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Davanti alla televisione a cura di Giovanni Scibilia Zapping 4 Giovanni Scibilia Il bello della polizia. Riflessioni sulla televisione della realtà 12 Federico Boni Al di qua e al di là dei media 26 Francesca Pasquali “Non si interrompe un’emozione”: si disperde. Percorsi nella TV che cambia 55 Raoul Kirchmayr Estetica e mediologia dell’hoax 64 Pier Aldo Rovatti Elogio di “Blob” 80 Roberta Altin, Davide Zoletto L’integrazione è on the air? Madri e figli migranti davanti alla TV 85 Maurizio Ferraris Il tubo cattolico 100 VICINO/LONTANO Peter Sloterdijk La costruzione telematica del reale INTERVENTI Edoardo Greblo I paradossi della vulnerabilità culturale Alberto Martinengo Il tempo incompiuto. L’ermeneutica ricostruttiva di Paul Ricœur Italo Testa L’immaginazione metafisica Laura Sturma Kant forever
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rivista fondata da Enzo Paci nel 1951 direttore responsabile: Pier Aldo Rovatti redazione: Graziella Berto, Laura Boella, Paulo Barone, Giovanna Bettini, Deborah Borca (editing, deborahborca@libero.it), Silvana Borutti, Damiano Cantone, Alessandro Dal Lago, Rocco De Biasi, Maurizio Ferraris, Edoardo Greblo, Raoul Kirchmayr, Giovanni Leghissa, Anna Maria Morazzoni (coordinamento, tel. 02 70102683), Ilaria Papandrea, Gabriele Piana, Fabio Polidori, Rosella Prezzo, Pier Aldo Rovatti, Antonello Sciacchitano, Giovanni Scibilia, Davide Zoletto direzione: via Pacini 40, 20131 Milano. collaborano tra gli altri ad “aut aut”: G. Agamben, H.-D. Bahr, R. Bodei, M. Cacciari, G. Comolli, G. Dorfles, U. Galimberti, P. Gambazzi, S. Givone, A. Heller, A. Prete, M. Serres, G.C. Spivak, M. Trevi, G. Vattimo, M. Vegetti, P. Veyne, V. Vitiello, S. Zˇizˇek
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Davanti alla televisione
Volevamo per questa sezione di “aut aut” (che raggruppa una serie di contributi di approfondimento sull’etnografia dello spettatore e di interventi critici sullo stato attuale della nostra televisione) anche una piccola “antologia” di testi teorici che sfuggisse alla retorica scolastica del best of ma che funzionasse da ulteriore elemento di attivazione di pensieri e letture. Qualcosa che ricordasse o citasse il “formato” televisivo, per smorzare l’inevitabile vertigine metalinguistica e alleggerire il tono. Ci è venuto in mente lo zapping, pratica quotidiana della fruizione televisiva, in realtà così vicina a certe dinamiche caratteristiche dello scrivere e pensare. Una serie di testi – più o meno classici, più o meno “in tema” – sono così stati intercettati da un remote control a volte volutamente parziale, altre emblematicamente casuale. Proprio come accade quando si fa zapping, in certi casi la permanenza su alcuni testi è stata più lunga, in altri decisamente più breve, non escludendo ritorni successivi sui propri passi. Si è infine voluto conservare quell’aspetto misterioso e vagamente onirico che può assumere lo zapping televisivo in alcuni momenti, per esempio quando si “capita” su qualcosa di intrigante o disgustoso che non si riesce però a decifrare fino in fondo (“che programma è?”,“chi è quell’attrice?”, “cosa è successo prima?”, “cosa stanno dicendo, diomio?”…): volutamente, quindi, il tutto assume l’aspetto di un flusso e non si riportano di volta in volta gli estremi dei passi citati ma solo la lista dei testi all’origine del sampling “in ordine di apparizione”. Al lettore l’onere e il piacere di identificarli, magari ritrovandone l’eco nei saggi contenuti in questo stesso fascicolo. [G.S.]
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Zapping
innovativa domanda posta da chi lavorava nella ricerca sui media negli anni cinquanta e sessanta, divenuta ormai classica, non era “chiedi cosa i media fanno a noi”, ma “chiedi cosa noi facciamo con i media”.
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Ci viene detto che nell’epoca dei media non abbiamo scampo dai simulacri, che tutto ciò che tocchiamo è mediato, trasformato, avvelenato dai media, che non si possono più determinare i conflitti tra realtà e fantasia, tra verità e falsità, tra fatto e finzione, che non si usano più. Questo è quello che ci viene detto. Ma questa posizione degrada l’esperienza a insignificanza; è una posizione vuota dal punto di vista empirico e spaventosamente amorale. Anche se è facile esagerare il potere della dimostrazione popolare [la partecipazione di massa ai funerali di Lady Diana, N.d.C.] (che fu ben lontana dall’essere una rivolta popolare) e dichiarare, come la stampa non tardò a fare, che questo può segnare la fine della monarchia e perfino della vita in Inghilterra così come la conosciamo, e anche se la Repubblica non è ancora vicina, sarebbe un terribile errore consegnare le azioni e i sentimenti di un così grande numero di persone agli aspetti più deleteri della mediazione. Dite: questo è reale, il mondo è reale, il reale esiste (io l’ho incontrato) – nessuno ride. Dite: questo è un simulacro, non siete che un simulacro, questa guerra è un simulacro – tutti scoppiano a ridere. 4
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Con un riso amaro e arrogante, o convulso, come davanti a una battuta puerile o a un’affermazione oscena. Tutto ciò che riguarda il simulacro è tabù o osceno, come ciò che riguarda il sesso o la morte. Tuttavia, sono piuttosto la realtà e l’evidenza a essere oscene. È la verità che dovrebbe far ridere. Si può sognare una cultura in cui tutti ridano spontaneamente allorché qualcuno dice: questo è vero, questo è reale. La parte “essenziale” dell’apparecchio televisivo considerato qui consiste in un tubo catodico dietro un vetro. L’“essenza” dell’apparecchio è un nuovo tipo di finestra in cui tuttavia, come riconosce giustamente René Berger, il tubo si differenzia dalla finestra mediante la luce che esso emana. La luce catodica è una delle poche luci sulla Terra che neppure indirettamente deriva dal Sole e ha perciò un altro carattere, un carattere “freddo”. […] Quanto detto è importante per la conoscenza della televisione: nessuno certo scambia una finestra con una pittura murale, ma molti scambiano la televisione con un “cinema in casa”. Perché in primo luogo film e televisione hanno in comune il codice, immagini serializzate in successione e, in secondo luogo, la tecnica televisiva è stata in gran parte mutuata dalla tecnica cinematografica. Ma questo scambio è fatale perché impedisce di riconoscere l’essenza di finestra della televisione e con ciò le possibilità in essa contenute. Le finestre sono strumenti per guardare il mondo, ma sono strumenti difettosi per due ragioni. In primo luogo attraverso la finestra sono visibili solo fenomeni che non siano né troppo grandi, né troppo piccoli e che non si muovano troppo rapidamente. E, in secondo luogo, la finestra ha una cornice rigida e offre solo una veduta specifica e limitata. In termini kantiani il primo difetto va chiamato difetto “fenomenico”, il secondo un difetto “categorico”. La televisione è stata progettata per superare questi difetti, per ampliare il parametro dei fenomeni che si mostrano attraverso la finestra e per rendere più flessibili, e con ciò più ricche, le categorie della percezione dei fenomeni. La televisione è stata progettata come una finestra perfezionata e se deve corrispondere a questa sua essenza deve diventare una forma di percezione che ci liberi dal modello tradizionale 5
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di finestra, offrendo alla percezione possibilità finora neppure immaginate. Chiunque sia collegato alla produzione televisiva deve avere una patente, una licenza, un brevetto, che gli possa essere ritirato a vita qualora agisca in contrasto con certi principi. Questa è la via attraverso la quale io vorrei che si introducesse finalmente una disciplina in questo campo. Chiunque faccia televisione deve necessariamente essere organizzato, deve avere una patente. E chiunque faccia qualcosa che non avrebbe dovuto fare secondo le regole dell’organizzazione, e sulla base del giudizio dell’organizzazione, può perdere questa patente. L’organismo che avrà la facoltà di ritirare la patente sarà una sorta di Corte. Perciò tutti, in un sistema televisivo che operasse secondo la mia proposta, si sentirebbero sotto la costante supervisione di questo organismo e dovrebbero sentirsi costantemente nelle condizioni di chi, se commette un errore, sempre in base alle regole fissate dall’organizzazione, può perdere la licenza. Questa supervisione costante è qualcosa di molto più efficace della censura, anche perché la patente, nella mia proposta, deve essere concessa solo dopo un corso di addestramento al termine del quale ci sarà un esame. In molti sostengono che il reality sia falso, che sia irreality. Via, non scherziamo: è la cosa più sincera della TV. È un hard discount della psicoanalisi. È una confessione in pubblico, dopo che la fatica, il clima della competizione, le “dinamiche di gruppo” (come dicono le conduttrici colte) hanno fatto il resto. Hanno cioè dissolto ogni remora, bruciato i freni inibitori, offuscato l’immagine dei singoli. Il gioco segreto del reality non è il diktat della trasparenza assoluta o il diritto di lasciare sentimenti, desideri, emozioni nell’ombra (questo diritto, se mai, è stato da tempo violato dai conduttori dei talk show, soprattutto da quelli che fingono comprensione), come vorrebbe certa letteratura piagnona e popperiana. No, il reality è la più pirandelliana delle rappresentazioni televisive: una schiera di ombre, tutte percorse dall’ansia di divenire personaggi. Il personaggio, pur del tutto diseroicizzato, ridicolizzato, in mutande, vie6
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ne sorpreso nel momento della sua torbida esasperata coscienza, quando realizza l’orrore del proprio apparire. Ma nel reality anche la TV trova una seconda vita, il suo comeback. I reality rientrano così nel novero di quei rituali pubblici con cui la nostra società finge di parlarsi e mettersi in discussione ben sapendo che ormai nel Grande Acquario della Vita (di cui il “Grande Fratello” o “L’isola dei famosi” sono perfette metafore) anche le distinzioni sono fluide, liquide e, dunque, tutto appare esattamente uguale al suo opposto, “autenticamente inautentico”. Tutta questa fauna mediale delle tecnologie del virtuale, questo reality show perpetuo, ha un antenato: è il ready-made. Così come sono, coloro che vengono prelevati dalla loro vita reale, per andare a recitare il loro psicodramma coniugale o sull’AIDS alla televisione, hanno per antenato il portabottiglie di Duchamp, che costui preleva allo stesso modo dal mondo reale per conferirgli altrove, in un ambito che si suole ancora definire arte, un’iperrealtà indefinibile. Acting-out paradossale, cortocircuito istantaneo. Il portabottiglie, exinscritto dal suo contesto, dalla sua idea e dalla sua funzione, diventa più reale del reale (iperreale) e più arte dell’arte (transestetica della banalità, dell’insignificanza, della nullità, in cui si verifica oggi la forma pura e indifferente dell’arte). Qualsiasi oggetto, individuo o situazione è oggi un ready-made virtuale, nella misura in cui di essi si può dire quanto Duchamp dice in fondo del portabottiglie: esiste, l’ho incontrato. È così che ciascuno è invitato a presentarsi tale e quale, e a recitare la sua vita in diretta sullo schermo, come il ready-made recita la sua parte tale e quale, in diretta, sullo schermo del museo. Entrambi sono del resto confusi nell’iniziativa presa da nuovi musei che si preoccupano di condurre la gente non più davanti alla pittura – scommessa vinta, ma non abbastanza interattiva, e troppo “spettacolare” –, ma nella pittura, nella realtà virtuale del Déjeuner sur l’herbe per esempio, di cui potranno così fruire in tempo reale, interagendo eventualmente con l’opera e con i personaggi. Identico problema con i reality show: bisogna condurre il telespettatore non davanti allo schermo (vi è sempre stato davanti: è addirittura questo il suo alibi e il suo rifugio), ma nello 7
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schermo, dall’altro lato dell’informazione. Fargli realizzare la stessa conversione di Duchamp col portabottiglie, trasferendolo tale e quale dall’altro lato dell’arte, creando così un’ambiguità definitiva tra l’arte e il reale. Nel XX secolo è diventato tecnicamente possibile progettare un medium nel quale non solo entrambi i tipi di codice possano essere impiegati simultaneamente, ma si integrino l’un l’altro nel modo prima accennato. Un medium dunque che avrebbe potuto trasformare la società postindustriale in un “villaggio cosmico” (non tuttavia nel senso di McLuhan, che ha in mente una cosmica Sparta discorsiva e non un’Atene dialogica). Ciò non è accaduto perché la televisione non è stata utilizzata come il telefono (rete) bensì come la radio. Per questo l’apparecchio ha l’aspetto che ha. Come potrebbe avere un aspetto diverso, o meglio quale aspetto dovrebbe avere? Alcune risposte a queste domande esistono già. Essa potrebbe avere l’aspetto di un telefono munito di schermo. Non una risposta felicissima, perché manca l’essenza della televisione, come alle automobili simili alle carrozze all’inizio del XX secolo mancava l’essenza dell’auto. Potrebbe avere l’aspetto di una macchina da scrivere munita di schermo collegata con un computer, come accade alle macchine da scrivere nel caso di “lezioni programmate”. Il modo in cui apparirà realmente l’apparecchio, allorché dovesse riuscire la rivoluzione di una televisione in rete aperta, si sottrae oggi quasi interamente alle nostre attuali rappresentazioni. Perché alla televisione ineriscono possibilità dialogiche che provvisoriamente noi possiamo solo presagire. Una cosa è certa: il codice televisivo rende possibili dialoghi che non solo possono parlare di temi completamente diversi da quelli attuali, bensì anche in modo del tutto diverso: dialoghi che abbraccino uno spettro molto più vasto di fenomeni e con altre categorie per la percezione di tali fenomeni. Ma, benché lo strumento sia già nelle nostre mani, è quasi fantascientifico voler descrivere il risultato di un impiego conforme alla sua essenza. Se dovesse riuscire la rivoluzione che portasse a una televisione a rete aperta, a cui partecipassero altrettanti partner quanti sono oggi i fruitori della radiotelevisione o gli odierni fruito8
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ri delle reti postali e telefoniche, allora la struttura della società muterebbe in modo fondamentale. Tutte le finestre sarebbero allora aperte a tutti, per parlare con tutti e certo per parlare di una realtà percepita in modo nuovo. Ciò equivarrebbe a una politicizzazione generale, perché la società allora sarebbe riunita intorno a una agorà cosmica e ognuno potrebbe pubblicare. Ovunque sorgerebbero nuove informazioni, certo anche un nuovo problema: se oggi c’è una carenza di dialogo, là vi sarebbe una carenza di discorso. Con la politicizzazione universale vi sarebbe la tendenza a svuotare lo spazio privato. C’è un principio base che distingue un medium “caldo” come la radio o il cinema, da un medium “freddo” come il telefono o la TV. È caldo il medium che estende un unico senso fino a un’“alta definizione”: fino allo stato, cioè, in cui si è abbondantemente colmi di dati. Dal punto di vista visivo, una fotografia è un fattore di “alta definizione”, mentre un cartoon comporta una “bassa definizione”, in quanto contiene una quantità limitata di informazioni visive. Il telefono è un medium freddo, o a bassa definizione, perché attraverso l’orecchio si riceve una scarsa quantità di informazioni, e altrettanto dicasi, ovviamente, di ogni espressione orale rientrante nel discorso in genere perché offre poco ed esige un grosso contributo da parte dell’ascoltatore. Viceversa i media caldi non lasciano molto spazio che il pubblico debba colmare o completare; comportano perciò una limitata partecipazione, mentre i media freddi implicano un alto grado di partecipazione o di completamento da parte del pubblico. È naturale quindi che un medium caldo come la radio abbia sull’utente effetti molto diversi da quelli di un medium freddo come il telefono. Prendiamo l’esempio della televisione. Essa introduce a ogni istante nello chez-moi l’altrove, e il mondiale. Io sono quindi più isolato, più privatizzato che mai, con in me [chez moi] l’intrusione in permanenza, da me desiderata, dell’altro, dello straniero, del lontano, dell’altra lingua. La desidero e nello stesso tempo mi chiudo con questo straniero, voglio isolarmi con lui senza di lui, voglio essere 9
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chez moi. Il ricorso allo chez-soi, il ritorno verso lo chez-soi è tanto più potente, naturalmente, in quanto è potente e violenta l’espropriazione tecnologica, la delocalizzazione. A partire dal momento in cui la “democratizzazione”, o quello che si designa con questo nome, ha fatto tali “progressi” (metto tutte queste parole tra virgolette), grazie appunto alle tecnologie di cui si parlava poco fa, al punto che, essendo crollate le ideologie totalitarie classiche, in particolare quelle che erano rappresentate dal mondo sovietico, l’ideologia neoliberale del mercato non è stata più capace di misurarsi con la propria potenza, a partire da quel momento, il campo è più libero per quella forma di ritorno chez soi che si chiama “piccolo nazionalismo”, il nazionalismo delle minoranze, il nazionalismo regionale, provinciale, l’integralismo religioso, che va spesso di pari passo con esso e tenta anche di ricostruire degli Stati; da qui deriva la “regressione” come movimento che accompagna, che in realtà segue come la sua ombra, confondendosi quasi con essa, l’accelerazione del processo tecnologico, che è sempre anche un processo di delocalizzazione. Se supponiamo che la modernità ha prodotto ciò che può essere descritto come rifeudalizzazione della sfera pubblica, secondo i termini di Jürgen Habermas; se accettiamo almeno in parte la penetrante critica di Guy Debord a quella che definisce la società dello spettacolo – entrambi questi autori considerano l’appropriazione della cultura della rappresentazione da parte delle forze oscure del capitalismo e dello stato come una costrizione della libertà e dell’immaginazione –; se ammettiamo che la cultura pubblica è stata privatizzata attraverso l’attenzione dei media e, di contro, la cultura privata è stata resa pubblica, allora dobbiamo riconoscere che si è verificato un profondo cambiamento nella posizione e nel carattere della rappresentazione nella vita quotidiana. Il funerale di Diana fornisce, in maniera esagerata e trionfante, un esempio della confusione fra i ruoli di attore e spettatore su un palcoscenico pubblico, all’interno dei media e oltre, anche se mai completamente, il loro raggio d’azione. Come risultato della mediazione, questa confusione ha luogo su un palcoscenico che rimuove la rappresen10
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tazione dall’ambito personale e ne trasforma ogni momento in un frammento di un evento nazionale o globale. Al contrario della lettura e della scrittura, guardare la televisione implica un codice di accesso che difficilmente si può chiamare codice. La televisione non presenta affatto la “realtà”, ma ha molte più analogie con la realtà di una serie di frasi o di paragrafi. Riferimenti bibliografici R. Silverstone, Perché studiare i media? (1999), trad. di A. Manzato, il Mulino, Bologna 2002, p. 99. Ivi, pp. 121-122. J. Baudrillard, Il delitto perfetto (1995), trad. di G. Piana, Raffaello Cortina, Milano 1996, pp. 100-101. V. Flusser, “Per una fenomenologia della televisione” (1974), in La cultura dei media, trad. di T. Cavallo, a cura di A. Borsari, Bruno Mondadori, Milano 2004, pp. 114-115. K.R. Popper, “Una patente per fare TV” (2002), in C. Bosetti (a cura di), Cattiva maestra televisione, Marsilio, Venezia 2006, p. 77. A. Grasso, Buona maestra, Mondadori, Milano 2007, p. 23. J. Baudrillard, Il delitto perfetto, cit., pp. 34-35. V. Flusser, La cultura dei media, cit., pp. 125-127. M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare (1964), trad. di E. Capriolo, Net, Milano 2002, p. 31. J. Derrida, B. Stiegler, Ecografie della televisione (1996), trad. di L. Chiesa, Raffaello Cortina, Milano 1997, pp. 87-88. R. Silverstone, Perché studiare i media?, cit., p. 123. J. Meyrowitz, Oltre il senso del luogo. L’impatto dei media elettronici sul comportamento sociale (1985), trad. di N. Gabi, Baskerville, Bologna 1993, pp. 121-122.
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Il bello della polizia. Riflessioni sulla televisione della realtà GIOVANNI SCIBILIA
a televisione, dicevano negli anni sessanta le mamme, va guardata “da lontano”. La preoccupazione tematica, allora, era per gli occhi e la vista (su quale fondamento, poi?), ma indirettamente raccontava di un aspetto “magico” – quindi inevitabilmente oscuro e vagamente inquietante – legato alla televisione e al televisore. La tele-visione, infatti, porta fisicamente vicino ciò che è anche molto lontano (come insegna, del resto, l’etimologia del termine), con un “mimetismo” che può far spavento o addirittura atterrire.1 Eppure nel fort-da della proto-TV c’è forse qualcosa da imparare,
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1. I miei nonni siciliani, per esempio, si erano sempre rifiutati di avere un televisore in casa perché non volevano “estranei in giro”. Franco La Cecla ha di recente sottolineato questo aspetto “animista” della televisione (cfr. “In strada a guardare la TV: culture e pratiche della ricezione televisiva”, in Surrogati di presenza. Media e vita quotidiana, Bruno Mondadori, Milano 2006, pp. 71-94). Interrogandosi sulla incredibile capacità che la televisione ha di attecchire anche presso culture molto lontane dalla nostra, avanza, con Michael Taussig, l’ipotesi di un “inconscio ottico” funzionale alla “facoltà mimetica” di cui parla Walter Benjamin, ovvero quell’attività di incorporazione di pratiche e oggetti propria dell’individuo umano (“Il bambino non gioca solo a ‘fare’ il commerciante e il maestro, ma anche il mulino a vento o il treno”, W. Benjamin, “Sulla facoltà mimetica”, in Angelus Novus, Einaudi, Torino 1981, p. 71). Nella prospettiva di Taussig, la televisione, analogamente alla fotografia e al cinema, diventerebbe un mezzo tecnologico che riattiva la facoltà mimetica, indebolita nella modernità, non tanto o non solo come capacità di copiare o “imitare” qualcosa ma come recupero di quella “connessione palpabile, sensuale tra il corpo proprio di chi percepisce e il percepito” (M. Taussig, Mimesis and Alterity. A Particular History of the Senses, Routledge, New York-London 1993, p. 21). È effettivamente questo l’implicito su cui si fonda in gran parte l’immaginario del cinema horror sulla televisione, dal sofisticato Videodrome di David Cronenberg (dove il protagonista arriva ad affogare letteralmente nello schermo televisivo, trasformato nelle labbra carnose di Debbie Harry) alla
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una legge, un ritmo dello sguardo da tenere a mente nel momento in cui si prova a parlare sulla o della televisione. Del resto, tutto il dibattito post-adorniano sui media e la TV è profondamente segnato dal tema della distanza: è la famosa querelle del “guardare partecipato” delle masse di spettatori contrapposto al “guardare distaccato”, ovvero con sufficienza e vaga repulsione, degli intellettuali.2 Assumiamo, quindi, la regola del doppio legame televisivo, cercando, ovviamente, di evitare che esso ci metta troppo facilmente in trappola accecandoci (double blind3). Partiamo, allora, dal “vicino”, dalla nostra “realtà” televisiva. Che cosa sta dunque succedendo alla televisione italiana? Si tratta, per certo, di una scena decisamente mobile e in rapida evoluzione. Anche in Italia, come nel resto del pianeta, si stanno affermando nuove tecnologie televisive: dall’introduzione di nuove piattaforme (ad esempio la “TV su Internet” o la “TV on mobile”) all’avvento del digitale – passando per gli schermi piatti, i cristalli liquidi e il plasma. Tutti questi cambiamenti, tra loro fortemente eterogenei, comportano, fra l’altro, una trasformazione complessiva dell’“antropologia della televisione”. La TV entra sempre più capillarmente nelle nostre vite. Per esempio, non è più confinata solo in casa (dove già si era progressivamente diffusa: dal salotto alla cucina, alla camera da letto) ma invade l’outdoor e lo spazio mobile dell’auto, non prevede più soltanto lo “stare seduti” e il “guardare da lontano” (vedi le mamme in apertura) ma il “guardare in piedi” e “da vicino” del cellulare. Le nuove tecnologie del televisivo (digitale) e del televisore (i nuovi schermi) segnano poi un complessivo incremento del mimetismo televisivo: da una parte, cresce iperbolicamente saga teeny di The Ring, dove più banalmente il Male utilizza un video per introdursi nelle vite dei protagonisti e provocarne la morte, passando per il “rumore bianco” dei fantasmi di Poltergeist. 2. Di recente Aldo Grasso è tornato, sulle pagine del “Corriere della Sera”, su questo doppio approccio al televisivo commentando il volume di Francesco Piccolo, L’Italia spensierata, Laterza, Roma-Bari 2007 – dove Piccolo tenta una serie di “immersioni reali” nel tessuto della cultura popolare italiana, per esempio andando ad assistere a una puntata di Domenica In live. 3. È il folgorante titolo di un film di Sophie Calle sul tema del “doppio sguardo”.
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l’“effetto di reale” grazie a una vertiginosa crescita della fedeltà d’immagine (profondità di campo, gamma cromatica, definizione di particolari e dettagli); dall’altra, l’elettrodomestico televisivo si camuffa sempre più nello scenario domestico diventando bidimensionale: sempre meno complemento d’arredo, volume da inserire nello spazio del living, e sempre più quadro da appendere, schiacciato contro la parete, sempre meno “oggetto”, mobile da ornare, arricchire, al limite nascondere, e sempre più foglio, spazio rappresentativo, campitura astratta, schermo proiettivo.4 Sull’onda di queste trasformazioni, ovviamente, tutta la “fruizione” televisiva sta cambiando: “guardare”, “vedere”, “ascoltare” (la televisione come “radio with pictures”, dimensione che ha influito e influisce enormemente sulla confezione dei programmi televisivi) ma anche “ri-vedere” o “vedere a richiesta” (tutto il mondo dell’on demand aperto dalla digitalizzazione e da Internet) rimandano a nuove fenomenologie della tele-visione ancora in larga parte da esplorare. Anche a livello istituzionale, comunque, si segnalano dei cambiamenti importanti. Per esempio, la rottura del biopolio RaiMediaset a opera di Sky, aspetto interessante non solo perché mette in gioco un nuovo soggetto economico e commerciale, un reale “terzo polo” (La Sette resta invece, per il momento, un terzo polo solo aspirazionale), ma anche per l’introduzione attiva di una nuova tecnologia televisiva (terrestre vs. satellitare) e un diverso modo di pensare l’organizzazione dei “contenuti” televisivi (palinsesto/orizzontale vs. temi/verticali). È proprio sui “contenuti” della televisione italiana degli ultimi anni che vorremmo soffermare il nostro sguardo – anche se sul tema della nazionalità televisiva occorrerebbe interrogarsi con maggior calma e pazienza: la televisione “italiana” è quella trasmessa sul territorio italiano o quella prodotta in Italia? E queste due dimensioni sono oggi così facilmente distinguibili? “Contenuti” è il termine che tecnicamente viene utilizzato per
4. Su questi temi cfr. D. Morley, “Television: Not so much a visual medium, more a visibile object”, in Media, Modernity and Technology. The Geography of the New, Routledge, London-New York 2007, pp. 275-291.
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indicare la programmazione che occupa canali e reti, sono quindi “contenuti” rispetto alle “forme” costituite dalle diverse piattaforme televisive. In realtà i contenuti televisivi non sono così facilmente estrapolabili dalle forme/strumenti che le esprimono.5 Pensiamo, per esempio, ai ritmi delle serie americane, in buona parte dettati dalla griglia dei break pubblicitari; o al fatto che il Grande Fratello non sarebbe realmente possibile senza la diretta 24 ore su 24 su un canale satellitare o digitale. I “contenuti” più emblematici della televisione “italiana” di questi ultimi anni sono probabilmente i reality, le fiction e i programmi di infotainment. Ora, tutti e tre questi “generi” televisivi insistono ossessivamente sul tema della “realtà”. Ovviamente, si tratta di una certa accezione di realtà, ovvero: “ciò che realmente accade” o “verità della rappresentazione” che aspira a eliminare il carattere fittivo (o, comunque, rappresentativo) dei “contenuti” televisivi in generale. La retorica dei reality prevede che essi siano, appunto, la restituzione immediata di qualcosa che sta accadendo sul serio, nuda realtà sottratta a ogni sviluppo di trama o sceneggiatura: vere lacrime, vere risate, veri litigi, vero sesso, veri amori (che possono addirittura trasformarsi in matrimoni, a suggello dell’autenticità di quanto mostrato in trasmissione). Solo sette anni fa (nel 2000), i quotidiani italiani si chiedevano, quasi onestamente stupefatti, se Cristina e Taricone, partecipanti del primo Grande Fratello, avessero consumato davvero davanti agli occhi di milioni di teleutenti, protetti solo da una tendina di coperte… La realtà imita la finzione, certo, ma la finzione, almeno nella sua versione fiction, continua a imita5. Solo apparentemente in questa osservazione risuona il celebre motto di McLuhan che vuole che il medium sia il messaggio. In realtà, McLuhan distingue chiaramente tra “messaggio” e “contenuto”: il messaggio di un medium è infatti un “mutamento di proporzioni, di ritmo o di schemi che introduce nei rapporti umani” (M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare. Mass media e società moderna, 1964, Net, Milano 2002, p. 16), quindi a sua volta un altro medium, una “configurazione” o una “struttura”. Il “contenuto”, invece, è pensato come “significato” di una “rappresentazione”, dimensione che McLuhan considera accessoria rispetto al reale “messaggio” che il medium veicola: “L’analisi dei ‘contenuti’ non serve a chi voglia scoprire la magia di questi media o la loro carica subliminale” (ivi, p. 29). Quindi i media non sarebbero strumenti neutri che possono veicolare usi e contenuti “buoni” o “cattivi” ma “messaggi” in se stessi – a un altro livello. La nostra ipotesi è, invece, che i “contenuti” che i media veicolano ne riverberino e rimodellino costantemente il “messaggio” – e quindi meritino assoluta attenzione.
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re, a sua volta, la “realtà”. Le fiction “all’italiana” – sorta di versione contemporanea del vecchio sceneggiato televisivo – si sviluppano sempre a partire da un contesto familiare, noto, volutamente comune, quasi banale. Si tratta di creare una continuità forte con il mondo di riferimento dello spettatore per farlo scivolare, quasi senza soluzione di continuità, dalla vita quotidiana alla vita dentro lo schermo (e non senza ricompensarlo, alla fine, con un messaggio edificante, una consolazione per la buona notte). Tutti, indistintamente, abbiamo già visto il living del Medico in famiglia o i commissariati un po’ squallidi di Distretto di polizia o della Squadra: i set della fiction sono un po’ dei prototipi del nostro immaginario popolare, sono parte di noi come i personaggi della fiction assomigliano sempre un po’ ai vicini di casa, amanti immaginari e figurine da proiezione. Tutto nelle fiction tende a essere proprio come lo si immagina, e quindi “come è”. E se non proprio “come è”, allora “come ci si ricorda sia stato” (Raccontami) o “come si immagina che fosse” (Orgoglio, Elisa di Rivombrosa) o “come si vorrebbe fosse” (Capri). I programmi di infotainment (crasi di information ed entertainment) nascono dalla tesi che l’“informazione” (insieme di “saperi veri, reali”) possa essere raccontata in modo entertaining, ovvero piacevole, gradevole, interessante (Kant avrebbe avuto molto da ridire sul concetto, oggi imperante nel lessico televisivo, di entertainment). Nello spazio dell’infotainment spicca il format della docu-fiction o docu-soap, altra forma ibrida che coniuga realtà documentaria (docu) e finzione: piccole mitografie del quotidiano. Grazie allo spettacolo innato costituito dal mondo e dalla vita è possibile imparare, “intrattenendosi”, come è partorire (Primo figlio) o cambiare moglie (Cambio moglie), pianificare un matrimonio (Wedding Planners) o educare i propri figli (SOS Tata), ma anche, passando a format internazionali comunque trasmessi in Italia, cambiare faccia e connotati (Extreme Makeover), trasformare la propria casa in un theme park (Monster House) o imparare tutto sul tatuaggio (Miami Ink). Cambiamo passo e “allontaniamoci” per un momento. Questa proliferazione di format può essere letta come vera e propria variazione su un tema ontologico che potremmo così riassumere: la 16
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“realtà”, se inquadrata sotto una certa luce (in senso non metaforico), ha una forma intrinsecamente spettacolare – addirittura è, a tutti gli effetti, “spettacolo”. Una volta ri-presa (ovvero rap-presentata, presentata per una seconda volta), la “realtà” mostra la propria “essenza spettacolare”. Non, si badi, una rappresentazione che si ispira o mima il reale, ma un reale che nient’altro è se non rappresentazione. Non siamo lontani dalla descrizione della “società dello spettacolo” di Debord: scissione della “vita” dalla “rappresentazione”, autonomizzazione della rappresentazione ai danni della vita e della sua unitarietà. Lo “spettacolo” di Debord non riguarda certo il diventare gemütlich della realtà, un suo agghindamento “piacevole”, bensì la perdita drammatica della realtà in un “apparire” che annienta la vita umana: “lo spettacolo è l’affermazione dell’apparenza e l’affermazione di tutta la vita umana, ovvero sociale, come semplice apparenza”.6 Nella nostra società, tutto ciò che appare (quindi: la realtà) ricade immediatamente nello spettacolo: “la realtà sorge nello spettacolo, e lo spettacolo è reale. Questa alienazione reciproca è l’essenza e il sostegno della società esistente”.7 E ciò non è per Debord il risultato delle tecnologie che diffondono in modo massificato le immagini (quindi anche della televisione): le tecniche sono “una Weltanschauung diventata effettiva, materialmente tradotta. È una visione del mondo che si è oggettivata”.8 Il debito heideggeriano di questa osservazione è anche lessicalmente evidente: la “visione del mondo” che si oggettiva nei media è evidentemente quella della modernità post-cartesiana come età della rappresentazione. Potremmo affermare, in modo un po’ provocatorio, che i recenti “contenuti” televisivi portino all’iperbole questa operazione di oggettivazione della visione del mondo moderna: mostrano la forma “spettacolare” e rappresentativa dell’apparire del mondo come sua stessa natura. Apparentemente, nulla sembra darsi al di fuori e al di là delle stanze della casa del Grande Fratello, tutto sembra apparire completamente lì, in 6. G. Debord, La société du spectacle, Gallimard, Paris 1992, p. 19 (le traduzioni sono mie). 7. Ibidem. 8. Ivi, p. 17.
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quelle quattro mura. E quello che appare è subito già spettacolo, ovvero mescolanza inestricabile di realtà e rappresentazione. I partecipanti del Grande Fratello vivono di questo stesso dramma: la frase che sempre, in ogni edizione, più frequentemente pronunciano è quella relativa all’essere o all’essere stati, nella casa, veramente “se stessi”, al di fuori di ogni recita o messa in scena. Non personaggi ma persone. Rivendicano, cioè, uno spazio in cui apparire non si risolva in apparenza ma coincida con la loro vita nel senso più vero e integrale del termine. “Io sono veramente così” e i genitori lo confermano, gli amici anche. Se, raramente, qualcosa non funziona, accade esattamente il contrario. In questi casi, i partecipanti sono descritti come delle vittime: non sono affatto così, sono trasformati dal gioco e dalla trasmissione, “non sono se stessi”, spossessamento di sé dettato della curvatura sinistra che può prendere la vita dentro la casa. I partecipanti del Grande Fratello, cioè, sono costitutivamente a rischio, loro malgrado, di attorialità: è il dispositivo in cui sono immersi a esporli a questo rischio, eppure il dispositivo è semplicemente “vivere” e “mostrare questa vita”. Quale miglior prova della vertiginosa assimilazione di “spettacolo” e “vita”, “spettacolo” e “realtà”? Quella di Debord, però, non è una semplice invettiva contro la rappresentazione in nome di una presenza piena e integrale. Ciò che Debord contesta non è lo “spettacolo” o la “rappresentazione” tout court ma la loro totalizzazione, il loro occupare integralmente, senza alcun residuo, lo spazio della vita moderna: “l’affermazione di tutta la vita umana […] come semplice apparenza”, appunto. Il tema vero su cui riflettere riguarda, quindi, lo squilibrio tra “vita” e “spettacolo” che gli attuali “contenuti” televisivi mostrano in modo così forte ed evidente. Perché della rappresentazione occupa sempre già la presentazione, come mostrava Philippe Lacoue-Labarthe parlando di una originarietà della mimesis, decostruendo così sia l’origine che la presenza.9 Come c’è 9. “Immagine: mimema. La cosa è probabilmente sempre stata interpretata in termini d’imitazione, di riproduzione, di duplicazione – in breve, di ri-presentazione, nel senso di presentazione seconda. Si è tuttavia introdotto un sospetto che la (rap)presentazione (mimesis, Darstellung) non sia semplicemente seconda o derivata: o piuttosto che se certo c’è una
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sempre della distanza, il massimo di “tele”, anche quando la televisione sembra restituire il massimo di presenza all’evento attraverso la diretta, il live. È la preoccupazione più forte di Derrida, inquadrato da una telecamera durante un lungo colloquio con Bernard Stiegler: Ora, proprio perché sappiamo adesso, sotto la luce, davanti alle telecamere, mentre sentiamo risuonare le nostre voci, che questo momento live, vivente, potrà essere ed è anzi già captato in macchine che forse lo trasporteranno e lo mostreranno Dio solo sa quando e Dio solo sa dove, noi sappiamo già che la morte è qui. […] Il massimo di vita (il più di vita), ma di vita già piegata alla morte (“non più vita”), ecco che diventa esportabile il più a lungo e il più lontano possibile – ma in modo finito.10 La televisione è una teletecnologia come la scrittura, quindi, e lo scarto tra le due tecniche può essere stabilito, secondo Derrida, solo in termini di “misura”, la misura della distanza tra vicino e lontano che tiene assieme la polarità stessa. Ciò di cui Derrida non parlava ancora, nel 1993, era proprio l’eventualità che il televisivo potesse allestire una scena di abolizione proprio di questa distanza. Il problema non è quindi se i ragazzi del Grande Fratello recitino o meno, ma appunto che non possano che recitare, ovvero che il dispositivo televisivo “Grande Fratello” non lasci spazio a nessuna distanza e scarto tra vicino (il live della vita) e lontano (la sua rappresentazione spettacolare). La televisione, oggi, mistifica sempre più la polarità, la totalizza miticamente restituendola come uno
secondarietà (un ritardo) della presentazione, una simile secondarietà non muova da nessuna presentazione primaria, ma costituisca originariamente, nella sua stessa possibilità, il presentar-si della presentazione: spaziatura e temporalità. Mimesis: (ras)somiglianza. Si potrebbe dire laconicamente: perché la cosa si presenti (appaia, si figuri), deve (ras)somigliarsi. L’arte – l’immaginale – è forse il modo più decisivo di una simile (ras)somiglianza: della presentazione” (Philippe Lacoue-Labarthe alla voce “Image”, in Épreuves d’écriture, Éditions du Centre Pompidou, Paris 1985, p. 85). A Philippe Lacoue-Labarthe sono dedicate queste pagine. 10. J. Derrida, B. Stiegler, Ecografie della televisione (1996), Raffaello Cortina, Milano 1997, p. 42.
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dei suoi poli. Proprio perché non vuole essere che “realtà”, essa è “spettacolo”, Real TV (è il titolo di un format e di un genere): nessuna mediazione, nessuno scarto, nessuna differenza. Non siamo lontanissimi, almeno in apparenza, dall’“iperreale” e dalla logica del “simulacro” di cui parlava Baudrillard. Anch’egli vede la differenza tra realtà e rappresentazione (il medium televisivo) sempre più dissolversi in una “nebulosa iperreale, dove anche la definizione e l’azione differenziata del medium non sono più reperibili”.11 Se il messaggio era inglobato nel medium (come voleva McLuhan), adesso anche il medium sembra sparire, sprofondando, implodendo nel reale (trasformato in iperreale): “Non esiste più, cioè, un’istanza mediatrice fra una realtà e un’altra, fra uno stato del reale e un altro. Né per quel che riguarda i contenuti, né per la forma”.12 Ma, diversamente rispetto a Baudrillard e allo stesso Debord, questa estatizzazione del reale, questo “delitto perfetto”13 che liquida il reale sostituendolo con il suo simulacro non ci sembra affatto indicare la nostra “reale” ontologia, il nostro modo d’esistenza. Torniamo “vicini”: preferiamo pensare, almeno in questo contesto, che l’ontologia simulacrale, la confusione tra reale e rappresentazione siano semmai un “effetto di costruzione”, un “racconto” o una “retorica” che il televisivo allestisce (anche) attraverso un certo orientamento dei propri contenuti. Onestamente, non sappiamo se il mondo si stia virtualizzando o se il reale stia implodendo. Dirlo è dire sempre un po’ troppo poco e un po’ troppo: ogni metafisica, anche quella più apocalittica, ha un sapore consolatorio che alla fine tende a immobilizzare, più che spingere a pensare ancora. La risposta “ironica” di Baudrillard che cerca di combattere il Male con il Male, il simulacro con il simulacro, ha certamente un valore taumaturgico per noi lettori ma ci lascia con un “niente di fatto” fondamental11. J. Baudrillard, L’implosione del senso nei media e l’implosione del sociale nelle masse, “aut aut”, 169, 1979, p. 110, ripubblicato in “aut aut”, 335, 2007. 12. Ibidem. 13. Alludo al titolo di un testo più tardo sulla televisione di Baudrillard, Il delitto perfetto (1995), Raffaello Cortina, Milano 1996.
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mente insufficiente. La totalizzazione “real” della televisione, invece, può essere più modestamente pensata e descritta come un processo, uno strumento di potenziamento dei contenuti e dei messaggi che la televisione veicola. Se in una fiction vedo un commissariato di polizia, un luogo che riconosco, e vedo una squadra di poliziotti che nel commissariato di polizia lavora – e sembrano proprio come sono i poliziotti che ho conosciuto in vita mia o ho incontrato per la strada; se le vicende che accadono loro ricordano notizie lette di recente sul giornale, trasmettendomi l’impressione di forte vicinanza all’attualità, ovvero al mio tempo; se le loro storie sentimentali e le loro psicologie sono simili alle mie o a quelle di un mio collega di lavoro; se il loro rapporto con capi e superiori è per me così comprensibile e condivisibile. Se tutto ciò è quanto dallo schermo mi arriva, più facilmente l’impressione può essere quella che anche tutto il resto che la fiction comunica sia altrettanto “reale”, “vero”, prossimo come può esserlo un vicino di casa o un compagno di banco: che i poliziotti sono dei finti duri dal cuore tenero e grande così, che la polizia non è (solo) l’organo che fa rispettare la legge ma anche un’istanza che interferisce attivamente e positivamente con le attività dei cittadini, li assiste, sostiene e guida verso la retta via; in buona sostanza, inizio a vedere e a credere al “bello della polizia”, non pensando più agli aspetti aggressivi, repressivi, limitanti, di controllo che “polizia” conduce… Sono portato a dimenticare Genova, per esempio, per abbracciare un ritratto più ravvicinato e quindi, paradossalmente, più “veritiero” di ciò che la polizia deve veramente essere. E certo magari so, nel fondo, che non è così, ma certo sarebbe bello se così fosse, e quindi, per finire, perché non crederci – visto che tutto è già così incredibilmente credibile e reale? Perché non credere che alla fine, domani, il bene trionferà e giustizia sarà fatta? La totalizzazione “real” della televisione permette, quindi, di limitare ogni istanza emancipativa mostrandola come già realizzata e quindi già reale, esistente, lì, o comunque potenzialmente facilmente realizzabile. Il meglio è già qui, o quasi. Ma anche la “realizzazione personale” e il successo sono già miracolosamente dati: bisogna solo affermarli attraverso una gara di 21
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popolarità che poco c’entra con le competenze. Il nostro diritto ai “quindici minuti di fama” sarebbe così ontologicamente garantito anche se solo in certi casi, per caso o fortuna, attivato. Effetto sedativo della real-TV che porta a non desiderare più niente perché tutto, a “ben guardare”, è già dato, basta inquadrarlo con una telecamera per vederlo. Il contenuto del messaggio del medium è, quindi, anche, la natura spettacolare del mondo e dell’esperienza come realtà mitica, punto di fuga e rifugio in cui ritirarsi. Curioso cortocircuito che vuole che ci si alieni nella realtà, con uno strano escapismo immersivo totalmente innocuo, comunque facilmente addomesticabile. La televisione della realtà assolve, quindi, una funzione iperbolicamente pedagogica. Essa è più che mai la televisione “maestra” di cui parlano sia Popper che – ironicamente –, di recente, Aldo Grasso.14 Nella loro prospettiva, la televisione è una maestra “cattiva” o “buona”, ma c’è forse un altro modo di interrogare la questione didattica relativamente al televisivo. Per esempio, quello che adotta Jacques Rancière in una conferenza tenuta a Francoforte in apertura della Fifth International Summer Academy of Arts nel 2004, intitolata The Emancipated Spectator.15 Rancière riprende un proprio testo del 1974, Le maître ignorant,16 ripensandolo rispetto all’ambito teatrale e alle arti performative in generale. Riparte, quindi, dalle tesi di Joseph Jacotot, secondo cui una persona ignorante poteva insegnare a una persona ignorante quello che lei stessa non sapeva, proclamando l’uguaglianza delle intelligenze. Il tradizionale rapporto pedagogico si trova qui rimesso in causa. Esso si fonda, infatti, su una ineguaglianza di fondo tra il maestro e l’alunno. Non solo il maestro conosce dei contenuti che l’alunno non conosce ma conosce anche la distanza esatta tra ignoranza e conoscenza, 14. K.R. Popper, Una patente per fare TV (2002), in C. Borsetti (a cura di), Cattiva maestra televisione, Marsilio, Venezia 2006; A. Grasso, Buona maestra, Mondadori, Milano 2007. 15. J. Rancière, The Emancipated Spectator, “Artforum”, 7, 2007, pp. 271-280 (traduzioni mie). 16. Id., Le maître ignorant. Cinq leçons sur l’émancipation intellectuelle, 10/18, Paris 2004.
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ovvero ha una diversa intelligenza. Nella prospettiva di Jacotot, l’istruzione è, quindi, un processo di “stoltificazione” progressiva che rafforza l’ineguaglianza originariamente posta. Esiste, però, un altro processo – di “emancipazione” – che verifica, invece, l’uguaglianza e l’intelligenza originarie. Lo scienziato e l’ignorante hanno, infatti, entrambi “una intelligenza che crea figure e confronti per comunicare le proprie avventure intellettuali e per capire che cosa un’altra intelligenza sta cercando di comunicare a sua volta”.17 Ora, il “maestro ignorante” non è qualcuno che non sa ma è colui che riesce a distinguere tra la sua conoscenza e la sua capacità d’insegnare: “non insegna la sua conoscenza agli studenti. Egli comanda loro di avventurarsi nella foresta, di raccontare ciò che vedono, ciò che credono di quello che hanno visto, di verificarlo e così via”.18 Per Rancière, le pratiche performative (pensa soprattutto al teatro di Brecht e Artaud) trattano lo spettatore secondo il medesimo paradigma “stoltificante” (paradigma squisitamente platonico per il teatro): presumono, per esempio, che lo spettatore sia “passivo” e intendono “animarlo”; ritengono che sia perso nell’“apparenza” di ciò che vede e vogliono, allora, riportarlo alla “realtà”; credono che “non sappia” e desiderano farlo “conoscere” e così via. In sostanza, ribadiscono il proprio scarto, la propria ineguaglianza rispetto allo spettatore. Un’altra scena è invece possibile, secondo Rancière, ed è quella che passa per un insegnamento non dei contenuti ma della “dissociazione della causa e dell’effetto […] lo studente impara qualcosa come un effetto della capacità docente del suo maestro. Ma non impara la conoscenza del maestro”.19 C’è quindi uno scarto tra il docente/performer e l’alunno/spettatore. Ma c’è uno scarto, anche, nella performance stessa, “nella misura in cui è uno ‘spettacolo’ di mediazione che sta tra l’idea dell’artista e il sentimento e l’interpretazione dello spettatore. Questo spettacolo è un terzo termine, a cui gli altri due possono
17. Id., The Emancipated Spectator, cit., p. 275. 18. Ivi, p. 275. 19. Ivi, p. 277.
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riferirsi, ma che previene ogni tipo di trasmissione ‘medesima’ o ‘non distorta’”.20 Jacotot pensava che questo terzo termine fosse il “libro”. Noi, procedendo al di là di Rancière, possiamo immaginarlo come i “media” in generale e la “televisione” in particolare. È la televisione come “terzo” che sta tra l’esperienza e chi la osserva. È proprio questa distanza tra il mezzo e il reale che la televisione della realtà tende a mistificare, cercando di assimilarsi al reale: la televisione della realtà è la “maestra stolta” che, ponendosi come integralmente real, pone e risolve il tema della dicotomia non come “differenza che dà la regola” ma come “differenza semantica”, quindi gerarchia e ineguaglianza. Non lascia spazio se non a se stessa. Ma chi vorrebbe tutto questo? A chi o a cosa “serve” la televisione della realtà? Di fronte a queste domande la risposta non può che essere o molto “vicina” o molto “lontana”: da una parte, la ricostruzione fedele di una serie di processi decisionali e decisori che portano a scegliere per certi format e determinati prodotti;21 dall’altra, la convocazione di istanze-ombrello che potrebbero essere chiamate, in modo quasi equivalente, “potere”, “capitale”, “mercato”. In entrambi i casi, comunque, i mass media non sono, purtroppo per noi, “dalla parte delle masse nella liquidazione del senso, nella violenza fatta al senso e nella fascinazione”.22 Nessuna estasi del trash ci è purtroppo concessa, oggi, nessun confortante passaggio iperrealistico. Ci resta, forse, solo una militanza puntuale e modesta, ben poco eroica e consolatoria, vagamente emancipatoria, che ricerca ostinatamente una televisione “maestra ignorante”, vero mezzo per fare esperienze e interpretarle, non istanza educativa che trasmette ciò che è “bene” o “male” (o, per par condicio, entrambe le cose). Ci resta, forse, la chance di una decostruzione delle costruzioni che continua a volere la non assimilazione
20. Ivi, p. 278. 21. Sembra incredibile eppure sarebbe assolutamente possibile raccontare queste vicende, evidenziando le micro-logiche che le determinano. Il risultato sarebbe complementare, ad esempio, alle logiche che guidano la “storia della censura” cinematografica. 22. J. Baudrillard, L’implosione del senso nei media e l’implosione del sociale nelle masse, cit., p. 115.
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della differenza, per esempio, tra “realtà” e “rappresentazione” televisiva. Non perché “presentazione” e “rappresentazione” possano essere realmente discriminate, non perché esse possano ricondurre a “sostanze” o “verità” ultime ma perché l’articolazione del loro scarto resti come monito, garanzia, protezione al nostro poter continuare a tele-vedere, anche.
