progressivamente “aspetti” di tale realtà, di estendere la realtà stessa tramite l’apparato matematico e sperimentale. Bisogna anche ricordare che La valeur inductive de la relativité fa tesoro di una riflessione metodologica ed epistemologica già consegnata al primo saggio di Bachelard – l’Essai sur la connaissance approché – nel quale emerge la centralità del concetto di approssimazione proprio in funzione di una rettificazione progressiva del dominio cognitivo della scienza che conduce all’oggettivazione come conoscenza del dettaglio, come processo di conquista progressiva di un ordine di precisione che configura una realtà complessa, distante da quella di prima approssimazione della conoscenza comune e a essa dialetticamente contrapposta.30 La relazione di approssimazione esplicita in termini matematici la conquista di una conoscenza più fine, di dettaglio, che si realizza proprio attraverso l’induzione relativistica, come viene chiarito già nel primo capitolo del libro del 1929: “De cette manière, l’effort de précision se place juste à la jounction de l’observation et de l’expérimentation […]” (VIR, 14); si tratta di un’espansione del criticismo in termini di idealità costruttiva che si configura come 30. Cfr. G. Bachelard, Essai sur la connaissance approché, Vrin, Paris 1928, 19682, pp. 243-257 (cap. XIX: “Objectivité et rectification. Rôle du détail dans l’objectif”). Ma il libro non manca di richiamare la teoria della relatività – sulla base della lettura datane da Eddington –, ad esempio di un processo di rettificazione algebrica e di seconda approssimazione della misura (cfr. ivi, p. 48).

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un’esperienza del dettaglio, una ricerca della precisione per approssimazioni sempre più elevate.31 L’impianto epistemologico di La valeur inductive de la relativité – qui appena evocato – verrà assunto a punto di riferimento per il capitolo secondo e sesto di Le nouvel esprit scientifique, dove saranno accentuati gli esiti metodologici connessi alla teoria della relatività, con una non casuale evidenziazione del concetto di complessità.32 Altri due saggi, ciascuno a distanza di dieci anni, riprendono le riflessioni sulla teoria della relatività, che poi si interromperanno (ma va segnalata la trasmissione radiofonica del 1955).33 Tuttavia, la centralità epistemologica della teoria della relatività scema progressivamente nella filosofia bachelardiana, sempre più avvinta alla meccanica ondulatoria e a quella quantistica. In un breve scritto del 1939 – Univers et réalité – Bachelard testimonia il proprio disagio a recepire il trasferimento della teoria della relatività sul piano cosmologico, secondo una procedura che smentirebbe lo spirito stesso della complessità del dettaglio, indirizzando verso una totalizzazione trascendente.34 Di altro tenore è il saggio del 1949, inserito nella raccolta in onore di Einstein: in esso vengono ulteriormente rimarcati gli aspetti innovativi della teoria della relatività, nel segno della rottura epistemologica e dialettica. Si tratta di una “dialettica di condensazione razionale e di estensione 31. Cfr. la discussione con il fisico Henri Bouasse sulla soglia dell’approssimazione comprendente o escludente l’etere tra 10-4 e 10-8 (VIR, 15-19) e le osservazioni relative proposte da Abramo in Gaston Bachelard e le fisiche del Novecento, cit., pp. 19-23 e nota 25. 32. Cfr. G. Bachelard, Il nuovo spirito scientifico, cit., pp. 39-53. Rammento che anche in due saggi non epistemologici quali L’intuition de l’instant (1932) e la Dialectique de la durée (1936) Bachelard fa cenno a una lettura antibergsoniana della teoria della relatività come sostegno di una dialettica degli istanti. Nel primo saggio afferma che la relatività “distrugge l’assoluto di ciò che dura”, ma conserva “l’assoluto di ciò che è, vale a dire l’assoluto dell’istante”, G. Bachelard, L’intuition de l’instant. Étude sur la Siloë de M. Gaston Roupnel, Paris 1932; trad. di A. Pellegrino, L’intuizione dell’istante e la psicoanalisi del fuoco, Dedalo, Bari 1973, p. 57. Nel secondo sottolinea come i tempi molteplici della relatività siano alternativi rispetto a una concezione, come quella bergsoniana, della durata assoluta; cfr. Id., La dialectique de la durée (1936), PUF, Paris 19804, p. 90. 33. Si tratta della trasmissione radiofonica del 23 aprile 1955 Les aspects philosophiques de la relativité. Hommage à Einstein (Archives de l’ORTF), riproposta su France Culture il 16 agosto 2004. 34. Si trova qui, ad esempio, una riflessione che oggi riecheggia nel problema, tipico delle teorie dei sistemi complessi, del rapporto tra locale e globale; cfr. G. Bachelard, “Universo e realtà” (1939), in L’impegno razionalista, cit., pp. 116-117 e 119-120.

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dei significati empirici” che produce paradossalmente nelle “formule unitarie della relatività generale” “sintesi filosofiche che riuniscono il razionalismo e il realismo” (DFNR, 144). Ancora una volta Bachelard sottolinea “le virtù filosofiche della rivoluzione einsteiniana”, confrontandole con quelle del copernicanesimo: “Con la scienza einsteiniana comincia una sistematica rivoluzione delle nozioni di base. Nel dettaglio stesso delle nozioni si stabilisce un relativismo del razionale e dell’empirico” (DFNR, 131). Bachelard intravede nella dialettica relativistica un superamento del kantismo e del realismo in funzione di una “filosofia insieme sperimentale e razionale”: “La doppia filosofia dell’esperienza dello spazio – la filosofia realista e la filosofia kantiana – deve essere sostituita da una filosofia dialettica dello spazio attraverso una filosofia insieme sperimentale e razionale. In definitiva, nella relatività, la filosofia dell’esperienza ultraprecisa e la filosofia della teoria fisica sono fortemente accoppiate” (DFNR, 134). Nella direttrice del superamento del kantismo Bachelard propone un “esame neocritico” della “nozione di simultaneità che non è stata criticata da Kant”, che rettifichi insieme l’empirismo e il razionalismo attraverso un vero elettroshock; si produrrà allora un “razionalismo di seconda posizione”, “un razionalismo istruito” nel quale “un reale verificato” sostituirà “un reale dato” e si potrà asserire – richiamando la frase di Schopenhauer – “il mondo è la mia verificazione”, nel senso di un “insieme dei fatti verificati della scienza moderna” (DFNR, 135-137). In questo saggio – come è stato rilevato – si trova una maggiore sottolineatura della discontinuità della teoria della relatività rispetto alla fisica classica e al realismo fisico.35 Menziono infine, per completezza, anche la “conferenza-discussione” del 25 marzo 1950 De la nature du rationalisme,36 nella quale Bachelard ha occa35. Anche se “resta vero che anche per B. l’autentica ‘rivoluzione’ della fisica moderna è quella operata dalla teoria dei quanti”, G. Bachelard, La ragione scientifica, cit., p. 236, nota 28 (ma cfr. anche l’introduzione di Giuseppe Sertoli al “Capitolo quarto. La fisica”, pp. 197-203). 36. G. Bachelard, De la nature du rationalisme, “Bulletin de la Société francaise de philosophie”, seduta del 25 marzo 1950, pp. 45-86; ora in Id., L’engagement rationaliste, cit., pp. 45-88; trad. L’impegno razionalista, cit., pp. 63-102.

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sione di richiamare la funzione di elettroshock prodotta dalla teoria della relatività in una logica del ri-cominciamento come genuina esigenza del “razionalismo applicato”.37 Nell’insieme si può dire che la posizione bachelardiana entra nel merito del dibattito epistemologico intorno alla relatività, assumendo posizioni che appaiono simili a quelle di Reichenbach, se pure provenienti – a differenza della matrice empiristica del pensiero reichenbachiano – da un retroterra razionalistico. Ne è un esempio il sostegno della tesi della convenzionalità della simultaneità attraverso una teoria relazionista del tempo, ovvero l’affermazione che il tempo “non sussiste indipendentemente dagli oggetti ed eventi fisici”.38 Ma il livello di secondo ordine dell’epistemologia permette di smussare e rigorizzare il dibattito filosofico, accantonando le scelte di fondo proposte dalla metafisica bergsoniana. Si potrebbe aggiungere, in conclusione, che data per acquisita l’incomprensione bergsoniana della geometria dello spazio-tempo relativistico, rimane aperto il problema, cui accenno soltanto, se la prospettiva cosmologica ed evolutiva della durata possa essere coniugata con altri aspetti, più recenti, della fisica contemporanea. Un problema che richiede in qualche modo un superamento della prospettiva epistemologica proposta dalla teoria della relatività. In realtà, il problema “metafisico” – posto da Bergson – del sentimento costituivo del tempo come flusso irreversibile di durata vissuta non ha molto a che fare con quello “scientifico” del tempo come parametro relativo a un sistema di riferimento quadridimensionale. Ma ha qualcosa a che fare con il problema del tempo irreversibile dei sistemi complessi, posto dalla termodinamica del non equilibrio, e più in generale con quello della reintroduzione del parametro dell’irreversibilità nell’analisi dei processi fisici legati al genere dei sistemi dinamici, che vanno dall’ebollizione al37. Cfr. ivi, p. 69. Ricordo che intorno a questa parola chiave si è svolto un recente convegno bachelardiano; cfr. F. Bonicalzi, C. Vinti (a cura di), Ri-cominciare. Percorsi e attualità dell’opera di Gaston Bachelard, Jaca Book, Milano 2004. 38. G. Boniolo, M. Dorato, Dalla relatività galileiana alla relatività generale, cit., p. 52.

