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Indagini sul gioco a cura di Pier Aldo Rovatti e Davide Zoletto Stefano Bartezzaghi Il gioco infinito. Forme, linguaggi, sconfinamenti, patologie Anna Bondioli Il gioco, lo specchio, la cornice: oltre i confini Davide Zoletto Campi da cricket. L’intercultura a partire dai giochi (di potere) Pier Aldo Rovatti Il gioco di Wittgenstein Giuseppe Bianco Il professor Benveniste contro gli analogisti. Sulla differenza tra gioco e sacro

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MATERIALI Johan Huizinga Sui limiti del gioco e del serio nella cultura [1933] Émile Benveniste Il gioco come struttura [1947] Maurice Blanchot L’attrazione, l’orrore del gioco [1958] Roger Caillois Le carte [1967]

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INTERVENTI Massimiliano Roveretto L’enigma dei tre alberi. Memoria, realtà e scrittura nella “Recherche” di Proust Hans-Jörg Rheinberger Cose epistemiche

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rivista fondata da Enzo Paci nel 1951 direttore responsabile: Pier Aldo Rovatti redazione: Graziella Berto, Laura Boella, Paulo Barone, Giovanna Bettini, Deborah Borca (editing, deborahborca@libero.it), Silvana Borutti, Damiano Cantone, Alessandro Dal Lago, Rocco De Biasi, Maurizio Ferraris, Edoardo Greblo, Raoul Kirchmayr, Giovanni Leghissa, Anna Maria Morazzoni (coordinamento, tel. 02 70102683), Ilaria Papandrea, Gabriele Piana, Fabio Polidori, Rosella Prezzo, Pier Aldo Rovatti, Antonello Sciacchitano, Giovanni Scibilia, Davide Zoletto direzione: via Pacini 40, 20131 Milano. collaborano tra gli altri ad “aut aut”: G. Agamben, H.-D. Bahr, R. Bodei, M. Cacciari, G. Comolli, G. Dorfles, U. Galimberti, P. Gambazzi, S. Givone, A. Heller, A. Prete, M. Serres, G.C. Spivak, M. Trevi, G. Vattimo, M. Vegetti, P. Veyne, V. Vitiello, S. Zˇizˇek

il Saggiatore S.p.A. Via Melzo 9, 20129 Milano ufficio stampa: autaut@saggiatore.it abbonamento 2008: Italia € 60,00, estero € 76,00 L’Editore ha affidato a Picomax s.r.l. la gestione degli abbonamenti della rivista “aut aut”. L’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e la possibilità di richiedere gratuitamente la rettifica o la cancellazione scrivendo a: Picomax s.r.l. responsabile dati, Via Borghetto 1, 20122 Milano (ai sensi della L. 675/96). servizio abbonamenti: Picomax s.r.l., Via Borghetto 1, 20122 Milano telefono: 02 77428040 fax: 02 76340836 e-mail: abbonamenti@picomax.it www.picomax.it Registrazione del Tribunale di Milano n. 2232 in data 13.1.1951 Proprietà: Francesca Romana Paci Stampa: Arti Grafiche Bertoni, Verderio Inferiore Spedizione in abbonamento postale 45% art. 1, comma 1, decreto legge 353/03 convertito in legge 46/04 – Filiale di Milano. Finito di stampare nel marzo 2008


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Il gioco infinito. Forme, linguaggi, sconfinamenti, patologie STEFANO BARTEZZAGHI Sappiamo tutti che la cosa che temiamo in segreto non è affatto un segreto ma quella cosa eterna e palese che predice il suo ripresentarsi. Don De Lillo, Americana Il godimento è, per quanto possibile, ridotto al funzionamento di un significante, evidentemente con la riserva che non è un significante. [...] In primo luogo il significante è causa del godimento, mezzo di godimento, nel senso che il godimento è la finalità del significante e, in secondo luogo, il significante emerge dal godimento poiché lo commemora. Jacques-Alain Miller, I paradigmi del godimento Appena mangiato, mi spiace dirlo, tre banane, e solo con difficoltà mi sono astenuto da una quarta. Micidiale per un uomo nel mio stato. (Veemente) Devo eliminarle! Samuel Beckett, L’ultimo nastro di Krapp

1. La circoscrizione dell’assoluto I limiti del gioco. Nel 1933 l’anno accademico dell’Università di Leida, in Olanda, fu aperto da un discorso del rettore. L’oratore era lo storico Johan Huizinga, e la sua prolusione si intitolava “Sui limiti del gioco e del serio nella cultura”. Oltre che l’anno accademico quella remota conferenza inaugurava la ricerca di Huizinga sul gioco che lo avrebbe portato di lì a pochi anni – nel 1939 – alla pubblicazione del suo fondamentale Homo ludens. Da questo libro sarebbe a sua volta scaturito il dibattito che a metà secolo avrebbe costituito il culmine della riflessione novecentesca sul gioco, coinvolgendo Émile Benveniste, Maurice Blanchot e, soprattutto, Roger Caillois.1 Questo scritto integra il mio Immensi ingranaggi. Caillois, il gioco, la circoscrizione dell’assoluto, di cui costituisce una sorta di secondo capitolo (“Riga”, 23, 2004, numero monografico a cura di Ugo M. Olivieri, Roger Caillois). 1. J. Huizinga, Homo ludens. Versuch einer Bestimmung des Spielelementes der Kultur, Pantheon, Amsterdam 1939; trad. di A. Vita, Homo ludens, Einaudi, Torino 1946; nuova edizione con saggio introduttivo di U. Eco, 1973. R. Caillois, Le ludique et le sacré, “Confluences”, 10, 1946; incluso, con note aggiunte e con il titolo Jeu et sacré, in appendice alla seconda edizione di L’homme et le sacré (PUF, Paris 1939;

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Oggi appare particolarmente significativo che quel primo spunto del 1933 riguardasse sin dal suo titolo la questione di come delimitare il concetto di gioco (nonché il problema secondario, ma illuminante, di come denominare ciò che resta escluso da tale concetto): certamente una questione preliminare, che però si sarebbe continuamente ripresentata, quasi indifferente a ogni tentativo di soluzione. Si può dire che tutti i teorici del gioco hanno sempre compiuto la stessa mossa di apertura: quella di postulare innanzitutto il carattere delimitato del gioco. Dopo Huizinga lo hanno fatto Algirdas Julien Greimas ed Ernst Jünger, Erving Goffman e Hans Georg Gadamer. Non se ne è astenuto neppure Roger Caillois – che fra tutti i pensatori che si siano occupati del gioco è stato certamente quello il cui approccio si è rivelato e continua ancora a rivelarsi il più fecondo: [...] Lo spazio del gioco è un universo precostituito chiuso, protetto: uno spazio puro.2 Un’affermazione come questa va molto al di là dell’esigenza, normale per ogni trattazione, di delimitare il campo d’indagine. Il caso del gioco è diverso poiché non è Caillois, il teorico, che delimita il gioco, ma è il gioco stesso che gli si presenta come delimitato, si distingue come ambito separato (ciò che potrebbe funzionare anche come una tautologia). I limiti del gioco riguardano diversi suoi aspetti: la sua temporalità, lo spazio (poiché il gioco può richiedere la determinazione con appendici, Gallimard, Paris 19502; con nuova prefazione, Gallimard, Paris 19633 (trad. della terza edizione, L’uomo e il sacro, a cura di R. Guarino, Bollati Boringhieri, Torino 2001). É. Benveniste, Le jeu comme structure, “Deucalion”, 2, 1947; trad. di G. Bianco, Il gioco come struttura, in questo fascicolo. M. Blanchot, L’Attrait, l’Horreur du Jeu, “Nouvelle Revue Française”, 65, 1958; trad. di D. Gorret, L’attrazione, l’orrore del gioco, “Riga”, 23, 2004, ora in questo fascicolo. 2. R. Caillois, Les jeux et les hommes. Le masque et le vertige, Gallimard, Paris 1958; seconda edizione riveduta e ampliata, Gallimard, Paris 1967; trad. della seconda edizione di L. Guarino, I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine, Bompiani, Milano 1981, p.23. Vedi anche R. Caillois (a cura di), Jeux et Sports, Encyclopédie de la Pléiade, Gallimard, Paris 1967.

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esatta e preventiva di un “campo” all’interno del quale siano valide le sue regole), il novero dei partecipanti, i loro ruoli, il catalogo delle mosse possibili e delle combinazioni risultanti. Questi limiti in italiano sono ribaditi da proverbi come “Un bel gioco dura poco”, “Scherza con i fanti ma lascia stare i santi”, “Gioco di mano, gioco di villano”, e coprono un’amplissima tipologia di giochi – dalla burla all’azzardo. La teoria del gioco sembra avere necessità di affermare la natura delimitata del gioco non tanto per definire quel che è dentro a tali limiti, ma per poterlo distinguere con certezza da quello che resta fuori. In ogni discorso sul gioco il problema della delimitazione diventa rapidamente paradossale: proprio perché per delimitare il concetto di gioco bisogna far giocare il concetto di delimitazione. Per Huizinga il gioco (sostantivo) si oppone al “serio” (aggettivo). Altre volte il gioco viene visto in opposizione alla “vita ‘reale’” (con virgolette all’aggettivo), o – come preferisce Caillois – alla “vita ordinaria”. Trovare il nome giusto per ciò che resta ritagliato fuori dall’ambito del gioco – quel deserto di cui il gioco, secondo Eugen Fink, costituisce un’oasi – non è un problema da poco. Inerisce al gioco l’essere delimitato, e quindi finito: ma non si sa bene da cosa, visto che non si può separarlo del tutto dalla realtà a cui – certo a modo suo – continua pur sempre ad appartenere. Caillois sceglie di mostrare l’opposizione fra gioco e non gioco a partire da alcuni caratteri – e finirà per comporre una definizione di intelligente flessibilità. Il primo carattere è quello di essere “circoscritto”, il secondo carattere è di presentare – all’interno di tale circoscrizione – un ordinamento che altrove non si riscontra: Le leggi ingarbugliate e confuse della vita ordinaria vengono sostituite, all’interno di questo spazio circoscritto [quello del gioco] e per il tempo stabilito, da regole precise, arbitrarie, irrevocabili, che bisogna accettare come tali [...].

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In questa definizione il gioco diventa un modello: non in quanto ricordi – per analogie e omologie – qualcos’altro, bensì per l’andamento fatalmente astratto, formalizzato del suo svolgimento, e appunto per l’essere circoscritto. Il gioco si definisce così come quella porzione del mondo dove il relativo si scambia di posto con l’assoluto: l’estensione (assoluta) del mondo rende relativa l’intensione delle sue regole, l’estensione (relativa) del gioco rende assoluta l’intensione delle sue regole. È per questo che seguendo Caillois possiamo definire il gioco come la “circoscrizione dell’assoluto”. Problemi di frontiera. Parlare di circoscrizione ci consente peraltro di non preoccuparci di denominare con esattezza il resto: ciò che rimane fuori dal gioco è semplicemente il non-gioco, che è poi il non-delimitato. Opporre il gioco alla realtà, infatti, produce l’effetto imbarazzante di espellere il gioco dalla realtà. Eppure l’infortunio fisico che, per esempio, mi procuro giocando ha indubbiamente un tangibile connotato di realtà, così come reale è il piacere che il gioco mi procura, reale è l’impegno che vi profondo, reale il disappunto per la sconfitta. Il risultato è insomma che per riuscire a definire il concetto di gioco ci tocca ridefinire l’ancor più problematico concetto di realtà, in modo da distinguere la realtà nel senso di ciò che si oppone al gioco dalla realtà nel senso di ciò che comprende il gioco. Con il che saremmo daccapo. Erving Goffman si è immaginato la compartizione di gioco e realtà come una membrana fragile, pronta a rompersi.3 Forse basta pensare a quegli sportelli a molla che regolano l’accesso alle aree giochi in molti parchi: sono sempre aperti e sempre chiusi. Si potrebbe dire che queste aree si “oppongono” al parco? Avrebbe senso denominare e qualificare la parte di parco che non è area giochi? E, soprattutto, nella parte del parco che non è area giochi giocare è proibito? Uno dei motivi per cui la riflessione di Roger Caillois sui gio3. E. Goffman, Encounters, Bobbs-Merrill, Indianapolis (Ind.) 1961; trad. di P. Maranini, Espressione e identità, Mondadori, Milano 1979.

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chi è risultata quella euristicamente più feconda sta nel fatto che Caillois non si è limitato a tracciare un sistema ma ne ha mostrato il funzionamento, anche laddove tale funzionamento contraddice il sistema medesimo, rischiando in continuazione di guastarlo. Gli esempi che è possibile indicare sono molteplici: uno di essi è il sofisticato ragionamento sui giochi “regolati” e sui giochi “fittizi”, che di fatto infrange la religione delle “regole del gioco”, uno dei vani feticci eretti a preservare la purezza del gioco. Il fatto stesso di parlare di “giochi”, sempre al plurale, in polemica contro Schiller ma anche contro Huizinga, implica una visione non rigida della barriera di separazione fra l’interno e l’esterno del “gioco”: una visione in cui i diversi giochi possono corrispondere anche a diverse posizioni all’interno della categoria. La scelta dei temi su cui Caillois ha approfondito le intuizioni sistematiche di I giochi e gli uomini – giochi di carte, lotterie e macchine mangiasoldi4 – dimostra che l’autore è esente da tecnicismo e non vede nel gioco un meccanismo che fatalmente va perfezionandosi, in cui l’eccellenza è costituita dal virtuosismo e la normalità dalla ricerca del virtuosismo. Per questo motivo non c’è alcuna ragione perché espella dal suo corpus i giochi legati all’azzardo, quelli in cui, cioè, lo spostamento di ricchezze reali costituisce l’unica o la maggiore fonte d’interesse. I banali circuiti di una slot machine o i meccanismi puerili di una riffa di Stato sono spesso snobbati dagli esperti di giochi, che tradiscono così la loro vocazione specialistica, settaria e in fin dei conti il loro desiderio di vivere nell’oasi, di non uscire dalla loro circoscrizione, dall’area attrezzata. In questa visione ontogenesi, filogenesi e psicogenesi del gioco sembrano presupporre la stessa identica progressione sulla scala che va dalla pura paidia (il gioco come manifestazione di energia) al puro ludus (il gioco come calcolo logico): a mano a mano che la civiltà avanza, i suoi giochi si fanno sempre più raffinati. È la visione che Hermann Hesse ha diffuso con il suo Giuoco delle perle di vetro, in cui il futuro riser4. Sono gli argomenti dei capitoli monografici stilati personalmente da Caillois nel volume citato dell’Encyclopédie de la Pléiade.

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verà all’uomo l’invenzione di un gioco di grande raffinatezza e spiritualità, una sublimazione mistica dei giochi finora noti, e da Hesse disprezzati. Ma chi volesse immaginarsi una società totalmente fondata su un gioco, dunque una società in cui l’assoluto non sia più circoscritto poiché i suoi limiti coincidono con i limiti del mondo, avrebbe un modello concorrente a quello di Hesse e, forse, un poco meno irrealistico: il modello della Lotteria di Babilonia di Jorge Luis Borges. Non più un calcolo logico, che sfocia nella musica e nella mistica, ma una riffa popolare e insensata; non più la sublimazione del gioco, ma la sua parodia. L’idea che la diffusione globale di un gioco si possa ottenere a partire da un’elevazione dell’Umanità è coerente con l’opera di Hesse, e con la sua strenua ricerca di illuminazioni e trascendimenti. Caillois è piuttosto dell’opinione di Borges – di cui peraltro all’epoca dei suoi soggiorni argentini fu anche lo scopritore. Volendo delineare “una sociologia che parta dai giochi”, Caillois si occupa appunto di quei giochi che risultano i più diffusi, anche se non certo i più avanzati sul piano tecnico, e che non possono aspirare ad alcun titolo di nobiltà. Sono tendenze sociali: meglio ancora, sintomi. La scelta è stata senza dubbio lungimirante: nei cinquant’anni successivi a Caillois le lotterie non hanno fatto che estendere il loro dominio, anche grazie all’introduzione di novità concettuali come quella costituita dalle “lotterie istantanee”. Internet ha determinato l’estensione di giochi a scommessa anche in paesi dove erano più severamente regolamentate. Il gioco d’azzardo si è dunque frammentato, dove non ha perso i suoi vincoli temporali (come con il Gratta e vinci) ha perlomeno intensificato la sua frequenza (bisettimanale estrazione del Lotto). Per quanto riguarda le macchinette mangiasoldi, anche queste si sono diffuse fuori dalle case da gioco. In Italia molte tabaccherie hanno raddoppiato i propri locali e a volte prevedono una vera e propria sala intitolata ai “giochi”, in cui è possibile compilare e giocare schedine e moduli, seguire la trasmissione delle gare ippiche in canali televisivi a circuito chiuso e appunto gettonare slot machines. 8


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Oltre che alla tendenza generale della frammentazione del gioco d’azzardo le macchinette mangiasoldi partecipano a una seconda tendenza: quella della tecnologia applicata al gioco. Assieme al flipper, la slot machine è l’antenata del videogioco: la sfida con il caso si ripresenta nella forma di sfida alla stocastica determinata dagli algoritmi di una macchina. Interessante notare che la macchina non è avvertita come tale da chi ci gioca: l’esistenza a monte di un programmatore, quindi la predeterminazione della frequenza di comparsa delle combinazioni vincenti, non è certo un segreto, ma conoscerlo non accresce la razionalità delle abitudini di gioco; la stessa morfologia delle macchine privilegia per esempio la leva al pulsante, perché il giocatore tramite la leva è irrazionalmente convinto di poter influire in modo analogico sul funzionamento (in realtà perfettamente digitale) della macchina. Pochi anni dopo Caillois, Roland Barthes descriverà le sale giapponesi di Pachinko, dipingendo verbalmente con efficacia la situazione di alienazione assieme singolare e collettiva che decenni dopo diventerà un cliché cinematografico.5 È assieme a un brivido di esotismo, dunque, che si è inoculato anche nella nostra cultura il dubbio di una possibile degenerazione del gioco: quella degenerazione che consiste nel tentativo di uscire dalla propria circoscrizione. Nei cinquant’anni che ci separano dalla ricerca di Caillois si sono registrati alcuni fenomeni e alcune linee di tendenza in direzione di un’uscita del gioco dalla propria dimensione di separatezza. Il gioco si è frammentato e si è infiltrato nei territori della vita “seria” o “ordinaria” che prima gli erano refrattari. La scansione della settimana lavorativa – con la domenica dedicata prima al sacro della religione e poi al profano dello sport – è saltata, spargen-

5. R. Barthes, L’empire des signes, Skira, Genève 1970; trad. di M. Vallora, L’impero dei segni, Einaudi, Torino 1984; W. Wenders, Tokyo-Ga, film, 1985; S. Coppola, Lost in Translation, film, 2003.

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do sport e giochi a premi in ogni angolo dei palinsesti televisivi. Numeri personali di telefono fisso nei luoghi di lavoro, cercapersone e poi telefoni portatili ed e-mail hanno compenetrato la vita professionale a quella personale, in un intreccio in cui sovente non è più possibile alcuna distinzione. Gli stessi media personali – telefoni, e-mail e messaggerie telematiche – veicolano giochi, giochi di parole, gadget testuali come gli emoticon animati, le catene di messaggi scherzosi, vignette e fotomontaggi. Design, packaging e marketing dei prodotti (specialmente degli accessori il cui uso è esibito in pubblico, dal telefonino all’automobile) si sono nutriti di questa nuova concezione del gioco: dall’uso del colore all’ammorbidimento delle forme, fino all’onnipresenza di avvisi sonori, jingle, musichette, veri e propri giocattoli musicali. La telefonata di un cliente al proprio avvocato può essere annunciata da una suoneria disneyana, ed essere introdotta o anche interpuntata da espressioni gergali, che si direbbero piuttosto appartenenti al registro giocoso della lingua ma che oramai sono esclusi dal discorso pubblico solo nelle circostanze di vera e propria solennità. Dove incomincia e dove finisce questo gioco nuovo? A tre quarti di secolo da quella conferenza inaugurale di Huizinga il suo titolo potrebbe essere reso omogeneo traducendo il sostantivo in un aggettivo sostantivato: “Sui limiti del ludico e del serio...”. Il gioco si è trasformato nel “ludico”: non una sostanza ma una qualificazione, un clinamen. Nel ludico e dal ludico si entra e si esce senza cerimonie di passaggio: la membrana di Goffman è diventata porosa, consente osmosi. I limiti temporali sono superati perché il gioco è presente, come tentazione, negli strumenti di lavoro – computer e telefono; altri giochi nascono con una temporalità parallela, o parassitaria: dal Tamagotchi ai giochi Sims, dal Fantacalcio a Second Life, il gioco diventa un flusso a cui ci si connette o disconnette a volontà. La miniaturizzazione dei processori ha consentito di erodere le frontiere spaziali del gioco: non c’è più bisogno di recarsi in un bar per fare una partita di flipper, basta accendere il computer. I nuovi format di gioco che si sono imposti (un esempio su 10


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tutti, il sudoku) si caratterizzano per la loro capacità di transitare su media differenti. L’ipotesi da cui conviene partire è che da sempre il gioco abbia cercato di forzare i suoi confini, per esempio temporali. Si dice che il sandwich sia stato inventato dall’omonimo conte, che non voleva alzarsi dal tavolo da gioco e si fece quindi servire il pranzo in una forma che non richiedesse l’apparecchiatura della tavola. È una leggenda, ma è già significativo che si sia stabilita come leggenda. “Un bel gioco dura poco” non è mai stata una constatazione, bensì un monito, un auspicio, una battuta di dialogo per vincere la riluttanza del giocatore a interrompere il suo gioco. Quello che succede nelle sale del Pachinko, e poi nelle sale giochi occidentali e nel ciclo continuo, che ha abrogato la distinzione fra il giorno e la notte, di Las Vegas è che alla norma igienica di “Un bel gioco dura poco” si è sostituita la domanda puerile dell’“ancora”, la logica della ripetizione meccanica. Qual è il punto in cui la tendenza diventa compulsione, sindrome e patologia? In effetti è facile valutare sperimentalmente la dipendenza da una sostanza psicoattiva, in particolare con esperimenti su animali da laboratorio, mentre nel caso del gioco, al pari di tutte le dipendenze senza droghe, non esiste un dispositivo sperimentale che permetta lo stesso tipo di misurazioni. L’etologia deve ancora compiere dei progressi prima di potere proporre qualcosa, in un ratto, di equivalente alla dipendenza dalle slot machines, dallo sport, dal lavoro o dalle relazioni amorose passionali e distruttive.6 L’unico gioco qui menzionato è un gioco d’azzardo, le slot machines. Sull’azzardo disponiamo di descrizioni letterarie, scientifiche e testimonianze personali: la rilevanza sociale del problema lo ha reso più riconoscibile.

6. M. Valleur, J.-C. Matysiak, Sexe, passion et jeux vidéo. Les nouvelles formes d’addiction, Flammarion, Paris 2003; trad. di I. Negri, Sesso, passione e videogiochi, Bollati Boringhieri, Torino 2004.

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Ma così come sarebbe sbagliato espellere i giochi d’azzardo dal novero dei giochi – sulla base di una moralistica considerazione della nobiltà disinteressata del gioco –, un errore simmetrico e non meno rilevante sarebbe quello di confinare la ludopatia al solo ambito del gioco d’azzardo. Vere e proprie forme di ludopatia scacchistica sono, per esempio, quelle descritte in opere come la Novella degli scacchi di Stefan Zweig. Se dal punto di vista del trattamento clinico conviene che le diverse forme di ludopatia vengano ben distinte, dal punto di vista teorico andranno riassorbite nel quadro delle diverse degenerazioni del gioco che Caillois aveva delineato e previsto già negli anni cinquanta. Dove seguire Caillois diventa problematico è nella sua trattazione di “maschera” e “vertigine”. Questi due elementi, gli unici che curiosamente appaiono nel sottotitolo dei Giochi e gli uomini, per Caillois sono tipici delle società primitive – legate al rito –, mentre le polarità del caso e della competizione sono all’origine delle società “burocratiche”, dove il destino individuale è determinato da ciò che si eredita (per via del caso) o da ciò che ci si è meritati (all’interno di una competizione). Come già osservato in Immensi ingranaggi, oggi la regressione di maschera e vertigine non pare più in atto. Perdite e moltiplicazioni del sé – fra identità multiple, alienazioni, nuove forme di ebbrezza, giochi di simulazione e di ruolo – occupano la scena del ludico contemporaneo, e le sue degenerazioni: l’analisi dovrebbe stabilire se lo schema metastorico di Caillois fosse troppo rigido, o se sono intervenuti fenomeni sociali che hanno deviato – magari provvisoriamente – un percorso che appariva segnato. 2. Dall’altra parte del linguaggio Rime tempestose. L’attività di inventore di giochi di Charles Lutwidge Dodgson incominciò molto precocemente così come fu precocissima in lui l’idea di abbinare istruzione a pedagogia, probabile luogo comune dell’epoca per attenuare i maggiori rigori della pedagogia vittoriana. Altrettanto precoce fu la determinazione, nella sua biografia, di opposizioni come quelle fra vi12


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ta in famiglia e vita in collegio, conversazione informale e colloquio formale, adulti e bambini, bambini e bambine, balbuzie e discorso fluente, logica formale e nonsense: opposizioni la cui portata poteva arrivare a essere drammatica e rispetto alle quali Dodgson introdusse un principio d’ordine creando, più che un semplice pseudonimo con cui firmare i propri libri, il vero e proprio alter ego di Lewis Carroll.7 Primo maschio, per età, di un folto gruppo di fratelli, il giovane Charles si era dato il compito di intrattenere i suoi famigliari inventando e organizzando giochi collettivi a cui potevano partecipare i Dodgson di tutte le età e dirigendo – sotto diverse testate – il loro home magazine. Il primo di essi, fondato dal tredicenne Charles, si intitolava sintomaticamente “Useful and Instructive Poetry”. Non si trattava semplicemente di parodie: Dodgson continuava a intervallare insegnamenti paradossali e insegnamenti molto più seri, in una produzione che sia nei suoi contenuti (gli argomenti delle poesie) sia nelle sue espressioni (forme metriche) batteva con insistenza sul tema delle regole. Le quartine a metro regolare e rime alterne di La mia fata presentano l’incubo della fata del “Non devi” (“You mustn’t”). Come in un salmo responsoriale psicanalitico, i versi dispari presentano una situazione (“Se sono allegro e sorrido con una smorfia”) e i versi pari procedono a una mirata negazione (“Lei mi dice: Tu non devi sghignazzare”). La fata inibisce al narratore di dormire, di piangere, di ridere, di bere, di mangiare, di giocare alla lotta, sempre ripetendo ogni due versi la formula: “Tu non devi...”. Quando esasperato lui le chiede che cosa debba fare, allora, la fata gli risponde: “Tu non devi domandare”. La morale della poesiola è “Tu non devi”. Ritroviamo, volta in direzione meno destruens, la stessa com7. M.N. Cohen, Lewis Caroll. A Biography, Knopf, New York 1995; D. Hudson, Lewis Carroll, Constable, London 1976; J. Gattégno, Lewis Carroll. Une vie, Seuil, Paris 1974; trad. di C. Sughi, Lewis Carroll, Bompiani, Milano 1974. I testi di Carroll compaiono in The Works of Lewis Carroll, Nonesuch Press, London 1939. Cfr. anche S. Bartezzaghi, “Le poste in gioco”, in La posta in gioco, Einaudi, Torino 2007.