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Al di qua e al di là dei media FEDERICO BONI
Introduzione. Di che cosa si occupa la ricerca sui media? La ricerca sui media, consolidata da diversi decenni all’interno del canone della communication research, ha lo scopo, in termini molto generali, di fare luce sugli aspetti legati a quelli che, parafrasando Becker (1982), potremmo chiamare “i mondi dei media”, e cioè le condizioni di produzione, contenuto, distribuzione e consumo legate all’industria dei media e ai suoi prodotti. In particolare, un aspetto che da sempre si lega alla teoria e alla ricerca sui media riguarda i processi comunicativi stabiliti dai mezzi di comunicazione di massa, e ancor più il nodo degli effetti sociali sul pubblico (o, come si preferisce dire oggi, sui pubblici, al plurale, a indicare una pluralità e una eterogeneità che contraddistingue la sfera della ricezione). Per definire l’oggetto di studio e di ricerca della communication research si è cercato di restringere il campo soprattutto per chiarire cosa non è oggetto dello studio sui media, e a questo proposito la proposta (meglio, la sistematizzazione) più convincente è quella fornita da Thompson (1995). Thompson parla della compresenza di almeno tre livelli di interazione comunicativa: l’“interazione faccia a faccia”, l’“interazione mediata” e la “quasi-interazione mediata”. L’“interazione faccia a faccia” è quella che si richiama più o meno esplicitamente alla prospettiva goffmaniana, e che rappresenta la comunicazione interpersonale propriamente detta: si tratta di un’interazione comunicativa in præsentia, dove cioè i parlanti sono presenti l’uno all’altro e parteci26
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pano condividendo gli stessi riferimenti spazio-temporali; è inoltre dialogica, cioè permette un flusso bidirezionale tra emittente e ricevente; infine consente l’utilizzo di molteplici codici comunicativi, da quelli linguistici a quelli paralinguistici, compresi quelli cinesici, quelli prossemici e quelli aptici. L’“interazione mediata” è quella che avviene tramite strumenti per la comunicazione come le lettere o il telefono (ma anche la posta elettronica, e naturalmente il cellulare): rispetto alla prima, qui i partecipanti si trovano in ambienti differenti nello spazio e/o nel tempo, e inoltre i codici a loro disposizione sono decisamente più limitati (non è un caso, ad esempio, che nelle e-mail si sia sentita a un certo punto la necessità dell’impiego delle emoticons, le “faccine” che dovrebbero integrare i messaggi al computer con un surrogato della mimica facciale). Infine, la “quasi-interazione mediata” riguarda la modalità di comunicazione stabilita dai mezzi di comunicazione di massa (stampa, radio, televisione ecc.), che rispetto alle due precedenti presenta almeno un paio di differenze: da una parte, mentre i partecipanti ai primi due tipi di comunicazione utilizzano codici pensati per interlocutori ben definiti e determinati, in questa i codici prodotti dai diversi canali mediatici sono rivolti a un insieme di riceventi potenzialmente infinito; dall’altra, la “quasi-interazione mediata” è una sorta di monologo, e alla bidirezionalità delle prime due sostituisce una sostanziale unidirezionalità. È proprio quest’ultima che dovrebbe costituire l’oggetto privilegiato dello studio della communication research, in tutte le sue diverse forme e declinazioni. Del resto, c’è un che di molto intuitivo nel considerare la “quasi-interazione mediata” come la forma di comunicazione tipica stabilita dai media: si tratta in effetti di un processo comunicativo da uno a molti, che ben poco lascia all’iniziativa dei riceventi (se non nelle forme davvero vicarie e simulacrali del telefono o della “lettera al giornale”, non a caso la prima rubrica a essere eliminata in caso di mancanza di spazio). Tuttavia, la storia della communication research si articola lungo percorsi e sentieri che si sono incrociati spesso e volentieri con la comunicazione interpersonale, l’interazione faccia a faccia di cui parla Thompson, di discendenza diretta da Goffman e da tutte le bran27
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che della sociologia che si sono interessate alle forme e ai modi dell’interazione verbale (si pensi alla conversation analysis) e non verbale. Quello che vedremo in questo articolo è una “storia rivisitata” della ricerca e della teoria sui media, cercando di individuare i punti di contatto tra le diverse forme di interazione comunicativa, per comprendere quanto gli studiosi dei media si situino “al di qua” o “al di là” della comunicazione di massa, individuando spesso numerosi argomenti interessanti che hanno a che fare con il processo comunicativo umano più in generale. Per prima cosa, quindi, è opportuno vedere di che cosa parliamo quando parliamo di communication research. 1. Una controstoria della communication research Gli studiosi delle comunicazioni di massa hanno individuato una successione nei diversi approcci dei media studies, che viene normalmente riassunta in tre grandi periodi (o cicli): il ciclo dei “media forti”, che testimonia la preoccupazione nei confronti della propaganda mediale, specie in un’epoca – la prima metà del Novecento – in cui essa si lega alle esperienze totalitarie di Germania e Italia; il ciclo dei “media deboli”, che tende a ridimensionare gli assunti piuttosto “catastrofisti” del ciclo precedente, pur individuando alcuni settori in cui la comunicazione mediale esercita notevole influenza; infine, il “ritorno al potere dei media”, che individua nuove – e importanti – aree della vita sociale suscettibili di influenza da parte dei mezzi di comunicazione. Ora, se a grandi linee possiamo mantenere questa periodizzazione, va subito aggiunto che la storia delle teorie delle comunicazioni di massa (così come la storia delle teorie di una qualsiasi altra disciplina) si articola in maniera meno lineare e più complessa. In questo modo, può capitare che in uno stesso periodo di tempo coesistano approcci teorici affatto diversi, ma la cui differente visibilità nel mondo scientifico penalizzi quello più estraneo al mainstream di maggior successo (seppure momentaneo). E, di fatto, questo è quanto pare sia accaduto anche nel campo della communication research; tuttavia, proprio il susseguirsi di tali differenti capacità di accesso al mainstream teorico da parte dei vari 28
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approcci permette di comprendere quali fossero le esigenze delle committenze nelle varie realtà geografiche e temporali. Con ciò, la proposta di una “controstoria” della ricerca sui media può divenire anche un’occasione per abbozzare velocemente una storia “culturale” delle teorie, una storia cioè che tenga conto dei diversi contesti (storici, sociali, culturali, accademici) in cui le teorie sono nate e si sono sviluppate – e, in alcuni casi, sono decadute. La riflessione teorica sulla comunicazione di massa comincia in un periodo storico che vede l’affermarsi di importanti mutamenti sociali. Tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo il fenomeno dell’urbanizzazione conosce una crescita irresistibile, che verrà a determinare stili di vita in gran parte inediti. È l’epoca delle prime folle metropolitane, delle prime forme di spettacolo e di intrattenimento “di massa”, e della circolazione sempre più capillare e diffusa delle notizie, con la rapida crescita dei quotidiani (prima) e della radio (poi). È esattamente questo il momento in cui nascono le cosiddette “comunicazioni di massa”, che permettono una sempre più rapida produzione e riproduzione delle informazioni, in quella che Walter Benjamin chiamerà l’“epoca della riproducibilità tecnica”. La folla viene vista, di volta in volta, come una “massa”, come un “gruppo”, come un “pubblico” o come “opinione pubblica”; in ogni caso, la gestione di questi nuovi aggregati di individui diviene un dato pratico e teorico fondamentale, dando vita a una vasta letteratura che riflette queste nuove emergenze (dall’“uomo medio” di Quételet alla “psicologia delle folle” di Le Bon, fino all’“era dei pubblici” di Tarde). La rivoluzione sovietica prima e le esperienze totalitarie dopo mostrano per la prima volta, in maniera evidente, il ruolo di primo piano della propaganda, veicolata sia da manifestazioni di massa sia dai mezzi di comunicazione allora più diffusi (la stampa, il cinema, la radio). Ma anche il successivo, rapido affermarsi della “società dei consumi” sembra dimostrare inequivocabilmente la notevole importanza della comunicazione di massa, a cui si sarebbe aggiunto, poco dopo, un nuovo mezzo rivoluzionario: la televisione. In questo panorama prendono le mosse i primi approcci teorici relativi alle comunicazioni di massa: quello dei sociologi di Chicago, dove cen29
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trale è lo scenario metropolitano; e poi quello dei primi ricercatori statunitensi e quello dei francofortesi, dapprima alle prese con la propaganda dei regimi totalitari e poi con le sempre più pressanti richieste del mercato. In condizioni storico-culturali complesse e diverse come quella statunitense ed europea, è inevitabile che le forme e i modi della ricerca abbiano una nascita e uno sviluppo radicalmente diversi. Gli Stati Uniti sono generalmente più orientati verso un empirismo di fondo, che accomuna prospettive di ricerca così diverse come quella della Scuola di Chicago prima e la mass communication research dopo. All’empirismo di scuola statunitense si usa contrapporre l’approccio più teorico, fortemente critico, della Scuola di Francoforte, che di fronte agli stessi mutamenti sociali indagati dagli americani risponde in maniera decisamente meno “integrata”. Laddove per la Scuola di Chicago e il funzionalismo i mezzi di comunicazione di massa sono mezzi di adattamento, appunto “funzionali” alla riproduzione dello status quo, i filosofi di Francoforte individuano nei media una forte carica ideologica, che li rende pericolosi strumenti di potere e dominio. Questi due diversi orientamenti permangono anche nel corso del secondo dopoguerra, in un periodo dove, peraltro, gli studi sulla comunicazione di massa si dotano di modelli teorici mutuati spesso da altre discipline. È il caso, negli Stati Uniti, della teoria cibernetica, che già nella sua formulazione originaria risente notevolmente degli sviluppi delle comunicazioni degli anni cinquanta (legati soprattutto all’industria telefonica). L’Europa degli anni sessanta vede invece svilupparsi una serie di filoni di ricerca improntata per lo più sulle suggestioni dello strutturalismo (prima) e del post-strutturalismo (poi). Ma questi sono anche gli anni in cui la sempre più evidente integrazione mondiale (favorita non poco dalle sempre più perfezionate tecnologie della comunicazione, personale e di massa) rende desueta una linea di demarcazione tra le tendenze di ricerca da una parte e dall’altra dell’Oceano. Del resto, se negli Stati Uniti si hanno anche approcci quasi esclusivamente teorici (si pensi a 30
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McLuhan, e ai suoi slogan famosi come “il mezzo è il messaggio”), in Europa prospettive di ricerca come quella dei cultural studies integrano efficacemente elaborate griglie teoriche con sofisticate metodologie empiriche. Più in generale, le stesse teorie e modalità di ricerca devono ormai fare i conti con quella che sempre più chiaramente si definisce come una globalizzazione della società e della comunicazione. Da una parte, l’idea è che i confini e le frontiere tendano a cadere sotto i colpi della libera circolazione delle persone, delle informazioni e delle merci; dall’altra, tuttavia, emerge netta l’impressione degli studiosi che nuovi tipi di esclusioni stiano prendendo forma. Per quanto riguarda l’ambito dei media, è l’idea dei knowledge gaps, i “divari di conoscenza”: ridotto all’essenziale, l’assunto è che solo chi avrà accesso alle nuove tecnologie della comunicazione e avrà la competenza per gestire le informazioni disponibili potrà effettivamente disporre dei vantaggi della “comunicazione globale”. In altre parole, i “ricchi di informazione” saranno sempre più ricchi, mentre i più “poveri di informazione” dovranno sempre più accontentarsi di conoscenze di “serie B”. Basti pensare alle nuove tecnologie dei media, dal cavo al satellite, dal computer a Internet, tutte tecnologie che presuppongono non solo dei costi, ma anche le necessarie competenze di utilizzo e di gestione – dando così vita anche a quello che viene definito digital divide, cioè una sorta di “divario digitale” tra un “Nord” e un “Sud” del mondo della comunicazione telematica. Inoltre, questa apparente “caduta dei confini” determina una sorta di “confusione” tra identità prima ben definite: se i media favoriscono l’accesso a informazioni e mondi prima poco accessibili, le nuove conoscenze disponibili rendono possibile un melting pot di usi e costumi. Questa “commistione di culture” (che, del resto, c’è sempre stata, e viene semmai favorita dalle nuove tecnologie della comunicazione) preoccupa numerosi studiosi circa il possibile appiattimento culturale dei diversi paesi. Nondimeno, proprio le più recenti tendenze di ricerca – ascrivibili, ad esempio, ai moderni audience studies – mostrano come spesso società diverse si approprino dei contenuti “globali” della comunicazione in maniera autonoma, diversa da cultura a cultura. 31
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Anzi, proprio questi studi favoriscono una più precisa conoscenza del modo in cui le varie sottoculture utilizzano i media come “risorse” per affermare la propria presenza. In questo senso, il globale si incontra con il locale, e proprio gli studi sulla comunicazione contribuiscono a capire con quali modalità tutto questo avvenga. Vedremo peraltro come questa dimensione costituisca uno dei principali aspetti nell’agenda della ricerca sui media. Con questo, siamo arrivati ai nostri giorni. Come si vede, solo forzando notevolmente i termini storici della communication research è possibile individuare “cicli” come quelli cui si accennava all’inizio, relativi all’idea di “media forti”, poi “deboli”, e poi nuovamente “potenti”. In ogni periodo che si voglia individuare nel corso del secolo appena trascorso, “congelando” particolari aspetti dello studio sui media, sarà possibile trovare studiosi preoccupati del “potere dei media”, e dei loro “effetti” sulla società, con la stessa facilità con cui troveremo analisi più moderate, non fosse altro che per il loro essere legate a committenti interessati. Le stesse prospettive legate a un “ritorno al potere dei media” (come la teoria della “spirale del silenzio”, che vedremo nel quarto paragrafo) convivono con approcci differenti; e anche laddove si parli di rapporto tra media e creazione della realtà (come nel caso dell’ipotesi dell’agenda setting, secondo cui i media, determinando quali siano gli argomenti all’ordine del giorno, non solo ci suggeriscono “su quale argomento avere un’opinione” – piuttosto che dirci “quale opinione avere su un determinato argomento”, come invece vuole un’impostazione più “classica” della ricerca sugli effetti –, ma così facendo contribuiscono a determinare la nostra realtà cognitiva) i termini sono molto più complessi e sfumati di quanto non potrebbe sembrare a una prima analisi. La complessità dei rapporti tra media e società riflette, del resto, la medesima complessità della nostra società – e dello stesso sistema dei media, ormai troppo diversificato per essere considerato in blocco. È quanto meno naturale che la ricerca sulla comunicazione si voglia dotare di strumenti adeguati, anche a costo di problematizzare molti aspetti che prima, forse, apparivano più 32
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semplici. La stessa definizione di “mezzi di comunicazione di massa” appare ormai inadeguata, dal momento che non tiene sufficientemente in considerazione tutti quegli strumenti di comunicazione personali che si stanno diffondendo con sempre maggior rapidità. 2. Comunicazione interpersonale o di massa? Se già l’oggetto stesso della communication research (i mezzi di comunicazione di massa) appare per lo più superato, lo stesso sembra valere per il processo comunicativo sottostante alla forma di interazione favorita dai media. Come si è anticipato nell’introduzione all’articolo, le diverse forme di interazione comunicativa sembrano essere molto più compenetrate nella sfera mediatica di quanto non potrebbe apparire intuitivamente. Del resto, non si tratta di un fenomeno particolarmente recente. Sin dagli albori della communication research le più importanti ricerche e teorie sulla comunicazione di massa hanno mostrato che studiare i media significa studiare inevitabilmente anche i processi di comunicazione interpersonale. Le ricerche di Paul Lazarsfeld e di Elihu Katz, due tra i più importanti autori della communication research, hanno chiaramente indicato l’importanza dell’interazione interpersonale anche laddove si vogliano indagare gli effetti sociali dei media. In una prima ricerca, centrata sullo studio delle motivazioni e delle modalità con cui si formano le opinioni politiche (nel caso specifico, si trattava di seicento elettori di Erie County, Ohio, all’epoca della campagna presidenziale del 1940 [Lazarsfeld et al. 1948]), le conclusioni erano decisamente significative: l’efficacia della comunicazione di massa è profondamente – e causalmente – legata a processi di comunicazione interpersonale, e non mediale, interni alla struttura sociale in cui vive l’individuo. Lazarsfeld parla di “flusso della comunicazione a due livelli” (two-step flow of communication) proprio per indicare il ruolo di mediazione che i “leader d’opinione” (persone con un buon livello di informazione, a diretto contatto con i media) svolgono tra i media e gli altri individui del pubblico. Gli effetti dei media sono quindi solo una parte 33
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di un processo più ampio, e cioè l’influenza personale. Questo assunto verrà ripreso dallo stesso autore in una ricerca successiva, condotta con Katz e centrata sul consumo (cioè su come avviene il meccanismo di decisione di consumo in ordine a prodotti come il cibo, la moda o quale film andare a vedere il venerdì sera [cfr. Katz, Lazarsfeld 1955]). Ebbene, le conclusioni confermano l’ipotesi del “flusso della comunicazione a due livelli”, mostrando che, rispetto alla comunicazione di massa, “la comunicazione interpersonale presenta un maggior grado di flessibilità di fronte alle resistenze di un destinatario” (Wolf 1985, p. 51). Se in un processo comunicativo la credibilità della fonte incide sull’influenza del messaggio, allora “è probabile che la fonte impersonale dei media si trovi svantaggiata rispetto alle fonti invece ben conosciute proprie dei rapporti interpersonali” (ibidem). Il ruolo della comunicazione interpersonale è insostituibile anche come fonte (benché non primaria) dell’informazione: in uno studio sulle modalità di acquisizione della notizia dell’assassinio di John Fitzgerald Kennedy, Bradley K. Greenberg (1964; 1965) ha mostrato come molte persone siano state informate dell’accaduto non direttamente dai media (radio, TV, giornali), ma da amici e conoscenti (i quali, naturalmente, avevano appreso la notizia dai mezzi di comunicazione). Più in generale, sembrerebbe che l’interazione faccia a faccia sia particolarmente significativa per apprendere le notizie più clamorose da una parte, e quelle più legate al contesto locale o agli specifici interessi personali dall’altra. Tutto questo viene confermato da una ricerca più recente sull’acquisizione della notizia dell’attentato dell’11 settembre 2001 alle Torri Gemelle (Morcellini, a cura di, 2002), dove emerge che, rispetto a un 33% del campione che ha saputo dell’attentato direttamente dalla TV, il 42% è venuto a conoscenza dell’evento tramite scambi comunicativi interpersonali, soprattutto da amici. Anche l’interazione mediata ha giocato un ruolo significativo, soprattutto grazie al telefonino: la metà dei giovani intervistati ha infatti dichiarato di aver comunicato agli altri l’accaduto mediante il cellulare. Naturalmente i media tradizionali (con la TV in testa) e i nuovi media (in particolare Internet) hanno avuto un ruolo decisivo, ma 34
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più giocato come “rassicurazione” (ibidem), cioè come verifica e approfondimento successivi alla segnalazione della notizia. Insomma, le tre dimensioni dell’interazione comunicativa individuate da Thompson (l’interazione faccia a faccia, l’interazione mediata e la quasi-interazione mediata) si compenetrano spesso in maniera inestricabile, proprio come abbiamo visto succedere nel caso del “tam tam” della divulgazione della notizia dell’11 settembre, declinatosi tra media “vecchi” e “nuovi”, conversazioni faccia a faccia e telefoniche. E comunque, anche nella nostra società contemporanea, dove le innovazioni della tecnologia informatica facilitano le forme della comunicazione a distanza (e forse proprio per questo), la comunicazione interpersonale mantiene un ruolo di assoluta centralità, in parte dovuto a quella che Boden e Molotch (1994) chiamano la “compulsione alla prossimità”. Ma allora, se tutto questo è vero, vale la pena di approfondire alcuni ambiti relativamente recenti – e particolarmente significativi – della communication research dove la compenetrazione tra le diverse forme di interazione comunicativa si incrociano e compenetrano, rendendo talvolta piuttosto complicato stabilire se l’oggetto della ricerca si concentri maggiormente sull’interazione faccia a faccia, su quella mediata o sulla “quasi-interazione mediata”. I tre ambiti che approfondiremo sono significativi soprattutto per il notevole influsso che hanno avuto sulla disciplina. Si potrebbe dire che, in alcuni casi (sicuramente questo vale per Meyrowitz, che vedremo nel prossimo paragrafo), dopo l’apparire di alcune teorie lo studio dei media “non sia stato più lo stesso”, dovendo fare i conti, in un modo o nell’altro, con le intuizioni che si venivano ad aggiungere alla riflessione teorica. In altri casi (ad esempio quello della “spirale del silenzio”) l’importanza della proposta teorica è tale soprattutto per l’impatto critico che ha provocato, suscitando senza dubbio numerose critiche ma costringendo i teorici, in ogni caso, a fare i conti con una proposta apparentemente conservatrice ma che, come vedremo, è capace di riservare interessanti sorprese per chi la voglia considerare con la dovuta attenzione e serietà. Infine, concludiamo questa “rassegna revisionista” con un approccio metodologico (prima ancora che teorico), che è quello 35
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dell’etnografia dei media, programmaticamente fondato sulla dimensione faccia a faccia dell’interazione (e soprattutto sulla prospettiva etnometodologica), ma soprattutto disciplina che, nello studio dei media, ha conosciuto negli ultimi decenni un successo notevolissimo, imponendosi come uno dei principali strumenti di ricerca sui processi comunicativi dei media nella loro relazione con i pubblici, locali e globali. 3. Oltre il senso del luogo Cominciamo dunque da Meyrowitz. Anzi, cominciamo da Goffman. Il sociologo canadese ha mostrato come a preservare l’identità nostra e altrui siano preposti non solo i vari rituali dell’interazione della vita quotidiana, ma anche i “territori del self”, cioè quella sorta di spazio personale a cui è affidata la nostra privacy. Anzi, proprio quella che noi chiamiamo privacy è assimilabile, come sostiene Goffman, alla “riserva di informazione”, che riguarda il controllo che l’individuo (o un gruppo di individui) esercita su un insieme di fatti che lo riguardano quando è insieme ad altri individui (o ad altri gruppi di individui). Tale controllo si esercita (anche) grazie alla separazione degli spazi sociali tra una ribalta (lo spazio in cui celebriamo i balletti rituali) e un retroscena (lo spazio dove ci prepariamo per le nostre piccole cerimonie quotidiane). Ebbene, secondo Joshua Meyrowitz (1985), i media (e in particolare quelli elettronici, come la TV) avrebbero avuto un ruolo determinante nell’abbattere i confini tra ribalta e retroscena, cambiando la “geografia situazionale” e creando uno “spazio intermedio”, il luogo della fusione tra spazio pubblico e spazio privato. In un’epoca in cui la comunicazione mediale è globalizzata, gli effetti di tale ridefinizione del “senso del luogo” (e, soprattutto, delle rispettive “riserve di informazione”) sono riscontrabili in quasi tutti gli aspetti della vita sociale. Meyrowitz ne prende tre a titolo di esempio: la confusione tra le sfere maschile e femminile (oggi i maschi, grazie alla TV, conoscono molti degli aspetti femminili prima riservati al “dietro le quinte” delle donne, e viceversa), quella tra l’infanzia e il mondo adulto (si pensi alla rapida ridefinizione delle classiche tappe della socializzazione, determinata dalla televi36
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sione) e la tendenziale perdita dell’aura dei leader politici, abbassati al nostro livello dal continuo scrutinio delle telecamere. Vediamo più nel dettaglio queste tre dimensioni. Secondo Meyrowitz l’avvento dei media elettronici, e della televisione in particolare, ha dato alle donne l’accesso a tutta una serie di informazioni sulla sfera della maschilità che prima erano a esse (quasi) del tutto negate. Infatti, se – sulla base della distinzione tra ribalta e retroscena – le distinzioni tradizionali tra maschile e femminile, tra uomini e donne sono state favorite – almeno in parte – dalle distinzioni in ordine all’accesso alle situazioni e alle informazioni in esse disponibili, è ragionevole supporre (sempre secondo Meyrowitz) che la fusione delle situazioni maschile e femminile, o dei relativi “sistemi informativi”, sia stata favorita dalla diffusione dei media elettronici, e dalla televisione specialmente. In particolare, con l’apparire della televisione sulla scena sociale le donne “vedono” cose a loro del tutto nuove, e soprattutto hanno facile accesso a una rappresentazione realistica, cruda e demistificata del mondo maschile. Allo stesso modo, gli uomini cominciano a conoscere più da vicino alcuni aspetti della sfera femminile a cui prima non avevano accesso diretto. Nelle parole di Meyrowitz (1985, p. 379): La televisione rende pubbliche e visibili le immagini private dell’altro sesso. Attraverso i primi piani televisivi, uomini e donne vedono, nello spazio di un mese, molti più rappresentanti del sesso opposto a “distanza ravvicinata” di quanti ne potessero vedere le generazioni precedenti in una vita intera. Inoltre, a differenza delle interazioni faccia a faccia, in cui uno sguardo prolungato può essere interpretato come un invito ad approfondire l’intimità, l’immagine televisiva consente di osservare ed esaminare attentamente il viso, il corpo e i movimenti dell’altro sesso. La televisione favorisce un tipo di intimità facile e non coinvolgente. La conclusione è che “i ruoli maschili e femminili si stanno fondendo. Non solo le donne assomigliano di più agli uomini, ma 37
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aumentano anche le somiglianze reciproche tra i due sessi” (ivi, p. 326). C’è di più: a partire dall’ipotesi di Meyrowitz si può arrivare a sostenere che a cambiare non siano stati solo i rapporti tra uomini e donne, ma anche le modalità di percezione interne ai due generi. Insomma: gli uomini e le donne hanno oggi accesso ad altre modalità dell’“essere maschio” e dell’“essere femmina”, a forme e modi della maschilità e della femminilità (si pensi a sessualità marginali o considerate devianti) con le quali magari non avevano mai dovuto confrontarsi, e delle quali hanno adesso almeno preso coscienza, se non altro per la quantità e la varietà di immagini e situazioni che la televisione ci mostra quotidianamente. Non può essere solo un caso, del resto – come sostiene Meyrowitz –, che il femminismo si sia sviluppato soprattutto in coincidenza con la prima generazione esposta ai media elettronici, e alla loro penetrazione del “mondo degli uomini” (né che l’aspetto androgino o femmineo dei “figli dei fiori” sia coinciso con quella prima generazione di maschi a cui i media mostrò il “mondo segreto delle donne”). È difficile stabilire, come fa Meyrowitz, se questa maggior consapevolezza abbia di fatto favorito i movimenti femministi e, più avanti, i movimenti gay e lesbici; rimane plausibile, tuttavia, che questa fusione dei retroscena delle rispettive sfere sessuali sia stata favorita dall’esposizione mediale di generi e sessualità su cui prima si sapeva poco o comunque meno di adesso. Tale dimensione, relativa alle identità di genere, si lega a un fenomeno correlato, relativo questa volta alla (con)fusione tra immaturità e maturità, tra mondo dei giovani e mondo degli adulti. Secondo Meyrowitz le tradizionali tappe della socializzazione del bambino nel mondo adulto (storicamente, peraltro, piuttosto recenti) sono state sconvolte dalla presenza della TV nel soggiorno di casa, che “trasporta i bambini attraverso il globo, prima ancora che abbiano il permesso di attraversare la strada” (ivi, p. 406). La stessa generazione della contestazione del Sessantotto (i “figli dei fiori” visti prima), in quanto prima generazione direttamente esposta ai media (e al loro svelare il retroscena degli adulti, che ne mise in mostra la bigotta ipocrisia), fu la generazione che coniò lo 38
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slogan “non fidarti di nessuno che abbia superato i trent’anni!”. Laddove il “mondo degli adulti” tentava di mascherare i propri comportamenti più intimi (e più infidi) nel proprio retroscena, la nuova generazione, al contrario, “metteva in mostra tutto”. Si trattava della prima generazione a cui la televisione mostrò i “panni sporchi” della “società perbene” degli adulti. Ebbene, il comportamento che i giovani dei movimenti contestatari assunsero come cifra identitaria è ben rappresentato da quello che Goffman definisce “comportamento da retroscena”, che consiste ad esempio nel profanare, fare apprezzamenti sessuali in modo aperto, vestirsi in modo informale, sedersi a terra e atteggiarsi “disordinatamente”, gridare, o avere uno scarsissimo autocontrollo a livello fisico – come masticare, ruttare o produrre flatulenza (Goffman 1959). Infine, la dimensione legata ai rapporti tra leadership e cittadinanza. Meyrowitz (1985) sottolinea la perdita dell’aura del leader politico nel momento in cui questi viene scrutato (spesso, invero, impietosamente) dalle telecamere e dagli obiettivi delle macchine fotografiche. La creazione di uno “spazio intermedio”, nuovo spazio mediatico che si aggiunge (senza tuttavia sostituirsi) a quelli di ribalta e retroscena, assicura al pubblico dei media un accesso alle informazioni sul leader politico assolutamente inedito. Un accesso che, in linea peraltro con la “logica dei media” (legata a forti elementi spettacolarizzanti), si caratterizza per i suoi aspetti più marcatamente espressivi ed emotivi (i tratti comportamentali che vengono normalmente relegati nello spazio del retroscena sociale). Nelle parole di Meyrowitz (ivi, p. 184): L’odierna tendenza a entrare in intimo rapporto con i nostri leader contiene un paradosso fondamentale. Nel tentativo di soddisfare il nostro desiderio di essere “vicini” ai grandi personaggi, o di confermare la loro grandezza attraverso un contatto sempre più stretto con loro, spesso distruggiamo la loro capacità di funzionare come grandi personaggi. La “grandezza” si manifesta nelle azioni di primo piano e, per definizione, nella sua separazione dai comportamenti tra le quinte. 39
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Né si tratta solo della “perdita dell’aura” o di una desacralizzazione del ruolo del leader politico; l’accesso a quella che nell’analisi dei “territori del self” era la “riserva d’informazione” porta anche a mostrare, questa volta davvero fuor di metafora, che il re è nudo: La prospettiva da palcoscenico laterale offerta dalla televisione trasforma le normali alternanze nel comportamento in dimostrazioni di incoerenza o di disonestà. Tutti ci comportiamo in modo diverso in situazioni diverse, a seconda di chi c’è e di chi non c’è. Ma quando i notiziari televisivi mostrano delle sequenze filmate in cui si vede un politico che dice e fa cose diverse in luoghi diversi e davanti a pubblici diversi, nei casi migliori il politico appare indeciso ma, nei casi peggiori, appare disonesto […]. Le telecamere invadono le sfere individuali dei politici come spie che penetrano nei retroscena. Li osservano sudare, li vedono fare delle smorfie dopo una frase mal riuscita, li registrano freddamente quando soccombono alle emozioni e quasi annullano la distanza tra pubblico e attore […]. Le telecamere offrono al pubblico una ricca gamma di informazioni espressive; mettono in risalto la caducità dei politici e riducono la retorica astratta e concettuale. Se la retorica verbale può trascendere l’umanità e raggiungere la divinità, spesso le informazioni intime ed espressive mettono a nudo le debolezze umane (ivi, pp. 462-463). Con questo non si vuole sostenere che l’accesso al retroscena del leader politico giochi esclusivamente a suo svantaggio: al contrario, spesso i leader sfruttano questa possibilità di vicinanza espressiva ed emotiva offerta dai media per mostrarsi più vicini ai propri elettori, anche se non sempre è facile gestire completamente lo scrutinio delle telecamere una volta che queste si sono insediate nel “dietro le quinte”. Alcuni leader sono divenuti famosi per aver gestito bene questa risorsa (Ronald Reagan negli Stati Uniti, Silvio Berlusconi in Italia), ma vi è molta differenza tra la “gestione del self” in trasmissioni televisive in cui ci si presenta ad hoc (e nelle quali rimane comunque l’elemento aleatorio del rischio, e il peri40
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colo di “perdere la faccia”) e immagini come quelle delle dirette di lunghe sedute alla Camera, dove sempre più spesso alcuni politici vengono sorpresi dalle telecamere nelle posture corporee più informali, nonché alle prese con deiezioni corporali – una trasmissione italiana come Striscia la notizia ha basato gran parte del proprio notevole successo esattamente su “dietro le quinte” di questo tipo. Di conseguenza, nonostante una buona competenza nella gestione della “presentazione di sé”, lo scrutinio delle telecamere può sfuggire (almeno parzialmente) al controllo: “se i politici tentano con ogni mezzo di strutturare il contenuto di quanto presentato ai media, la forma di quanto viene registrato cambia la natura dell’immagine politica” (ivi, p. 465). La logica della ridefinizione della soglia tra ribalta e retroscena proposta da Meyrowitz ha una qualche parentela con l’idea di Vattimo della “società trasparente” resa possibile proprio dall’estrema visibilità che i media assicurano ad aspetti della vita sociale prima relegati a un umiliante retroscena. Secondo Vattimo (1989) la caratteristica postmoderna del panorama mediatico contemporaneo fa sì che si sia avuta una pluralità di Weltanschauungen, cioè di “visioni del mondo”, di punti di vista sulla realtà e sul modo di conoscerla. Questa pluralità non garantisce una forma di “trasparenza”, quasi come se ci fosse una – e solo una – realtà da conoscere, e che i media ci permettono di conoscere: al contrario, il risultato di tutto questo è un effetto di “spaesamento”, un’erosione dello stesso “principio di realtà”. Ma come è possibile che proprio in questo consista, per Vattimo, il carattere emancipatorio dei media? Spiega il filosofo: Qui, l’emancipazione consiste piuttosto nello spaesamento, che è anche, nello stesso tempo, liberazione delle differenze, degli elementi locali, di ciò che potremmo chiamare, complessivamente, il dialetto. Caduta l’idea di una razionalità centrale della storia, il mondo della comunicazione generalizzata esplode come una molteplicità di razionalità “locali” – minoranze etniche, sessuali, religiose, culturali o estetiche – che prendono la parola, finalmente non più tacitate e represse dall’idea che ci sia 41
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una sola forma di umanità vera da realizzare, a scapito di tutte le peculiarità, di tutte le individualità limitate, effimere, contingenti (Vattimo 1989, pp. 17-18). L’effetto di spaesamento è dovuto al fatto che, di fronte a tale pluralità di “dialetti”, ci rendiamo conto che la nostra non è la sola lingua, ma che ne esistono altre, di pari dignità. Questo ci porta a prendere atto della limitatezza e della contingenza degli altri sistemi di valori, a cominciare naturalmente dal nostro. In maniera molto evocativa e suggestiva, Vattimo traccia un parallelo tra questo soggetto postmoderno e il Superuomo di Nietzsche: il processo appena descritto, infatti, è quello che Nietzsche, in una pagina della Gaia Scienza, chiama il “continuare a sognare sapendo di sognare”. È possibile qualcosa del genere? L’essenza di quello che Nietzsche ha chiamato il “superuomo” (o oltreuomo), lo Übermensch, è tutta qui: ed è il compito che egli assegna all’umanità del futuro, proprio nel mondo della comunicazione intensificata (ivi, p. 18). In questa sovrapposizione – molto postmoderna, in effetti, ma comunque di grande fascino – tra Superuomo nietzschiano e fruitore dei media si gioca la sola forma di conoscenza possibile oggi: una forma frammentaria, destinata probabilmente a non darsi mai interamente (ma ci sarà una sua “interezza”, poi?), destinata a una pluralità di interpretazioni. 4. La spirale del silenzio Torniamo per un momento a Goffman. O meglio, a un suo collega che così ci racconta il suo sguardo sul mondo e sul comportamento delle persone. Si tratta di Bennett Berger, collega e amico di Goffman, che ci presenta il sociologo canadese in questo modo: C’è in Goffman una sorta di avventuriero morale nietzschiano, meno interessato alla giustizia o ingiustizia delle stesse regole che all’osservazione di che cosa la rottura di queste o l’obbe42
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dienza a queste rivela in merito al coraggio delle persone di rischiare il proprio senso del self e il micro-ordine da cui esso dipende. Ma insieme all’avventuriero c’è anche una sorta di vittoriano prudente, rispettoso delle regole delle occasioni formali e profondamente colpito dal potere delle cerimonie e dei rituali nel governare anche i più reconditi recessi della natura umana e tenere a bada “il selvaggio” […]. Questa sua sistematica ambivalenza aiuta anche a spiegare la peculiare malinconia delle sue spiegazioni ironiche. Alla ricerca di le mot juste, le brillanti divagazioni di Goffman spesso terminano con un’alzata di spalle, un ripiegamento degli angoli della bocca a labbra chiuse, le braccia alzate in un atteggiamento di impotenza: come se dicesse “in effetti non mi piace particolarmente ma è così”. È certo che la paura dell’umiliazione o dell’imbarazzo potrebbero non essere considerate tra i più nobili motivi degli esseri umani. Ma Goffman non si legge per trovare ispirazione o per ricaricarsi emotivamente o per affermare sentimenti umanistici. Si arriva a Goffman per trovare le verità delle interazioni umane. Per Goffman quelle verità sono spesso fredde (Berger 2001, pp. 20-21). “È certo che la paura dell’umiliazione o dell’imbarazzo potrebbero non essere considerate tra i più nobili motivi degli esseri umani”, dice dunque Berger. Eppure, dobbiamo ammettere che spesso è proprio questa paura a muovere l’azione degli individui. E questo non riguarda solo la sfera della comunicazione interpersonale, ma anche la sfera della comunicazione di massa, con notevoli ricadute sui suoi effetti. Una importante teoria degli effetti dei media, la “spirale del silenzio”, proposta da Elisabeth NoelleNeumann (1980), parte proprio dalle considerazioni di Goffman sull’imbarazzo nell’interazione sociale per dire qualcosa sugli effetti che i media possono avere sull’opinione pubblica. La teoria della “spirale del silenzio” si occupa dell’esposizione delle persone, condannate oggi a un sempre maggior individualismo, alle opinioni e ai contenuti espressi quotidianamente dai media, e tenta di collegare questi due aspetti della vita quotidiana 43
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contemporanea. L’ipotesi di partenza della teoria della spirale del silenzio è appunto che oggi i cittadini, “chiusi” in un individualismo solipsistico, non solo sono chiamati a trovare soluzioni individuali per i propri problemi ma sono anche esposti al timore di rimanere ulteriormente isolati (un timore alimentato peraltro dalla capacità con cui la società marginalizza e rende “invisibili” i devianti di ogni sorta). Ciò porta gli individui a ispirarsi a ciò che dicono e fanno i media, attenendosi alle loro interpretazioni della realtà e alle opinioni che essi veicolano, ritenendo che tali opinioni siano quelle condivise dalla larga maggioranza delle persone (laddove, magari, sono solo quelle di una più o meno ristretta élite). I media tenderebbero, così, a innescare appunto una “spirale del silenzio”, dove le opinioni personali di un individuo, quando non espresse ampiamente dai media, vengono ritenute di minoranza e quindi non espresse, ridotte al “silenzio”, in una “spirale” che porta alla sostanziale cancellazione di tali opinioni. Le opinioni veicolate dai media tenderebbero così a divenire dominanti, mentre quelle alternative scomparirebbero (o risulterebbero fortemente ridimensionate) nel silenzio. È importante sottolineare come la teoria della “spirale del silenzio” parta dal presupposto che gli individui, in quanto “animali sociali”, non possono prescindere da questa socialità, dall’opinione pubblica insomma, e in qualche modo “soffrono” questo vincolo. Le persone sanno che, per essere accettate dagli altri, devono in qualche modo “adattarsi” a quello che è il “comune sentire” della maggioranza delle persone, pena l’esclusione sociale, a meno che non ci si trovi in presenza di “eroi”, che hanno il coraggio di affermare la propria unicità davanti al mondo. Dal momento che la teoria prende le mosse dal contesto politico-elettorale, NoelleNeumann spiega subito che non si tratta di un comportamento per cui, una volta colto come “gira il vento”, ci si voglia accodare al vincitore (il cosiddetto bandwaggon effect, ovvero correre dietro al carro della banda, in testa al corteo). “Essere dalla parte del vincitore? La maggior parte delle persone probabilmente non è affatto così esigente. Anche perché, a differenza delle élite, dalla vittoria 44
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non si aspetterebbe certo incarichi e potere. Si tratta invece di qualcosa di molto più modesto, dello sforzo, che apparentemente tutti gli uomini condividono, di non isolarsi” (Noelle-Neumann 1980, p. 40). Per la studiosa tedesca non si tratta nemmeno di giustificare un comportamento da “banderuole”, o da “pecoroni”: ciò che muove questa teoria è l’intento di “chiarire il potere straordinario dell’opinione pubblica. Si ha meno paura di questo potere quando lo si capisce. Ci si culla meno nell’illusione di essere razionali, del tutto indipendenti dalla pressione dell’opinione pubblica. E si giudica con minore arroganza coloro i quali in diverse circostanze hanno dovuto adattarsi all’opinione pubblica” (ivi, p. 32). Si tratta di un’esperienza che, al di là della dimensione politicoelettorale, facciamo tutti quanti, quasi quotidianamente: quando siamo convinti di essere in accordo con il consenso del pubblico sentire, dell’opinione pubblica, prendiamo parte al discorso in pubblico, e manifestiamo le nostre convinzioni in vari modi, dagli adesivi attaccati ai finestrini della nostra auto fino alle scritte sulle T-shirt, per arrivare all’abbigliamento in generale, e con altri simboli visibili a tutti (si pensi alle bandiere della pace esposte dalla finestra di casa); quando riteniamo di essere in minoranza ci facciamo prudenti e taciturni, rinforzando l’idea di appartenere a una “minoranza”. Questo perché noi sappiamo benissimo che la società, nei confronti degli individui devianti, ha sempre pronta la minaccia dell’isolamento, e questa è una minaccia che noi temiamo particolarmente. Sembra quasi che per la studiosa tedesca il doversi adeguare alla pubblica opinione sia uno scotto da pagare alla socialità, una sofferenza, una condizione quasi tragica dell’uomo. Non a caso Noelle-Neumann prende le mosse proprio dagli studi di Goffman sull’interazione faccia a faccia e sulle dinamiche relative all’imbarazzo e alla stigmatizzazione sociale, sottolineando come il sociologo canadese colga in ogni sua opera “la natura sociale dell’uomo, la sofferenza da essa derivante” (ivi, p. 342). Sarà forse per questo che l’immagine scelta come metafora per la sua teoria sia la spirale, un’immagine arcana, antica e un po’ misteriosa, che tra le sue spire “avvolge con il silenzio la percezione del divenire minoranza 45
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della propria opinione, e aderisce al comportamento sociale come una seconda pelle” (Cristante 2002, p. 15). 5. L’etnografia del consumo dei media L’etnografia del consumo dei media è un tipo di ricerca dove l’osservazione partecipante tipica dell’etnografia sociale viene applicata ai pubblici dei media, dove quindi l’etnografo si siede in salotto con le persone e guarda come queste guardano la TV. Dal punto di vista epistemologico, l’analisi etnografica del consumo dei media è fortemente debitrice degli apporti dell’etnometodologia, la disciplina sociologica che, in una prospettiva micro-interazionale, studia i processi attraverso i quali gli individui rendono intelligibile la realtà, i “metodi” che essi utilizzano per dare senso al mondo che li circonda. In uno dei lavori pionieristici dell’etnografia dei media James Lull (1990) ne riconosce l’ascendenza etnometodologica, dal momento che l’attenzione di tale approccio si concentra “sugli aspetti etnometodologici della visione della TV, un’analisi a livello micro-sociale che situa il consumo televisivo all’interno dei contesti normativi della vita familiare quotidiana” (Lull 1990, p. 22). È importante sottolineare in questa sede come gli studi etnografici del pubblico mediale si concentrino non sulla comunicazione di massa e i suoi effetti sulle persone, ma sulla comunicazione interpersonale che ha luogo tra i membri del pubblico oggetto dell’analisi. Sotto l’esame dell’etnografo sono quindi tutti quei “metodi”, legati al consumo dei media, che gli individui adottano per lo più dandoli per scontati, e mediante i quali essi realizzano quei practical accomplishments che fondano e orientano l’azione. In ultima analisi, l’etnografia del consumo dei media è un “viaggio all’interno del senso comune della televisione” (Mancini 1991, p. 17) che ci restituisce una descrizione di cose che sappiamo fare, e anche con una notevole perizia: ci restituisce tutta quella dimensione dell’esperienza quotidiana e delle sue pratiche, con le sue azioni banali e date per scontate, che sono poi quelle procedure messe in atto dagli attori per costruire il senso del proprio agire nonché il proprio self. In questo modo, un approccio qualitativo allo studio del pubblico dei media restituisce la ricostruzione della realtà attra46
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verso il “recupero del mondo degli individui” (Schwartz, Jacobs 1979, p. 46), in una delle attività che sono divenute tra le più comuni nella vita quotidiana e dove i media possono venire considerati come vere e proprie risorse sociali (Lull 1990). Le pratiche sociali del consumo dei media, con i rituali dell’interazione che queste mettono in atto all’interno del contesto di fruizione, possono appunto essere registrate mediante una prospettiva etnografica, dove l’etnografo entra negli spazi del consumo (il soggiorno, la sala da pranzo, la cucina…) per osservare comportamenti e dinamiche interazionali tra gli attori/spettatori. Vediamo allora più nel dettaglio le principali ricerche che hanno mostrato alcune di queste dinamiche. Si tratta, come abbiamo detto, di affrontare lo studio del pubblico da una prospettiva che vede i telespettatori, i lettori e gli ascoltatori come attori impegnati nell’applicazione di pratiche sociali nel ragionamento concreto della vita quotidiana e nella celebrazione dei piccoli rituali dell’interazione. In questo senso, vale la pena continuare a riferirsi alle analisi del pioniere della ricerca etnografica del pubblico dei media, James Lull (1990). Consideriamo Lull non solo perché l’autore statunitense è stato fra i primi a proporre un approccio etnografico allo studio dei media, ma anche perché le sue prospettive e le sue conclusioni sono fra le più articolate nel contesto di una sociologia qualitativa del consumo mediale. Dall’analisi etnografica di quasi 300 nuclei familiari Lull ha elaborato una tipologia degli usi sociali della televisione che rende conto delle dinamiche interazionali e rituali che hanno luogo nel corso della visione della TV. Questa tipologia prevede due diversi modelli di uso della televisione: strutturali e relazionali. 1. Usi strutturali: rientrano in questa categoria tutti quegli usi che vedono la televisione impiegata essenzialmente come sottofondo, cioè come riempitivo o come semplice compagnia. In particolare, si parla di usi ambientali quando la televisione fa parte dell’ambiente domestico e lo struttura (quando, appunto, la televisione viene vista come “rumore di fondo”, che fa compagnia mentre si 47
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fanno altri lavori), mentre si parla di usi regolativi quando ci si riferisce alla capacità che ha la televisione di regolare e strutturare la giornata nei suoi tempi sociali, come ad esempio nell’ora di pranzo o di cena. 2. Usi relazionali: sono quelli che vedono l’utilizzo della televisione come strumento per la “celebrazione” dei piccoli rituali dell’interazione quotidiana. L’apparecchio televisivo, infatti, può facilitare la comunicazione tra i membri della famiglia (o del gruppo raccolto intorno al televisore), può favorire un senso di appartenenza o di esclusione, è fonte di apprendimento sociale e, infine, esplicita determinate competenze o determinate relazioni di potere tra i componenti familiari. Ma vediamo con ordine. Nel primo caso (la facilitazione della comunicazione), la fruizione dei programmi televisivi facilita la comunicazione offrendo sia argomenti che modalità di conversazione comuni. Spesso, in effetti, sono gli stessi contenuti televisivi a fornirci un’agenda per la conversazione, laddove altrimenti non si riuscirebbe a trovare argomenti. Ma la televisione crea anche occasioni di contatto interpersonale, così come crea la possibilità di evitare tale contatto; può quindi creare un senso di appartenenza (o contribuire a rafforzarlo) così come può essere utilizzata per sfuggire all’ambiente sociale e alle interazioni (rituali) che esso spesso richiede. Ancora: la televisione favorisce numerose possibilità di apprendimento delle norme che regolano lo stare insieme nella società, quelle norme che regolano i “balletti rituali” della vita quotidiana. Infine, la televisione esplicita le competenze individuali e rende evidenti le relazioni gerarchiche all’interno del nucleo familiare. Vedere la televisione diviene così un ulteriore territorio in cui si esplicano i giochi di ruolo all’interno della famiglia: con ciò, si ha un uso dimostrativo del proprio ruolo. Come si può facilmente notare, alcune delle evidenze della ricerca di Lull sono in gran parte controintuitive: pochi, infatti, sarebbero pronti a sostenere che la televisione faciliti i processi comunicativi o lo svolgimento delle piccole cerimonie che costellano la vita quotidiana degli attori sociali; eppure, è proprio grazie a un approccio 48
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qualitativo come quello etnografico che la letteratura sugli effetti sociali dei media ci permette di arrivare a certe conclusioni, peraltro confermate dalla maggior parte degli studi, sia all’estero che in Italia. E non è tutto: è possibile infatti distinguere almeno tre modalità di visione (Lindlof, cit. in Lull 1990, p. 165): la “visione focalizzata” (focused viewing), dove la fruizione è l’attività primaria e l’attenzione si concentra completamente sui contenuti mediali; il “monitoraggio” (monitoring), dove alla fruizione si sovrappongono e si alternano altre attività – come preparare da mangiare durante la trasmissione del telegiornale –; e infine la “visione passatempo” (idling), dove l’investimento dell’attenzione è minimo e la fruizione è del tutto discontinua, una semplice distrazione momentanea (per inciso, tali modalità di visione, spesso frammentarie se non completamente distratte – verificate in numerose analisi etnografiche del consumo dei media – dovrebbero fare riflettere sulla reale portata degli effetti dei mezzi di comunicazione di massa sui loro pubblici). David Morley ha condotto una ricerca etnografica sul consumo di un programma televisivo (Nationwide – cfr. Morley 1980) nelle cui intenzioni, che erano quelle di verificare il modello di codifica/decodifica di Stuart Hall, si può leggere l’attenzione per i contesti sociali e culturali della fruizione: essa non viene vista esclusivamente come un atto, cioè come l’attività di decodifica di un testo mediale, ma anche come situazione, cioè come un contesto spaziale-temporale e relazionale in cui ha luogo l’interazione con il suo corredo di rituali. E ancora: i contenuti mediali sono una serie di discorsi, intesi come modi di parlare o di pensare prodotti socialmente e socialmente controllati e sanzionati, che si incontrano e vanno a interagire con i discorsi dello spettatore (quelli attraverso cui lo spettatore stesso attribuisce senso alla propria esperienza sociale), generando quel processo di negoziazione tra i significati dei messaggi mediali e i significati derivanti dall’esperienza pregressa dei consumatori. Il consumo televisivo, così, diviene un’interazione almeno duplice: da una parte quella tra i contenuti e gli spettatori, dall’altra quella, altamente ritualizzata, tra i membri del gruppo di spettatori. 49
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La ricerca etnografica del consumo dei media ha mostrato come alcuni contenuti mediali costituiscano delle vere e proprie risorse sociali, cioè attivino una serie di processi di identificazione che contribuiscono a produrre, riprodurre o rafforzare un senso di identità degli individui e di appartenenza a determinati gruppi sociali o comunità. Per cominciare, i media attivano la formazione di una serie di reti discorsive: la gente discute e commenta il contenuto dei programmi che ha visto. Particolare attenzione a questo proposito è stata prestata alle cosiddette “comunità interpretative”, cioè quelle “entità sociali (che possono o meno corrispondere a gruppi istituzionalmente delimitabili) basate sulla fruizione comunicativa, il cui senso per i partecipanti sta nel condividere le medesime esperienze riguardo a tecnologie, codici, contenuti, occasioni sociali, rituali comunicativi” (Wolf 1992, p. 131). Per fare un esempio, si pensi a un programma di grande successo come il Grande Fratello. Nei giorni di programmazione di questo reality show è comune imbattersi per strada, sul treno o sul bus in persone che discutono quanto avviene la sera prima nel corso della trasmissione e commentano i vari protagonisti e i loro comportamenti. Diverse ricerche di etnografia dei media hanno mostrato come ciò avvenga al livello di appartenenza di gender: per esempio, il consumo di alcuni tra i generi più popolari tra il pubblico femminile, come le soap opera o i romanzi rosa, è stato considerato come un atto di appropriazione da parte delle donne di un prodotto che esse reinterpretano conferendogli un senso diverso da quello che gli era stato dato originariamente. La visione delle soap opera, anche quando individuale, permette il formarsi di piccoli gruppi all’interno dei quali è abituale lo scambio di opinioni e discussioni sul programma che si è visto (o che non si è visto). Dalla ricerca di Ang (1985) sulle spettatrici di Dallas risulta che la loro identificazione con i personaggi e le situazioni della serie non si basa, ingenuamente, su quanto mostrato a livello denotativo (dal momento che si tratta di personaggi e situazioni al di fuori della loro vita quotidiana), ma sul livello connotativo della narrazione, su un “realismo emozionale” che rende realistiche le vicende su un piano 50
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emotivo. In modo simile, le lettrici dei romanzi rosa della ricerca di Radway (1987) affermano di ritagliarsi un proprio spazio (e un proprio tempo) per l’appuntamento con questi libri. A fronte di questa sorta di “romanticizzazione del pubblico” esistono naturalmente posizioni più problematiche, che sottolineano come questi comportamenti di fruizione, pur rappresentando “sacche di libertà” per le spettatrici di fiction femminile, tendano pur sempre a confinare letture e usi di questi contenuti all’interno di un “mondo femminile”, fatto di lavori casalinghi, sogni a occhi aperti e fughe dalla realtà solo immaginarie. Le stesse soap opera sono state al centro di altre ricerche etnografiche che hanno mostrato un’ulteriore dimensione della costruzione identitaria che il consumo mediale consente ai pubblici, e cioè quella dell’“identità culturale”. Al di là della provenienza del prodotto consumato, va infatti tenuto conto che i pubblici sono situati, e non solo nelle “culture” locali (un’espressione che andrebbe problematizzata), ma soprattutto all’interno di determinati contesti di appartenenza e di esperienza, ognuno dei quali si differenzia dall’altro per modi di pensare, di agire, e a ognuno dei quali corrispondono diverse competenze nella lettura dei prodotti mediatici. Così, prodotti televisivi provenienti dagli Stati Uniti sono stati studiati nell’uso che ne fanno pubblici di nazioni diverse, come nel caso del consumo di Dynasty in Norvegia (Grisprud 1995) e di Dallas in Olanda (Ang 1985), in Australia (Michaels 1988) e in Israele (Katz, Liebes 1990). Da tutti questi studi emerge come i pubblici non solo rispondano in maniera profondamente diversa in base alle diverse culture e sottoculture di consumo, ma anche come tali contesti locali abbiano un effetto che tende a modificare i prodotti stessi rispetto ai loro codici d’origine. Lull (1995) parla, a questo proposito, di un processo suddivisibile analiticamente in tre fasi: transculturalità, ibridizzazione e indigenizzazione. La prima fase costituisce il momento in cui si riconosce l’esistenza di culture diverse dalla propria, e rappresenta una prima apertura verso queste; con la seconda fase avviene un’integrazione tra la cultura d’origine e altre forme ed espressioni culturali; infine, l’indigenizzazione corrisponde a un “ritorno alla tradizione”, 51
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che tiene però conto delle revisioni della fase precedente, e che quindi si risolve in una vera e propria ricostruzione (o reinvenzione) dell’identità culturale della comunità, sulla base di elementi e materiali dalle provenienze più disparate. Il riferimento a concetti come “tradizione inventata” e “comunità”, immaginata o meno, ci porta a una possibile conclusione di questo percorso, che ha inteso esplorare l’effettivo oggetto dello studio della communication research, muovendo dalla domanda “di che tipo di comunicazione si occupa la ricerca sui media?”. A vedere quanto abbiamo appena detto sullo studio delle “comunità di pubblici” e delle loro dinamiche di produzione e riproduzione di un senso identitario basato (anche) sul consumo dei media, sembrerebbe che i processi comunicativi, che siano interazionali o quasi-interazionali e mediati, giocano un ruolo non indifferente nella costruzione di identità e appartenenze identitarie. Sia che si tratti di comunità “immaginate” (come nel caso dei mezzi di comunicazione di massa), sia che si tratti di comunità “virtuali” (come con i nuovi media), ci troviamo comunque di fronte a descrizioni dei pubblici dei media come di gruppi che definiscono la propria identità grazie soprattutto agli strumenti e alle tecnologie della comunicazione. Era Erving Goffman a mostrare come già con i rituali minimi della comunicazione interpersonale nella vita quotidiana rappresentiamo continuamente la nostra identità; ebbene, anche con la comunicazione mediata i processi comunicativi che ci vedono impegnati come pubblici e utenti sembrano definirsi principalmente nella loro capacità di conferirci un’identità, questa volta in termini “comunitari”. L’approfondimento dello studio e dell’analisi di questo tratto identitario e comunitario, nel suo rapporto con le diverse dimensioni dei processi comunicativi favoriti dai media, rappresenta una sfida interessante per gli studiosi della comunicazione e della società. Riferimenti bibliografici Ang, I. (1985), Watching “Dallas”: Soap Opera and the Melodramatic Imagination, Methuen, New York. 52
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“Non si interrompe un’emozione”: si disperde. Percorsi nella TV che cambia FRANCESCA PASQUALI
Il venticinque settembre milleduecentosessantaquattro, sul far del giorno, il Duca d’Auge salì in cima al torrione del suo castello per considerare un momentino la situazione storica. La trovò poco chiara. Raymond Queneau, I fiori blu
eduto sulle proprie consapevolezze disciplinari chi osserva (ma anche chi fa) i media si trova oggi in una situazione per molti aspetti simile a quella del Duca d’Auge: contempla la confusione. Confusione di mezzi, linguaggi, ruoli, e di categorie analitiche diventate improvvisamente inadatte a interpretare l’ondata di mutamento che investe i media. New e old, mass e personal: le dicotomie che solo fino a pochi anni fa disciplinavano il campo dei media e della comunicazione mediata non funzionano più (se mai hanno funzionato), a fronte delle ridefinizioni che attraversano il sistema dei media e ai nuovi orientamenti della relazione fra persone e mezzi di comunicazione. Le parole chiave (interattività, convergenza, multimedialità e mille altre) usate e abusate per spiegare il mutamento mostrano la propria fragilità non solo interpretativa ma anche descrittiva, e risultano inesorabilmente parziali. Particolari difficoltà incontrano poi quanti si occupano di televisione, che si trovano ad affrontare una serie di processi solo parzialmente connessi: la trasformazione tecnologica – ma anche i cambiamenti di routine produttiva e di modelli di organizzazione economica – innescata dal passaggio dalla TV analogica a quella digitale; la diversificazione del mercato con l’ingresso di nuovi attori; l’emorragia di spettatori che investe la televisione generalista
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e che solo parzialmente è assorbita dalla TV digitale tematica (che viceversa riesce a catturare pubblici non televisivi). Si tratta di una situazione complessa, a tratti indecifrabile, che tuttavia è troppo facile liquidare formulando l’ipotesi della “fine della TV”, se non altro per il numero degli spettatori che la televisione continua ad aggregare, e per la centralità economica ma anche simbolica che conserva. D’altra parte al clima da fine della televisione si oppone la consapevolezza che, nella sua storia, la TV ha cambiato più di una volta la propria pelle, facendo i conti con mutamenti d’assetto spesso profondi.1 Si torni con la memoria ai primi anni settanta quando le fatine buone e i grilli parlanti che popolavano lo schermo televisivo improvvisamente si trovarono a condividere il tubo catodico con maghi, opinionisti da Bar Sport, fenomeni da baraccone, tele-imbonitori e tele-predicatori, o con improbabili trasmissioni di cultura locale, cartoni animati giapponesi, film mandati in onda in spregio a ogni norma sul diritto d’autore. Si ripensi a quando in Italia nasceva la televisione privata: all’inizio via cavo (con chilometri di fili che univano condomini, bar, quartieri, come nel caso di Telemilanocavo, realizzata a Milano 2 e destinata a divenire il primo tassello dell’impero televisivo berlusconiano) poi via etere. Biella, Firenze, Napoli, Bari: in tutta Italia nascevano, prosperavano, più spesso naufragavano, decine di emittenti televisive locali, in violazione al monopolio Rai e alla quadratura pedagogica della TV di servizio pubblico. Anni di battaglie in tribunale, di irruzioni della polizia, di occupazioni illegali delle frequenze. Tutto in nome della libertà di parola e di televendita. Anni di selvaggia sperimentazione tecnologica e linguistica, nei quali si sono bruciati patrimoni e creati imperi: un brodo primordiale da cui uscì nel 1984 il duopolio Rai-Fininvest, alla cui ombra hanno campato e spesso prosperato centinaia di emittenti locali. Nel frattempo, il pubblico della te1. Peraltro che i media cambino è un dato di fatto che il senso comune tende a dimenticare ma che è evidente all’analisi storica. Su questo aspetto si vedano ad esempio P. Flichy, Storia della comunicazione moderna. Sfera pubblica e dimensione privata (1991), Baskerville, Bologna 1994 e A. Briggs, P. Burke, Storia sociale dei media. Da Gutenberg a Internet (2001), il Mulino, Bologna 2002.