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l’apertura biologica dei sistemi viventi.39 In questa direzione, e in particolare nella prospettiva sviluppata da Ilya Prigogine, sono apertamente riproposte alcune priorità concettuali della metafisica bergsoniana.40 Ma questa evidentemente è un’altra storia.

39. Già il fisico giapponese Satosi Watanabe in Le concept de temps en physique moderne et la durée pure de Bergson, “Revue de métaphysique et de morale”, 2, 1951, pp. 128-142 aveva posto il problema del rapporto tra la teoria della durata pura e il secondo principio della termodinamica. 40. Cfr. tra l’altro I. Prigogine, I. Stengers, Tra il tempo e l’eternità (1988), trad. di C. Tatasciore, Bollati Boringhieri, Torino 1989, p. 191 e Id., La nuova alleanza. Metamorfosi della scienza (1979), a cura di P.D. Napolitani, Einaudi, Torino 1981, p. 273.

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Discussione sulla consulenza filosofica

Filosofia in azienda? NICOLA GAIARIN MASSIMILIANO NICOLI

Massimiliano Nicoli. Direi di iniziare la nostra conversazione tentando una descrizione sintetica dello scenario della consulenza aziendale di tipo umanistico, con particolare attenzione a quelle aree in cui, di fatto, si sta tentando di “praticare” la filosofia. L’obiettivo può essere quello di attraversare queste pratiche per osservare contemporaneamente se c’è (o ci può essere) qualcosa di genuinamente filosofico in esse. Inoltre potremo capire se è possibile parlare di consulenza filosofica in azienda oppure, al limite, di consulenza filosoficamente orientata. Nel primo caso si tratterebbe di una pratica consulenziale che trova nella filosofia, nella sua storia e nella sua elaborazione concettuale i propri strumenti caratterizzanti; nel secondo caso saremmo di fronte a una consulenza che utilizza strumenti provenienti da altri approcci e discipline (psicologia, counseling, scienze della formazione ecc.) e contemporaneamente, come ausilio e integrazione (o forse anche in funzione di guida e “coordinamento”), si avvale di competenze filosofiche – la cui definizione, peraltro, può impegnare la ricerca in questo campo.1 Nicola Gaiarin è laureato in filosofia e lavora come consulente di direzione e formatore specializzato in Process Counseling. È autore, con Alessandro Rinaldi ed Enrico Folchini, di Counseling per manager (Guerini, Milano 2005). Massimiliano Nicoli ha studiato filosofia a Milano e attualmente è coordinatore, tutor e delegato sindacale presso un ente di formazione del Nord-Est. Entrambi partecipano all’Osservatorio critico sulla consulenza filosofica di Trieste. 1. La riflessione sulla possibilità/necessità di una consulenza filosoficamente orientata intesa come sviluppo di competenze filosofiche è stata recentemente avviata in S. Contesini,

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Nicola Gaiarin. Di fronte all’alternativa secca che tu proponi, ti risponderei che credo a una consulenza filosoficamente orientata. Ma in fondo, come sai bene, non vorrei rispondere in modo così diretto alla tua domanda. Perché il tema che metti sul tavolo, quello delle cosiddette “competenze filosofiche”, è un tema importante ma rischioso. Per iniziare subito con una provocazione ti direi che una consulenza che abbia qualcosa a che vedere con la filosofia dovrebbe essere una consulenza “filosofica” solo in modo indiretto, perché fare filosofia in modo diretto equivale, secondo me, a cercare di stringere con un cappio definitorio qualcosa che eccede ogni definizione. Come dire che se per parlare di consulenza filosofica dobbiamo prima legittimarci come filosofi e per legittimarci come filosofi dobbiamo dare una definizione ristretta di filosofia o di competenza filosofica, forse rischiamo di farci sfuggire qualcosa di determinante. Qualcosa che ha a che fare con la filosofia come pratica, e non come campo disciplinare circoscritto. Se la filosofia, per parafrasare Derrida, ha a che fare con l’apertura di un campo iperbolico in cui le identità vengono messe in crisi e il terreno del senso comune è attraversato da faglie e spaccature, allora faccio fatica a pensare a delle “competenze filosofiche”. In fondo la filosofia, per riprendere le tue parole, più che un orientamento dovrebbe assomigliare a un disorientamento. Potremmo parlare di consulenza filosoficamente disorientata… Nicoli. La filosofia squieta, disorienta, ammala. È un tema che circola spesso all’interno delle nostre discussioni e che non esito ad accogliere, in virtù del potenziale eversivo della filosofia rispetto alle logiche del senso comune e – aggiungo – delle organizzazioni aziendali. Probabilmente stiamo già compiendo una mossa critica nei confronti dello scenario della consulenza filosofica in azienda, costituito da pratiche definite e che si vogliono filosofiche, per R. Frega, C. Ruffini, S. Tomelleri, Fare cose con la filosofia, pratiche filosofiche nella consulenza individuale e nella formazione, Apogeo, Milano 2005.

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non parlare del fiorire di percorsi formativi volti a preparare la figura professionale del consulente filosofico aziendale. L’esigenza di creare una professione passa naturalmente attraverso la definizione di una metodologia, di un set di strumenti di lavoro, di un complesso di competenze, di curricula formativi per gli aspiranti consulenti, fino ad arrivare, al limite, a costituire l’albo professionale. Mi pare che tu preferisca parlare della filosofia in azienda come un decimale che non si lascia arrotondare, qualcosa di mobile e irregolare che non può che aggirarsi, all’interno delle pratiche consulenziali, in maniera pressoché clandestina. La filosofia come possibile effetto collaterale della consulenza, più che sua guida ideologica. A questo punto ti chiedo quali possono essere le pratiche di consulenza (ovviamente umanistica) all’interno delle quali lo spettro filosofico può eventualmente manifestarsi. Gaiarin. Sicuramente chi fa il consulente viene chiamato sempre di più a lavorare su temi che hanno a che fare con la consapevolezza relazionale e comunicativa delle persone. Tante parole, come coaching, empowerment, leadership, sono solo la cresta di un’onda di cambiamento profonda, che non si può ridurre alla moda (che pure è un rischio, come sono un rischio gli slogan americani). Ci si rende conto che le persone, per essere efficaci dal punto di vista operativo, devono in primo luogo trovare una forte risonanza tra i propri obiettivi personali e i percorsi di crescita presenti in azienda. Un’azienda che non fa crescere le proprie persone fatica terribilmente ad andare avanti rispetto a un’azienda attenta ai propri dipendenti. Questo non significa che le realtà di chiusura e oppressione non siano ancora ben presenti, ma si tratta di realtà che rischiano di perdere il treno mentre si verifica un cambiamento radicale di paradigma organizzativo e manageriale. In questi ultimi anni da parte delle aziende proviene una forte esigenza di tipo riflessivo. I manager si rendono conto che con il tramonto dei paradigmi del passato – fordismo e taylorismo innanzitutto – l’azienda corre il rischio di vivere una crisi di significato. Le pratiche con cui l’orga168