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penetrazione di forma e sostanza, espressione e contenuto, nella poesia Norme e regole (Rules and Regulations): A short direction to avoid dejection, by variations in occupations, and prolongation of relaxation, and combinations of recreations, and disputation on the state of the nation [...]. Anche questa Norme e regole ha a che fare con precetti di ordine morale o materiale, di cultura o di educazione: ai consigli per evitare la depressione della prima strofa, la seconda e la terza aggiungono diverse altre rules: “Learn your grammar, / and never stammer, / write well and neatly / and sing most sweetly...”; fino alla “moral” che si riassume in un verbo: “Behave” (“compòrtati appropriatamente”). Ma mentre la seconda e la terza strofa sono composte da rime baciate semplici (cioè variate, di rima in rima), nella prima si alternano rime che sono tutte assonanti fra loro con un buffo effetto martellante in -ection ed -ections e in -ation e -ations. Con la sua oscillazione fra norma e gioco, fra educazione e divertimento, questa poesia del giovanissimo Dodgson pare costituire un ponte ideale fra i manierismi letterari della letteratura europea precedente – la cui anamnesi sarebbe stata tracciata da Ernst Robert Curtius e Gustav René Hocke – e i giochi di parole della poesia e del teatro comico successivi, per giungere fino ai tormentoni televisivi del tardo Novecento. Un’ampia area di teratologia verbale che si interpone fra il letterario e il comico, fra il virtuosistico e il masturbatorio, fra il ludico e l’ossessivo. Elocutio e dispositio di questa retorica oltranzi14


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sta si fondano su figure sia foniche sia alfabetiche, di cui la rima – da Ludovico Leporeo a Ettore Petrolini – è forse la più comune. Sudo, ignudo, egro e negro, entro una cella cupa stufa, ove piove il grano e spilla, mentre il ventre, ivi, a rivi, il sangue stilla, grido e strido, asmo, spasmo, e muoio in quella. (Ludovico Leporeo) Sul filo di rime e allitterazioni (secondo la nozione di allitterazione allargata a paronomasie e paragrammi fonici), la poesia giocosa rende frenetica l’alternanza fra ripetizioni dell’identico e sue minime variazioni, depistando ogni possibile senso e contemplando anche il neologismo e l’invenzione della lingua. [...] ti consegno il mio cuor dentro una biscia floscia, s’inguscia, nella grascia, ambascia all’uscio dell’angoscia cresce ed esce, ripasce e poscia pasce e pesce piglia quella biscia che in cuor freddo bisciò. (Ettore Petrolini) Oltranze di altra natura possono riguardare la disposizione grafica di lettere, sillabe e parole, come nel versante di quella che oggi chiameremmo letteratura sperimentale accade specialmente nella Metametrica (1663) di Juan Caramuel y Lobkowitz, sotto l’insegna “potentior lingua calamus”. La metametrica di Caramuel è un modello astratto. Caramuel costruisce schemi prosodici, campi di possibilità linguistica, di cui fornisce alcuni esempi ma avvertendo sempre il lettore che lo schema e il materiale linguistico che lo mette in atto sono cose da tenere ben distinte: “chi confonde l’idea con l’esempio, dista assai dal palazzo della metametrica”.8 8. S. Bartezzaghi, Combinazioni segrete e figure di parole. La Metametrica di Caramuel e l’impossibile storia dell’enigmistica, “Engramma”, 54, 2007, <http://www.engramma.it>.

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Il godimento del paradigma. Nei termini della linguistica del Novecento, l’“idea” è il paradigma, mentre l’“esempio” è la sua attualizzazione in sintagma. Caramuel coniava nuovi paradigmi, da cui traeva le diverse combinazioni possibili, nessuna delle quali arrivava a soddisfarlo veramente. In questa eterna mancanza di soddisfazione si scorge una possibilità teorica: quella di assimilare il gioco con le parole – con le sue varianti del gioco letterario e del gioco enigmistico – agli altri giochi, per il versante della sua capacità di generare una degenerazione di tipo compulsivo. Lo schema pragmatico su cui sono organizzati i giochi con le parole è sempre il medesimo, e si basa su tema e variazione – o, se vogliamo, paradigma e sintagma. Il modello-base è quello del Lessico famigliare di Natalia Ginzburg, quando un adolescente ripete l’apparente nonsense “Il baco del calo del malo”, finché una trama di variazioni vocaliche non conduce, in fondo al paradigma, alla scoperta dell’oscena locuzione d’arrivo. In questo caso l’oscenità sigilla il gioco grazie al suo potenziale comico. Altrove invece il contenuto osceno è assente, e la saturazione del paradigma non porta ad alcun altro esito che non sia appunto se stessa. Italo Calvino, alle prese con la versione italiana del Piccolo Sillabario Illustrato di Georges Perec, compone l’ultimo esempio, sulla consonante zeta, per mero desiderio di completezza: Per la serie Z l’impresa si presentava disperata, ma sarebbe stato poco sportivo arrendersi proprio alla fine.9 È stato poi Giampaolo Dossena a interrogarsi sul gioco del sillabario:

9. I. Calvino, Piccolo sillabario illustrato (da Georges Perec), “Il Caffè”, marzo 1977. Ora in Romanzi e racconti, vol. III, Racconti sparsi e altri scritti d’invenzione, a cura di M. Barenghi e B. Falcetto, Mondadori, Milano 1994.

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Secondo me [...] scrivendo il primo sillabario della letteratura italiana Calvino ha scritto l’unico e l’ultimo. È una affermazione di cui non mi nascondo la gravità. Nella storia della letteratura italiana, che alcuni si augurano lunga e felice, si potranno elaborare solo nuovi frammenti di sillabario, nessuno potrà scrivere un altro sillabario, un sillabario interamente nuovo. Attendo smentite dai secoli a venire.10 Poco importa, in questa sede, il funzionamento del gioco di cui stava parlando Dossena. Importa stabilire che ci sono giochi (come quello del “Baco del calo del malo”) che possono esaurire il proprio paradigma interno e giochi (come quello del Sillabario) che possono esaurire il paradigma della lingua italiana. Lo stesso Dossena si è riferito a giochi di questo tipo parlando di “infezioni mentali” con cui avrebbe contagiato i suoi lettori. Si tratta certamente di una metafora, ma fino a che punto il problema contemporaneo delle forme compulsive di gioco si può produrre anche nel campo del linguaggio? Le patologie legate all’azzardo, come abbiamo visto, sono quelle meglio descritte, e per cui esiste una letteratura clinica più sviluppata, ma altre forme di gioco patologico sono state certamente legate alla maschera (giochi di simulazione), a forme di vertigine (videogiochi) o ancora alla competizione, che può degenerare in scontro fisico. A prima vista sembrerebbe improbabile che forme almeno larvali di ludopatia si possano legare a giochi di tipo verbale. Ma certo si conoscono casi in cui il gioco verbale ha svolto un ruolo più o meno consapevolmente ossessivo. I Ricordi di prigione di Luigi Pastro raccontano di alcuni sonetti con acrostico (in un caso, quadruplo) composti dallo stesso in stato di prigionia, aspettandosi di essere condannato a morte e senza ausilio di carta e penna.11 Più vicino a noi, e senza la drammaticità della carcerazione e della condanna, Esulino Sella ha pubblicato in un volume 1918 anagrammi – poi diventati 2001 10. G. Dossena, Sillabarii, lipogrammi e rime per l’occhio, “Il cavallo di Troia”, 8, 1987-88. 11. S. Bartezzaghi, Incontri con la Sfinge, Einaudi, Torino 2004.

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grazie ai contenuti di un’ulteriore plaquette di argomento erotico – tratti dal proprio nome-e-cognome, dagli anni del liceo.12 A parte altri esempi isolati di singoli campioni dell’anagramma, del palindromo, della contrepèterie, del cruciverba, ha una certa diffusione la capacità di parlare alla rovescia – linguaggio criptico individuale su cui ci si esercita nell’età pre-puberale – o i linguaggi furbeschi (non più individuali, ma di gruppo) fondati su giochi come la ripetizione di sillabe (alfabeto farfallino, alfabeto serpentino, giavanese) o la loro inversione (verlan, loucherbem, largonji). La stessa attività di soluzione enigmistica pare in grado di stabilire quel caratteristico cortocircuito fra desiderio e appagamento che è alla base di ogni dipendenza e di ogni tentativo di elusione dalle realtà meno gradite. L’aspetto solitario di simili giochi è particolarmente paradossale in quanto si svolgono tramite il linguaggio, che è lo strumento che presuppone in ogni caso una messa in relazione del soggetto. L’enigmista non dice mai “ho scritto un anagramma”, “ho scritto un rebus”: usa sempre il verbo “fare”, casomai “comporre” o, enfaticamente, “creare”. L’aspetto comunicativo, se pure c’è, non viene messo in rilievo, a vantaggio dell’aspetto elaborativo, se non computazionale. Come i significati pii e mistici delle tavole metametriche di Caramuel si stemperavano nella loro stessa ritualità tautologica, così il senso dei linguaggi segreti, giocosi, artificiosi, enigmistici, furbeschi viene progressivamente meno, si erode; come l’“esempio” di Caramuel non doveva mai essere ritenuto più importante dell’“idea” astratta, così ogni singolo token anagrammatico, palindromico, incrociato, acrostico ecc. finisce per comunicare soltanto il suo type: ovvero la combinatoria a cui appartiene. È possibile che sia questo l’aspetto allarmante dell’uso giocoso del linguaggio: la possibilità che, portato a infinito, il gioco conduca allo sterminio del senso a cui pensava Jean Baudrillard, 12. E. Sella, Il gioco dell’oco, Fògola, Torino 1998.

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commentando la ricerca saussuriana di anagrammi – ricerca a tratti drammatica e appunto ossessiva – nella poesia.13 Del resto ciò che dovrebbe fare l’espressione artistica secondo Baudrillard viene certamente perpetrato con molta minore solennità da quella zona linguistica in cui la funzione poetica del linguaggio non è impiegata a fini letterari. Cazzeggi e tormentoni. È sempre stata evidente la carica provocatoria della scelta con cui Roman Jakobson ha esemplificato la funzione poetica del linguaggio non con un esempio poetico ma con uno slogan propagandistico (il celebre “I like Ike”).14 Oltre che provocatoria, la scelta era anche del tutto sensata, poiché permetteva a Jakobson di mostrare il concetto e assieme di mostrarne le applicazioni, ossia il fatto che la funzione poetica del linguaggio non è in vigore solo all’interno del discorso letterario. Oltre alla provocazione e alla funzione euristica dell’esempio oggi è possibile calcolarne anche la portata profetica: quasi mezzo secolo dopo la conferenza di Jakobson, lo scenario mediatico è dominato da slogan, tormentoni, jingle, nonsense, quel tipo di verbigerazione fatua che ha oramai procurato alla parola “cazzeggio” un inatteso statuto di tecnicismo descrittivo. In Italia la propensione al tormentone – risalente perlomeno all’avanspettacolo di Petrolini o di Totò – è diventata consapevole e autoriferita con le trasmissioni prima radiofoniche e poi televisive di Renzo Arbore. Il tormentone può funzionare sia per via paradigmatica che per via sintagmatica. Il tormentone sintagmatico è quello che consiste nella ripetizione meccanica della stessa espressione linguistica, come capita 13. J. Starobinski, Les mots sous les mots. Les anagrammes de Ferdinand de Saussure, Gallimard, Paris 1971; trad. di G. Cardona, Le parole sotto le parole, il Melangolo, Genova 1982; J. Baudrillard, L’échange symbolique et la mort, Gallimard, Paris 1976; trad. di G. Mancuso, Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano 1979. 14. R. Jakobson, “Closing statements: Linguistics and poetics”, in Th.A. Sebeok (a cura di), Style of Language, MIT Press, Cambridge (Mass.) 1960; ora in R. Jakobson, Essais de linguistique générale, Minuit, Paris 1963; trad. di L. Heillmann, Saggi di linguistica generale, Feltrinelli, Milano 1966.

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spesso con i claims pubblicitari dall’epoca di Carosello: “Più lo mandi giù...”. È invece paradigmatico il tormentone in cui seguendo una regola implicita di gioco si applica una certa deformazione a ogni parola o espressione appartenente a un dato ambito. L’esempio tipico di Arbore è il vezzo di aggiungere la -s plurale a tutti i plurali di termini di provenienza (reale o supposta) inglese: bars, pullmans, flippers... Lo stesso procedimento di deformazione linguistica, negli anni attorno al 2000, è stato sistematicamente applicato alle diverse riforme elettorali italiane, latinizzando il nome del proponente (Mattarellum, e poi Tatarellum, fino a Calderolum – poi diventato Porcellum: e due giorni dopo una proposta prospettata da Walter Veltroni si è inesorabilmente avuto un Veltronellum). Né ciò è avvenuto in trasmissioni o vignette satiriche, bensì sulle prime pagine dei giornali di informazione, a partire dagli articoli di fondo di un autorevole professore che collabora a uno dei più autorevoli quotidiani italiani. Con ciò quanto meno si è ribaltata la battuta – divenuta un luogo comune trent’anni prima – per cui le vignette satiriche di un illustratore “valevano un articolo di fondo”. Infinite jest, jeu infini. Il romanzo di David Foster Wallace Infinite Jest15(è qui necessario rivelare un dettaglio fondamentale della sua trama), ampiamente dedicato a geometrie di gioco e a dipendenze contemporanee o appena futuribili, prende il suo titolo da quello di un audiovisivo sperimentale la cui visione incatena qualsiasi spettatore che ne abbia visto anche pochi secondi impedendogli di staccarsene anche a costo della vita. Portato a infinito, lo “scherzo” diventa così un’arma letale: la trasparente metafora narrativa getta un ponte effettivo fra l’universo delle dipendenze e quello del gioco, della realtà virtuale e dell’intrattenimento di massa. Per quanto attiene non il mondo letterario di Wallace ma il mondo reale non pare che l’approccio 15. D.F. Wallace, Infinite Jest. A Novel, Little, Brown & Co., Boston 1966; trad. di E. Nesi e A. Villoresi, Infinite Jest, Fandango, Roma 2000.

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migliore al problema del gioco infinito passi attraverso l’allarme sociale per la violenza dei videogames o la spersonalizzazione che si presume sia connessa ai giochi di ruolo. Non pare neppure molto proficuo riportare il fenomeno a quell’idea di “carnevalizzazione” che Umberto Eco ripropone, aggiornata, a proposito della penetrazione del ludico nella vita contemporanea: “Essendo creature ludiche per definizione, e avendo perduto il senso delle dimensioni del gioco, siamo nella carnevalizzazione totale”.16 Non si tratta più di un rovesciamento, come nel Carnevale, poiché non è più possibile recuperare un senso letterale del tempo: il rovescio del rovescio non c’è. Come lo stesso Eco nota: “La carnevalizzazione totale non soddisfa, bensì acuisce il desiderio”. Lo spazio del gioco non è più – come sanciva Caillois – né “protetto” né “puro”. Non si circoscrive, e divenendo infinito perde paradossalmente il suo riferimento all’assoluto. Le diverse forme di degenerazione che Caillois puntualmente indicava sono tutte in atto: l’agon produce la concorrenza brutale e priva di regole, l’alea produce la superstizione, la mimicry produce la perdita dell’identità, l’impulso alla vertigine produce la ricerca dell’ebbrezza. Una sociologia che oggi sappia ripartire dai giochi probabilmente dovrebbe individuarne le degenerazioni come forme primarie della loro stessa esistenza, e la penetrazione della dimensione frattale del “ludico” come una condizione standard sia della contemporaneità sia della trasformazione del gioco in potenziale infinità.

16. U. Eco, A passo di gambero. Guerre calde e populismo mediatico, Bompiani, Milano 2006.

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Il gioco, lo specchio, la cornice: oltre i confini ANNA BONDIOLI

Se gli uomini non commettessero talvolta delle sciocchezze, non accadrebbe assolutamente nulla di intelligente. L. Wittgenstein

1. Gioco e infanzia L’abbinamento tra gioco e infanzia non è nuovo nella storia della nostra cultura. Fenomeno nuovo è invece, secondo Ariès (1960), a partire dal XVIII secolo, l’emergere di un “sentimento dell’infanzia”, il riconoscimento dell’età bambina come specifica e differenziata, quanto a caratteristiche, bisogni, comportamenti rispetto all’età adulta. È in relazione a questo fenomeno che il gioco viene a caratterizzarsi come attività propriamente infantile: l’adulto che gioca ridiventa bambino e il gioco assume i caratteri generalmente attribuiti all’infanzia. Accompagna il consolidarsi del “sentimento dell’infanzia” la separazione sempre più netta dei luoghi di vita di adulti e bambini. Non solo l’infanzia viene percepita come categoria a sé stante, età della vita peculiare, ma i bambini vengono “relegati” in luoghi che li pongono in contatto con figure di adulti specializzate nella loro cura: gli asili nido, le scuole dell’infanzia, le istituzioni scolastiche in generale, le agenzie del tempo libero. La strada, la piazza, la festa, il vagabondaggio, la campagna, luoghi di possibile incontro informale tra adulti e bambini, sono scomparsi; i tempi della vita quotidiana infantile non coincidono più con quelli della vita degli adulti. Sono sempre più rari gli scenari nei quali adulti e bambini hanno modo di condividere delle esperienze (cfr. Becchi 1996). A tale separazione si aggiunge una maggiore e più costante sorveglianza. L’adulto sta col bambino innanzitutto per proteg22

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gerlo, ma il “panottismo” degli ambienti di vita infantili comporta una perdita di libertà, di iniziativa, di rischio. Il riconoscimento della peculiarità dell’età infantile – frutto più dell’immaginario sociale che dello studio scientifico – si accompagna anche, nella società occidentale, alla nascita e all’articolarsi di un “mercato” e di una “cultura” per l’infanzia: beni simbolici e materiali, luoghi, agenzie e agenti destinati a segmenti sempre più definiti del pubblico infantile; il mercato dei giocattoli è uno dei più vistosi. L’abbinamento gioco-infanzia nella nostra società si colloca dunque entro un quadro di separazione, protezione, normalizzazione, commercializzazione dell’infanzia. Ma si colloca anche in un quadro di tendenziale riduzione dell’attività ludica nella quotidianità infantile. Già più di trent’anni fa Bruno Bettelheim (1972) segnalava che “l’importanza del gioco nell’educazione e nella socializzazione dei bambini è stata contemporaneamente riconosciuta in teoria e negata nella pratica” (p. 191). Bettelheim osservava con preoccupazione un fenomeno emergente nella società americana che appare ampiamente diffuso oggi nel nostro paese: la tendenza da parte degli adulti a finalizzare e a dirigere le attività ludiche in vista di una precocizzazione degli apprendimenti. Si propongono attività sportive anziché attività di movimento libere; addestramento all’uso di strumenti musicali anziché libera esplorazione di suoni e ritmi; esperimenti scientifici anziché sperimentazione di materiali non strutturati, cosicché “le esperienze di gioco libero concesse ai bambini appaiono sempre più ridotte [...]. Le attività ludiche vengono sorvegliate e guidate e le giornate infantili vengono riempite da una così grande quantità di attività prefissate all’aperto e al chiuso che ai bambini rimane molto poco tempo per giocare per conto proprio” (ivi). La richiesta, da parte delle famiglie innanzitutto, di precocizzazione degli apprendimenti e, soprattutto, di una loro finalizzazione all’acquisizione di competenze specifiche (suonare uno strumento, praticare uno sport, imparare una lingua, utilizzare il computer ecc.) e a performance sempre più perfezionate, è molto diffusa e influenza fortemente l’organizzazione dei contesti infantili extradomestici. 23


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2. Lo spirito del gioco Questa contraddizione, o, meglio, questo scarto tra teoria e pratica del gioco acquista significato se posta in relazione alla molteplicità di idee, spesso contrastanti, che al gioco vengono riferite. Il campo semantico della parola gioco si situa entro coppie di opposti e viene definito spesso più per differenza che per la sua essenza. Il gioco non è il lavoro, se per lavoro si intende un’attività cui si è obbligati, finalizzata all’acquisizione dei mezzi di sopravvivenza, nella quale il perseguimento del piacere è irrilevante, ma il gioco condivide con il lavoro la regola e l’impegno. Il gioco non è l’arte ma dell’arte condivide la dimensione “gratuita”, creativa ed espressiva. Il gioco non è la vita perché appare in un’area delimitata e circoscritta, ma della vita condivide il coinvolgimento e il senso di efficacia. Il gioco si apparenta al “tempo libero” ma non coincide con esso poiché non è ozio né puro passatempo ma attività. Il fatto è che il gioco presenta un carattere bipolare. È un momento apollineo di autodeterminazione ma anche un momento dionisiaco di panico e abbandono: è un’attività nella quale si è padroni della propria immaginazione ma anche in cui si diventa schiavi del potere demoniaco della maschera; è divertente, intenzionale, gioioso, infantile, spontaneo, “leggero” ma anche pieno di tensione, fatale e illiberale; è libero, flessibile, piacevole ma è anche tradizionale, conformista e spiacevole; è funzionale al mantenimento dello status quo ma anche trasgressivo e sovversivo (Sutton-Smith 1986, pp. 3-4). Si potrebbe ipotizzare che lo spirito del gioco stia proprio nella tensione tra le diverse polarità. Ce lo sottolinea Caillois (1967) quando ci propone gli atteggiamenti propri delle quattro tipologie di gioco che costituiscono il quadralogo ludico: agon, la competizione, oscillante tra rispetto delle regole e desiderio di vittoria; alea, tra controllo e abbandono al fato; mimicry, tra verità e finzione; ilinx, tra ordine e perturbazione. Caillois sembra suggerire che il senso del gioco stia proprio in tale oscillazione più che nel contenuto e nella forma dell’attività. Ecco qualche esempio. Nel girotondo, tipico gioco infantile riportato anche nel repertorio degli Opie (Opie e Opie 1969), al movimento rotatorio, ordi24


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nato, accompagnato dalla cantilena che già prelude alla “catastrofe” finale – “giro girotondo, casca il mondo, casca la terra” – succede il momento caotico finale del “tutti giù per terra!”. Nel gioco dell’“acchiappino” lo spirito del gioco sta tra la voluttà della corsa libera e il timore di essere presi; nel “cucù” tra la paura dell’abbandono e la fiducia nel ritorno; nelle carte tra l’aleatorietà della “mano” ricevuta e l’abilità nell’“usarla al meglio”. Anche la ripetizione di certi giochi dei più piccoli – “caricare e scaricare da un carretto, inserire e togliere un oggetto in/da un altro” – corrisponde al bisogno di mantenere un’equa distanza tra ordine e disordine. Lo spirito del gioco appare prossimo a quello dell’osservatore di fronte alle immagini ambigue della psicologia della Gestalt. Nella medesima figura è possibile “vedere” in alternanza due immagini diverse. Il gioco concilia gli opposti nella misura in cui li fa convivere contemporaneamente. Lo stato di incertezza è dunque lo spirito del gioco (Rovatti 1995). “È per finta o per vero?”; “È per scherzo o sul serio?”; “È gratuito o interessato?”; “È un gioco o non lo è?” È proprio il carattere ossimorico del gioco a innescare l’“incertezza”, la provocazione, il “rischio”. Ma è proprio il medesimo carattere a rendere ambiguo e diversamente utilizzabile dal punto di vista sociale e culturale la pratica del gioco nella società e nell’educazione. 3. Gioco e cultura Lo studio dell’intreccio tra gioco e cultura è al centro di un dibattito vivo ancora oggi nell’ambito delle scienze umane. Vi si contrappongono due interpretazioni contrastanti: quella secondo cui il gioco e i giochi rispecchiano i caratteri e i valori di una società e quella secondo cui essi costituiscono la molla o la fucina del rinnovamento culturale (cfr. De Sanctis Ricciardone 1993). La prima scaturisce da una lettura del gioco in chiave funzionalista: il gioco “serve” alla riproduzione e all’integrazione sociale; è sostanzialmente “conservatore”. La seconda trova in Huizinga il primo sostenitore. Per lo storico olandese la cultura nasce infatti sub specie ludi. Il gioco sta fuori e al di là della sfera dei bisogni biologici connessi alla sopravvivenza; è una “funzione che con25


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tiene un senso” (Huizinga 1939, p. 18). Il gioco, separato dalla vita ordinaria, la abbellisce e le dà significato. Ciò che inizialmente è gioco gradualmente si dissolve o si cristallizza in norme, culto, poesia, scienza. Lo spirito del gioco è innovativo. Ma in che modo il gioco assolverebbe le funzioni di conservazione o innovazione? In uno studio etnografico del 1977 (Farrer 1977) vengono individuati i tratti caratteristici del gioco dell’acchiappino in due diverse culture, quella degli indiani Apache Mescalero e quella statunitense. La finalità del gioco è simile: si deve evitare di venire “presi” ma le modalità di gioco sono differenti e rispecchianti i valori dominanti delle due culture. Presso i Mescalero il gioco è giocato in cerchio, senza capogioco; i giocatori mantengono un certo grado di vicinanza fisica e non negoziano verbalmente le regole. Tali modalità appaiono rispecchiare i valori dominanti di una cultura fondata sul consenso e la cooperazione in compiti condivisi. Ma il gioco non risulta essere solo una sorta di specchio della cultura; giocando a questo gioco i bambini Apache comprendono e fanno pratica dei modelli di comunicazione vigenti: “Quando è appropriato parlare e quando rimanere in silenzio; a chi parlare in che modo e se il linguaggio deve essere verbale o non verbale” (p. 101). Il saggio di Geertz sul combattimento dei galli a Bali (Geertz 1972), universalmente noto tra gli studiosi di antropologia per il concetto di thick interpretation, evidenzia un’ulteriore possibilità di lettura dei rapporti tra cultura e gioco. Lo spettacolo sanguinoso ed eccitante del combattimento tra i galli, con le sue poste e scommesse, assume significato se visto come lotta tra diversi gruppi per lo status e il prestigio sociale; è specchio della società: “Infatti solo apparentemente vi combattono dei galli; in realtà sono uomini” (p. 403). Ma è anche una sorta di calco negativo del carattere balinese, il suo “lato oscuro”: “Identificandosi col suo gallo, il Balinese non si identifica solo con il suo ego ideale, e neppure col suo pene, ma anche, e allo stesso tempo, con ciò che più teme e odia, e data l’esistenza dell’ambivalenza con ciò da cui è più affascinato – ‘le potenze delle tenebre’” (p. 407). 26


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In ambedue le letture il gioco, vuoi come modello vuoi come contromodello, non sembra assolvere una funzione dinamica o propulsiva del costume ma semplicemente di disvelamento di un ordine costituito. Spostando l’accento dall’interpretazione culturale allo studio del processo di socializzazione la riflessione pedagogica, sposando l’idea del rimando, diretto o indiretto, tra gioco e cultura, si è per lo più soffermata sul significato dell’attività ludica in chiave di riproduzione sociale e di preparazione ai ruoli sociali adulti.1 Ma altre letture sono possibili. Bruner, nel testo Natura e usi dell’immaturità (1972), ipotizza che il processo di socializzazione nelle società semplici avvenga soprattutto via gioco: i bambini osservano le pratiche degli adulti, vi partecipano secondo le loro capacità, e nel gioco le reinterpretano. In questa prospettiva il gioco sembra svolgere alcune importanti funzioni: “È un modo per minimizzare le conseguenze delle azioni e quindi di apprendere in una situazione meno rischiosa” e “in secondo luogo il gioco rappresenta una buona occasione per tentare nuove combinazioni comportamentali che non potrebbero essere sperimentate sotto pressione funzionale” (p. 38). Il gioco non è un’attività speculare – imitativa – ma ricostruttiva, combinatoria, mossa da una “spinta alla variazione” (p. 41) e, dunque, potenzialmente creativa. Pur non essendo prerogativa esclusivamente infantile l’apertura alla novità – la “neofilia” secondo Desmond Morris –, che si manifesta soprattutto nel gioco, sembra essere tipica dei bambini e dei giovani, i quali vi appaiono predisposti a patto di “ricevere un minimo di assicurazione da parte degli adulti” (p. 49). Occorre infatti un ambiente protetto, libero da pressioni funzionali, per poter giocare; occorre un periodo prolungato di immaturità, garantito dagli adulti, per sperimentare il nuovo. A queste condizioni il gioco può configurasi come una forma di “potenziamento adattivo”. 1. È in questa direzione che si sono mossi numerosi studi sul ruolo del gioco nel processo di elaborazione dell’identità di genere e sui giocattoli come veicoli di valori sociali. Si veda per esempio la descrizione fatta da Bruner del gioco del “taketak” dei bambini tangu (Bruner 1972, p. 51).