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levisione pedagogica si trasformava nell’audience della TV commerciale: soggetto che non ha mai abitato nessun luogo – se non le tabelle dei pianificatori di pubblicità e dei costruttori di palinsesti – da massimizzare, misurare, e aggregare secondo la regola aurea del minimo comune denominatore.2 La televisione italiana diventava, con una rivoluzione spesso inavvertita dal pubblico (troppo impegnato a goderne o a stigmatizzane i frutti), la neotelevisione, consolidava i propri assetti economici e giuridici, istituiva nuovi patti fruitivi con gli spettatori:3 prendeva, in sostanza, una nuova forma storica. Non è la prima volta, dunque, che la televisione cambia pelle. Però qualcosa di nuovo c’è. Negli anni settanta/ottanta si inaugurava una fase esplosiva della TV che si apprestava a fare incetta di pubblico e di risorse economiche.4 Oggi invece il cambiamento si innesta in uno scenario altamente competitivo e nel quadro di un sistema mediale che si sta trasformando in toto, sotto la spinta del processo tecno-sociale della digitalizzazione dei media e della vita quotidiana.5 Da una parte si sono moltiplicate le piattaforme d’accesso all’offerta televisiva (il satellite ma anche la TV via Internet che rende disponibile una quantità di canali inimmaginabile negli anni ottanta) e ad altri media istituzionalizzati (pensiamo al web e alla sua offerta di contenuto di provenienza mediale). Dall’altra si sono moltiplicati gli strumenti di comunicazione e interazione mediata orizzontale: il fenomeno blog e tutte quelle forme di partecipazione e relazione online che vanno sotto il nome di web 2.0 che costruiscono un nuovo tessuto simbolico, un costante flusso di comunicazione che si integra con i media istituzionali nei processi di costruzione di senso ma che pure va a competere con la TV e gli altri media sulla risorsa tempo nella vita delle persone.6 2. I. Ang, Cercasi audience disperatamente (1991), il Mulino, Bologna 1998. 3. F. Casetti, R. Odin, De la paléo à la néo-télévision. Approche sémiopragmatique, “Communications”, 51, 1990. 4. Sull’alternanza di fasi implosive ed esplosive nella storia dei media si veda P. Ortoleva, Mediastoria, Pratiche, Parma 1995. 5. F. Colombo (a cura di), Atlante della comunicazione, Hoepli, Milano 2005. 6. H. Jenkins, Convergence Culture: Where Old and New Media Collide, New York University Press, New York 2006.
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È difficile restituire un quadro esaustivo di ciò che sta accadendo. Alcune evidenze però ci sono. In primo luogo si può affermare che l’offerta televisiva diventa sempre più specifica, con l’avvento e il successo della TV tematica (in Italia, ad esempio, le reti aggregate nei bouquet di Sky) ma anche con le contromosse delle emittenti generaliste che tendono a creare aree tematiche interne alla propria offerta, giocando ad esempio sulla integrazione/complementarietà delle diverse piattaforme distributive (TV analogica e digitale, Internet, mobile ecc.), progettando programmi adatti a una fruizione a più livelli e in diverse situazioni comunicative. E d’altra parte, sul versante della fruizione televisiva, è chiaro che da tempo i pubblici sono impegnati in una ridefinizione del loro rapporto con i media rispetto sia al ruolo sociale esercitato dai mezzi di comunicazione, sia a tecnologie, luoghi, tempi, e modalità di fruizione. Abbandonata l’idea che il pubblico televisivo sia una massa informe, terminale passivo del discorso televisivo, ma anche l’idea di un pubblico target da esporre al medium televisivo come pretesto per il consumo materiale, la letteratura sui media parla in questi anni di audience “attive” e “diffuse”.7 È una definizione in realtà assai vaga (oltre che vagamente consolatoria) che tuttavia ha almeno due meriti. Da un lato, il concetto di audience “diffusa” sottolinea come tutti siano ormai costantemente parte di un pubblico, a prescindere dall’effettiva esposizione a una qualche forma di performance mediale e dalla natura di quella performance. Dall’altro, l’idea dell’audience “attiva” evidenzia come le persone siano impegnate in atti di mediazione in cui si compiono (più o meno) consapevolmente scelte di consumo che sono rifunzionalizzate, almeno in parte, a definire identità e appartenenze. La fruizione mediale, in altri termini, viene così descritta come un’attività complessa, articolata e attiva, come una performance all’interno di un gioco di potere in cui si combinano fruizioni rituali e quotidiane, dispendio ed efficienza. Mentre lo spettatore televisivo emerge come sempre più consapevole del funzionamento della macchina 7. N. Abercrombie, B. Longhurts, Audiences, Sage, London 1998.
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produttiva, sempre più attivo e pragmatico – il che non significa necessariamente più “resistente”, secondo le categorie di derivazione critica – nell’orientamento delle proprie scelte, effettuate ponendo il sé al centro del consumo simbolico (così come viene teorizzato, ormai da tempo, anche nel campo dei consumi materiali). D’altra parte anche l’avvento della TV tematica, l’affermarsi di una molteplicità di canali distributivi dei prodotti televisivi e della TV on demand parlano di una relazione fra TV e pubblico via via più individualizzata nelle scelte fruitive e nella relazione di interpretazione/riappropriazione dei testi mediali. Certo, le TV commerciali hanno sancito, fin dai loro esordi, la fine della TV di massa: da tempo, attraverso lo strumento del palinsesto che disciplina l’organizzazione dei contenuti e dei pubblici televisivi, anche le emittenti generaliste segmentano infatti le proprie audience al fine di rendere più efficiente l’inserimento pubblicitario e di creare target da predisporre all’acquisto di merci. Tuttavia oggi questo aspetto è esasperato e per certi versi invertito. Ora, almeno potenzialmente, esistono tante televisioni quanti pubblici, e la TV come istituzione deve fare i conti non tanto con la propria capacità di segmentare le audience, quanto con la crescente spinta dei pubblici a mettersi al centro dei processi di fruizione televisiva, a selezionare testi (e contesti d’uso) coerenti con un più ampio agire di consumo di cui la TV costituisce una parte importante (grazie alla propria capacità di messa in scena e di orientamento) ma non l’unica parte. La televisione insomma sta diventando “di nicchia”, entrando in risonanza con stili di via e profili di consumo di un pubblico che non è più una massa, e nemmeno più un target da vendere agli inserzionisti pubblicitari, ma piuttosto è una somma di pratiche di relazione messe in atto da soggetti “mobili” che si spostano fluidamente fra testi, tecnologie mediali, e beni materiali.8 Ed è forse questa l’acquisizione centrale dei più recenti studi sulle audience, la vera novità della TV di oggi: la relazione ormai pa8. Sulla prossimità fra la mediazione simbolica della TV e i consumi materiali si veda R. Silverstone, Perché studiare i media (1999), il Mulino, Bologna 2002.
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lese (ed evidente nella TV tematica) fra il flusso della televisione e il flusso del consumo, fra il potere simbolico dei media e un agire di consumo che tende a comprendere i media in una rete di produzione di significato ben più ampia, come dimostrano i mille altri aspetti attraverso i quali si gioca la soggettività contemporanea (dalla moda alla cura del corpo, dai viaggi al cibo, ecc.). Testimonianza di questa tendenza è il fatto che l’attenzione del pubblico si sposta sempre di più dal medium in quanto tale – il “guardare la televisione” – ai prodotti mediali e ai brand televisivi (i canali Disney per i bambini, i canali Fox per la fiction d’importazione, ecc.). Si tratta di elementi tanto più apprezzati quanto più capaci di trascendere l’universo delimitato del piccolo schermo e “farsi mondo”, innescando intere filiere di consumo materiale e immateriale in una commistione sempre più stretta fra i due piani.9 Da un lato i prodotti televisivi esondano dalla cornice del piccolo schermo e si trasformano in capi di abbigliamento, accessori, giochi, dischi ecc., dall’altro i prodotti materiali entrano nei testi mediali, ad esempio attraverso ciò che gli addetti ai lavori chiamano product placement (vale a dire l’inserimento, ovviamente concordato, all’interno di film, telefilm e fotografie di un prodotto che diventa così parte del mondo rappresentato).10 La fruizione televisiva insomma tende a diventare (nella consapevolezza dei suoi pubblici e nelle strategie dei suoi attori istituzionali più avvertiti) parte di un più ampio processo sociale di significazione e di mediazione, rispetto al quale i pubblici televisivi si pongono non come parte di una massa destinataria di significati 9. Si tratta di un fenomeno evidente in maniera inquietante nei consumi infantili e preadolescenziali ma che non esclude il mondo adulto. Su questi aspetti si veda P. Aroldi, Bambini, consumi mediali e culture del consumo, “Telos” (in corso di stampa). 10. Pensiamo ad esempio al progetto della Apple, uno dei marchi di maggiore successo degli ultimi anni, di diventare il motore di quello che viene definito come digital lifestyle: uno stile che se certamente si concretizza nel possesso di una serie di oggetti tecnologici, di fatto trova rispondenza nella rappresentazione di quegli stessi oggetti in innumerevoli film e serie televisive per non parlare delle foto sui magazine grazie un’attenta strategia di marketing che, letteralmente, fa agire lo stile di vita digitale proposto da Apple rappresentandone la coolness (categoria quanto mai sfuggente quella di “cool”, che tuttavia esemplifica perfettamente gli stili di consumo contemporanei. Cfr. D. Pountain, D. Robins, Cool Rules. Anatomy of an Attitude, Reaktion Books, London 2000).
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eteroprodotti da consumare, ma come aggregati temporanei di soggetti dotati di un proprio “capitale di consumo”. La televisione da motore e specchio della società dei consumi di massa sembra passare così a essere uno dei tanti aspetti (dotato certo di una centralità ad altri negata) delle pratiche simboliche e materiali di consumo messe in atto al fine di costruire identità, appartenenze, elementi di coesione sociale oltre che posizioni di “distinzione”. Se le tendenze sopra descritte sembrano emergere con una certa chiarezza, soprattutto laddove si guardi alla TV tematica e alla TV on demand – così consonanti con l’universo dei consumi contemporaneo e alla sua definizione in base agli stili di vita – resta tuttavia complesso disegnare uno scenario della televisione futura laddove si osservino i cambiamenti può propriamente legati al processo, dominante lo scenario mediale contemporaneo, della digitalizzazione. Si tratta di un processo spesso contraddittorio e difficilmente governabile, che ha un elemento comune nello sfaldarsi di una serie di corrispondenze stabili fra piattaforme tecnologiche, linguaggi e modalità fruitive dei media. Corrispondenze certamente storiche, esito di anni di lavorio tecnico e sociale, e sicuramente già in passato turbate da elementi di innovazione (l’avvento della TV a colori, il telecomando, la miniaturizzazione della radio) ma comunque abbastanza solide da legarsi in un insieme di relazioni codificate che per decenni hanno sostanziato le specifiche forme tecno-sociali e culturali dei media (ciò che dagli anni cinquanta a oggi, passando per la neotelevisione, è stato percepito, prima ancora di definirlo tale, come “televisione”). Questa stabilità si è persa, l’amalgama si sta sgretolando: la digitalizzazione consente infatti, da un lato, la disseminazione di uno stesso medium su più piattaforme tecnologiche, e dall’altro la convergenza su una singola piattaforma di molteplici media. Il segnale televisivo digitale è distribuito attraverso differenti canali e ricevuto su apparecchi diversi per tecnologie ma anche per consuetudini d’uso, con la possibilità di accedere al contenuto televisivo attraverso terminali non televisivi e in situazioni comunicative altre da quelle tradizionali: gli spazi domestici, certamente, ma anche all’aperto sul cellulare o in situazioni di mobilità. Ora la TV non si vede 61
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più solo in salotto o nei luoghi designati a ciascun componente della famiglia dall’economia morale del nucleo domestico.11 Inoltre non si vede più solo sul televisore e attraverso l’antenna televisiva. Diventano infatti terminali televisivi anche i computer e i telefonini che consentono di accedere alla TV di flusso ma anche a contenuti televisivi “su richiesta”, al di fuori cioè del palinsesto. È difficile dire dove porterà questo processo, troppe variabili sono in gioco, non ultime alcune importanti variabili tecnologiche e infrastrutturali che riguardano elementi come le tecnologie di visione della TV,12 gli standard tecnologici di trasmissione e di registrazione ma anche la normativa sul copyright.13 Di certo potrebbe comportare un cambiamento profondo della televisione (più profondo di quello innestato dalla TV tematica che presenta più elementi di continuità con il passato di quanto non si voglia ammettere), segnalando una nuova metamorfosi del mezzo televisivo. Ma non la sua fine. Anzi. Se infatti è vero che la televisione perde ascolti e che le emittenti televisive non riescono più a guidare totalmente il processo di distribuzione/consumo mediale, pure essa continua a mantenere un ruolo centrale, e nuove possibilità si aprono per le istituzioni televisive: ad esempio l’ampiezza delle nuove diete mediali consente di “lavorare” in maniera più articola11. Sull’importanza nei processi di relazione con il mezzo televisivo della sua dislocazione nello spazio domestico si veda ad esempio L. Spigel, Media Homes. Then and Now, “International journal of cultural studies”, 4, 2001, pp. 385-411. 12. Si pensi ad esempio a come cambia, dal punto di vista percettivo ma anche rispetto alla definizione dello stesso medium, la televisione se vista su uno schermo piatto al plasma o a cristalli liquidi, tramite un proiettore a tutta parete, attraverso sistemi di home theatre, sullo schermo del computer o di un telefonino. Su questi aspetti si veda il numero monografico a cura di Anne Friedberg e Raiford Guins del “Journal of visual culture”, 2, 2004. 13. Si tratta, anche in questo caso, di una dimensione a lungo data per scontata rispetto alla televisione ma di enorme importanza in una fase in cui la tecnologia televisiva sta cambiando così come le forme distributive dei prodotti televisivi. Le decisioni prese rispetto agli standard di codifica dei segnali TV o agli standard di gestione e protezione tecnologica dei diritti d’autore saranno ad esempio cruciali per disegnare uno scenario di convergenza fra le diverse piattaforme tecnologiche (e quindi una disseminazione dei prodotti televisivi attraverso tecnologie non televisive: ad esempio le console dei videogiochi) o viceversa per ridisegnare aree di “specificità” mediale. Per un’analisi della centralità delle dimensioni infrastrutturali si veda S. Leigh Star, G.C. Bowker, L’infrastruttura dei nuovi media, in S. Livingstone, L. Lievrouw (a cura di), Capire i new media (2002), Hoepli, Milano 2007, pp. 264-286.
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ta sui cicli di vita dei prodotti, aprendo nuovi circuiti distributivi che ne valorizzino ad esempio la longevità; mentre la ricchezza di oggetti, stili, formati e contenuti che caratterizza la produzione audiovisiva amatoriale, che trova in Internet il proprio circuito naturale di distribuzione, può essere intercettata e resa funzionale dalle aziende mediali, e gli stessi circuiti “informali” possono diventare canali di distribuzione alternativi dei prodotti istituzionali ad esempio attraverso gli accordi (o disaccordi, viste le sempre più frequenti cause per violazione del copyright) fra le emittenti TV e i video portali come YouTube per la distribuzione di pillole di programmi secondo la logica – che ancora una volta estremizza tendenze già presenti nella neotelevisione (diventata nel corso degli anni sempre più meta-televisione) – del “meglio di” ormai dominante nella produzione/circolazione in rete di contenuti TV. Più difficili e profonde le conseguenze sul piano della definizione e degli usi sociali del mezzo televisivo. Già la TV commerciale aveva scardinato le forme festive e rituali della fruizione collettiva; eppure i prodotti televisivi mantenevano dei cicli di vita coerenti e controllati ed erano fruiti all’interno delle medesime coordinate temporali e nei medesimi contesti. Ora non è più così. Molti di noi rivolgendosi al passato saprebbero ricostruire gli intrecci fra la propria biografia, la storia della televisione, e la storia collettiva. D’ora in poi ciò sarà più difficile: la frammentazione dell’offerta, la parcellizzazione dei testi, e la moltiplicazione delle piattaforme distributive (istituzionali e non: si pensi al download dalle reti peer-to-peer) hanno infatti come effetto la destrutturazione delle coordinate spazio-temporali del consumo televisivo condiviso. Le conseguenze di questi cambiamenti, tutte da immaginare, non saranno da poco, dato che a lungo la televisione, la banalità della televisione, ha indubbiamente costituito la nostra più importante esperienza di senso comune.
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Estetica e mediologia dell’hoax RAOUL KIRCHMAYR
1. Dall’estetica alla mediologia Hoax è un termine inglese che comunemente significa “burla”, “beffa”, “scherzo”. Ha una lunga e importante storia, relativa soprattutto, ma non solo, alle arti, nelle quali è stato spesso impiegato quale “reagente” per mostrare le nervature extra-artistiche inerenti al processo di creazione (quali per esempio le implicazioni economiche, sociali, di potere e di status ecc.). Con l’hoax l’artista crea un falso che poi viene immesso nel circuito “serio” del mercato dell’arte e così scambiato per un originale. Una volta in circolazione, il falso è in grado di generare valore simbolico come farebbe una moneta buona, a dimostrare che i pretesi “valori” che reggono e regolano il mercato dell’arte hanno ben poco di artistico. Difatti l’hoax trae la sua ragion d’essere dalla prossimità, fino all’indistinzione, con l’opera del falsario. Il caso delle false statue di Modigliani, risalente ad alcuni anni or sono, è paradigmatico e illustra bene il potere eversivo della falsificazione, soprattutto quando a essere ingannato è un establishment culturale con le sue logiche di potere.1 Recentemente, in un ottimo libro sul “mercato dell’arte” e la sua “logica”, è stata data una definizione convincente di hoax: “In
1. Sulla beffa dei falsi di Modigliani, così come per diversi altri gustosi esempi di hoax, rimando al capitolo “La verità del falso”, in A. Dal Lago, S. Giordano, Mercanti d’aura. Logiche dell’arte contemporanea, il Mulino, Bologna 2007, pp. 165-198; il caso Modigliani si trova alle pp. 188-189.
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genere, si tratta della realizzazione di una messinscena o ‘costruzione’ volta a ridicolizzare qualcuno, prima avvolgendolo di qualche aura, e poi dimostrando che questa non esiste […]. Ma se hanno di mira i potenti, [le beffe] acquistano un significato morale, in quanto rivelano la nuda realtà del potere, dell’autorità o della presunzione intellettuale”.2 Di questa definizione sottolineo tre aspetti che mi paiono far risaltare la sua portata filosofica: a) il primo aspetto riguarda il carattere finzionale della beffa, cioè il suo essere quella che potremmo definire una fabrication (Goffman), ovvero la costruzione di un set teatrale nel quale ha luogo l’azione, la “messinscena”; b) il secondo aspetto concerne il ridicolo, cioè una certa presa in causa del riso e dell’umorismo come effetti (o indici) di una strategia di smascheramento, il che fa piegare inevitabilmente la burla verso il registro comico; c) il terzo aspetto è infine lo stesso smascheramento, che implica una distinzione tra vero e falso, e più esattamente tra un falso “costruito” che, una volta dimostrato falso, fa comprendere che cosa sia il vero occultato dalla costruzione. Ma c’è un ulteriore aspetto che avrebbe necessità di essere aggiunto ai tre menzionati, e cioè che l’hoax, per essere efficace nella sua azione di denuncia e di smascheramento, deve essere a scadenza, cioè deve rivelarsi a tempo per poter rivelare poi la “realtà” presunta “vera” che esso, in quanto “falso”, denunciava. Esso, dunque, richiede un calcolo del tempo senza il quale la moneta falsa rischierebbe di essere realmente considerata buona, e di far così svanire ogni tipo di effetto demistificatorio. Ora, questo modello, anzitutto estetico, di concezione e di interpretazione dell’hoax dimostra un limite rilevante nel momento in cui si approfondisce il discorso mediologico sull’arte. Per mostrare tale limite, possiamo assumere la prospettiva aperta da Jean Baudrillard in Lo scambio simbolico e la morte,3 opera nella quale veniva presentata la teoria dei tre ordini di simulacri che secondo il 2. Ivi, pp. 185-186. A questa definizione gli autori fanno seguire un’espressione simpatetica verso i falsari, che fa brillare il nesso metaforico tra l’opera d’arte (vera-o-falsa), la moneta (buona-o-cattiva) e la beffa: “In fondo, i grandi falsari, pur perseguendo il guadagno, ci sono simpatici perché smascherano un certo tipo di esperto o collezionista” (ibidem). 3. J. Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte (1976), Feltrinelli, Milano 20074.
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sociologo francese si sarebbero succeduti nel corso della storia dei media. Baudrillard conferiva grande importanza alla contraffazione quale prima forma di simulacro – che a suo giudizio ha dato luogo alla prima epoca dei media, quella della diffusione della stampa e del libro, a partire dal Rinascimento – a sua volta incorporata dalla produzione dei simulacri di secondo ordine, che ha caratterizzato il mondo del capitale e la modernità.4 La beffa concepita dagli artisti delle avanguardie storiche e, in tempi un poco più vicini a noi, dai situazionisti, è consistita nel rovesciamento del rapporto dialettico con cui la contraffazione viene negata-incorporata-assimilata dalla produzione, così che il simulacro di primo tipo – legato a un “originale” nel suo rapporto con la copia contraffatta – viene sostituito con un simulacro di secondo tipo – legato alla funzione del valore di scambio. La beffa, cioè, inverte l’ordine dei simulacri e denuncia mediante la contraffazione il funzionamento simbolico della produzione, la quale è responsabile del processo di perdita dell’aura dell’oggetto artistico ecc.,5 pur disponendosi sul piano dei simulacri del secondo ordine per potere funzionare ed essere efficace. Ma Baudrillard, come è noto, ha fondato la sua tesi sull’emergenza dei simulacri di terzo ordine, definiti dal codice e dalla struttura, e generanti un effetto di simulazione. Mentre i primi due ordini conservavano le dicotomie metafisiche vero/falso, realtà/apparenza ecc., tratto distintivo del terzo ordine è che tali contraddizioni vengono disarticolate dai processi di produzione segnica che avvengono nella sfera dei media. In particolare, mi pare che Baudrillard ponga una certa giustificata enfasi sulla funzione del montaggio nel processo di simulazione della “realtà” da parte dei media.6 Ciò che Baudrillard aveva dunque messo in luce, è che l’appa4. Ivi, p. 61 sgg. 5. Il necessario riferimento a Benjamin compare a p. 74 del testo di Baudrillard, significativamente nello stesso capitolo concernente l’ordine dei simulacri. 6. Infatti, oltre a imporre una reciprocità sensibile che si sviluppa nell’interazione tra il medium e il fruitore-spettatore (ivi, pp. 73-84, paragrafo “Il tattile e il digitale”), i media hanno il potere di plasmare lo spettatore imponendogli di decodificare il messaggio per mezzo dello stesso processo con cui il messaggio è stato prodotto e montato, tanto che l’esito della decodifica può essere solamente “un esame perpetuo del codice” (ivi, p. 75)
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rato tecnico è ben lungi dall’essere neutro e che il montaggio, cioè l’insieme delle operazioni di framing, nella messa-in-forma del messaggio, ne determina il senso. Il risultato è che tutte le opposizioni binarie, che regolano la circolazione dell’informazione, si sciolgono nella logica del simulacro, tanto che “il processo contraddittorio del vero e del falso, del reale e dell’immaginario, è abolito in questa logica iperreale del montaggio”.7 Qui l’analisi di Baudrillard può essere collegata con le strategie di framing impiegate dal mondo dei media per “costruire” la notizia: senza una cornice interpretativa che dia senso al messaggio, il messaggio stesso risulta incomprensibile. Ma, mentre Goffman vedeva nella determinazione delle regole di interazione sociale il risultato di una contrattazione tra gli attori, la logica del simulacro cancella di fatto questa possibilità conservandone virtualmente l’aspetto.8 Il risultato è che nella sfera dei media non esiste nessuna contrattazione se non sotto forma fantasmatica, e la definizione dei frames è decisa anticipatamente da chi detiene il potere mediatico, mentre viene conservata come un involucro vuoto la pluralità delle opinioni e dei punti di vista. D’altronde, la stessa rappresentazione “democratica” e “pluralistica” dell’informazione è coerente con la logica del simulacro, è funzionale a esso, e serve da auto-legittimazione ideologica dei media. Il gioco dei frames, determinante nella visione goffmaniana del “teatro sociale”, si trova inglobata in quell’ambiente dall’atmosfera artificiale e controllata che è la sfera dei media. In altre parole, il gioco delle cornici e la definizione di ciò che ha e non ha senso nella rappresentazione mediatica della “realtà” potrebbe essere visto come una regione ristretta della sferologia. Nella sferologia, erede in questo della teoria dei sistemi, l’ambiente artificiale della comunicazione è regolato dal principio di omeo7. Ivi, p. 76. 8. È il senso della recente enfasi propagandistica sulla cosiddetta “interattività” dei media, in particolare della televisione, che riscatterebbe la posizione unicamente passiva dello spettatore-fruitore. 9. Già Lyotard, nel suo celebre La condizione postmoderna (1979), aveva rimarcato l’importanza decisiva del principio di autoregolazione nei sistemi complessi, con particolare riguardo alla comunicazione (vedi J.-F. Lyotard, La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano 2001).
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stasi9 e dalla legge d’immunità.10 Tutto ciò che è estraneo ed eterogeneo alla sfera (come dire la “realtà” nel senso comune del termine, benché essa semplicemente venga meno nell’ordine dei simulacri), può varcare la membrana mediatica solo a patto di non comprometterne l’equilibrio. La sfera dei media, dunque, non ammette framings se non quelli che essa stessa opera. La conseguenza più diretta è che oltre a essa non esiste nessuna sfera ulteriore e che nel mondo dei simulacri nessuna operazione antagonista di incorniciamento è possibile. 2. L’arte della “montatura” Considerate tutte le caratteristiche fin qui enunciate, propongo di chiamare “montatura” la forma postmoderna di hoax, così da marcarne il carattere artificiale, finzionale e destinale.11 La possibilità della “montatura” si dà grazie allo stabilirsi di un regime discorsivo o dell’immagine, o di entrambi, nei quali il limite tra verità e menzogna è stato eroso e viene ulteriormente reso mobile. La plasticità della “montatura” sfaccetta la nozione stessa di verità, fino al punto che le funzioni di verità paiono secondarie (benché l’hoax non paia di per sé ancorabile ad alcuna originarietà). La prima funzione assume la necessità della menzogna, fa tralucere nella menzogna la verità, ed è dunque critica perché mostra le strategie con cui le menzogne vengono costruite. La seconda ha una funzione opposta, poiché costruisce uno scenario finzionale, in assenza di qualsiasi interrogazione sulla verità, il cui scopo è invece di legittimare ex post determinate pratiche di potere. Così, ci si mostra un plesso classico della critica del potere sotto un profilo energetico: da un lato le forze che mirano a uno svelamento delle finalità troppo umane del potere, dall’altro le forze del potere che mirano a rendere presentabili le proprie istanze, occultandone la natura. Ma se nello scenario attuale il potere ha già depotenziato significativamente le armi della critica e – con l’instaurazione del regime del si-
10. Cfr. P. Sloterdijk, Sphären II. Globen, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1999, p. 555 sgg. 11. Assumendo una prospettiva e un linguaggio heideggeriani, la “montatura” non si dà infatti se non nello spazio storico-destinale del Gestell.
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mulacro – le ha rese inevitabilmente obsolete nella sfera dei media, quali risorse rimangono disponibili e in grado di far fronte all’avvenuta senescenza di quelle armi? Partiamo da un’ipotesi di lavoro, che ci permette di descrivere a grandi tratti il legame tra sviluppo della sfera dei media e hoax. A partire dagli anni ottanta, con la deregulation comportata dalla televisione commerciale, i media e in modo particolare la televisione hanno impiegato le strategie di hoaxing in modo sempre più massiccio. Lo scopo è la creazione di una doxa diffusa che risulti impermeabile a messaggi discordanti da quelli stabiliti, attraverso una progressiva uniformazione dei codici o, per riferirci alla metafora della “sfera-ambiente”, un progressivo condizionamento dell’atmosfera. Il processo di formazione dell’“opinione pubblica”, in altre parole, sarebbe andato a coincidere con un processo di manipolazione generale della stessa, così che allo stato attuale non ha più senso distinguere tra un’opinione pubblica informata e una manipolata. Ogni informazione è di principio e di fatto una “montatura”, una “simulazione”, una “messinscena” dai ritmi sempre più rapidi, una “costruzione” virtuale che dispiega costantemente degli effetti di realtà, un “condizionamento” dei soggetti che vengono addestrati a respirare nella “bolla d’aria” virtuale. In questo senso la “montatura” diventa strutturale, guadagna in impermeabilità, e non può più essere soggetta a un’operazione critica di smascheramento e di de-ideologizzazione. Pur con tutta la distanza teorica che lo ha separato da Baudrillard, Derrida ha ben espresso con i termini di “artefattualità” e di “virtuattualità”12 il processo di estensione, moltiplicazione, diffusione dei simulacri di terzo ordine nell’odierna sfera mediatica, e dunque l’impossibilità di distinguere tra informazione e intrattenimento (l’odierno infotainment), giornalismo e spettacolo, educazione e propaganda e così via. Da tempo assistiamo a una progressiva erosione delle opposizioni con cui, come soggetti a un antico riflesso, continuiamo a rappresentare la nostra “realtà”, a partire, 12. J. Derrida, B. Stiegler, Ecografie della televisione (1995), Raffaello Cortina, Milano 1999, p. 3 sgg.
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naturalmente, dalle opposizioni tra “verità” e “falsità”, “realtà” e “apparenza”: “[…] ovunque esistano montaggi, tagli, ricontestualizzazioni, citazioni incomplete nella stampa scritta, radiofonica o televisiva, c’è falsificazione in corso. Essa non ha sempre questo aspetto di traffico codificato, ma c’è falsificazione”.13 La “montatura” sembra così rappresentare l’ultimo avatar delle potenze del falso nella “logica culturale del tardo capitalismo” (Jameson). Infatti l’impiego sempre più spregiudicato delle strategie di hoaxing pare non tanto la propagazione di una patologia dell’informazione, alla stessa stregua di una formazione neoplastica che deve essere estirpata dal corpo virtuale dell’informazione trasparente e democratica, quanto l’ultima evoluzione dello stesso processo di costruzione razionale dell’opinione pubblica nelle società neocapitaliste. Così, la migrazione dell’hoax dal campo artistico a quello televisivo e più generalmente mediatico nel corso del XX secolo non sarebbe soltanto un fenomeno curioso e marginale, tutto sommato irrilevante nella storia dei media contemporanei. Piuttosto, esso mostra le linee-guida del loro sviluppo e, al tempo stesso, il loro potenziale egemonico nella costruzione di identità collettive condivise. Da questo punto di vista, l’affermazione, oramai un poco stantia, per cui il destino delle democrazie neocapitaliste dipende dalla qualità dei media e dell’informazione, perde buona parte della sua ovvietà. Nella “logica” dell’hoax si possono riconoscere tecniche di “montaggio” e di “costruzione” dell’informazione già note e ampiamente sperimentate nel corso del XX secolo. Queste lo hanno reso una forma estremamente sofisticata di propaganda, quella che necessita per l’appunto il dispiegarsi “artefattuale” dei simulacri di terzo ordine e pertanto solo lontana parente di tutte le forme, più o meno antiche, di propaganda divenuteci familiari nel corso del tempo, a partire dalla retorica. Il caso più lampante è quello del tramonto della funzione della censura nel controllo dell’informazione e nella costruzione dell’opinione pubblica, come testimonia l’ormai classico e per certi versi pionieristico L’opinione pubblica di 13. Ivi, p. 55.
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Walter Lippmann. In un passo dove emerge il nesso propagandacensura, Lippmann fa dipendere la propaganda dall’esistenza di una “barriera”, posta dal potere mediatico, capace di creare uno “pseudo-ambiente”: “Senza qualche forma di censura la propaganda nel senso stretto della parola è impossibile. Per poter esercitare la propaganda dev’esserci qualche barriera tra il pubblico e l’avvenimento. L’accesso all’ambiente reale deve venir limitato, prima che qualcuno possa creare uno pseudo-ambiente che gli sembri adatto od opportuno”.14 Quasi l’intera storia dei media del XX secolo ci separa da queste frasi. Nell’ordine attuale non è più necessario ricorrere alla censura, visto che il sistema di potere può operare continuamente dei nuovi framings del contenuto dell’informazione senza dover nascondere informazioni. Semplicemente, esse non esistono nella sfera, né in quanto tali né tanto meno in quanto “realtà”. E se la fonte che opera il re-framing è dotata di autorità, ne consegue che un incorniciamento interpretativo del contenuto non conforme ai codici può essere facilmente neutralizzato ed escluso dalla sfera mediatica mediante un ulteriore incorniciamento. Il potere mediatico è così potere di framing e di fencing,15 operazioni con cui il fattore perturbante ed estraneo viene individuato e isolato attraverso la manipolazione dei messaggi. La sfera dei media si garantisce un’immunità segnica mediante la riconfigurazione del senso (o dei sensi) di cui sono portatori i discorsi eterogenei. Inoltre, la “montatura” (principalmente televisiva) costruisce soggettività discorsive che acquistano la loro identità e si mantengono mediaticamente in vita solo fin quando vive l’hoax, a meno che non operino nel frattempo una loro dislocazione (o una loro moltiplicazione) attraverso nuovi framings.16 14. W. Lippmann, L’opinione pubblica (1922), Donzelli, Roma 20043, p. 42. 15. Dall’inglese fence, il recinto, la staccionata. Il termine è stato introdotto recentemente per indicare la strategia di chiusura e di esclusione dei discorsi eterogenei dal circuito dell’informazione. Cfr. G. Bosetti, Spin. Trucchi e tele-imbrogli della politica, Marsilio, Venezia 2007, p. 184. 16. Ciò spiega la produzione di discorsi apparentemente contraddittori da parte dei personaggi costruiti mediaticamente e televisivamente: la moltiplicazione delle contraddizioni sfaccetta l’identità del personaggio, per cui la possibilità della sua sopravvivenza mediatica aumenta proporzionalmente al numero di identità mediatiche costruite e alla capa-
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3. George W. Bush sulla portaerei Lincoln, ovvero logica di una “montatura” Non è questo il luogo per discutere, in prospettiva storico-sociologica, quanto e come le retoriche dell’hoax rappresentino una costante nel regime dei discorsi mediatizzati in Italia. Qui è sufficiente riconoscere come la produzione degli enunciati e delle immagini sia stata sottoposta a una sempre più intensa opera di shaping mediatica negli ultimi venti-venticinque anni. Lo smussamento del confine tra “reale” e “virtuale” e gli effetti dei simulacri si sono dispiegati estensivamente sul piano della “realtà”, fino a darle forma. Questa erosione e questa occupazione militare della realtà da parte del simulacro trovano la loro condizione in un costante lavoro di denegazione (nel senso della freudiana Verneinung) di tutto ciò che non rientra nel frame stabilito dalle forze che dispongono del potere mediatico e che può rappresentare, come il principio di realtà in Freud, un principio antagonista. Infatti, come aveva già diagnosticato Baudrillard, con l’emergere dei simulacri di terz’ordine non si può più parlare neppure di principio di realtà contrapposto al principio di piacere, così che anche la messa in gioco del desiderio (pensiamo per esempio a una certa pensée-68 come controcultura al potere simbolico dominante) è stata rapidamente riassorbita mediante nuove configurazioni dell’immaginario collettivo. Quando a un contro-potere simbolico viene dato accesso alla sfera della tele-comunicazione, la sua carica negatrice viene disinnescata ed esso diventa parte coerente del simulacro, così potenziandolo. Se il rappresentante mediatico del principio di realtà trova posto nell’informazione, è solo a prezzo di una sua subordinazione al frame definito dal potere. L’eterogeneo è infine risolto nell’omogeneo, tanto che lo stesso eterogeneo non ha che da confermare l’omogeneo, integrandovisi. La sfera dei media, da questo punto di vista, è la più grande fucina dell’one
cità di trasformarle rapidamente mediante il re-framing. Questo vuol dire naturalmente che l’accesso alla sfera mediatica deve essere protetto e garantito, e che i media devono collocare tali operazioni di re-framing in cima al palinsesto informativo. Da qui tutta l’importanza dell’agenda setting come strategia mediatico-politica.
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world neocapitalista, delle sue metafisiche del mercato e delle sue autorappresentazioni mediatiche. Prendiamo un esempio, divenuto ormai un caso celebre nella galleria delle “montature” mediatiche: l’immagine di George W. Bush del primo maggio 2003 sul ponte della portaerei Lincoln, con alle spalle un gigantesco striscione recante la scritta “mission accomplished” a salutare la fine (teorica) delle operazioni belliche in Iraq. A quell’immagine, catalogata dagli specialisti quale magistrale photo-op,17 venne data enorme eco mediatica, e la sua diffusione fu sconfinata grazie alla televisione. Dalle immagini trasmesse in tutto il mondo si vedeva Bush scendere sulla portaerei da un Viking, equipaggiato come un pilota militare con tanto di giubbetto d’aviatore e casco in mano, salutare l’equipaggio della nave allineato sul ponte, avanzare con uno studiato swagging18 verso la tribuna da cui avrebbe parlato. Prima ancora del discorso e di ogni commento, lo scenario determinava in modo inequivocabile il senso delle immagini: gli Stati Uniti, sotto la guida del loro presidente, avevano vinto una guerra contro uno “stato canaglia” e sconfitto un pericoloso dittatore. La “missione compiuta” era un passo verso la pace e la democrazia in Medio Oriente. Di per sé quelle immagini non ammettevano altro punto di vista che non quello del potere. Mirando a produrre un’identificazione tra il presidente e la nazione (addirittura al di là dei confini degli Stati Uniti, secondo il ben reclamizzato principio secondo il quale “con l’11 settembre siamo tutti americani”), la “montatura” metteva virtualmente la parola fine a circa due mesi di una guerra di cui ben poco si è saputo e le cui premesse politiche e strategiche continuano a rimanere ignote. Come al cinema, ci siamo trovati da spettatori a guardare 17. Photo-op è la forma abbreviata per “photo-opportunity” e indica la costruzione artificiosa di un’immagine affinché questa acquisti la forza di un evento mediatico. Per un’analisi del caso, si veda W. Lance Bennett, News. The Politics of Illusion, Pearson-Longman, New York 20056, p. 47 sgg. Cfr. anche G. Bosetti, Spin, cit., pp. 97-110. 18. Lo swagging è la camminata tipica del cowboy che in questo framing diventa potentemente plurisemantica: un presidente texano, l’equazione cavallo = aereo, la divisione amico/nemico ecc., altrettanti elementi prelevati da una memoria collettiva archiviata nell’immaginario dei film western. La ripetizione di questi elementi filmici aveva conferito un’incontestabile impronta kitsch all’intero evento mediatico.
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un epilogo ben narrato, un happy end al quale ci aveva condotto un accurato montaggio. Se al livello in cui ci collochiamo la parola “falsità” avesse ancora un significato, il che non è più, potremmo dire che quella scena era interamente “falsa”. Solo per alcune, del tutto ininfluenti, fonti alternative a quelle ufficiali le cose si svolsero assai diversamente da come ci fu mostrato. Bush non aveva viaggiato a lungo sul Viking, ma solo pochi minuti da San Diego, mentre la portaerei, già in rada da giorni dopo il rientro dall’Iraq, era stata costretta a una lunga attesa fuori dalle acque del porto, per far sì che dalle riprese non si vedesse né la costa né la città. Inoltre, la divisa da pilota con impresso il nome “George W. Bush” nascondeva la ben poco onorevole carriera militare del presidente. La “montatura” aveva costruito una “realtà” che non era mai esistita da nessuna parte. Il framing deciso dai supervisori dell’immagine aveva escluso tutto ciò che non si armonizzasse con il senso che le immagini dovevano trasmettere inequivocabilmente e, soprattutto, aveva fatto in modo da operare una sconnessione essenziale tra la guerra in Iraq e l’11 settembre, la cui relazione veniva evocata emotivamente, ma mai argomentata. L’immagine inoculava così nell’opinione pubblica un farmaco in grado di sanare virtualmente, per il tempo della durata dell’hoax, il trauma degli attacchi terroristici: la rapida vittoria in Iraq era stata la risposta, rapida ed efficace, alla ferita inferta agli Stati Uniti. Gli eventi avrebbero sì mostrato il contrario, ma ciò non andò a intaccare significativamente quell’immagine né comportò la sconfitta politica di Bush nel novembre 2004 contro il candidato democratico Kerry. Gli effetti di realtà della “montatura” della Lincoln si sono rivelati ben più efficaci della stessa “realtà” politica. Paradossalmente, essi hanno funzionato da denegazione di una “realtà” rimasta fuori scena. Quello che il caso del photo-op del discorso di Bush ci insegna è che tutte le tecniche di framing, di agenda setting e di indexing,19 con cui l’informazione viene trattata, scelta, “focalizzata”, inserita nel palinsesto informativo, ecc., tendono a produrre effetti sempre 19. Sull’indexing cfr. W. Lance Bennett, News. The Politics of Illusion, cit.
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più consistenti di “montatura” e, pertanto, di stabilizzazione del sistema del potere di cui i media sono parte integrante e vitale.20 La sfera mediatica conserva il suo endo-equilibrio attraverso l’assimilazione e l’addomesticamento dell’eterogeneo. Ciò che si produce è un calcolato effetto di riduzione della “dissonanza cognitiva”,21 per stabilizzare pregiudizi e stereotipi sotto forma di informazione. Nel corso del tempo viene così costruita una doxa diffusa come pseudo-conoscenza. “Essere informati su” è la formula retorica che designa l’avvenuta costruzione dell’opinione pubblica e al tempo stesso indica l’imperativo sociale consistente in un continuo aggiornamento che, in epoca di moltiplicazione dei flussi informativi, si traduce in una massiccia falsificazione. Di fronte a tale tendenza, è lo stesso concetto di opinione pubblica che perde il suo significato socio-storico e culturale. Le retoriche dell’“informazione”, specie televisiva, si presentano al servizio della conoscenza e dell’aggiornamento, mentre intorbidano la distinzione tra doxa ed episteme. Lo fanno non tanto nel senso che la moneta buona (il discorso epistemico) venga scacciata dalla moneta cattiva (la doxa), ma che non sia più possibile – all’interno della sfera mediatica della tele-comunicazione – distinguere l’una dall’altra: lo spettacolo è informazione (si pensi, per esempio, ai cieli di Baghdad o di Belgrado illuminati dai traccianti e dai missili, immagini ripetute infinite volte pur senza alcun contenuto informativo oltre a “c’è la guerra”). La doxa potenzia la sua 20. Da questa prospettiva la stessa guerra in Iraq può essere considerata una “montatura” che perdura ormai dal 2003: costruita come hoax – con le false prove dell’esistenza di “armi di distruzione di massa” da parte dell’Iraq di Saddam Hussein – è stata condotta come “montatura” con i giornalisti embedded nelle forze di occupazione americana e dichiarata conclusa proprio con il discorso dalla portaerei Lincoln. La vicenda ha ben mostrato il continuo sforzo di denegazione e di ricostruzione dinamica mediatica da parte del governo americano. In questa logica il valore di qualsivoglia principio di realtà è nullo. Inoltre, e in modo complementare, è sufficiente de-indexizzare la notizia dell’ennesima esplosione di un’autobomba in Iraq e ripeterla infinite volte per togliere alla notizia un qualunque valore comunicativo. Il suo effetto di “realtà” sarà pari a zero. 21. L. Festinger, Teoria della dissonanza cognitiva (1957), Franco Angeli, Milano 1973; per un riferimento alla teoria di Festinger nell’ambito dei media e del marketing vedi A.R. Pratkanis, E. Aronson, L’età della propaganda. Usi e abusi quotidiani della persuasione (2001), il Mulino, Bologna 2003, pp. 64-74, cfr. in particolare p. 70 sulla “trappola della razionalizzazione”.