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nizzazione operava e attraverso cui interpretava se stessa sono venute a cadere. Oggi un manager avvertito (parlo di manager ma il discorso ovviamente può essere allargato ad altre figure con un qualche ruolo decisionale) ha una certa familiarità con l’idea che non esiste più un solo modo giusto per fare le cose. La crisi della cosiddetta one best way ha fatto esplodere le traiettorie di sviluppo aziendali in una pluralità di microstrategie, ognuna con una logica e un significato diverso. La stessa globalizzazione, per fare un esempio scontato, porta le grandi corporations a vivere in una sorta di stato di emergenza permanente riguardo a temi sensibili, come la convivenza di culture organizzative e nazionali diverse che fino a qualche anno fa, con le organizzazioni ancora alla ricerca di ricette definitive (dai tempi e metodi al cosiddetto re-engineering organizzativo), erano fuori dall’orizzonte aziendale. Questi piccoli sismi che continuano a scuotere il mondo delle aziende hanno, secondo me, delle conseguenze interessanti. La prima è che il focus, l’attenzione di chi gestisce organizzazioni e aziende si sta spostando verso il cosiddetto capitale umano. È una parola forse brutta, ma ci fa capire come la persona sia realmente un asset, un valore di cui tener conto. Le organizzazioni si interessano alle persone non in virtù di un presunto umanesimo di fondo, ma perché si rendono conto di essere effettivamente fatte di persone. L’altra conseguenza è che ci sono in circolazione molti manager e studiosi consapevoli di questo cambiamento di scenario. Quindi c’è un dato fondamentale: è improbabile che un consulente filosofico abbia da raccontare granché a un manager che non ha aspettato lui per iniziare a riflettere, a volte in modo molto sottile, sul suo stesso mestiere. Per ritornare al nostro discorso, ritengo che la filosofia debba o possa essere un effetto collaterale perché altrimenti rischia solo di essere un “contenuto” più o meno interessante, ma incapace di incidere sulla scorza della realtà aziendale. Dicevo che non esiste un umanesimo alla base dell’agire organizzativo, ma mi piace ricordare che ci sono iniziative che stanno provando a giocare con forza proprio questo termine nel tentativo di creare un’azienda “conviviale”, attraversata da una voca169


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zione dialogica e comunitaria, emotivamente consapevole e aperta alla pluralità dei linguaggi del nostro tempo. Si tratta del cosiddetto Humanistic Management, che comunque parte da riflessioni di grandi studiosi delle organizzazioni. Karl Weick, con la sua attenzione nei confronti del sensemaking organizzativo, Geert Hofstede, con la valorizzazione del management culturale, Charles Handy, con l’idea di cambiamento discontinuo, sono solo alcuni dei grandi “guru” del management che hanno lavorato su temi, secondo me, pienamente filosofici. Questo solo per dire che l’azienda non ha aspettato “noi” per cominciare ad andare alla ricerca del senso perduto, ma lavora da tempo sulla definizione di un senso esploso e plurale, nella piena consapevolezza della crisi delle grandi narrazioni di cui parlava Lyotard alla fine degli anni settanta. Altra cosa sintomatica, chi si interessa alle aziende legge libri, penso a Lyotard ma anche a Impero di Negri e Hardt o a scrittori come Dick e Cortázar, che chi si occupa di filosofia magari non ha nemmeno mai incrociato, se non per strade secondarie. È in fondo la mia obiezione all’idea di curricolo filosofico: quale filosofia per il consulente filosofico? Ci bastano Kant e Platone per andare in un’azienda? O forse il vero discrimine passa tra una filosofia come accademia e una filosofia come esercizio del pensiero che decostruisce i “giochi di verità” della filosofia accademica? Nicoli. L’azienda è fatta di persone, il valore dell’azienda è composto (anche) dal valore rappresentato ed espresso dalle persone che ci lavorano, occorre promuovere il benessere della persona per migliorare l’azienda, ovvero tentare un’integrazione virtuosa fra le esigenze di sviluppo personale e i bisogni organizzativi. Temo però che le (poche) persone che le organizzazioni aziendali più avvertite intendano valorizzare (per reali esigenze operative e non per filantropia) siano quelle figure che occupano ruoli decisionali e il cui “stare bene” in azienda sia determinante rispetto agli obiettivi di produttività e profitto – a fronte di una massa di lavoratori (prima ancora che “persone”) che per gli stessi motivi è utile e necessario riuscire a mantenere socialmente depressi e sotto scacco, tentando 170


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magari di occultare la loro stessa condizione con il miraggio della crescita professionale. Del resto, se la richiesta che proviene in maniera compatta e urgente dai lavoratori è quella di un minimo di stabilità di lavoro e di continuità di reddito, non mi spiegherei altrimenti il fatto drammatico della perdurante generalizzazione della precarietà dei rapporti di lavoro. Non vorrei che la riflessione filosofica sul management finisse per rimuovere le contraddizioni all’opera nei luoghi di lavoro e che fanno saltare l’integrazione fra gli obiettivi aziendali e le esigenze dei lavoratori; esigenze che spesso si riducono a una questione di sussistenza prima ancora che di crescita personale. Ripensare questa contraddizione e le sue forme di mistificazione, elaborare strategie di fuoriuscita dall’universalizzazione della precarietà, leggere il disagio dei lavoratori e tradurlo in una prospettiva praticabile di trasformazione della propria condizione, questo è, secondo me, lo spazio specifico di una riflessione filosofica intorno ai luoghi di lavoro. Continuo a pensare che Marx (e i marxismi) siano una vaccinazione critica obbligatoria per chi voglia attraversare le organizzazioni aziendali con atteggiamento filosoficamente spregiudicato, mirando a decostruire i “giochi di verità” del pensiero aziendale e i suoi effetti di dominio. Ovviamente un’impostazione di questo tipo priva la filosofia della possibilità di farsi “consulenza” su committenza aziendale. Ma se non vogliamo eliminare quel rapporto fra filosofia e politica che ha il proprio termine medio nell’etica e nella libertà, dobbiamo accettare che la filosofia giochi il proprio destino in relazione alle organizzazioni aziendali sul terreno del rapporto con la razionalità strumentale e con l’esercizio del potere all’interno dei luoghi di lavoro. Altrimenti il mio sospetto è che le pratiche filosofiche in azienda finiscano per integrarsi nell’orizzonte totalizzante e insuperabile di una strumentalità che in questo caso significa efficienza e produttività, degenerando in tecniche di influenza e controllo volte a superare fordismo e taylorismo solo per raffinare e sofisticare sorveglianza e disciplina. Credo che gli esiti della filosofia applicata al coaching e alla leadership possano iscriversi all’interno di 171


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questo scenario di manipolazione e occultamento dei rapporti di potere, fissati peraltro dalle posizioni contrattuali di ciascun lavoratore: si promuovono dialogo e pluralità per mobilitare le persone attorno alle strategie di business stabilite nelle stanze dei consigli di amministrazione; certo non si mettono in discussione gli assetti di proprietà (se non inventandosi le stock options…) né tanto meno si parla di democrazia e partecipazione diretta dei lavoratori alle decisioni che determinano i loro stessi destini.2 Nutro altrettanti sospetti nei confronti della business ethics, della definizione della responsabilità sociale d’impresa (con relativa certificazione tipo Sistema Qualità) e del pensiero filosofico a supporto dell’elaborazione di carte dei valori, mission e vision aziendali. Qui mi pare che la filosofia entri in azienda come fenomeno ideologico che l’organizzazione utilizza per darsi un’anima bella e aggregare lavoratori, clienti e consumatori attorno a “valori” che funzionano come sostituto morale dei normali obiettivi di business. Tant’è che è proprio nella percezione della netta divaricazione fra le pie dichiarazioni della mission e le reali prassi operative che risiede buona parte della frustrazione dei lavoratori. Piuttosto, mi pare interessante indagare le strategie attraverso cui le organizzazioni aziendali tendono oggi a presentarsi sul mercato come socialmente responsabili, assorbendo e inglobando alcune istanze provenienti dai movimenti sociali per neutralizzarne la portata conflittuale. Se la filosofia si distingue dagli approcci socio-psico-pedagogici per il suo legame sostanziale e ineliminabile (pena l’eclissi del “filosofico” stesso) con il problema della verità e del suo senso politico, allora essa non può esimersi, per dirla con Foucault, dal giocare un’altra partita all’interno del gioco di verità, giocando diversamente, con altre mosse, parlando, per esempio, della verità dello sfruttamento dei lavoratori.

2. Eppure la storia industriale italiana del secondo dopoguerra è ricca di episodi di autogestione della produzione che lasciano pensare che un’altra azienda è possibile, si pensi anche al fenomeno delle fabbriche recuperate e autogestite dai lavoratori in Argentina subito dopo il crollo economico del 2001.