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Ma l’esito non è scontato. Sono gli adulti, coloro che nella società detengono il potere e l’autorità, che possono o meno legittimare la novità emersa dal gioco, ciò che il gioco ha creato. Solo in questo caso il buffone può diventare re.2 Come osserva SuttonSmith, è soprattutto nelle società semplici e statiche che il gioco funziona da specchio della cultura e strumento di socializzazione. In quelle complesse e in rapido sviluppo il rapporto tra gioco e cultura si fa più conflittuale e problematico. Bruner (1972) osserva che nelle società semplici, così come tra i primati, l’apprendimento avviene “nel contesto”. Non vi è nulla di simile a una scuola. Gli adulti fungono da modelli più che da trasmettitori diretti e il gioco è una palestra nella quale i bambini riproducono, con variazioni e reinterpretazioni, ciò che osservano accadere nella vita sociale quotidiana. Nelle società complesse, come la nostra, si assiste a un cambiamento radicale. La conoscenza si fa sempre più decontestualizzata – si organizza in modo da essere relativamente libera dagli usi che ha già svolto in passato – e pertanto utilizzabile in modo molto flessibile. L’apprendimento, da informale diventa formale e si realizza in un contesto artificiale: la scuola. Gioco e apprendimento si separano. Il gioco rientra nella sfera della ricreazione, del divertimento, dell’evasione; la scuola in quella dello sforzo, della serietà, dell’impegno. Ne scaturiscono due problemi di difficile soluzione, quello dell’efficienza e quello dell’impegno. Il primo è connesso al passaggio niente affatto scontato tra il sapere che e il sapere come: possedere conoscenze non vuole dire saperle usare in una varietà di contesti per la soluzione di una pluralità di problemi; conoscenza non significa necessariamente competenza. Il secondo riguarda la perdita di interesse concomitante alla decontestualizzazione; il sapere “freddo” della conoscenza sembra opporsi alla passione propria del gioco e della fantasia. “La scuola, separata dal lavoro [...] diventa un mondo chiuso in se stesso. Come

2. Ci si riferisce a una metafora utilizzata da Sutton-Smith per descrivere i rapporti tra gioco e cultura (Sutton-Smith 1979) ripresa da Bondioli (1989) nel sottotitolo di un libro da lei curato.

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insistentemente ha sostenuto McLuhan (1964) essa diventa un medium portatore di un suo proprio messaggio indipendente da ciò che viene insegnato. Il messaggio è costituito dalla sua irrilevanza per il lavoro e la vita adulta. [...] Tale situazione pone le premesse per l’alienazione e la confusione. Vorrei insistere sul fatto che quando i modelli adulti diventano incomprensibili, essi perdono sia il potere di guida sia quello di ispirazione” (Bruner 1972, pp. 58-59). Nella misura in cui il sapere diventa decontestualizzato, esso risulta applicabile flessibilmente a una varietà di contesti e situazioni ma, proprio perché appreso in situazioni artificiali, e non spendibile nell’immediato, perde di significato e interesse. L’utile si dissocia dal piacere; il lavoro dall’interesse; la scuola dalla passione. Il deep play, cioè quel gioco il cui prezzo, secondo Bentham, è talmente alto che è del tutto irrazionale impegnarsi in esso, viene proscritto come diseducativo ma fiorisce nelle comunità infantili e giovanili: vi è da parte dei giovani, osserva Bruner, “un’inclinazione a rischiare il futuro progresso ritirandosi dal sistema che è deputato a qualificare la persona per il futuro, per recuperare un periodo di più stretta comunicazione reciproca” (p. 60). 4. La cultura dei bambini Il gioco, separato dalla vita ordinaria, con tempi, spazi, regole propri, ha un carattere insulare. Lo ricorda Caillois quando considera la commistione tra gioco e vita come una perversione e una degenerazione dei giochi. Un “cerchio magico” separa i giocatori da ciò che accade al di fuori e ciò crea un senso di comunità e di appartenenza. Quando possono, quando gli adulti lo concedono, nei diversi contesti di vita quotidiana, domestici ed extradomestici, i bambini giocano. Il gioco si nutre del bagaglio di conoscenze e di insiemi di significati che i bambini hanno appreso e di cui hanno fatto esperienza fuori dal contesto di gioco (partecipando con gli adulti alle routine culturali negli eventi condivisi della vita quotidiana), ma tali conoscenze ed esperienze vengono rielaborate attraverso un processo di decostruzione/ricombinazione. Nei contesti nei quali bambini di età più o meno vicina 29


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hanno modo di stare insieme per un certo tempo e con una certa continuità, il gioco si fa sociale: una serie di pratiche, procedure, significati ludici assumono valore entro quella cornice e per quel gruppo particolare di giocatori. Nonostante l’apparente caoticità delle interazioni infantili, a un’osservazione attenta e continuativa, emergono regolarità, un lessico e una sintassi peculiari. In questa prospettiva il contesto del gioco appare come una sorta di laboratorio culturale, nel senso che i bambini vi produrrebbero una propria cultura, diversa da quella proposta dagli adulti, una peer culture, continuamente negoziata e rinegoziata tra i bambini, costituita da valori, interessi, attività, routine, materiali, regole, che si dipana nel corso dell’interazione sociale e la definisce. La partecipazione del bambino all’interno di tale peer culture costituirebbe un dispositivo di socializzazione. Questo modo di considerare il gioco è proprio dell’ambito di studi di “sociologia dell’infanzia”, che considerano non solo i condizionamenti culturali e sociali dell’età infantile ma anche i modi peculiari con cui i bambini, entro tali condizionamenti, si propongono essi stessi come portatori di una loro cultura, propriamente infantile (Corsaro 1997). “La ricerca sulla peer culture” – osserva Helga Kelle – “pone l’accento non tanto sul ‘diventare membri’, quanto piuttosto sul fatto che i bambini siano da sempre membri e attori competenti nei loro mondi sociali” (Kelle 2004, p. 77).3 Gli studi mostrano le sofisticate strategie utilizzate dai bambini per giungere a condividere i significati ludici (cfr., per esempio, Corsaro e Tomlison 1980; Giffin 1984) e anche il rapporto esistente tra il “testo del gioco” – la realtà fittizia che, 3. L’approccio, di tipo etnografico, tenta di cogliere la realtà sociale infantile dal “suo proprio punto di vista” e vede appunto per questo nel gioco uno degli oggetti di studio più promettenti. Bauman (1972) definisce l’etnografia come “l’elaborazione di un modello di lavoro di una particolare cultura nei termini il più possibile vicini al modo in cui i membri di tale cultura vedono il mondo e organizzano il loro comportamento all’interno di esso” (p. 157). La metodologia più utilizzata è quella dell’osservazione partecipante: il ricercatore osserva per un periodo di tempo prolungato, in maniera il più possibile non intrusiva, le interazioni tra gli individui in un certo setting, arricchita da interviste che hanno lo scopo di comprendere il significato delle situazioni e delle dinamiche osservate. Più in particolare le tecniche etnografiche tentano di cogliere la prospettiva dei partecipanti e consentono di esplorare le percezione e la definizione del gioco dal punto di vista infantile.

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attraverso il contributo dei diversi partecipanti, si viene man mano creando –, e il contesto sociale del gioco: le dinamiche di gruppo connesse alla posizione e allo status di ciascun partecipante nella gerarchia sociale del gruppo (Schwartzman 1977). L’aspetto più interessante di questi studi consiste nel considerare il gruppo di gioco come una comunità entro la quale vengono creati, negoziati e scambiati significati. Per potersi relazionare agli altri occorre che i bambini propongano costantemente la propria interpretazione rispetto all’accadere sociale. La questione relativa alla socializzazione infantile, al rapporto tra gioco e cultura, viene qui spostato: “Il sapere culturale non è già dato fuori dall’individuo, così da poter essere poi interiorizzato dall’individuo stesso, come invece supponevano le vecchie teorie sulla socializzazione; esso si manifesta invece nell’esecuzione comune di attività pratiche. Si potrebbe anche dire che la cultura non viene concepita come un serbatoio di pratiche, alle quali i bambini vengono acculturati; ma essa si forma nell’esperienza sociale” (Kelle 2004, p. 78). Si studiano le strategie utilizzate per negoziare la propria partecipazione al gioco di gruppo, le discussioni circa le regole e le loro applicazioni, le modalità di gioco di bambini più piccoli e meno esperti all’interno di gruppi di diversa età, il tipo di apprendimento ludico veicolato all’interno di tali gruppi. Ciò che appare più interessante, rispetto al tema che ci riguarda, è il modo attraverso il quale gruppi di bambini che condividono esperienze di gioco giungono a elaborare una “cultura ludica”, e cioè rituali, “racconti”, tradizioni condivisi e comprensibili solo dai membri del gruppo. I temi ludici tendono a mantenersi lungo il filo degli incontri. Vengono ripresi da una seduta all’altra e subiscono, lungo la strada, varianti e articolazioni. Ciò consente ai bambini di avviare fin da subito un gioco condiviso senza dover, ogni volta, rinegoziarne gli aspetti essenziali. Dopo un certo numero di incontri un certo gruppo di gioco condividerà un repertorio di “giochi” potenzialmente attivabili (Bondioli e Piccioni 2005). Analogamente ai temi, anche una serie di “significati” attribuiti a spazi e oggetti finiranno per costituire un patrimonio 31


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comune del gruppo, per esempio lo spazio sotto un certo tavolo individuato come “tana del lupo”, oppure come “la nostra casa”. Nel corso degli incontri i bambini verranno ad assumere una serie di ruoli sociali legati allo status riconosciuto a ciascuno di loro. Si stabiliranno preferenze, alleanze, condizioni di leadership e dipendenza. Le relazioni dei bambini tra loro tenderanno a codificarsi. Il gioco è performativo. 5. Soglie, transizioni, specchi magici Considerare le interazioni tra bambini e i loro esiti come espressioni di una cultura infantile ha tutti i vantaggi e i pregi degli approcci emici; consente inoltre una visione dell’infanzia meno adultocentrica di quella tradizionale che considera l’età bambina come incompleta e deficitaria rispetto all’età adulta. Per quanto riguarda il tema che ci interessa, tale approccio, pur non proponendo il gioco come oggetto privilegiato di studio, ha il merito di non considerarlo come “riflesso” della cultura adulta o preparazione a essa, ma come un territorio inesplorato, i cui nessi interni e con la vita ordinaria e la cultura circostante risultano tutti da scoprire. Ma anche questi studi non riescono a cogliere lo “specifico” del gioco e del giocare, che cosa e come i giocatori creino, mantengano, giungano a condividere il cerchio magico che fa dell’area del gioco un luogo simbolicamente separato dal mondo “vero”, come giungano a “credere” in quel mondo che si dipana attraverso i contributi propri e degli altri giocatori, a esserne pienamente coinvolti e a godere nel parteciparvi. Occorre, a questo punto, passare dal versante “esterno” – regole, routine, significati codificati – del gioco a quello “interno” (Goffman 1974). Occorre riferirsi all’atteggiamento del giocatore mentre gioca, a quello che Caillois chiama “atteggiamento ludico” (e che differenzia in funzione dei quattro tipi previsti dal suo quadralogo: agon, alea, mimicry, ilinx) e Csikszentmihaliyi (1979) flow. Che cosa rende il gioco così attraente? Winnicott (1971) dice che giocando si sospende il giudizio di realtà, che nel gioco viene a cadere la distinzione tra ciò che è 32


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prodotto da me (soggettività) e ciò che proviene dall’esterno. Il gioco creativo vivifica la realtà esterna (l’oggetto transizionale: il lembo della coperta, l’orsacchiotto) e fa sì che la soggettività si “incarni” e che, in questo “prendere forma”, diventi bene scambiabile, insieme di significati condivisibili. Il coinvolgimento del giocatore sta nel partecipare all’illusione che deriva dal mantenere viva l’incertezza (è una mia creazione o è un “non me”? Questo mondo lo vedo solo io o anche altri?). Il gioco creativo – e la cultura – inaugurano una terza dimensione dell’esperienza; una “zona intermedia” che è possibile condividere. La cultura non è qui vista come insieme dei significati cristallizzati e codificati da trasmettere o da acquisire, ma come pratica esperienziale di meaning-making , di creazione, ricombinazione, reinterpretazione di significati. Claudia (41 mesi) inizia un gioco di ruolo chiedendo: “Dov’è il papà? Dov’è il papà?”. Laura (38 mesi), indicando Emanuele (32 mesi): “È qua il papà, guarda!”. Claudia: “No! ... il papà... quello finto”. Laura: “Questo qua... è finto” e le mette davanti Emanuele. Claudia a Emanuele: “Sei finto?”. Emanuele fa sì con la testa. “È utile [...] pensare a una terza area del vivere umano, un’area che non si trova né dentro l’individuo né fuori, nel mondo della realtà condivisa” (Winnicott 1971, p. 188). Ma anche quest’area intermedia di esperienza può essere condivisa. Può essere condivisa a patto di tollerare l’incertezza, oltrepassare i confini stabiliti, ridisegnare nuove mappe muovendosi su un terreno fluido e instabile. Occorre – direbbe Bateson – cavalcare il paradosso della comunicazione che chiede di “giocare” con le regole e le strutture di significato, di abitare il “doppio vincolo” (Zoletto 2003), di convivere con mondi alla Escher. Occorre “giocare il gioco”, praticarlo.

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Che sarebbe infatti la vita senza gioco? “Sarebbe [...] uno scambio senza fine di messaggi stilizzati, un gioco con regole rigide e senza la consolazione del cambiamento o dell’umorismo” (Bateson 1954, p. 235). Il gioco condivide con quella terra di mezzo che è l’immaginazione la possibilità dell’incertezza e il valore della comunicazione. Ma concepire il gioco come “infrazione (regolata) delle regole” non permette di accettare acriticamente l’approccio “funzionalista” al gioco secondo cui i bambini, giocando, sviluppano capacità e competenze, esplorano modi di comportamento utili alla vita futura, imparano divertendosi. Il gioco non è utile. Appartiene alla categoria della comunicazione, dell’espressione, della bellezza, non a quella economica. Il gioco non è “buono”. Può essere distruttivo, futile, ripetitivo, sgradevole, disturbante. Non si può addomesticare. Ma è una dimensione irrinunciabile dell’esperienza che ha come linfa vitale l’incertezza e l’ambiguità. Il gioco non è “educato” e neppure educabile. Ma può essere condiviso. Può essere condiviso se se ne rispetta la liminarità e l’insensatezza. Anche tra adulti e bambini, tra scolari e insegnanti è possibile – ma non scontato – dialogare e agire a un livello intermedio di esperienza nel quale le cose possono “stare in un certo modo” ma anche in un altro. La condivisione di questa esperienza è un’avventura che può aprire una finestra di dialogo tra le generazioni su un terreno di parità. È una scommessa che vale, anche solo per questo, la pena di giocare. Sembra riferirsi a questa terra di mezzo che è il gioco Emily Dickinson in questa brevissima poesia: Per fare un prato occorrono un trifoglio ed un’ape, Un trifoglio ed un’ape E il sogno. Il sogno può bastare Se le api sono poche.

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Campi da cricket. L’intercultura a partire dai giochi (di potere) DAVIDE ZOLETTO

Does Sobers bat, bowl and field black? He plays the game of powers emancipating themselves in a field that needs emancipation. C.L.R. James, Cricket and Race (1975)

1. Garry Sobers è stato uno dei più grandi giocatori di cricket di tutti i tempi. Nero, originario delle isole Barbados, è stato capitano della squadra delle Indie Occidentali dal 1964 al 1971, e ha detenuto per trentasei anni il record di runs (365) battuti in un inning. C.L.R. James, dal canto suo, è stato uno dei grandi intellettuali del Novecento. Anch’egli nero, di Trinidad e Tobago, ha scritto libri come I giacobini neri. La prima rivolta contro l’uomo bianco (1938) e Marinai, rinnegati e reietti. La storia di Herman Melville e il mondo in cui viviamo (1953), che oggi vengono considerati precursori importanti degli studi culturali e postcoloniali.1 È stato anche uno scrittore, studioso e appassionato di cricket. Si è sempre battuto contro il razzismo nemmeno troppo latente di chi esalta le virtù sportive di un atleta di colore legandole a questa o quella caratteristica razziale o culturale. Per esempio, pur mostrando il ruolo decisivo svolto dal cricket nel processo di decolonizzazione delle Indie Occidentali, James ha sempre contestato l’idea secondo cui i grandi campioni caraibici di cricket sarebbero così forti perché esprimerebbero nel gioco il loro essere neri, la loro blackness. Non è un caso che, di Garry Sobers, James abbia scritto quanto segue: “Forse che Sobers batte, lancia o fa il fiel1. C.L.R. James, I giacobini neri. La prima rivolta contro l’uomo bianco (1938), DeriveApprodi, Roma 20062; Id., Marinai, rinnegati e reietti. La storia di Herman Melville e il mondo in cui viviamo (1953), ombre corte, Verona 2003.

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der da nero?”.2 No, risponde James, “Sobers gioca il gioco di forze che si emancipano in un campo che ha bisogno di emancipazione”.3 2. Basta questa osservazione di James su Sobers per mostrare quanto possa essere utile guardare ai giochi e al giocare per osservare le dinamiche che si sviluppano fra individui e gruppi nel contesto delle società contemporanee. È come se potessimo oggi ampliare il programma di ricerca formulato da Roger Caillois nel suo I giochi e gli uomini (1958, 19672). In quel libro, in un capitolo intitolato programmaticamente “Per una sociologia che parta dai giochi”,4 Caillois si propone di “ricercare se il destino stesso delle culture, la loro possibilità di riuscita o il loro rischio di stagnazione, non siano [...] da ascrivere alla preferenza che esse accordano a questa o quella delle categorie elementari nelle quali ho creduto di poter suddividere i giochi e che non hanno tutte

2. Come molti altri termini inglesi del cricket, anche il verbo “to field” non ha un equivalente italiano. Il verbo indica l’azione svolta dai giocatori della squadra in difesa che intercettano la palla e cercano di fermare il battitore avversario. I giocatori italiani di cricket usano solitamente l’espressione “fare il fielder”. Sulle implicazioni teoriche e politiche relative al trasferimento alle altre lingue del gergo inglese del cricket (soprattutto in contesto postcoloniale) si vedano le considerazioni svolte da A. Appadurai nel suo “Giocare con la modernità. La decolonizzazione del cricket indiano”, in Modernità in polvere (1996), Meltemi, Roma 2001, pp. 132-138. Ringrazio John Patrick Leech, professore di Lingua inglese presso l’Università di Bologna, nonché responsabile nazionale del Gruppo Tecnici di Cricket della Federazione Cricket Italiana per le indicazioni fornitemi sulle questioni sollevate dalla traduzione/trasferimento in italiano dei termini tecnici del gioco del cricket. 3. C.L.R. James, “Cricket and race” (1975), in Cricket, Allison & Busby, London 1986, p. 279. Per un inquadramento generale della figura di James, cfr. P. Henry, P. Buhle (a cura di), C.L.R. James’s Caribbean, Duke University Press, Durham (N.C.) 1992, e in particolare S. Hall, C.L.R. James: A Portrait, ivi, pp. 3-16; per il complesso rapporto che lega la vita e il pensiero di James al cricket, cfr. N. Lazarus, “Cricket, modernism, national culture: The case of C.L.R. James”, in Nationalism and Cultural Practice in the Postcolonial World, Cambridge University Press, Cambridge 1999, pp. 144-195. In italiano, si vedano ora l’introduzione di U. Zona all’edizione italiana di Beyond a Boundary (Giochi senza frontiere. Del cricket o dell’arte della politica, 1963, CasadeiLibri, Padova 2006, pp. 9-33) e, più in generale, la sezione monografica curata da S. Mezzadra sul secondo numero del 2007 di “Studi culturali” (2, 2007, pp. 233-308). La sezione comprende anche un testo dedicato specificamente al rapporto tra James e il cricket: G. Caccamo, Presentazione. Storie del cricket fuori dal campo: C.L.R. James e Beyond a Boundary, ivi, pp. 289-296. 4. R. Caillois, I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine (19672), Bompiani, Milano 20002, pp. 75-86.

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una pari fecondità”.5 Queste categorie, com’è noto, sono per Caillois la maschera, la vertigine, la competizione e il caso. Ogni cultura, secondo Caillois, conosce e pratica simultaneamente un gran numero di giochi diversi, che, a seconda del prevalere di una o più di queste categorie, finiscono per rafforzare o negare i valori istituzionali di quella cultura. Dimmi che giochi fai, ti dirò che cultura sei: in modo un po’ irriverente, potremmo sintetizzare così la posizione di Caillois. E d’altra parte è lo stesso Caillois a dichiarare che “non è affatto assurdo tentare la diagnosi di una civiltà partendo dai giochi che segnatamente vi fioriscono”, perché, se i giochi “sono fattori e immagini di cultura, ne consegue che, in una certa misura, una civiltà, e all’interno di una civiltà un’epoca, può essere caratterizzata dai suoi giochi”.6 Un’affermazione a cui Caillois fa seguire due esempi emblematici della sua posizione: il golf sarebbe lo sport anglosassone per antonomasia perché ciascuno, in ogni momento, vi ha la libertà di barare a proprio piacimento, ma il gioco perde ogni interesse proprio a partire dal momento in cui si bara; il truco sarebbe invece un gioco di carte tipicamente argentino perché in esso tutto è astuzia, furberia e perfino in qualche modo imbroglio, ma imbroglio codificato, regolamentato, obbligatorio. 3. Ai tempi di Caillois poteva ancora sembrare possibile una sociologia che partisse dai giochi per indagare i valori istituzionali di una cultura, e quindi le caratteristiche di una civiltà e di un’epoca. Oggi, basta il senso comune a dire che le società sono segnate da una pluralità di esperienze e vissuti culturali, e che quindi il programma di Caillois va ricalibrato all’insegna di questa pluralità. Una sociologia che parta dai giochi non può dunque portare oggi a comprendere i valori istituzionali di una cultura, ma deve mettersi alla prova dei valori istituzionali delle cosiddette società multiculturali. È un passaggio che può portare in due direzioni. La prima di queste direzioni consiste nel mantenere il 5. Ivi, p. 86. 6. Ivi, pp. 99-100.

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programma di Caillois (“dimmi che giochi fai ti dirò che cultura sei”) e declinarlo semplicemente al plurale. Abbiamo così una sorta di “multiculturalismo a partire dai giochi”. Manteniamo l’equazione giochi = culture di Caillois, e con essa tutta una serie di pericolose ambiguità. È vero che Caillois è spesso cauto nell’astrarre dai giochi le caratteristiche essenziali delle culture, ed è altrettanto vero che, lavorando sulle corrispondenze fra giochi, culture e società, si sono sviluppate direzioni di ricerca interessanti come l’etnomotricità di Pierre Parlebas.7 Ma è anche vero che basta pochissimo perché l’equazione gioco = cultura si trasformi in vecchie e nuove forme di razzismo. Vale qui per il gioco ciò che si può dire per ogni politica e pedagogia del riconoscimento: riconoscendo, infatti, l’autenticità e originalità del tuo gioco (cioè della tua cultura), posso meglio incasellarti in una certa posizione sociale, da cui ti sarà poi assai difficile uscire. È l’idea contro cui si batteva James: dire che i campioni caraibici di cricket sono forti perché sono neri, significa “spillarli” a un certo cliché, a un certo stereotipo razzista sui “corpi neri” che è tanto più insidioso quanto più si presenta come politicamente corretto. Un esempio lontano nel tempo, ma non per questo meno suggestivo o attuale, potrebbe essere quanto scriveva Filippo T. Marinetti nel 1940: “Allarghiamo il detto popolare così: donne buoi 7. Cfr. P. Parlebas, Giochi e sport, il Capitello, Torino 1997, un’antologia che raccoglie molti dei saggi più significativi dello studioso francese. Si vedano soprattutto il testo del 1981 “Etnomotricità” (pp. 134-139) e più in generale, per i rapporti fra giochi, sport e culture, l’intera quarta sezione del volume (pp. 110-156). Per un approfondimento interessante di questa linea di ricerca nel nuovo contesto delle società globali, cfr. G. Staccioli, Culture in gioco, Carocci, Roma 2004, in particolare pp. 111-114. Sui rapporti fra gioco e cultura esiste ovviamente una importante bibliografia di carattere antropologico e psicopedagogico: ci sono classici etnografici come B. Malinowski, Teoria scientifica della cultura e altri saggi (1944), Feltrinelli, Milano 1971 o M. Fortes, Aspetti sociali e psicologici dell’educazione fra i Tallensi (1938), in J.S. Bruner, A. Jolly, K. Sylva (a cura di), Il gioco (1976), Armando, Roma 1981, pp. 560-572; e vecchi e nuovi classici della psicologia culturale dell’educazione come J.S. Bruner, Il significato dell’educazione (1971), Armando, Roma 1973, e B. Rogoff, La natura culturale dello sviluppo (2003), Raffaello Cortina, Milano 2004. Per un inquadramento generale si vedano A. Bondioli (a cura di), Il buffone e il re. Il gioco del bambino e il sapere dell’adulto, La Nuova Italia, Scandicci (FI) 1989 e Id., Gioco e educazione, Franco Angeli, Milano 1996. Una riflessione a parte andrebbe probabilmente fatta per le ricerche su gioco, cultura e apprendimento di Gregory Bateson, se non altro a partire dalle pagine di “Questo è un gioco” (1956), Raffaello Cortina, Milano 1996.