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forza mediante la ricorsività, esattamente come accade nelle strategie di marketing, poiché si tratta di collocare un prodotto-informazione sul mercato dei media. Come ogni prodotto ha un ciclo di vita, così anche la doxa deve essere costantemente rinnovata pur mantenendo costante il suo nucleo di falsificazione: qui il lavoro sulla parola, oltre che sull’immagine – cioè le “retoriche” e le “iconologie” dell’hoax – si rivela indispensabile per confermare la doxa in relazione al tempo di decadimento del prodotto, a partire dal momento della sua collocazione sul “mercato dell’informazione”. La conseguenza più rilevante dell’estensione massiccia della “montatura” come operatore di doxa condivisa è che le forme di discorso complesso (quali il discorso scientifico, la filosofia come esercizio critico, ecc.) non trovano più diritto di cittadinanza nel regime mediatico, se non sotto forma semplificata e liofilizzata, sovente spacciata per “informazione scientifica” o simili. Per riprendere la metafora che accomuna Lippmann e Sloterdijk, possiamo dire che la televisione produce un’“atmosfera” discorsiva incompatibile con l’argomentazione razionale, che pur tuttavia è in grado di mimare, e con il ritmo lento che la riflessione critica e la dimostrazione richiedono. Il fattore tempo, dunque, diventa decisivo nell’esclusione dei discorsi incompatibili con la rappresentazione/narrazione ufficiale fatta dai media e rende necessaria una considerazione dromologica (Virilio) del potere di framing. Si delinea pertanto il paradosso del discorso scientifico e critico nella sfera dei simulacri: in regime di media, egemonizzati dal discorso e dall’immagine televisiva, questi discorsi, una volta “messi in scena” e “rappresentati”, vengono depotenziati fino all’insignificanza perché richiedono argomentazione razionale e tempi lunghi. Così il timing (specie televisivo) ha di per sé valore di filtraggio delle voci discordanti. Di fatto, questa esclusione è alla base della costruzione del simulacro mediatico e costituisce il primo passo nelle strategie di framing che definiscono il mainstream virtuale. Lo spin mediatico consiste in questo tipo di strategia, basata sul rapido e continuo rilancio del re-framing. Essa permette di far fronte al problema della senescenza del prodotto “informazione” e al suo rapidissimo ciclo di vita: aumentando la velocità del montaggio, 76
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della diffusione e della circolazione, l’hoax sopravvive a se stesso, godendo di una vita virtuale lunga perché il simulacro è in grado di assorbire e di appropriarsi di ciò che lo contesta e che ne decreterebbe la morte mediatica. Se gli artisti hanno utilizzato criticamente l’hoax calcolandone il tempo di mortalità affinché potesse essere efficace, nel caso del suo utilizzo ideologico e propagandistico il tempo di mortalità è computato solo allo scopo di prolungare l’effetto di “realtà” della “montatura”. Ciò impedisce che questo possa essere smascherato da un discorso che fornisca delle coordinate e dei contenuti informativi nuovi, tali da comportare dissonanza cognitiva, feedback positivo e nuovo incorniciamento da parte dello spettatore-fruitore. 4. Un’omeotecnica per i media? Nella sfera mediatica il conflitto delle interpretazioni è puramente virtuale. Esso viene neutralizzato con l’impiego delle tecniche di design mediatico dell’informazione che, “sterilizzando” l’atmosfera comunicativa e creando così un effetto di air-conditioning,22 impediscono che la sfera possa essere attaccata dall’esterno. Si tratta, in altre parole, di un’opera di immunizzazione delle retoriche impiegate dai media in modo che non possano essere intaccate da fattori esterni potenzialmente distruttivi dello stesso “pseudo-ambiente”. L’hoax come doxa garantisce la stabilità prolungata dello “pseudo-ambiente”. Così rivela limpidamente la sua natura duplice: impiegato dalle avanguardie e dal situazionismo nel campo dell’arte, ha intaccato la “bolla d’aura” auto-fondantesi dei discorsi e delle pratiche artistiche, mettendone in luce le strutture simboliche di potere; al contrario, impiegato dagli stessi centri di potere simbolico, esso diventa un farmaco omeopatico con cui il potere immunizza se stesso garantendosi la sopravvivenza di fronte alla minaccia portata da discorsi e pratiche a esso eterogenee. Ma, come tutte le formazioni discorsive (e iconologiche), anche l’hoax non è del tutto assicurato da perturbamenti che sovente si 22. Cfr. P. Sloterdijk, Terrore nell’aria (2002), Meltemi, Roma 2006.
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manifestano sotto forma di witz involontari, stranezze, bizzarrie che fanno dell’imbroglio mediatico qualcosa di grottesco, quel misto di tragico e di comico che ritroviamo nel kitsch.23 L’involontario effetto grottesco dell’hoax sarebbe quel segnale che ci permetterebbe di riconoscerlo e dunque di predisporre delle strategie omeotecniche24 in grado di ridurne le conseguenze. Il grottesco, così come l’umorismo involontario, può essere considerato l’effetto più importante della fabrication televisiva e mediatica. È la pista che ci fa riconoscere il meccanismo “arte-fattuale” che ci induce nella posizione di “inter-passività” (Žižek). Inoltre, ben prima della nostra adesione volontaria a posizioni antagoniste al discorso del potere, ci potrebbe far guadagnare una distanza necessaria per operare, noi, un framing dei discorsi “ufficiali” e delle loro retoriche. Penso che sia questo il primo passo verso una specie di epoché del simulacro, qualcosa di simile all’ironia “di terzo tipo” o “cibernetica” di cui parla Sloterdijk quando commenta l’opera di Luhmann.25 Tuttavia, occorre riconoscere che il sorriso ironico rischia di essere solamente una mossa di retroguardia e meramente difensiva. Infatti, la natura “barocca” del nostro spazio sociale, ormai costituitosi su più strati non lineari, rende problematico il passaggio dalla riflessione alle pratiche, dal framing che ciascuno di noi può operare come forma di autodifesa (e di igiene simbolica) in quella rappresentazione di spazio privato che è il proprio ambiente 23. Basti pensare, per esempio e tra tanti, al cosiddetto “caso Telekom Serbia”, vero e proprio hoax politico-affaristico-mediatico che dal 2001 al 2003 occupò i primi posti nell’agenda dell’informazione politica. La natura dei personaggi implicati nell’affaire e il linguaggio impiegato nella sua costruzione hanno ricordato infatti certe trame della commedia cinematografica all’italiana. Non è però escluso che proprio questo aspetto grottesco abbia contribuito a rendere efficace l’imbroglio. 24. Sull’omeotecnica cfr. P. Sloterdijk, Non siamo ancora stati salvati (2001), Bompiani, Milano 2004. Strategie omeotecniche nel campo della fruizione dei media sono per esempio quelle indicate da A.R. Pratkanis, E. Aronson, L’età della propaganda, cit., nel capitolo intitolato “Neutralizzare le strategie persuasive”, pp. 433-472. Cfr. anche P. Bosetti, Spin, cit., pp. 189-214. 25. Cfr. P. Sloterdijk, Non siamo ancora stati salvati, cit., pp. 65-112, in particolare p. 100 sgg., dove si trova un’affermazione come la seguente: “Il cyberspazio è il generatore di ironia più importante della nostra epoca” (p. 105). Che questa operazione di riflessione ironica possa sfociare in forme di dibattito pubblico, è da dimostrare. La rete sta dimostrando di avere potenzialità ancora da esplorare, come il fenomeno dei blog, recente e in espansione, documenterebbe.
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domestico, a un framing condiviso che permetta di intaccare e di erodere la moneta falsa degli hoaxes in circolazione come moneta buona. Ma questa prospettiva, ora virtuale anch’essa, non richiede pure la costruzione di una nuova forma di soggettività, “artistica” e “politica” al tempo stesso, in grado di inscenare socialmente tali pratiche omeotecniche?
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Elogio di “Blob” PIER ALDO ROVATTI
orrei aggiungere – in questa nota sulla nostra televisione – il mio elogio ai tanti già espressi sulla trasmissione quotidiana Blob. D’altronde la longevità di questi quindici minuti di divertimento intelligente, che dovrebbe venir oscurato dai più seguiti telegiornali nazionali, parla da sola. Alle ore venti la maggioranza dei cosiddetti teleutenti italiani ha un automatico appuntamento con le notizie del giorno e può scegliere tra il Tg1 e il Tg5 (il notiziario di punta di Mediaset), entrambi strillati in anticipo nei popolari programmi di intrattenimento-quiz che funzionano da apripista ai suddetti telegiornali. A Blob (ore venti e quindici circa sulla Rete 3) resta una stretta collocazione di nicchia, una nicchia, per giunta, del tutto muta, insignificante e noiosa per chi vi presta un ascolto distratto e intermittente. Il Tg può infatti restare nel sottofondo mentre gli utenti fanno altro (si accingono a cenare, già cenano, o magari si preparano a uscire): il montaggio sottile e provocatorio di Blob può diventare addirittura fastidioso se non viene mantenuto in una sorta di primo piano dell’attenzione. Com’è noto, questa trasmissione (frutto soprattutto dell’ingegno di Enrico Ghezzi) rivolge uno sguardo a tutto campo (cioè con mescolanza assoluta di generi) alla programmazione televisiva (italiana, ma non esclusivamente) delle ultime ventiquattro ore e ne ritaglia minuscole schegge di linguaggio audiovisivo che intreccia tra loro con una tecnica di montaggio veloce, spesso spudorato, il più delle volte sorprendente: ne risulta una striscia di immagini,
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parole, suoni, che oscilla tra il nonsense e un effetto di senso assai pungente, accompagnata da titolini-cornice in alto a sinistra che declinano e deformano il nome stesso della trasmissione ibridandolo con lo spunto tematico (a propria volta deformato) della sequenza discorsiva del giorno. Non ci sono, però, sequenze separate e tutto il montaggio è un unico flusso di immagini-suoni-parole con richiami interni, ripetizioni tematiche e associazioni libere, dall’andamento quasi onirico, che vengono a formare, per una specie di osmosi, qualcosa di simile a un plot. È un lavoro di incastro che ogni sera (anche nelle sere con meno mordente) mi lascia stupito. E che ogni sera disegna, a modo suo, un tratto, un argomento, qualcosa di curiosamente preciso che come tale diverte e fa anche pensare. Blob è talmente entrato nell’immaginario di chi lo segue, e perfino nella testa di chi fa televisione, che è ormai diventato luogo comune stare dalla parte di Ghezzi e dei suoi collaboratori, cioè mettersi nei loro panni di osservatori quasi maniacali di quello che passa in TV, che spesso ci sorprendiamo a pensare, davanti a una papera, a un silenzio impacciato, alla storpiatura di una parola, a un gesto goffo in diretta: “questo lo rivedremo a Blob”. Gli stessi autori delle papere, silenzi e goffaggini, spesso sentono il bisogno di dichiararlo da sé, nel momento stesso in cui inciampano. Tuttavia, se Blob è diventato per antonomasia il luogo dove la piccola defaillance bergsoniana (mi riferisco al Bergson di Il riso) non mancherà di venire citata ed esposta al comico, la sostanza della trasmissione è ben altra: un “tic”, diciamo così, collegato al personaggio pubblico ma anche al modo di essere di un evento di attualità, viene surdimensionato e promosso a possibile criterio di leggibilità di quel personaggio o evento della cronaca. L’effetto inatteso di senso si produce, allora, attraverso una costruzione sintattica che adopera vari dispositivi, soprattutto l’adiacenza e mescolanza di fiction e realtà (la famosa “diretta”), e il ricorso anche a un montaggio verticale, una specie di gioco di memoria che pesca nell’archivio delle immagini TV e propone diacronicamente avvicinamenti, contrasti e ibridazioni. Gli occhiuti artefici di Blob possiedono anche una formidabile memoria storica della TV italiana e 81
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la capacità di andare a disseppellire vecchie o vecchissime immagini, magari in bianco e nero. Qui si dà a vedere bene il motore principale e decisivo del linguaggio di Blob, che consiste nell’individuazione dei contrasti. Il gioco molteplice dei contrasti è la molla inventiva che mette in vibrazione ogni sequenza dandole una dimensionalità composita, mai riducibile al semplice dato (a una immagine semplice, monodimensionale). C’è sempre un doppio, talora evidente (colore e bianco e nero, frammento discorsivo del personaggio politico e sequenza flash ritagliata dal film western o d’orrore, il salotto di Porta a porta e i patemi di Beautiful, ecc.) e talora solo accennata (da una musica, un grido, una risata). Ma in effetti non c’è mai solo un doppio registro allo stato puro, bensì un gioco di sdoppiamenti che si propaga a forza di connessioni interne e spesso grazie a una produzione spontanea di catene associative che proliferano dal primo contrasto. Forse, a questo punto, dovrei chiamare in causa la filosofia di Gilles Deleuze che certo appartiene alle corde più autentiche di Enrico Ghezzi, ma mi fermo perché quello che mi interessa ora è la televisione, e soprattutto la televisione italiana. Questa “distanza” che ho appena indicato fa a pugni con il trend invasivo e comunque dominante che l’agenda dei programmi conferma a ogni palinsesto e che – come dice con chiarezza Giovanni Scibilia in questo stesso fascicolo di “aut aut” – elide tutti gli intervalli e brucia le distanze a vantaggio di effetti di prossimità sempre più marcati e opprimenti. Qualunque siano le considerazioni sull’etnografia mutata dello spettatore televisivo e comunque possano pesare nei modi e nei tipi di programma le innovazioni tecnologiche in corso, ciò a cui si tende, o ciò che si produce in tendenza, è un impasto tra realtà e finzione che dà luogo a una sorta di iperrealtà dell’immagine televisiva dominante. Questo impasto tra cronaca e intrattenimento, tra sceneggiato ed evento, tra quiz e documento, questa, invadente ormai, spettacolarizzazione del quotidiano attraverso l’omologazione tra il dettaglio di vita cosiddetta vissuta e la grande cornice globale (il mondo che ci arriva in casa e dovunque siamo attraverso il teleschermo), non ha niente in comune con 82
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il gioco di Blob. Anzi, l’impasto suddetto è la negazione dei contrasti. Le due ibridazioni marciano in direzioni divergenti: l’una cancella ogni iato, l’altra tenta di ripristinare ogni volta delle pause. La provocazione derisoria tenta di resistere all’omologazione divertente. Blob, nel suo piccolo, non addormenta; può solo dar fastidio. L’astuzia aggiuntiva di questa trasmissione consiste nell’affondare le mani proprio dentro l’impasto di cui è fatta la nostra televisione per denunciarne la futilità, ma al tempo stesso ripetendone ironicamente la logica autoreferenziale, facendo ancora un discorso sulla TV, una TV che cita se stessa. Un irriverente “giornale” televisivo proprio nell’ora dei grandi telegiornali. La citazione interna è ormai un topos dell’iperrealtà televisiva. Ma quale citazione? Di nuovo Blob segna un confine, oltre il quale ogni volta si espone (e ci espone) e assai prima del quale si arrestano le formule programmatiche, come Striscia la notizia (in onda su Canale 5 alle venti e trenta), che sono state veicolate dallo stesso Blob ma che esaltano soprattutto il lato intrattenimento e perciò risultano marcatamente conniventi pur nella loro intenzione irriverente. Delle “denunce” di Striscia ricordiamo le gag, mentre dei giochi di Blob resta il distanziamento (sintattico e semantico) e non si disperde mai del tutto il potenziale di denuncia. Dunque è possibile l’eccezione? Si può fare una “buona” (cioè critica) pratica televisiva? Direi di sì, ma a molte condizioni, e soprattutto a condizione che essa rimanga un’operazione di nicchia. Forse si potrebbe scovare qualche altra eccezione nel palinsesto della nostra televisione. Blob è la più evidente e blasonata, e sicuramente ha fornito l’esempio. Grazie alla sua “intelligenza”: ha inventato una lingua minore (come direbbe Deleuze) capendo che doveva essere un linguaggio ibridato e cioè che doveva accettare la medesima logica autoreferenziale della lingua maggiore, producendovi cesure e disturbi. Cosicché, guardando Blob, abbiamo a disposizione, non solo ma innanzi tutto, uno spaccato del trash iperreale che caratterizza la nostra televisione, in cui si mescolano quotidianamente rifiuti e “realtà” in un unico mostruoso hamburger. 83
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Eccezionale è anche la sua longevità (Blob nasce nel 1989), il fatto che continui a sopravvivere nel tritatutto senza essere costretto a snaturarsi. Chi di noi – di quelli che con buoni motivi “amano” Blob – non ne ha previsto tante volte la chiusura e non si è stupito altrettante volte che continuasse ad andare in onda?
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L’integrazione è on the air? Madri e figli migranti davanti alla TV ROBERTA ALTIN DAVIDE ZOLETTO
1. In “Molto Apu per nulla”, una puntata dei Simpson dedicata ai fenomeni di xenofobia e all’integrazione dei cittadini stranieri di Springfield, c’è almeno una scena suggestiva. Apu, il negoziante (indiano) di fiducia di Homer, sta per essere espulso dal paese a seguito della crociata xenofoba messa in moto dallo stesso Homer. Nel tentativo di rimanere in qualche modo in “America”, Apu ha acquistato dei documenti falsi che attestano la sua cittadinanza statunitense. Per rappresentare in modo efficace la sua presunta nuova identità, un Apu abbigliato nel più americano dei modi apostrofa Homer che sta entrando in negozio: “Ehilà, Homer! Come butta? Sono un cittadino americano, solo che me n’ero dimenticato… Facciamo quelli che se ne fregano del lavoro e si guardano una partita di baseball. Ci sono i New York Mets in TV”. La performance americana di Apu consiste in un certo modo di guardare un certo programma TV. Come se fossero certi programmi televisivi e certi modi di guardarli a decidere, in pratica, se si è o non si è cittadini americani. Se ci fermassimo qui, potremmo dire che I Simpson confermerebbero una concezione abbastanza diffusa secondo cui sarebbero oggi certi testi televisivi a plasmare le appartenenze individuali e di gruppo. E nemmeno in modo così unidirezionale e meccanico, dal momento che non si tratta solo di come è confezionato il testo televisivo, ma di come esso viene poi letto nei diversi contesti.1 L’aveva già detto Derrida, a dispetto di 1. S. Fish, C’è un testo in questa classe? (1980), Einaudi, Torino 1980; D. Morley, Televi-
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tante sue superficiali (e interessate) letture postmoderniste (secondo le quali Derrida avrebbe ridotto tutta la realtà a “testo”), che non esiste testo alcuno al di fuori di un contesto preciso, e che quel contesto è sempre diverso e politicamente determinato e determinabile.2 Detto altrimenti: non è soltanto il testo televisivo del baseball dei New York Mets a plasmare la nuova identità americana di Apu, ma è il modo attivo (seppur situato e quindi condizionato) con cui Apu recita la parte del supporter televisivo dei Mets. Ma il testo dei Simpson – e la sua lettura da parte nostra nel contesto di un saggio sull’integrazione on the air delle seconde generazioni di migranti in Italia – ci racconta almeno un’altra versione della storia dei tentativi di integrazione di Apu. Homer è a dir poco sorpreso dalla performance “americana” di Apu, persino perplesso, e gli chiede con la consueta “finezza” dove sia finita quella “statua balorda dell’elefante” che fino ad allora aveva vegliato sulla cassa del negozio. Apu si volta verso l’espositore delle riviste e abbozza una risposta, tanto devota quanto sbrigativa: “A chi può servire l’infinità pietà di Ganesh, quando ho Tom Cruise e Nicole Kidman che mi guardano con i loro occhi smorti dalla copertina di Mondo spettacolo…”. Sembrerebbe il culmine dell’assimilazione del migrante-bricoleur alla merchandising America, senonché sono proprio gli occhi smorti dei divi ritratti sulla rivista popolare a far crollare il restyling identitario messo “creativamente” in scena da Apu. “Vergogna su me… Ho tradito mio retaggio indiano!” piange Apu, mentre dalla copertina della rivista, Tom Cruise, con la voce del padre di Apu, rimasto in India, gli ricorda: “Rendimi fiero, figliolo…”, mentre Nicole Kidman, con la voce della madre, sentenzia: “Non dimenticare mai chi sei…”. È la chiave di volta dell’esion, Audiences and Cultural Studies, Routledge, London 1992; S. Moores, Il consumo dei media (1993), il Mulino, Bologna 1998; S. Hall, Encoding and decoding in television discourse, in S. Hall et al. (a cura di), Culture, Media, Language: Working Papers in Cultural Studies 1972-79, Hutchinson, London 1980, pp. 128-138. 2. J. Derrida, Limited Inc. (1989), Raffaello Cortina, Milano 1997, pp. 202-203, e in particolare, per una riflessione legata alla televisione, J. Derrida, B. Stiegler, Ecografie della televisione (1997), Raffaello Cortina, Milano 1997; vedi anche M. Bachtin, Marxismo e filosofia del linguaggio (1929), Dedalo, Bari 1976; S. Worth, Studying Visual Communication, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 1981.
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pisodio. Apu rinuncia ai suoi tentativi di essere assimilato e rivendica orgogliosamente la sua identità di indiano-americano, sottoponendosi all’esame per la cittadinanza e umiliando alla fine, per “integrità ibrida” e devozione patriottica, un Homer che nemmeno se ne accorge e si sente invece confermato nella sua patriarcale (coloniale?) – sebbene al solito sarcastica e involontariamente corrosiva – sicumera di “nativo americano”. 2. La seconda versione della storia dell’integrazione on the air di Apu, racconta dunque la vicenda di una televisione che riannoda la vita di Apu a quella dei suoi familiari rimasti in India, gli ricorda le sue radici (immaginate) e lo sprona a integrarsi non più come ex indiano ora americano di serie B, ma come presunto (would-be, direbbe Aihwa Ong3) cittadino indiano-americano. Ecco un altro modo di consumare la televisione, che viene certo molto amplificato dalle retoriche post-multiculturaliste dell’identità ibrida delle seconde generazioni. Fino a qualche mese fa, i tanti Apu in carne e ossa degli empori degli States, o meglio i loro figli, avrebbero potuto avere davvero un canale televisivo che li avrebbe accompagnati/rappresentati nel loro percorso di integrazione. Era MTV Desi, canale spin off di MTV nato proprio per rivolgersi al target costituito da tutti quegli indiani-americani di seconda generazione che si identificano nella cosiddetta cultura “desi”, ovvero degli americani le cui origini “affondano” nel Sud-Est asiatico.4 Per due anni circa, dal gennaio 2005 all’aprile 2007, MTV Desi ha alternato i normali programmi di MTV (tagliati su misura per certe subculture giovanili “globali”) con materiale proveniente da Bollywood o da MTVIndia, insieme a trasmissioni prodotte negli Stati Uniti per i giovani consumatori di MTV che, come l’Apu dei Simpson, non volessero rinunciare né al loro retaggio più o meno immaginato, né a una dieta televisiva anche americana e globale. La retorica post-multicultu3. A. Ong, Da rifugiati a cittadini. Pratiche di governo nella nuova America (2003), Raffaello Cortina, Milano 2005. 4. Le trasmissioni di MTV Desi sono cessate il 30 aprile 2007, ma, come recita espressamente il suo sito, “MTV Desi vive ancora online”. Ci si può dunque fare un’idea del materiale trasmesso visitando il sito <http://www.mtvdesi.com>.
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ralista che animava il progetto di MTV-Desi traspare bene dalle parole con cui era stato lanciato il canale nel dicembre del 2004. “Viviamo in un paese sempre più diverso e multiculturale, dove a tavola, a cena e nel soggiorno la conversazione è sempre più spesso in cinese, hindi, urdu e coreano”, aveva detto il direttore e CEO di MTV Network Judy McGrath. “Lanciare questi nuovi canali”, aveva poi ribadito, “è il prossimo passo logico per MTV Network, un passo straordinariamente stimolante, quello di proporre una programmazione specifica che rifletta le identità biculturali di questi pubblici, senza contare la possibilità di offrire un’altra piattaforma per tutti i grandi talenti che provengono da queste comunità”.5 L’entusiasmo di queste dichiarazione andrebbe riletta, oggi, alla luce della chiusura di MTV Desi (insieme alle sorelle MTV Chi, rivolta alla minoranza cinese, e MTV K, rivolta alla minoranza coreana) avvenuta il 30 aprile 2007 a seguito di una riorganizzazione interna del Network MTV e delle impreviste difficoltà manifestatesi nel corso della sfida “in questo ambiente competitivo”.6 Il lancio dei canali multiculturali di MTV (a differenza della notizia della loro chiusura) ha avuto una discreta visibilità sui media italiani, che vi hanno visto la frontiera dell’integrazione on the air, con tanto di magnifiche sorti progressive della cultura glocal e di annessi spauracchi di un nuovo multiculturalismo identitario e poco propenso al dialogo.7 In realtà, se negli Stati Uniti si è già arrivati alla chiusura dei canali multiculturali di MTV, in Italia una programmazione televisiva specifica rivolta alle seconde generazioni di migranti non è ancora nemmeno stata progettata. Coerentemente con una situazione di fatto che vede emergere solo oggi la questione delle seconde generazioni, la TV italiana si è occupata fi5. La fonte di questa dichiarazione è l’articolo MTV to Launch Channels for Ethnic Audiences in the U.S. che si può leggere all’indirizzo web <http://www.hollywoodmasala.com/front page.aspx?cat=newsdetail&postid=3347>. Queste e altre dichiarazioni dei dirigenti di MTV possono essere comunque reperite online su vari siti negli articoli del dicembre 2004 che documentano il lancio della rete. Si veda per esempio anche <http://www.asiamedia. ucla.edu/article.asp?parentid=18825>. 6. Cfr. MTV Desi is No More…, che si può leggere all’indirizzo <http://www.egothe mag.com/gupshup/archives/2007/02/mtv_desi_is_no_1.html>. 7. Si veda per esempio G. Lesca, MTV, il futuro è sempre più “glocal”, pubblicato su TV.com del 23 luglio 2005 (<http://www.altratv.tv/img/press/booktrailer.pdf>).
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no a oggi soprattutto di educazione multi- o interculturale dei minori italiani. Lo testimonia il fatto che i programmi pur importanti e innovativi specificatamente dedicati ai temi della multi- e interculturalità (come Non solo nero o Un mondo a colori) avessero un carattere più educativo e fossero stati inseriti in fasce e programmazioni rivolte forse maggiormente a un pubblico italiano. 3. Per poter osservare attraverso quali diete televisive e con quali modalità di consumo i migranti presenti in Italia e i loro figli stiano perseguendo anche delle vie on the air all’integrazione, diventa quindi necessario entrare direttamente nel salotto dei migranti stessi.8 È anche in questa direzione che uno dei due autori di questo contributo ha intrapreso uno studio etnografico fra i ghanesi residenti in Friuli Venezia Giulia, in una fase in cui si assiste a una fase di stabilizzazione del processo migratorio, con una ormai consolidata presenza di famiglie e nuove generazioni nate in Italia (ma straniere per l’anagrafe), e con conseguenti scelte educative e di trasmissione culturale intrecciate spesso a scelte (più o meno consapevoli) di consumo televisivo.9 La scelta è stata quella di lavorare in maniera intensiva con due famiglie, con cui condividere la fruizione televisiva per vari mesi con cadenza bisettimanale. I due campioni sono stati scelti per la diversità di utilizzo e di approccio nei confronti delle tecnologie e della dieta televisiva notate nella fase preliminare di interviste e colloqui. Entrambe avevano almeno due figli nati in Italia nella fascia di età compresa fra zero e dieci anni e si contrapponevano come stili di vita, consumi e scelte educative. Il lavoro si è inserito in un’indagine più articolata sull’uso e sul8. Come diceva Eric Michaels, uno dei primi a capire e studiare il ruolo della televisione nelle dinamiche interculturali, “I got into media studies, as an anthropologist, because I believed that the media were the belly of the beast, and because I thought TV was central to the creation of the extraordinary contradictions that plagued the contemporary world”; J. Ruby, The belly of the beast: Eric Michaels and the anthropology of visual communication, in T. O’Regan (a cura di), Communication & Tradition: Essays after Eric Michaels, “Continuum”, 2, 1990, pp. 53-98; E. Michaels, TV Tribes, M.A. Dissertation, University of Texas, Austin 1982. 9. R. Altin, L’identità mediata. Etnografia delle comunicazioni di diaspora: i ghanesi del Friuli Venezia Giulia, Forum, Udine 2004.
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le funzioni dei media (non solo la televisione, ma anche cinema, teatro, autoproduzioni, Internet ecc.), con un’attenzione mirata alla fase di passaggio intergenerazionale. La ricerca è stata centrata fin dall’inizio su donne e bambini, cercando di capire quanto fosse realmente condizionante la televisione nelle loro pratiche quotidiane, sia come hardware (quanti apparecchi c’erano in casa, dov’erano collocati, chi aveva il potere nella scelta della programmazione ecc.), sia come software (contenuti, generi, lingue, orari ecc.).10 Focalizzarsi su donne e bambini è stata una scelta in parte legata a motivi meramente pratici: se si vuole condurre un’indagine etnografica sul consumo televisivo, è necessario piazzarsi a guardare la televisione per lunghi periodi, condividendo e invadendo il menage familiare. Bisogna disporre di parecchio tempo e soprattutto bisogna chiedere la disponibilità a farselo concedere. Farlo con bambini e donne temporaneamente a casa dal lavoro per maternità, specie se straniere prive della rete familiare e amicale, è sicuramente meno invadente che stazionare fino a tarda sera quando il marito rientra dopo otto ore di fabbrica e ha, come unico obiettivo di fine giornata, quello di usare la televisione come preludio al sonno. Ma la scelta di analizzare donne e bambini immigrati alle prese con la televisione ha significato anche riconoscere un ruolo attivo di mediazione femminile nei processi migratori, spesso menzionato ma poco analizzato nei suoi meccanismi specifici. E cercare di vedere i loro figli in una posizione attiva collocata in scenari contemporanei, e non solo come destinatari finali di progetti interculturali territoriali o scolastici non sempre scevri da tratti un po’ paternalistici. 4. La prima delle due famiglie con cui si è guardato la TV spiccava per un forte conservatorismo e attaccamento ai valori della tradizione ghanese, che cercava di tramandare ai figli attraverso una li-
10. M. de Certeau, L’invenzione del quotidiano (1980), Edizioni Lavoro, Roma 2001; J. Fiske, Television Culture, Methuen, London 1987; R. Silverstone, Televisione e vita quotidiana (1994), il Mulino, Bologna 2000.
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nea educativa abbastanza rigida, condizionante la condotta di tutti i membri familiari. Il livello di alfabetizzazione dei due genitori era abbastanza alto (diploma di scuola superiore e specializzazione professionale), ma il padre al momento era l’unico a garantire un salario da operaio specializzato che doveva bastare per moglie e tre figli (3, 5 e 7 anni). La madre aveva deciso, contrariamente a quanto sceglie di fare la quasi totalità di immigrate ghanesi, di non lasciare i figli nella fase prescolare in custodia alla famiglia d’origine in Africa, ma di rinviare la ripresa lavorativa per seguirli ed educarli personalmente. In questo nucleo c’era una forte valorizzazione del ruolo femminile come fattore coesivo familiare e come garanzia di controllo per un’inculturazione ben precisa, che prevedeva anche la trasmissione di pratiche e saperi religiosi, con forte enfasi positiva sul rispetto dei valori e degli stili di vita acquisiti in Africa. Vivevano in un paese nelle valli del Natisone, territorio abbastanza isolato e incassato tra monti che segnano l’estremo confine orientale dell’Italia con la Slovenia. La zona è storicamente abitata da minoranze autoctone di lingua slovena, scarsamente popolata, con collegamenti difficili, persino per il segnale televisivo che “non si prende bene”. Gli affitti chiaramente costano molto meno, ma l’isolamento geografico aveva di fatto reso l’apparecchio televisivo, munito di enorme parabola satellitare, uno dei pochi mezzi di comunicazione e mediazione col mondo esterno. Nel salotto buono, dove si trovava la televisione, abbiamo speso la maggior parte del tempo a guardare Incantesimo, il programma preferito dalla madre, telegiornali italiani e internazionali della BBC e della CNN per le news dal continente africano, nonché cartoni animati in italiano e in inglese con i bambini. Come evidenziato da Silverstone,11 la televisione funziona da hardware e da software: già osservare dove si colloca (soggiorno, cucina, camera da letto ecc.), quante ce ne sono, quali connessioni prevede (satellite, VHR, lettore DVD ecc.), chi detiene lo “scettro” del telecomando riesce a fornirci un quadro ben più esaustivo sulla vita sociale e culturale di qualsiasi analisi a distanza sui contenuti dei programmi. Qui l’ap11. Ibidem.
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parecchio televisivo (unico in casa) non era posizionato in cucina, che era la stanza più “vissuta”, ma nel salotto col divano buono per gli ospiti; era vietato consumare i pasti guardando la TV. Il telecomando era prerogativa maschile: “Lui ha il telecomando, ma non è un problema, io ogni tanto glielo lascio e vado a dormire. Ha ragione lui, perché adesso che è al lavoro fino alle 20.30 la TV è tutta mia, quando torna a casa poi è sua”.12 La dieta televisiva per i bambini era estremamente controllata e censurata dalla madre: la televisione si apriva in orari prestabiliti e su certi programmi (niente cartoni giapponesi, niente pubblicità, né film con scene di violenza o con rimandi anche solo vagamente sessuali): “Per i bambini a casa, non va bene quando in TV si spogliano. Questo non va bene. Anche la violenza, dopo capita che loro vanno a scuola e imparano”.13 Le scelte educative puntavano anche sull’apprendimento e rafforzamento della lingua inglese (usata nella comunicazione quotidiana con i figli, mentre tra di loro i coniugi usavano la lingua twi), attraverso i programmi satellitari, corsi di apprendimento linguistico per bambini e cartoni animati in lingua originale. La televisione era anche l’unica insegnante di lingua italiana per la madre, che utilizzava soprattutto i quiz con sottotitolazioni per apprendere e memorizzare nuovi vocaboli. La scelta di valorizzare e trasmettere la cultura di origine si rifletteva chiaramente anche nella fruizione e interpretazione delle soap opera che venivano spesso piegate a funzioni educative, usando un confronto oppositivo noi/loro, in cui la cultura occidentale veniva specchiata (male) dalle vicende messe in scena nella fiction. Come già evidenziato da Zatta fra i Roma,14 spesso le telenovelas servono proprio come strumento per differenziarsi dalla cultura occidentale, per condannare la condotta amorale degli “altri”. Nonostante l’assidua e costante fedeltà a Incantesimo, la madre commentava e condannava frequentemente le vicende con una lettura trasparente del messaggio: “Ci sono molti problemi nella famiglia: 12. Intervista con M.A. 13. Intervista con M.A. 14. J.D. Zatta, “Tradizione orale e contesto sociale: i Roma sloveni e la televisione”, in L. Piasere (a cura di), Italia romaní, Cisu, Roma 1996, pp. 179-203.
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ci sono continui tradimenti e poi alle donne piacciono tanto i soldi. Così non va bene, vogliono solo soldi”.15 Similmente, anche la realtà italiana filtrata dai telegiornali o da altri servizi serviva spesso per mettere in guardia i bambini con ammonimenti educativi. La passione per le telenovelas non è casuale: questo genere rappresenta l’ambito di espressione più vicino alle tipiche forme di una cultura orale. Il melodramma televisivo nel Terzo Mondo è chiaramente collegato alla penetrazione del capitalismo, tuttavia Robert Allen, nel suo studio critico sulle telenovelas sudamericane, afferma che tale genere è sempre stato analizzato nei termini delle sue relazioni con la modernità, sia economica che socio-culturale, e con il capitalismo, ma molto poco nei termini transnazionali.16 Nelle soap opera è anche importante la distribuzione della conoscenza tra i personaggi e l’audience: i tipi di dialogo sono quelli privati, all’interno della famiglia, simili ai pettegolezzi fra vicini, per costruire una narrazione che, in un crescendo di costanti rivelazioni sul passato e sui segreti nascosti, arriva a speculare sul futuro nel finale di film. Indagare sulle pratiche di consumo televisivo ci inserisce in contesti quotidiani dinamici dove si intersecano vari traffici: flussi mediatici (confronti comparativi fra l’uso e il consumo televisivo in Ghana e in Italia), confronti intergenerazionali complicati dal fatto che le nuove generazioni sono nate e cresciute in Italia da genitori vissuti fino a pochi anni fa in Ghana. Come già evidenziato da Gillespie nella sua ricerca etnografica fra la comunità asiatica a Londra, spesso gli stessi prodotti vengono non solo interpretati, ma anche utilizzati con scopi educativi o persuasivi diversi all’interno della stessa famiglia.17 I ghanesi sviluppano un senso di appartenenza “africano” proprio nel corso dell’esperienza migratoria all’estero. Si tratta di un’identità costruita e completamente condizionata dal flusso di 15. Intervista con M.A. 16. R.C. Allen (a cura di), To Be Continued... Soap Operas around the World, Routledge, London 1995. 17. M. Gillespie, Television, Ethnicity, and Cultural Change, Routledge, London-New York 1995.
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notizie televisive: a differenza della maggior parte degli africani, i ghanesi hanno uno spiccato senso di appartenenza nazionale (il Ghana sotto la guida di Nkrumah è stato il primo Stato subsahariano a ottenere l’indipendenza nel 1947), che all’estero si modifica per mancanza di aggiornamenti e informazioni. Nella vita di espatriati la fame di notizie sull’Africa fa sì che ci si alimenti e accontenti di notizie più generali dall’Africa Occidentale o dal continente in generale; giorno dopo giorno, si interiorizza un senso di identità “africana” più allargata e meno nazionalistica, confermando la tesi che l’identità collettiva è vissuta come un costrutto processuale continuamente rinegoziato con diverse sfumature fra locale e globale.18 5. Tanto la prima famiglia era fortemente selettiva nella scelta di quanta e quale televisione concedere ai figli, altrettanto anarchico era l’uso di TV e videoregistratore nella seconda famiglia. Il nucleo era composto da padre e madre con scolarizzazione leggermente inferiore alla prima famiglia (scuola media), ma con un reddito familiare più alto (entrambi lavoratori dipendenti in piccole aziende) e due figli (1 e 8 anni). La casa era ai bordi della cittadina di Palmanova, nella pianura friulana a sud di Udine, in una situazione decisamente meno isolata, sia in termini geografici che mediatici. In casa due televisioni (una personale del figlio di 8 anni), un videoregistratore, la PlayStation e l’impianto stereo erano più o meno perennemente accesi (spesso in parallelo), con costanti lotte e rivendicazioni per avere il dominio del telecomando monopolizzato dagli esercizi di zapping del figlio maggiore. Il bambino aveva di fatto libero accesso a ogni genere di cartoni e di programmazione televisiva diurna, senza filtro genitoriale. Scarsa attenzione era data all’uso della televisione come strumento di apprendimento linguistico, e ancor meno alle potenzialità di edutainment. La televisione restava aperta più o meno tutto il giorno “per compagnia”,
18. U. Hannerz, Cosmopoliti e locali nella cultura mondiale, in M. Featherstone (a cura di), Cultura globale. Nazionalismo, globalizzazione e modernità (1990), Seam, Milano 1996, pp. 163-178.
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con funzioni di svago e sottofondo domestico non impegnativo; poco seguiti i programmi di informazione e le news, sia italiane che estere. Fra i canali televisivi la preferenza andava a Canale 5, fra i generi alle telenovelas (Beautiful, in particolare), ed era molto apprezzata la pubblicità che influenzava e condizionava esplicitamente il consumo familiare. Fra le potenzialità dell’approccio etnografico c’è anche quella di riuscire a cogliere il processo di costruzione del messaggio e dell’interpretazione finale attraverso la cosiddetta talk TV,19 la rielaborazione filtrata e rielaborata mediante i commenti fra familiari e amici. Si tratta di un processo determinante soprattutto per chi si occupa di pubblico giovanile o di nicchia, dove la condivisione e il consumo televisivo alimentano e fondano un senso di appartenenza al gruppo. Nel caso dei ghanesi i commenti che si scambiavano tra di loro durante la visione televisiva ci ha permesso di cogliere aspetti culturali importanti e spesso non facilmente espliciti. Guardando un film di produzione nigeriana, di fronte a una scena violenta in cui il protagonista subiva un incidente stradale causato dal vodou, la madre della seconda famiglia stava spiegando alla ricercatrice che guardava con lei la TV che “sono cose che succedono veramente in Africa, sai, la magia nera” e il figlio, molto incuriosito, chiedeva subito alla madre cosa fosse la magia nera. Su questo argomento lei operava una censura totale, evitando tassativamente di rispondergli, fingendo anzi di ignorare completamente la scena e la domanda del figlio, per ribadire poco dopo sottovoce alla ricercatrice: “Sai, la magia nera, il vodou”, mentre il bambino, molto stupito, commentava fra sé: “Non ho mai sentito parlare di magia nera”.20 Come per le soap opera italiane nella prima famiglia, anche in questo caso la madre dava una lettura trasparente della fiction, questa volta di ambientazione africana, con un coinvolgimento in prima persona, quasi non si fosse ancora sviluppato un cinico di19. M. Gillespie, Television, Ethnicity, and Cultural Change, cit. 20. Intervista con R.A.
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stacco nel filtrare le vicende raccontate dalle immagini televisive; in ciò si può vedere un retaggio tipico della tradizione orale, tuttavia va ribadito che il collegamento è sì con la cultura d’origine, ma si tratta di una cultura africana collocata già nell’era postcoloniale. Il flusso transnazionale – come dice Hannerz – rifornisce la periferia “di nuove risorse, sia tecnologiche sia di espressione simbolica, per rimodernare e probabilmente integrare il materiale locale esistente”.21 La mancata trasmissione di credenze animiste al figlio nato in Italia conferma questa tesi. Daniel Miller sostiene del resto che tutti gli studi riferiti al rapporto fra globale-locale dovrebbero preoccuparsi non tanto di ricostruire le differenze storiche aprioristiche sopravvissute all’assalto della cultura globale di massa, ma piuttosto di analizzare la differenza creata a posteriori dal diverso consumo di istituzioni e produzioni, considerate spesso erroneamente globali e omogeneizzanti.22 Le soap opera sono state giustamente definite il melodramma globale,23 ma solo condividendo le diverse visioni, emergono analogie e differenze: fra le immigrate africane, la televisione e il videoregistratore hanno creato una sfera pubblica privatizzata femminile in cui passano moltissimi film d’amore africani, indiani e occidentali, non a caso definiti spesso women’s films che hanno aperto di fatto una finestra sulle mura domestiche, quanto meno in termini di intrattenimento.24
21. U. Hannerz, La complessità culturale. L’organizzazione sociale del significato (1992), il Mulino, Bologna 1998, p. 312. 22. D. Miller, Worlds Apart: Modernity through the Prism of the Local, Routledge, New York 1995, p. 3; vedi anche T. Liebes, E. Katz, The Export of Meaning: Cross-Cultural Readings of “Dallas”, Oxford University Press, New York 1990; J. Lull (a cura di), World Families Watch Television, Sage, London 1988; C. Kottack, E. Colson, Connessioni a molteplici livelli: longitudine e studi comparativi, in R. Borofski (a cura di), L’antropologia culturale oggi (1994), Meltemi, Roma 2000, p. 487; C. Kottak, Prime-Time Society: An Anthropological Analysis of Television and Culture, Wadsworth Publishing Company, Belmont (Ca.) 1990. 23. D. Miller, Worlds Apart: Modernity through the Prism of the Local, cit.; L. Abu-Lughod, Finding a Place for Islam: Egyptian Television Serials and the National Interest, “Public Culture”, 5, 3, 1993, pp. 493-513; L. Radway, Reading the Romance: Women, Patriarchy, and Popular Literature, Verso, London 1987. 24. J. Haynes (a cura di), Nigerian Video Films, Ohio University Center for International Studies, Athens 2000.
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6. I media mediano culture, ha scritto John B. Thompson,25 e di un prodotto mediatico transnazionale – siano essi I Simpson, Beautiful o Incantesimo – ci si appropria dunque localmente in modalità che incoraggiano la gente a ridefinire la propria concezione di cultura locale, e allo stesso tempo a ridefinire la propria identità collettiva in relazione alle rappresentazioni dell’“altro”. Le tecnologie e la televisione sono al tempo stesso oggetti simbolici e materiali, ma sono “oggetti costruiti attraverso un’intera serie di attività socialmente definite, nella produzione e nel consumo, nello sviluppo e nell’uso, nella teoria e nella pratica, e non possono essere compresi al di fuori del loro sistematico radicamento nella dimensione politica, economica e culturale delle società moderne”.26 Non abbiamo purtroppo nessun elemento per sapere se e come un testo televisivo come quello analizzato all’inizio di questo contributo sarebbe stato consumato in queste due famiglie. All’epoca in cui è stata svolta l’etnografia, i bambini di queste due famiglie erano probabilmente troppo piccoli per interessarsi alle vicende dei Simpson. E, per di più, almeno nella prima famiglia, un cartone animato come quello disegnato da Matt Groening avrebbe difficilmente superato il filtro educativo messo in atto dalla madre. Risulta quindi molto più utile attenersi a quanto effettivamente ci raccontano le due etnografie sui modi diversi in cui madri e figli si appropriavano di Incantesimo o di Beautiful. E cioè che all’interno del grande target delle famiglie ghanesi immigrate nel Nord-Est, e quindi dei ghanesi-italiani di seconda generazione che vi crescono, esistono molti pubblici, perché esistono consumi e utilizzi televisivi molto diversi, contestuali a pratiche e stili di vita contrapposti nella critica/adesione a valori consumistici occidentali veicolati dalla televisione. Ed è altrettanto difficile dire quale possa essere la “migliore” scelta educativa per questa nuova generazione di bambini ghanesi nati in Italia: se quella conservativa che censura e cerca di trasferire 25. J.B. Thompson, Mezzi di comunicazione e modernità. Una teoria sociale dei media (1995), il Mulino, Bologna 1998. 26. R. Silverstone, Televisione e vita quotidiana, cit., p. 142. Sull’argomento vedi anche J. Lull (a cura di), World Families Watch Television, cit., A. Appadurai, Modernità in polvere (1996), Meltemi, Roma 2001.
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il più possibile i valori “tradizionali” ghanesi o quella che lascia liberi i figli di avventurarsi nel panorama mediatico occidentale, censurando invece le credenze religiose tradizionali africane. Di sicuro si può dire che le conversazioni che avvengono intorno alla tavola o nel salotto di questi consumatori di TV sono meno scontati e più imprevedibili di quanto affermava il CEO di MTV. E che, non diversamente da quanto accadeva all’Apu impegnato a evitare l’espulsione da Springfield, anche nel caso di queste due famiglie la scelta consapevole o meno di questo o quel canale o programma, e i modi diversi di usare la televisione, si intrecciano al modo in cui si costruiscono il senso di appartenenza e l’identità personale e di gruppo dei genitori e dei figli. È più forte un’identità che viene alimentata con valori e scelte culturali legate al paese di provenienza dei genitori? O può essere più flessibile (e quindi più resistente) l’identità di chi viene abituato fin da piccolo a nutrirsi di linguaggi e contenuti della nuova cultura (inclusa tutta la banalità e la violenza che essa può comportare)? Per chi lavora insieme alle nuove generazione di migranti (come educatore, come insegnante, come ricercatore) il punto non è probabilmente arrivare precipitosamente a sciogliere questo dilemma, quanto imparare a imparare dal basso, secondo un’indicazione che ci viene da due autori come Gayatri Chakravorty Spivak e Paul Willis, diversi fra loro, ma entrambi impegnati nei processi educativi che hanno luogo oggi al confine fra culture, subculture e generazioni diverse.27 Per entrambi non si tratta solo di interrogarsi su come venga costruito un testo televisivo, e nemmeno solo su come esso venga consumato all’interno dei vari contesti. Ma piuttosto di capire come quegli usi del testo televisivo si intreccino ad altri 27. G.C. Spivak, Raddrizzare i torti (2003), in N. Owen (a cura di), Troppo umano. La giustizia nell’era della globalizzazione, Mondadori, Milano 2005, pp. 193-285; P. Willis, Foot Soldiers of Modernity: The Dialectics of Cultural Consumption and the 21st-Century School, “Harvard Educational Review”, 3, 2003, pp. 377-402. Cfr. anche C. McCarthy, The Uses of Culture: Education and the Limits of Ethnic Affiliation, Routledge, New York-London 1998 (soprattutto, per quanto riguarda il consumo televisivo, pp. 83-108), e, per un inquadramento generale dei rapporti fra cultura popolare (televisiva e non), educazione multi- o interculturale e studi culturali, N. Dolby, Popular Culture and Democratic Practice, “Harvard Educational Review”, 3, 2003 pp. 258-284.
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aspetti dei contesti della vita quotidiana di chi guarda la televisione, aspetti sociali, culturali, di genere. Willis, parlando del consumo di cultura popolare delle nuove generazioni britanniche, ci invita a guardare anche agli scenari formativi, lavorativi e familiari legati al modo in cui l’Europa della conoscenza si concretizza in diversi e prosaici mercati europei delle competenze.28 E Spivak, descrivendo gli sforzi degli attivisti impegnati in varie forme di educazione alla biodiversità nel Sud del mondo, ci ricorda le ragioni di classe e di genere per cui pubblici rurali che pure “resistono” a certe modalità di sfruttamento iniquo e insostenibile del loro ambiente continuano a preferire Bollywood ai programmi edificanti con cui gli attivisti di varie ONG vorrebbero “educarli” alla partecipazione.29 Senza imparare a imparare dal basso, cioè senza imparare come sono effettivamente costruiti testi televisivi come I Simpson o le soap, e come poi la loro fruizione si intrecci a percorsi biografici e comunitari sempre diversi e situati, difficilmente si può provare a lavorare a quella che Spivak chiama una risistemazione non coercitiva dei desideri attraverso l’allenamento dell’immaginazione.30 Immaginazione e desideri sono parole chiave per chi si occupa di televisione. Ma sono parole chiave anche per chi si occupa di fenomeni migratori transnazionali e di educazione in contesti segnati dalle differenze, culturali e non. Patrie immaginarie, alla Anderson,31 che si fondano sulla condivisione dello stesso mezzo di informazione e comunicazione; patrie desiderate e fortemente determinanti nella decisione di migrare (come non ricordare il primo esodo di massa degli albanesi in cui la televisione italiana ha pesato forse ancor più delle rivoluzioni politiche interne). Patrie nostalgiche e abbandonate, che vengono trasmesse ai figli ormai solo attraverso gli occhi smorti di due attori di Hollywood o attraverso le danze sfrenate e per noi spesso stravaganti di due divi di Bollywood.