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Gaiarin. È difficile darti torto, però voglio provare a rilanciare. Uno dei temi su cui si può lavorare come consulenti in azienda è, come dici tu, quello dei valori. È verissimo che spesso il valore è solo un sostituto morale o addirittura uno strumento di marketing indiretto. Il rischio ideologico è sempre in agguato e il consulente o l’esperto di business ethics rischia di diventare solo colui che dà una mano di vernice “moraleggiante” a una serie di prassi operative che di etico non hanno nulla. Il consulente “intellettuale” che a buon prezzo offre un po’ di anima all’azienda. Forse però questa difficoltà e questo uso strategico di tematiche “etiche” da parte dell’azienda ci suggeriscono una direzione di lavoro importante. A un lavoro sui valori che parte dall’alto, con dichiarazioni di mission o carte dei valori in cui si riconosce (se va bene…) solo il management team, si può opporre un lavoro sui valori che parta dal basso. C’è un valore come regola astratta e vuota, legata a un’idea di autosorveglianza e autodisciplina (“Queste sono le regole dell’azienda, se non le segui rischi sanzioni o valutazioni negative, quindi ti conviene interiorizzare le regole più che puoi”). Il rischio di questo approccio lo hai messo già in evidenza. Ma c’è, forse, un valore che nasce dal modo in cui le persone vivono il lavoro ogni giorno. Un valore sentito, che parte dalle difficoltà e dalle soddisfazioni reali. Lo definirei un valore in senso “spinoziano”, immanente, che deve partire da una riappropriazione del senso del proprio lavoro da parte di tutte le figure aziendali. Se ogni persona che lavora nell’azienda contribuisce a dare un senso all’identità dell’azienda stessa, se ogni piccolo rituale lavorativo è anche un’operazione interpretativa (è questo il senso del sensemaking), allora ogni persona e ogni gruppo diviene un nodo di senso che può, in modo locale, proporre la propria curvatura all’idea di valore e, sul lungo periodo, all’identità dell’azienda. Lavorare sui valori per me vuole dire fare una domanda molto semplice: “Cos’è che vi muove nella vostra attività, qual è la spinta interna, la motivazione che vi fa andare avanti? E quali convinzioni condivise vi possono dare il ‘carburante’ in termini di senso per il vostro lavoro?”. Non posso essere io come consulente (o come “filosofo”) a dire agli altri quali devono 173


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essere i loro valori. Posso solo facilitare un processo di elaborazione condivisa a partire da una convinzione che metto subito sul tavolo, per evitare equivoci. Io credo che l’unico modo per fare del valore un focolaio di cambiamento sia quello di considerare l’azienda come un sistema interdipendente. Solo se ogni parte dell’azienda può comunicare (almeno virtualmente) con ogni altra, solo se si abbandona una visione “compartimentale” dell’organizzazione è possibile pensare e agire il cambiamento in modo orizzontale e trasversale. Un’azienda può essere gerarchica dal punto di vista funzionale ma riconoscere la necessità di far circolare i valori a tutti i livelli e di mettere in atto un modello efficace di ascolto rivolto a tutte le figure che la compongono. Credo che sia questa una direzione di lavoro verso cui tendere, e in questo vedo la necessità (più ancora che la possibilità) di operare una “svolta” filosofica. Però dovrebbe essere una filosofia capace di stare in contatto con la “pancia” – per dirla con Galimberti. La razionalità filosofica è una razionalità ricca, ibrida, capace di integrare piani e livelli diversi. Non è una razionalità da costruire, ma da riscoprire. Ma soprattutto è una razionalità da praticare, e questo non è così scontato. Mi viene in mente una barzelletta sui consulenti che magari potrebbe valere anche per certi filosofi… Nicoli. Condivido senz’altro, e trovo molto interessante l’idea di un ragionamento sui valori che inverta le normali traiettorie aziendali partendo dal basso, e di una riappropriazione del senso autentico del proprio lavoro da parte dei lavoratori. È solo che questo progetto comporterebbe un’opera di smontaggio dei processi di alienazione nei luoghi di lavoro contemporanei che dovrebbe investire e trasformare radicalmente il modo di fare azienda, impresa, profitto. Altrimenti sarebbe praticabile solamente all’interno di quelle organizzazioni che non hanno (o non dovrebbero avere) nell’ultima riga di bilancio il senso del loro agire: aziende pubbliche che forniscono servizi di prima necessità, cooperative, il variegato e a volte ambiguo mondo del “no-profit”, e – perché no? – organizzazioni politiche e sindacali. Non che queste organizzazioni non condividano le medesime dinamiche di potere e 174


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dominio delle aziende “profit” (tutt’altro), ma spesso presentano elementi di schizofrenia: da un lato si allontanano da quegli obiettivi/valori che le definiscono, dall’altro hanno realmente bisogno di un continuo movimento di ri-allineamento alle istanze “istituzionali” o provenienti dalla propria “base”. E anche in questo caso sarebbe un lavoro difficilissimo e denso di conflitto. Credo che per il mondo del business in senso stretto la riappropriazione del senso del proprio lavoro e la possibilità di incidere sull’identità aziendale richiedano contestualmente una conquista di spazi di libertà e partecipazione che investe la questione della proprietà e della democrazia nei luoghi di lavoro. Diversamente, l’organizzazione avrà sempre a disposizione strumenti di persuasione (più o meno sottili e raffinati, giocati nelle posizioni gerarchiche o all’interno della microfisica del potere aziendale) per regolare e correggere il lavoro in base alle proprie pratiche “ortopediche” e strategie di assoggettamento. Dovremmo provare a pensare un modello organizzativo profondamente diverso e che muova verso nuove forme di socializzazione del lavoro, uscendo dalla dicotomia classica pubblico/privato. Ti faccio un esempio: poco tempo fa un’azienda tessile in dismissione di Bollate, in provincia di Milano, è stata rilevata dai suoi stessi novanta lavoratori (delegati sindacali inclusi) che hanno investito paritariamente i propri stipendi nell’acquisizione dell’impresa. Ora si trovano nella difficilissima situazione di gestire l’azienda e stare sul mercato preservando la propria diversità, ricapitalizzando l’impresa, salvaguardando l’occupazione ed emancipandosi dall’aiuto pubblico, costruendo una rete di solidarietà nel tessuto produttivo locale e non solo. Forse qui ci sarà bisogno anche di qualche ragionamento filosofico… Comunque adesso devi raccontare la barzelletta! Gaiarin. C’è un pastore, con un piccolo gregge di pecore. Sta riposando sotto un albero mentre le pecore brucano l’erba. Un cane fa la guardia al gregge. Da una strada vicina spunta un’auto. È lussuosa, nero-metallizzata, sembra che nemmeno la polvere che solleva ci rimanga appiccicata. L’auto si ferma e ne esce un uomo elegante. Com175


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pleto grigio su grigio, cravatta antracite, scarpe e cintura abbinate. Il tizio fa al pastore: “Scusi, senta, ci sta a fare una scommessa?”. Il pastore apre agli occhi e lo guarda senza dargli troppa importanza. “D’accordo” dice. “Allora,” fa l’altro, “io provo a indovinare il numero esatto delle sue pecore. Se lo indovino, mi prendo una pecora, altrimenti le do 500 euro.” “D’accordo, ci provi” replica il pastore. Il tizio elegante ci pensa un attimo, si concentra. “Lei ha esattamente sessanta pecore.” Il pastore, senza dare l’aria di essere eccessivamente stupito, dice: “Ha indovinato, può prendere una pecora”. L’altro, soddisfatto, abbranca il bottino. Fa per salire in macchina quando il pastore lo blocca con una frase. “Senta, ci sta a fare lei una scommessa?” “Certo, perché no?” “Se indovino che mestiere fa, mi restituisce la pecora. Altrimenti ne può prendere un’altra.” “D’accordo!” “Lei fa il consulente.” L’altro lo guarda stupito: “Ma come ha fatto…?”. “Semplice, è arrivato senza che nessuno l’avesse chiamato. Mi ha rotto le scatole per dirmi una cosa che sapevo già. E soprattutto non capisce un cazzo del mio lavoro. Metta giù il cane, per favore…” Come sempre succede, raccontando storie le cose si mettono in moto. Anche se la storia è interessante più per quello che non dice che per quello che rivela. Per esempio nella vita reale di solito il consulente non arriva all’improvviso, ma risponde a una richiesta ben precisa. È sulla tipologia di richiesta che occorre forse soffermarsi. Il consulente tipo, quello preso in giro dal pastore, è il professionista buono per tutte le stagioni che, stando alla distinzione fatta da Edgar Schein, si occupa di contenuti. Il modello di lavoro di questo consulente è legato al tipico rapporto medico-paziente. Il cliente va dal consulente dicendo qualcosa del tipo “ho un problema, tu sai meglio di me come aiutarmi a superarlo, dammi la soluzione”. La soluzione del consulente asso176