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e giochi dei paesi tuoi”.8 Una frase che potremmo ritrovare oggi in bocca ad alcuni fautori di un certo multiculturalismo: riconosciamo a tutti le loro culture (giochi compresi), purché poi non si facciano confusioni fra le nostre culture (i nostri giochi) e i loro. 4. Questa sorta di “multiculturalismo a partire dai giochi” appare oggi particolarmente diffuso. Lo si ritrova in molti percorsi di educazione interculturale a partire dai giochi, in cui la ricerca di giochi tipici di ieri e di oggi rischia di scivolare nella presentazione di immagini esotiche e stereotipate delle culture altre.9 Lo si ritrova in certe retoriche dell’integrazione, che, approntando spazi appositi perché i migranti possano praticare i “loro” sport, allestiscono in realtà qualcosa che può assomigliare a ghetti su base sportiva.10 Lo si ritrova anche nel razzismo anti-bianchi con cui certi migranti rivendicano la propria identità attorno o dentro i campi da gioco.11 C’è però anche una seconda direzione in cui ri-

8. F.T. Marinetti, “Viva la matta. Abbasso il bridge e i giochi stranieri”, in AA.VV., La Matta. Almanacco dei giochi, Edizioni Scena Illustrata, Firenze 1949, p. 11. Cito qui il testo di Marinetti, ma l’intero almanacco è emblematico di una massiccia costruzione dell’altro (e quindi del sé) a partire dai giochi. A suggerire un possibile scivolamento di posizioni alla Caillois verso manifestazioni di razzismo ludico come quelle di questo almanacco fascista è Gianpaolo Dossena in una lunga nota alle pagine di Caillois sulla “sociologia a partire dai giochi”. Cfr. G. Dossena, in R. Caillois, I giochi e gli uomini, cit., pp. 242-243. 9. Per degli esempi invece non ingenui di utilizzo dei giochi e del giocare in una prospettiva educativa interculturale si vedano, fra gli altri, il già citato G. Staccioli, Culture in gioco, cit., e il sempre attuale P. Maniotti, Il mondo in gioco. Percorsi ludici e repertorio di giochi per l’educazione interculturale, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1997. 10. Sui rapporti fra sport, vecchie e nuove forme di razzismo e retoriche dell’integrazione esiste oggi una bibliografia sempre più vasta che è impossibile qui sintetizzare. Come possibili entrate anche bibliografiche all’argomento rinvio per l’area anglofona a B. Carrington, I. McDonald (a cura di), “Race”, Sport and British Society, Routledge, London 2001 (che contiene anche alcuni interventi sul cricket), e per l’ambito di lingua francese (con particolare riferimento alle dinamiche postcoloniali) a P. Liotard, Sport, mémoire coloniale et enjeux identitaires, in P. Blanchard, N. Bancel, S. Lemaire (a cura di), La fracture coloniale. La société française au prisme de l’héritage colonial, La Découverte, Paris 2005, pp. 227-236. In italiano, per un’introduzione critica alla questione, si può partire dal recente D. Rowe, Media, sport e razzializzazione, “Studi culturali”, 2, 2007, pp. 343-362, che contiene un’ampia bibliografia e che ha anche il merito di sottolineare i rapporti sempre più complessi che il tema intreccia con i media e i cosiddetti flussi globali. 11. Cfr. per esempio P. Liotard, Sport, mémoire coloniale et enjeux identitaires, cit., pp. 235-236, che riflette su come i tifosi che sventolavano le bandiere algerina e marocchina insieme a quella francese in occasione della vittoria francese ai mondiali del 1998, fossero pro-

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calibrare oggi il programma di ricerca di Caillois: la direzione di un’“intercultura che parta dai giochi”. Un multiculturalismo che parte dai giochi cerca di estrapolare da giochi intesi come strutture di regole rigide delle caratteristiche culturali altrettanto rigide. Un’intercultura che parte dai giochi guarda invece ai giochi come a strutture che vengono giocate in contesti storici e sociali sempre diversi da individui e gruppi che hanno vissuti culturali altrettanto diversi e personali. E questi vissuti culturali non possono essere così facilmente ricondotti a visioni astratte e stereotipate delle culture. I giochi non sono l’immagine caricaturale delle culture. Sono piuttosto un modo in cui le culture vengono modificate dai contesti in cui si gioca e dagli individui che giocano. Un’intercultura che parta dai giochi non guarda ai giochi per vedere che cosa accada dentro culture che immaginiamo compatte e coese; guarda piuttosto ai giochi per vedere quanto accade fra culture che risultano assai più sfumate e sfrangiate di quanto immagineremmo. Meglio ancora: guarda ai giochi per vedere come funzionano (come si ri-definiscono continuamente) i margini delle culture. Riprendendo alcuni spunti di Benjamin, l’antropologo Néstor García Canclini ha scritto che, se eravamo abituati a vedere le culture come “collezioni di beni simbolici” legate a certi tipi di “territorio” e di “storia”, i giochi contemporanei costituiscono potenti processi di “de-collezionamento” e “de-territorializzazione”.12 Il cricket rappresenta qui un caso emblematico.

babilmente gli stessi che hanno fischiato la Marsigliese prima del match Francia-Algeria giocato (e poi sospeso al 41’) a Parigi il 6 ottobre 2001. Appare chiaro che questi tifosi sarebbero ben lungi dal superare il celebre “cricket test” proposto dal leader conservatore britannico Lord Tebbit, secondo il quale un immigrato ben integrato dovrebbe fare il tifo per l’Inghilterra quando la nazionale inglese di cricket affronta quella del paese di origine dell’immigrato. Per una riflessione sui presupposti e le implicazioni del “cricket test”, cfr. A. Sen, Identità e violenza (2006), Laterza, Roma-Bari 2006, pp. 154-158. 12. N. García Canclini, Culture ibride. Strategie per entrare e uscire dalla modernità (1989), Guerini, Milano 1998, p. 221. I giochi, scrive García Canclini, contribuiscono a “relativizzare i fondamenti religiosi, politici, nazionali, etnici, artistici che assolutizzano certi patrimoni e discriminano altri” (ibidem). García Canclini, che è fra i principali esponenti degli studi culturali in America Latina, fa riferimento soprattutto ai videogiochi, ma la sua prospettiva mi sembra possa essere ampliata a molte altre forme (e flussi) dell’esperienza contemporanea del giocare.

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Non è solo un processo di de-collezionamento e de-territorializzazione, ma anche un’occasione di sempre nuovi ri-collezionamenti e ri-territorializzazioni. Così, di volta in volta, può anche diventare espressione di determinati individui e gruppi in determinate situazioni. Ma questo non accade perché il cricket rappresenta una cultura rigida: accade perché di volta in volta si gioca in certi contesti e non in altri. Parlebas, per esempio, parla del cricket come del tipico gioco inglese, e lo indica, accanto alla pelota basca, al bozkashi afgano, al lancio del tronco d’albero scozzese, come un esempio di “pratica ludica” legata alla cultura e all’ambiente sociale nel quale si è sviluppata.13 Tuttavia il cricket giocato contraddice ogni facile equazione con una presunta “cultura” british. Nato come gioco popolare nell’Inghilterra rurale fra Sette e Ottocento, diventa poi gioco dei ceti borghesi vittoriani, poi gioco dei colonizzatori, poi gioco dei de-colonizzati. E oggi viene indicato come “tipico” gioco del subcontinente indiano (o dei Caraibi).14 Da noi, in Italia, viene indicato come il gioco “tipico” di certi gruppi di migranti: indiani, pakistani, bengalesi, sri-lankesi.15 Torniamo all’osservazione di James su Sobers: il 13. P. Parlebas, citato in G. Staccioli, Culture in gioco, cit., pp. 70-71. 14. Sul cricket e sulla sua storia tra processi di colonizzazione e decolonizzazione si possono leggere ormai dei testi classici degli studi postcoloniali come C.L.R. James, Giochi senza frontiere. Del cricket o dell’arte della politica, cit.; A. Nandy, The Tao of Cricket: On Games of Destiny and the Destiny of Games (1989), Oxford University Press India, New Delhi 20073; A. Appadurai, “Giocare con la modernità”, cit., pp. 119-148. 15. Una storia sui generis dei vari cricket giocati in tempi e luoghi diversi, con il loro rilancio in termine di politiche culturali e dell’identità, potrebbe essere tracciata a partire dalle versioni cinematografiche di questo gioco. C’è Lagaan. Once Upon a Time in India di Ashutosh Gowariker (India, 2001), colossal bollywoodiano che racconta la sfida che un villaggio di contadini indiani muove sul campo da cricket ai colonialisti britannici nell’India di fine Ottocento. C’è Maghi e viaggiatori di Khyentse Norbu (Bhutan-Gran Bretagna, 2003), in cui il cricket viene citato dai bhutanesi di uno sperduto villaggio himalayano per irridere i più potenti vicini indiani che pensano di aver inventato un gioco che in realtà gli è stato portato dagli inglesi. E c’è il ben più celebre Sognando Beckham di Gurinder Chadha (Gran Bretagna-Germania, 2002), in cui il fidanzato bianco della protagonista indiana, dopo essere stato a lungo osteggiato dal padre della ragazza, suggella il suo amore per lei giocando a cricket con il padre. Per non parlare di un classico documentario etnografico come Trobriand Cricket di Gary Kildea e Jerry Leach (1975) che racconta come i trobriandesi avessero riadattato, secondo la “loro cultura”, il cricket insegnato loro dai missionari. Sul gioco del cricket in Italia, poi, sui tornei amatoriali autoorganizzati dai migranti e sulla comunità sri-lankese di Napoli si può vedere oggi il bel-

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cricket non è un gioco da neri decolonizzati, così come non è un gioco da borghesi vittoriani, o da immigrati bengalesi. È, come tutti gli altri giochi, un gioco che si gioca in contesti sempre diversi e specifici: nel caso di Sobers, era un gioco che si giocava in un campo che aveva bisogno di emancipazione. Bisogna vedere come si gioca oggi in Italia. 5. Un’intercultura che parta dai giochi deve iniziare dunque dai modi e dai contesti in cui i giochi si giocano. In questo senso non ci dà un’immagine “buonista” o ecumenica del gioco, dell’intercultura e delle società contemporanee. Non è che dica solo: “l’esperienza del giocare ci unisce agli altri esseri umani”. Oppure: “i giochi sono simili per cui possiamo scoprire l’altro più simile a noi di quanto pensavamo”. E nemmeno ci dice solo che “giocando insieme possiamo sentirci accomunati dal gioco più di quanto ci sentiamo separati dalle nostre altre appartenenze”. Certo, un’intercultura a partire dai giochi dice anche tutto questo. Ma un’intercultura che parta dai giochi ci invita soprattutto a un altro sguardo. Mentre un approccio multiculturalista al gioco parte dal presupposto che vengano prima le culture e poi alcuni giochi che da esse derivano, un approccio interculturale guarda invece ai giochi e al giocare come a un campo in cui le culture ri-prendono forma a partire da chi gioca e da dove, quando e perché lo fa. In questo senso, un’intercultura che parte dai giochi ci mostra soprattutto come in molte esperienze contemporanee del gioco sia in ballo anche una questione di potere. L’espressione “giochi di potere” è un’espressione coniata da Michel Foucault per descrivere la matassa di relazioni con cui gli individui e i gruppi cercano di avviluppare (e controllare) il comportamento degli altri.16 La parola “giochi” rinvia qui all’idea di “strategia” o, come preferirebbe dire Michel de Certeau, di “tatlissimo documentario Cricket Cup di M. Pacifico e D. Liguori (Teatri Uniti, Napoli 2006). 16. M. Foucault, “L’etica della cura di sé come pratica della libertà” (1984), in Archivio Foucault 3. 1978-1985. Estetica dell’esistenza, etica, politica, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 273-294.

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tica”, con cui cerchiamo di far valere il nostro potere sugli altri. O di sottrarci al potere degli altri.17 Gayatri Chakravorty Spivak ha allargato l’ambito dei giochi di potere a quello delle relazioni interculturali. Per Spivak, nelle società contemporanee, l’uso del termine “cultura” si può paragonare all’uso che Foucault fa del termine “potere”: è il nome che si dà a una determinata situazione strategica all’interno di una determinata società.18 Detto altrimenti: la “cultura” sri-lankese del cricket non è sempre la stessa, dipende da come entra a far parte dei giochi di potere di un dato contesto sociale. Quando un individuo o un gruppo rivendicano qualcosa in nome della propria “cultura”, lo fanno spesso per dare più forza alle loro rivendicazioni, per essere più efficaci nell’indirizzare la condotta degli altri individui o degli altri gruppi. Rivendicare qualcosa perché appartiene alla nostra cultura ci dà più forza che rivendicarlo semplicemente perché ci piace. Ciò che conta è l’obiettivo che si vuole raggiungere. La parola “cultura” ci dà più forza per raggiungerlo. Si dice: “gioco e intercultura”, ma in realtà si tratta di “giochi di potere”. Sia nel senso metaforico in cui usava il termine Foucault: strategie e tattiche per farsi valere fra individui e gruppi. Sia in un senso più letterale: perché si tratta, in questo caso, davvero di giochi e sport (per esempio del cricket), ma di giochi e sport che hanno a che fare con una questione politica. Un individuo o un gruppo sottolineano con forza il carattere culturale di un gioco o di uno sport (“il cricket è tipicamente sri-lankese...”): possono farlo perché vogliono giocare quel gioco; possono farlo perché vogliono proibire quel gioco. Ma in entrambi i casi ne sottolineano il carattere culturale perché questo permette loro di avere più forza nel rivendicare (ottenere o difendere) uno spazio entro un determinato contesto sociale. Può trattarsi di uno spazio metaforico: spazio di parola, spazio religioso, spazio politico. In questo senso ritroviamo “il campo che ha bisogno di emancipazione” di cui parlava

17. M. de Certeau, L’invenzione del quotidiano (1980), Edizioni Lavoro, Roma 2001. 18. G. Chakravorty Spivak, Critica della ragione postcoloniale (1999), Meltemi, Roma 2004, p. 363 sgg.

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James a proposito di Garry Sobers. Ma può trattarsi anche di uno spazio molto molto concreto: proprio come un campo da gioco. Per esempio un campo da cricket. 6. È anche dai campi da cricket che si può dunque iniziare a lavorare, oggi, in Italia, a un’intercultura che parta dai giochi di potere. In una società segnata visibilmente da differenti vissuti culturali non si tratta di cercare i giochi tipici delle culture di migranti o nativi, ma di cercare i campi in cui si ri-definiscono, giocando, le appartenenze culturali (le “culture”) di entrambi, migranti e nativi. Gli spazi pubblici di città e paesi sono un esempio di questi spazi. Piazze, parchi e parcheggi vengono rioccupati da ragazzini che giocano a cricket. Certo, sono perlopiù indiani, bengalesi, pakistani, sri-lankesi. È una questione di cultura? “No”, mi ha detto il dirigente sri-lankese di una squadra di cricket che milita nel campionato di serie B, in un nebbioso pomeriggio padano, “non è né cultura, né tradizione, piuttosto abitudine”.19 Da piccolo giocava a cricket, e gli è rimasta la voglia di giocare. Ma suo padre, che era militare, a Sri-Lanka giocava a calcio. E a calcio giocano i suoi figli oggi in Italia. Come a dire che non sono le culture che giocano a cricket: sono gli individui con i loro vissuti che ci giocano. Michel de Certeau direbbe che i ragazzini che giocano a cricket sono un esempio di quegli “usi dello spazio”, quei “brusii delle pratiche”, che si insinuano nei sistemi di regolazione quotidiana che cercano di “gestire e sopprimere” l’alterità.20 In questo senso, un multiculturalismo dei giochi che cerchi di assegnare a ogni individuo la sua cultura, il suo gioco e il suo spa-

19. Intervista con S.T., novembre 2007. Questa e le altre interviste su cui si basano le pagine seguenti sono state svolte nei mesi di settembre, ottobre e novembre 2007 nell’ambito di un lavoro di ricerca sulla rilevanza del cricket (delle sue modalità organizzative, politiche, spaziali) nell’interazione fra migranti e nativi in alcune località dell’Italia settentrionale. Sono stati intervistati giocatori, dirigenti, simpatizzanti, amministratori locali, insegnanti, educatori (stranieri e italiani) di quattro cittadine medio-piccole di Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia e Lombardia. Le esperienze di cricket in questione erano sia di tipo formalizzato (società sportive associate alla Federazione Cricket Italiana) sia informali (gruppi di giocatori che si ritrovavano per giocare al di fuori di ogni forma di associazione istituzionale). 20. M. de Certeau, L’invenzione del quotidiano, cit., p. 146 sgg.

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zio (“donne, buoi e giochi dei paesi tuoi...”), è una delle forme contemporanee di questa regolamentazione dell’altro. E un’intercultura dei giochi dovrebbe provare invece a farsi carico di un compito paradossale: lasciare degli spazi di gioco all’altro, sia nel nostro modo di pensare che sul nostro territorio, pur sapendo che uno spazio di gioco per l’altro non può essere istituzionalizzato, né nel nostro pensiero, né sul territorio. Nello spazio che lasciamo apposta all’altro, per esempio su un campo da cricket fatto apposta per i migranti, l’altro infatti non c’è quasi più. Nello spazio (istituzionale) che lasciamo apposta al gioco dell’altro c’è solo l’immagine che vogliamo avere di lui. Prova ne è che un amministratore locale illuminato può arrivare a dare, a un campo da cricket istituito apposta per una squadra di indiani, il nome di un grande poeta indiano molto amato in Occidente. Buon esempio di ambivalente costruzione di uno spazio per l’altro, in cui, nel migliore dei casi, quest’altro giocherà perché il gusto per il cricket è più forte dell’ambivalenza paternalista insita nel gesto di intitolazione/identificazione del campo dell’altro. Lo spazio di gioco dell’altro (ce lo dice de Certeau, ma più di lui ce lo dicono i ragazzini che popolano con mazze e palline le periferie delle nostre città) è invece uno spazio non previsto e forse nemmeno voluto: per esempio un parcheggio, in cui i ragazzini giocano a cricket mentre non vorremmo che ci giocassero. Perché la palla di cuoio, pesante, danneggia le macchine. Ma soprattutto perché la loro presenza, non prevista e non voluta in quel luogo, danneggia l’immagine che abbiamo di casa nostra.21 7. Nell’edizione 2006 dell’Annuario della Federazione Cricket Italiana si parla del cricket italiano come dell’“incontrastato pri21. Sui modi e i problemi dell’istituzionalizzazione dei giochi si vedano, di nuovo, le ricerche di P. Parlebas, soprattutto “Gioco sportivo istituzionale” (1981) e “Gioco sportivo di tradizione” (1981), in P. Parlebas, Giochi e sport, cit., pp. 118-123 e 124-133. Per un approfondimento delle implicazioni pedagogiche di questa istituzionalizzazione di spazi e tempi del gioco si vedano, in Italia, le ricerche di Roberto Farné. Per quanto concerne gli spazi, si veda per esempio R. Farné (a cura di), Le case dei giochi. Ludoteca, ludobus e processi formativi, Guerini, Milano 1999; per quanto riguarda i tempi, invece, cfr. sempre di Farné il più recente Time to Play, “Infanzia”, 9-10, 2006, pp. 2-9.

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matista nell’integrazione sportiva, e forse anche sociale, della penisola”.22 A riprova di ciò viene citato un bel servizio uscito il 4 settembre 2005 su “Repubblica” in occasione della finale del campionato nazionale di serie B. Cricket, i gesti bianchi dello sport meticcio, si intitolava significativamente l’articolo, ed era effettivamente un ritratto affascinante della serie B italiana di cricket:23 un campionato dove molte squadre sono composte esclusivamente da stranieri di un’unica provenienza geografica, e che costituisce un incredibile mondo parallelo, superato solamente dall’ancor più incredibile mondo dei tornei amatoriali organizzati dagli stessi migranti in giro per l’Italia.24 L’articolo di “Repubblica” presentava la storia del cricket italiano come una storia di integrazione a lieto fine: “Spiega, questa storia, come una comunità di uomini gentili e laboriosi, molto uniti tra loro, molto amici e solidali, si sia inserita nel tessuto sociale del nordest, usando anche uno sport per i più ostrogoto”.25 C’è un tono un po’ paternalista, quasi sospetto, che si incontra spesso nei racconti delle esperienze migliori di integrazione. Si potrebbe osservare che le squadre sono solo raramente miste, ancora più di rado miste italiani/stranieri. Che potrebbero sembrare, di nuovo, delle “riserve indiane” per giocatori di cricket: che giochino fra loro, ma lontano da noi... È un’obiezione che ha del vero, ma che pecca anche di un certo velleitarismo ipercritico. L’integrazione passa anche attraverso il giocare uno contro l’altro: indiani contro pakistani, pakistani contro italiani. Che non è affatto una cosa da poco, come mi conferma un professore di educazione motoria che insegna (e fa giocare) il cricket nelle sue ore di scuola, quando gli chiedo che cosa pensi del cricket come strumento di integrazione.26 “Senza contare”, gli fa eco il dirigente sri-lankese di una

22. Federazione Cricket Italiana, Annuario 2006, p. 3. 23. M. Crosetti, Cricket, i gesti bianchi dello sport meticcio, “la Repubblica”, 4 settembre 2005, pp. 28-29. 24. Un mondo splendidamente immortalato per esempio dal già citato documentario Cricket Cup di M. Pacifico e D. Liguori. 25. M. Crosetti, Cricket, i gesti bianchi dello sport meticcio, cit., p. 28. 26. Intervista con M.P., novembre 2007.

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società sportiva, “che toglie i giovani migranti dalla strada, occupandoli così nel tempo libero che rimane loro dopo il lavoro in fabbrica”.27 L’articolo di “Repubblica” prosegue ottimista: “Invece di chiudersi nel loro universo, gli indiani vestiti di bianco stanno facendo propaganda: al cricket, a loro stessi, al loro paese, a una diversa possibilità di integrazione”.28 Che si possa (si voglia) vedere il cricket in Italia come potente strumento di integrazione lo dimostrano anche altri elementi. A partire dal 2006, “Metropoli”, il supplemento multiculturale domenicale di “Repubblica”, ha garantito una notevole copertura ai campionati italiani di cricket.29 E il ministro Giovanna Melandri ha proclamato per il 25 marzo 2007 la prima edizione della “Giornata dello sport senza frontiere – Vinciamo il razzismo”, abbinandola proprio alla Federazione Italiana Cricket: “Un’occasione d’incontro per conoscere le culture attraverso il gioco e lo sport”, era il suggestivo sottotitolo. La locandina che pubblicizzava la giornata raffigurava un giocatore professionista di cricket al momento della battuta: in secondo piano si vedeva l’immagine di un ragazzino nero anch’egli in battuta, ma in calzoni corti e a torso nudo, mentre il professionista sfoggiava guanti, casco e divisa giallo fiammante.30 8. Di sicuro, questa immagine positiva del cricket come strumento di integrazione descrive una realtà di fatto, e importante. Co27. Intervista con S.T., novembre 2007. 28. M. Crosetti, Cricket, i gesti bianchi dello sport meticcio, cit., p. 28. 29. Le pagine di “Metropoli” sul cricket, dal 12.02.2006 al 18.03.2007, si possono leggere in pdf sul sito della Federazione Cricket Italiana: <http://www.crickitalia.org/HomeItaliano.htm>. 30. La locandina dell’iniziativa, nonché notizie e foto delle iniziative tenutesi in tale giornata in varie città italiane si possono trovare sempre sul sito della Federazione: <http://www.crickitalia.org/SPORTSENZAFRONTIERE/25marzo2007-%20SportsenzaFrontiere.htm>. Secondo la stampa il ministro avrebbe dichiarato, presentando questa iniziativa: “In Italia il cricket non è certo uno sport comune. Ma c’è una forte comunità asiatica, appassionata a questo sport. Ecco il perché di questa giornata nazionale del cricket che coinvolgerà dieci città italiane. Dobbiamo ricercare e valorizzare quegli sport e quelle discipline sportive non diffuse nei nostri paesi ma importanti per le comunità immigrate” (cfr., per esempio, la notizia riportata il 14 marzo 2007 sul sito di “Repubblica”: <http://www.repubblica.it/2003/h/rubriche/spycalcio/juve-mercato/juve-mercato.html>).