28. P. Willis, Foot Soldiers of Modernity, cit., pp. 410-413. 29. G.C. Spivak, Raddrizzare i torti, cit., p. 223. 30. Id., Nazionalismo e immaginazione (2005), “aut aut”, 329, 2006, pp. 65-90; cfr. anche il già citato Raddrizzare i torti e il più recente Id., Risistemare i desideri, attendere l’inatteso, “aut aut”, 333, 2007, pp. 84-107. 31. B. Anderson, Comunità immaginate (1991), manifestolibri, Roma 2000.
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Il tubo cattolico MAURIZIO FERRARIS
meno di un miracolo, fra non molti anni, i televisori, quegli oggetti che hanno accompagnato, in Italia, più di mezzo secolo di storia, oggetti tanto importanti che nel parlar comune “televisione” indicava non solo la funzione, ma anche la scatola in cui si esercita, non ci saranno più, mangiati dai computer e dai telefonini, incorporati in altre scatole più potenti, più sottili, più piccole o più grandi. E la televisione? Intendo dire, correttamente, non la scatola ma la funzione? Ci sarà ancora? Si direbbe di no. Come l’arte per Hegel, sospetto che la televisione si stia avviando a essere una cosa del passato. Il televisore, lui, lo è già: quando si pensa a uno schermo, oggi, si pensa a quello del computer. E chi se lo ricorda più, in tempi di schermi ultrapiatti, il tubo catodico? Già, ma perché? Vedo almeno tre motivi. Il primo è che il computer, così come il suo infido alleato o concorrente insidioso, il telefonino, sono strumenti interattivi, anzi, paradossalmente, sono nati con funzioni essenzialmente attive (scrivo, telefono), e solo in un secondo tempo hanno incorporato tutte le funzioni (passive, ricettive) della televisione, del cinema, dei libri, dei dischi. Con la televisione, non è che si possa interagire più di tanto. Da un certo momento in avanti c’è stata l’amara consolazione dello zapping, correlata alla moltiplicazione dei programmi, ma a parte questo non è che con la televisione si interagisse granché: qualche telefonata a una TV locale, risposte obbligate ai quiz (“da dove chiama?”), più avanti e-mail e sms nelle votazioni
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dei festival. Una tristezza. Invece, con Internet puoi mandare in onda di tutto, dai tuoi privatissimi pensieri ai tuoi filmati, alle rivendicazioni degli attentati, e crei delle diverse gerarchie, di fronte a pubblici diversi. D’altra parte, la dolce alienazione di Second Life, in cui c’è chi crede davvero di vivere una seconda vita, ha un effetto di realtà molto superiore a quello dei maniaci di Beautiful e di Dallas, che mai hanno creduto che la vita nella scatola fosse davvero la loro, ed erano costretti a battezzare le figlie Sue Ellen per illudersi di essere ammessi al banchetto. Il secondo è che mentre la televisione “classica” era essenzialmente comunicazione, immagine + parola, Internet e il telefonino sono registrazione + scrittura; e abbiamo oggi una TV postclassica o postmoderna in cui c’è tantissima scrittura e tantissima registrazione, ma questo segna solo il bisogno di tenere il passo rispetto a sistemi più avanzati che oramai si allontanano di anni luce. Il primato della registrazione rispetto alla comunicazione, della scrittura sulla parola, cambierà la nostra vita, l’ha già cambiata, ce ne accorgiamo subito in un mondo fatto di home banking e di sms, di email e di firme digitali, di delocalizzazione del lavoro e di gente che chatta, o si mostra in YouTube, e in cui nascono figure, come Paris Hilton, che sarebbero state inconcepibili senza Internet, proprio come Mike Bongiorno sarebbe stato inconcepibile senza la televisione, e Hitler senza la radio. Il terzo motivo della obsolescenza della televisione è che, sempre per il prevalere della scrittura e della registrazione sulla parola e la comunicazione, il tempo di Internet, rispetto a quello della televisione, non è sincrono, ossia uguale in cielo, in mare e per terra, ma piegato agli orari degli utenti, che guardano un po’ quando vogliono. Internet è come leggere un libro, che apri e chiudi a piacere, mentre con la televisione è tutto un altro paio di maniche. I pochi che ancora si trovano a cena in casa a ore fisse sono per l’appunto quelli che guardano il telegiornale della sera, ma la globalizzazione – cioè in parole povere l’abbattimento dei fusi orari – passa essenzialmente attraverso Internet, e non può farne a meno. Internet è lo strumento più cattolico (in senso etimologico: kaq’ovlou, universale) che sia mai apparso sulla faccia della terra. E nella immane 101
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trasformazione in corso, la TV resta quel vecchio oggetto sincrono, che costringe a levatacce o a notti in bianco per vedere i campionati del mondo o America’s Cup, e pare destinato all’obsolescenza, forse all’oblio A meno di un miracolo, scrivevo all’inizio di questo articolo. Ma chi ha detto che i miracoli non avvengano? E proprio il cattolicesimo (in senso proprio) può, alla fine, offrire, nell’età di YouTube, un avvenire al vecchio tubo catodico come tubo cattolico. La televisione, infatti, dalla sua, ha il bello della diretta, e la telemessa cattolica, diversamente da un qualsiasi teleufficio divino protestante, ebraico, islamico o buddista, non è una rappresentazione, bensì la cosa stessa, una messa vera e propria, a casa. Con tutte le conseguenze che ne discendono, e in particolare che quando assisto alla transustanziazione, ciò che vedo è un miracolo, il fatto che l’ostia si trasformi nel corpo e nel sangue di Cristo. Ora, cosa succederebbe se la telemessa venisse dirottata su Internet? Be’, venuta meno la diretta, decadrebbe allo statuto di registrazione o di rappresentazione, come un film o un documentario: una allegoria, non la cosa stessa. Se le cose stanno in questi termini, l’avvenire della televisione va forse cercato nella transustanziazione, sempre che un Freud del futuro non scriva L’avvenire di una teleillusione.
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vicino/lontano
Nella sezione, inaugurata con gli interventi di Zygmunt Bauman e Gayatri Chakravorty Spivak (cfr. “aut aut”, 333, gennaio-marzo 2007), presentiamo ora, mantenendone la forma originaria, la conversazione con Peter Sloterdijk coordinata da Giovanni Leghissa durante l’edizione del maggio 2007 degli omonimi incontri organizzati a Udine dall’Associazione culturale vicino/lontano (che ringraziamo).
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La costruzione telematica del reale PETER SLOTERDIJK
Giovanni Leghissa. Il tema del nostro incontro riguarda la connessione tra mondo globale e comunicazione, mondo globale e interconnessione planetaria. Nel corso di questi incontri abbiamo imparato a decostruire sufficientemente la parola globalizzazione. Anche se oggi forse possiamo usarla in maniera più opportuna con le virgolette, ne abbiamo comunque bisogno, per le connessioni e gli accostamenti che questa parola ci permette di compiere. “Globalizzazione” viene associata – spesso giustamente – alla rete di comunicazioni che ci avvolge. Di solito, quando si affrontano queste questioni, si chiamano gli esperti di teoria dei media, i quali però spesso finiscono col fare una sorta di apologia dell’esistente, una sorta di inno a questo meraviglioso mondo interconnesso in cui dovremmo essere tutti felici di poter essere sempre raggiungibili via Internet o grazie ai cellulari. Per il filosofo la questione è un po’ più complicata perché in un mondo dominato dall’immediatezza sembra mancare lo spazio per una riflessione critica. La comunicazione immediata, l’immediatezza della raggiungibilità globale sembra non lasciare spazio a quell’intercapedine, a quel luogo della mediazione, a quella presa di distanza tra noi e il mondo che è l’inizio del pensiero filosofico. Comincerei, dunque, con questa domanda: come si orienta il filosofo nel mondo interconnesso? Conversazione di Peter Sloterdijk con Giovanni Leghissa, avvenuta a Udine il 13 maggio 2007.
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Peter Sloterdijk. Credo che la parola orientamento ci costringa a presupporre qualcosa di troppo, poiché possiede già un contenuto filosofico: in un mondo dove esiste un “oriente”, infatti, abbiamo già un sistema di coordinate che ci permette di “orientarci”. È questo che intendiamo generalmente per orientamento. Per coloro che invece sono abbastanza abituati a una meditazione filosofica questo termine ha forse un altro significato; proporrei dunque di iniziare in un modo un po’ diverso. Questo significa innanzitutto rinunciare all’oriente ed entrare, invece, in un cerchio vuoto, in uno spazio, in un anello non definito, e dimorarvi all’interno. Agli inizi del Novecento, o forse già qualche anno prima, nacque una nuova espressione artistica, una forma profetica anche per l’arte: il panorama. Queste opere d’arte furono esposte prima a Parigi, poi in Svizzera, e mostravano che cos’era l’orizzonte naturale – ciò che l’occhio può percepire guardando il lago di Lucerna, per esempio. Tale rappresentazione veniva poi raddoppiata all’interno di un’immagine artistica; si trattava, quindi, di un approccio diverso rispetto all’occhio. L’artista aveva compreso per la prima volta che percepiamo il mondo sempre in modo diverso, che lo vediamo come un panorama e che noi stessi ci troviamo al suo interno. È un panorama della terza dimensione, perché nel panorama le immagini scorrono in maniera sferica, sono immagini curve normalmente inserite in una costruzione di legno. Ma il panorama ci dà anche la possibilità di guardare verso l’alto: c’è un cerchio principale verso il basso e uno che ci circonda dall’alto. Non siamo più in grado di orientarci, quindi, ci manca un po’ il sostegno, anche se abbiamo i piedi per terra. Questo tocca soprattutto i filosofi, che da sempre vivono una sorta di storia d’amore con il suolo – che vi sia almeno un punto fermo: questo il loro desiderio. Anche Husserl ne ha parlato, ha scritto pagine bellissime sulla terra intesa come terreno primordiale, cosa che ha un significato particolare per una persona come lui, così aspra e dura nelle sue espressioni, e che in questo caso invece ha trovato parole molto dolci ed elementari. L’oriente è il punto dove nasce il sole, mentre il luogo dove io tocco la terra con i piedi è il primo luogo dal quale parte il pensiero, e sembra proprio che attraverso il piede l’energia possa salire fino 105
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ad arrivare all’occhio. Con l’energia proveniente dal suolo il filosofo riesce a guardare il mondo attraverso i propri occhi, e ogni sguardo che lancia sul mondo produce questo panorama particolare. Ciò significa che ogniqualvolta il filosofo volge lo sguardo intorno a sé si ha la nascita di un belvedere – la figura principale del pensiero e della visione filosofica del mondo. Nella metafora dell’orientamento, d’altra parte, si fa riferimento a un mondo arcaico, a una sensazione a priori di connubio con il sole – il sole è quasi sempre il co-referente. Volgiamo lo sguardo verso l’oriente perché il sole nasce in quella direzione. Come ho sottolineato anche nei miei lavori, è importante tenere presente che dobbiamo tornare indietro, a quelle situazioni in cui possiamo rinascere, in cui c’è un disorientamento primario, che va salvaguardato e ricostituito. Un nascituro nel grembo è sempre senza orientamento, ed è una cosa bella, anche se ha un giudizio precostituito, che è quasi sempre positivo: non vede il mondo, sente il mondo. Siamo innanzitutto in una sonosfera dove vige il mondo dei suoni – come dicono a ragione i musicisti e chi si occupa di musicologia. L’orientamento iniziale avviene perché noi ci troviamo in una sfera di suoni; un’esistenza sonosferica è dunque un nostro bisogno primario. Al tempo stesso, tutte le persone sono nate con la capacità di nuotare, e credo che la qualità della filosofia dipenda dal fatto se il pensatore sa nuotare o meno, oppure se sa fare anche il sub. Solo chi è in grado di fare il sommozzatore può anche pensare, tutti gli altri calcolano, si limitano a fare calcoli. Mentre per fare dei calcoli si può stare seduti, il pensare fluidamente avviene soltanto se c’è un flusso intorno, quando si è in un mondo liquido e se si è parte di una corrente. Il pensiero di base è questo. Ora, però, a costo di sembrare patetico, voglio immaginare come vede il mondo un astronauta che ritorna sulla terra. Per prima cosa un astronauta si accorgerebbe che gli uomini, sulla terra, vivono sulla superficie, o, più precisamente, che vivono sul fondo di un mare d’aria. Le persone viste dal punto di vista extraterrestre appaiono come degli esseri che sono in grado di annegare in un mare d’aria – la vita per gli uomini consiste precisamente in questo anne106
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gare in un mare d’aria. E tutto ciò ha bisogno di un’interpretazione filosofica. Leghissa. Il problema che può allora interessare anche chi non si occupa di filosofia è come ricostruire questo sguardo filosofico, come poter compiere nella nostra vita l’esperimento che già Husserl, ben prima che si andasse sulla luna, ha pensato di fare nel suo saggio inedito degli anni trenta sul rovesciamento del mondo copernicano da lei ora ricordato,1 in cui ha cercato di immaginare che cosa succede se guardiamo la terra dal di fuori. Allora, il problema di chi oggi vuole pensare criticamente è come riformulare la questione dell’immediatezza, o, meglio, secondo quanto diceva lei, come reimmergersi nel mondo in modo produttivo. Sloterdijk. La filosofia come disciplina prevede che il mondo sia frammentato in vari luoghi o spazi non omogenei tra loro, ed evidentemente c’è una differenza tra tutti questi luoghi che è importante e rilevante per la filosofia. Ci sono alcuni luoghi a partire dai quali si può prendere una distanza rispetto alle varie occupazioni mondane, e avere quindi uno sguardo più da lontano. Per questo motivo i giovani autori del primo Romanticismo settecentesco si recavano nei cimiteri: non solo per essere a contatto con la morte, ma anche per pensare. Allo stesso modo, vi era chi si faceva costruire nel proprio parco una solitude, un luogo isolato nel quale rifugiarsi. Se andiamo indietro nel tempo, troviamo nei primi secoli dell’era cristiana l’esempio dei monaci di Alessandria, della Siria o della Palestina che si ritiravano nel deserto – deserto che costituiva l’antitesi del mondo: vi si ritiravano per guardare il mondo a partire da quella particolare prospettiva. Husserl è stato l’ultimo grande eremita – un eremita della logica – che ha cercato di avvicinare al deserto l’uomo del XX secolo, creando per questi una sorta di deserto portatile, un deserto in formato tascabile, potremmo dire, un deserto accademico, da utiliz1. Cfr. E. Husserl, Rovesciamento della dottrina copernicana nell’interpretazione della corrente visione del mondo (1934), trad. di G.D. Neri, “aut aut”, 245, 1991, pp. 3-18. [N.d.T.]
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zare in qualsiasi luogo per giungere a una rottura con il mondo, a un distacco totale – è questo ciò che Husserl chiama epoché. Ma forse, per rispondere alla domanda da lei posta, possiamo ricorrere a un contemporaneo di Husserl, il grande scrittore austriaco Robert Musil, il quale si chiedeva: “come possono i non filosofi raggiungere questo distacco dal mondo?”. E la sua risposta era: “facendo vacanza”. L’uomo senza qualità non fa altro che radicalizzare in maniera estrema il principio della vacanza, il che vuol dire: prendersi una vacanza da tutta la propria vita. Se per esempio mi innamoro di una donna ma non mi interesso di questo fatto, oppure se mi lascio vivere ma non partecipo a ciò che vivo, divento un osservatore assoluto, mi trasformo in una persona che è in vacanza, in un vacanziere in tutto e per tutto, qualcuno che, per così dire, va a fare una cura termale per un periodo indeterminato. Qui forse c’è qualcosa di morboso – lo riconosco. Tuttavia, dobbiamo crearci questa distanza, dobbiamo andare a fare un soggiorno alle terme e allontanarci da quello che facciamo normalmente. Detto altrimenti, all’interno del nostro essere, in noi stessi, dobbiamo ritrovare quella distanza, di natura in un certo senso schizoide, che è l’eredità di ogni coscienza venuta al mondo a partire da un luogo che è prima del mondo. Si tratta di una cosa naturale, perché tutti gli esseri umani prima di nascere hanno vissuto in vacanza per nove mesi. Se pensiamo all’originario periodo di vacanza che abbiamo potuto fare tutti, e lo rapportiamo poi al mondo pubblico, possiamo vedere che un distacco è possibile. Per questo motivo nel mondo asiatico esistono molte tecniche per meditare, per rilassarsi e per distanziarsi sia da se stessi sia dalla nostra complicità con il mondo che ci circonda. Quella che si crea, dunque, può essere una distanza rispetto a se stessi, ma anche rispetto al mondo, rispetto alla complicità che si crea tra il mondo e noi stessi. Per poter distinguere tra me stesso e quella parte di me che è complice del mondo, gli autori di tutti i grandi sistemi filosofici hanno introdotto la distinzione tra l’io e il sé, tra un io profondo e un io superficiale. L’io superficiale è sempre complice di questo mondo, mentre il nostro sé profondo appartiene a questa epoché oceanica, in cui già sempre ci trovia108
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mo, un’epoché che ci dà la possibilità di riottenere un distacco da tutto. Tuttavia, un tale racconto – che è anche un’evocazione – porta con sé un problema. Non si può parlare di queste cose senza al tempo stesso infrangerle. È un po’ come nel caso di un ladro che irrompe nella parte più interna di una casa: costui non può entrarvi senza al tempo stesso venire in contatto con i segreti della casa, il che è sempre legato al rischio di provocare anche delle rotture. Va quindi tenuto presente che tutto ciò che qui ci siamo detti ha un aspetto ermetico, finché non si è raggiunta la società – o, meglio, la comunità in cui si opera. (Da anni combatto una lotta personale per eliminare la parola società, anche se oggi continuo a utilizzarla, perché non me ne viene in mente una migliore con cui sostituirla.) Qui mi riallaccio al punto di partenza di un mio breve saggio in cui ho cercato di tracciare un percorso che va da una piccola società e arriva fino a quella che chiamiamo la società globalizzata – se vogliamo è la storia filosofica della telecomunicazione. Mi è piaciuto il motto scelto per queste giornate udinesi – “vicino/lontano” – perché tocca il mio intimo. È un tema, infatti, che studio da più di dieci anni e che ho trattato in moltissime opere. In Germania sono noto come “vicinologo” (e per questo stesso motivo sono anche odiato da alcuni), dal momento che ho sviluppato una teoria molto radicale dell’intimità. A partire da ciò ho cercato di spiegare come si possano raggiungere stadi più elevati di lontananza, come si possa raggiungere il mondo nella sua grandezza. Noi tutti siamo creature di un piccolo mondo, in quanto proveniamo dal grembo di una madre – e la madre è un incubo costitutivo per tutti noi, liberandosi dal quale si dispiega ogni vita autonoma, oltre a costituire l’utopia della vicinanza. Siamo quindi innanzi tutto coloro che, in quanto rappresentanti umani di una dimensione “mammiferica”, fanno esperienza di come il mondo progressivamente si apra, siamo coloro che esperiscono l’avventura dell’aprirsi del mondo. Heidegger ha toccato per primo questo tema, che ora, tra i filosofi della nostra generazione, viene elaborato da Giorgio Agamben. Anch’io ho sviluppato lo stesso argomento nella mia opera Sfere, che verrà presto tradotta anche in italiano e in cui ho 109
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cercato di esporre, con un notevole dispendio di tempo e spazio, il senso di questa apertura. Leghissa. In effetti sarebbe interessante approfondire come sia possibile ritrovare nel mondo ipertecnologizzato di oggi le tracce di un processo che in realtà è molto più antico. Il mondo della tecnica, infatti, ci sembra la caratteristica principale di un’innovazione assoluta, di cui siamo orgogliosi, ma il filosofo è qui per ricordarci che forse non c’è niente di nuovo sotto il sole, nel senso che molte delle nostre strutture cognitive sono rimaste le stesse, così come è rimasto grosso modo identico anche il mondo che abitiamo. Mi piacerebbe che lei ci offrisse una ricostruzione di questi passaggi attraverso una sorta di dislocazione filosofica di quanto ci raccontano in proposito le teorie dell’evoluzione. Sloterdijk. Parto dal principio, per me fondamentale, che la filosofia non può parlare soltanto del mondo attuale, che il principio della filosofia non è identico al principio del presente, perché se così fosse potremmo parlare soltanto al presente, e dire solo quello che c’è. Questa era l’utopia dell’ontologia classica: parlare al presente, forse senza usare nemmeno i nomi propri, e, toccando l’orizzonte presente di tutto l’essere, esibire tutto quello che si trova al suo interno. Io parto invece dal presupposto che almeno dal XVIII secolo sappiamo che l’utopia della filosofia del presente è fallita. Non dobbiamo parlare soltanto del presente, ma anche raccontare – cosa che molti filosofi non hanno ancora capito, prova ne sia che ovunque, ma soprattutto nel mondo anglosassone, imperversa ancora quella peste che è la filosofia analitica e che rappresenta la forma decadente di un “presentismo” platonico malinterpretato, in quanto non tiene conto della storia. Credo invece che bisognerebbe raccontare e argomentare, e che questo racconto, inoltre, debba essere stringente come un’argomentazione. Ciò è possibile per il semplice motivo che il racconto è una storia, una storia sì costituita da mille storie, da milioni di storie, ma che ciononostante è un continuo formato da continuità e discontinuità, narrabile come un insieme. 110
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È la tesi che ho cercato di sviluppare in Sfere. Lì parto dal presupposto antropologico che molto tempo fa, a partire da un ramo secondario di umanoidi, si è costituito l’homo sapiens, e che in quel momento, in una sorta di incubatrice, è nato non solo un essere che vive in un ambiente, ma anche, in virtù di una catastrofe psicologica e cosmologica, il mondo, cioè l’apertura. Per la maggior parte degli animali il mondo rimane un ambiente e un enigma: gli animali hanno una certa sensibilità nei confronti dell’ambiente, e gli animali superiori provano un sentimento anche per le cose enigmatiche del mondo, sebbene non riescano a risolvere l’enigma, il mistero. Fin dagli inizi l’uomo ha sviluppato due o tre operazioni di base che lo aiutano a risolvere l’enigma del mondo. In primo luogo, riesce a colpire un oggetto con un altro oggetto molto duro in modo tale che il primo venga aperto e sia così possibile vederne l’interno. È una prima vittoria nei confronti dell’ambiente, un primo passo per avvicinarsi al mondo. In secondo luogo, può gettare qualcosa – il gesto per eccellenza con cui si crea la distanza. Se posso gettare, non ho più bisogno di avere un contatto fisico con l’ambiente, posso ritrarmi e vivere in una specie di incubatrice, a una certa distanza dalle cose; posso raffinare le mie tecniche e mantenere distante il mondo. Questo è il motivo, tra l’altro, per cui non siamo ricoperti dal pelo e abbiamo potuto permetterci il lusso della nudità – la nudità del nostro passato fetale che viene continuata nel mondo esterno. L’olandese Louis Bolk2 – rimasto purtroppo sconosciuto, ma che secondo me è uno dei più grandi antropologi del XX secolo – nel 1926 ha svelato il mistero di tali circostanze, pubblicando un libro sull’homo sapiens in cui affermava che per natura l’homo sapiens è un primate che paradossalmente diventa adulto mantenendo la morfologia del feto, cioè la pelle prenatale. Nelle donne, inoltre, gli organi sessuali sono in posizione subventrale, mentre in qualsiasi scimmia femmina, nel corso dei primi due o tre anni di vi2. Lodewijk (Louis) Bolk (Overschie,1866-Amsterdam 1930), anatomista olandese, è l’inventore del termine neotenia. Ricordiamo qui la sua fondamentale opera da poco tradotta in Italia: L. Bolk, Il problema dell’ominazione (1929), a cura di R. Bonito Oliva, DeriveApprodi, Roma 2006. [N.d.T.]
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ta, l’organo sessuale si sposta dalla posizione subventrale, ancora presente nelle scimmie neonate, alla posizione subcaudale – posizione in cui va poi a cercarlo il maschio della scimmia. Nell’homo sapiens, invece, viene delusa l’aspettativa di trovare l’organo sessuale là dove lo cercheremmo invano, per cui dobbiamo adattarci alla frontalità dell’eroticità umana – che è così strana – con tutte le conseguenze psicologiche che ciò chiaramente comporta. È per questo motivo che abbiamo sviluppato il volto umano. Forse il volto è il miracolo più grande del mondo, proprio perché il volto umano è nato con l’arretramento di un meccanismo che nei primati può essere osservato quando sono neonati, quando hanno un volto quasi umano, con la parte superiore e la parte inferiore del cranio poste cioè nella stessa proporzione del nostro cranio. Ma in loro subentra poi uno sviluppo chiamato in biologia prognatismo, cioè la formazione della mandibola, per cui la parte inferiore del cranio si sviluppa in maniera più marcata rispetto a quella superiore, determinando di conseguenza un muso animale e non un volto umano. Per così dire, quindi, il volto umano è la documentazione trionfale di tale arretramento: è un muso perduto o non sviluppato (non per caso, se vogliamo offendere il nostro prossimo, gli diciamo che ha un brutto muso). Ma torniamo all’incubatrice, con cui si crea distanza con il mondo e in cui succede qualcosa di particolare, in cui viene cioè stabilizzato un essere abbastanza strano. Gli uomini nascono dopo nove mesi, ma affinché un bambino possa sopravvivere dovrebbe passare ventuno mesi in quell’incubatrice. Ora, la nostra incubatrice è costituita dalle madri naturali: affittiamo nostra madre per nove mesi, ma ce ne mancherebbero ancora dodici, per così dire. Nei dodici mesi in cui siamo fuori dalla madre e siamo già inseriti nel mondo, dobbiamo appunto trovare nel mondo qualche condizione che ci permetta di compensare quanto avevamo a disposizione durante la nostra esistenza fetale: senza questi dodici mesi a disposizione, sviluppiamo delle psicosi. Ritengo che quasi tutte le patologie dell’uomo, o delle culture dell’uomo, sono condizionate dalle difficoltà che subentrano quando l’uomo cerca di garantirsi questa incubatrice esterna. Oggi, poi, le madri generalmente ri112
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prendono a lavorare subito dopo la nascita dei figli. Se il principio dell’incubatrice esterna funzionasse al cento percento, non ci sarebbe nessun problema, ma in realtà viene a mancare il continuum della gestazione originaria – e non potrebbe essere altrimenti. Così, nella storia dell’umanità vediamo insorgere disturbi precoci che producono poi diverse forme di compensazione. Direi che tutta la storia umana è un enorme programma di compensazione per queste patologie precoci. Dobbiamo traslocare da un’incubatrice a un’altra, da una più piccola a una più grande, poi in una più grande ancora, per giungere infine nel mondo intero, ed è proprio in questo trasloco che esiste la globalizzazione. Della globalizzazione il filosofo cerca di parlare in un modo che non è quello dell’apologeta della televisione, perché il filosofo cerca di rendere comprensibile la conditio humana all’interno di questo immenso processo di trasferimento; in altre parole, il nostro compito consiste nel pensare l’uomo a partire dai processi di vicinanza, in quanto siamo individui che dipendono da queste incubatrici molto piccole, mentre il grande mondo sorge poi attraverso una serie di metaforizzazioni fantastiche. Leghissa. Lei ha parlato della filosofia come narrazione, come romanzo della storia, che non è solo una definizione concettuale della nostra condizione, proprio perché il problema chiave del discorso filosofico, ovvero l’analisi della conditio humana, è qualcosa che può essere soltanto narrato, e narrato in chiave storica. Ora, anche se le filosofie che oggi tendono a prevalere in molti dei nostri istituti universitari sono le filosofie analitiche, che poco ci aiutano a educare la nostra coscienza storica, va detto che questa visione dell’uomo come animale mancante, come essere vivente che deve compensare, che ha come condizione naturale il dover produrre artifici (e la cultura è forse l’insieme di questi artifici), è tipica di un certo discorso filosofico novecentesco – per esempio la troviamo presente, oltre che nel suo pensiero, anche in un altro grande autore che si è confrontato con la questione della narrazione, ovvero Hans Blumenberg. A questo punto, vorrei inserire un’altra questione che si collega con i temi discussi in questi giorni a “vicino/lonta113
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no”. Come possiamo vedere la religione? Come possiamo vedere questa produzione culturale così particolare e bizzarra che è l’invenzione degli dei, partendo proprio dal presupposto che l’uomo sia un animale mancante bisognoso di compensazioni? Sloterdijk. Devo ammettere che è una domanda molto suggestiva. Come altrettanto suggestiva è l’interpretazione della condizione umana che vede l’uomo come un essere mancante. È un’idea che risale al XVIII secolo. Herder, che a Weimar ricopriva la carica di Conzistorialrat, ha scritto un libro a proposito, Ideen zu einer Geschichte der Menschheit,3 dove sviluppava l’idea dell’uomo come essere mancante. È un libro interessante, in cui un teologo cristiano racconta la storia dell’uomo. Ma se sviluppiamo il nostro pensiero al di fuori dell’orbita cristiana, con simpatia verso questa tradizione, ma non ipnotizzati da essa, prima o poi avremo un’obiezione da porre, che diventerà sempre più assillante col passare del tempo – e Herder lo ha sempre ammesso, anche in maniera diretta. Ciò che definiamo mancante nell’homo sapiens costituisce anche la sua forza, i suoi punti di forza, e se cerchiamo di trovare un concetto che sviluppi l’idea della mancanza e contemporaneamente della forza, giungiamo al concetto di lusso. L’uomo è un animale mancante, e lo è soltanto perché è un ente che rappresenta il lusso allo stato puro: la natura può permettersi il lusso dell’esistenza umana proprio perché produce un essere, una creatura – simile a un’orchidea – che soggiace alla legge dell’adattamento esterno, della determinazione biologica esterna, ma che al contempo se ne emancipa. In questo senso, i nostri parenti più prossimi sono le orchidee, non le scimmie. Lo possiamo riscontrare nei volti umani: non esiste un motivo biologico per cui ogni persona debba avere un volto diverso. È una cosa enigmatica e ancora misteriosa, anche dal punto di vista della selezione e dell’adattamento. Se osservo il mio naso allo specchio, l’idea della procreazione dovrebbe essere proibita fin dall’inizio: con un naso come il 3. J.G. Herder, Idee per la filosofia della storia dell’umanità (1784-91), a cura di V. Verra, Laterza, Roma-Bari 1992. [N.d.T.]
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mio, infatti, non si dovrebbe procreare. Questi nasi però ritornano sempre nuovamente nell’homo sapiens, così come tutto il resto. Dal punto di vista della selezione solo il 97 percento dei nostri segni distintivi è neutrale, e questi vengono trasmessi e ritrasmessi, senza che mai ci sia un principio selettivo. Tutto risulta sufficientemente bello per essere trasmesso, altrimenti non saremmo qui. In Italia, poi, le persone sono tutte belle, ma se andate in altri paesi questo concetto vi risulterà evidente, vedrete cioè a quali effetti possa condurre il principio della neutralità dei segni distintivi. Ecco perché dico che l’essere umano è un essere che rappresenta un lusso, più che un essere mancante che vive sotto la legge del bisogno e della necessità. L’uomo reagisce quasi sempre in maniera esagerata, fa più di quello che sarebbe necessario per combattere contro la necessità. È questa l’osservazione a cui giungiamo se consideriamo ciò che ha portato all’evoluzione delle culture: l’uomo reagisce in maniera eccessiva. Se fossimo solo animali che si adattano, reagiremmo alla mancanza con una compensazione; ma noi non ci limitiamo a compensare: compensiamo in maniera eccessiva e questo fa nuovamente pensare alle dimensioni del lusso. La compensazione eccessiva fa entrare in scena la trascendenza. E così arriviamo agli dei. Gli dei sono tipiche reazioni eccessive dell’uomo al cambiamento del mondo, sia in senso patologico, sia in senso estetico e creativo. Infatti, soltanto dove ci sono reazioni eccessive c’è poesia. Quando vedo mia moglie, posso avere una reazione che può essere normale oppure eccessiva; se mi limito a una semplice reazione, ciò significa che il matrimonio non funziona bene; ma se la mia reazione è eccessiva, ciò viene in fondo preso da lei come un complimento. Ed è in questa piccola differenza che sta il valore aggiunto della cultura. Si potrebbe dire, allora, che gli dei sono la garanzia di questo valore aggiunto e fanno sì che non ci accontentiamo del positivismo, che non ci limitiamo all’equazione problema-risoluzione, e ci assicurano che siamo inseriti nel movimento creativo della reazione eccessiva. Abbiamo dunque bisogno di questo principio che è dio, e forse dio altro non è che il principio della scomodità. Uno può lasciarsi andare e può aspettare che succeda qualcosa che in115
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terrompa il suo ritmo lento e pigro. Quando mi sveglio e la dea musica si aspetta da me una sinfonia o semplicemente una piccola canzonetta, devo fare qualcosa, devo agire, e rimango nel movimento di anti-gravità da cui nasce la cultura. In questo movimento dobbiamo raccoglierci: è questo il secondo significato del principio religioso. La religione non offre al singolo individuo soltanto una cornice ordinata, in cui, soprattutto nell’età moderna, il singolo acquista sempre più importanza, ma è anche un principio di unificazione, dove gli individui si riuniscono per organizzare una sorta di congiura della creatività. Tuttavia, non bisogna essere troppo rituali, perché il rito uccide la creatività – in questo senso, è sì necessario avere uno sfondo stabile, stabilito dal rito, ma questo sfondo deve poi sparire; se non sparisce, si ha la ripetitività, che soffoca la creatività. Leghissa. Abbiamo parlato degli dei dando per scontato che il mondo moderno sia un mondo in cui finalmente gli antichi dei, dopo una millenaria rimozione, sono tornati a vivere. Sono figure divine che agiscono come entità che ci permettono di reagire al mondo in modo innovativo, che ci permettono di creare plusvalore, e di dar vita alla creatività. Tuttavia, uno dei temi di cui più si discute oggi riguarda il fatto che nel nostro mondo globale sopravvivono ancora degli dei un po’ bizzarri, che vogliono porsi come gli unici dei esistenti. Come vede lei questa pretesa assolutezza di verità dei monoteismi? Sloterdijk. Il monoteismo, dal punto di vista psicologico, è uno stadio della maturità e nasce in una situazione che è diventata evidente la prima volta, forse, tremila anni fa in Egitto, poi in Palestina, in India, in Persia, in Grecia. È nato in una situazione in cui i pensatori hanno capito che la convivenza tra le persone nella città poli-mitica non poteva più funzionare. Le città antiche erano sempre polimitiche – Babilonia ancora oggi è vista come la grande prostituta, non perché fosse dimora di molte prostitute, ma proprio perché venivano raccontate tante storie che erano un po’ confuse, promiscue, una città in cui regnava la promiscuità del raccontare. Una so116
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cietà di questo tipo trova la propria sintesi sociale – cioè il principio della correlazione, della convivenza di tutti i cittadini – soltanto con la violenza politica. Babilonia, Roma, gli Stati Uniti oggi, sono società che funzionano tutte sulla base dello stesso schema: il potere centrale e una grande dissipazione di attività poli-mitiche. I pensatori più sottili del primo millennio a.C. hanno riflettuto sul fatto se non fosse possibile creare un impero partendo dal di dentro: non con una sintesi costrittiva politica o militare imposta dall’alto, ma con una sintesi volontaria, generosa, che partiva dall’interno. Se tutti credono nello stesso dio e non ogni gruppo al proprio dio, se tutti vedono la stessa luce dall’interno, seguono la stessa legge, e se c’è quindi un despota al di sopra di tutto, allora si crea una nuova idea, un’idea completamente diversa di comunità umana. Credo che questo rappresenti un enorme passo in avanti nell’evoluzione spirituale; possiamo dire che è stato il tentativo grandioso di far sì che il principio dell’impero esterno si possa trasformare nel regno di dio interno. Lo possiamo vedere a partire dalla teologia jahvista, sviluppatasi in Israele nel periodo post-esilico – oppure a partire dalle teologie cristiane o islamiche. Il mondo arabo nel VII secolo, infatti, era un caos unico formato da piccoli clan che si combattevano; c’era, per così dire, una convivenza caotica, un caos totale, ma con un piccolo innesto di elementi monoteistici si è sviluppata un’onda energetica che per centinaia di anni ha invaso e riformato quella parte del mondo. Il mio esempio preferito, però, non proviene dalla storia delle religioni, bensì dalla teologia filosofica come l’aveva concepita Platone, proprio perché in Platone si vede bene cosa significa il monoteismo. Platone ha fatto un esperimento, ha cercato di introdurre una società universale delle telecomunicazioni operando una delegittimazione del mezzo con cui fino a quel momento comunicavano gli ateniesi. Per Platone gli ateniesi erano dei chiacchieroni, che parlavano tanto per parlare, senza produrre niente; anzi, tutto il loro parlare non ha portato che alla guerra: a causa delle loro chiacchiere gli ateniesi, infatti, sono giunti a convincersi di dover combattere gli spartani, hanno poi combattuto gli spartani per trent’anni e alla fine, dopo tante chiacchiere, questi ultimi 117
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sono arrivati ad Atene imponendo una dittatura militare, la cosiddetta dittatura dei Trenta Tiranni. Al termine di questa, come è noto, si è avuto il famoso processo che condannò Socrate a morte – con il che la filosofia ha avuto il suo primo martire. Dodici anni dopo, Platone costituisce l’Accademia ai bordi della città – un’epoché istituzionalizzata, perché camminare a piedi per venti minuti per poter pensare aiuta a uscire dal ciclone delle chiacchiere dell’agorà e questo tragitto era sufficiente per far sì che la forza eterotopica, dell’altro luogo, potesse sprigionarsi. In quel luogo Platone ha sviluppato la nuova dottrina, secondo cui ogni anima ha un “abbonamento” presso dio, presso il dio dei filosofi naturalmente, con una flat rate. Tramite la fontanella il raggio del logos penetra verticalmente dentro ogni singola anima, per cui posso comunicare soprattutto nella dimensione verticale – infatti, soltanto l’evidenza che viene dall’alto vale – mentre uso il colloquio orizzontale per il controllo sociale o per l’insegnamento. In altre parole, la dittatura delle chiacchiere viene messa improvvisamente fuori legge, e in pratica ogni singola anima ha un collegamento diretto, verticale, con la fonte suprema della verità, con ciò che Platone chiama tò agaton. “Radio Platone” trasmette tramite il satellite agaton, per cui abbiamo una struttura emittente completamente diversa: ogni singola persona diventa un “abbonato” della verità e non dipende più dalle chiacchiere degli altri. Questa forse è una delle utopie più grandiose che siano mai esistite: fare in modo che la verità possa giungere nel mondo in una maniera che non è più quella della comunicazione orizzontale. Creare questa nuova tecnologia è stato reso plausibile proprio perché nelle chiacchiere, nel colloquio con gli altri era difficile capire le cifre, le figure geometriche, le entità logiche. Prendiamo il Menone, in cui Socrate parla con un ragazzo analfabeta ponendogli continuamente delle domande, in modo che il ragazzo riesca a sviluppare da solo, con la forza del ragionamento, la diagonale del quadrato; ciò significa che il ragazzo, adeguatamente stimolato, ha subito attivato il suo “abbonamento” verticale con “Radio Platone”. Da qui è nata anche l’idea europea di università. Ancora oggi viviamo di questa utopia, e creiamo dei luoghi 118
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in cui la comunicazione orizzontale viene interrotta sulla base di un principio molto più forte, cioè da evidenze che vengono dal cielo, dove l’apriori risponde picche all’aposteriori, dove il concetto filosofico della verità prevale nei confronti dell’empirismo e del giornalismo. Nel corso del XX secolo, tuttavia, l’utopia dell’università, l’idea di una verità alla quale siamo collegati individualmente, è entrata in una crisi sempre più profonda, e sempre più torniamo a muoverci in un mondo in cui prevale la comunicazione orizzontale senza limiti, dove nessuno si trova bene, dove si vedono e si sentono molte cose, nessuna delle quali però ci persuade davvero. Leghissa. Lei giustamente osserva che il mondo nato dall’utopia platonica è venuto meno – e con esso è venuta meno anche la possibilità, o la speranza, di accedere tutti a un mondo comune di evidenze. E quanto questo aspetto sia importante, emerge quando pensiamo al fatto che l’utopia platonica sta alla base del pensiero politico occidentale: non ci sarebbe neanche l’idea di democrazia se non ci fosse la possibilità di pensare che tutti possiamo accedere a un orizzonte comune di verità. Ma ora vorrei prendere spunto dall’immagine che lei ha utilizzato per descrivere il funzionamento della macchina filosofica platonica per trasporla al mondo attuale e per vedere cosa c’è di nuovo oggi – se c’è davvero qualcosa di nuovo. Proviamo a immaginare che da “Radio Platone” venga emessa un’unica verità, che però non è quella del filosofo; immaginiamo che ci vengano impiantati nel cervello dei microchip che ci permettano una comunicazione diretta con una fonte unica della verità: cosa potrebbe succedere? È uno scenario orrifico, che non troviamo però solo nei libri di fantascienza degli anni cinquanta e sessanta. Ormai cose di questo tipo sono possibili: ci sono dei microchip, per esempio, che permettono di raggiungere l’orgasmo eliminando così il “fastidio” del contatto fisico, del sudore ecc. Ma immaginiamoci dei microchip ben più potenti, in grado non di causare simili piaceri, bensì di risolvere il problema del contatto tra umani in tutti i sensi del termine.
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Sloterdijk. La scorsa settimana in California due produttori hanno sviluppato nuovi sistemi di driver per il computer utilizzando le onde cerebrali. La ricerca è già piuttosto avanzata, tanto che dei minimi cambiamenti di tensione all’interno del cervello sono sufficienti a modificare, a manipolare o ad azionare qualcosa, a provocare cambiamenti su un monitor, senza usare il mouse o la tastiera, quindi senza usare le mani, soltanto attraverso la forza del pensiero. È un primo passo verso una nuova tecnologia, segno di una teleologia immanente all’evoluzione del mondo dei media. Parto dal principio che non esista nulla nella tecnica che non sia prima presente anche nella metafisica – ma anche dal principio che tutto ciò che esiste nella metafisica, esisteva prima nella magia o nel pensiero arcaico. Se combiniamo insieme questi due assunti, otteniamo una guida per vedere o decifrare anche la tecnologia dei media. Con l’aiuto del linguaggio già diecimila anni fa, nell’arco di molte generazioni, a livello di etnie e di popoli siamo riusciti a sintetizzare le tradizioni, cioè siamo riusciti a costruire una corrente culturale. In questo ci ha aiutato anche la scrittura, perché la scrittura è riuscita a fissare il linguaggio sulla carta, su un altro medium, riuscendo così a facilitare, a realizzare il colloquio con gli assenti. Raramente, infatti, l’autore è presente: o è morto oppure è in esilio o è lontano, magari sta facendo conferenze in giro per il mondo e quindi non è presente, non è presente in corpore. In questo modo il principio della telecomunicazione viene trapiantato per la prima volta in maniera efficiente: con la scrittura c’è la possibilità di attingere alle parole, una volta attraverso il papiro, poi attraverso il libro e adesso con i media elettronici. C’è quindi la garanzia di poter avere una actio in distans, di superare grosse distanze, di essere parte di una grande comunità, alla costruzione della quale tutti lavorano. Il prossimo passo dovrebbe essere quello di allontanarsi dalla scrittura e passare alla tele-oralità. Da cento anni ormai è questa l’avventura della cultura radiofonica dell’Occidente. Tutto ciò si basa sul principio della seconda oralità, della telecomunicazione. In tedesco esiste una parola che si può usare al posto della parola “telefonico”, ed è “teleorale”, in cui l’oralità può essere connessa con il principio tele. Con ciò si esprime il fatto che viene garantita 120
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una nuova raggiungibilità della persona vicina, che però è lontana. Si ribalta così il principio di vicino/lontano: prima c’è il lontano e poi viene, in secondo luogo, il vicino. La teletecnologia ci permette di produrre una vicinanza lontana – una lontananza vicina. Va ricordato che Agostino è stato il primo a coniare queste definizioni, perché parla di dio che è lontano alla vicinanza e vicino alla lontananza – in questo senso dicevo che oggi non esiste nulla nella tecnologia che non sia stato già presente nella metafisica molti secoli fa. Lei ha parlato anche di un altro passo, cioè dello sviluppo di una tecnologia telepatica, dove non solo l’oralità viene ripristinata, ma anche l’intimità. Significa che se io penso a te in questo momento e tu sei lontano da me, dovrebbe suonare il tuo telefono interno e dovresti sapere che io ti sto pensando. È qualcosa che sembrerebbe verificarsi in coloro che si trovano in uno stato di telepatia erotica acuta. Tuttavia, nella logica immanente allo sviluppo tecnologico il prossimo passo dovrebbe essere proprio riuscire a sviluppare una telepatia precisa a livello neurale – i primi passi in questa direzione si possono vedere già nelle ultime ricerche. Come ho appena detto, una settimana fa è stato presentato un nuovo sistema di computer in California, con cui è possibile manipolare la tastiera o dare indicazioni allo schermo solo col pensiero. Tra vent’anni chissà dove saremo. E forse tra cinquant’anni altri saranno seduti qui a parlare del vicino e del lontano. Allora la domanda sarà: professor XY, secondo lei non è pericoloso? Leghissa. Proviamo ad addentrarci ancora un po’ in questo scenario futuro – vicino. Nella nostra conversazione abbiamo visto che se si parla di tecnica, si parla di qualcosa che possiamo meglio descrivere se ci rendiamo conto di quanto la tecnica sia connessa alla metafisica, alle tradizioni religiose, di quanto siano utili, in senso metaforico, ma forse non solo, le parole delle teologie, delle metafisiche, per descrivere e comprendere al meglio il nostro mondo. Prenderei spunto, allora, da una tradizione che lei ha studiato a fondo e che è spesso presente nelle sue riflessioni. Prendo dalla tradizione della gnosi l’espressione pleroma, il mondo della pienezza 121
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divina, il mondo dal quale, distaccandosi progressivamente, emergono gli elementi che compongono il nostro mondo fino all’ultimo elemento, la materia, che contiene le scintille della luce divina uscite dal pleroma. Lo scenario della telecomunicazione universale, allora, non è forse il ritorno del pleroma, il ritorno della pienezza e dell’immediatezza assoluta? Sloterdijk. Esiste una tradizione molto antica riconducibile alla corrente neoplatonica, oppure agli gnostici, secondo la quale dio poteva apparire in due condizioni: ora come un punto, ora come una sfera. Se si presenta come un punto, è più piccolo della più piccola unità, e quindi più implicito di tutto ciò che può essere implicito; è talmente denso, talmente compatto che non può avere nessuna estensione. Era una definizione estrema di dio nell’ambito di una nanodimensione. Tale dimensione nanoteologica viene sviluppata dai neoplatonici assieme all’idea dell’esplosione primordiale, il Big Bang iniziale, il che conduce a immaginare un dio che, a partire da questo punto inesteso, si espande senza limiti. Da ciò deriva poi, nel Medioevo, una speculazione semi-gnostica, legata all’ermetismo, secondo cui dio è un cerchio il cui centro si trova dappertutto e la cui circonferenza non è da nessuna parte. In questo contesto è importante considerare il fatto che la pienezza viene pensata assieme all’inestensione. C’è questa grande esplosione e dio diventa tutto in tutti, assume una dimensione enorme, diventa una sfera globale enorme e racchiude tutto. Alla periferia di questa sfera ci sono dei raggi energetici che ritornano al centro della sfera e che autogenerano la sfera e la totalità. È una figura interessante perché costituisce un’azione parallela a ciò che abbiamo esposto all’inizio del nostro dialogo, quando abbiamo cercato di definire il pensiero filosofico, e il punto di partenza di questo pensiero, come un’immersione nella pienezza. Se questa pienezza adesso la chiamiamo mondo (ma si potrebbe anche usare un altro termine), la principale caratteristica di questa immersione sembra essere che all’inizio non c’è spazio alcuno per operare delle differenziazioni. Quindi l’intelletto umano è quasi un punto che non riesce a estendersi, che si trova in un ambiente molto più grande che lo circonda, 122
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e solo attraverso la costruzione di differenziazioni o con l’estensione delle nostre possibilità di azione e di espressione, con le attività tecniche, possiamo entrare in questo pleroma naturale e trovarvi il nostro posto o uno spazio a noi adeguato. Tale storia della tecnica o della cultura ha già da sempre un significato filosofico, nel senso che essa comporta la trasformazione della molteplicità caotica, vuota o piena che sia, in un mondo determinato, definito. Noi uomini lavoriamo sempre a questo dispiegamento e per questo gli individui che sono coinvolti in tale processo, anche se attraversano momenti di crisi o di dubbio, hanno comunque la coscienza di fare qualcosa di sensato, di far parte di una storia e di un racconto sensati, i cui singoli momenti possono essere chiariti. Si ha quindi una teleologia interna delle situazioni fondamentali. Qui troviamo il senso dell’intelligenza umana – anche se qualche volta si dubita che questa esista. Ma l’annuncio che l’intelligenza esiste deve essere trasmesso, diversamente da quanto accade nelle religioni, non attraverso proclami, profezie, o buone novelle, bensì attraverso l’argomentazione – come pure attraverso i racconti.
Traduzione dal tedesco di Giovanni Leghissa e Tatiana Silla
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Archivio Enzo Paci A trent’anni dalla morte di Enzo Paci, con il moltiplicarsi degli studi e delle iniziative legate alla sua opera, l’Archivio chiede a chi ha scritto e scriva su Enzo Paci di voler gentilmente inviare copia del proprio lavoro all’Archivio stesso. Lo scopo evidente è quello di riunire e fare conoscere lavori e ricerche, e i loro autori, per favorire altri studi. Nello stesso ternpo si intende garantire la presenza di una collezione completa di scritti di e su Enzo Paci nel luogo che ne conserva manoscritti e biblioteca. L’invito si rivolge anche a chi abbia scritto una tesi di laurea o una dissertazione di dottorato su Enzo Paci e/o sul contesto culturale in cui si è mossa la sua attività. Al momento la collezione è parziale e sembra utile completarla. Si potrà in questo modo compilare anche un elenco degli studiosi interessati. Inoltre si è avviata l’acquisizione e la catalogazione dell’epistolario. Chiediamo pertanto a chi sia in possesso di lettere di Enzo Paci di collaborare, inviandoci fotocopia delle lettere; se ne ha tenuto copia e non ha nulla in contrario, sono benvenute anche fotocopie delle lettere del corrispondente. L’indirizzo al quale inviare il materiale è: Archivio Enzo Paci via Beato Angelico 5 20133 Milano Ringraziamo tutti anticipatamente e raccomandiamo di accludere al materiale anche il proprio recapito.