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miglia a quella del medico che ha una pillola per tutto. È un modo, forse, di riprodurre quel rischio di psicologizzazione spinta di cui parla Rovatti in La filosofia può curare?, evidenziando che spesso i malesseri che colpiscono persone e gruppi hanno l’aria di essere malattie indotte e immaginarie più che “disagi” reali. Le persone non sono inadeguate ad affrontare la vita, vengono fatte sentire tali. Ma temo che non basti smascherare questo gioco di prestigio per liberarsi in un colpo solo dell’incanto e della seduzione delle forme di autosorveglianza. Certo, i consulenti più accorti hanno capito che un approccio di questo genere non può più tenere all’interno di un contesto organizzativo estremamente complesso e di fronte a interlocutori molto attrezzati, anche dal punto di vista concettuale. Allora occorre passare dal contenuto al processo. Il consulente, diventando quello che Edgar Schein chiama consulente di processo, lavora, secondo me, soprattutto sull’ascolto. Ascoltare vuol dire semplicemente stare di fronte a una persona con una sola domanda in testa: “cosa sta succedendo?”. Questo “cosa sta succedendo” per me riassume altre questioni. Per esempio “cosa mi sta chiedendo realmente la persona che ho davanti?”. Non credo ovviamente al mito della comprensione pura o dell’esperienza assoluta. Non credo che con l’ascolto o con l’empatia raggiungiamo il vero sentire dell’altro. Quanto meno, però, scaviamo una pausa, un momento di sospensione di fronte all’accelerazione, alla voglia di arrivare al punto e di concludere, che caratterizza chi ha a che fare con la pratica aziendale tutti i santi giorni. Ascoltare vuol dire aprire uno spazio di decompressione. Ma non significa “staccare” dalla pressione quotidiana. Vuol dire magari aprire a una tensione di tipo nuovo, perché la persona che hai davanti si trova a fare i conti con il momento in cui alcune delle maschere che è abituata a portare cadono. Forse si tratta di un lavoro di decostruzione, in cui l’obiettivo non è lo smascheramento delle dinamiche aziendali ma la possibilità di dare al nostro interlocutore qualche strumento in più per fare i conti con la difficoltà di vivere il suo ruolo. Stare in ascolto del bisogno significa allora portare il cliente a dare una risposta improntata al rallentamento, a una so177


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spensione del giudizio immediato. Qualcosa del genere: “ehi, aspetta un attimo, forse non sono i miei collaboratori a non saper comunicare, forse sono io che non so farmi capire e quindi loro girano a vuoto per decifrare una serie di messaggi ambigui e contraddittori che continuo a inviare loro. Forse, non è un problema di comunicazione. Forse, sono io che in questo momento non sto bene nel mio nuovo ruolo perché il direttore generale mi sta delegando una serie di cose in modo poco chiaro, dato che l’azienda sta vivendo dei passaggi ambigui e di fronte all’incertezza la reazione tipica delle alte sfere è quella di cercare di tenere la situazione a galla fino a che il quadro si fa un po’ più chiaro…”. Ecco, un buon lavoro sull’ascolto potrebbe attivare questo genere di self talk, di discorso mentale, nella persona. Solo che il risultato non è dato in anticipo, si lavora sempre senza rete. Per citare Deleuze, non esiste metodo, solo una lunga preparazione. Il rigore dell’ascolto è un rigore che non si può ridurre a ricette. Nicoli. Decompressione, rallentamento e sospensione contro l’ansia tipica delle pratiche aziendali di mozzare la testa ai problemi per concludere e arrivare al punto. Se possibile, non ti chiederei di meglio… Una nota personale che proviene dalla mia esperienza lavorativa: se all’interno dei processi decisionali e di risoluzione di problemi che quotidianamente mi coinvolgono, facessi valere un approccio (forse) filosofico, caratterizzato in quanto tale da un’attenzione particolare alla domanda di senso circa gli effetti delle mie decisioni in relazione alla verità del mio lavoro, allora molto probabilmente procurerei un danno economico all’azienda, semplicemente perché non potrei che scegliere di dilatare i tempi della produzione per produrre meno e produrre meglio. Se davvero adeguassi il mio lavoro ai valori espressi nella mission aziendale, lavorando sulla qualità del servizio prodotto e sulla sua rispondenza alle esigenze dell’utenza, di fatto, saboterei l’azienda stessa. Per rispondere invece a ciò che l’azienda realmente mi chiede, devo continuamente raggiungere e ripetere il compromesso fra standard minimi di qualità e tempi serrati della produzione: è in questo compromesso – as178


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sai poco filosofico – che risiede il mio talento e il valore della mia performance per come l’azienda lo misura. Gaiarin. Hai fatto bene il tuo lavoro o no? Il tuo intervento è riuscito? Ti cacciano via a calci? La possibilità di aver sbagliato su tutta la linea, ovviamente, c’è sempre. E c’è anche la possibilità di trovarsi di fronte a persone che non hanno la minima intenzione di mettersi in discussione. Ma credo che in fase di analisi del bisogno e di elaborazione degli obiettivi si debba far capire al cliente che nessun intervento di cambiamento è indolore. Se si toccano dinamiche radicate da lungo tempo, che quasi sempre hanno ripercussioni su più livelli dell’azienda, il quadro si complica. Questo perché le aziende, come hai detto tu, fanno di tutto per tenere a bada la complessità, per ridurla al minimo, per togliere il livello di “interferenza” presente negli ambienti complessi. Quindi c’è il rischio che il manager si preoccupi se tu gli dici “attenzione, non è così semplice, io non ho risposte, sei tu che devi fare i conti con te stesso e con il posto in cui lavori, con il livello di frustrazione o di entusiasmo, con i tuoi obiettivi personali e professionali, con il livello di risonanza tra i tuoi obiettivi e quelli della tua azienda, con i tuoi valori ecc.”. Ovviamente non dici tutte queste cose, ma ti puoi aspettare che emergano comunque e non devi aver paura di prenderti lo spazio per dirle. La tentazione è quella di non sollevare il coperchio, di lasciare le cose come stanno, di portarti a casa la giornata alla meno peggio. Ma l’importante è sapere che la complessità – e la responsabilità – è presente, e che la tua “posizione” di consulente è quella di un surfista che deve stare in questa complessità e usarla per aiutare un gruppo di persone a stare meglio o a raggiungere i propri obiettivi. Nicoli. Chi lavora con la filosofia, oppure la ingaggia, deve sapere che camminerà su un filo e senza rete. Penso sia un punto fermo valido per ogni tipo di pratica filosofica. Poco fa hai parlato di autosorveglianza. Allora vorrei tirare di nuovo in ballo Foucault e l’esercizio della cura di sé, che peraltro ricorre abbastanza spesso nella letteratura sulla consulenza filosofi179


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ca – senza che tuttavia se ne adotti fino in fondo la portata critica. Nell’intervista del 1984, L’etica della cura di sé come pratica della libertà, emerge chiaramente come l’esercizio della cura di sé, all’interno dell’analisi del potere di Foucault, si faccia pratica di libertà intesa come gestione dello spazio di potere, proprio di ogni relazione umana, nel senso del non-dominio; pratica resistenziale volta a far sì che le relazioni di potere siano giocate con il minimo possibile di dominio. Il rapporto di sé con sé implicato dalla cura di sé è allora il fondamento di una pratica di libertà che agisce sulle tecnologie di governo e sulle strategie di assoggettamento (nel corpo politico, nelle relazioni pedagogiche, nelle organizzazioni aziendali…) per impedire la fissazione delle relazioni di potere (di per se stesse mobili, instabili, reversibili) in stati di domino. Se la cura di sé significa “soggettivarsi liberamente passando attraverso una desoggettivazione, cioè distaccandosi da se stessi per cogliersi meglio nella propria immersione nel mondo” (per riprendere le parole di Ottavio Marzocca), allora ciò comporta come minimo un “confronto dialettico” (per usare un eufemismo) con i dispositivi disciplinari che costituiscono soggetti docili, acquiescenti e padroneggiabili. L’azienda, il luogo di lavoro, è indubbiamente uno di questi dispositivi. Anzi, vista la centralità dell’organizzazione aziendale e del business nel mondo contemporaneo, l’azienda è probabilmente il dispositivo disciplinare per eccellenza (piuttosto che la nuova agorà…). Se la cura di sé è “critica vissuta di ogni potere totalizzante” (ancora Marzocca, cfr. “aut aut”, 332, 2006), allora in azienda può/deve tradursi in esperienza di resistenza e pratica di ribellione, smarcamento, sabotaggio del dispositivo assoggettante. Quando l’organizzazione aziendale è luogo di oppressione, prevaricazione e ingiustizia normalizzata, istituzione disciplinare in grado di agire come dispositivo pedagogico omologante e repressivo, l’esperienza del soggetto può configurarsi come esperienza di resistenza. Parlo di organizzazioni aziendali visto che è il tema della nostra conversazione, ma il discorso è assolutamente esportabile anche all’interno di organizzazioni di natura molto diversa, come le stesse strutture politiche o sindacali cui accennavo prima. 180