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me mi ha detto un tecnico del settore giovanile della Federazione Cricket Italiana, sri-lankese naturalizzato italiano, se il cricket diventerà uno sport praticato sia da ragazzini italiani che da ragazzini stranieri, magari di seconda generazione, potrà essere ancor più strumento di integrazione.31 Me lo ha detto in palestra, in una scuola media del Nord Italia, durante una pausa nell’ora di ginnastica in cui insegnava cricket agli italiani, non agli stranieri. E questo è un buon segno. Ma di sicuro, un’idea troppo esotica dei “gesti bianchi dello sport meticcio”, o delle “movenze di danza” di un lanciatore indiano, potrebbe preoccupare C.L.R. James, che ci inviterebbe a guardare – come già nel caso di Sobers – non già le presunte caratteristiche “etniche” (sri-lankesi, indiane, bengalesi, pakistane...) del cricket italiano, bensì i campi concreti in cui lo si gioca, i giochi di potere entro i quali si avanzano le rivendicazioni, i progetti, le appartenenze dei giocatori. Ci inviterebbe a guardare ai campi concreti in cui si gioca il cricket come gioco di potere. Primo esempio. Marzo 2007, siamo in Emilia, su un campo sportivo pubblico, l’ultimo a non essere regolamentato dall’Amministrazione comunale del paese. Come in tutti questi campi, gestiti in modo informale, chi prima arriva ha diritto di giocare. Un giorno arrivano per primi dei ragazzini punjabi che iniziano a giocare a cricket. Dopo un po’ arrivano dei ragazzi italiani che vorrebbero giocare a pallone. Non accettano la regola informale secondo cui gioca chi arriva per primo. In fondo, loro sono italiani. Protestano con l’amministrazione comunale, che è sensibile ai temi interculturali e trova una soluzione. Introduce un regolamento formale per l’utilizzo anche di quell’ultimo campetto, poi invita i ragazzini punjabi a costituirsi in associazione sportiva di cricket, e assegna ufficialmente loro il campo per alcune ore a settimana. Per evitare che all’associazione si iscrivano solo ragazzi punjabi, l’amministrazione avvia nell’anno scolastico 2007/2008 anche un progetto di sensibilizzazione nelle scuole primarie e medie: per alcune ore all’anno il cricket viene inserito nelle ore 31. Intervista a K.P., novembre 2007.

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curricolari di educazione motoria, per di più lo si insegna in inglese, così anche i genitori degli italiani sono contenti, perché si impara anche la lingua (la lingua del cricket, l’inglese, non la lingua dei ragazzini, il punjabi...). Il progetto è ancora in corso. Sembra che il cricket piaccia ai ragazzi italiani, ma non si sa ancora se a fine anno, quando la scuola sarà finita (e con essa le lezioni di cricket), si iscriveranno alla squadra di cricket organizzata dai ragazzi punjabi. Intanto, però, su un quotidiano locale, gli esponenti dell’opposizione (che rappresentano un partito di tendenze localiste) stigmatizzano il fatto che gli spazi e i denari pubblici (campetti, palestre, curricoli scolastici) vengano usati per insegnare e giocare giochi stranieri (“mogli, buoi e giochi dei paesi tuoi...”). Secondo esempio. Gennaio 2007, altro parco pubblico, in una cittadina dell’estremo Nord-Est. Per mettere in regola un’area adiacente a un vecchio edificio in via di ristrutturazione, l’amministrazione comunale ha deciso di trasformare in parcheggio una parte del parco, dove di solito giocano a calcio i ragazzi del posto e a cricket i ragazzi bengalesi. Nel parco c’è anche una zona attrezzata per i bambini più piccoli: scivoli, altalene, castelli... Il parco costituisce l’unica area verde del quartiere e i genitori dei bambini più piccoli decidono di mobilitarsi per difenderlo. Coinvolgono nella mobilitazione alcune associazioni del posto. Vengono coinvolti anche i bengalesi che di solito giocano a cricket nel parco. Il quotidiano locale fa eco alla protesta. Una volta tanto, l’“immigrato” fa notizia in positivo: “Mobilitazione del rione in difesa del polmone verde del quartiere. Coinvolta anche la comunità bengalese”. Dopo alcune settimane la protesta sembra scemare. Diversi mesi dopo, in autunno, rimangono alcuni striscioni affissi al recinto del parco. Ufficialmente non si sa niente, ma sembra che l’amministrazione abbia ridimensionato il progetto originario. Il parcheggio, pare, si farà, ma in un’area leggermente diversa che si limita a lambire un piccola parte di parco. L’area giochi per i bambini e ragazzini del posto è salva (tutto quanto: scivoli, altalene e prato per il calcio/cricket, di italiani e bengalesi). 52


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9. Due campi da cricket. Due esempi fra i tanti da cui bisogna iniziare se si lavora a un’intercultura che, come vorrebbero James, de Certeau o Spivak, parta molto concretamente dai giochi di potere che decidono delle culture locali in Italia oggi. Sia di quelle degli italiani che di quelle dei migranti. Di quali vissuti e quali problemi è espressione il cricket che si gioca in questi due campi? Stuart Hall ha scritto una volta: “Mi interessano le strategie culturali che possono cambiare le cose e modificare l’orientamento del potere. Riconosco che gli spazi ‘conquistati’ per la differenza sono pochi e molto attentamente sorvegliati e regolamentati. [...] So che l’invisibilità viene sostituita da una visibilità accuratamente disciplinata e segregata”.32 Sembrerebbe quasi che Hall stia parlando delle sofferte vicende dei campi da cricket nei paesi e nelle città dell’Italia settentrionale: destinati a scivolare, quasi con un movimento inerziale, più verso il multiculturalismo che verso l’intercultura dei giochi. Ma Hall non è del tutto pessimista: quei giochi di potere che sono le relazioni interculturali non sono mai “una questione di semplice vittoria o di puro dominio”, non sono mai “un gioco culturale a somma zero”. L’importante, nei giochi di potere, non è tanto vincere o perdere, ma “spostare sempre l’equilibrio dei rapporti di forza nelle relazioni culturali, [...] modificare le tendenze e le configurazioni del potere culturale, e non sottrarsi”.33 Per James, Sobers, giocando a cricket, giocava il gioco di forze che si emancipavano. Non è facile dire quali forze si emancipino, oggi, nei campi da cricket delle periferie italiane. Né si può dire facilmente se alla fine si emancipino davvero. Nel primo dei due campi di cui si è detto, il cricket sembra esprimere una versione della cultura punjabi, e gli alfieri della cultura locale (o meglio di una sua versione localista) si affrettano a prenderne le distanze: ma giocano a cricket anche i ragazzi italiani, oggi perché glielo propone la scuola, domani chissà... Nel secondo caso, il cricket

32. S. Hall, “Che cosa c’è di nero nella cultura popolare nera?” (1992), in Politiche del quotidiano. Culture, identità e senso comune, il Saggiatore, Milano 2006, p. 304. 33. Ibidem.

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dovrebbe esprimere una versione della cultura bengalese, perché ci giocano solo i ragazzi bengalesi. Però quel campo (che è anche da cricket) è parte dell’identità di un rione che non è bengalese. E così il cricket, almeno per ora, sembra esprimere in quel parco anche una versione della cultura locale. Di sicuro, non si può dire che in questi campi si giochi solo in quanto punjabi, bengalesi o italiani. Così come, ci ricorda James, Sobers non giocava a cricket in quanto nero. O quanto meno: si giocherà anche in quanto punjabi, bengalesi o italiani, ma in modi che spiazzano la nostra visione stereotipata delle culture punjabi, bengalese e italiana. In quei parchi, per esempio, non ci si sente solo punjabi o bengalesi o italiani. Ci si sente anche, a volte, sia punjabi che italiani, sia bengalesi che italiani. In questo senso almeno, i giochi di potere sono ancora aperti, sui campi da cricket.

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Il gioco di Wittgenstein PIER ALDO ROVATTI

1. Oscillazioni Sarebbe opportuno chiedersi quanto il gioco deve a Wittgenstein e quanto Wittgenstein deve al gioco. Una domanda (o meglio, due) che non possiamo eludere se ci collochiamo nell’ambito delle indagini sul gioco, considerando che Wittgenstein è il filosofo contemporaneo (e probabilmente di tutti i tempi) che più si è identificato con la parola “gioco”. Le sue Ricerche filosofiche (RF)1 non sono forse attraversate da parte a parte da quell’esercizio o attrezzo (il più utile della famosa cassetta) che lui chiama linguistic games, cioè giochi linguistici? Ricordo che le RF costituiscono il principale deposito di tutto ciò che Wittgenstein ha pensato a partire dalla cosiddetta svolta, e comunque dal 1930 in poi, e che sono state (e rimangono) la base di un immenso laboratorio filosofico attorno all’esperienza e all’analisi del senso comune, a parere di moltissimi studiosi la parte più cospicua dell’eredità di questo singolare e geniale pensatore. Ma è anche una domanda assai spinosa. Rispondere è tutt’altro che semplice e lineare. Cercherò, nelle pagine che seguono, di abbozzare almeno una pista. La risposta che ragionevolmente si profila non è esaltante per quanto – credo – risulti assai sintomaQuesto testo esce contemporaneamente nella collana “Lezioni magistrali” delle Edizioni Università di Trieste. 1. Le Ricerche filosofiche sono state pubblicate postume in tedesco con versione inglese a fronte nel 1953, a cura di G.E.M. Anscombe e R. Rhees (trad. a cura di M. Trinchero, Einaudi, Torino 1962). Wittgenstein, morto nel 1951, le aveva iniziate nel 1941, terminando la prima parte nel 1945 e la seconda tra il 1947 e il 1949.

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tica e forse produttiva. Di primo acchito verrebbe da dire che Wittgenstein ha in genere un’idea unilaterale e alquanto ristretta di gioco. L’esempio del gioco degli scacchi è quasi ossessivo, ma poi lui stesso riconosce che non è davvero un buon esempio per comprendere quello che sta facendo. Se prendiamo sul serio – come non possiamo non fare – il carattere strutturante e onnicomprensivo dei giochi linguistici per capire cosa facciamo quando parliamo e come le nostre parole (anche una singola parola, per esempio la parola “capire”) non solo aprono l’accesso alla forma di vita (o alle forme di vita) che stiamo vivendo qui e oggi, ma ci permettono di immaginare altri tipi di esperienza e quindi anche di affrontare il cambiamento, ovvero il passaggio da una forma all’altra, allora dobbiamo verificare (non senza sorpresa) che Wittgenstein maneggia magistralmente l’aggettivo “linguistici” dandocene conto, mentre per il sostantivo “giochi” (che molti interpreti sono stati tentati di cancellare dal suo vocabolario) che vi sia incertezza è il minimo che possiamo dire. Wittgenstein non padroneggia questo sostantivo, molto spesso lo restringe, ce ne dà scorci insufficienti e inadeguati al ruolo e all’importanza di cui lo investe. Già, ma si può e si deve padroneggiare il gioco? Si lascia padroneggiare? E se fosse proprio questo che Wittgenstein cerca di dire a se stesso e a noi? Fatto sta che nella sterminata (come si suol dire, ma qui è indubbiamente il caso) produzione di commenti critici e di tentativi di svolgere le intuizioni contenute nelle RF (pars pro toto), il problema del gioco impallidisce e sembra quasi svanire, tranne pochissime eccezioni, come se non valesse la pena di affrontarlo e fosse molto meglio lasciarlo perdere. Qualcuno (Max Black, per fare un nome) lo dichiara senza esitazione e a chiare lettere: “Dubito che la scelta del ‘gioco linguistico’, – scrive2 – fatta da Wittgenstein per esprimere una delle nozioni centrali del suo pensiero, fosse davvero una scelta felice. E mi pare certo che la nozione che si suppone espressa da quell’etichetta fosse oscillante”. È 2. M. Black, Lebensform e Sprachspiel nelle ultime opere di Wittgenstein (1978), in M. Andronico, D. Marconi e C. Penco (a cura di), Capire Wittgenstein, Marietti, Genova 1988, p. 250.

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sorprendente che Black sia peraltro da annoverare tra quelle pochissime eccezioni a cui ho accennato.3 Che Wittgenstein, dal 1930 in poi, oscilli (e vedremo tra un momento come) a proposito dell’ampiezza da dare alla parola “gioco”, è una constatazione che può portarci in due direzioni molto diverse. L’oscillazione può portare acqua all’ipotesi della scelta non felice, come se Wittgenstein non riuscisse a venire a capo di questa parola e delle pratiche che essa veicola nel discorso quotidiano, e insomma alzasse alla fine bandiera bianca sulla definizione di “gioco”, o almeno su un’idea stabile, unitaria e condivisibile di esso. E, infatti, nelle RF dice letteralmente che non sa cosa sia il gioco. Qualcosa di sfuggente e che dunque gli sfugge. Ma l’oscillazione potrebbe anche condurci al cuore della questione. E se Wittgenstein arrivasse proprio alla conclusione che il gioco è qualcosa di sfuggente e cercasse in effetti di valorizzare questa conclusione? Se ciò che non gli sfugge fosse precisamente la natura sfuggente del gioco? E magari proprio il carattere oscillante che lo contraddistingue, che fa sì che esso produca i suoi effetti (appunto squilibranti) e gli conferisce uno speciale pregio filosofico? Per parte mia, ipotizzo che entrambe le direzioni siano percorribili. È vero che Wittgenstein oscilla, come suggerisce Black, tra un’idea di gioco basata su regole costitutive, e dunque su una sintassi determinata, e un’idea di gioco in cui tutte le regole sono invece pragmatiche e legate all’uso effettivo che ne facciamo. Tra una visione ristretta e una visione allargata del gioco. Quando Wittgenstein discorrendo con Moritz Schlick, appunto nel 1930, dice che “non si può motivare la sintassi. Essa è quindi arbitraria; staccata dalle sue applicazioni, considerata per se stessa, è un gioco proprio come gli scacchi”,4 è chiaro che sta 3. Per la parte italiana si possono vedere il saggio di Marilena Andronico, Giochi linguistici e forme di vita, in D. Marconi (a cura di), Guida a Wittgenstein, Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 241-286; e quello di Fabio Grigenti, Alcuni giochi di Wittgenstein, “aut aut”, 295 (fascicolo dedicato a La filosofia in gioco), 2000, pp. 100-127. 4. Ludwig Wittgenstein e il Circolo di Vienna. Colloqui annotati da Friedrich Weismann, trad. di S. de Waal, La Nuova Italia, Firenze 1975, p. 93 (Colloquio del 19 giugno 1930 a casa di M. Schlick).

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accentuando la visione ristretta e sintattica del gioco. Ma è un’accentuazione che fin da subito entra in conflitto con se stessa. Davvero quei pezzetti di legno (la loro forma e figura, la loro provenienza, lo sfondo agonistico) non rappresentano nulla? Certo non importa se la regina abbia un atteggiamento guerriero, però Wittgenstein non è davvero convinto del carattere puramente formale di questi elementi del gioco. L’accentuazione resta, tuttavia le “regole” del gioco diventano un dilemma che si stempera nei vari scritti e abbozzi successivi (dalla Grammatica filosofica del 1929-34 ai Quaderni blu e marrone del 1933-35, alle Osservazioni sui fondamenti della matematica del 1937-44, fino a Zettel del 1945-48) per depositarsi infine nel gruppo di paragrafi delle RF dedicati all’argomento. Nella oscillazione, come osserva lo stesso Black, viene a prevalere in modo sempre più manifesto la visione allargata che connette la regola all’uso e il gioco alla vita (o, se vogliamo, alle forme di vita). Questo allargamento porta con sé una correlativa idea allargata di linguaggio. Nella visione ristretta (evidentemente indebitata con il Wittgenstein del Tractatus logico-philosophicus) non c’è distinzione tra la sintassi di un gioco come gli scacchi e la sintassi di un linguaggio. Osserviamo che in questo caso risultano ristrette tanto l’idea di gioco quanto l’idea di linguaggio. Quando poi Wittgenstein deve ampliare l’idea di gioco dando un ruolo centrale alla pragmatica, cioè – potremmo dire – all’esperienza effettiva del giocare (e del giocatore), il gioco non ha più la forma esclusiva di un linguaggio-sintassi. Entra in scena una grammatica diversa. Ma, intanto, anche l’idea di linguaggio si trasforma ampliandosi al di là degli elementi squisitamente verbali. Il discorso scopre nell’uso il suo carattere principale e assume in modo spiccato una connotazione sociale che lo annoda alle forme di vita concrete e storiche. L’espressione “gioco linguistico” condensa questo processo e al tempo stesso ne esprime le difficoltà e gli imbarazzi, come se Wittgenstein – ecco l’oscillazione di fondo del suo pensiero da allora e fino all’ultimo – procedesse contro se stesso, e cioè contro le resistenze offerte dalla sua stessa impostazione teorica. L’infe58


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licità dell’espressione potrebbe allora esserne il pregio. Il gioco non si lascia ridurre, neppure lo stesso gioco degli scacchi, anzi sollecita una continua apertura. Come possiamo affermare il contrario? Lo potremmo fare solo penalizzando il sostantivo “gioco” e abbassandolo a una funzione completamente marginale, a qualcosa di accidentale ed esornativo rispetto al ruolo sostanziale e centrale dell’aggettivo “linguistico”. Come se potessimo semplicemente cancellare la parola “gioco” e l’uso che Wittgenstein ne fa. Con maggiore cautela, potremmo forse dire: come se potessimo cancellare la parola “gioco” e gli effetti che essa comunque produce su tutto il discorso delle RF , a diversi gradi di consapevolezza. Riesce Wittgenstein a far suoi questi effetti? Ecco un’altra bella domanda, cui è arduo rispondere di sì e che tuttavia apre una pista interpretativa che potrebbe risultare molto feconda. È precisamente la pista che vorrei proporre in queste mie riflessioni e che cercherò di suggerire nelle pagine seguenti. Cominciando dalle considerazioni relative alla messa a fuoco che Wittgenstein compie, seppur rapidamente, in quello che a me pare il cuore filosofico delle RF, dove appunto l’oscillazione, questa volta intesa come un carattere proprio del gioco, introduce l’importanza di una “sfocatura” nella dinamica stessa del gioco linguistico. 2. Paragrafo 66 È il luogo testuale più denso in cui Wittgenstein parla direttamente di giochi nelle RF. Inizia così: “Considera, ad esempio, i processi che chiamiamo ‘giochi’. Enumera i giochi di scacchiera, i giochi di carte, i giochi di palla [...]”. Giochi diversi, una pluralità. Il problema di Wittgenstein è di arrivare a vedere cosa li tiene assieme, cosa hanno in comune. È il problema che anche gli studiosi dei giochi, dal loro punto di vista, affrontano: così Johan Huizinga nel suo pionieristico Homo ludens del 1939, e così, soprattutto, Roger Caillois nella fondamentale sintesi del 1958 (I giochi e gli uomini), due date tra le quali si sviluppa in Francia un 59


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dibattito che vede intervenire anche il linguista Émile Benveniste.5 Wittgenstein procede per conto proprio dentro la sua biografia intellettuale: non mostra di avere incontrato in alcun modo l’opera di Huizinga (nonostante la conferenza da questi tenuta a Londra nel 1937).6 Il paragrafo 66 delle RF, tanto citato dai commentatori quanto poco analizzato rispetto alla questione specifica del gioco, si conclude con le seguenti parole: “Il risultato di questo esame suona: vediamo una rete complicata di somiglianze che si sovrappongono e si incrociano a vicenda. Somiglianze in grande e in piccolo”. Nei cinque paragrafi successivi (67-71) il discorso si sposta sulle somiglianze, e in particolare su quelle che Wittgenstein battezza “somiglianze di famiglia”. È uno dei principali fulcri del suo pensiero, come tutti riconoscono, che entra in modo indelebile nel dizionario filosofico successivo (ovviamente di matrice wittgensteiniana) e negli effetti culturali ad ampio raggio che esso produce. Non mancheranno gli studiosi, italiani compresi, che servendosi anche delle Osservazioni sui colori del 1950-51 e di altri testi dell’ultima fase metteranno in giusta luce i legami di parentela tra Wittgenstein e l’opera di Goethe sulle somiglianze naturali.7 Non è però secondario che Wittgenstein ci arrivi riflettendo sui giochi (sul che si è detto assai poco o nulla, come se appunto fosse del tutto secondario). Ed è, inoltre, del tutto centrale il rapporto che Wittgenstein istituisce, nel paragrafo 71, tra il “concetto di gioco” (così lo chiama) e l’immagine fotografica (il ritratto fotografico di una persona) a proposito della questione dei “rapporti sfumati”. Vale qui la pena di citare le domande con cui 5. Cfr. J. Huizinga, Homo ludens (1939), trad. di A. Vita, con introduzione di U. Eco, Einaudi, Torino 19732; R. Caillois, I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine (1958, 19672), trad. di L. Guarino, a cura di G. Dossena, Bompiani, Milano 1981; É. Benveniste, Il gioco come struttura, “Deucalion”, 2, 1947 (cfr. la trad. di G. Bianco in questo fascicolo di “aut aut”). 6. La conferenza di Huizinga è originariamente il discorso di rettorato tenuto a Leida nel 1933, ripetuto a Zurigo e Vienna, e infine a Londra con il titolo The Play Element of Culture (cfr. la trad. dall’olandese di A. Liberati in questo stesso fascicolo di “aut aut”). 7. Cfr., tra gli studi italiani, il volume di M. Andronico, Antropologia e metodo morfologico. Studi su Wittgenstein, Città del Sole, Napoli 1998.

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Wittgenstein inizia il paragrafo: “‘Ma un concetto sfumato è davvero un concetto?’ Una fotografia sfocata è davvero il ritratto di una persona? È sempre possibile sostituire vantaggiosamente un’immagine sfocata con una nitida? Spesso non è proprio l’immagine sfocata ciò di cui abbiamo bisogno?”. Leggendo queste righe, chi ha qualche dimestichezza con Freud (mi scuso della breve deviazione che indica una pista laterale, tuttavia anch’essa utilmente percorribile) ricorderà le considerazioni sul lavoro di condensazione onirica contenute nella Interpretazione dei sogni, in cui Freud chiama in causa – per dare un’idea del processo di formazione dell’immagine nel sogno – i procedimenti di sovrapposizione fotografica adoperati da Francis Galton e applicati a serie di ritratti di famiglia come se li riproducessimo stampandoli l’uno sopra l’altro.8 Il lavoro di identificazione attraverso i vantaggi offerti dalla sfocatura delle immagini, che Wittgenstein ipotizza, non appare così distante da quello richiamato da Freud. Ma a Wittgenstein interessa la realtà comune, non il processo del sogno, e soprattutto vuole farci vedere che è opportuno mettere in oscillazione l’idea di concetto. Attraverso l’uso grafico del corsivo e delle virgolette (“concetto”) ci indica la necessità di togliere a questa idea i suoi contorni rigidi per potere “osservare” meglio la realtà. Nell’affermazione, “spesso è proprio l’immagine sfocata ciò di cui abbiamo bisogno”, il gioco entra in vari modi. Vi entra poiché a essa Wittgenstein arriva proprio per tentare di risolvere il problema della diversità dei giochi. E anche perché appartiene al gioco stesso l’esigenza di una mobilità che si contrappone all’immagine fissa e normale del concetto, e che risulta opportuna come suo correttivo. Senza questa oscillazione/mobilità/sfocatura non ci sarebbero – come è chiaro – né alcun gioco né alcuna teoria capace di trattenere in qualcosa di unitario la somiglianza dei giochi. Vi entra, infine, perché tale esigenza chiede, nell’economia 8. Cfr. S. Freud, L’interpretazione dei sogni (1899), in Opere, a cura di C.L. Musatti, Boringhieri, Torino 1967, vol. III, p. 135.

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stessa del discorso di Wittgenstein (cioè, nel suo complessivo processo di pensiero), l’individuazione di altri giochi linguistici che siano più adeguati e sostituiscano il concetto di gioco e in generale l’idea abituale di concetto. Adoperando termini meno sintonici con la grammatica filosofica di Wittgenstein, direi che – se osserviamo bene – il gioco compare sia dalla parte del soggetto sia dalla parte dell’oggetto, disegnando un tipico nodo paradossale (muddle, “pasticcio”, come lo chiamerebbe Gregory Bateson, il quale non era certo insensibile alla questione che stiamo discutendo). Nel finale del paragrafo 71, Wittgenstein si esprime così: “Qui l’esemplificare non è un metodo indiretto di spiegazione – in mancanza di un metodo migliore. Infatti, anche ogni definizione generale può essere fraintesa. In questo modo, appunto, giochiamo il gioco. (Intendo il gioco linguistico con la parola ‘gioco’)”. Sono molto rari i passi delle RF (e ancor più rari quelli dei Quaderni blu e marrone) in cui Wittgenstein riporta la sua nozione di “gioco linguistico” a quella comune di “gioco”. Questo che ho appena citato è uno dei pochi. Il paragrafo 66, sul quale tornerò tra un momento, è quello più significativo. Ma vale la pena di ricordare anche le affermazioni contenute nei primissimi paragrafi dell’opera, quando Wittgenstein introduce la sua ipotesi di gioco linguistico discutendo l’idea di significato di Agostino (Confessioni, I, 8). A proposito del carattere ristretto di una descrizione, scrive nel paragrafo 3: “È come se uno desse a qualcun altro questa definizione: ‘Il giocare consiste nel muovere cose su una superficie, secondo certe regole [...]’ – e noi gli rispondessimo: sembra che tu pensi ai giochi fatti sulla scacchiera; ma questi non sono tutti i giochi”. A commento, osservo che ci sono buoni motivi per credere che il “tu”, cui Wittgenstein si rivolge, altri non sia che Wittgenstein stesso che risponde ai dubbi che ho sollevato sopra (servendomi dell’interpretazione di Black). Nel paragrafo 7, dopo gli esempi del muratore e del bambino che nomina gli oggetti, Wittgenstein fornisce la sua definizione di gioco linguistico: questi giochi linguistici, dice, coprono l’intero processo dell’uso delle parole per cui “si potrebbe chiamare gio62


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co linguistico anche il processo di nominare i pezzi e quello consistente nella ripetizione, da parte dello scolaro, delle parole suggerite dall’insegnante. Pensa a taluni usi delle parole del gioco giro-giro tondo”. Sempre nell’economia della pista che sto seguendo, mi pare rilevante il fatto che Wittgenstein citi un secondo gioco (accanto all’esempio standard degli scacchi), cioè il girotondo, che sintomaticamente si riferisce al mondo dei bambini. Qui non importa tanto l’opposizione tra gioco adulto (gli scacchi) e gioco infantile (il girotondo), anche se l’allargamento della nozione attraverso l’esempio di un gioco infantile è molto indicativa (cfr. paragrafo 3), quanto l’evidenziazione di una possibile e probabile genealogia. Infatti, è lecito chiedersi come entri il tema del gioco in un pensiero, come quello di Wittgenstein, che sembra per tanti aspetti il meno adatto a ospitare l’oscillazione e l’imprevedibilità di questa esperienza. Un gioco e un giocare – si osservi – che non hanno nulla a che fare con i giochi matematici e le loro strategie, che appaiono molto lontani dagli interessi che Wittgenstein comincia a sviluppare nel momento stesso in cui mette in tensione linguaggio e gioco. Ricorderò solo che, terminata la guerra, mentre sta rifinendo per la stampa il testo del Tractatus, che viene pubblicato nel 1921, Wittgenstein inizia a insegnare ai bambini di Trattenbach, un villaggio della Bassa Austria, e che continuerà a farlo per qualche anno spostandosi in vari villaggi di montagna. “Un giovanotto completamente pazzo”, secondo una delle testimonianze locali raccolte molto tempo dopo. Pazzo o no che fosse, questo strano maestro, insieme molto amato e non poco odiato, ha lasciato tracce della sua personalità che si sono poi conservate per generazioni in quei villaggi. Comunque non ci sono dubbi sull’estrema serietà con cui Wittgenstein entra nel suo ruolo, come attesta anche il suo Dizionario per le scuole elementari (stampato nel 1926)9 in cui raccoglie duemilacinquecento voci basandosi sulle parole

9. Cfr. L. Wittgenstein, Dizionario per le scuole elementari (1926), trad. a cura di D. Antiseri, Armando, Roma 1978. Cfr. anche, per le reazioni all’insegnamento di Wittgenstein, l’introduzione del curatore.