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I paradossi della vulnerabilità culturale EDOARDO GREBLO
er quanto si tratti di fenomeni distinti, tanto il femminismo quanto il multiculturalismo definiscono i propri obiettivi politici scontrandosi con problemi di disconoscimento e oppressione dovuti all’incapacità della cultura (maschile) dominante di riconoscere le persone come eguali a causa di una radicata insensibilità alla differenza. In altre parole, per la cultura maggioritaria, improntata a valori, risorse e opportunità normalmente accessibili al genere maschile, le procedure di inclusione egualitaria possono riguardare unicamente gli individui in quanto soggetti astratti di diritti, privati di caratteristiche e di identità particolari, ma non gli individui caratterizzati dalla loro differenza e dalla loro specifica identità, culturale e di genere. A questi ultimi si chiede di essere accettati e rispettati non per ciò che concretamente sono, ma solo per la loro identità pubblica resasi indipendente dai tratti di origine. Tutto ciò sembra favorire una “naturale” coincidenza d’interessi tra chi persegue l’eguaglianza di genere e chi persegue l’eguaglianza culturale, sullo sfondo di una critica condivisa nei confronti di una forma omogeneizzante di universalismo che ha ricavato indebite generalizzazioni da immagini stereotipate sia del sesso sia della cultura, così come dalla percezione che l’eguaglianza può dipendere proprio da un maggiore rispetto per il riconoscimento della differenza. In un libro che ha dato avvio a un ampio dibattito in merito alle condizioni necessarie al pieno godimento della cittadinanza multi-
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culturale, Kymlicka ha sostenuto la tesi secondo cui il riconoscimento differenziato dei diritti di minoranza non sarebbe affatto incoerente con una prospettiva di tipo egualitario e universalistico.1 Anzitutto, le rivendicazioni delle minoranze culturali ricavano la loro legittimità, secondo Kymlicka, proprio dal richiamarsi ai diritti universali degli individui, poiché se tutti gli individui devono poter disporre delle medesime opportunità di progettare le proprie vite, e se la cultura è il contesto entro il quale le persone formano le proprie identità personali e in cui possono quindi compiere azioni significative, allora i membri delle culture minoritarie devono poter contare sulla stabilità della propria forma di vita per poter godere degli stessi diritti di cui godono i cittadini della cultura maggioritaria. In secondo luogo, occorre distinguere tra i diritti di autogoverno, rivendicati da minoranze nazionali incorporate per effetto della conquista o della colonizzazione in uno Stato più esteso, e i diritti multietnici, rivendicati da minoranze formatesi in seguito a immigrazioni individuali o familiari. Infine, è necessario distinguere tra “protezioni esterne”, che possono rivelarsi necessarie per favorire l’equità tra i gruppi, e “restrizioni interne”, che vanno invece respinte quando impediscano ad alcuni membri del gruppo minoritario di rivedere e mettere in discussione autorità e pratiche tradizionali.2 Le politiche di compromesso adottate dallo Stato devono pertanto impedire, in questa prospettiva, che le forme di cittadinanza differenziata possano involontariamente consentire quello che Shachar ha definito “il paradosso della vulnerabilità multiculturale”,3 ossia la riproduzione delle forme di disconoscimento e delle asimmetrie nei rapporti di potere che gravano su alcuni degli individui, i più vulnerabili appunto, anche all’interno dei gruppi minoritari, finendo così per mantenere uno status quo talmente asimmetrico da annullare, in determinate situazioni, i diritti di questi individui in quanto cittadini. 1. W. Kymlicka, La cittadinanza multiculturale (1995), il Mulino, Bologna 1995. 2. Ivi, pp. 35-37. 3. A. Shachar, The paradox of multicultural vulnerability: Individual rights, identity groups and the State, in C. Joppke, S. Lukes (a cura di), Multicultural Questions, Oxford University Press, Oxford 1999.
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A un primo sguardo, la soluzione proposta da Kymlicka sembrerebbe suscettibile di appianare le tensioni tra eguaglianza di genere ed eguaglianza culturale. Dando attuazione a misure legislative volte a garantire i diritti alla differenza per gruppo, le politiche dello Stato democratico possono riuscire a garantire l’accesso eguale alle risorse culturali in modo da evitare che i provvedimenti coerenti con questa impostazione finiscano per imprigionare le donne e i membri più vulnerabili del gruppo in strutture di genere oppressive e non egualitarie. Qualunque sia il profilo assunto da questi diritti, essi non devono cioè essere tali da violare le aspirazioni alla libertà e alla parità da parte delle donne. A ben guardare, tuttavia, non è sempre così agevole distinguere tra le legittime “protezioni esterne” e le illegittime “restrizioni interne”, e questo, in particolare, se si pone l’accento su quello che è uno dei principali obiettivi rivendicati dai gruppi identitari nei confronti degli altri gruppi o dello Stato: mantenere o acquisire l’autorità di decidere chi può essere considerato membro del gruppo a pieno titolo. Le regole relative al matrimonio e al divorzio, per esempio, spesso giocano un ruolo importante nello stabilire i criteri di appartenenza al gruppo e i confini tra il gruppo e chi ne è fuori. In questo senso, il diritto di famiglia esercita, per i gruppi religiosi e culturali, una funzione analoga al ruolo che la legislazione relativa alla cittadinanza assume per lo Stato.4 Poiché si tratta, pertanto, di un’autorità che si applica soprattutto attraverso il diritto di famiglia, è possibile che ciò comporti la presenza di vincoli significativi a carico dei diritti dei membri di sesso femminile, per esempio in campo educativo e professionale, tanto più che non mancano casi in cui i criteri di ascrizione al gruppo sono chiaramente discriminatori. Non sempre è possibile tracciare una netta linea di demarcazione tra i diritti destinati a schermare il gruppo da pressioni esterne di tipo assimilatorio e i diritti interni di cui devono poter fruire i membri che ne fanno parte, e dipende dall’elasticità con cui vengono interpretati i diritti alla protezione esterna garantiti al gruppo l’intensità e l’estensione della loro conflittualità con 4. A. Shachar, Multicultural Jurisdictions, Cambridge University Press, Cambridge 2001.
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i diritti degli appartenenti presi uti singuli, considerati cioè come individui distinti. È questa la costellazione di problemi che induce Okin a porsi l’interrogativo: “Il multiculturalismo è un male per le donne?”5 – anche se le questioni sollevate riguardano i conflitti di valore che si scatenano all’interno di società multiculturali la cui popolazione diviene etnicamente sempre più eterogenea, piuttosto che i conflitti compendiabili nella tesi dello “scontro di civiltà”. Ora, l’aspetto del multiculturalismo che attira in modo particolare la sua attenzione riguarda l’idea che le culture o le forme di vita minoritarie non siano sufficientemente protette da una teoria e da una pratica dei diritti impostate in senso individualistico, e che pertanto le richieste di riconoscimento volte a equiparare forme di vita culturali diverse debbano poter godere della garanzia supplementare offerta dai diritti alla differenza per gruppo. Anche perché Okin non ne respinge in via pregiudiziale il presupposto di sfondo: l’idea cioè che la persona astratta caratteristica della giurisprudenza tradizionale possa diventare “individuo” solo a condizione di tutelare contesti di esperienza e di vita intersoggettivamente condivisi. È infatti solo in tali contesti che le persone formano le proprie identità personali e si inseriscono in una cornice pratico-simbolica che permette alla loro vita di dispiegarsi avvalendosi di un significativo ventaglio di scelte, che sono tanto più autonome quanto più consapevoli circa la propria identità culturale. Tuttavia, per Okin, tali argomenti si rivelano poco sensibili ai “diversi ruoli che i gruppi culturali impongono ai propri membri”6 e trascurano il ruolo della famiglia nei processi di trasmissione culturale che impostano la differenza di genere non solo nell’area af5. S. Moller Okin, Il multiculturalismo è un male per le donne?, in Ead., Diritti delle donne e multiculturalismo (1999), Raffaello Cortina, Milano 2007, pp. 3-22. Cfr. al proposito M.L. Lanzillo, Il multiculturalismo, Laterza, Roma-Bari 2005, pp. 92-96; Ead., Noi o gli altri? Multiculturalismo, democrazia, riconoscimento, in C. Galli (a cura di), Multiculturalismo. Ideologie e sfide, il Mulino, Bologna 2006, pp. 91-92; A.E. Galeotti, Genere e culture altre, “Ragion pratica”, 23, 2004, pp. 453-481; L. Baccelli, In a Plurality of Voices. Il genere dei diritti, fra universalismo e multiculturalismo, “Ragion pratica”, 23, 2004, pp. 483-502; F. Belvisi, Società multiculturale, diritti delle donne e sensibilità per la cultura, “Ragion pratica”, 23, 2004, pp. 503-522. 6. S. Moller Okin, Il multiculturalismo è un male per le donne?, cit., p. 7.
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fettiva ma anche in quella materiale, e che incidono profondamente e fin dall’inizio sulle sorti delle persone e sull’elaborazione della loro identità. I tre aspetti del benessere morale e psicologico evidenziati da Honneth, ovvero la sicurezza, il rispetto di sé e l’autostima,7 non richiedono soltanto la conservazione della cultura di appartenenza, ma dipendono anche dall’equo riconoscimento di prestazioni e interessi correlati a un’identità di genere su cui gravano invece fenomeni di disconoscimento dovuti essenzialmente al carattere patriarcale tipico di molte culture. In modo analogo, la capacità delle donne di dare attuazione alle loro preferenze nel campo della vita politica e personale dipende dai molti modi in cui la consuetudine, le aspettative, le condizioni socioculturali sono arrivate a condizionarne le scelte e talvolta persino i desideri riguardanti il loro ruolo sociale e la loro stessa vita. I legami tra identità psichica, pratiche della sfera privata e appartenenza etnica possono facilmente essere all’origine di scontri nella valutazione culturale: la spesso scarsa considerazione che molte culture prestano alle donne e i vincoli che i modelli culturali prevalenti impongono loro riguardo a ciò che hanno diritto di aspettarsi nelle aree fondamentali dell’esistenza, possono spingersi fin dentro gli aspetti più intimi e privati dell’esistenza e minare la possibilità di acquisire quella fiducia in se stesse di cui hanno necessità per soddisfare i propri bisogni e perseguire i propri interessi. Poiché, inoltre, i fenomeni di subordinazione hanno spesso carattere informale e si verificano nella famiglia come ipotetico centro della sfera privata degli affetti e delle cure, persino le culture che “rispettano le libertà civili e politiche delle donne e delle bambine non le trattano affatto, nella pratica, soprattutto nella sfera privata, con la medesima considerazione e rispetto che riservano agli uomini e ai bambini, né le mettono in condizione di godere della medesima libertà”.8 Queste sottili forme di discriminazione possono estendersi dalla creazione e stabilizzazione di aspettative che danno per scontato il 7. A. Honneth, Lotta per il riconoscimento. Proposte per un’etica del conflitto (1992), il Saggiatore, Milano 2002. 8. S. Moller Okin, Feminism and Multiculturalism: Some Tensions, “Ethics”, 4, 1998, p. 678.
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carattere “naturale” della soggezione femminile, in quanto fondata sulla natura della riproduzione che è alla base della sfera domestica, sino all’uso arbitrario e irrazionale del genere nell’attribuzione di ruoli e posizioni nella sfera pubblica. Considerazioni come queste portano a porre il rapporto tra femminismo e multiculturalismo in termini di oppositività: riconoscere diritti collettivi e di gruppo a minoranze religiose molto spesso profondamente improntate in senso patriarcale, finisce per sottrarre alle donne e agli altri individui vulnerabili del gruppo o della comunità le tutele giuridiche cui avrebbero diritto se non fossero considerati membri di minoranze culturali e li espone, pertanto, a forme di oppressione altrimenti evitabili. Nel caso di una cultura minoritaria più patriarcale all’interno di una cultura maggioritaria meno patriarcale, non si possono addurre, sulla base del rispetto di sé o della libertà, motivazioni valide per cui i membri femminili avrebbero un interesse evidente a preservare la propria cultura. Anzi, la loro condizione potrebbe migliorare se la cultura in cui sono nati dovesse estinguersi (così che i suoi membri sarebbero obbligati a integrarsi nella cultura, meno sessista, che li circonda) oppure, ancora meglio, se fosse incoraggiata a cambiare in modo da rafforzare l’uguaglianza delle donne – almeno fino al livello in cui questo valore è difeso dalla cultura maggioritaria.9 Se solo accettiamo l’idea che una teoria dei diritti e della giustizia debba essere coerente con i principi dello Stato liberaldemocratico, la forma che possono assumere i compromessi giuridici attuati dagli assetti istituzionali multiculturali non può che dipendere dalla disponibilità del gruppo ad accettare la riduzione o il ridimensionamento delle pratiche che sanzionano, al suo interno, relazioni interpersonali improntate in senso patriarcale e autoritario. Okin si appella, in questo contesto, a principi di giustizia che devono rispondere universalmente a tutti coloro che condividono la comu9. Ead., Il multiculturalismo è un male per le donne?, cit., p. 20.
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ne umanità delle persone. Come accade in generale a chiunque viva in condizioni di oppressione, anche alle donne può capitare di non desiderare un certo bene solo perché sono state lungamente abituate alla sua mancanza: si tratta di una forma di preferenza adattiva che può essere interiorizzata al punto da indurle a perdere la loro capacità di critica e la loro stessa percezione dei propri diritti.10 Così, per esempio, Okin afferma che “in numerose culture il rigido controllo delle donne viene rafforzato nella sfera privata” attraverso “l’intermediazione, o con la complicità, di donne più anziane della stessa cultura”.11 Ed è per questo che outsiders impegnati possono spesso rivelarsi interpreti e critici dell’ingiustizia sociale più acuti di coloro che giudicano aderendo ai parametri della propria cultura di riferimento.12 La tesi della radicale inconciliabilità tra femminismo e multiculturalismo sostenuta da Okin è stata sottoposta a una nutrita serie di contestazioni, riconducibili, sostanzialmente, a tre diversi complessi tematici: anzitutto, (a) Okin sembra propensa a condividere l’atteggiamento tipico del colonialismo presente in tutto il mondo, per il quale i principi di giustizia sorti in Occidente debbono essere convincenti anche alla luce di premesse culturali diverse, come se la rivendicazione egualitaria di una validità universale non avesse (anche) avuto la funzione di nascondere le reali disparità di trattamento che colpivano chi veniva, per esempio le donne, implicitamente escluso; in secondo luogo, (b) si appella a principi, come l’accesso ai diritti e alle opportunità garantito dalle norme di “pari trattamento” che, oltre a essere soltanto in parte realizzati, tradiscono l’effettiva diseguaglianza di trattamento che colpisce indiscriminatamente anche le donne che appartengono alla cultura di maggioranza; infine, (c) la sua interpretazione delle pratiche culturali che contraddicono i principi dell’universalismo egualitario e non lasciano alcuno spazio all’autonomia delle donne soffre della sua posizione di outsider, di osservatore distinto da colei che agi10. Cfr. M.C. Nussbaum, Diventare persone. Donne e universalità dei diritti (2000), il Mulino, Bologna 2001, cap. II. 11. S. Moller Okin, Il multiculturalismo è un male per le donne?, cit., p. 19. 12. Cfr. Ead., Political Liberalism, Justice and Gender, “Ethics”, 1, 1994, pp. 23-43.
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sce: è la sua visione “estrinseca” delle culture che la porta a sottovalutare i punti di vista discordanti che si muovono in controtendenza rispetto alle strutture patriarcali dominanti. Il primo complesso tematico riporta la discussione ai problemi correlati all’universalismo: e se i principi di cui ci si avvale per valutare le pratiche culturali esistenzialmente dissonanti rispetto alle nostre non fossero, tutt’al più, che l’espressione di ciò che è “buono” per noi in quanto membri di una comunità contrassegnata da un ethos determinato, invece che l’espressione di ciò che è “giusto” per tutti? Attribuire ai diritti individuali la priorità sui diritti di gruppo, per esempio, sembra rispecchiare una concezione dell’autonomia che dipende dal taglio individualistico che la “nostra” cultura attribuisce ai diritti soggettivi, per la quale la libertà individuale è prioritaria rispetto ai vincoli familiari o comunitari e nella quale si riconosce scarso peso al senso di identità correlato a particolari appartenenze associative. Vi sono invece culture che antepongono la comunità agli individui, che non prevedono una chiara linea di separazione tra diritto ed etica e nelle quali i legami di integrazione si avvalgono dei doveri piuttosto che dei diritti, chiedendo agli individui inserimento e sottomissione incompatibili con diritti soggettivi riconosciuti a priori. La concezione “occidentale” che riconosce l’eguaglianza giuridica e la libertà di scelta corrisponde ai requisiti funzionali delle società di mercato, che valorizzano gli individui per il loro contributo allo sviluppo economico piuttosto che per il loro status all’interno della cultura di appartenenza. Se perciò, da un lato, corredare gli individui di diritti soggettivi azionabili può finire per minacciare l’integrità organica degli ordinamenti familiari o comunitari, dall’altro può finire per coprire con il mantello apologetico dell’universalismo pratiche e valori anch’essi “provinciali” e particolari.13 Ora, il fatto che i principi di giustizia non siano indipendenti da contesti storici sostantivi è fuori discussione, così come è indiscuti13. Per una prospettiva che non considera il valore dell’autonomia come terreno di scontro tra la tesi “occidentale” e l’antitesi “orientale”, cfr. S. Saharso, Female autonomy and cultural imperative: Two hearts beating together, in W. Kymlicka, W. Norman (a cura di), Citizenship in Diverse Societies, Oxford University Press, Oxford 2000.
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bile che essi esprimono e legittimano esperienze e forme di vita ascrivibili a società chiaramente delimitate nello spazio e nel tempo – di più: come molte femministe sarebbero pronte a sottoscrivere, portano spesso stampata in fronte la loro dipendenza da interessi particolari all’interno di società particolari. Conseguenza di ciò è che tutti i principi di giustizia debbono essere considerati passibili di dispute sulla loro interpretazione, oltre che suscettibili e bisognosi di una giustificazione retrospettiva. Tuttavia, ricondurre alcuni valori al loro contesto di origine, a una provenienza che non si dà a vedere come tale, non impedisce al sistema dei diritti di matrice “occidentale” di rappresentare l’universalità dei diritti umani, nonostante le letture selettive che di questi diritti vengono offerte dalle diverse culture. Sia perché la critica alla loro matrice “occidentale” non di rado ricava argomenti proprio dalla critica occidentale della ragione e del potere, sia perché il problema consiste piuttosto nell’individuare una prospettiva in grado di rendere conto di una loro interpretazione condotta anche nell’orizzonte delle altre culture. Per esempio, è proprio perché l’autocomprensione etica del mondo aderente alla specificità contestuale e culturale dell’Occidente si è resa riflessiva, accogliendo e positivizzando anche in senso autocritico i criteri alla cui luce si possono scoprire e modificare le violazioni alle sue stesse pretese, che in essa si è fatto spazio per le forme ragionevolmente prevedibili di dissenso etico, culturale e religioso improntate anche in senso multiculturale. E questo sembrerebbe suggerire l’idea che il discorso interculturale sui principi di giustizia, invece di fare appello a prerogative della cultura di origine, farebbe bene a sfruttare proprio il contenuto universalistico e “occidentalizzante” dei valori che stanno alla base dei diritti umani. Tra i valori più contestati da chi ritiene certe culture inconciliabili con la concezione individualistica del diritto coltivata in Occidente, vi è il principio che valorizza la separatezza delle persone. Tuttavia, come ha sottolineato Nussbaum, questo riconoscimento è cruciale per la vita delle donne, soprattutto in famiglia, poiché, nel momento stesso in cui la loro condizione viene assimilata a quella di parti di un’entità organica, troppo spesso esse si trasfor133
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mano in presenze ancillari, fattori riproduttivi o agenti della generale prosperità familiare piuttosto che essere fini in sé. In molte parti del mondo vi sono culture che limitano l’individualità delle donne al punto da ignorarle sistematicamente nella distribuzione del cibo o delle risorse sanitarie, o che le costringono a consolidare desideri e preferenze riguardanti la loro stessa vita che sono stati deformati da consuetudine, paura o ingiuste condizioni socioculturali. Con risultati devastanti: stando al calcolo effettuato da Jean Drèze e Amartya Sen, basato sulla percentuale di maschi e di femmine nel mondo, il numero complessivo delle “donne mancanti” può essere stimato in circa cento milioni – mancanti, com’è facile immaginare, a causa della sistematica esclusione cui vengono costrette nell’allocazione dei generi alimentari e dei servizi sanitari.14 Le donne hanno perciò precisamente bisogno di essere riconosciute come esseri separati, quali individualità il cui benessere va nettamente distinto da quello del marito o del congiunto maschio. Da un punto di vista teorico generale, la critica alla concezione individualistica del diritto lascia trasparire un sospetto non del tutto ingiustificato nei confronti dell’individualismo possessivo dilagante, traendone però conseguenze sbagliate. Il punto su cui è necessario ricondurre la discussione è quello che verte sul rapporto di tensione tra eguaglianza di genere ed eguaglianza culturale: le aspirazioni alla libertà e alla parità da parte delle donne sono in conflitto con la legittima pluralità delle culture umane – e se le cose stanno in questi termini, è possibile risolverlo attribuendo una qualche priorità alla giustizia di genere rispetto alla giustizia culturale, o viceversa? Spostare questi problemi sul terreno di una discussione di principio, che veda i difensori dell’universalismo definire come uniformemente reazionarie le culture diverse da quella occidentale e i teorici della differenza culturale ribattere con accuse di imperialismo eurocentrico, non porta molto lontano. E anzi, può involontariamente contribuire a rafforzare un pregiudizio che Bellamy considera largamente diffuso, e cioè “che le obiezioni al liberalismo improntate in senso pluralistico traggano origine da for14. J. Drèze, A.K. Sen, Hunger and Public Action, Clarendon Press, Oxford 1989.
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me illiberali di ritorno al passato miracolosamente sopravvissute nel mondo moderno”.15 Anche se i dubbi alimentati da una concezione aprioristica dell’individuo, che vede le persone fornite di diritti innati a prescindere da qualsiasi socializzazione e da qualsiasi rapporto con l’intersoggettività sono spesso giustificati, trasferire il dibattito che verte sui rapporti tra eguaglianza di genere ed eguaglianza culturale sul piano dei rapporti tra femminismo e universalismo da una parte e pluralismo giuridico dall’altra rischia di non portare da nessuna parte. In questo contesto, il problema relativo alla fonte, all’origine o alla provenienza degli ideali non è, in effetti, la questione più urgente: ciò che conta, è sapere se da questi ideali possono essere ricavate norme più specifiche per orientare l’azione politica destinata a regolare comunità culturali o gruppi subalterni diversi dallo Stato nazionale Nel secondo complesso di obiezioni traspaiono rilievi di natura empirica piuttosto che normativa, stando ai quali la denuncia della vulnerabilità culturale si appella a principi di eguaglianza e autonomia negati anche dalle pratiche correnti che vigono nella cultura di maggioranza, trascura il fatto che le società occidentali sono largamente inadempienti riguardo all’esigenza di assicurare una distribuzione paritaria dei diritti, delle risorse e delle opportunità, e sottovaluta tanto la storia del sessismo che affligge tuttora la cultura occidentale quanto le tradizioni progressiste presenti nelle culture “altre”. Altrimenti, la critica della poligamia, del matrimonio infantile o dei matrimoni combinati, delle mutilazioni genitali, della violenza domestica, delle gravidanze forzate e così via finisce per dare l’impressione che la differenza delle situazioni sessuali di esistenza trovi nella nostra cultura una considerazione adeguata, sia a livello giuridico sia a livello informale. Dal momento però che anche la nostra cultura si mostra poco sensibile alla necessità di riconoscere adeguatamente i bisogni delle donne e di assimilare le loro esperienze, e si avvale della differenza di genere per assegnare in modo discriminatorio posizioni e benefici, la denuncia delle pratiche culturali minoritarie condotta alla luce delle 15. R. Bellamy, Liberalism and Pluralism, Routledge, London 1999, p. 3.
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pratiche culturali maggioritarie non fa che tradire una forma di arroganza e di presunzione etnocentrica, una sorta di “colonialismo filantropico”. Non vi è dubbio che circostanze suscettibili di confermare rilievi di questo tenore siano tutt’altro che rare. Succede spesso che chi si appella al linguaggio dell’eguaglianza di genere per stigmatizzare come arretrate o premoderne, patriarcali o paternalistiche, le pratiche o i costumi osservati (per esempio) nelle comunità musulmane, non dimostri alcuna attenzione per l’eguaglianza sessuale quando lo stesso problema si presenta nella sua cultura di appartenenza. È lecito pensare che in casi come questi la denuncia sia alimentata da motivazioni sottilmente razziste piuttosto che da una disinteressata preoccupazione per i diritti delle donne musulmane. Non per questo è però necessario estendere indiscriminatamente la critica alle politiche femministe che si sono opposte alla sistematica esclusione della sfera domestica dai principi di giustizia così come alla cecità al genere nei trattamenti pubblici delle donne, e che si sono battute per una differenziazione progressiva del sistema dei diritti. Così come non è affatto scontato che le persone debbano esibire credenziali immacolate per guadagnarsi sul campo il diritto di valutare gli aspetti di volta in volta rilevanti per quanto riguarda la parità (o disparità) di trattamento. Anche se la denuncia della vulnerabilità culturale si collocasse nello scenario peggiore, limitandosi a riflettere la “prospettiva dell’‘Io’ culturalmente dominante, un punto di vista occidentale aggravato dai problemi dell’immigrazione e dai conflitti tra diritti umani che essa genera”,16 questo non significa che i problemi svanirebbero d’incanto: può anche darsi che illuminare l’ingiustizia presente in una cultura che ci è estranea possa implicare che si sta non dichiaratamente o indirettamente riaffermando la superiorità della cultura che ci è propria – ma l’ingiustizia rimane. L’ultimo complesso di obiezioni riguarda l’incomprensione dimostrata da Okin nei confronti del significato sociale ascrivibile a 16. A.Y. Al-Hibri, Il femminismo patriarcale dell’Occidente giova alle donne del Terzo Mondo e delle minoranze?, in S. Moller Okin, Diritti delle donne e multiculturalismo, cit., p. 41.
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pratiche culturalmente diverse da quelle maggioritarie. Alla radice delle sue prese di posizione contro il pluralismo culturale, che si realizzerebbe a spese delle donne e dei minori e a cui viene imputato di comprometterne i diritti, vi sarebbe una visione estrinseca delle culture: chi è “straniero” agli occhi del gruppo non sarebbe nella posizione più idonea per giudicare. Solo chi è “dentro” può comprendere fino in fondo la complessità della cultura che lo lascia “fuori”. È la sua posizione di outsider, di osservatore, che induce Okin a restituire un’immagine delle culture quali totalità permeate di valori monoliticamente patriarcali. Ciò rappresenta una forma massiccia di semplificazione, che uniforma eccessivamente le tradizioni e ignora l’esistenza stessa di voci critiche e di comportamenti dissenzienti suscettibili di risvegliare e alimentare alternative alle strutture della subordinazione. È per questo che “nella rappresentazione che Okin fa di queste culture, esse non risultano avere tradizioni locali di protesta, né movimenti femministi autoctoni, né fonti di contestazione culturale e politica”.17 Secondo i suoi critici, un approccio di questo genere porta Okin a sottostimare non solo la complessità delle pratiche culturali esistenti, ma anche le difficoltà intrinseche alla valutazione transculturale sia per quanto concerne, in generale, stili di vita e sistemi di credenze, sia per quanto riguarda, in particolare, i problemi correlati all’eguaglianza di genere. Per esempio, se per “noi” il velo rappresenta un simbolo di subordinazione femminile imposto dall’esterno, per il femminismo musulmano esso va invece considerato come l’espressione di una pratica che mette le donne in condizione di prendere le distanze dall’ambito domestico per divenire attori pubblici in un contesto libero dalle pressioni della sessualità.18 Inoltre, per le donne che vivono in una cultura tendenzialmente assimilatoria, avvalersi di un simbolo privato come un capo di vestiario individuale, che salvaguarda il pudore imposto dall’Islam, non serve solo a schermarsi 17. H. Bhabha, La vacca sacra del liberalismo, in S. Moller Okin, Diritti delle donne e multiculturalismo, cit., p. 87. 18. B. Honig,“Me l’ha fatto fare la mia cultura”, in S. Moller Okin, Diritti delle donne e multiculturalismo, cit., pp. 35-36.
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sul piano etnico, ma anche a manifestare apertamente, e politicamente, la propria differenza culturale e religiosa. Come è stato osservato, proprio perché il velo ha esercitato un ruolo così importante nell’immaginario occidentale quale simbolo ostensivo di oppressione caratteristico di una cultura, come quella musulmana, dominata dai maschi e a carattere gerarchico, “molte delle donne che hanno partecipato ai movimenti anticoloniali e che non hanno mai usato il velo hanno cominciato a indossarlo […] come un simbolo del loro rifiuto nei confronti dei valori occidentali”.19 Le posizioni contrarie alla tolleranza, che si sono appellate alla minaccia fondamentalista o alla tutela delle donne da culture maschiliste e patriarcali, finiscono così per escludere il significato simbolico del riconoscimento di differenze, quando invece la decisione di portare il velo può essere considerata come un gesto appunto simbolico volto a chiedere accettazione pubblica di una differenza legata a un’identità culturale minoritaria, e quindi come una richiesta di inclusione, di giustizia, di eguaglianza di rispetto. Di conseguenza, considerare il velo come, da una parte, segno di fondamentalismo e, dall’altra, indice di subordinazione della donna, “significa non accorgersi della sottile dialettica della contestazione culturale”.20 Per comprendere il ruolo e la funzione di pratiche culturali complesse di identificazione e di sfida come la scelta di indossare il velo, è necessario prestare attenzione sia al contesto politico-culturale, sia al significato che l’insider, l’agente sociale distinto dall’outsider, l’osservatore, attribuisce al tipo di pratica in questione. Nel momento stesso in cui pretende di conferire validità universale ai valori del femminismo liberale, Okin assumerebbe come indiscutibile la narrazione dominante riguardo a ciò che è la tradizione culturale finendo per imporre alle minoranze culturali valori ricavati dalla cultura (eurocentrica) di maggioranza. Insistere sul fatto che le donne dovrebbero essere autonome, libere di sfidare i ruoli sociali ascritti, emancipate dalle sottili forme di controllo imposte dai 19. J. Cares, Culture, Citizenship and Community, Oxford University Press, Oxford 2000, p. 159. 20. B. Parekh, Un variegato mondo morale, in S. Moller Okin, Diritti delle donne e multiculturalismo, cit., p. 80.
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valori patriarcali, significa porre l’accento su “un’idea di uguaglianza che, con ogni probabilità, non suscita il consenso universale”.21 Se, allora, le minoranze etniche, culturali o religiose che rivendicano diritti di cittadinanza differenziata per gruppo possono percepire la soluzione proposta da Okin come una forma di imposizione egemonica,22 anche la sua difesa dell’eguaglianza di genere può rivelarsi controproducente. Costringere una minoranza a mettersi sulla difensiva può indurre il gruppo a chiudersi a riccio su se stesso, a difendere con ostinazione valori tradizionali e a precludersi quei contatti con il mondo esterno da cui può trarre la forza per autotrasformarsi. Ciò rischia di far passare sotto silenzio le opinioni dissonanti e i potenziali interni di conflittualità e di resistenza, scoraggiando ogni forma di dialogo intraculturale condotto in maniera autocritica e ostacolando “le molteplici possibilità di riforma all’interno della tradizione”.23 Così, la sua descrizione delle donne inserite nei contesti delle società patriarcali quali vittime passive della loro cultura sullo sfondo di una quasi completa impotenza politica ed economica, porterebbe Okin a sottovalutare le tradizioni locali di solidarietà femminile di gruppo, a ignorare la protesta contro tradizioni nocive e a sottostimare la capacità delle donne di modificare in modo non convenzionale determinati aspetti della cultura di appartenenza. Opponendo il femminismo al multiculturalismo, Okin finirebbe quindi per restituire un’immagine stereotipata sia della cultura “occidentale” sia delle culture minoritarie, tanto di immigrazione quanto nazionali: nella prima, le donne sono protagoniste autonome delle proprie scelte, nelle altre sono vittime passive cui è preclusa ogni capacità di agire. Il punto teoricamente più significativo correlato all’ultimo complesso di obiezioni concerne la questione dell’outsider, di chi è “straniero” agli occhi del gruppo e cerca di comprendere e rappresentare la cultura altrui, e presenta tre aspetti distinti. Il primo è coerente con l’idea che le contestazioni allo Stato liberaldemocra21. Ivi, p. 79. 22. A. An-Na’im, Promesse da mantenere, in S. Moller Okin, Diritti delle donne e multiculturalismo, cit., p. 66. 23. A. Shachar, Multicultural Jurisdictions, cit., p. 36.
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tico condotte da un punto di vista multiculturale rappresentino l’espressione di forme di vita stazionarie “miracolosamente sopravvissute nel mondo moderno”. In realtà, è forse più plausibile interpretare le lotte dei movimenti di emancipazione i cui obiettivi politici si definiscono anzitutto in termini culturali come un fenomeno, invece, tipicamente moderno. Anche quando assumono il profilo regressivo e fondamentalistico del tradizionalismo, le rivendicazioni multiculturali che ripropongono una sostanzialità decaduta non fanno altro, in effetti, che reagire a una modernità sociale che si è nel frattempo globalmente diffusa e di cui sono un sintomo a suo modo paradossale, in quanto rappresentano un impulso al rinnovamento che è, anch’esso, altrettanto tipicamente moderno. In un mondo attraversato da flussi migratori di massa, è irrealistico pensare sia che l’identità delle comunità nazionali possa proteggersi a lungo dal contatto con le culture altrui e considerarsi al riparo dalle trasformazioni, sia che agli immigrati possa essere imposto di rinunciare alle loro tradizioni, mentalità, pratiche e abitudini. Tutto ciò può certo indurre a coltivare sguardi nostalgici sulle culture di origine, ma può anche favorire la nascita di nuove costellazioni, che, invece di appiattire le differenze culturali esistenti, possono creare un pluralismo di forme ibridate di cui proprio le donne sono destinate a essere le protagoniste. La mancata comprensione di queste tendenze finisce altrimenti per restituire l’immagine ipersemplificata di una cultura patriarcale, maschilista e autoritaria che si scontra con i principi moderni dell’eguaglianza di genere. Può anche darsi che si tratti di un’immagine rassicurante, dal momento che rende le cose più semplici di quel che realmente sono – solo che è poco in linea con la realtà. Il secondo aspetto concerne l’idea secondo la quale per interpretare correttamente le pratiche sociali è necessario comprendere il significato culturale di cui sono investite. In questo senso, la critica di una determinata forma di vita condotta dal punto di vista dell’osservatore esterno non può che portare a equivoci e fraintendimenti, e spingerci a condannare pratiche che rispondono a finalità spesso ben diverse da quelle che noi ascriviamo a esse in base ai nostri convincimenti. Ora, a prescindere dal fatto che la distinzione 140
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tra il “noi” e il “loro” non coincide necessariamente con quella tra i membri della nostra cultura e quelli di un’altra, in quanto è possibile che la comunità con cui ci si sente solidali non sia una “comunità dell’origine” etnicamente definita, questo non significa che sia inevitabile rinunciare a opporsi a pratiche come le mutilazioni genitali – anche se in altri casi è certo necessario distinguere. Per esempio, la condanna dei matrimoni combinati non sempre distingue tra matrimoni imposti, magari con la violenza, a partner riluttanti, e matrimoni combinati da genitori preoccupati invece del futuro delle figlie; allo stesso modo, chi proscrive l’uso pubblico del velo omette di prendere in considerazione il significato di denuncia della mercificazione sessuale delle donne che vi annettono coloro che decidono di indossarlo. C’è infine una terza questione, che ha a che fare con le cosiddette “preferenze adattive”. Per quanto sia realistico pensare che un insider possa rivendicare una migliore comprensione del significato sociale ascritto alle pratiche culturali cui ha deciso di aderire, può anche darsi che sia così passivamente subordinato alla situazione in cui si trova da essere incapace anche solo di immaginare alternative all’esistente capaci di rompere con assetti improntati a gerarchia e intimidazione. Non sempre le preferenze sono oggetto di riflessione consapevole e vengono deliberatamente scelte da colui o da colei che agisce: gli individui adeguano i loro desideri al modo di vivere che conoscono e adattano le loro aspirazioni a ciò che ritengono di poter raggiungere. L’adeguamento a circostanze sfavorevoli, l’accettazione rassegnata della privazione e della cattiva sorte spingono le aspettative verso il basso e, nel caso delle donne, possono indurle a vivere la propria vita assecondando immagini della femminilità che possono essere di enorme danno per la loro stima di sé. La percezione di ciò che è desiderabile è sempre plasmata dalla percezione di ciò che è possibile, ma il fatto che una donna confinata a forme di vita tradizionali e chiusa tra le pareti domestiche possa considerare innaturale che gli uomini condividano le sue fatiche non significa che sia necessario costringere le politiche femministe a sospendere la critica all’organizzazione asimmetrica dei ruoli sociali basata sulla gerarchia tra maschile e 141
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femminile. Il fatto che vi siano donne che costringono le figlie a subire mutilazioni genitali in società nelle quali una vita sessualmente autonoma preclude ogni futuro matrimonio, non ci impone di considerare queste pratiche come qualcosa che esse abbiano “liberamente” scelto. Scelte come queste rappresentano una forma di adeguamento alla percezione delle proprie circostanze, piuttosto che il risultato di una decisione deliberata, perché in queste situazioni le donne mancano di quella “libertà di fare altrimenti” che è condizione di scelte realmente autonome. Se le cose stanno in questi termini, ciò sembra suggerire che proprio i soggetti che sono vittime passive del loro contesto di vita siano quelli meno capaci di riconoscere il diritto a un trattamento più equo. Non si può escludere, in sostanza, l’idea che siano gli outsiders, piuttosto che gli insiders, a trovarsi nella miglior condizione per poter giudicare. Tutto ciò, naturalmente, dipende dalle circostanze, anche se è verosimile che la critica condotta dal “nostro” punto di vista, dall’angolo visuale di chi è straniero e propone valutazioni culturali relative a forme di vita cui è estraneo, possa meglio contribuire a rendere giustizia a ciò che è espressione della legittima pluralità delle culture umane quanto più saprà coniugare la sua prospettiva con quella degli insiders che alimentano diversità di convinzioni e di pratiche.
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Il tempo incompiuto. L’ermeneutica ricostruttiva di Paul Ricœur ALBERTO MARTINENGO
L’ultima parte della produzione filosofica di Paul Ricœur è segnata da una serie di contributi che compongono un quadro in certa misura nuovo rispetto a quello cui aveva abituato la sua ermeneutica. È il caso di due opere fondamentali per comprendere gli sviluppi ai quali Ricœur lavorava negli ultimi anni, esiti ai quali anche la letteratura critica sta iniziando a dedicare la giusta attenzione: il riferimento è ovviamente a La mémoire, l’histoire, l’oubli1 e ai Parcours de la reconnaissance,2 che assieme ai Fragments contenuti in Vivant jusqu’à la mort3 costituiscono ormai indiscutibilmente il suo testamento filosofico. Se le riflessioni e i bilanci attorno al pensiero di Ricœur continuano tuttora a essere di stretta attualità, anche a livello editoriale, ciò si deve proprio alle discussioni che tali opere hanno provocato: in esse emerge infatti un insieme di questioni, prima tra tutte il tema dell’oblio, che rimanevano per lo più implicite nella produzione ricœuriana precedente e che ora concorrono in modo significativo a chiarirne le linee.4 1. P. Ricœur, La mémoire, l’histoire, l’oubli, Seuil, Paris 2000; trad. La memoria, la storia, l’oblio, a cura di D. Iannotta, Raffaello Cortina, Milano 2003. 2. Id., Parcours de la reconnaissance. Trois études, Stock, Paris 2004; trad. Percorsi del riconoscimento. Tre studi, a cura di F. Polidori, Raffaello Cortina, Milano 2005. 3. Id., Vivant jusqu’à la mort. Suivi de Fragments, Seuil, Paris 2007. 4. Tra gli studi recenti su Paul Ricœur, si segnala per ampiezza e interesse O. Aime, Senso e essere. La filosofia riflessiva di Paul Ricœur, Cittadella, Assisi 2007. Gli altri riferimenti importanti sono: D. Jervolino, Introduzione a Ricœur, Morcelliana, Brescia 2003 e F. Brezzi, Introduzione a Ricœur, Laterza, Roma-Bari 2006. Sul rapporto tra temporalità e linguaggio, anche se da una prospettiva diversa, il riferimento più recente è M. Salvioli, Il tempo e le parole. Ricœur e Derrida a margine della fenomenologia, ESD, Bologna 2006.
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Volendo utilizzare una categoria ampia, e per molti aspetti ambigua nella storia dell’ermeneutica, al pensiero di Paul Ricœur si può attribuire senza gravi forzature un’intonazione di tipo ricostruttivo – un carattere che almeno per motivi generazionali lo distingue dalla linea strutturalista e post-strutturalista del secondo Novecento francese. L’ermeneutica ricœuriana, prima attraverso la fenomenologia e l’esistenzialismo, poi nel confronto con la psicanalisi e la stessa semiologia strutturalista, si sviluppa infatti secondo un modello basato sull’effettività del senso: la volontà, la finitezza, la colpa e tutte le rappresentazioni che il soggetto dà di sé sono concepite come forme pienamente significanti, sono cioè cristallizzazioni di senso la cui produzione non procede mai in perdita. Contro gli effetti di pura disseminazione tipici del pensiero della decostruzione, Ricœur tiene ferma l’idea che il senso sia un deposito di significati che, seppure non in modo univoco, si accumula (si ricostruisce, appunto) attraverso l’atto ermeneutico. Da qui l’idea di connotare in senso ricostruttivo l’ermeneutica di Ricœur, dando però a questo attributo un’accezione alquanto diversa da quella classica, di stampo schleiermacheriano. Il riferimento alla nozione di ricostruzione per caratterizzare una certa lignée dell’ermeneutica contemporanea è suggerito in tutt’altro contesto da Gianni Vattimo.5 Ma non sembra improprio estendere questa categoria anche a Ricœur, assumendola in un senso molto generale: al fondo di ogni decostruzione possibile, o al limite al di là di essa, sussiste qualcosa come un’argomentabilità minima, un livello di senso (simbolico, nel caso di Ricœur) che pur frammentato e de-metafisicizzato può essere ricomposto interpretativamente. È su questa base che in Ricœur l’ermeneutica funziona come un metodo alternativo (e preferibile) rispetto alla fenomenologia e alla razionalità speculativa: ciò che in prima battuta appare opaco e non-significante (il male, il negativo, l’errore), in realtà mantiene un residuo di interpretabilità che gli è connaturato e che l’ermeneutica è in grado di portare al significato.6 5. Cfr. G. Vattimo, “Ricostruzione della razionalità”, in Oltre l’interpretazione. Il significato dell’ermeneutica per la filosofia, Laterza, Roma-Bari 1994, pp. 121-137, dove il punto di partenza – non a caso – è Jacques Derrida e non Paul Ricœur. 6. Sul passaggio dal non-senso al senso e più in generale sulla preferibilità dell’ermeneu-
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Posto che questa sia una delle costanti della produzione ricœuriana classica, vi è tuttavia qualcosa di molto evidente che muta nei diversi momenti del suo percorso. Il problema che si pone con chiarezza sempre maggiore è stabilire che cosa trasmetta il significato, nel duplice senso soggettivo e oggettivo della questione: quali siano i supporti (significanti) che trattengono l’insieme di ciò che è detto nel linguaggio, e quali siano su questi supporti i contenuti (significati) da veicolare alla comprensione. Sotto questo aspetto, è innegabile che il contributo decisivo arrivi a partire dagli studi degli anni settanta e ottanta sulla metafora e sulla funzione narrativa, ovvero da La métaphore vive e da Temps et récit.7 Sembra infatti difficile trovare risposte altrettanto chiare e definitive nei testi degli anni sessanta, in cui le analisi sui diversi ambiti del significato (la volontà, il religioso, l’identità, l’azione) appaiono ancora caratterizzate da una portata strettamente “regionale”: il passaggio dall’ambito regionale a quello generale avviene soltanto quando il problema del significato è ricondotto al tema dell’innovazione linguistica e, ancor più, alla narrazione. Qui gli studi sugli ambiti specifici del significato vengono assorbiti in un modello che si incentra sui due poli della testualità e della temporalità: da una parte, le diverse strutture su cui si depositano i contenuti sono riportate alla forma del testo, o del quasi-testo; dall’altra, i correlati referenziali che le riempiono sono assimilati alle stratificazioni temporali dell’esperienza. È come se in La métaphore vive e in Temps et récit emergessero i risultati di un percorso di formalizzazione crescente, che all’interesse per settori specifici del “mondo dei significati” sostituisce lo studio dei modi connessi alla produzione del senso in generale. La cesura tra la fase delle ermeneutiche regionali e gli studi successivi è spesso trascurata dagli interpreti: è sottovalutato in parti-
tica alla fenomenologia, è illuminante l’analisi di O. Aime, Senso e essere, cit., parte I, cap. 2 e parte II, cap. 1. 7. P. Ricœur, La métaphore vive, Seuil, Paris 1975; trad. di G. Grampa, La metafora viva. Dalla retorica alla poetica per un linguaggio di rivelazione, Jaca Book, Milano 1981; Id., Temps et récit I-III, Seuil, Paris 1983-85; trad. di G. Grampa, Tempo e racconto I-III, Jaca Book, Milano 1986-88.
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colare il passaggio dal progetto di una “grande filosofia del linguaggio”, che è ancora debitore di una certa linea panlinguista evidente in De l’interprétation, al programma più schiettamente ontologico che caratterizza La métaphore vive e che ha nella nozione di véhémence ontologique il suo segno più evidente. Questo processo è attivo esemplarmente nella costruzione del romanzo, di cui è questione in Temps et récit. Qui il veicolo del significato è rappresentato dall’operazione di messa-in-intrigo (mise en intrigue): il racconto e il tempo entrano in una rete di rimandi incrociati che da una parte, attraverso il tempo, mette in moto il meccanismo narrativo, e dall’altra, attraverso l’articolazione testuale, fornisce all’esperienza temporale un principio di ordinamento formale. Il rapporto tra significante e significato – Ricœur sceglie di non richiamare esplicitamente questo schema, ma le due nozioni restano largamente valide – si basa su questa doppia relazione: la successione degli eventi da narrare vale come principio di scambio per produrre un’organizzazione sensata dell’esperienza. La messa-in-intrigo funziona dunque come forma di mediazione, come un paradigma strutturante che porta al linguaggio l’esperienza della temporalità. Come è noto, tuttavia, alla funzione mediatrice e strutturante del racconto Ricœur arriva attraverso un percorso più articolato, che ha a che fare con la possibilità di un approccio teoretico al tema del tempo. In prima istanza, il problema prende la forma tradizionale dell’aporia, esemplificata dal sapere/non-sapere di Agostino. Ciò dipende dal fatto che i modelli speculativi cui si fa ricorso per descrivere il fenomeno “tempo” sono costitutivamente inadeguati a dare conto della sua complessità, in quanto ciascuno di essi ne coglie soltanto un aspetto parziale. Al contrario – ed è l’argomento centrale di Temps et récit I – la forma “racconto” fornisce un supporto linguistico che definisce una mediazione più inclusiva, superando in tal modo l’insufficienza dell’approccio teoretico. A questo livello, il valore del racconto coincide con la capacità di offrire una sintesi non-totalizzante, ossia con la disposizione a non ridurre ad unum la molteplicità delle forme temporali: l’intrigo narrativo produce un dispositivo che essendo a sua volta stratificato non cancella la complessità del fenomeno (il doppio livello di tempo 146
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cronologico e tempo vissuto, i giochi reciproci tra passato, presente e futuro, ecc.), ma contribuisce a renderla intelligibile. Per Ricœur la mise en intrigue agisce insomma come un meccanismo dirimente, che interviene sull’eterogeneità dell’esperienza temporale ricavandone un senso organico. Non tutto però si esaurisce nel meccanismo della messa-in-intrigo. Il tempo infatti – secondo una definizione che in Ricœur mantiene un sapore schiettamente fenomenologico – fa riferimento “a un ordine del costituente sempre già presupposto dal lavoro di costituzione”.8 Ciò produce una serie di effetti a catena sulla stessa costruzione del racconto: se infatti è evidente che il tempo è ciò in cui tutto si svolge e quindi ciò che possiede una precedenza assoluta rispetto a ogni costituzione, è lecito chiedersi come possa darsene una mediazione che contemporaneamente giochi (o abbia sempre già giocato) il ruolo di principio configurante. In altri termini, se è vero ciò che Ricœur argomenta, ci si trova di fronte a una sorta di “retrodatazione” della mise en intrigue che è sì una configurazione del mondo dei significati al pari di molte altre, ma è una configurazione che costituisce il proprio oggetto come condizione di ogni altra costituzione. Come è ovvio, la questione non concerne tanto la possibilità di pensare/dire un fenomeno che precede il pensiero o il linguaggio: il che andrebbe da sé sotto qualsiasi presupposto, anche soltanto debolmente realista. Il vero problema è che quanto è assolutamente anteriore (il tempo) riceve ex post la sua costituzione, attraverso un atto (il doppio scambio di cui si diceva) che produce il tempo, ma assieme ne è prodotto. L’aporia risulta insomma interna alla stessa possibilità di costruire un significato temporale, ossia a quell’atto puramente formale (la figurazione) che interviene après coup dando figura a ciò che invece, proprio dal punto di vista formale, gli sarebbe anteriore. È questo l’aspetto più problematico del modello ricostruttivo di Ricœur: un modello che rigetta la soluzione data dalla costituzione fenomenologica husserliana (in quanto la fenomenologia ricade interamente nell’aporia agostiniana), ma che al tempo stesso vede riproporsi amplificati tutti i problemi che per 8. Id., Tempo e racconto III, cit., p. 396.
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quella strada sembravano risolti. Ed è anche l’aspetto meno esplicito del discorso ricœuriano, tanto che raramente lo si è considerato determinante. In concreto per Ricœur l’aporia del tempo si articola su tre livelli: 1. tempo fenomenologico vs. tempo cosmologico; 2. passato vs. presente vs. futuro; 3. rappresentabilità vs. irrappresentabilità. Il nucleo del discorso sta tutto nel terzo livello dell’aporia, in particolare nella rappresentazione intesa come atto di figurazione. Se infatti la messa-in-intrigo è il procedimento che dà forma all’informe temporale, ciò implica che la rappresentazione narrativa sia meno un atto accidentale che una costituzione primaria: la stessa forma della successione, che pare essere la disposizione fondamentale del tempo, non è dunque un dato preordinato ai singoli fenomeni ma il prodotto della mediazione portata dal racconto.9 Da questo punto di vista, per Ricœur, se l’impasse del tempo non attiene soltanto alla speculazione, ma a qualsiasi dispositivo di rappresentazione (teoretico, narrativo, linguistico in genere…), il racconto non può più essere considerato la soluzione definitiva del problema. E ciò per il semplice fatto che, attraverso il racconto, il problema del tempo si sposta a un livello più generale: la domanda sul tempo diventa tout court domanda sul linguaggio che produce significati. L’estensione dell’aporetica al racconto – e conseguentemente al di là di esso – è esplicitata soltanto nelle Conclusions di Temps et récit III, in una sorta di fuori-testo rispetto alle analisi sulla funzione narrativa. Tuttavia è proprio a questo punto che sul presupposto ricostruttivo dell’ermeneutica di Ricœur si innesta la questione dell’oblio. La non-completa rappresentabilità del tempo da parte della funzione linguistica implica infatti una ridefinizione sia del meccanismo di produzione dei significati, sia dei rapporti tra perdita e guadagno che gli sono connessi. Per dirla in modo molto schematico, se il tempo in quanto vettore del senso non è del tutto riducibile ai suoi supporti linguistici, allora la mise en intrigue dei significati non può essere pensata come un atto di puro accumu9. Cfr. ivi, pp. 369-413.