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Comunque, nei testi che affrontano il tema delle pratiche filosofiche nelle organizzazioni aziendali, mancano, a mio avviso, seri riferimenti alle strategie disciplinari più o meno consapevolmente messe in atto dalle organizzazioni stesse, liquidando probabilmente questo aspetto come un dettaglio di tipo politico che non può riguardare la filosofia. Non solo, le strategie disciplinari aziendali si innestano su uno sfondo legislativo che norma il mercato del lavoro in modo da costituire un certo tipo di “individuo lavoratore” in quanto soggetto debole e ricattabile, ma anche questo sarebbe un problema di natura giuridica che non interessa l’agire del filosofo. E se la precarizzazione dei rapporti di lavoro fosse un altro importante tassello all’interno di quella cultura terapeutica che sforna soggetti malaticci e obbedienti? Gaiarin. Su questo aspetto mi trovi del tutto d’accordo. È importante che il ricorso alla filosofia in azienda – qualsiasi strada si voglia scegliere, dal consulente filosofico alla consulenza filosoficamente orientata, agli “esercizi spirituali” per manager (tipo quelli di Todo Modo di Sciascia) – non diventi un alibi per mascherare le traiettorie di precarizzazione in atto. Spesso le azioni di sviluppo attuate in azienda rischiano di essere dei tentativi di salvarsi l’anima mentre il corpo (inteso come forza lavoro) si disgrega. La precarizzazione è effettivamente un modo per giocare su un altro livello la cultura terapeutica dominante. Occorre però azzardare un cambio di prospettiva. Partire dal gioco di prestigio di chi maschera la precarietà del lavoro dietro gli slogan sulla flessibilità per provare a chiedere se esiste da qualche parte una flessibilità agita e non subìta. In ogni caso, per attivare qualche focolaio di resistenza occorre sporcarsi le mani. Sono sempre molto sospettoso nei confronti di tutte quelle situazioni in cui un’azienda o un’istituzione chiama il filosofo (o lo scrittore) a parlare di massimi sistemi di fronte a una platea manageriale. Si rischia di proporre la persona di cultura come una specie di corporate jerk, di buffone aziendale, come i comici chiamati a prendere in giro l’azienda a suon di migliaia di euro. L’apparente contestazione diventa organica al potere. Ma, in realtà, dietro questo gioco delle parti si cela una questione im181


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portante. Il buffone è quello che dice la verità al potere, come nel Re Lear. Ma per dire la verità al potere deve accettare di guardarlo in faccia. Per questo credo alla possibilità di un incrocio tra filosofia e azienda. È un incrocio pericoloso, ma solo se la filosofia corre il rischio di perdersi può ritrovare il senso del proprio esercizio. Nicoli. Precarietà del lavoro significa discontinuità di reddito e dunque precarietà sociale: la ricattabilità, l’insicurezza e la paura del precario si trasferiscono in automatico dal lavoro alla vita sociale; se questa situazione viene digerita e interiorizzata come destino, condizione immutabile che inchioda l’esistenza, allora remissione, inerzia e paura diventano funzioni regolative dei rapporti sociali. La precarietà come architrave di una sorta di pedagogia generalizzata dell’acquiescenza e della rassegnazione. Gaiarin. Qui ritorniamo alla necessità del ruolo sociale della filosofia. Parlando della necessità di portare la filosofia in azienda, di farla lavorare, in modo indiretto, sulla creazione di zone di resistenza, non voglio dire che la filosofia debba stare solo in azienda. Il filosofo dovrebbe portare in azienda una riflessione maturata altrove e questo altrove coincide con lo spazio “sociale”. Il ruolo sociale del filosofo si dovrebbe giocare in un confronto con il “fuori” della filosofia. Qui rimango legato a Deleuze, all’idea di un “diventare non filosofo del filosofo”. È possibile far filosofia con altri mezzi – con la letteratura, con la musica, con la politica? Se la risposta è sì, allora lo si può (e lo si deve) fare anche con l’azienda. Adriano Olivetti era un mecenate o un filosofo? Credo fosse un filosofo nel suo portare avanti una visione da imprenditore che era soprattutto un’idea del mondo, e questa idea passava attraverso la cultura, l’urbanistica, l’architettura. E attraverso una pratica industriale che – anche se inattuale – rimane valida ancora oggi. Forse rimane valida proprio perché ostinatamente inattuale. La cultura italiana negli anni cinquanta e sessanta era non rassegnata perché nomade, ibrida, trasversale. Enzo Paci, per restare ad “aut aut”, aveva interlocutori che facevano gli architetti, i musicisti, gli psicologi, gli editori, gli antropologi, gli 182


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scrittori. Oggi l’intellettuale è chiamato a fare l’opinionista, a esprimersi in quanto portatore di un sapere generale. Io credo alla filosofia come sapere singolare, come pratica dell’incontro e della traduzione tra ambiti diversi. All’abbattimento continuo delle barriere tra teoria e pratica. Da qui passa forse una cultura della non rassegnazione che potrebbe trovare nelle aziende un terreno di sperimentazione privilegiato. Nicoli. Voglio citare un libro, Pedagogia della resistenza (Città Aperta, Troina 2003), che mi ha estremamente interessato per via del tentativo che l’autore Raffaele Mantegazza e i suoi collaboratori mettono in atto di studiare, decifrare e smascherare i dispositivi di potere che permettono la costituzione di soggettività funzionali all’ordine sociale sussistente; e a partire da questo svelamento, cercare di definire le modalità di costituzione di una soggettività aperta, elastica e resistente a ogni forma di dominio. Importare questo progetto all’interno delle organizzazioni (non solo aziendali, a questo punto) significherebbe probabilmente indagare il fascio di relazioni di potere che pervade e innerva l’organizzazione in quanto dispositivo; identificare le strategie di assoggettamento volte a costituire soggettività docili, funzionali, organiche rispetto alle logiche dell’organizzazione; definire pratiche/tattiche/contromosse di resistenza al dispositivo. Si tratterebbe di individuare i cosiddetti “buchi bianchi”, le crepe, gli “spazi di sottrazione e di nascondimento” che permettono al soggetto di “definirsi nonostante i dispositivi”, che tengono aperti spazi di autodeterminazione, danno ragione dell’irriducibilità del soggetto al dispositivo stesso e ne impediscono la completa sussunzione. Contestualmente sarebbe necessario analizzare la struttura e la materialità del dispositivo per identificare quegli elementi della sua costituzione materiale che consentono la costruzione di pratiche resistenziali al suo interno. Nel caso di Pedagogia della resistenza si è naturalmente di fronte a un progetto di natura eminentemente pedagogica, ma muovendosi all’interno di questo interessante orizzonte di ricerca si potrebbe forse azzardare un’analisi (filosofica?) attorno ai processi di costituzione di soggettività nei luoghi di lavoro contemporanei in cui 183


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dominano i processi di precarizzazione e destabilizzazione dei rapporti di lavoro e che pure rendono possibili autentiche ed efficaci pratiche di resistenza. Gaiarin. Costituzione di soggettività nei luoghi di lavoro può forse voler dire attivare degli spazi di pensiero e di parola. Non insegnare a parlare e a pensare, ma creare dei momenti in cui, pur continuando a rimanere in contatto con il linguaggio dell’azienda – che è e rimane, inutile negarlo, quello dell’efficacia e della performance –, possano avvenire dei cambiamenti nel modo in cui le persone vivono il proprio spazio professionale. Sono convinto che qualsiasi lavoro con le persone debba partire dalla creazione di un modello di ascolto empatico. In questo il counseling, spogliato da qualche deriva ingenua che rischia di fare il gioco della produttività a tutti i costi, rimane per me l’opzione più efficace. Il cambiamento di prospettiva proposto da Rogers, in tutta la sua semplicità, è rivoluzionario. Dire che non dev’essere il counselor il centro della relazione, ma la persona (o il gruppo) significa rifilare una spallata a tutti quei setting in cui ci si aspetta che debba esserci un “esperto” di qualcosa che dispensa cura e sapere. La vera sfida che attende la filosofia è quella della semplicità. Non è detto che una pratica di resistenza filosofica passi attraverso raffinate concettualizzazioni. La caccia ai “buchi bianchi” per una forma di resistenza ai dispositivi di potere in atto (che ovviamente non sono solo aziendali, penso a tutti i luoghi in cui l’assenza di un obiettivo economico non significa assenza di dinamiche di potere devastanti, come le associazioni, le università o le famiglie) è una pista da seguire. Purché si accetti fino in fondo la lettura di Foucault: dove c’è potere e soggettivazione c’è anche la possibilità di attivare un percorso di resistenza a questo potere. In ogni caso, è solo l’esercizio dell’ascolto che può aiutare il filosofo a capire quali sono le direzioni di cambiamento che le persone vogliono attivare. Se entriamo in azienda con troppi pregiudizi e troppe ricette perdiamo la possibilità di incontrare l’altro. Ma questo vale per ogni tentativo di portare “fuori” la filosofia: la vera resistenza è quella che chi possiede delle competenze filosofiche deve esercitare su di sé e sulla sua tentazione di dare delle risposte. 184


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D’altronde la filosofia dovrebbe essere sempre in lotta contro se stessa. Solo così può portare in altri luoghi una strategia di spostamento e dislocazione della resistenza per riaffermare l’irriducibilità del soggetto di cui parli tu. Secondo me tutto questo ci riporta alla questione iniziale: occorrono competenze filosofiche, ma la filosofia di cui stiamo parlando dovrebbe sapere unire testa e “pancia”. Solo trovando una risonanza empatica con l’esperienza e il bisogno dell’altro possiamo facilitare – come consulenti filosofici, come counselors o in altre vesti – l’apertura di spazi di crescita e di libertà per le persone.