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d’uso corrente nelle comunità dove si era trovato a insegnare, e rivolgendo l’attenzione soprattutto alla grafia e all’incrocio tra lingua e dialetto. Dal Dizionario si evince più di qualcosa delle tecniche adoperate da Wittgenstein perché i bambini imparassero a scrivere e a pronunciare correttamente le parole. La futura presa di posizione sul linguaggio come complesso di pratiche d’uso trova in esso (e nell’esperienza che sintetizza) un radicamento concreto, difficile da negare. Come è altrettanto innegabile che Wittgenstein vi tragga molti materiali di osservazione sul mondo dei bambini che si associa sicuramente al suo interesse per il gioco. I tanti esempi di cui sono costellati i testi successivi, fino alle RF e oltre, comprovano l’intensità di questa provenienza. Osserva i vari tipi di gioco – dice dunque Wittgenstein al suo immaginario interlocutore nel famoso paragrafo 66. Sforzati di guardare e osservare ciò che avvicina i giochi e ciò per cui sono diversi, facendo tacere ciò che hai già in mente. Comincia dai giochi di scacchiera e osserva le affinità. Quindi passa ai giochi di carte: qualcosa si conserva rispetto ai primi ma molti elementi scompaiono e nuovi tratti si danno a vedere. Se adesso ti rivolgi ai giochi di palla, ciò che è andato perduto rispetto ai giochi di scacchiera è assai più di quel poco di comune che si è mantenuto. Dirai che dappertutto c’è competizione, cioè un vincere e un perdere, ma quando il bambino butta la palla contro il muro e poi cerca di riacchiapparla, anche questa caratteristica sembra sparita. Dirai che dappertutto c’è abilità, ma poi dovrai di nuovo ammettere che la parte della fortuna può diventare sempre più grande e perfino dominante... Ho già ricordato le conclusioni del paragrafo: secondo Wittgenstein dobbiamo venire a capo dell’incrocio delle somiglianze e procurarci di conseguenza una nuova idea di somiglianza. Ma il paragrafo 66 – l’unico delle RF dove Wittgenstein parla solo di giochi – mette in movimento altre considerazioni e solleva alcuni problemi. Per esempio, la parola “divertente” viene ripetuta in due momenti chiave del testo ed è scritta appunto in corsivo e tra virgolette, come se Wittgenstein volesse attirare la nostra attenzione proprio su di essa. Mentre sta invitando a cercare, e cercan64


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do lui stesso, qualcosa di comune ai vari tipi di gioco, ci chiede e si chiede: “Sono tutti ‘divertenti’?”. E quando, ancora una volta chiama in causa il girotondo, adesso il suo interesse non è più rivolto alle parole del girotondo (cfr. paragrafo 7) bensì al fatto che nel girotondo sono spariti tutti i tratti caratteristici che avevamo individuati negli altri giochi. Tutti tranne uno: appunto il divertimento.10 Non mi risulta che Wittgenstein abbia approfondito la questione del divertimento, tuttavia è evidente che la collega strettamente al gioco, come se dicesse: se non c’è divertimento non c’è gioco, e soggiungesse: come ci insegnano i bambini. Allora, se le cose stanno così, si produce un effetto che va a toccare l’intero apparato dei giochi linguistici e ci impedisce di tradurre questa locuzione con un’altra del tipo: regole d’uso del linguaggio. (Come invece vorrebbe la stragrande maggioranza dei commentatori, i quali hanno soprattutto fretta di mettere fuori gioco la parola stessa “gioco” e le esperienze connesse.) Questa sostituzione, quanto meno, toglierebbe di mezzo l’essenzialità del divertimento. Al proposito, e per inciso, osservo anche che tra le varie e interessanti interpretazioni della modalità di scrittura scelta da Wittgenstein (questa specie di dialogo immaginario a specchio) non figura l’ipotesi secondo cui saremmo di fronte all’allestimento di uno spazio di gioco, a una sorta di teatro in cui il divertimento mantiene sempre la sua parte. Quanto ai problemi che si annidano nella ventina di righe del paragrafo 66, se lo leggiamo mettendoci dalla parte del gioco, il più appariscente è quello della classificazione che Wittgenstein propone e di cui pare accontentarsi. Scacchiera, carte e palla sono degli indicatori importanti per entrare nel mondo dei giochi, forse sono necessari ma non sono sufficienti. Così come risultano insufficienti i pochi cenni, non certo irrilevanti, che Wittgenstein 10. Sulla questione del “divertimento” si può vedere, per un confronto, il paragrafo 140 della Grammatica filosofica. Il mutamento del punto di vista si misura con il fatto che allora Wittgenstein distingueva nettamente tra gioco in sé ed effetti che esso produce (o dovrebbe produrre) su di noi, separando regole e scopo, mentre nel paragrafo 66 delle RF il divertimento è piuttosto un carattere proprio del gioco.

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dedica alle differenze tra i vari tipi di gioco. Il discorso è solo abbozzato e sembra che Wittgenstein si accontenti di un rimando veloce a mo’ di esempio generico. Quello che gli interessa è altro. Non prende troppo sul serio l’universo complesso dei giochi, né il rapporto che pure vede tra gioco infantile e gioco adulto. Passa oltre. Ma la pista che sto suggerendo, e che riguarda il non detto della nozione di “giochi linguistici”, non autorizza questa fretta. Al contrario dobbiamo rallentare l’osservazione, e vedere, accanto alla questione del divertimento, una proliferazione di problemi e di effetti teorici. È opportuno quindi spostarsi su un altro tavolo e cedere la parola a chi ha tentato di orientarsi in maniera più specifica nella “piattaforma girevole”11 dei giochi. Che, come lo stesso Wittgenstein intuisce bene, non comprende solo l’agonismo ma anche l’alea. Che, inoltre, ha a che fare con la maschera e con la vertigine, e che, infine e soprattutto, è una piattaforma in movimento, cioè appunto girevole. È girevole non solo perché i vari caratteri del gioco si danno continuamente la mano e dunque scivolano l’uno nell’altro, ma anche in ragione di uno svolgersi di tali forme, o meglio grazie ai mutamenti delle tonalità via via dominanti in cui vengono a intrecciarsi, in una dimensione di ordine temporale e storico. Cercherò di avvicinarmi almeno un poco a questi problemi nel paragrafo conclusivo. Fin da ora, comunque, vorrei che fosse chiaro che la mia pista chiede un lavoro di va e vieni. Intendo un debordamento da Wittgenstein alle riflessioni specifiche sul gioco e sui giochi, per poi tornare alle pagine di Wittgenstein, costruendo in questo modo delle reazioni che spero virtuose, e di cui infine proporrò un esempio – che a me sembra molto significativo – facendo alcune osservazioni intorno alla finzionalità.

11. La definizione di piattaforma girevole è di Marguerite Yourcenar e si riferisce a Caillois (cfr. il suo discorso commemorativo del 1981, tradotto come postfazione a R. Caillois, Babele, Marietti, Genova 1983). Rimando, in proposito, al capitolo “L’isola incerta”, dedicato a Caillois, nel mio volume Il paiolo bucato. La nostra condizione paradossale, Raffaello Cortina, Milano 1998, pp. 68-83.

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3. Andata e ritorno Come prima sponda, ci si può appoggiare alle conclusioni cui approda Caillois nella sua indagine sui giochi. I giochi e gli uomini ha alle spalle Homo ludens di Huizinga e condivide il terreno con altre indagini, per esempio quelle di taglio fenomenologico (cfr. Eugen Fink),12 senza contare il filone che parte da Freud e attraversa la psicanalisi novecentesca fino a Winnicott (e che Caillois non considera). In ogni caso, troviamo in questo libro una quadrettatura del territorio dei giochi che rimane a tutt’oggi un riferimento prezioso e che funziona bene come termine di paragone rispetto alla frettolosa mappatura di cui si serve Wittgenstein. Quadrettatura è la parola giusta. La carta disegnata da Caillois è a quattro colori: si tratta – come è noto – dell’agon, dell’alea, della mimicry e dell’ilinx. Questo quadrato (che funziona come un cerchio in movimento costituito da spicchi) è anticipato (e orientato) da una bipartizione preliminare che attiene a una sorta di doppia anima dei giochi, una parte più “adulta” legata alla competizione (che Caillois battezza ludus) e una parte più “infantile” connessa al movimento rapido e perfino sfrenato (la paidia). Queste due anime appartengono a tutti i giochi secondo un più o un meno di regolatezza (o di sregolatezza), e quindi si ritrovano in ciascuna delle quattro suddivisioni in cui Caillois propone di raccogliere la grande massa dei giochi praticati dagli uomini. Aggiungo, per completare questo schizzo schematico, che il tratto storico è percepibile nel fatto che due dei quattro colori (come li ho chiamati) sono oggi più vividi e attuali (l’agon e l’alea), mentre gli altri due (la mimicry e l’ilinx) sono diventati più tenui e hanno perduto molto del loro carattere originario: restano sulla piattaforma ma in modo spesso defilato, in una specie di secondo piano o di sfondo. È molto probabile che Caillois risponda così al quesito implicito posto da Huizinga in un magistrale capitolo della sua opera 12. Cfr. E. Fink, L’oasi della gioia. Idee per una ontologia del gioco (1957), trad. a cura di A. Masullo, Edizioni 10/17, Salerno 1987.

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(il secondo) in cui passa in rassegna una quantità sorprendente di significati e usi che la parola “gioco” ha nelle varie lingue e culture del mondo, mettendoci sotto gli occhi – si potrebbe dire – la varietà sterminata di giochi linguistici cui esso dà luogo. Caillois pluralizza la nozione e chiude un dibattito quasi ventennale negando che ci possa essere una definizione unitaria del concetto di gioco, come Huizinga ipotizzava. E affermando, invece, che i giochi reali possano essere organizzati in una topografia, non esaustiva ma necessaria e utile. Traccia dunque dei confini mobili, ma pur sempre confini, nella impressionante varietà di usi che la stessa analisi di Huizinga aveva squadernato. Non sfuggiranno al lettore gli evidenti relais con le preoccupazioni, in proposito, fatte proprie da Wittgenstein nell’orizzonte teorico delle RF. Sono però altrettanto evidenti le diversità. Innanzi tutto, il fatto che in Caillois il campo si allarga notevolmente e altrettanto sensibilmente si complica. “Non pensare, osserva”, ammoniva Wittgenstein nel paragrafo delle RF che abbiamo sviscerato. E pare proprio che Caillois lo ascolti fino in fondo, come farebbe un allievo tutt’altro che anomalo o recalcitrante. Se infatti osserviamo i giochi assieme a Caillois, ci accorgiamo, per esempio, che la distinzione tra gioco infantile e gioco adulto non solo va articolata e messa alla prova, ma alla fine va revocata in dubbio, se dobbiamo ammettere che non ne sappiamo abbastanza del gioco infantile e parimenti non ne sappiamo abbastanza del gioco adulto, e che via via che procediamo con l’osservazione questa divisione si assottiglia sempre di più fino a farci dubitare dell’opposizione stessa bambino/adulto relativamente ai giochi. I tipi di gioco, suggerisce Caillois, prescindono da questo schema semplice (adottato anche da Freud), e rivelano invece la gamma degli incroci tra agon e alea, la necessità di connettervi la maschera (che muove tutti i giochi di imitazione o mimicry), riconoscendo a quella temporanea perdita di sé che è il teatro (come prestazione consistente nell’assumere uno o più ruoli) un tratto essenziale del giocare. E rivelano infine la necessità di includere il rischio (ilinx, vertigine) quale carattere irrinunciabile del giocare stesso. Quest’ultima mossa, che Caillois propone, facendo ovvia68


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mente tesoro di tutta la sua formazione intellettuale (post-surrealistica, batailliana ecc.), riabilita l’azzardo, sempre combattuto e penalizzato nella cultura cristiana e post-cristiana, e pur sempre praticato in ogni dove. Dunque, al divertimento – individuato e subito lasciato al margine da Wittgenstein – Caillois aggiunge il rischio, la teatralità e l’affidamento alla sorte: conferma l’agonismo, ma è un agon che nella sua piattaforma girevole ha sempre a che fare in qualche misura con tutti e tre i caratteri che ho appena ricordato. Anche Wittgenstein riconosce il carattere “arbitrario” dei giochi linguistici (e quindi dei giochi), però si limita il più delle volte a enunciarlo, senza farlo diventare un perno teorico. Così come lo stesso Wittgenstein intuisce talora che nel gioco agisce il paradosso dello stare nello stesso tempo dentro e fuori dalla cosiddetta realtà, ma non assume questo paradosso come tema della sua osservazione (cosa che poi faranno esplicitamente Bateson e Erving Goffman). Nessun gioco è semplice come appare, ci ricorda Caillois costruendo la sua macchina topografica. La quale viene già prefigurata in apertura della sua ricerca, quando propone un elenco sintetico (e all’apparenza alquanto borgesiano) delle prerogative del gioco, che sarebbero quelle di essere libero, separato, incerto, improduttivo, regolato, fittizio. Esaminiamo, allora, questo elenco (o almeno cominciamo a farlo) a vantaggio dell’ipotesi di lavoro che sto avvistando: si tratta per me – lo ripeto – di riflettere sui movimenti di andata e ritorno che si rendono possibili rispetto a Wittgenstein, tenendo presente che Caillois è solo uno dei termini di paragone, per quanto molto indicativo. L’incertezza e l’improduttività del gioco trovano pochi significativi riscontri nel testo di Wittgenstein. Possiamo forse vedervi qualche relais con l’incertezza, ma se poi incertezza vuol dire sfida, rischio e azzardo, come Caillois evidenzia, allora Wittgenstein diventa quasi del tutto recalcitrante. Ma lo stesso vale anche per l’improduttività, che Caillois contrappone in positivo come “dispendio” alla marca in genere negativa applicata tradizionalmente al gioco in quanto attività “gratuita”. Anche per Wittgenstein il gioco è disinteressato ma si ha l’impressione che questo 69


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aspetto di gratuità non faccia per lui problema, il che gli impedisce verosimilmente di elaborare un rapporto credibile tra l’improduttività del gioco e il suo radicamento pervasivo nelle forme di vita e negli usi effettivi dell’agire linguistico: un rapporto tra gratuità e incidenza determinante del gioco nelle pratiche e negli usi sociali. Delle sei prerogative individuate da Caillois, la prima (il gioco è libero) e la quinta (il gioco è regolato), che affiancate producono l’effetto più paradossale ed enigmatico dei giochi, sono quelle che sembrano consentire un’andata e ritorno più agevole rispetto ai problemi di Wittgenstein. Come è noto, la questione delle regole occupa e preoccupa a lungo Wittgenstein che vi si sofferma anche in un’ampia sezione delle RF, specificamente dedicata al “Seguire la regola” (paragrafo 143 e seguenti, paragrafo 185 e seguenti). Che il gioco, per essere tale, debba essere libero, è il presupposto sottolineato da tutti gli studiosi dei giochi (e, beninteso, anche da Caillois). Come può allora essere regolato? In questo dilemma il movimento oscillante e paradossale della nozione si verifica in modo speciale. Ognuno dei due poli rimbalza continuamente sull’altro, in una sorta di sintesi disgiuntiva che li modifica a ogni giro, passando dalla regolazione dell’esperienza libera alla – diciamo così – liberazione della regola: nessun gioco è completamente libero e nessuna regola può mai essere esterna. Il movimento paradossale che si realizza, gioco per gioco, trova qui la sua rappresentazione più cospicua. Quanto a Wittgenstein, la regola non può mai essere esterna o coercitiva, perfino quando si tratti di un semplicissimo enunciato aritmetico: sarà sempre una regola pragmatica, interna e anche mobile. Questa mobilità (ovvero il lato libero) è per lui socialmente determinata, relativa al contesto del gioco linguistico. L’addestramento e l’abitudine alla regola forniscono un indice di normalità, ma nulla esclude che tale indice, in un contesto variato, cioè in una possibile e diversa forma di vita, possa risultare modificato e perfino rovesciato. Questo orizzonte di possibilità aperta non è solo un antidoto nei confronti della fissazione della 70


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regola (di uno iato tra la regola e il seguire la regola), ma anche la spia del fatto che Wittgenstein non pensa che si possa separare il linguaggio dal gioco, e soprattutto dell’importanza che attribuisce – pur senza metterla a tema esplicito – all’efficacia del gioco stesso come operatore di libertà. È un aspetto cruciale della nostra pista, che andrebbe ulteriormente indagato. Il carattere separato del gioco sembra invece quello rispetto al quale Wittgenstein risulta meno sensibile. Non lo prende in considerazione (tranne, forse, molto indirettamente, quando ci presenta i giochi linguistici come “termini di paragone”, istituendo una sorta di tipologia logica che, comunque, almeno a mio parere, non appare mai precisamente individuata), come se vi avvertisse qualcosa di simile a uno di quei vizi filosofici (o mentali) da cui vuole sgombrare il campo. Tutti gli studiosi del gioco, senza distinzione di appartenenza teorica, insistono al contrario sulla separatezza del gioco come esperienza capace di istituire e circoscrivere un proprio spazio e un proprio tempo. O, se rovesciamo lo sguardo, capace di produrre un’alterazione delle esperienze abituali relative allo spazio e al tempo. Anche questo aspetto della pista è importante da approfondire, sebbene o proprio perché non ha un ritorno rilevabile nel testo di Wittgenstein. A partire da Huizinga, gli “osservatori” del gioco vedono un passaggio che la fenomenologia ha chiamato sospensione delle abitualità (e che Fink battezza addirittura “oasi”): si tratta dell’esperienza comune a ogni giocatore secondo la quale, entrando nel gioco, si entra in uno spazio e in un tempo speciali e contemporaneamente si produce una distanza dalle normali condizioni di “realtà”. Ho approfondito altrove la questione specifica di questo carattere del gioco.13 Qui mi limito a sottolineare che esso riguarda le regole del gioco e che di conseguenza investe il punto di teoria più interessante, relativo alla virgolettatura, per dir così, della realtà abituale. Goffman ci ha insegnato molto in proposi-

13. Rimando alle mie considerazioni contenute nel volume Per gioco. Piccolo manuale dell’esperienza ludica, Raffaello Cortina, Milano 1993 (con Alessandro Dal Lago), e in La scuola dei giochi, Bompiani, Milano 2005 (con Davide Zoletto).

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to,14 ipotizzando un confine sottilissimo e permeabile tra due ordini di realtà, rispetto ai quali è possibile (e, anzi, necessario) osservare uno scorrimento nei due sensi, di volta in volta regolato. Non basta, certo, dire che lo spazio di gioco è uno spazio indebolito e semplificato: occorre sottolineare, al contrario, che è uno spazio di realtà tale da permettere, se lo si valorizza, una mobilizzazione della realtà cosiddetta comune, insomma un intervento virtuoso su alcune delle sue rigidità. Perciò è così importante nella formazione e nell’insegnamento, poiché interviene proprio sulle pratiche abituali di pensiero: ci aiuta – in sintesi – a pensare, dilatando e perfino rompendo gli schemi che – come Wittgenstein sa benissimo – bloccano tali pratiche. Mi limito ad accennare alla questione, che riguarda tutta la piattaforma girevole di Caillois, non solo qualcuno dei suoi spicchi, e che problematizza l’entrare nel gioco come un’esperienza decisiva e complessa in cui ne va, tra l’altro, della capacità di mettersi in gioco. Wittgenstein non prende in considerazione la decisività teorica di questo passaggio e ci fornisce piuttosto l’idea che noi viviamo già all’interno di un nodo di giochi linguistici che si tratta di riconoscere e analizzare. Ma non è completamente vero che le cose per lui stiano proprio così, e vorrei concludere queste mie note richiamando l’attenzione sull’ultima delle prerogative del gioco elencate da Caillois, il suo essere fittizio, e intravvedendo un relais tra questa prerogativa e ciò che Wittgenstein chiama “immaginare”. Che il gioco sia fittizio si apparenta strettamente con l’osservazione che il gioco è qualcosa di separato. Ma, appunto, la difficoltà teorica che, abbiamo visto, riguarda una sorta di raddoppiamento dell’idea di realtà, si trasferisce da una prerogativa all’altra e ci mette di fronte a tutte le ambiguità della parola fittizio. Mentre i filosofi (come in fondo lo stesso Fink) in genere si attardano sulla coppia apparenza/realtà, per sganciare il carattere fit-

14. Cfr. E. Goffman, Espressione e identità (1961, titolo originale Encounters), Mondadori, Milano 1979, in particolare la prima parte intitolata “Divertimento e gioco”. In proposito vedi il capitolo “Una sottile membrana” nel mio Il paiolo bucato, cit.

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tizio del gioco dalla dimensione della fantasia, della semplice invenzione, o del puro sogno (e su quest’ultimo farebbero bene ad ascoltare con più attenzione Freud e la psicanalisi), proprio da quel filosofo quanto meno recalcitrante che è Wittgenstein ci si potrebbe aspettare una chiarificazione attraverso l’analisi degli usi linguistici di questa parola sfuggente. La stessa idea di “fantasia” collegata al giocare in un noto saggio di Freud,15 ci porterebbe fuori strada se non fosse poi bilanciata dall’ipotesi della pratica inconscia. Certo, il gioco ha a che fare con l’inconscio, però è altrettanto vero che l’inconscio stesso ha a che fare con il gioco. Qui, tuttavia, la questione riguarda specificamente l’oscillazione dell’idea di realtà. Se, giocando, assumo un ruolo (e di fatto imparo ad assumere vari ruoli, anche quelli meno vicini alla mia supposta identità), questi “colpi di teatro”, come li chiamerei, non sono semplici voli della fantasia, bensì esperienze effettive provviste di una loro realtà, nonché di una loro appartenenza al contesto sociale e intersoggettivo. La conclusione (problematica) è che fittizio, in questo ambito, non equivale ad apparente ma è una dimensione dell’esperienza reale che il gioco ci permette di scoprire e valorizzare. Wittgenstein non analizza i relativi giochi linguistici (dove, ancora una volta, la nostra pista chiederebbe di andare oltre e di completare il lavoro), però usa continuamente e in modo molto rilevante la dimensione del fittizio. Restando all’orizzonte dei giochi linguistici e al contesto delle RF (si potrebbero trovare parecchie conferme altrove e in altri contesti),16 osserviamo solo quante volte Wittgenstein inizia un paragrafo rivolgendosi così al suo (immaginario) interlocutore: “Immagina ora un gioco lingui-

15. Cfr. S. Freud, Lo scrittore e il suo fantasticare (1908), e in particolare la traduzione di A. Sciacchitano della parte dedicata al gioco in “aut aut”, 295, 2000, pp. 130-133. 16. Cfr., per un primo approccio, le pagine relative alla questione dell’immaginare nel citato saggio di M. Andronico, Giochi linguistici e forme di vita. Ma sarebbe anche opportuno riflettere seriamente sulle osservazioni sparse che Wittgenstein ha dedicato al sogno e a Freud negli ultimi anni (cfr. L. Wittgenstein, Pensieri diversi, 1914-51, trad. a cura di M. Ranchetti, Adelphi, Milano 1987).

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stico...”. Questa mossa si contrappone forse al monito di approfondire l’osservazione? Per nulla, anzi paradossalmente lo rinforza. Aiuta a sgretolare la fissità di ciò che viene osservato (riferiamoci, ancora, al paragrafo 66 dove l’osservato è il gioco stesso nelle sue varietà) e anche, come è evidente, la fissità dell’osservatore che dovrebbe liberarsi dai suoi “pensieri”. Non vi sono dubbi che Wittgenstein attribuisca alla capacità di immaginare nuovi giochi linguistici un valore, diciamo, “terapeutico” e in definitiva un acquisto di libertà. A mio parere, non vi dovrebbero essere neanche dubbi sul fatto che questo immaginare non è esterno al gioco, bensì appartiene alle prerogative del gioco stesso. Ecco un sentiero decisivo. Se lo imboccassimo, pur caricandoci di tutte le asperità che esso annuncia, potremmo forse produrre una piccola esplosione nel modo comune di intendere la partita che Wittgenstein ci invita a giocare, liberandolo da un certo appiattimento realistico. E, se è la stessa relativa inconsapevolezza di Wittgenstein (rispetto al gioco e al giocare) che ci sospinge in questo cul-de-sac, dobbiamo riconoscere, in ogni caso, che Wittgenstein esercita il gioco e lo mette in causa – come abbiamo visto – ben al di là delle sue sparute affermazioni.