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lo. Da questo rilievo prende le mosse la discussione attorno all’oblio, che collega almeno idealmente Temps et récit e La mémoire, l’histoire, l’oubli: nella relazione tra il tempo e il racconto – questo il punto di partenza di Ricœur – non tutto va da sé; esiste una serie di livelli intermedi (la memoria e l’oblio, appunto) che produce un’opacizzazione degli effetti di senso. In altri termini, la messa-in-intrigo non può fondarsi esclusivamente sull’attribuzione di una forma ordinata a ciò che è magmatico (il tempo) e sull’assegnazione di contenuti a ciò che è vuoto (il linguaggio). E ciò per una ragione decisiva: la traduzione linguistica del tempo presuppone un meccanismo intermedio di ritenzione, che come tale dovrà implicare anche uno sfondo di nonritenzione. Fin qui il modo in cui, più o meno testualmente, Ricœur pone il problema. In La mémoire, l’histoire, l’oubli alla duplice mediazione della memoria e dell’oblio è attribuito un ruolo prevalentemente strumentale e produttivo. A questo livello si gioca una complessa tipologia del ricordare e del dimenticare che riconnettendosi al dualismo heideggeriano di Vergangenheit (il passato come non-esser-più) e Gewesenheit (il passato come essente-stato) insiste soprattutto sulla nozione di virtualità. Di ciò che è assente, in quanto è passato o è stato dimenticato, si può infatti dire in negativo che non è più, oppure in positivo che è stato: in entrambi i casi, la non-presenza è pensata soprattutto come indisponibilità all’utilizzo, cioè come mancanza rispetto alla modalità del porre-mano; nel secondo caso, però, il suo rapporto con la manipolabilità è declinato come precedenza o anteriorità logica, ovvero secondo uno status ambiguo che implica a un tempo rottura rispetto alla sfera dell’utilizzabile e persistenza sotto forma di riserva.10 Alla base di questa ambigua presenza vi è appunto un’operazione di virtualizzazione (nel senso della nozione deleuziana), cioè un meccanismo che staccando e rendendo indisponibile l’ente rispetto al qui-e-ora lo preserva dal Vergehen, dal passare via per sempre. Il responsabile del passag10. Cfr. Id., La memoria, la storia, l’oblio, cit., pp. 608-630.
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gio dall’attuale/disponibile al virtuale/indisponibile è proprio l’oblio, in una forma che ripete il gioco di rottura e persistenza implicato dalla Gewesenheit: ciò che è dimenticato risulta archiviato lontano dalla coscienza immediata e va ad accumularsi altrove, in una sorta di riserva dell’attività mnestica. In questo quadro, ciò che della messa-in-riserva è significativo ai fini della mediazione è soprattutto l’aspetto funzionale e operativo. È quanto La mémoire, l’histoire, l’oubli rileva, almeno implicitamente, quando introduce la distinzione tra due diverse forme di oblio: tra uno strato profondo, riguardante l’iscrizione della traccia, e un livello superficiale, responsabile della sua conservazione. Si tratta di una distinzione che ricalca quella tra Vergangenheit e Gewesenheit, ma con qualche difficoltà supplementare. Al livello superficiale (che Ricœur identifica come oblio fenomenologico) si collocano i fenomeni conosciuti come “fallacie della memoria”, ovvero i processi che intervengono semplicemente sui contenuti mnestici, modificandoli o al limite cancellandoli. Al contrario, la virtualizzazione in senso stretto opera a un livello di profondità diverso, che coinvolge lo status della traccia come tale: qui interviene una forma di cancellazione (l’oblio ontologico o fondamentale) che ha appunto a che fare con le condizioni della ritenzione.11 Il vero punto della questione – sul quale il testo rimane reticente – è capire quale ruolo questa riserva giochi rispetto alla memoria. Se le cose stanno così, si dovrà infatti concludere che quanto Ricœur connota come oblio ontologico riguardi in realtà le condizioni di tracciabilità e ricettività del supporto mnestico: con una terminologia non propriamente ricœuriana, si potrà dire che l’oblio è la forma della tabula mnestica, è qualcosa come il suo originario esser-sgombro – il puro scarto (selezione, interruzione) che consente l’iscrizione. Che cosa ciò implichi sul piano della messa-in-intrigo effettiva resta ancora relativamente indeciso, almeno finché non si consideri un aspetto particolare del pro11. Sui diversi livelli dell’oblio e sul rapporto tra la ritenzione (oblio ontologico) e la rimemorazione (oblio fenomenologico), cfr. in particolare ivi, pp. 37-66.
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cesso di virtualizzazione. Attraverso la distinzione tra i due livelli dell’oblio, ciò che emerge più sostanzialmente, ma anche in modo meno esplicito in Ricœur, è il diverso comportamento nei confronti della freccia del tempo: le forme tipiche della conservazione si caratterizzano come reversibili e modificabili, mentre i fenomeni attinenti al piano dell’iscrizione devono intendersi come essenzialmente unidirezionali. Nel primo caso, infatti, ci si riferisce alla “scena manifesta” dell’attività mnestica, una scena che ovviamente procede secondo aggiustamenti continui del confine tra registrazione e cancellazione; nel secondo, invece, si ha a che fare con un processo (la messa-in-riserva) che per così dire è preoriginario, ossia verosimilmente non si dà come un avvenimento riferibile alla serie temporale e dunque non è svolgibile o riavvolgibile. Non può che essere questa la particolare anteriorità e intangibilità che caratterizza il virtuale: ciò che l’oblio virtualizza non è qualcosa che in seguito potrà tornare disponibile sul piano dei contenuti, non è in altri termini una sorta di “copia di backup” che all’occorrenza può essere riattualizzata e riutilizzata. La messa-in-riserva, insomma, sembra avere a che fare con una procedura del tutto singolare, che assume un insieme di contenuti e nel renderli definitivamente indisponibili li traduce in altro da sé, ossia in una serie di non-contenuti che restano però attivi sul fronte della ritenzione: è la trasformazione – così plausibilmente si dovrà intendere – che sostituisce il dato con la funzione, l’essente qui e ora con un essente-stato che è cancellato come significato disponibile e diventa un puro supporto significante. Per quanto Ricœur non la espliciti in questi termini, l’ipotesi è legittima almeno nella misura in cui riprende l’ambiguità che La mémoire, l’histoire, l’oubli attribuisce ai processi di virtualizzazione. L’oblio ontologico, infatti, non può corrispondere né (1) a una cancellazione totale dei contenuti, altrimenti il virtualizzato non potrebbe influire in alcun modo sull’attuale; né (2) alla trasformazione di un certo contenuto in un altro dato diversamente disponibile; né infine (3) a un processo di messa-in-latenza, che sarebbe sì adeguato all’idea ricœuriana di un’“anteriorità che preserva”, ma lascerebbe indecisa la questione della sua irreversibilità. Se quindi 151
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il virtuale non opera sulla ritenzione né come un dato in fase di latenza, né come un altro tipo di contenuto, non può che agirvi come condizione della tracciabilità, ossia come semplice funzione di registrazione. Se ciò è vero, tutto quello che è dimenticato al livello dell’oblio profondo è perso come tale e diventa operativo soltanto come vuota ritentività, come un dispositivo che precede sì la serie successiva delle ritenzioni, ma direttamente non si riattualizza mai. Al di là di ciò che Ricœur decida di esplicitare, qui è dunque all’opera un meccanismo dispersivo che, se non può definirsi di disseminazione o di pura dépense, è comunque assimilabile a un processo entropico: l’iscrizione della traccia è resa possibile dalla sua stessa parzialità, ossia dal fatto di avere speso nel processo una parte del suo potenziale di significato. Che poi la dissipazione sia definita come messa-in-riserva o come sfondo della ritenzione, i termini della questione non mutano sostanzialmente: ciò che arriva allo stadio della messa-in-intrigo è soltanto una parte del senso, perché l’altra parte è stata irreversibilmente selezionata per diventare supporto significante. È su questo piano che all’opzione ricostruttiva di Ricœur si oppone una componente residuale di non-senso: rispetto alla trasmissione effettiva dei contenuti, la virtualizzazione rappresenta un processo di perdita perché la messa-in-riserva è una pura operazione strutturale, un attrito che non può ricadere nella mediazione linguistica. In questo modo il gioco di guadagno e perdita della virtualizzazione riconnette la memoria al problema del tempo e del linguaggio – e non potrebbe essere altrimenti, data la vicinanza teorica tra Temps et récit e La mémoire, l’histoire, l’oubli. La dispersione di risorse che si verifica nel processo di costruzione della memoria fa tutt’uno con l’irriducibilità del tempo al piano del linguaggio: o meglio, l’una ripete l’altra secondo un rapporto di stretto isomorfismo. Ricœur riserva alla questione un sintomatico silenzio. Ed è un silenzio coerente con il programma di confutazione della fenomenologia che sta alla base del suo discorso: non essendo un fenomeno automanifestativo, la temporalità non può essere pensata/detta prescindendo da un sistema di mediazioni (o di metafore). Tali metafore, a loro volta, non consentono una tematizza152
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zione immediata del fenomeno, ma semmai una lettura indiretta – una sua ricostruzione, appunto.12 Fermo restando questo interdetto, è però evidente che alle spalle dell’analogia memoria-tempo-significato sia all’opera una precisa ontologia della temporalità, che a grandi linee si può riportare alla nozione di biforcazione. È quanto propone di fare Jean Greisch, in uno studio illuminante su Temps et récit, nel quale il tema della biforcazione del tempo diventa il motivo comune (non soltanto discorsivo, ma schiettamente ontologico) dell’aporetica:13 in questo senso, secondo Greisch, l’aporia del tempo ripete a diversi livelli uno stesso dualismo, il cui nucleo è la tensione fondamentale tra istante e storia, tra punto e linea. Se tali rilievi sono corretti, non sarà illegittimo provare a trarne alcune conseguenze. Tutte le serie divergenti che si aprono nel discorso sul tempo (anima vs. mondo; passato vs. presente vs. futuro; continuità vs. puntualità; estensione vs. intensione) si possono infatti ricondurre a una duplicità di fondo che a livello “sostanziale” è forse indeterminabile, ma che dal punto di vista della relazione con il linguaggio è piuttosto semplice da definire. La questione è tutt’altro che banale, perché chiama in causa quella stessa ambivalenza per la quale si può dire che la necessità di tenersi sul registro dell’aporetica sia connaturata al discorso filosofico sul tempo. In questo senso, l’isomorfismo con il problema della memoria si fa particolarmente significativo perché contribuisce a chiarire la natura della biforcazione: le tre forme dell’aporia messe in luce da Ricœur (fenomenologia vs. cosmologia; unità vs. pluralità; tematicità vs. orizzontalità) diventano infatti i corollari di un “teorema d’indecidibilità” più generale, che attiene alla ricostruzione del
12. Il problema della metaforica si lega ai discorsi sull’essoterica del tempo che alcuni settori importanti della filosofia del Novecento hanno portato avanti. Non è un caso che qui il riferimento debba essere nuovamente a Jacques Derrida (cfr. J. Derrida, Ousia et grammé. Note sur une note de Sein und Zeit, in Marges – de la philosophie, Minuit, Paris 1972; trad. “Ousia” e “grammé”. Nota su una nota di “Sein und Zeit”, in Margini della filosofia, a cura di M. Iofrida, Einaudi, Torino 1997). Come mostrano alcuni lavori recenti (su tutti l’analisi di Salvioli citata in apertura), la storia dei rapporti tra Ricœur e Derrida merita un’attenta considerazione. 13. Cfr. J. Greisch, “Temps bifurqué” et temps de crise, in O. Mongin, J. Roman (a cura di), Paul Ricœur, “Esprit”, 7-8, 1988, pp. 88-96.
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senso in qualunque forma (concettuale, metaforica, narrativa, linguistica…) si realizzi. A questo livello, che si può definire in senso lato come piano del logos – intendendo per logos, in senso minimale, il semplice effetto del greifen, dell’afferramento che ricostruisce un significato –, è il tempo stesso a darsi come tensione tra iscrizione e cancellazione. In questo teorema di indecidibilità confluiscono da una parte l’osservazione fenomenologica (kantiana e husserliana) che colloca la temporalità all’interno del processo di costituzione oggettuale e dall’altra il dato cosmologico (tipicamente aristotelico) che pertiene al tempo come misura dell’universale distruzione delle cose. Su tali basi è possibile dare conto di quella sovradeterminazione che fa della temporalità un fattore volta a volta contestualizzante rispetto alla costruzione del senso e decontestualizzante rispetto alla sua trasmissione. È però a un altro livello, quello dello scarto contenuto/funzione, che si gioca il problema dell’indecidibilità. Anche rispetto al tempo, la sovrapposizione tra iscrizione e cancellazione assume la forma di un’oscillazione tra il piano del significato e il piano del significante che – al di là di quanto dica Ricœur – è senza dubbio l’aspetto più sfuggente dell’aporetica. Che il tempo sia la verità del racconto, come risulta coerentemente da Temps et récit, implica infatti qualcosa di più complesso della semplice Erfüllung del linguaggio da parte dei significati temporali: il tempo dell’esperienza non è mai un contenuto dato, che entra ex novo nella mise en intrigue, ma è già il risultato di una costruzione, rispetto alla quale la referenza testotempo è effetto e non causa. Ciò che normalmente si identifica come il “dato temporale dell’azione” risulta insomma pesantemente sovradeterminato da un costrutto di componenti funzionali (ma pre-testuali, cioè anteriori rispetto al mondo dei contenuti), senza le quali non sarebbe affatto significativo. Del resto, Ricœur stesso riconosce qualcosa del genere quando precisa che la messa-in-intrigo è soltanto uno dei livelli della mediazione narrativa, precisamente il momento della costruzione testuale (configurazione). A monte vi è un primo stadio (prefigurazione) che consiste in una precomprensione generale dell’ente, a partire dai suoi caratteri temporali: prima dell’effettiva costituzione dell’intrigo, l’espe154
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rienza è dunque già ordinata secondo requisiti temporali che le sono in qualche modo connaturati.14 Ecco il senso della “retrodatazione” di cui si diceva. Ed è per questo motivo che la configurazione non può essere pensata come un atto originario, ma già sempre come una ricostruzione. Sullo sfondo dell’analisi di Ricœur, la temporalità sembra proiettare una sorta di “terzo genere” ontologico, preordinato alla distinzione tra i dispositivi puramente ritentivi e i contenuti positivi: assieme deposito (contenuto) e vettore (contenente) del senso, il tempo concentra in sé la sostanza e la forma della referenza linguistica. È da questa sovrapposizione che – si dovrà ipotizzare – deriva in ultima istanza il nucleo dell’aporia ricœuriana, ossia l’impossibilità di derivare una fenomenologia pura del tempo. Il tempo non sarà mai il tema puro di un’apprensione di coscienza perché dell’atto coscienziale rappresenta in fin dei conti la premessa maggiore: se qualcosa come un’apprensione (graduale o immediata che sia) si dà attraverso la coscienza, ciò accade perché il tempo ha già definito una trama ritentiva (e selettiva) che è in due modi diversi il significato e il significante della ritenzione. Ciò tuttavia è vero a un livello più complesso di quello implicato dalla rilevazione della natura temporale della coscienza. Il vero paradosso non sta tanto nel particolare gioco di precedenze e sovrapposizioni che si instaura tra la coscienza e i suoi oggetti. Il vero problema sta nell’espressione “in due modi diversi”, ossia nella circostanza per la quale il tempo opera su due piani reciprocamente irriducibili: non c’è fenomenologia pura della temporalità perché – questa è l’ipotesi – di fronte al logos, alla mediazione logico-rappresentativo-linguistica, il tempo si scinde “immediatamente” (cioè prima della ritenzione) in contenuto e funzione, significando però soltanto in relazione al primo e non alla seconda. Su questo piano, pensare (rappresentare, mediare, dire…) il tempo equivale sì a pensare nel tempo e attraverso il tempo; ma ciò non tanto nel senso di una generica autoreferenzialità del linguaggio, bensì in virtù di quella divaricazione che separa il tempo messo 14. Cfr. P. Ricœur, Tempo e racconto I, cit., pp. 91-108.
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a tema da una temporalità di sfondo che si accantona come semplice supporto ritentivo. Da ciò deriva un’ulteriore conseguenza che è altrettanto significativa rispetto al problema della memoria, perché ridefinisce il problema stesso della ritenzione. Sotto il profilo della biforcazione, infatti, il livello della pura rappresentabilità – o se si preferisce, della tabula mnestica – assume una connotazione coestensiva alla nozione ermeneutica del già-sempre: se è il prodotto, e non il motore, di un processo di archiviazione che precede la distinzione contenuto-funzione, la tavola non può essere – come in molte forme classiche o rinnovate di filosofia del cogito – un supporto originario su cui il dato si scrive per la prima volta, ma una determinazione d’orizzonte che orienta l’iscrizione, essendone a sua volta riorientata. Il dato che giunge alla comprensione, infatti, è recepito a partire da una serie di funzioni (ritenzione, iscrivibilità…) che però, non essendo altro che ex contenuti, si comportano più come precomprensioni che come un dispositivo neutro di supporto. A tutti gli effetti, la temporalità resta il discrimine assoluto. Se si può affermare – con un’inferenza che ha le sue premesse nel discorso di Ricœur – che il tempo funziona in rapporto al senso secondo il meccanismo della scissione istantanea in contenuto e forma, allora lo sfondo della ritenzione non è un’autocostituzione originaria o un’architraccia che accoglie passivamente l’iscrizione, ma una sorta di “preistoria degli eventi” che la ridetermina attivamente. Anche a un livello puramente fenomenologico, il senso si scrive su un supporto già-scritto e già-cancellato, al modo di un’iscrizione che media tra l’attuale e il virtualizzato, tra il dato presente e l’essente-stato precompreso. Da questo punto di vista, ciò che Ricœur dice a proposito del tempo come “costituente sempre già presupposto al lavoro di costituzione” è vero soprattutto nel senso di un cortocircuito tra l’originario e il derivato: non vi è mai una costituzione realmente prima (un primum assoluto che precede l’iscrizione) perché né la tabula preesiste alla serie delle ritenzioni, né l’atto ritentivo precede l’istituzione della tabula. L’una e l’altro si generano assieme in un segno che è costitutivamente in ritardo rispetto a ciò che funzionando come preistoria lo 156
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de-cide (lo orienta e lo scinde): non dunque un foglio bianco che riceve il primo tratto d’inchiostro, ma una sorta di palinsesto che trattiene l’attuale solo in quanto è la continua stratificazione di sensi passati. Riferimenti bibliografici Aime, Oreste, Senso e essere. La filosofia riflessiva di Paul Ricœur, Cittadella, Assisi 2007. Bouchindhomme, Christian e Rochlitz, Rainer (a cura di), “Temps et récit” de Paul Ricœur en débat, CERF, Paris 1990. Brezzi, Francesca, Filosofia e interpretazione. Saggio sull’ermeneutica restauratrice di Paul Ricœur, il Mulino, Bologna 1969. – Introduzione a Ricœur, Laterza, Roma-Bari 2006. Derrida, Jacques, Marges – de la philosophie, Minuit, Paris 1972; trad. Margini della filosofia, a cura di M. Iofrida, Einaudi, Torino 1997. Ferry, Jean-Marc, Philosophie de la communication I. De l’antinomie de la verité à la fondation ultime de la raison, CERF, Paris 1994. – L’éthique reconstructive, CERF, Paris 1996; trad. di P. Fontana e G. Lingua, L’etica ricostruttiva, Medusa, Milano 2006. Greisch, Jean (a cura di), Paul Ricœur. L’itinérance du sens, Millon, Grenoble 2001. Jervolino, Domenico, Il cogito e l’ermeneutica. La questione del soggetto in Ricœur, Procaccini, Napoli 1984. – Introduzione a Ricœur, Morcelliana, Brescia 2003. Mongin, Olivier, Paul Ricœur, Seuil, Paris 1994. Mongin, Olivier e Roman, Joël (a cura di), Paul Ricœur, “Esprit”, 7-8, 1988. Ricœur, Paul, Philosophie de la volonté. Finitude et culpabilité I-II, Aubier, Paris 1960; trad. di M. Girardet, Finitudine e colpa, il Mulino, Bologna 1970. – De l’interprétation. Essai sur Freud, Seuil, Paris 1965; trad. di E. Renzi, Della interpretazione. Saggio su Freud, il Saggiatore, Milano 1967. – Le conflit des interprétations. Essais d’herméneutique, Seuil, Paris 157
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1969; trad. di R. Balzarotti, F. Botturi, G. Colombo, Il conflitto delle interpretazioni, Jaca Book, Milano 1977. – La métaphore vive, Seuil, Paris 1975; trad. di G. Grampa, La metafora viva. Dalla retorica alla poetica per un linguaggio di rivelazione, Jaca Book, Milano 1981. – Temps et récit I-III, Seuil, Paris 1983-85; trad. di G. Grampa, Tempo e racconto I-III, Jaca Book, Milano 1986-88. – Soi-même comme un autre, Seuil, Paris 1990; trad. Sé come un altro, a cura di D. Iannotta, Jaca Book, Milano 1993. – La mémoire, l’histoire, l’oubli, Seuil, Paris 2000; trad. La memoria, la storia, l’oblio, a cura di D. Iannotta, Raffaello Cortina, Milano 2003. – Parcours de la reconnaissance. Trois études, Stock, Paris 2004; trad. Percorsi del riconoscimento. Tre studi, a cura di di F. Polidori, Raffaello Cortina, Milano 2005. – Vivant jusqu’à la mort. Suivi de Fragments, Seuil, Paris 2007. Salvioli, Marco, Il tempo e le parole. Ricœur e Derrida a margine della fenomenologia, ESD, Bologna 2006. Vattimo, Gianni, Oltre l’interpretazione. Il significato dell’ermeneutica per la filosofia, Laterza, Roma-Bari 1994.
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L’immaginazione metafisica ITALO TESTA
La finzione è la sorgente da cui trae nutrimento la conoscenza delle “verità eterne”. E. Husserl, Ideen, § 70
a stanza segreta. Che cos’è la metafisica? Chi si trovi a rispondere a una domanda intricata, in filosofia, spesso ricorre a una parafrasi, che chiarisca in anticipo il senso dell’interrogativo. Una rappresentazione perspicua della domanda può essere addirittura, in alcuni casi, la chiave che fa scattare la serratura, e che mostra che non v’era alcuna stanza segreta e che la risposta era da sempre bene in vista e sottomano. Se questo sia il nostro caso, vi accenneremo più avanti. Nel frattempo si tenga a mente la possibilità di parafrasare la domanda “che cos’è la metafisica?” nella forma seguente: che cos’è l’immaginazione? La metafisica e lo spettro. Quanto più le domande metafisiche si sono solidificate, nel corso del tempo, in un corpus di dottrine, tanto più si è andata formando un’immagine della metafisica che, alla fine di questa vicenda, ha assunto connotati minacciosi. Per lo sguardo che si volge con nascosta malinconia ai sistemi metafisici come a dei corpi morti, sepolti, la metafisica stessa, quale il fantasma di Banquo, è destinata a ripresentarsi in forma spettrale, come spirito disincarnato, e deformato grottescamente, di quella sostanza vivente che animava le teorie del passato. Domandarsi cosa sia la metafisica, oggi, significa chiedersi se non siamo forse prigionieri, come la mosca nella bottiglia di Wittgenstein, di un’immagine: e liberarsi dall’incanto di questa immagine, che fa girare a vuoto il pensiero e lo costringe ad avvitarsi su se stesso, vorrà poi dire liquidare la metafisica tout court oppure raffigurarsela diversamente?
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La domanda su che cosa sia la metafisica è storica, non solo perché sembra chiamarci a un verdetto sulla storia della metafisica – se vi sia stata una tale storia, se abbia avuto un senso logico –, ma anche perché è installata nel presente, vi affonda le sue radici: non può essere dunque separata dalla domanda se la metafisica abbia ancora un senso vitale, attuale. La metafisica è solo il cadavere che gli storici della filosofia riesumano, e il cui spettro turba il sonno dei teoreti, oppure, come vorrebbero i restauratori, essa persiste, nella sua pretesa di validità metastorica, quale corpo immortale, o invece ha subìto una metamorfosi e si manifesta in forme di vita nuove, insospettabili? I liquidatori. La storia millenaria della metafisica è attraversata fin dai suoi esordi greci da un contromovimento critico. La critica della metafisica non è così un novum degli ultimi due secoli, bensì un’impresa speculare a quella metafisica, che può prendere le sembianze di un’opposizione parassitaria – la sofistica, la scepsi antica – oppure di una correzione interna, di un’autocritica endemica: Ockham e l’empirismo, la critica della metafisica quale premessa all’edificazione della metafisica come scienza in Kant, il progetto hegeliano di una logica dialettica che dissolva e compia l’ontologia. Ma è con il canto del gallo del positivismo che l’autocritica della metafisica degenera in liquidazione: subentra una diagnosi epocale per cui la metafisica sarebbe entrata in una crisi irreversibile, consegnata irrimediabilmente al passato, per far posto, così Comte, alla nuova era della scienza sperimentale e alla sua religione positiva. Il passo è breve per arrivare sino ai proclami di Nietzsche, Adorno, Rorty – diversamente motivati ma convergenti negli esiti – per cui la storia della metafisica sarebbe finita. Di qui la biforcazione filosofica tra le strade che conducono il pensiero ad accettare laicamente la nuova epoca post-metafisica come prosecuzione del progetto razionale della modernità – la pista di Habermas – oppure i sentieri lungo i quali ci si protende al di là del moderno con un salto spericolato oltre la metafisica e la sua ritualità – il gesto pretenzioso di Heidegger. Così come la metafisica si è fissata in un’immagine irrigidita, altrettanto la crisi, la morte e la liquidazione della metafisica sono a loro volta immagini stereo160
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tipate. L’apparenza, connessa a tali immagini, deve essere certamente criticata: e tuttavia si tratta di un’apparenza reale, che non può essere semplicemente eliminata, giacché essa non può essere descritta indipendentemente dal contenuto stesso che appare. Queste immagini condensano una serie di processi storici e sociali e hanno avuto a loro volta degli effetti reali: pertanto non sono semplicemente false, ma in esse appare, filtrato da una luce ingannevole, qualcosa di vero. Il fendente della scienza. La pressione della scienza moderna, con la certezza del suo metodo e la validità universalmente accettata dei risultati, aveva già indotto la metafisica moderna a una metamorfosi, che in Kant e nell’idealismo prese la forma del progetto di edificare la metafisica come scienza sistematica universale e necessaria. L’ineseguibilità del progetto, accertata a posteriori dalla prima generazione post-hegeliana, proietta l’ombra del fallimento sull’intera filosofia classica tedesca e sull’immagine consolidata di quest’ultima come culmine e compimento della metafisica occidentale. La bancarotta dell’impresa che voleva convertire la metafisica in scienza è stata accelerata dal fendente assestato dalla scienza empirica all’enciclopedismo filosofico. Lo specialismo crescente della scienza tra Ottocento e Novecento, unito a un’immagine progressiva e rivedibile del sapere così accumulato e della razionalità che lo produce, sembra sferrare un colpo mortale alle pretese ultimative e onnicomprensive della razionalità espressa dalla metafisica. La trasmutazione. Post-metafisica sembra dunque essere la comprensione diffusa del sapere scientifico e dei suoi progressi così come la stessa società il cui sviluppo materiale è stato vertiginosamente accelerato dal fruttuoso collegamento tra scienza e tecnica. Di conseguenza la nostra domanda dovrebbe essere riformulata: che cos’è dunque la metafisica nell’epoca post-metafisica? Non dobbiamo però farci ipnotizzare da un’immagine il cui potere incantatorio è fin troppo esteso: è l’immagine mitica della metafisica, l’idolo al cui innalzamento hanno collaborato le epoche del passato, ma che è stato infine adorato tacitamente proprio dalla generazione dei liquidatori. Non è affatto scontato che la crisi, manifesta 161
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nell’autocomprensione dell’epoca, significhi che il paziente è morto. Se iniziamo a correggere il nostro modo di vedere, a rieducare il nostro sguardo per liberarlo dalla Gestalt unilaterale in cui è irretito, potremo forse percepire il battito vitale di una nuova forma di vita o perlomeno realizzare che il paziente ha già da tempo lasciato il letto cui lo si vorrebbe tener legato. Ci accorgeremo che allora in questione non è la morte della metafisica, ma la sua trasmutazione. Anche questo non è un fenomeno inaudito. Contro ogni figura mitica della metafisica, che la vorrebbe come un sapere dal contenuto e dalla struttura invariante, è manifesto che la metafisica ha una storia. Una storia convulsa, in cui è però riconoscibile un’armatura logica: la storia della metafisica è sì un campo di battaglia, ma non nel senso, inteso da Kant, di una mischia confusa, di una mera lotta per la vita e la morte, bensì come una sfida argomentativa, in cui ogni nuova posizione appare anche come il frutto di una critica argomentata della precedente. In questo sviluppo si può anche riconoscere una logica argomentativa unitaria, come voleva Hegel, senza con ciò abbracciare di per sé l’idea che lo sviluppo di questa logica sia la verità ultima della metafisica stessa: la storia della metafisica come storia della verità, una narrazione rinnovata da Heidegger ma nella prospettiva di un congedo. Metamorfosi nella storia. Dobbiamo riconoscere che lo sviluppo argomentativo è in ogni caso anche un processo di metamorfosi figurativa, in cui l’immagine della metafisica, pur non abbandonando formalmente la sua pretesa di definitività, cambia continuamente pelle: e la logica vitale di questo processo warburghiano, che interessa il corpo iconico della metafisica, si intreccia con quella argomentativa, senza che i due poli, pur influenzandosi reciprocamente, siano mai riducibili l’uno all’altro. Nella luce di questa immagine dialettica della storia della metafisica, che mantiene l’antagonismo della concezione hegeliana senza pagare dazio alla sua pretesa di totalità veritativa, possiamo ritornare alla domanda circa la crisi e l’attualità. La metafisica sopravvive all’epoca della sua caduta nella misura in cui questa è l’occasione di un processo di trasformazione, in cui essa si libera del vecchio involucro, del manto mitico e dei suoi panneggi, e assume una nuova configurazione. 162
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Genesi figurale. L’inaugurazione della metafisica affonda nella memoria figurale della filosofia. È un fatto che a Platone e Aristotele, che risultano esserne i fondatori, il termine e il concetto di metafisica fossero estranei. Questo concetto si forma anche per la forza propulsiva e per gli effetti inintenzionali di due immagini. Prima indiziata è l’immagine della seconda navigazione platonica – quella navigazione che inizia quando la forza sensibile e naturale del vento cessa di spingere l’imbarcazione e occorre, a forza di remi, spingersi in direzione del soprasensibile. Questa immagine apparirà nella sua forza però solo dopo l’operazione, di per sé banale, con cui Andronico di Rodi, nel I secolo a.C., apporrà una semplice etichetta ai libri aristotelici che vengono dopo gli otto libri concernenti le cose fisiche: Meta ta physika, i libri che vengono dopo quelli che riguardano le cose da physis, cioè le cose naturali percepibili sensibilmente. È questa banale immagine spaziale che, motu proprio, lavorerà nei recessi del corpo della filosofia, fino a dar luce a un concetto maestoso, che verrà fissato terminologicamente solo nell’epoca barocca, nell’Opus Metaphysicum di Scheibler (1613) con la distinzione tra metaphysica generalis – l’ontologia che studia l’ente in quanto ente – e metaphysica specialis – lo studio di Dio e successivamente, con Wolff (1728-1729), del mondo e dell’anima. Maestà barocca. La metafisica è innanzitutto un’immagine concettuale – e non è un caso che essa si sedimenti proprio nel Barocco, l’epoca in cui, come ha magistralmente mostrato Walter Benjamin, si avvia un processo di trasformazione allegorica della memoria figurativa occidentale. L’immagine concettuale della metafisica deve la sua fortuna, e la sua propagazione quasi epidemica, alla capacità di ibridare e fondere in una figura unitaria, sintetica, diversi tratti di quell’indagine filosofica che lo stesso Aristotele conduceva nei libri successivi a quelli dedicati alle cose fisiche. Aristotele chiamava tale indagine “filosofia prima”, assegnandole in diversi luoghi testuali significati distinti. Essa è tale in quanto scienza delle cause e dei principi primi, a differenza delle altre scienze particolari, le quali cercano cause e principi secondi, a loro volta riconducibili a principi superiori. Inoltre essa ha per oggetto l’ente in quanto ente, è cioè ontologia, altro termine coniato nel Seicento: studia le 163
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cose che sono non sotto un aspetto determinato, come fanno le altre scienze – per esempio la fisica che studia le cose sotto l’aspetto del movimento –, bensì semplicemente in quanto sono. Essa è inoltre teoria della sostanza, in quanto per Aristotele la sostanza, cioè l’individuo con le sue proprietà essenziali, è il senso primo dell’essere, cui tutti gli altri si riferiscono. Inoltre essa è indagine su Dio, inteso come principio di tutti i principi e come sostanza prima di tipo soprasensibile. Infine la metafisica è episteme, scienza stabile e invariante della verità, in quanto ha per oggetto una realtà necessaria, che non può essere diversamente da come essa è. Metafisica regale. Queste diverse accezioni, non necessariamente di per sé compatibili, sono state agglutinate e totalizzate dall’immagine metafisico-maestosa dell’indagine aristotelica. Metafisica sarà allora, per i posteri, l’indagine che oltrepassa l’ambito fisico e il sapere delle scienze particolari: essa è filosofia prima nella misura in cui investe gli oggetti che sono primi in senso ontologico, e che come tali stanno a fondamento del tutto in quanto suoi principi primi. Non riguardando un dominio determinato dell’essere, bensì l’essere in quanto tale, la metafisica allora investirà la totalità del reale, e non una sua parte, connettendo la realtà sensibile alla realtà soprasensibile come al suo principio primo. Infine il sapere metafisico, abbracciando la totalità, avanzerà una pretesa di universalità, e avendo a oggetto realtà necessarie, presenterà una verità stabile. In quanto tale la metafisica potrà presentarsi come regina delle scienze, capace, con il suo sguardo totale, di dare ordine enciclopedico all’edificio delle scienze particolari. Da questa immagine, ancora composita e poliedrica, ma già mirata, emergeranno quei tratti pronunciati, se non caricaturali, che troveremo nel golem metafisico, che ancora oggi un filosofo come Emanuele Severino si sforza di rianimare: il totalitarismo, la pretesa di afferrare compiutamente la totalità del reale con il pensiero; l’infallibilismo, la pretesa di disporre di un sapere innegabile e incontrovertibile; il fondazionalismo. Il vecchio involucro. L’autocritica del pensiero metafisico ha avuto il merito di svelare la compromissione totalitaria e violenta del sapere metafisico – dapprima con la dottrina nietzschiana della 164
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volontà di potenza e quindi con la critica al pensiero identificante e alla violenza metafisica in Adorno, Lévinas, Derrida. Egualmente la pressione dello specialismo scientifico ha smantellato l’infallibilismo della razionalità sostanziale e le sue pretese imperialiste rispetto alle altre scienze. Allora the queen is dead e con lei la pretesa di sovranità della vecchia signora che si agghindava da regina delle scienze. La constatazione del decesso della metafisica stessa sarebbe però una mossa affrettata, condizionata dal sortilegio dell’immagine mitica. Se ci liberiamo da questa presa, dobbiamo cominciare a osservare che la metafisica ha avuto una storia, che la sua stessa icona mitologica ha conosciuto un movimento, si è via via dialettizzata, ibridata, cristallizzata, sgretolata. La crisi della metafisica allora può essere letta come la trasmutazione cui la metafisica va incontro per sopravvivere e adattarsi a un ambiente – l’epoca post-metafisica – ferocemente ostile. Icone dell’essere. Non dobbiamo a questo punto guardare esclusivamente all’immagine mitica dell’idra metafisica, bensì fare attenzione alla capacità del sapere metafisico di generare immagini del mondo. La storia della metafisica è anche il cammino in cui, con un travaglio argomentativo, si sono prodotte rappresentazioni articolate e differenziate del reale, le quali sono state quindi racchiuse nell’armatura di una teoria. A prescindere dalla forma espositiva e dalla struttura logica che le innerva, le dottrine sviluppate nell’ambito della metafisica hanno sempre quale contenuto un’immagine concettuale di ciò che è: il mito della caverna e la teoria del rispecchiamento delle idee, l’atomo indivisibile e le sue traiettorie, l’emanazione come irraggiamento dell’uno in Plotino, il mondo come grande macchina nel materialismo, le monadi senza porte e senza finestre, il soffio dello spirito assoluto hegeliano, l’umbratilità dell’essere heideggeriano. Qui è d’obbligo parlare al plurale di immagini ontologiche, venute al mondo nel corso secolare della storia del pensiero, e sulle quali ha proiettato la sua ombra l’icona metafisica adorata in quel momento. Quando la scorza mitica di quest’ultima è stata raschiata via, non per questo sono svanite le immagini metafisiche del mondo che per suo tramite si erano generate. Queste ultime, al contrario, manifestano un’autonomia e una 165
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capacità sorprendente di sopravvivere al declino delle teorie che le incapsulavano. L’immaginario metafisico. La detronizzazione della metafisica regale non esaurisce il serbatoio delle immagini metafisiche del mondo. Queste continuano la loro vita all’interno di ciò che chiameremo l’immaginario metafisico. L’immaginario metafisico è dapprima il deposito delle rappresentazioni, delle figure e dei modelli dell’essere. Già nel corso della storia del pensiero si è assistito a fenomeni di emigrazione interna delle immagini metafisiche. La teoria platonica delle idee è tornata a vivere, in forma mutata, nella metafisica plotiniana dell’uno o nella filosofia della natura di Schopenhauer. Altrove è osservabile un’emigrazione esterna: la colonizzazione della teologia cristiana da parte delle stesse idee platoniche, trasmutate nei pensieri di Dio; l’infiltrazione del matematismo pitagorico-platonico – il libro della natura scritto in forma di triangoli, quadrati e cerchi – nel paradigma della scienza moderna galileiana; per arrivare alla parodia della creatio ex nihilo nella figura del Big Bang. L’emigrazione al di fuori dei confini filosofici delle immagini metafisiche si accentua quanto più la filosofia, sottoposta al pressing della scienza, è costretta a far buon viso al gioco dello specialismo. L’epoca post-metafisica, anzi, vede l’intensificarsi di questo fenomeno di infiltrazione al di fuori dell’ambito del sapere e in direzione di una crescente colonizzazione della vita quotidiana. Le costellazioni concettuali della metafisica, tracciate in origine con fili logici, non hanno cessato di risplendere, con un bagliore meno intenso ma più diffuso, quando le trame argomentative si sono polverizzate. Infiltrazioni. La trasmutazione della metafisica è allora il processo attraverso il quale le sue dottrine fuoriescono dalla forma della teoria per annidarsi nelle pieghe dell’immaginario sociale. L’immaginario metafisico non è soltanto l’arsenale figurativo di una forma di sapere. Ma non è neppure da intendersi quale repertorio junghiano di archetipi o, lacanianamente, come una fase finzionale dello psichico. È piuttosto il pozzo della nostra memoria culturale, in cui le dottrine si depositano nel loro contenuto d’immagine, e dal quale rampollano secondo una logica distinta 166
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rispetto a quella del loro sviluppo argomentativo. Le immagini metafisiche entrano così in competizione con le immagini mitiche e con le immagini religiose che da sempre pervadono l’immaginario sociale. Metafisica per le masse. Non ci si può nascondere che la trasfusione del sangue metafisico nel corpo della società abbia conosciuto una fase violenta: le politiche di mobilitazione delle masse, da parte del totalitarismo, sono pur sempre leggibili come uno sforzo abnorme per plasmare dall’alto, già in epoca post-metafisica, l’immaginario collettivo sullo stampo di metafisiche – pensate però ancora con assolutezza mitica – che potessero sostituirsi alla funzione integratrice delle immagini religiose – metafisiche della volontà di potenza o dello spirito in alcuni casi, materialistiche in altri. Ma vi è una penetrazione più sottile, e in apparenza meno violenta, resa possibile da un processo di alfabetizzazione e di istruzione sempre più esteso della popolazione occidentale. Questo non è da confondersi con un processo di introduzione di massa alla filosofia, ben lontano da giungere: piuttosto sono ora in opera alcune condizioni materiali perché la forza catturante delle immagini metafisiche possa far presa diffusamente, e non più soltanto su quelle élite che dispongano di una istruzione filosofica in senso stretto. L’assenza di tali condizioni è a ben vedere uno dei fattori che determinarono la crisi delle etiche ellenistiche, incapaci di far fronte al potere di coinvolgimento dell’immagine religiosa del mondo veicolata dall’ibridazione cristiana – ma ferocemente antipagana – tra monoteismo e politeismo. La presenza di tali condizioni non lascia prevedere peraltro che oggigiorno le metafisiche secolari possano rovesciare la situazione. Mentre l’immagine religiosa dominante ha assorbito nel suo seno e trasfigurato teologicamente la metafisica regale, le metafisiche secolari, per parte loro, sottoposte alla cura dell’epoca post-metafisica, sopravvivono in forma depotenziata. Ciò non toglie che l’immaginario sociale sia divenuto sempre più permeabile all’immaginario metafisico, fino a esserne compenetrato in vaste zone. Emersioni fantastiche. È singolare come si sia assistito a una vera e propria emersione immaginativa della metafisica in quelle forme 167
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di letteratura mainstream che, almeno sino a tempi recenti, erano giudicate popolari. Così la fantascienza sembra essersi spesso assunta il carico di perpetuare dilemmi metafisici che generazioni intere di filosofi, persuasi che la svolta linguistica li esimesse dall’affacciarsi sul mondo, hanno bollato come obsoleti. Gli androidi, si chiede Philip K. Dick in un suo celebre romanzo, sognano pecore elettroniche? Come possiamo rappresentarci le altre menti, e distinguere quindi quelle umane da quelle di eventuali robot? O di quei signori con alti cappelli che Cartesio vedeva dall’alto delle sue finestre? La fantasia speculativa era già stata appannaggio del conte philosophique – un genere filosofico la cui struttura profonda attende ancora di essere indagata, e che nella sua parabola, dalla Storia vera di Luciano sino a Candide e Micromegas di Voltaire, potrebbe essere letto non solo come satira della metafisica regale ma anche come metafisica immaginifica di marca scettica. Le estrosità del racconto filosofico trasmigrano nella narrativa di genere già con L’altro mondo o gli stati e imperi della luna (1657), in cui Cyrano de Bergerac, con estro barocco, dava corpo visivo ad ardite teorie filosofiche, passando per la Macchina del tempo di Herbert G. Wells (1895), sino alle ultime gemmazioni cyberpunk di Bruce Sterling e William Gibson. Universi paralleli, macchine del tempo e torsioni ucroniche speculano su questioni pesantemente metafisiche quali i mondi possibili, realtà e irrealtà, continuità e discontinuità del tempo. Gli androidi e i cyborg rinnovano i dilemmi già lockiani circa il rapporto tra mente e cervello, identità personale, continuità corporea. La speculazione sul futuro, magari il 2044 di Minority Report, rispolvera la questione dei futuri contingenti e del libero arbitrio. Analogamente il romanzo giallo e noir hanno precocemente mostrato una attitudine ad allegorizzare la quête metafisica del senso. Cosicché le meditazioni sulla cosa in sé del giovane studente di filosofia Dürrenmatt non prenderanno mai la forma di un trattato sistematico ma si condenseranno nelle pagine di Il giudice e il suo boia e di La promessa. Matrici metafisiche. Il caso di Borges allora non sarà più catalogabile solo come un fenomeno di geniale escrescenza fantastica della letteratura alta. La storia dell’eternità (1935) e le Finzioni 168
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(1944), con il caratteristico intreccio di speculazione cosmologica e tecnica del romanzo poliziesco, anticipano una tendenza della letteratura contemporanea – oggi manifesta nell’avant-pop, da Entropia (1960) di Thomas Pynchon sino all’ultimo David Forster Wallace – a rigenerarsi a partire dall’immaginario della letteratura di genere sulla base di matrici metafisiche. Emblematico è allora il ruolo del cinema, macchina di espressione e di produzione dell’immaginario collettivo, e che proprio per questo sembra essere la forma culturale più segnata dall’emersione fantastica della metafisica. Il caso di Matrix – con la sua commistione di platonismo e dualismo cartesiano rovesciato materialisticamente, metafisica schopenhaueriana della volontà e illuminazione gnostico-buddista – è solo la punta dell’iceberg e l’elenco, passando per le tappe recenti di Minority Report, The Cube, Existenz, Johnny Mnemonic e Blade Runner, potrebbe risalire sino alle origini del cinema. Scienza immaginifica. La metafisica per le masse del cinema e della letteratura fantastica non è però un semplice oggetto di riflessione sociologica. Un indizio chiave è il fatto che l’immaginario metafisico contemporaneo sia dominato da icone della scienza e della sua implementazione tecnica. In ciò non si esprime soltanto l’ansia indotta dal progresso scientifico sul senso comune, spinto sino a fenomeni di rigetto che rinnovano visioni apocalittiche. Al di sotto di questo effetto di superficie è percepibile una trasformazione profonda della metafisica. Il collasso della visione regale, lungi dal risolversi in una eclissi della metafisica stessa, ha fatto sì che oggi la generazione dell’immaginario metafisico non sia più titolarità esclusiva delle discipline filosofiche. Proprio l’impresa scientifica è diventata, direttamente o indirettamente – senza con ciò nulla togliere alla sua vocazione empirica – il più potente catalizzatore di immagini metafisiche del mondo, talvolta inedite, più spesso ibridate con immagini metafisiche della tradizione. La componente immaginifica e la vocazione metafisica della scienza è del resto riconosciuta anche dall’epistemologia e dalla storia della scienza post-positivistica. Non occorre abbracciare il relativismo di Feyerabend per ammettere sobriamente che visioni metafisiche empiricamente non confutabili (Popper) abbiano sempre 169
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giocato un ruolo all’interno della ricerca scientifica, costituendo una cornice di riferimento influente (Watkins, Agassi) – non sempre in senso negativo – all’interno del paradigma scientifico di volta in volta dominante (Kuhn). Le metafisiche di riferimento non fanno solo da supporto storico o psicologico alla crescita della scienza ma, in quanto immagini del mondo, informano lo scienziato circa gli elementi che costituiscono le realtà, le porzioni empiriche da indagare, le euristiche da seguire. Questi modi di vedere il mondo, a volte in competizione tra di loro – si pensi alla teoria corpuscolare e ondulatoria della luce – influenzano la scienza perché suggeriscono implicitamente al ricercatore che cosa egli debba andare a cercare: ma non è nemmeno escluso che talvolta possano tradursi in teorie empiricamente falsificabili, come sembra essere stato il caso dell’atomismo antico e, con esiti divergenti, delle visioni geocentriche ed eliocentriche dell’universo. Un esempio recente di metafisica influente è la metamorfosi del dualismo cartesiano operante nella scienza cognitiva funzionalista. Il rapporto tra software e hardware funge da metafora per la comprensione dei processi mentali come funzioni non identificabili per principio con determinati stati fisiologici, giacché essi si possono incarnare in diversi supporti materiali. In alternativa si può pensare poi a come il materialismo riduzionista ed eliminativista – esso stesso un’immagine metafisico-ontologica, in base alla quale si presuppone la non esistenza di tutte le entità non descrivibili in termini meramente fisici e ci si propone metodologicamente di eliminarle – giochi un ruolo preponderante nell’orientare il programma di ricerca di molte ricerche neurobiologiche. Sensus communis. L’urgenza di immagini metafisiche nelle nostre pratiche culturali, scienza inclusa, non corre separatamente rispetto all’impalcatura metafisica del senso comune. L’immaginario metafisico è sociale proprio in quanto compenetra già la nostra percezione ordinaria delle cose ed è così fuso nel mondo della vita. L’esistenza ordinaria delle donne e degli uomini delle società contemporanee si muove sullo sfondo di un sapere implicito e condiviso, che fornisce una prima mappatura del mondo e come tale ha un ruolo di orientamento. Questa pre-comprensione tacita che guida 170
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il nostro agire è certamente poliedrica, presentando probabilmente tratti inscritti geneticamente, sui quali però, come ha mostrato Wittgenstein in Della certezza, si sedimentano storicamente porzioni del sapere del passato. Così la fisica aristotelica, con la sua concezione ontologica della sostanza e dell’attributo, e con la sua visione qualitativa del tempo e dello spazio, è un modello metafisico che si è storicamente fuso con la fisica ingenua che guida la nostra forma di vita animale. Sebbene tali modelli siano in alcuni casi divenuti obsoleti dal punto di vista scientifico – come per esempio la cosmologia aristotelico-tolemaica – essi non possono essere trattati alla stregua di meri pregiudizi. La loro stessa capacità di resistenza è un fatto che la scienza è in alcuni casi chiamata a interpretare. Così fanno gli studi psicologici sulla fisica ingenua e le letture evoluzionistiche della funzione adattiva che alcuni modelli metafisici possono giocare per l’essere umano. Theatrum mentis. Così l’attribuzione di una mente a noi stessi e agli altri esseri umani, che tutti noi cominciamo a fare spontaneamente già nella prima infanzia, potrebbe avere un ruolo evolutivo ed essere inscritta in qualche modulo cerebrale. Ma il concetto di mente, anima razionale, che utilizzano le teorie naturali della mente, e che noi stessi impieghiamo nel senso comune, è pur sempre un costrutto della metafisica – legato all’immagine spaziale di un teatro interno del pensiero – e soggetto a lente e impercettibili trasformazioni storiche. Nessuno può percepire con i cinque sensi né verificare empiricamente la presenza di un’entità denominabile mente: al massimo possiamo dire di esperire internamente dei pensieri e di vedere indirettamente i prodotti – proferimenti, espressioni facciali, dichiarazioni scritte, corsi d’azione – di ciò che supponiamo essere la mente altrui. Ammesso poi che vi sia mai stata una dimostrazione valida dell’esistenza della mente propria e altrui, non è certo in virtù di essa che l’uomo della strada, il filosofo e lo scienziato continuano ad attribuirla a sé e agli altri. E ciò a prescindere dal fatto che credano nella sua esistenza oppure la ritengano un’entità fittizia, riducibile ad altre entità – stati fisiologici del cervello, vibrazioni di atomi – e pertanto eliminabile dall’arredo ontologico del mondo. D’altra parte l’esperienza della mente pro171
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pria e altrui è reale, e in un certo senso noi percepiamo alla lettera le parole, il volto altrui e i nostri pensieri come sue espressioni. La realtà di tale percezione, che non intendiamo negare, non è però riducibile a un qualche dato empirico sensoriale. È invece una percezione espressiva, in cui cogliamo l’espressione di una figura umana, e che non sarebbe possibile se tale percezione non includesse una variazione immaginativa. Terre gaste. La metafisica della mente, allora, è stata sino a ora una sorta di terreno comune immaginativo – un modo in cui noi, nonostante tutto, ci immaginiamo una porzione del mondo. Se anche fosse l’esito di una programmazione genetica, ciò non toglierebbe che a essere programmato sarebbe un atto immaginario metaempirico. Scavalchiamo i dati esperienziali a nostra disposizione e ci immaginiamo l’esistenza di un determinato ente, la mente nostra e altrui, che non potremmo mai percepire, ma della cui esistenza cerchiamo prove o smentite indirette nella nostra esperienza sensibile. Ed è questo common ground che consente agli uomini di intendersi tra di loro, di confrontare le loro prospettive e teorie, o anche di sviluppare teorie revisionistiche che riducono le menti – Hume, Nietzsche, Dennett e molti altri – a ficta. L’immaginario metafisico è così non solo il teatro feriale degli esperimenti mentali dei metafisici, degli scienziati e dei letterati – con i loro genî maligni e piani inclinati senza attrito, cervelli in vasca e mondi solari – ma anche il palcoscenico quotidiano della comprensione umana. La metafisica non è allora, come voleva Kant, l’oceano periglioso, senza sponde, in cui si avventurano solo gli esploratori del pensiero e i visionari fanatici: essa è invece la terra di nessuno dell’immaginario, il paese guasto purgatoriale in cui si muovono tutti gli esseri sospesi tra l’inferno dell’oscurità e la contemplazione paradisiaca delle pure essenze afigurali. Parafrasi. Sino a ora si è mostrato come i contenuti delle teorie della metaphysica generalis – l’ontologia – e della metaphysica specialis – la psicologia, la cosmologia, e la teologia, su cui a dire il vero abbiamo taciuto – siano assorbiti nel tessuto immaginario e siano capaci di sopravvivere anche al disfacimento della forma teorica che li irreggimentava. La trasmigrazione della metafisica nell’im172