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Allora, meglio la consulenza filosofica ANTONELLO SCIACCHITANO

a psicologia fa parte a pieno titolo della filosofia sin dai tempi di Aristotele o giù di lì. Non capisco quei filosofi che arricciano il naso sentendo parlare di consulenza filosofica, come se la consulenza del filosofo in tema di psicologia fosse una non-filosofia o una filosofia di serie B. Perché mai? Perché il filosofo consulente si fa pagare le prestazioni come ogni consulente? Ma poi, è tanto meglio la filosofia di serie A? Quella fatta – apparentemente – gratis. La metafisica o l’ontologia non hanno fondazioni fiorite al fruscio dei dollari? Al di là delle singole contingenze, bisogna riconoscere che, nel bene e nel male, sulla consulenza filosofica svolazza il fantasma dello psicologismo. Il timore è che si spacci come vero ciò che si produce nella coscienza e perché si produce nella coscienza, del consulente naturalmente. Roba vecchia e già archiviata da personaggi autorevoli come Kant, Frege, Husserl. Gli psicanalisti, invece, sfoderano sorrisini di sufficienza, sentendo parlare di consulenza filosofica. Perché mai? Temono anche loro lo psicologismo? Forse dimenticano che Freud si aspettava dalla filosofia un lavoro preliminare alla “psicologia delle nevrosi”?1 Cosa c’è di ridicolo nella notizia che una prestigiosa università annuncia un master di formazione in consulenza filosofica? Mi si perdoni l’argomento ad homines. Forse gli psicanalisti pensano

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1. S. Freud, Zur Ätiologie der Hysterie (1896), in Sigmund Freud gesammelte Werke, Fischer, Frankfurt a.M. 1999, vol. I, p. 456.

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alla miseria della loro formazione psicanalitica. Il loro sorrisino è di autocompatimento. La conosco da vicino, questa formazione psicanalitica. Ne conosco le premesse (dottrinarie) e le promesse (per lo più false). So quanto le prime siano artificiose e quanto le seconde aleatorie. Nelle diverse varianti che ogni scuola ha inventato, la formazione che le diverse scuole di psicanalisi offrono è in pratica una sola: la conformazione a un rito, quello terapeutico. Rito freudiano, rito junghiano, rito adleriano, a parte le formalità e le “piccole differenze”, ogni rito è rimasto nella sostanza invariato da decenni, essendo finalizzato a uno scopo solo: offrire sicurezza e tranquillità al terapeuta prima che al paziente. È una cosa seria, avendo rilevanza pubblica, la formazione, tanto quella analitica quanto quella filosofica. Il rito della consulenza filosofica si aggiunge adesso (solo adesso?) al rito della seduta d’analisi. Va bene. Cosa c’è di male nella pluralità dei riti? La società non è una pluralità di riti? Siamo tornati alle crociate? I consulenti filosofici sono i nuovi ugonotti? La consulenza filosofica sta prendendo piede. Dicono che è alla moda e fa fino. In realtà offre un concreto sbocco di lavoro a quel 99% di laureati in filosofia che non sarà assorbito dall’insegnamento. Questa è una cosa positiva. Tuttavia, la cosa non va da sé. Occorre affrontarla con un minimo di analisi. Per deformazione professionale sono portato a considerare il fenomeno della consulenza filosofica un sintomo sociale. Da analizzare come un sintomo ossessivo o isterico (ma forse in questo caso più ossessivo che isterico). Quella che segue è un’analisi breve e sommaria. Parto dalla Psicologia dal punto di vista empirico di Brentano. Empiricamente eine Seele gibt es nicht.2 Non c’è un’anima dal punto di vista empirico. Ma prudentemente (ironicamente?) Brentano aggiunge: “almeno per noi”. Teoricamente, invece, l’anima esiste: è un sintomo, insegnava Freud, che di analisi dell’anima si intendeva. L’anima è il sintomo che l’apparato psichico – questo sì esi2. F. Brentano, Psychologie vom empirischen Standpunkt (1874), Felix Meiner Verlag, Hamburg 1973, vol. I, p. 16 (trad. di G. Gurisatti, La psicologia dal punto di vista empirico, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 76).

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ste e molto, tanto da far la fortuna delle scuole di psicoterapia – produce per far attraversare al soggetto la strettoia angoscia/godimento, l’angoissance dei francesi. In soldoni, l’anima è il trucco psichico per trattare con l’altro sesso. Con vantaggi e svantaggi sul piano della convivenza sociale, come per ogni altro trucco o compromesso. Per esempio il sintomo istituzionale per trattare l’altro sesso – la famiglia – va bene per molti casi, non per tutti. L’omosessualità è un’alternativa sintomatica, a sua volta non generalizzabile. Perversioni, nevrosi e psicosi hanno la loro da dire a proposito di costi e benefici nel bilancio della vita sessuale. Ma qui non è il caso di approfondire l’argomento. Anche perché già a questo livello di estrema genericità si spiega il sorrisino della sfinge senza segreti psicanalitica. In filosofia si parla di tutto tranne che di sesso. L’ontologia e la metafisica sono asessuate. La fenomenologia che pure parla di “mondo della vita” non parla né di spiritosaggini né di cose sessuali. Come può la filosofia – pensa il giovane analista, di fresca dottrina – aiutare a risolvere i problemi della vita psichica? Questo genere di argomentazioni mi spingono istintivamente a parteggiare per la controparte. Meglio così, dico. Meglio non parlare di sesso che parlarne alla Freud come causa – tutta da dimostrare3 – delle malattie mentali. Ma passo a discorsi meno polemici. In primo luogo riconosco, come scrive Rovatti, che la consulenza filosofica si propone il compito generico, ma rilevante, di togliere l’inibizione a pensare.4 Non è poco. Se riesci a pensare, puoi pensare di tutto. Anche il sesso. In secondo luogo trovo molto da ridire sulla concezione della sessualità degli psicanalisti, freudiani in particolare. I quali, scimmiottando i medici, fanno della sessualità una causa patogena. Si comincia con la sessualità nell’eziologia delle nevrosi – un saggio di Freud del lontano 1896 – e con il discorso eziologico non la si finisce più. La stroncatura epistemologi3. Dopo Hume di un fattore si può dimostrare che non è causa di un effetto. La dimostrazione che è causa di un effetto è per lo più fallace. Cfr. D. Hume, Ricerca sull’intelletto umano (1748), trad. di M. Dal Pra, Laterza, Roma-Bari 1996, sez. VII, pp. 93-121. 4. P.A. Rovatti, La filosofia può curare? La consulenza filosofica in questione, Raffaello Cortina, Milano 2006.