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Il professor Benveniste contro gli analogisti. Sulla differenza tra gioco e sacro GIUSEPPE BIANCO

Se moquer de la philosophie c’est vraiment philosopher. Pascal, Pensées

l gioco come struttura fu pubblicato la prima volta nel 1947, nel secondo dei sei “quaderni di filosofia” della rivista “Deucalion”, uscita tra il 1946 e il 1957 sotto la direzione di Jean Wahl.1 La rivista, assieme alla fondazione del Collège de philosophie, faceva parte di un ampio progetto di “rinnovamento filosofico” che mirava a ritessere i legami intellettuali interrotti dal conflitto all’insegna dell’interdisciplinarità. Wahl, che aveva insegnato filosofia in svariate università prima di approdare definitivamente alla Sorbonne nel 1937, si era situato in una posizione prudentemente eccentrica rispetto al mondo accademico, facendosi coinvolgere in molti circoli dell’avanguardia intellettuale parigina. Appassionato di poesia, aveva collaborato assiduamente con la “Nouvelle Revue Française” durante gli anni trenta; aveva inoltre contribuito a introdurre nella filosofia francese autori allora poco conosciuti come Hegel, Heidegger e Kierkegaard. In esilio negli Stati Uniti durante l’occupazione, aveva collaborato a due riviste stampate in zona libera, “Confluences” e “Fontaine”, le cui edizioni pubblicarono anche “Deucalion”. La rivista costituiva in effetti la prosecuzione dell’utopia2 di fraterno sincretismo che aveva riunito

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1. É. Benveniste, Le jeu comme structure, “Deucalion”, 2, 1947, pp. 159-167; trad. Il gioco come struttura, in questo fascicolo. 2. Il titolo della rivista non è scelto a caso. Secondo il mito raccontato nel Timeo, Deucalio-

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surrealisti di antica data, intellettuali comunisti e cattolici, fenomenologi ed esistenzialisti sotto lo stendardo della comune opposizione al nazismo. Se i primi due numeri della rivista (1946 e 1947) sono decisamente dominati dal dibattito su Sartre e l’esistenzialismo,3 vi ritroviamo anche articoli di De Broglie sulla fisica nucleare, di Lévinas su Proust, di Wahl su Hölderlin, di Beckett, e di intellettuali difficilmente classificabili o di “transfughi” del surrealismo come Alquié, Bataille e Masson, che ne aveva disegnato il frontespizio. Fu proprio attraverso un ex membro del movimento di Breton, Roger Caillois,4 che Wahl venne in relazione con Benveniste, con il quale aveva forse avuto un primo casuale contatto durante gli anni venti, nell’ambito delle riviste “Philosophies” e “L’esprit”, pubblicate da un gruppo di studenti di filosofia vicini al surrealismo.5 Wahl si era legato a Caillois sin dalla comune collaborazione alla rivista “Recherches philosophiques”, e aveva

ne e Pirra, sopravvissuti grazie a un’arca al diluvio scatenato da Giove contro l’umanità, ripopolarono la terra gettando alle loro spalle delle pietre, le quali diedero vita agli esseri umani. Nell’introduzione al primo numero, del 1946 (pp. 7-9), Wahl si augurava che agli “sconvolgimenti” del periodo della guerra seguissero delle “profonde modificazioni nel pensiero”. La rivista era permeata da uno spirito di eclettismo, proponendosi di dare spazio non soltanto alle “teorie più importanti”, ma a tutte le “componenti eterogenee” della scena intellettuale, oltre che alle altre discipline (“pittori, poeti, scienziati”). L’idea di interdisciplinarità di Wahl affondava le sue radici in un malcelato bergsonismo intriso di romanticismo misticheggiante e in una filosofia del multiplo e del “mosaico” mutuata dal pluralismo americano. 3. Un articolo di De Waehelens su Heidegger et Sartre, due di Wahl su Sartre e l’esistenzialismo (Essai sur un néant d’un problème, L’existentialisme vu de New York), uno di Yvonne Picard su Heidegger et Husserl, una lunga recensione della Fenomenologia della percezione di Roland Caillois e un articolo (il primo articolo pubblicato in francese) di Hannah Arendt sulla Philosophie de l’existentialisme. 4. Caillois, dopo una breve partecipazione al movimento, aveva dichiarato il suo distacco nel 1935 con il pamphlet Procès intellectuel de l’art (ora in Approches de l’imaginaire, Gallimard, Paris 1974). Prima di entrare in contatto con i surrealisti aveva inoltre frequentato un altro gruppo d’avanguardia, “Le grand jeu”. Cfr. la biografia di O. Felgin, Roger Caillois, Stock, Paris 1993. 5. Benveniste scrisse il suo primo articolo (una recensione della traduzione di M. Betz dei Cahiers de Malte Laurids Brigge di Rilke) nel primo numero della rivista “Philosophies” (aprile 1924), Wahl pubblicò la prima traduzione di un brano della Fenomenologia dello spirito di Hegel nel secondo numero di “L’esprit” (1926). Benveniste fece peraltro riferimento al surrealismo nell’articolo Osservazioni sulla funzione del linguaggio nella scoperta freudiana (1955, ora in Problemi di linguistica generale I, 1966, il Saggiatore, Milano 1994).

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seguito da vicino, per conto della “N.R.F.”, la breve vita del movimento “Contre-Attaque”, della rivista fondata da Caillois, “Inquisitions”, oltre che le attività della rivista “Acéphale” e del Collège de sociologie; aveva infine scritto, assieme a Caillois, sulle pagine di “Mésures” e poi di “Fontaine”. A loro volta Benveniste e Caillois si erano conosciuti all’École Pratique des Hautes Études, dove il primo insegnava grammatica comparata dell’indoeuropeo e dell’iraniano e il secondo seguiva i corsi di Kojève, di Marcel Mauss, di Jean Marx, di André Corbin e di Georges Dumézil, amici di Benveniste (e per breve tempo collaboratori delle “Recherches philosophiques”). Al di là del breve riferimento a Caillois nel saggio di Benveniste (e a Benveniste, nel saggio del 1946 di Caillois intitolato Le ludique et le sacré, pubblicato su “Confluences” e riedito con il titolo Jeu et sacré nella seconda edizione dell’Uomo e il sacro), gli scambi tra i due intellettuali si manifesteranno esplicitamente quando Benveniste, coinvolto da Caillois, collaborerà alla rivista di antropologia da lui fondata nel 1952, “Diogène”,6 il cui obiettivo era quello di disegnare un quadro per quelle “scienze trasversali” capaci di comprendere l’unità delle manifestazioni umane. L’articolo di Benveniste pubblicato nel primo numero, del 1952, Comunicazione animale e linguaggio umano – il quale mirava a separare i due fenomeni utilizzando la coppia codice di segnali / linguaggio, pertinenti ai rispettivi campi semiologico e semantico – avrà un’importanza decisiva per Caillois, poiché gli permetterà di operare un clivaggio tra le scienze biologiche e le scienze umane attraverso un’analisi passibile di ri-

6. Con Comunicazione animale e linguaggio umano (1952) e poi con Il linguaggio e l’esperienza umana (1965) (entrambi ripubblicati in Problemi di linguistica generale, cit.). L’influenza del lavoro di Benveniste su quello di Caillois durante gli anni cinquanta è illustrata in maniera convincente da L. Moutout nella sua Biographie de la revue Diogène, L’Harmattan, Paris 2006. È su “Diogène” che Caillois riprende la sua riflessione sui giochi con due saggi che andranno a confluire nel libro I giochi e gli uomini (1958, 19672), Bompiani, Milano 1981 (Structure et classification des jeux, “Diogène”, 12, 1955, pp. 72-88 e Unité du jeu, diversité des jeux, “Diogène”, 19, 1957, pp. 117-144). E sempre su “Diogène” (40, 1962) ritroviamo uno studio dello psicologo Jean Château, autore di riferimento tanto per Benveniste che per Caillois (Règle et turbulence dans le jeu enfantin).

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strutturare la distinzione profano/sacro (fino ad allora utilizzata da Caillois) grazie a quella pulsionale/simbolico. L’articolo di Benveniste sul gioco rimarrà senza replica, perlomeno su “Deucalion”, fino all’uscita dell’ultimo numero della rivista (nel 1957), espressamente dedicato al tema Jeu et poèsie. In questo fascicolo, oltre a un frammento del celebre studio di Eugen Fink sull’ontologia del gioco, venne pubblicato un testo di Suzanne Lilar, Le jeu. Dialogue de l’analogiste avec le professeur Plantanga.7 Qui la drammaturga e saggista olandese menzionava Huizinga, Caillois e Jean Château – autore di due importanti saggi sul gioco e il bambino, usciti poco prima del Gioco come struttura8 – suggerendo di essere al corrente degli sviluppi dei dibattiti degli anni quaranta e cinquanta concernenti il gioco. Le jeu metteva in scena un dialogo tra un’“analogista” e un immaginario “professor Plantanga”, i cui tratti paiono curiosamente ricordare quelli di Benveniste: il professore era infatti accusato dall’autrice di un’eccessiva “predilezione per la classificazione e per ciò che egli [...] chiama lo studio delle strutture formali”. È solo avendo in mente questo quadro d’insieme che è possibile comprendere la posta in gioco dell’articolo di Benveniste, in cui, come in molti altri interventi,9 i rimandi e le allusioni al campo dei saperi a lui contemporaneo sono mascherati da un’apparente semplicità di costruzione e dall’assenza di note, fatta eccezione per quella su Huizinga e Caillois. Tanto la traiettoria intellettuale piuttosto solitaria di Benveniste, quanto il suo temperamento ritroso paiono in effetti andare difficilmente d’accordo con i problemi che agitavano l’inquieta scena filosofica dell’immediato dopoguerra – dominata dai temi “esistenzialisti” – di cui 7. Lilar aveva raggiunto una certa celebrità nel 1954, con la pubblicazione del Diario dell’analogista (Panozzo, Rimini 1991). 8. Le jeu de l’enfant après trois ans, sa nature, sa discipline (Vrin, Paris 1946) e Le réel et l’imaginaire dans le jeu de l’enfant (Vrin, Paris 1946). Nel 1950, Château pubblicherà Il bambino e il giuoco (La Nuova Italia, Firenze 1991). 9. Si vedano a questo proposito le pertinenti analisi di J.-C. Milner nel capitolo III del suo recente Periplo strutturale (2002, Mimesis, Milano 2008). In particolare, Milner tenta di dimostrare, in maniera convincente, l’influenza della ricezione francese dell’hegelismo e del marxismo nei primi scritti di Benveniste.

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“Deucalion” forniva uno spaccato. Diplomato in grammatica all’inizio degli anni venti, dottore nel 1935 con una tesi sull’Origine de la formation des noms en indo-européen, successore del suo maestro Antoine Meillet all’École Pratique des Hautes Études nel 1927 e poi al Collège de France dal 1934 fino agli anni sessanta, Benveniste era noto esclusivamente come uno dei più grandi esperti di grammatica comparata delle lingue indoeuropee e di studi iraniani. La sua fama di studioso di linguistica generale si diffonderà solamente in seguito alla pubblicazione della raccolta Problemi di linguistica generale e a quella del celebre Vocabolario delle istituzioni indoeuropee.10 Il gioco come struttura appartiene invece a una manciata di saggi meno specialistici, pubblicati in riviste di maggiore divulgazione e riguardanti temi più generali.11 Una parte di essi fu raccolta nel primo tomo dei Problemi di linguistica generale, altri, come il saggio in questione, restarono (e restano tuttora) dispersi in svariate riviste.12 10. Pierre Nora, direttore della collana “Sciences sociales” dell’editore Gallimard, dove Benveniste pubblicò i Problemi di linguistica generale, racconta che prima della pubblicazione della raccolta Benveniste aveva avuto soltanto due allievi (cfr. Interview avec Pierre Nora, “Entreprise et Histoire”, 24, 2000). 11. Articoli compresi nella rubrica “Divers” dell’esaustiva bibliografia curata da M.D. Mïnfar nel volume Mélanges linguistiques offerts à Émile Benveniste, Société Linguistique de Paris, Paris 1975, pp. VII-LIII. Prima del saggio del 1947, i libri e gli articoli pubblicati da Benveniste si erano limitati ad ambiti strettamente specialistici. 12. Giorgio Agamben è stato forse l’unico ad aver ripreso, peraltro in alcuni momenti cruciali della sua opera, le feconde intuizioni contenute nel saggio di Benveniste. In “Il paese dei balocchi”, capitolo centrale di Infanzia e storia (Einaudi, Torino 20042), la distinzione tra gioco e rito, tra gioco e sacro (nozione che, com’è noto, occupa un ruolo centrale nella produzione di Agamben) viene fatta coincidere con quella che, nel Pensiero selvaggio, LéviStrauss traccia tra società calde e fredde. Agamben evidenzia come la dialettica tra gioco e rito, tempo dell’evento e tempo dell’eterno presente, costituisca il tempo delle società umane, il tempo storico. Nel recente Profanazioni (nottetempo, Roma 2006), nel capitolo che dà nome al libro, riprendendo lo stesso saggio di Benveniste, Agamben sottolinea come il gioco rappresenti il caso d’essenza della profanazione, il gesto tramite il quale ciò che è sacro, ciò che è separato dal “regno degli uomini”, viene restituito “all’uso e alla proprietà degli uomini”. Agamben oppone l’operazione di “neutralizzazione” e profanazione del sacro propria del gioco alla secolarizzazione, la quale, invece, costituisce una mera rimozione dei concetti teologici e dei legami di potere che essi veicolano. Se entrambe le operazioni hanno un carattere “politico”, la secolarizzazione è strettamente legata all’esercizio del potere, di cui essa si fa garante, mentre la profanazione “disattiva i dispositivi del potere e restituisce all’uso comune gli spazi che esso aveva confiscato”. L’ingiunzione conclusiva di Profanazioni potrebbe allora apparire diametralmente opposta alla conclusione del Gioco come struttura: mentre Benveniste suggerisce la possibilità di una ri-sacralizzazione del gioco, Agamben, esiben-

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“Il gioco, non il giocatore” Questo breve ma incisivo scritto – “oggetto perturbante” e “documento” in un senso squisitamente batailliano13– ha una certa importanza, se non altro per il suo carattere anticipatore. Nel clima culturale francese dell’immediato dopoguerra, dominato dalla filosofia della libertà veicolata da “Les Temps Modernes”, trovare nel rigido paradigma della struttura la chiave della comprensione di un fenomeno quale quello del gioco, fino ad allora legato alla spontaneità, alla gratuità e alla libertà dell’uomo, non era certo all’ordine del giorno.14 È utile a questo proposito ricordare la concezione avanzata nelle ultime pagine dell’Essere e il nulla, dove – partendo dall’esperienza fenomenologica della libertà e dal suo potere di “néantisation” – Sartre opponeva il gioco all’“esprit du sérieux”. Mentre l’uomo serio, che cosifica il suo essere e considera il per-sé alla stregua dell’in-sé, è costretto a subire il determinismo e sfugge alla libertà attraverso le condotte di malafede, il giocatore accetta la sua ambiguità, riconosce di non essere quello che è e, così facendo, assume la responsabilità della sua libertà d’azione. Se non fosse per il fatto che le venti pagine della Brief über den humanismus, che sconvolsero la scena filosofica francese all’alba degli anni cinquanta, sono state pubblicate contemporaneamente al saggio di Benveniste, si potrebbe leggere facilmente una tonalità anti-umanista nelle prime frasi del Giodo la miseria provocata dall’odierno processo di sacralizzazione del gioco attraverso la sua progressiva secolarizzazione, suggerisce invece che “restituire il gioco alla sua vocazione puramente profana è un compito politico” destinato alle generazioni a venire (Profanazioni, cit., p. 88). Se il tempo storico pare essersi arrestato in quell’avvilente eterno presente prodotto dalla religione capitalista, Agamben pare sostenere che il gioco costituisca uno dei pochi modi per sbloccarlo, attraverso la sua carica profanatoria, e dunque creatrice. 13. Cfr. la “Préface” di D. Hollier alla riedizione della rivista Documents (J.-M. Place, Paris 1991), animata da Bataille tra il 1929 e il 1931. 14. Già Château aveva messo in luce il carattere strutturato dei giochi. Tuttavia – aspetto che rende l’approccio di Benveniste di estrema originalità – ciò che sottolineava non era tanto la differenza tra la struttura generale inerente a tutti i giochi e la struttura di altre manifestazioni umane (come per esempio il sacro), bensì le differenze, interne all’insieme delle attività ludiche, tra le strutture di particolari giochi. In sostanza, per lo psicologo, il problema non era il gioco come struttura, ma la struttura di alcuni giochi. Château, che in Le jeu de l’enfant fa precedere al capitolo su “La classification des jeux” un capitolo su “Les structures ludiques”, traccia una “distinzione essenziale [...] tra i giochi non regolati e i giochi che implicano delle regole, delle strutture” (ivi, p. 380).

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co come struttura. Come quando Benveniste, ponendo il senso del gioco nella sua forma e affrancandolo dalle condotte soggettive del giocatore, scrive che “il gioco [...] determina i giocatori, non l’inverso, [...] crea i suoi attori, conferisce loro un posto, un rango, una figura; regola il loro mantenimento, il loro aspetto fisico, li crea addirittura, a seconda del caso, morti o vivi”. Ma, più in generale, ciò traspare dall’accento posto sulla questione “del gioco, non del giocatore”. Nel 1947 nulla poteva far presagire che Derrida, vent’anni dopo, in un convegno a cui Benveniste parteciperà,15 avrebbe presentato una conferenza in cui, legando strettamente il tema del gioco a quello del segno e della struttura, tentava di scalzare il soggetto dal posto centrale che aveva fino ad allora occupato in una certa filosofia francese.16 Né era possibile prevedere lo stesso tipo di operazione, effettuata praticamente nello stesso momento da Deleuze nella Logica del senso, a proposito del carrolliano “gioco ideale”, né l’idea foucaultiana dei “giochi di verità” dei quali il soggetto è più il prodotto che il protagonista. Alla luce della futura prudenza di Benveniste nei confronti della “moda” strutturalista e della sua predilezione per il termine “sistema”, Il gioco come struttura risulta ancora più singolare. L’articolo precede di un anno la discussione della celebre tesi di Lévi-Strauss (ritornato dal suo esilio americano proprio al momento della pubblicazione del saggio), che porterà il termine struttura nel suo titolo.17 D’altronde sin dal primo paragrafo traspare chiaramente l’omologia tra il gesto di Benveniste e quello dell’antropologo. Benveniste rifiuta con decisione la spiegazione 15. Da allora Derrida si servirà innumerevoli volte delle analisi di Benveniste (sul dono, sull’ospitalità, sull’ipseità, sull’etimologia del verbo essere). 16. J. Derrida, “La struttura, il segno e il gioco nel discorso delle scienze umane” (1966), in La scrittura e la differenza (1967), Einaudi, Torino 1998. 17. Benveniste faceva parte della commissione esaminatrice della tesi. D’altro canto, già due anni prima, Lévi-Strauss aveva pubblicato, in uno dei primi numeri di “Word” – la rivista del circolo linguistico newyorchese animato da Jakobson – l’articolo L’analisi strutturale in linguistica e in antropologia (ora in Antropologia strutturale, 1958, il Saggiatore, Milano 2002). Lévi-Strauss renderà omaggio a Benveniste nel saggio (poi citato da Agamben), Mythe et oublie (in J. Kristeva, J.-C. Milner, N. Ruwet, a cura di, Langue, discours, société: pour Émile Benveniste, Seuil, Paris 1975).

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“naturalista” del gioco, la quale parte dall’ipotesi della soddisfazione nel gioco di una “tendenza bio-psicologica” insita nel singolo individuo, e, procedendo invece “inversamente”, mette in primo piano la questione “del gioco, non [quella] del giocatore”. Levi-Strauss effettua la stessa inversione prospettica al suo ritorno dagli Stati Uniti nel 1947, rompendo con l’antropologia biologica del XIX secolo: l’antropologia non è più, come in Comte, la scienza il cui sapere interessa l’individuo concreto, ma l’oggettivazione assoluta dei fenomeni umani che conferisce loro un senso. Tanto l’eterogeneità dei giochi, la loro “immensa varietà”, quanto l’infinita diversità dei legami di parentela o, poco più tardi, quella dei miti, si trova unificata grazie al paradigma della “struttura”, della “totalità chiusa”. La corrispondenza stabilita da Benveniste tra la coppia “forma/contenuto” e quella “gioco/realtà”, la ricerca del “senso” del gioco non tanto nella “finalità” del gioco quanto nella sua particolare “forma”, l’insistenza sulla “convenzionalità” e sull’“arbitrarietà” delle regole, l’idea che vi sia una “logica” e un “linguaggio” propri del gioco, il carattere di totalità differenziale delle regole che “non sono nulla quando sono separate e sono tutto quando sono riunite”, la loro “proprietà strutturante”, rendono evidente l’omologia con il modello fornito dalla linguistica saussuriana che, ciononostante, non è mai nominata da Benveniste. Paradossalmente, sebbene Benveniste parli di struttura tanto per il sacro quanto per il gioco, il gioco pare quasi costituire l’exemplum di una struttura. Il procedimento è soltanto a prima vista analogo a quello adottato da Caillois in I giochi e gli uomini e da Huizinga in Homo ludens (che Benveniste lesse solo in seguito alla redazione del suo saggio), dove l’autore olandese si opponeva alle spiegazioni “psicologistiche” dei comportamenti ludici. Caillois, il quale loda l’approccio di Huizinga nella recensione del 1946, aveva precedentemente adottato esattamente il tipo di analisi “psicologistica” che criticherà poco dopo. Negli studi di sociologia degli anni trenta, come quelli raccolti in Il mito e l’uomo e in La communion des forts, l’attenzione è portata infatti verso gli “istinti profondi” di “natura biologica”, contrapposti alla società; nella fattispecie, 82


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nel saggio Vertiges18 il punto di partenza è proprio una lettura soggettiva del giocatore, la quale è per molti versi analoga a quella data da Freud nel celebre saggio del 1928 su Dostoevskij e il parricidio.19 Nel giocatore d’azzardo, paragonato all’amante e al guerriero, Caillois sottolineava “la voglia del disastro”, l’“alienazione”, la “squisita angoscia” e la fiducia nel “disequilibrio”, contrapposte alla “virtù della giustizia e della regola”. Inoltre né negli studi di Caillois precedenti alla guerra, né in quello di Huizinga, il quale tradisce una retorica dell’“attività volontaria” e delle regole “liberamente consentite”, è percepibile il decentramento soggettivo che invece traspare nettamente nel testo di Benveniste. L’apparente somiglianza del metodo adottato da Benveniste con quello di Lévi-Strauss, per quanto stupefacente, è invece solo frutto di una coincidenza, poiché Benveniste era giunto indipendentemente – attraverso un lento e solitario studio, iniziato vent’anni prima e sfociato prima nella tesi di dottorato e, molto più tardi, nel Vocabolario delle istituzioni indoeuropee – all’incrocio tra scienze sociali e linguistica. Sin dalla tesi aveva tentato di mostrare come la radice indoeuropea dei nomi fosse determinata da regole precise; riprendendo dal suo maestro Antoine Meillet l’idea che la lingua non fosse una sostanza primitiva, ma un sistema dominato rigidamente da regole, Benveniste cercava di stabilire una corrispondenza tra la storia delle strutture sociali indoeuropee e le strutture linguistiche. Per farlo tentava di ricondurre la diversità dei suoni a un tipo unico (proto-indo-europeo); in seguito, ipotizzando che i modelli indoeuropei avessero giocato un ruolo cruciale nella costituzione delle rappresentazioni, avrebbe cercato di stabilire sistematicamente una relazione tra un’istituzione e una categoria di pensiero. Nel Gioco come strut18. Prima incluso in La communion des forts (1941), poi riunito assieme ai saggi appartenenti al volume del 1951 Quatre essais de sociologie contemporaine nella raccolta, del 1964, Instincts et société, essais de sociologie contemporaine. 19. La psicanalisi resta un termine di riferimento, e sovente il bersaglio di critiche, per tutti gli studi psicologici del gioco infantile risalenti agli anni quaranta. Cfr., oltre ai già citati studi di Château, anche il libro di Piaget La formation du symbole chez l’enfant: imitation, jeu et rêve, image et représentation (Delachaux et Niestlé, Paris 1945).

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tura i comportamenti ludici umani nelle loro varietà eterogenee sono ridotti a un’unità dotata di una struttura comune; in seguito è la “varietà semantica” legata al gioco, a essere ridotta a un’unica struttura, la quale ha una storia e delle variazioni (in questo caso ludus e jocus20). Se da una lettura attenta traspare in maniera incontrovertibile che Benveniste avesse letto gli studi psicologici sul gioco di Piaget e Château, immediatamente precedenti alla stesura del saggio, è altrettanto evidente, nel paragone con la “struttura” propria del sacro – e, ancor più, nelle allusioni alla frenesia che esso induce e nell’accenno conclusivo alla possibilità di una ri-sacralizzazione del gioco –, un confronto con i lavori di Caillois, di cui Benveniste aveva letto, oltre all’articolo su Huizinga del 1946, anche i due importanti libri della fine degli anni trenta, Il mito e l’uomo e L’uomo e il sacro, e la raccolta già citata, La communion des forts. La definizione del sacro come “supremamente efficiente” è d’altronde ripresa da uno dei primi capitoli di L’uomo e il sacro (“Il sacro, fonte di ogni efficienza”). Ma, contrariamente alla concezione proposta da Caillois durante gli anni trenta e quaranta – la quale tendeva a mettere il gioco in rapporto con attività tanto diverse quali la guerra e l’amore, evidenziandone il loro legame con lo “spreco” –, la teoria di Benveniste permette di trovare un criterio di differenziazione apparentemente più rigoroso tra i fenomeni umani (nella stessa maniera in cui, pochi anni dopo, la linguistica permetterà di separare comunicazione animale e linguaggio umano). Le ultime righe del saggio, in cui Benveniste scrive che “la distinzione tra sacro e profano non si sovrappone assolutamente a quella tra gioco e reale”, ma che “le è solamente parallela”, paiono essere esplicitamente indirizzate contro Caillois.

20. In un passaggio posto in esergo a uno dei due libri sul gioco del 1946, Château aveva già messo in risalto l’origine latina del termine gioco: “Il gioco”, scriveva, “è innanzitutto ‘jocus’; è lo scherzo salace e grossolano che fa singhiozzare di grasse risa i rozzi paesani del Lazio; è la vita, è la gioia” (Le jeu de l’enfant après trois ans, sa nature, sa discipline, cit., p. 1). In una densa pagina Benveniste riporta sui binari della discussione scientifica un utilizzo piuttosto disinvolto e impressionistico dell’etimologia.