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maginario non è l’unica angolatura da cui affrontare il nostro problema. Perché questa metamorfosi? E in che misura ci siamo avvicinati alla domanda di partenza: che cos’è la metafisica? È venuto il momento di delucidare il senso della parafrasi proposta in apertura. Perché la domanda metafisica potrebbe essere riformulata nei termini di una interrogazione sulla natura dell’immaginazione? L’opaco. Le teorie metafisiche, nell’ambito filosofico – che non consta di sola metafisica, sia chiaro – hanno il più alto tasso di contenuto immaginario, proprio perché il loro succo è secreto dalla facoltà dell’immaginazione. Non si tratta di negare la peculiare forma logico-argomentativa e neppure il carattere concettuale dei contenuti e del medio dell’attività filosofica: in ciò sta l’elemento distintivo, che non va liquefatto, rispetto alle intuizioni artistiche o alle rappresentazioni religiose. Da quando la metafisica regale è entrata in agonia, non ci è più dato credere che sia possibile rendere completamente trasparente il contenuto rappresentativo e risolverlo compiutamente entro la forma concettuale. L’esaurimento del mito dell’evidenza e della trasparenza – che non va imputato al solo Hegel, il quale era invece ben conscio dell’aspetto dilacerato dello spirito – porta con sé una nuova opacità dei concetti, che si presentano come superfici translucide più che come cristalli nitidi. La tensione tra forma argomentativa e contenuto rappresentativo serpeggia in verità da sempre nel seno della filosofia orientata metafisicamente. E questo perché l’immaginazione è la facoltà propriamente metafisica, da cui sgorgano le immagini concettuali del mondo che l’attività filosofica fa scorrere su binari logici. La metafisica delle facoltà. Imputare all’idealismo fichtiano la scoperta del tratto metafisico dell’immaginazione condurrebbe a un grave fraintendimento. L’immaginazione non è metafisica perché essa crea inconsciamente la realtà, come accade all’immaginazione produttiva fichtiana e all’Io poetico di Novalis. Piuttosto noi non possiamo nemmeno rappresentarci la realtà se non immaginandola come il nostro mondo. L’immaginazione, stando alla semplice definizione aristotelica, è la facoltà di produrre, rappresentarci, evocare immagini in absentia, indipendentemente dalla presenza attuale nei sensi dell’oggetto così raffigurato. Tali immagini 173
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non sono causate direttamente dall’oggetto sensibile che a esse corrisponde, bensì sono prodotte spontaneamente da noi. Esseri dotati d’immaginazione, possiamo produrre in noi stessi sensazioni che esperiamo come indipendenti causalmente dalle sensazioni esterne prodotte dall’ambiente circostante. Questo è il modo con cui facciamo esperienza in prima persona di tale facoltà. Fare una teoria sostanziale circa l’essenza di tale facoltà è già chiaramente un passo nella metafisica, con cui si trasfigura l’esperienza di una cosa nell’immagine concettuale della sua natura intrinseca. Distacco. Nell’immaginazione esperiamo una presa di distanza dalla pressione dell’ambiente circostante. Questo distacco dall’ambiente causale dell’esperienza non è solo evasione – il sostituire la situazione di fatto in cui siamo immersi con una situazione assente, meramente immaginata –, né può essere confusa con la fantasticheria o con le visioni dello Schwärmer. La funzione di distacco dell’immaginazione è invece ciò che ci permette di rappresentarci l’ambiente per come esso è, facendo così esperienza della realtà. Per contemplare la nostra esperienza, e poterla descrivere per come ci si manifesta, noi dobbiamo retrocedere dalla sua presa immediata, dalla sensazione prodotta causalmente dai sensi, e operare una sorta di variazione fantastica, ripresentando alla mente in differita – nel ricordo – il contenuto dell’esperienza diretta. Non bisognava attendere le Ideen di Husserl per rendersi conto della funzione cognitiva dell’immaginazione nell’organizzazione dell’esperienza. Già per Aristotele le immagini avevano la funzione cognitiva di unificare i sensibili propri – i dati offerti separatamente dai cinque sensi – in un sensorio comune, facendo così da ponte per la formazione di un concetto unitario dell’oggetto. Senza immaginazione non vi sarebbe un’esperienza integrata e nemmeno una comprensione concettuale del suo contenuto. Il potere di descrizione e ridescrizione dell’esperienza empirica ha quindi un nucleo immaginativo forte: esso è legato alla capacità di produrre e riprodurre immagini alternative a quelle date. Ogni volta che vogliamo ridescrivere ciò di cui facciamo esperienza, infatti, dobbiamo prendere distanza dall’aspetto che è attualmente in vista, e cercare di immaginare diversamente la situazione, variando la nostra pro174
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spettiva per poter cogliere nuovi dettagli. Solo così noi possiamo di nuovo andare incontro alla realtà e appropriarci di un aspetto sino a ora ignoto del nostro mondo. Concetti impuri. Non vogliamo però offrire una visione delle facoltà umane come separate in casa. La nostra immaginazione è sempre concettuale, così come la nostra spontaneità concettuale non è mai pura, ma ha sempre un fondo figurativo. La razionalità ci distinguerà pure, nel quadro aristotelico, dall’animale, dotato invece di immaginazione. Ma se fossimo dotati di una spontaneità concettuale pura, allora non avremmo mai elaborato alcuna visione metafisica dell’esperienza. Siamo dunque animali metafisici non solo in quanto animali razionali. La meraviglia che suscita l’interrogazione filosofica sulle cause e sui principi è a fronte dell’immagine del mondo catturata nei sensi e ripresentata nel ricordo. Ed è a partire dalla rappresentazione riprodotta nel ricordo che procediamo a formarci un’immagine del mondo. Certamente noi non potremmo fissare il ricordo senza il concetto che stabilizza e dà forma all’esperienza. La permanenza del concetto è pure decisiva per la presa di distanza dalla variabilità estrema cui è consegnata l’esistenza animale. I concetti da soli però non potrebbero liberarci dalla pressione ambientale. Se avessimo solo concetti, noi saremmo il mondo: in dettaglio, con i concetti giusti, o in forma confusa con i concetti sbagliati. In ogni cosa non potremmo fare esperienza della realtà circostante come qualcosa di distinto da noi stessi. Per questo bisogna che i nostri poteri concettuali siano fusi con l’immaginazione. Senza l’immaginazione che ripresenta l’immagine nel ricordo, noi non potremmo formarci e neppure afferrare i concetti, il cui fondo figurativo è esattamente ciò che resta attaccato alle nostre antenne sensibili. Se Nietzsche non avesse svalutato tacitamente il valore cognitivo delle immagini, giudicandole in fondo menzognere, egli si sarebbe avvicinato maggiormente al vero scrivendo, in Verità e menzogna in senso extramorale, che i nostri concetti non sarebbero altro che un esercito mobile di metafore. Animali metafisici. L’intreccio tra immagine e concetto ci porta a riconoscere, con una tradizione che risale almeno a Herder, il carattere espressivo del pensiero umano. L’elemento concettuale e 175
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quello figurativo sono in esso consustanziali. I concetti esprimono sempre anche immagini e le immagini raffigurano concetti. L’attività filosofica articola in concetti, legati da nessi argomentativi, questa esperienza del pensiero. E nella filosofia la metafisica è esattamente l’attività più sbilanciata verso l’immaginazione: i modelli del mondo che essa ci offre sono infatti il prodotto dell’immaginazione concettuale umana. Quest’ultima non è però un possesso esclusivo dei filosofi: ed è per questo che le visioni metafisiche sopravvivono anche quando il manto argomentativo della teoria si lacera. L’oltrepassamento della realtà sensibile, da molto tempo appannaggio della metafisica, è allora consentito dalla trascendenza che l’immaginazione permette agli uomini rispetto al meramente esistente. E questo vale anche per la formazione dei concetti scientifici, per il contesto della scoperta di nuove idee – il momento euristico, la mela di Newton – ma anche per il contesto della giustificazione. Experimenta. L’ideazione degli esperimenti, reali o mentali, che dovranno sottoporre le ipotesi di legge al banco di prova dell’empiria, richiede una serie di variazioni delle condizioni empiriche, prima immaginate e poi, se vi è modo, riprodotte in laboratorio. Nel caso delle scienze matematiche e geometriche, pur con tutte le differenze del caso rispetto alle scienze sperimentali, questo ruolo dell’immaginazione è ancora più palese, giacché a esso è legata, se stiamo alla storia della scienza, la stessa concepibilità di quei domini massimamente astratti che trascendono i limiti della nostra ingenua esperienza del mondo di tipo euclideo e archimedeo. Arrivare a pensare geometrie non archimedee e non euclidee, spazi a più dimensioni e quant’altro – ma un discorso analogo si potrebbe fare per la teoria della relatività e la meccanica quantistica, non a caso oggetti privilegiati di speculazione letteraria – ha richiesto e richiede agli scienziati, e a tutti gli altri, uno sforzo di variazione fantastica, la libertà dell’immaginazione di divincolarsi dai limiti dell’esperienza data. I geometri, come riconosceva Husserl (Ideen, § 70), operano molto di più con la fantasia che con il disegno reale o con la costruzione di modelli. Da essa attingono una libertà incomparabile nella trasformazione delle figure immaginate, nel far scor176
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rere figure possibili continuamente modificate e così nella produzione di innumerevoli nuove formazioni. Le variazioni immaginative di Riemann, Hilbert, Gauss e Veronese raggiungeranno così non a caso la loro perfezione fantastica con i piattoni di Flatlandia e con il mondo nello specchio di Alice. Riconoscitori forti. Noi umani siamo animali dotati di immaginazione metafisica anche perché il riconoscimento segna a fondo il nostro sviluppo individuale e di specie. La speculazione filosofica, e numerose ricerche empiriche di psicologia evolutiva e neurobiologiche, concordano nel ritenere che il pensiero, l’autocoscienza individuale e la coscienza concettuale del mondo oggettuale non si potrebbero sviluppare se non fossero sostenuti da interazioni riconoscitive che li plasmano sin dalla prima infanzia. La coscienza concettuale umana di un mondo di oggetti non sarebbe possibile se non fosse accompagnata dalla coscienza di sé. Ma senza essere riconosciuto dagli altri, e senza riconoscerli a mia volta, non potrei autoriconoscermi come un individuo autocosciente, dotato di una mente intenzionale e di una individualità propria. La razionalità autocosciente umana ha così una struttura intrinsecamente riconoscitiva: l’uomo è un riconoscitore forte. Capacità riconoscitive sono proprie anche degli altri animali: essi possono identificare percettivamente le cose e identificarsi reciprocamente come cospecifici. Nell’uomo però la sfera del riconoscimento permea integralmente l’esistenza individuale e sociale, ed è intrecciata a quei processi cognitivi superiori di cui l’uomo è dotato in massimo grado, se non esclusivamente in alcuni casi (come il linguaggio verbale e la razionalità concettuale). Si è già osservato che l’attribuzione a sé e agli altri di una mente intenzionale è sempre una sorta di esperimento mentale immaginario: e si è notato come la percezione della mente altrui abbia un carattere espressivo. Ma il riconoscimento reciproco, la base a partire da cui si sviluppano e in cui si innestano le capacità riconoscitive individuali – e quindi la stessa attribuzione e percezione di caratteristiche mentali – è un processo permeato d’immaginazione. Rispecchiamenti. Noi infatti non possiamo pensare il riconoscimento reciproco se non come una sorta di rispecchiamento e im177
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medesimazione: specchiarsi nell’altro, vedere se stessi con gli occhi dell’altro, mettersi nei panni dell’altro. Queste metafore, che ricorrono in tutte le riflessioni filosofiche e scientifiche sull’argomento, non sono semplici modi di dire, ma hanno un preciso senso cognitivo. Sono metafore inevitabili, senza le quali non riusciremmo a dare senso all’esperienza che vogliamo descrivere e comprendere. In esse si esprime il carattere immaginativo ed espressivo di ogni performance riconoscitiva. Il riconoscimento di sé e degli altri come esseri umani intenzionali non può cioè essere ridotto a un atto in cui afferriamo un concetto: in esso afferriamo innanzitutto un’immagine – che non è poi la mera immagine sensoriale, bensì una variazione espressiva – come in uno specchio incarnato, ed è proprio in questo elemento figurativo incorporato che possiamo iniziare a formarci e a cogliere il concetto. L’esperienza del riconoscimento reciproco, come ha magistralmente illustrato Hegel, non è solo il contesto in cui si costituiscono, si sviluppano e si esprimono le nostre capacità cognitive fondamentali (l’autocoscienza, la razionalità, il pensiero concettuale). Essa è anche lo scenario pratico in cui siamo iniziati alla libertà, in cui impariamo a essere insieme dipendenti dagli altri – di cui abbiamo bisogno per poter diventare noi stessi – ma indipendenti nell’autonomia individuale che nonostante tutto – e non senza sforzi e lotte – possiamo conseguire. Noi non potremmo dunque apprendere il senso della nostra libertà se non fossimo iniziati a quella pratica immaginaria di rispecchiamento figurativo che il riconoscimento reciproco richiede e incorpora. Libertà espressiva. Una comprensione autentica dell’esperienza umana della libertà è così destinata a rimanere preclusa a chi si ostini a disgiungerla dall’immaginazione. La trascendenza dell’immaginazione si lega con il fenomeno della libertà. Non è però in gioco una libertà genericamente esistenziale, come in Sartre, bensì l’esperienza espressiva della libertà, ciò per cui noi possiamo vedere altrimenti le cose, immaginare di più, sporgere oltre il presente in direzione dell’assente, del passato e del futuro. Di qui il carattere critico della libertà come esperienza espressiva, il gesto critico che l’immaginazione rende possibile al pensiero. Nella li178
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bertà si manifesta il carattere espressivo del pensiero e la metafisica è il prodotto di questa libertà. Condizionata dal mondo, alla cui presa vuole sottrarsi, e dalla dipendenza reciproca nei suoi tratti soffocanti, questa libertà, nel suo sforzo di emanciparsi, rendersi autonoma, è sempre sottoposta all’errore, allo sbandamento, all’accecamento. Sottratta al cerchio magico dell’esistenza, seppur di un soffio, è così non solo la metafisica, secondo l’Adorno dei Minima moralia, ma anche il modo in cui noi appariamo liberi a noi stessi. Continuando a muoverci in questa apparenza, non cesseremo di produrre immagini metafisiche del mondo. Il momento metafisico del pensiero, allora, non può essere sequestrato da una disciplina, così come l’immaginario che ne deriva è una terra di tutti e di nessuno. Fantasia esatta. È però importante cogliere esattamente come in questo momento operi la fantasia. La cosa che si dà a vedere allo sguardo metafisico non è indelibata. La fantasia non la lascia intatta ma interviene su di essa nella contemplazione, trasponendola in immagine. La fantasia si congeda quindi dall’ambito del già dato, nella misura in cui ne ritaglia aspetti e li cuce in un’immagine che serve da modello. Il momento metafisico, presente nella filosofia così come nella scienza, è propriamente l’ars inveniendi, cioè la facoltà di trovare e raffigurare nuovi modelli, che eventualmente saranno presi a oggetto di teorie specifiche e sottoposti ai loro vincoli interni, ovviamente differenti a seconda dei casi. Così opera propriamente anche la metafisica filosofica, che può essere intesa, con Adorno, come un esercizio esatto della fantasia, sottoposta al duplice vincolo filosofico della rigorosità nella connessione dei concetti e della responsabilità verso la misura del reale. Essa produce costellazioni concettuali, cioè grappoli di concetti che fungono da immagini della realtà e si legittimano per la coerenza del loro nesso argomentativo interno e per la loro capacità di accostarci all’esperienza. Cartoncino da costruzioni. La teoria dell’essere, allora, come esercizio della metafisica filosofica, si può produrre unicamente nell’apparenza ontologica del reale. La raffigurazione ontologica dell’ente in quanto ente, a prescindere da determinazioni specifi179
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che, non potrebbe darsi senza l’atto attraverso il quale la fantasia trascende la determinatezza spazio-temporale dell’essente e così lo libera, trasponendolo in immagine, dalla fatticità del qui e ora. L’ente può essere colto al di là dell’essente quando si lasciano cadere le differenze individuali dell’esistenza, salvandole in qualche modo nei caratteri prototipici di una figura che funge da modello. L’immaginazione gioca così una funzione ontologica nel ritagliare gli enti. E l’attività metafisica può essere pensata, secondo il paragone che Adorno prende da Kierkegaard e da Benjamin, come qualcosa di analogo all’attività fanciullesca del ritagliare figure e del giocare con il cartoncino da costruzioni. L’ontologia, quale nucleo centrale del pensiero metafisico, ricade così nel dominio immaginario. Il suo carattere apparente non è per questo privo di verità umana, posta la necessità del momento dell’apparenza fantastica per l’esperienza del mondo. L’atto con cui la fantasia del bambino ritaglia la figura dal continuum del foglio o la costruisce con il cartoncino, esprime bene il momento presente in ogni ontologia, in cui la contingenza del soggetto concreto qualunque, dell’essente determinato, viene legata al momento più generale, nella forma del suo prototipo, di un piccolo modello piuttosto che di un concetto astratto. Da questa operazione ontologica sorgiva le teorie filosofiche procedono, raffinando sempre più il modello, incuneandosi nell’astrazione: idee e fenomeni, sostanze con attributi, individui, tropi, atomi, spirito, sono altrettante metamorfosi dell’operazione ontologica minimale. Sensibilità riformata. La dilatazione immaginaria e la liberalizzazione della metafisica non annunciano la fine della filosofia preconizzata dalle cassandre degli ultimi due secoli. Quest’ultima è intanto qualcosa di distinto dalla metafisica. Essa si è diramata in tante discipline, come la logica, l’etica, la filosofia politica, la filosofia del linguaggio, che possono avere un cuore metafisico, ma che hanno comunque un profilo e procedure proprie. Comune alle varie forme del sapere filosofico è invece la struttura argomentativa che ne articola i concetti e lo spirito critico che guida l’indagine. Lo spirito filosofico, dunque, continua a esercitare una funzione di controllo sulle produzioni metafisiche della filosofia stessa, della 180
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scienza, dell’arte e del senso comune. L’epoca post-metafisica è tale non perché non sia più legittimo elaborare immagini metafisiche del mondo. Ma questa elaborazione non può più essere svolta ingenuamente e la filosofia intende correttamente la situazione se, invece di autoattribuirsi un potere censorio – la facoltà di mettere al bando la metafisica –, essa interpreta il proprio ruolo in senso illuministico e critico. Anziché porre un divieto dell’immagine, la filosofia dovrebbe intervenire a disciplinare le immagini, a rischiarare la sensibilità metafisica contemporanea, criticandone le ricadute mitiche. La riforma della sensibilità è insieme l’attività critica con cui la filosofia interviene nel discorso pubblico mostrando le distorsioni dell’immaginario collettivo e specialistico, ma insieme proponendo modelli esemplari. La filosofia mette così criticamente alla prova la consequenzialità interna, la correttezza procedurale, l’aderenza al reale delle teorie filosofiche metafisiche del passato e del presente, ma interviene anche criticamente all’interno della società, snidando le visioni metafisiche dell’immaginario condiviso. E questo non significa che la filosofia rivendichi la titolarità esclusiva della razionalità argomentativa e critica, né che pretenda di avere un campo oggettuale protetto a priori dall’invasione degli ultracorpi scientifici. Lo spirito disincantato. L’espugnazione scientifica di province annesse in passato all’impero filosofico del sapere non è affatto una disdetta bensì la fine di un lungo equivoco. La visione socraticoplatonica della filosofia avrebbe già dovuto renderci consapevoli che la filosofia è un sapere senza oggetto proprio, e che la sua stabilizzazione in una conoscenza immutabile e in un campo oggettuale fisso sarebbe insieme la sua fine. Si dimentica volentieri che Dio non è, o meglio non sarebbe, filosofo. Non va in una direzione diversa la vocazione filosofica alla totalità, espressa nell’idea aristotelica della filosofia prima come scienza dell’ente in quanto ente, almeno se ci liberiamo dall’interpretazione totalitaria che l’immagine mitica della metafisica ha diffuso. Nel suo volgersi a una totalità che non può certamente mai chiudere in un pugno, la filosofia non può farne un oggetto disciplinare: altrimenti essa si ridurrebbe alla parodia delle scienze specialistiche. Nel campo della conoscenza 181
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umana la squadra filosofica non dovrebbe marcare a uomo le forme del sapere, ormai trasformatesi in avversari, bensì muoversi più liberamente a zona. Filosofi delle riserve. Di questo siamo oggi più consapevoli dopo la crisi della metafisica maestosa. Per questo è regressivo il catenaccio di molti filosofi contemporanei, e di molti filosofi italiani di largo consumo, i quali continuano a pensare il rapporto con la scienza in termini difensivi. Metafisici delle riserve senza saperlo, essi credono che la filosofia possa legittimarsi unicamente se riesce a installarsi in qualche regno inaccessibile a priori ai profani e protetto dalle incursioni dei predatori scientifici. Così essi perpetuano l’idea della filosofia come vestale del senso e spacciatrice di supplementi d’anima a un mondo che verserebbe in crisi d’astinenza spirituale a causa del proibizionismo della tecno-scienza. Liberato dall’incantesimo del castello enciclopedico, così come dal protezionismo spiritualista, lo spiritello filosofico, non più scambiato per un panda, può invece continuare a vivere e ad attraversare i confini delle discipline. Per questo i suoi interrogativi bizzarri, i suoi colpi di scena, le sue boutades immaginifiche, non devono necessariamente essere impersonate dai filosofi di professione ma possono sorgere dal domandare delle scienze e delle pratiche artistiche. Metafisica secolarizzata. Non c’è poi alcun motivo reale per cui la filosofia non potrebbe continuare in prima persona a sviluppare la sua attitudine metafisica e a darle forma teorica. Molte dottrine filosofiche, se non tutte, continueranno a essere metafisiche alla lettera, ad andare meta ta physika, se intendiamo come metafisica ogni teoria che vada oltre una descrizione meramente fisica di una qualche realtà. La critica all’imperialismo metafisico investe poi non la metafisica an sich, bensì le sue pretese mitologiche di formulare teorie fondative, incorreggibili e onnicomprensive. La filosofia deve quindi sottoporre a questo rasoio sia le teorie che esamina criticamente sia quelle cui intenda dar forma ex novo. Se l’attitudine metafisica è un momento dell’umano, per come lo conosciamo sino a oggi, non c’è quindi ragione perché la filosofia cessi di presentare immagini secolarizzate del mondo sot182
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to forma di teorie non fondative e che non avanzano pretese di infallibilità. Totalità infrante. Nemmeno viene a cadere la protensione alla totalità di queste immagini, purché divengano consapevoli di essere scorci sulla totalità, angolature prospettiche particolari, visioni che non possono eliminare l’opacità di fondo della nostra esistenza. Hegel, per acclamazione il diavolo metafisico dei contemporanei, ha riconosciuto meglio di chiunque altro questa condizione come propria della filosofia. Nello scritto sulla Differenza Hegel mostra infatti che il bisogno della filosofia sorge quando la totalità è infranta, in pezzi, e gli uomini non sono più capaci di percepirne il soffio che anima la loro vita. Se gli uomini vivessero al cospetto della totalità, abbracciandola con uno sguardo onnicomprensivo e nuotando agevolmente nei suoi flutti, allora la filosofia non sarebbe mai venuta al mondo. Solo questa esperienza di deflagrazione del reale e di allegorizzazione dell’esperienza spinge gli uomini a ricomporne le parti e a cercare di riconoscere in queste tessere la figura di una nuova unità. Queste parti, nel loro carattere di frammenti, sono schegge visive, emblemi, immagini a loro volta. Metafisica è la ricerca filosofica mirante a riconoscere una figura unitaria che cucia assieme i frammenti: un bisogno metafisico ancora avvertito nei nostri tempi. Prodotta dalla lacerazione, la luce di questa figura unitaria non cancellerà mai le ombre e i chiaroscuri della scissione, e la visione rimarrà uno scorcio sulla totalità. Il bisogno della filosofia, e della metafisica quale filosofia unificante, è poi, come tutti i bisogni umani, storico: prodotta storicamente è la frammentazione di ciò che v’è, e altrettanto la domanda di filosofia e l’unificazione che la metafisica offre con le sue immagini. Per questo la cosiddetta epoca post-metafisica tanto post-metafisica in fondo non è: essa intensifica piuttosto storicamente quell’esperienza di frammentazione del reale che già nel passato, in particolare moderno, accendeva la scintilla metafisica del pensiero. Il giovane Lukács ha espresso molto bene questa condizione nella sua Teoria del romanzo: “La filosofia [e qui egli per filosofia intende la metafisica stessa] sia come forma della vita che come forma determinante della poesia e del suo contenuto, è sempre un sintomo dello 183
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strappo tra l’interno e l’esterno, un segno della differenza essenziale tra l’io e il mondo, dell’incongruenza tra l’anima e il fare. Per questo i tempi beati non hanno filosofia, oppure, il che è lo stesso, tutti gli uomini vivono in essi da filosofi, depositari dei fini utopistici di tutte le filosofie”. Fantasmi ontologici. La metafisica secolarizzata, infine, non è nemmeno costretta ad abbandonare il suo senso ontologico. La teoria dell’ente in quanto ente, raffinando il momento di modellizzazione dell’atto immaginativo, continua a catturare qualcosa dell’apparenza ontologica con cui ci si manifesta il reale. Però, se è nel prototipo che afferriamo l’ente, allora dovrà apparirci illusoria, e compromessa con la cattiva metafisica, ogni evocazione della differenza ontologica tra essere ed ente. L’essere a partire da cui l’ente sarebbe comprensibile altro non è che la riproposizione, sotto mentite spoglie, della totalità onnicomprensiva cui l’essente viene subordinato. La differenza ontologica di Heidegger va invece rovesciata. Solo dall’ente determinato ci figuriamo il suo essere in quanto tale. L’unico accesso all’ontologia è quello che possiamo guadagnare dal corpo dell’essente concreto, del frammento che si manifesta nella sua determinatezza storica tra le cose dell’esperienza, nei materiali della scienza o nelle creazioni artistiche. La perfezione dello sguardo. C’è un ultimo dettaglio da aggiungere al quadro del momento metafisico. Esso riguarda la perfezione della fantasia. Ritagliando l’oggetto dal continuum spazio-temporale in cui è immerso, l’immaginazione lo stacca dal fondo e lo pone in piena luce. Nel suo sguardo l’evento diviene un movimento congelato e l’oggetto si fissa in un fotogramma. Questo atto è già impercettibilmente una trasposizione. L’immaginazione, infatti, variando fantasticamente l’oggetto, lo scioglie dalla determinatezza dello spazio-tempo e lo traspone in apparenza ontologica. Nel suo isolamento momentaneo l’oggetto appare così come perfezionato. Yves Bonnefoy ha splendidamente notato che questa prestazione dell’immaginazione può essere pensata come l’intensificazione della luce che incontriamo in certi dipinti: i monumenti, nelle tele di Poussin, che stanno laggiù, sotto un velo imporporato di nuvole. La luce intensificata che investe un dettaglio lo mo184
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stra così nel fulgore della sua contingenza. Questo perfezionamento avviene in qualche modo in ogni atto immaginativo. Nello sguardo dell’arte però tale trasposizione sale di grado e si intensifica ulteriormente. Isolamento nella visibilità. Non conosco esempio migliore per dar conto di questo fenomeno di New York Office, un quadro di Edward Hopper. Qui vediamo una donna in piedi, dipinta nella luce, dietro una lunga scrivania e sullo sfondo scuro di un ufficio. La nostra prospettiva è collocata all’esterno: vediamo la stanza illuminata di un ufficio che si affaccia su una strada, e notiamo le finestre scure dell’edificio di fronte. Ma se facciamo attenzione possiamo notare che la donna bionda, con una lettera in mano, appare dietro un vetro. La vetrata è penetrabile allo sguardo ma è insieme una invisibile barriera. Richard Sennett ha chiamato questo fenomeno il paradosso dell’isolamento in mezzo alla visibilità – il vetro unisce in senso ottico e insieme separa – e ne ha dato una lettura sociologica. Ma in verità questo paradosso riguarda direttamente gli atti dell’immaginazione e in grado massimo la loro intensificazione metafisica nell’arte. Lo sguardo metafisico, in certe esperienze artistiche, illuminando le cose insieme le isola quali frammenti d’esperienza e le riveste di una nuova apparenza. Il fondo oro. Lo statuto ontologico delle immagini dell’arte è così di livello superiore rispetto a quello delle cose che appaiono nella nostra esperienza. Le contingenza e la caducità delle cose, del frammento, non è eliminata ma vista assolutamente, come sul fondo oro dei mosaici bizantini. Il perfezionamento non consiste nel conferire alle cose l’apparenza di un essere immutabile e stabile o nell’esporle quali riflessi di un assoluto trascendente. Piuttosto in questa trasposizione è proprio la caducità della cosa a essere salvata, la sua cosalità a essere elevata a essenza. Qui l’immaginazione metafisica ha una carica desiderante. La trasposizione immaginativa può sostituire una situazione di fatto con una scena che soddisfa il desiderio che è in noi e che la realtà data ostacola. Per questo l’immaginazione ha sempre una tensione utopica e la metafisica un fine utopistico, che nell’arte si intensifica in massimo grado. La promessa di felicità dell’arte è anche desiderio di salvazione delle cose, 185
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desiderio che esse siano pienamente. Attratte nel campo magnetico del desiderio, le cose dell’arte sono figurazioni di come vorremmo che esse fossero: di qui l’impressione d’assoluto da cui talvolta sono toccate. Sole ingannatore. La metafisica delle cose propria dell’immaginazione artistica viene qui a sfiorare l’accezione teologica che la metafisica filosofica reclamava per sé. Nello sguardo dell’arte, talvolta, le cose appaiono, come costellazioni di figure, nella luce teologica della redenzione. La metafisica maestosa credeva di poter riflettere questa luce in quanto essa poteva avere accesso alla sua fonte, alla sostanza prima sovrasensibile, di cui l’essere numinoso di Heidegger non è che l’ultima e sfuocata versione. Da quando l’astro imperiale metafisico si è rivelato un sole ingannatore, e la visione pura delle essenze puro accecamento, della teologia a noi non rimane che la tenue luce lunare che si accende, con verità figurale, nei sogni di alcune notti feriali. Risvegliatosi da uno di questi sogni, o forse ancora immerso in essi, Rainer Maria Rilke ne ha così raffigurato il senso nella Nona Elegia duinese: E le cose che vivono nel Trapassare capiscono che tu le lodi; caduche Fidano che in noi, i più caduchi, sia ciò che salva. Vogliono che nell’invisibile cuore noi le si debba trasfigurare Oh, all’infinito, dentro di noi! Chiunque noi siamo alla fine.
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Kant forever LAURA STURMA
La ragione è linguaggio: logos. J.G. Hamann Il linguista pensa che non potrebbe esistere pensiero senza linguaggio. É. Benveniste
e lo scopo dell’interessante volumetto Goodbye Kant!, di Maurizio Ferraris è di “restituire [Kant] all’attualità”,1 forse sarà anche importante e significativo cominciare a rileggere Kant sulla base di un confronto con la moderna teoria linguistica, in adempimento a un’esigenza avanzata fin dai tempi di Kant stesso dai suoi contemporanei. Ne verrà un “Kant forever” nella misura in cui niente, nel confronto fra trascendentale e linguistico, indurrà a contraddire il filosofo, ma piuttosto semplicemente ad arricchirlo con una conoscenza di cui ovviamente egli non poteva disporre.
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“Chiamo trascendentale ogni conoscenza che si occupa non di oggetti, ma del nostro modo di conoscenza degli oggetti in quanto questa deve esser possibile a priori.”2 Come non ammirare, in questa stupenda definizione kantiana la perfezione insieme speculativa e formale? Anche nella scrittura filosofica la perfezione è data dall’indissolubilità della forma dai contenuti. E come, infatti, si potrebbe definire il trascendentale più esattamente e con maggiore rigore che nella formulazione kantiana? Non solo, ma all’ammirazione per il rigore del filosofo, si deve unire anche la riconoscenza per la sua grande onestà nel voler 1. M. Ferraris, Goodbye Kant!, Bompiani, Milano 2004, p. 8. 2. I. Kant, Critica della ragion pura, trad. di G. Gentile e G. Lombardo Radice, Laterza, Roma-Bari 1963, “Introduzione”, p. 58.
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giustificare con assoluta esattezza ogni termine e ogni passaggio del suo ragionamento. Fin da questa prima definizione appare, inoltre, il peculiare equilibrio kantiano fra idealismo e realismo. E, infatti, se sembra qui prevalere l’elemento soggettivo dato dal “nostro modo” di conoscere l’oggetto, un altro elemento del testo riequilibra in senso opposto la definizione di conoscenza trascendentale, e questo elemento è “l’oggetto”. “Oggetto”, infatti, è l’elemento del testo che, anche a un’analisi formale si mostra nello stesso tempo incluso strettamente nella relazione di conoscenza, in quanto è conoscenza appunto dell’oggetto (oltre che conoscenza della conoscenza), ma anche escluso da essa per la negazione che lo precede e che lo rende perciò concepibile in sé. Si tratta dunque di un elemento insieme interno ed esterno alla relazione di conoscenza. Per quale ragione esso può essere considerato oggetto “esterno” e non piuttosto costantemente preso nella relazione trascendentale? Che cosa significa questa esclusione? È l’ipotesi di una diversa e “inesauribile” conoscenza della cosa? A distanza di poche pagine, infatti, Kant spiega ancora: “Qui si tratta non della natura delle cose, che è inesauribile, ma dell’intelletto, che giudica della natura delle cose”.3 Da dove viene, comunque, la presupposizione dell’oggetto? Ma, innanzitutto, che cosa è l’oggetto in generale? Perché costituirebbe la spinta stessa verso la conoscenza? Così, infatti, si chiede Kant: “Da che infatti la nostra facoltà conoscitiva sarebbe altrimenti stimolata al suo esercizio, se ciò non avvenisse per mezzo degli oggetti che colpiscono i nostri sensi […]?”.4 L’oggetto appartiene dunque all’esperienza sensibile? Oppure ne costituisce una forma, una prima forma? E ancora: è possibile ipotizzare che la doppia natura, interna ed esterna insieme dell’oggetto, faccia sì che la conoscenza umana sia solamente “possibile” e non invece attuale? In altro luogo è proprio Kant che osserva la natura eccezionale del3. Ivi, p. 59. 4. Ivi, p. 40.
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l’oggetto “in generale” in quanto “concetto”: “Il più alto concetto di tutta la conoscenza umana è il concetto di un oggetto in generale”.5 Infatti, se l’oggetto è un concetto, esso appartiene, come ogni concetto, alla mente umana, ma la sua eccezionalità consiste nel fatto che il concetto di oggetto è concetto di qualcosa di esterno alla mente umana, è il concetto del non-concettuale. In un qualsiasi dizionario si ha, per esempio, alla voce “oggetto”: “Tutto ciò che è percepito dal soggetto come diverso da sé”. Per Kant l’esteriorità dell’oggetto è innanzitutto spaziale.6 Ma in realtà l’esteriorità dell’oggetto, poiché per definizione è un’esteriorità rispetto alle concezioni della mente umana, è più complessa che non quella di una posizione, essenzialmente geometrica, nello spazio. E se il concetto dell’oggetto non appartenesse genericamente alla mente umana, ma derivasse invece dall’umano linguaggio? E se, attraverso il linguaggio, si potesse stabilire più chiaramente l’origine, la natura dell’oggetto e la ragione della sua posizione di esteriorità e interiorità insieme? E se potesse iniziare da qui un nuovo studio delle forme linguistiche della conoscenza in confronto con quelle trascendentali kantiane? Per Giorgio Agamben, il confronto del pensiero kantiano con la moderna teoria linguistica sembrerebbe partire dall’“Io penso”. Dice Agamben riprendendo la tesi di Émile Benveniste sulla “soggettività nel linguaggio”: “È nel linguaggio che il soggetto ha la sua origine e il luogo suo proprio”.7 E aggiunge: “Il soggetto trascendentale non è altri che il ‘locutore’, e il pensiero moderno si è costruito su questa assunzione non dichiarata del soggetto come fondamento dell’esperienza e della conoscenza”.8 È un’introduzione indiscutibile al confronto tra trascendentale 5. Id., Metaphysik L2, in Kants gesammelte Schriften, Deutsche Akademie der Wissenschaften, de Gruyter, Berlin 1967, XXVIII, 2, 1, p. 543, citato in M. Ferraris, Goodbye Kant!, cit. 6. Cfr. I. Kant, Critica della ragion pura, cit., “Estetica trascendentale”, p. 68. 7. G. Agamben, Infanzia e storia, Einaudi, Torino 1978, p. 42. 8. Ivi, p. 44.
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e linguistico, ma quello che ancora deve essere studiato è il valore e l’importanza del concetto di oggetto nel linguaggio, senza tuttavia ipotizzarne una priorità, perché piuttosto il costituirsi dell’oggetto e del soggetto nel linguaggio devono essere considerati contestuali, e di uguale valore nell’intraprendere da qui il detto confronto del trascendentale con il linguistico. Reclamato fin dai tempi di Kant dal contemporaneo Johann Georg Hamann, questo confronto del trascendentale con il linguistico sembra richiedere un’operazione semplice e spontanea, come se si trattasse di una semplice identificazione del pensiero e del linguaggio. Scriveva Hamann: “La facoltà tutta intera del pensiero risiede nel linguaggio”. In realtà, non è così semplice. Tuttavia, dalla fine del Settecento fino ai nostri giorni, una prima risposta a questa antica richiesta costituirebbe ora un adempimento, un arricchimento, un adeguamento del pensiero kantiano, piuttosto che un “Goodbye Kant!”. Con un’importante avvertenza: che il confronto non è così semplice perché il linguistico e il trascendentale non sono affatto sovrapponibili e infatti sarebbe inutile cercare la “funzione trascendentale” al livello semiologico del linguaggio. La tesi di Karl Otto Apel, che Ferraris mostra di condividere,9 è, in questo senso, discutibile per la sua eccessiva semplificazione. Dice il filosofo tedesco che la conquista della filosofia moderna consiste nel valore trascendentale del linguaggio, ma non è così semplice: occorre infatti distinguere, perché il linguaggio innanzitutto è un sistema di segni, così come lo definiva lo stesso Saussure: “La lingua è un sistema di segni esprimenti delle idee”,10 ma in quanto sistema di segni, il linguaggio si mostra piuttosto come un sistema chiuso e autosufficiente e non come un rapporto di conoscenza trascendentale. Non per nulla Saussure doveva concludere che “i simboli lin9. “L’idea che i problemi filosofici si possano risolvere o dissolvere facendo i conti con il linguaggio che parliamo, risulta impensabile senza Kant, giacché il linguaggio svolge qui la funzione trascendentale”, M. Ferraris, Goodbye Kant!, cit., p. 137. 10. F. de Saussure, Corso di linguistica generale (1922), trad. di T. De Mauro, Laterza, Roma-Bari 1967, p. 25.
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guistici sono senza relazione con ciò che devono designare”,11 mentre Benveniste confermava: “Il linguaggio è un sistema in cui niente significa in sé […] ma in cui tutto significa in funzione dell’insieme”.12 Entrambi i linguisti, inoltre, non fanno che confermare la bellissima definizione di Wilhelm von Humboldt sull’autosufficienza e priorità del sistema linguistico: “Non possiamo concepire il linguaggio come avente inizio dalla designazione degli oggetti mediante la parola […] in realtà il discorso non è composto da parole che lo precedono, ma, al contrario, le parole prendono origine dal discorso”.13 Dunque, in quanto prioritario come “sistema di segni”, il linguaggio è un sistema chiuso e non può essere immaginato tout court come rapporto con il reale. Dove dunque si colloca il suo valore di conoscenza? Il punto è che il linguaggio non è soltanto un sistema di segni, bensì è fondato su alcune forme generali senza le quali esso non potrebbe avere luogo. Le forme generali del linguaggio, le sue strutture fondamentali hanno una natura trascendentale nel senso precisamente kantiano, vale a dire che esse costituiscono le forme universali o i “modi” della conoscenza umana. Il concetto di oggetto (come quello di soggetto) costituisce una di queste forme. E se si vuole una conferma specialistica di questa distinzione fra le forme fondamentali del linguaggio e il linguaggio come sistema semiologico, basti pensare alla distinzione di Benveniste fra la sfera “semantica” e quella “semiologica del linguaggio”.14 Infatti il linguista così sostiene: “La semantica […] è l’apertura verso il mondo. Mentre la semiotica è il senso rinchiuso in se stesso”.15 Laddove alla sfera del “semantico” appartengono quelle che in questa sede sono state chiamate strutture generali del linguaggio e dunque costituiscono “l’apertura verso il mondo” in opposizione all’ambito chiuso del semiologico. 11. Id., Notes inédites, “Cahiers Ferdinand de Saussure”, 12, 1954, p. 6. 12. É. Benveniste, Problemi di linguistica generale (1966-74), trad. di M.V. Giuliani, a cura di F. Aspesi, il Saggiatore, Milano 1971-85, vol. I, p. 32. 13. W.v. Humboldt, Werke, Berlin 1844, vol. VII, sezione 1, p. 72. 14. É. Benveniste, Problemi di linguistica generale, cit., vol. II, “La comunicazione”. 15. Ivi, vol. II, p. 36.
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Gli esempi già prospettati, del soggetto e dell’oggetto, mostrano dunque due elementi non semiologici ma strutturali del linguaggio.16 E che si tratti di elementi dovuti al linguaggio è stato spiegato innanzitutto da Benveniste, che, studiando l’enunciazione, mostra il costituirsi del soggetto nel linguaggio, appunto: “La soggettività nel linguaggio”.17 Ma un altro bellissimo saggio di Benveniste sulla natura dei pronomi di persona, studia l’origine tutta linguistica del concetto di oggetto. Secondo Benveniste, delle tre “persone” del verbo, e cioè l’io, il tu e l’egli, la terza persona, l’egli, è la “non-persona”, è il non-soggetto, è dunque, appunto, l’oggetto: “La terza persona è la sola mediante la quale un oggetto è espresso verbalmente”.18 E anzi, l’oggetto non è solamente “espresso” attraverso la terza persona, ma è dovuto alla forma della terza persona, è “creato” dal linguaggio o insieme con il linguaggio, e si origina quando fra un emittente e un ricevente, e cioè fra quelle che costituiscono appunto le “persone” dell’enunciazione e che si preciseranno come l’io e il tu, si pone un terzo elemento che non è colui che parla, né quello al quale si parla, ma quello di cui si parla: l’oggetto. Così, infatti, lo definisce il linguista: “L’oggetto si ha quando si enuncia qualcosa su qualcosa”.19 L’importanza di questa semplice definizione è fondamentale: l’espressione “ciò di cui si parla” designa con tutta evidenza qualcosa che non è solamente fuori dall’atto di parola, ma che viene concepito come esterno (“ciò di cui”) rispetto al linguaggio che tuttavia lo dice (“si parla”). In altre parole, la forma della terza persona distingue, da una parte, l’enunciazione linguistica stessa e, dall’altra, la cosa o l’oggetto su cui si enuncia qualche cosa. Questo è il paradosso dell’oggetto e della sua esteriorità, che non è perciò sola-
16. In realtà anche i due elementi, l’“io” e il “tu”, hanno un valore semiologico, ma solamente in rapporto riflessivo con il linguaggio: “io” è colui che parlando dice “io”, l’oggetto è ciò di cui si parla, il “tu” è colui a cui si parla. 17. Ivi, vol. I, p. 310 sgg. 18. Ivi, vol. I, p. 275. 19. Ibidem.
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mente spaziale e non solamente concettuale, ma è l’esteriorità di qualcosa che può essere concepito in sé come esterno al linguaggio ed esterno rispetto alla mente umana pur appartenendo sempre a entrambi. Nel confronto con il linguaggio, la natura interna-esterna dell’oggetto corrisponde dunque perfettamente alla definizione trascendentale, così come alla sua definizione “comune” e perciò corrisponde al suo doppio rinvio, alla sua doppia natura. Ma un altro aspetto del concetto di oggetto riconferma questa sua doppia natura perché, pur essendo fondato nella presenza linguistica o nell’atto di parola o nell’enunciazione, l’oggetto designa un’assenza. Il concetto di oggetto è di tale importanza che esso vale a spiegare la grande difficoltà del confronto fra trascendentale e linguistico, e cioè la separazione, l’astrazione, l’autonomia della sfera semiologica del linguaggio, costituendone tuttavia la compensazione. Sempre nell’importante saggio di Benveniste sulla Struttura delle relazioni di persona nel verbo, la terza persona, e dunque la “nonpersona”, viene definita, con gli antichi grammatici arabi, la persona di colui “che è assente”. Così spiega il linguista: “La forma detta di terza persona comporta l’indicazione che si enuncia qualcosa su qualcuno o su qualcosa, ma non riferito a una specifica ‘persona’ […] è proprio l’‘assente’ dei grammatici arabi”.20 Assente, naturalmente, perché escluso dal rapporto personale e intersoggettivo dell’io e del tu, assente perché escluso dalla presenza linguistica e cioè dall’atto di parola o dall’enunciazione, assente strutturalmente e indipendentemente da una reale e occasionale presenza. Ma la sfera dell’assenza è precisamente la sfera del semiologico. Il sistema di segni, per la sua natura concettuale o ideale è predisposto specialmente per designare ciò che è assente e dunque per designare l’oggetto in quanto strutturalmente assente. Quando Benveniste descrive il linguaggio come “una comunicazione di significati che sostituisce gli avvenimenti o gli oggetti 20. Ivi, vol. I, p. 272.
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con la loro ‘evocazione’”,21 e quando descrive il pensiero come “la facoltà di costruire rappresentazioni delle cose”,22 non fa che mostrare le forme linguistiche dell’assenza, di quella cioè che gli studiosi francesi chiamano il manque, e che sono, appunto, l’evocazione di ciò che è assente. Sono forme relative sempre all’oggetto in quanto “assente” e sono insieme le forme del sistema linguistico semiologico, ed è in virtù di queste forme che si ha da una parte la “separazione” linguistica fra l’uomo e le cose, e cioè la separazione da un rapporto immediato e diretto con esse, e dall’altra la natura “visionaria” del linguaggio, il suo rapporto con il non-essere, con il lontano, con l’assente. In quanto collocato al limite fra la presenza linguistica e l’assenza, oltre che fra l’interiorità e l’esteriorità, l’oggetto si pone dunque come l’elemento di raccordo, come il legame fra il semantico e il semiologico e perciò, secondo la tesi qui sostenuta, fra le forme generali del linguaggio e il sistema semiologico del linguaggio. Si comprende, quindi, anche in questo senso, il valore della sua doppia natura di esterno-interno o di presente-assente. E tanto più in quanto il concetto di oggetto è sempre presupposto alla designazione semiologica: un muro è sempre anche un “oggetto”, così come un oggetto del tutto nuovo e sconosciuto, prima di essere “spiegato” dall’interpretazione semiologia (che innanzitutto è relazione), sempre, e nello stesso tempo, viene percepito come “oggetto” e cioè è sempre già preso nel rapporto trascendentale. Ma altre forme fondamentali della conoscenza umana e dunque altre forme del trascendentale derivano dal linguaggio nelle sue forme generali e strutturali. Innanzitutto, anche le forme pure di spazio e tempo sono chiaramente riconducibili alle forme dell’enunciazione come ancora il linguista ha dimostrato: “Dall’enunciazione procede l’instaurazio21. Ivi, vol. I, p. 38. 22. Ibidem.
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ne della categoria del presente e dalla categoria del presente nasce la categoria del tempo”.23 Analogamente, e come fin dall’inizio era stato visto da Kant, la natura esteriore, separata, isolata, dell’oggetto comporta l’intuizione di spazio. Quanto poi al costituirsi del soggetto, esso è strettamente correlativo al costituirsi dell’oggetto, e prende in Kant la forma testuale di “Io penso” precisamente per designare la sua non oggettivabilità, e dunque la sua posizione relativa all’oggetto. Nello stesso tempo, e con perfetta corrispondenza, l’“Io penso” assumerà in Kant a questo livello la stessa forma dell’autocoscienza e della riflessione su se stesso che si manifesta nella sua definizione linguistica, perché l’io non è semplicemente “il locutore”, ma, riflessivamente, “Io è colui che parlando, dice: ‘io’”.24 Ma un’altra forma fondamentale della conoscenza umana deriva dalla “posizione” dell’oggetto ed è la forma dell’“essere” o della realtà. E non occorre per questo ricorrere ancora una volta al linguista, perché si tratta di una particolarità che lo stesso Kant aveva genialmente osservato: “Essere è semplicemente la posizione di una cosa”.25 È un’osservazione che rientra nella famosa confutazione della dimostrazione ontologica dell’esistenza di Dio, e significa che la semplice “posizione” o postulazione di una cosa o di un oggetto, comporta contestualmente porre o postulare che questa cosa è, senza implicare naturalmente che questa cosa esista veramente, come Kant stesso ha dimostrato, e in questa stessa occasione, attraverso il famosissimo esempio dei cento talleri. L’essere, dunque, (e contestualmente il non-essere) è una struttura essenziale della mente umana che dipende precisamente dal costituirsi dell’oggetto in quanto non per nulla esso è fondatore della cosiddetta “oggettività”, la quale tuttavia è “garantita” contestualmente dall’universalità dell’“Io penso”. Così, dunque, è possibile conoscere i modi della conoscenza se23. Ivi, vol. II, p. 101. 24. Ivi, vol. I, p. 312. 25. I. Kant, Critica della ragion pura, cit., “Dei raziocinii dialettici”, p. 472.
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condo il progetto kantiano coniugandoli con quelli del linguaggio, almeno nei termini di oggetto, soggetto, spazio, tempo ed essere qui presi in esame. Quanto alle categorie, già Benveniste osservava che: “In larga misura le ‘categorie mentali’ o le leggi del pensiero non fanno che riflettere […] le categorie linguistiche”.26 Ma se la conoscenza umana è possibile solamente attraverso queste forme a priori, anche qui, nel confronto con il linguaggio, appare, ineludibile, il problema dell’inconoscibile, oppure dell’indicibile. “Oppure”, perché in questo caso il problema del noumeno è perfettamente sovrapponibile con quello dell’indicibile ed è, kantianamente, la cosa in sé. Precisamente perché passa attraverso le forme umane della conoscenza e del linguaggio, il reale in sé è irraggiungibile. Sempre sottolineando che il noumeno è concetto che designa un rapporto e che si tratta sempre della cosa in sé, ma in rapporto al pensiero e al linguaggio umano. E cade qui l’inascoltato ammonimento di Ludwig Wittgenstein: “Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere”.27
26. É. Benveniste, Problemi di linguistica generale, cit., vol. I, p. 13. 27. L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus (1922), trad. di A.G. Conte, Einaudi, Torino 1964, p. 82.
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