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ca di Grünbaum5 non è servita a nulla. Al determinismo eziologico non rinunzia neppure Lacan, tanto da chiamare l’oggetto del desiderio oggetto-causa del desiderio. Chissà, forse il fenomenologo si illude di tenere sulla causa un discorso più “rigoroso” di quello scientifico, proponendo “una causa che causa tutto il proprio effetto”:6 una sorta di determinismo non meccanicistico delle essenze (prescientifico). Forse offuscato dalla passione antipositivista, il fenomenologo non vede che il discorso della causa, da Ippocrate in poi, porta le stigmate del discorso medico.7 Va bene per stanare le malattie in ospedale o i criminali in questura, ma non serve in un laboratorio scientifico, tanto meno in uno studio di psicanalisi. Quel che nel 1748 David Hume scrisse sulla connessione necessaria e sul dover essere, che non va trasposto nell’essere, è definitivamente acquisito per il sano intendere. Purtroppo, neppure il sommo Kant, nostalgico com’era di metafisica, lo recepì.8 La causa è una cattiva abitudine di pensiero. È un modo cattivo di pensare il pensiero di causa ed effetto, dimostra Hume. Aggiungerei che è l’abitudine al pensiero servile. La causa fa pensare quel che serve ai rapporti di produzione, oggi quelli capitalistici. Ora, se la consulenza filosofica insegna a pensare senza cadere negli schematismi eziologici, in particolare negli schematismi eziologici sessuali, ben venga. 5. Cfr. A. Grünbaum, I fondamenti della psicoanalisi (1984), trad. di S. Stefani, revisione di A. Pagnini, il Saggiatore, Milano 1988. Curiosamente, Grünbaum soffre di una variante non medica ma filosofica di malattia eziologica: la malattia da fondamenti. La scienza vive bene senza fondamenti. Anche la psicanalisi vivrebbe bene senza fondamenti, se fosse scientifica. 6. Cito integralmente il passo, per evidenziare la connessione, che non commento, tra testardaggine eziologica e passione teologica per la verità. È il famoso testo dove Lacan propone la verità come causa. “C’est la cause: la cause non pas catégorie de la logique, mais en causant tout l’effet. La vérité comme cause, allez-vous, psychanalystes, refuser d’en assumer la question, quand c’est de là que s’est levée votre carrière? S’il est des praticiens pour qui la vérité comme telle est supposée agir, n’est-ce pas vous?” (J. Lacan, La science et la vérité, 1965, in Écrits, Seuil, Paris 1966, p. 869). 7. “Dobbiamo in verità ritenere che la causa di ogni singola malattia consista in quei fattori che, se presenti, ne determinano l’insorgere necessariamente e in un modo ben preciso, se invece trasmutano in un’altra combinazione, ne consentono la cessazione” (Ippocrate, Antica medicina, a cura di M. Vegetti, Rusconi, Milano 1998, p. 87). 8. A maggior ragione non recepì la lezione il positivismo, che condannava la scienza ad assumere posizioni cognitivistiche. Un secolo dopo Hume, nel 1843, John Stuart Mill pubblicava un ponderoso Sistema di logica raziocinativa e induttiva, il cui quinto capitolo di quasi centocinquanta pagine si intitolava “La legge della causalità universale”.

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Finalmente il discorso psicoterapeutico si sgancia dal determinismo medico.9 Ribadisco che non è poco.10 A questo punto, dico la mia e concludo questa breve nota. Nonostante, ma forse è meglio dire a “causa” delle mie critiche a Freud sull’uso medico della nozione di causa in psicanalisi, rimango profondamente freudiano.11 C’è una frase nella postfazione all’Analisi laica del 1927, il cui senso inevitabilmente nella traduzione si perde, perché Freud usa un termine giuridico che non esiste nella tradizione giuridica italiana: Junktim. “Sin dall’inizio in psicanalisi ricercare e curare sono una cosa sola: insieme stanno e insieme cadono”.12 Junktim: simul stabunt, simul cadent. L’enunciato freudiano, stabilendo l’equivalenza tra cura e ricerca, pone in stato d’accusa la falsa coscienza degli psicanalisti. Punta il dito sulla pratica analitica attuale, che ha chiuso i conti con la scienza. Oggi gli psicanalisti sono diventati professionisti. Consulenti sarebbe la parola che meglio si adatta loro: consulenti psicologici. Non fanno più ricerca ma solo psicoterapia. Grazie a loro la psicanalisi è diventata una psicoterapia tra le tante. Lo fa intendere la famigerata legge Ossicini, che neppure nomina la psicanalisi. Con una conseguenza che inquieta, ma non mobilita, l’anima bella del professio9. Che non è scientifico! Non appartiene alla fisica, dove vale il principio di indeterminazione; non appartiene alla biologia, dove vige un regime di variabilità caotica; non appartiene alle scienze umane, dove giocano in modo essenziale, attese, pregiudizi e congetture. Finalmente bisognerebbe distinguere tra meccanicismo, che è ricerca di simmetrie, e determinismo, che è frutto della ricerca cognitiva (prescientifica) di leggi necessarie della natura e della storia. 10. Conosco l’obiezione del collega. Esiste una causalità psichica, fondata sull’intenzionalità. Rispondo con il primo Lacan. La causalità psichica è funzione dell’imago (cfr. J. Lacan, Propos sur la causalité psychique, 1946, in Écrits, cit., p. 151). L’imago non ha nulla a che fare con l’eziologia medica, intesa da Ippocrate in poi (IV secolo a.C.) come “quei fattori che, se presenti, determinano necessariamente [ananke ghinesthai] e in un modo ben preciso l’insorgere della malattia, se invece trasmutano in un’altra combinazione, ne consentono la cessazione” (Ippocrate, Antica medicina, cit., § 19). Questa concezione della causa porta all’esecrato criterio ex adiuvantibus, che anche agli studenti di medicina si insegna a evitare: “Se guarisci un malato con un farmaco antisifilitico, allora non dire che aveva la sifilide”. 11. Si è giusti con lui riconoscendo che Freud, come tanti uomini di scienza da Galileo a Boltzmann, fu un grande scopritore ma un pessimo giustificatore delle proprie intuizioni. Chi si imbarca nel freudismo deve sapere che non è facile correggere Freud ma è impossibile superarlo. 12. S. Freud, Nachwort zur “Frage der Laienanalyse” (1927), in Sigmund Freud gesammelte Werke, cit., vol. XIV, p. 293.

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nista. Avendo perso l’unico tratto che lo distingue dallo psicoterapeuta – quello del ricercatore – e vedendo nascere (ma non è da ieri) una nuova forma di psicoterapia in concorrenza con la sua, lo psicanalista si allarma ma non reagisce. Quieta non movere. Anzi sì, reagisce da anima bella, chiudendo ancora più stretti gli occhi sul disordine del mondo, per non riconoscervi la propria partecipazione. Si arrocca sulla dottrina dei padri, la sacra ortodossia freudiana, appresa da manuali scolastici e traduzioni non false ma ad hoc, una volta si diceva ad usum delphini. Lasciamolo al suo destino di sterilità. Rimarrebbe poi da chiarire se la consulenza filosofica sia oppure no una terapia in senso stretto, cioè se sia una Kur o una Sorge, un “prendersi cura” o un “darsi pensiero”. Questo è il punto interessante, cui dedicare un impegno meno fatuo di quello che mi detta queste note. Forse lo farò in un secondo momento. Per ora mi rendo conto di aver imbastito un discorso strumentale sulla consulenza filosofica e me ne scuso con i cultori. Ho sfruttato la consulenza filosofica per farle dire la verità sulla psicanalisi – un rospo che evidentemente dovevo sputare da tempo. L’esistenza della consulenza filosofica denuncia il “tradimento” della psicanalisi, che nasce come scienza e muore come terapia. La consulenza filosofica, invece, nasce come filosofia e resta filosofia, anche se con meno pretese della psicanalisi. Si dà da fare, come la filosofia ha sempre fatto, con una psiche che non esiste abbastanza da giustificare una psicanalisi e, correttamente, propone un supplemento quotidiano di psiche, quella offerta dalla propria consulenza. Dico in proposito, e concludo come ho iniziato, che, se la psiche è un sintomo, ognuno ci ha il suo. Non esiste il discorso universale che possa de jure appropriarsi di tutti i sintomi e normalizzarli. O meglio, esiste. Si chiama religione. È la tentazione perenne della psicanalisi. Allora preferisco la più modesta consulenza filosofica senza pretese eziologiche di cura.

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Archivio Enzo Paci A trent’anni dalla morte di Enzo Paci, con il moltiplicarsi degli studi e delle iniziative legate alla sua opera, l’Archivio chiede a chi ha scritto e scriva su Enzo Paci di voler gentilmente inviare copia del proprio lavoro all’Archivio stesso. Lo scopo evidente è quello di riunire e fare conoscere lavori e ricerche, e i loro autori, per favorire altri studi. Nello stesso ternpo si intende garantire la presenza di una collezione completa di scritti di e su Enzo Paci nel luogo che ne conserva manoscritti e biblioteca. L’invito si rivolge anche a chi abbia scritto una tesi di laurea o una dissertazione di dottorato su Enzo Paci e/o sul contesto culturale in cui si è mossa la sua attività. Al momento la collezione è parziale e sembra utile completarla. Si potrà in questo modo compilare anche un elenco degli studiosi interessati. Inoltre si è avviata l’acquisizione e la catalogazione dell’epistolario. Chiediamo pertanto a chi sia in possesso di lettere di Enzo Paci di collaborare, inviandoci fotocopia delle lettere; se ne ha tenuto copia e non ha nulla in contrario, sono benvenute anche fotocopie delle lettere del corrispondente. L’indirizzo al quale inviare il materiale è: Archivio Enzo Paci via Beato Angelico 5 20133 Milano Ringraziamo tutti anticipatamente e raccomandiamo di accludere al materiale anche il proprio recapito.

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