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Ciononostante Benveniste sostiene che il gioco abbia dei rapporti con il sacro, e che essi siano formalizzabili; il gioco è caratterizzato dall’assenza di riferimento a un reale – fosse anche un “sur-reale”21 come nel caso del sacro – e nell’elisione di una delle due parti della struttura del sacro: il mito, o narrazione sacra (nel ludus), oppure il rito, o atti sacri (nel jocus). Ciò ha come conseguenza l’abbassamento del divino al livello del profano, l’“esaltazione” e la “liberazione” e non, come nel sacro, l’innalzamento del profano al livello del divino, la “tensione” e l’“angoscia”. Infine questo tipo di “analisi strutturale” permette di ipotizzare – in maniera più precisa rispetto al testo di Huizinga, che Benveniste critica per l’estensione arbitraria della categoria di gioco a ogni attività umana regolata – la possibilità della rilettura di ogni attività umana alla luce del gioco, a patto che vengano rispettati i due criteri sopra indicati: elisione della narrazione del mito o del rito, e assenza di finalità pratica o riferimento al “reale”.22 Ovviamente – come farà notare Caillois dieci anni dopo, riprendendo e correggendo le formulazioni di uno studio giovanile come Vertiges – la classificazione rigida di Benveniste gli preclude la comprensione dei giochi d’azzardo, i quali hanno una finalità pratica e dunque intrattengono un legame con il reale. Il gioco e l’“irrealizzazione” Se già il primo passo, quello dell’accoppiamento delle scienze sociali e della linguistica riveste un certo interesse,23 il secondo,

21. La scelta di questo termine è un’evidente strizzata d’occhio alla parola coniata da Apollinaire e poi ripresa da Breton nel 1924. 22. Benveniste raggiunge così, con un grado di precisione maggiore, le conclusioni di Piaget nel suo studio sul gioco del 1945 (La formation du symbole chez l’enfant, cit.). Piaget, dopo aver preso in esame svariate teorie sulla differenza costitutiva del gioco rispetto ad altre manifestazioni umane, sosteneva che “tutti i criteri proposti per definire il gioco rispetto all’attività non ludica sfociano, non a dissociare in maniera netta il primo dalla seconda, ma a sottolineare semplicemente l’esistenza di un orientamento il cui carattere più o meno accentuato corrisponde alla tonalità più o meno ludica dell’azione. Ciò non significa altro che il gioco si riconosce da una modificazione, di grado variabile, dei rapporti di equilibrio tra il reale e l’io [moi]” (ivi, p. 155). 23. Benveniste aveva partecipato alla fondazione della rivista di Lévi-Strauss, “L’homme”, il cui primo numero esce all’inizio degli anni sessanta.

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quello dell’utilizzo della “psicologia”, lo fa a maggior ragione, basti pensare che Benveniste aspetterà un decennio prima di fare il suo primo intervento in una disciplina fino ad allora molto lontana dal suo campo d’indagine, e dove lascerà peraltro una traccia indelebile.24 Nell’ultima parte del Gioco come struttura Benveniste non solo ipotizza che a una radice linguistica corrisponda una struttura comune alla pluralità delle pratiche ludiche, ma anche che quest’ultima abbia la sua origine in quella che chiama una “struttura umana”, un’istanza “vitale”, la quale coincide con le forze “della vita subconscia”, con un “istinto profondo” che ha creato il gioco e che poi vi si è piegato. È solo nell’ultimo passaggio che Benveniste può allora ritrovare le spiegazioni “bio-psicologiche” che aveva inizialmente escluso.25 Nel Gioco come struttura il concetto di “struttura umana” resta indeterminato e può essere inteso in diverse maniere, ma, come intendiamo mostrare, Benveniste pare trovarsi in ambigua prossimità tanto di un certo freudismo quanto della fenomenologia di Sartre, il quale aveva ampiamente utilizzato il termine durante gli anni trenta per designare le “strutture esistenziali”.26 Il lavoro 24. Cfr. É. Benveniste, Osservazioni sulla funzione del linguaggio nella scoperta freudiana, cit. Ricordiamo, per fornire un quadro che permetta di soppesare l’importanza strategica di questo saggio nel gesto lacaniano, che nello stesso numero di “La psychanalyse” è anche pubblicato il fondamentale articolo Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, la traduzione di Logos di Heidegger, e il commento di Hyppolite alla Verneinung di Freud. Il primissimo contributo di Benveniste a una rivista di psicologia fu tuttavia pubblicato nel 1951, nel “Journal de Psychologie” (La nozione di “ritmo” e la sua espressione linguistica, poi ripreso in Problemi di linguistica generale, cit.). 25. Solo qualche anno più tardi, anche il linguaggio realista dell’istanza vitale e dell’istinto, il quale riprende evidentemente l’energetismo proprio del Collège de sociologie, e la psicanalisi precedente la riforma lacaniana, sarà sostituito da un inconscio formalizzato. Nel sopra citato saggio sulla Funzione del linguaggio nella scoperta freudiana, Benveniste si opporrà risolutamente alle teorie fenomenologiche del Sartre della Trascendenza dell’ego (e alla psicologia in “prima persona” della Critica dei fondamenti della psicologia del suo coetaneo Politzer) sostenendo che “è in e attraverso il linguaggio che l’uomo si costituisce come soggetto; poiché solamente il linguaggio fonda in realtà [...] il concetto di ego [...], consideriamo che questa soggettività, che la si ponga in fenomenologia o in psicologia come si voglia, non è altro che una proprietà fondamentale del linguaggio. È ego che dice ego” (corsivi miei). Benveniste elimina dunque il riferimento saussuriano alla parole (al locutore, quindi all’individuo) per fondare la soggettività sulla materialità del linguaggio in quanto si proferisce. 26. Come nota Merleau-Ponty nel celebre saggio Da Mauss a Claude Lévi-Strauss (1959,

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del filosofo doveva d’altronde aver interessato un linguista come Benveniste, visto il tentativo sartiano – nell’Immaginazione, ma soprattutto nell’Immaginario – di distinguere, dal punto di vista di una “psicologia” fenomenologica, l’immagine dal segno e dal simbolo.27 Nel Gioco come struttura Benveniste, dopo aver postulato la totale separazione del gioco dal reale28 – il gioco come “forma” non si riferisce infatti né a un “contenuto” reale, come nel profano, né sur-reale, come nel sacro, ma extra-reale –, radica il gioco in una funzione psichica subconscia che chiama “irrealizzante”. Da una parte pare evidente che Benveniste avesse in mente il “principio di realtà” freudiano (Lacan utilizzerà per esempio l’espressione “irrealizzazione” per designare il passaggio dal reale al simbolico29), ma il fatto che il linguista non parli della soddisfazione del principio di piacere nel gioco30 farebbe piuttosto pensare a Sartre, il quale aveva usato il termine “irrealizzazione” nell’Immaginazione e poi nell’Immaginario, per designare il tipo di intenzionalità proprio della coscienza immaginativa, capace di trascendere il mondo e di porlo a distanza, nullificandolo e riuscendo così a presentificare una persona o una cosa assente. Se-

in Segni, 1960, il Saggiatore, Milano 2003), il termine struttura era già stato ampiamente utilizzato dagli psicologi per designare delle “configurazioni del campo percettivo”, delle “totalità articolate”. I due maggiori teorici del gioco contemporanei di Benveniste, i già citati Piaget e Château avevano utilizzato con frequenza, nei loro studi del 1945 e 1946, espressioni quali “struttura psicologica” e “struttura mentale”. 27. Benveniste si era interessato all’immaginario e agli studi di Bachelard (che aveva probabilmente incontrato nell’ambito delle “Recherches philosophiques”) in un breve articolo intitolato L’eau virile, pubblicato nel 1945 nell’unico numero della rivista “La pierre à feu. (Province noire)”, vicina agli ambienti surrealisti. L’articolo, che si riduce a una serie di annotazioni sulla “mitologia latente nelle figurazioni dell’acqua” (di mare) in alcuni poeti si ispira, citandolo, al Bachelard dell’Acqua e i sogni. 28. La dialettica che intercorre tra realtà e immaginazione all’interno del gioco è l’oggetto tanto di Le réel et l’imaginaire dans le jeu de l’enfant di Château che di La formation du symbole chez l’enfant di Piaget. Piaget collega il gioco a un’“imitazione esatta del reale”, Château lo collega a un potere di rappresentazione delle cose nel quale il bambino “si ritrova”. 29. Lo schizofrenico, per cui tutto è reale, è incapace di operare tale irrealizzazione. 30. Al contrario Piaget, menzionando il principio di piacere e il principio di realtà, criticava le interpretazioni più semplicistiche, come quella di Claparède, il quale vedeva nel gioco l’immediata realizzazione dei desideri e dei bisogni (cfr. La formation du symbole chez l’enfant, cit., p. 155).

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condo Sartre, che si rifaceva liberamente a Husserl, questa attività presiedeva alla creazione di tutti i tipi di immagini, tanto i sogni, quanto le metafore o le fotografie.31 Allo stesso modo Benveniste include tra le manifestazioni dell’attività “irrealizzante” “l’immaginazione, il sogno e l’arte”, ma soprattutto descrive – in termini fenomenologici – la costellazione ludica come “un insieme di forme la cui intenzionalità non può essere orientata verso l’utile”.32 La funzione “irrealizzante” che si manifesta nel gioco sospende così il reale esattamente nella stessa maniera in cui l’attività irrealizzante propria della hylé immaginativa presenta un oggetto come assente. Nel gioco la coscienza riprende le strutture del sacro, ma “per gioco”, separandole dalla realtà divina, “irrealizzata”. Inoltre, secondo Benveniste, l’irrealizzazione che si manifesta nel gioco consiste nel tentativo di risolvere il difficile conflitto dell’uomo con il reale. In due passaggi, che tradiscono un certo pathos esistenzialista, Benveniste oppone la gratuità del gioco al mondo reale in cui, al contrario, “il volere umano, asservito all’utilità, va a sbattere di continuo contro l’evento, l’incoerenza, l’arbitrario, in cui nulla giunge mai al termine previsto né segue le regole ammesse, in cui la sola certezza che l’uomo possiede, quella della sua fine, gli appare al contempo iniqua e assurda”, evocando infine l’immagine di una coscienza “condannata a brancolare dolorosamente in un reale che essa non può vivere d’emblée, né accettare completamente, poiché se è vero che spesso riesce a modificarlo, d’altra parte non è mai in condizione di comprenderlo”. Il gioco crea invece un mondo dove questi tragici conflitti

31. Nello stesso momento, anche Caillois, come spiega nella prefazione al Mito e l’uomo, stava cercando di costituire una fenomenologia dell’immaginazione capace di discernerne le diverse manifestazioni (infantile, mitologica, poetica, patologica). 32. Tanto Château che Piaget (il secondo in maniera più dubitativa) avevano posto l’accento sull’inutilità del gioco, considerandolo come un’“attività gratuita il cui principio è il godimento” (Le jeu de l’enfant, cit., p. 377) qualcosa “che trova la sua fine in se stesso, mentre il lavoro e le altre condotte non ludiche comportano un obiettivo che non è compreso nell’attività come tale. Il gioco sarebbe dunque, come si suol dire, ‘disinteressato’” (J. Piaget, La formation du symbole chez l’enfant, cit., p. 154).

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sono appianati:33 in tale mondo la coscienza può esprimersi liberamente, a patto di sottostare alle regole del gioco, le quali circoscrivono una rappresentazione priva di contenuto (salvo quello dell’extra-realtà che il gioco crea). Benveniste definisce questa rappresentazione del mondo, innata nell’individuo, come magica. Ora, Sartre aveva ripreso, sin dalle Idee per una teoria delle emozioni (1939),34 l’aggettivo “magico” dalla Mentalità primitiva di Lévy-Bruhl35 al fine di definire un determinato modo di esistenza della coscienza, quello emozionale. L’emozione, spiegava Sartre, consiste in una “brusca caduta della coscienza nel magico” e precisava che “vi è emozione quando il mondo degli utensili svanisce bruscamente e il mondo magico appare al suo posto”. Nelle condotte emozionali, la realtà umana fugge dal mondo reale, e lo sostituisce con un mondo “magico”, ma “interamente coerente”, dove gli oggetti agiscono direttamente su una coscienza cosificata. La stessa espressione è ripresa, nel 1940, all’inizio del quarto capitolo dell’Immaginario,36 quando Sartre definisce l’immaginazione come “un atto magico”, “un incantamento destinato a far apparire l’oggetto al quale si pensa, la cosa che si desidera, in maniera che se ne possa prendere possesso”. Sartre lega, infine, tanto nelle Idee quanto nell’Immaginario, la coscienza magica al mondo dell’infanzia37 proprio come fa Benveniste nel Gioco come struttura.

33. Ancora una volta troviamo espressioni simili in Château e Piaget; secondo quest’ultimo il gioco procede “da un rilassamento dello sforzo di adattamento” alla realtà (La formation du symbole chez l’enfant, cit., p. 94). 34. In J.-P. Sartre, L’immaginazione. Idee per una teoria delle emozioni (1936 e 1939), Bompiani, Milano 2004. 35. Nei Quaderni per una morale (1983, Editori Riuniti, Roma 1991), la rilettura, questa volta esplicita, di Lévy-Bruhl (affiancata a quella di Mauss, Leiris e Bataille) in chiave fenomenologica è direttamente tesa alla ricerca di una morale. Sartre spiega come la modalità esperienziale del “primitivo”, il quale non possiede le categorie di produzione e di causa ed effetto, è quella di un uomo alienato nel bel mezzo di “un mondo magico dove [...] l’oggetto è essenziale e l’uomo inessenziale”. 36. J.-P. Sartre, L’immaginario (1940), Einaudi, Torino 2007. 37. Un riferimento comune e implicito, tanto in Benveniste che in Sartre, sono gli studi degli anni trenta di Piaget sulla genesi della causalità e della rappresentazione del mondo nel bambino. Piaget aveva peraltro tentato di mostrare, ispirandosi agli studi di Lévy-Bruhl, la somiglianza tra le strutture proprie della mentalità “primitiva” e quella del bambino.

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Il “campo di gioco” del professor Benveniste Una contraddizione pare tuttavia palesarsi. Sartre aveva radicato il gioco in una libera “attività di cui l’uomo è l’unica origine”. Nelle ultime pagine dell’Essere e il nulla l’attività risultante dalla primissima presa di coscienza della libertà da parte dell’uomo era infatti quella ludica. Sartre scriveva che il principio del gioco “sfugge alla natura naturata, pone egli se stesso il valore e le regole dei suoi atti e non consente a pagare che secondo le regole che egli stesso ha definito e posto”.38 Al contrario Benveniste lega il gioco al “predominio della vita subconscia”, e soprattutto alla creazione di un “mondo magico”. Se secondo Sartre l’emozione e la coscienza magica implicano la negazione della responsabilità, la malafede, la fusione del soggetto in un mondo pieno in cui la negatività non ha posto, se inoltre il gioco costituisce l’attività paradigmatica in cui invece l’uomo “si coglie come libero”, è evidente che parlare di un’“essenza magica” (che il gioco permetterebbe di vivere), e legare inoltre il gioco all’infanzia e al subconscio, come fa Benveniste in Il gioco come struttura, significa opporsi alla concezione di Sartre usando il suo stesso linguaggio. Nell’ottica di Benveniste il gioco non può quindi che essere una fuga “irrealizzante”, seppure necessaria e legittima, davanti a un mondo incoerente e doloroso come, per esempio, quello vissuto da tanti intellettuali nella Francia traumatizzata dalla guerra. Il serio “professor Benveniste”, attraverso le sue “strutture formali”, voleva forse criticare il carattere irreale delle teorie dei “sociologi” (Caillois) e dei “filosofi dell’impegno” (Sartre), di cui mimava il linguaggio? Voleva così farsi gioco di coloro i quali, inizialmente critici rispetto all’“esprit du sérieux”, si erano fatti invece i portavoce di una filosofia molto seria ma ormai quasi sacralizzata? Ciò vorrebbe dire pensare che Benveniste conoscesse bene le regole del gioco che regolavano il campo intellettuale a cui apparteneva e che stesse, attraverso un’analisi riflessiva di tale campo, assecondando le mosse degli altri giocatori, mimandone le posizioni teoriche, pensando forse che la posta importante fos38. J.-P. Sartre, L’essere e il nulla (1943), il Saggiatore, Milano 2002, p. 644.

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se in gioco su un altro tappeto verde, non certo in un divertissement pubblicato in una rivista alla moda, bensì nelle dense pagine di serie riviste scientifiche. Ma probabilmente Benveniste giocava seguendo le stesse regole dei suoi contemporanei e il suo barare è soltanto la proiezione dello sguardo retrospettivo di chi ormai appartiene a un altro campo, strutturato secondo altre regole. Se così fosse, l’ipotetico smarcamento di Benveniste rispetto alla “filosofia del gioco” del suo tempo sarebbe in fin dei conti soltanto un’illusione ottica. È sufficiente, infatti, accorgersi che tanto per Sartre quanto per Benveniste nel gioco – differentemente da quanto avviene nel sogno e nell’universo “incantato” dell’emozione – l’uomo è cosciente della “magia” del mondo che ha creato. Nel gioco la coscienza “irrealizzante” è riflessa, il giocatore sa che si tratta “solo di un gioco”. È proprio quest’operazione riflessiva a far sì che nel gioco, e soltanto nel gioco, come sottolinea Benveniste, la coscienza, possa vivere l’irrealizzazione, e non soltanto subirla, come, per esempio, nelle condotte emozionali o nel sogno. La coscienza emozionale, di cui l’uomo è ostaggio, crea infatti un mondo fittizio, ma che non può, per definizione, distinguere dalla realtà: “se l’emozione è un gioco”, scrive Sartre nelle Idee per una teoria delle emozioni, “è un gioco al quale crediamo”. A guardare bene è forse proprio questo uno dei meriti di questo serio divertissement di Benveniste, quello di lasciarci oscillare in quel dubbio che sospende per un attimo le nostre credenze, e ci spinge a domandarci, tanto sui campi di gioco che nel campo, ancora ritualizzato, della socialità intellettuale: stiamo facendo sul serio o è tutto soltanto un gioco?

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Michele Luzzatto

Preghiera darwiniana Dio e Darwin sono davvero inconciliabili?


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Materiali

Presentiamo in questa sezione un gruppo di materiali di particolare interesse per documentare e ricostruire la genealogia delle indagini sul gioco di cui si occupa questo fascicolo di “aut aut”. Il testo di Johan Huizinga è del 1933 e costituisce la premessa teorica e problematica del successivo Homo ludens. Lo traduciamo dall’olandese, segnalando la circostanza che esso viene proposto qui per la prima volta, non essendo più stato ripreso da allora né fatto circolare dentro il dibattito sul gioco, nonostante la sua importanza. Molto significativo è anche l’intervento del 1947 a opera del grande linguista Émile Benveniste. Come si vede bene, Benveniste formula la sua ipotesi del gioco come struttura con l’occhio rivolto specificamente a Huizinga. In proposito rimandiamo alle considerazioni svolte da Giuseppe Bianco (e ospitate nella prima parte di questo fascicolo). Maurice Blanchot ha pubblicato successivamente, nel 1958, un saggio intitolato L’attrazione, l’orrore del gioco, in cui muove da Huizinga e dal dibattito francese sollevato dagli studi di Roger Caillois. Questo testo, altrettanto utile e prezioso, è già comparso in italiano su “Riga” (23, 2004) in un ricchissimo dossier dedicato a Caillois. Abbiamo ritenuto opportuno dare a esso nuova circolazione (di ciò ringraziamo Marco Belpoliti e la rivista “Riga”). Infine, il testo di Caillois su Le carte (naturalmente, le carte da gioco) documenta e segnala, al di là della curiosità e dell’interesse intrinseco dello scritto, un’operazione culturale di largo respiro, l’enciclopedia Jeux et Sports pubblicata nel 1967 come volume della prestigiosa

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collezione “La Pléiade”. In Italia si è parlato poco o nulla di questa singolare impresa, diretta da Caillois e realizzata da lui stesso e da un nutrito e qualificato staff di collaboratori con lo scopo dichiarato di articolare e svolgere le idee contenute in I giochi e gli uomini del 1958. Ai giochi (alla loro storia, caratterizzazione e distribuzione, ai loro aspetti culturali, alle loro tipicità) sono dedicate più di mille pagine. Altre mille riguardano gli sport (giochi olimpici, sport di palla e pallone, e poi un attraversamento degli sport legati alla vita quotidiana e alla tecnica, dal ciclismo allo sci e all’alpinismo, con particolare riferimento alla società contemporanea).

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Sui limiti del gioco e del serio nella cultura [1933] JOHAN HUIZINGA

I

llustri, egregi e stimatissimi membri del consiglio universitario, studenti e voi tutti che onorate questa cerimonia con la vostra presenza, un cordiale benvenuto! Chi oggi, 8 febbraio, vi sta parlando da questa cattedra deve al suo pubblico qualcosa di diverso da un dettaglio qualsiasi tratto dal proprio bagaglio scientifico. Nella misura in cui l’ambito di ricerca esplorato vi si presta, ho da offrire qualcosa che si può a ogni modo definire di natura universale, che tocca il fulcro stesso degli studi condotti, inteso come questione fondamentale, come nuova consapevolezza e parametro di verifica metodologica. E, se possibile, permettete che sia una sorta di testimonianza. Intendo parlarvi di un interrogativo sorto alla mia considerazione ben trent’anni addietro, in cui mi sono di volta in volta imbattuto nei campi più disparati e con cui da sempre mi cimento senza sosta. Il mio scopo non vuole essere quello di risolverlo, J. Huizinga, Over de grenzen van spel en ernst in de cultuur, H.D. Tjeenk Willink & Zoon N.V., Haarlem 1933. Nella prefazione a Homo ludens Huizinga spiega: “Nel 1933 dedicai a quel soggetto [il gioco] la mia orazione di rettore dell’Università di Leida, col titolo: Sui limiti del gioco e del serio nella cultura. Quando in seguito adattai e rinnovai quel discorso due volte, prima per conferenze a Zurigo e a Vienna (1934), poi per un’altra a Londra (1937), vi posi per titolo: Das Spielelement der Kultur, The Play Element of Culture. Tutte e due le volte i miei ospiti corressero: – in der Kultur, in Culture – e ogni volta io cancellai di nuovo la preposizione e ristabilii il genitivo. Infatti per me non si trattava di domandare qual posto occupi il gioco fra i rimanenti fenomeni culturali, ma in qual misura la cultura stessa abbia carattere di gioco. Per me si trattava [...] d’integrare per così dire il concetto di gioco in quello di cultura” (J. Huizinga, Homo ludens, 1939, Einaudi, Torino 19823, pp. XXXI-XXXII).

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spero soltanto di trasmettere un’idea della natura e dell’importanza di tale questione. L’argomento di questo intervento è: sui limiti del gioco e del serio nella cultura. Procederò a passo spedito, abbiamo solo un’ora a disposizione, allontanandomi talvolta dal terreno a me familiare. Se il vostro respiro storico verrà meno, se pretenderò dalla vostra attenzione più di quello che potete concedermi, non sarà mia intenzione giustificarmi: sono qui per pronunciare un discorso accademico, non una lezione popolare. Parlo di cultura, non perché consideri il termine più bello del nostro equivalente per civiltà [beschaving], ma perché esso ha acquisito nel pensiero contemporaneo un valore diverso, più caratteristico rispetto al secondo, divenendo così indispensabile. Tutta la cultura è un aspirare a qualcosa. Al controllo sulla natura mediante le abilità e la conoscenza, mediante l’ingegnosità e la comprensione. L’uomo è sempre homo faber, sia che crei una parola, sia che costruisca un arco o un ponte. Esiste forse qualche espressione culturale che non rientri nell’assunto “cultura è aspirazione”? Fede e religione, stato, legge e diritto, architettura, poesia e arte, le attività pratiche e gli scambi commerciali. Ogni oggetto di cultura è uno strumento e ogni strumento costituisce una pragmatica sinergia di volontà e azione.1 Tutta la cultura è servizio. Ogni strumento, ogni segno, ogni parola e ogni immagine servono a qualcosa e l’uomo che li utilizza rende un servizio nell’accezione più elevata del termine. In questo mondo non esiste dominio senza servizio; l’uomo è un essere che si subordina spontaneamente, e chi ritiene di poter dominare secondo il proprio volere è il più asservito degli schiavi. Una terza categoria generale in cui rientra tutto ciò che è cultura: essa è espressione, una trasformazione operata dall’intelletto che dà origine a qualcosa che è di più e diverso dalla natura. Un oggetto di cultura, una ruota, un microscopio, un concetto filo1. Cfr. H. Freyer, Theorie des objektiven Geistes. Eine Einleitung in die Kulturphilosophie, Teubner, Leipzig 19282, p. 61.

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sofico, un accordo musicale recano il timbro di “diverso da...”. Si tratta sempre di una trasformazione, di un processo di fissazione, di forgiatura, siano essi immaginari, materiali o in termini di parole. Le parole stesse, di cui ora sono costretto a servirmi, implicano tutte un significato figurato, sono tutte metafore, trasposizioni. Il nostro pensiero è ineluttabilmente radicato nell’immagine. Passiamo ora alle tre grandi attività originarie della vita culturale che sono il linguaggio, il mito e il culto.2 Il linguaggio, il primo e supremo strumento per mezzo del quale l’uomo comunica, apprende e ordina, il linguaggio che distingue, determina, stabilisce, in breve nomina, vale a dire eleva nella sfera dell’intelletto. Il mito, che in fasi culturali antecedenti alla nostra spiega la natura terrena, fonda l’umano nel divino; il culto che, in quanto è azione sacrale, sia che l’aratro solchi la terra sia che si innalzi la fiamma sacrificale, determina sempre... cosa? Che le cose vadano come debbano andare, che l’ordine eterno del mondo sia preservato. Nella cultura antica le attività pratiche e il diritto, l’arte e la tecnica, la scienza e la sapienza sono state per lungo tempo comprese nel mito e nel culto. In queste tre grandi attività, i fattori elementari della cultura, rientra anche il gioco. È lecito però definire il gioco, nel senso stretto del termine, un elemento culturale? Il gioco precede infatti la cultura: in senso filogenetico, perché gli animali giocano, in termini ontogenetici, perché in ogni bambino il gioco si realizza nella compiutezza più viva del concetto. Si aprirebbe qui un campo sconfinato, ma non temete: non ho intenzione di giocare a fare né lo psicologo, né il sociologo. Non turberò le gare di volo dei corvi con esperimenti e teorie, continuino pure, i ragazzi, a giocare tranquilli con le biglie. Nella storia di tutti i tempi mi imbatto nel gioco, e lo prendo così com’è, una grandezza data nell’ambito della cultura; non mi intratterrò con “spiegazioni” o “teorie” sul gioco, ma tenterò soltanto di descrivere la sfera del gioco all’interno della cultura. Questo discorso non verterà sulle sue diverse 2. Id., Der Staat, Rechfelden, Leipzig 1925, p. 49.

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forme, ma sul gioco come tale. In breve, come ho già detto: tratterò del gioco come fattore della cultura. Il gioco può essere un fattore della cultura solo se possiede un elemento sociale ed ecco che circoscriviamo ulteriormente il campo: gare, duelli, rappresentazioni, esibizioni, la danza e la musica, drammi pastorali e mascherate costituiscono il materiale che ci interessa. Il tratto fondamentale comune a tutti i giochi, a quelli degli animali, del bambino e dell’adulto, che ne contraddistingue l’essenza stessa, può essere stabilito per il momento soltanto in senso negativo, affermando che in linea di principio il gioco non è serio. Volendo rintracciare altre caratteristiche, ritengo importanti le seguenti. Non appena diviene collettivo, il gioco sottintende un’interazione tra uomo e uomo, comprende, per così dire, un elemento di legame e scioglimento. A livello temporale e spaziale il gioco crea un mondo a parte, eccezionale, chiuso in sé, in cui i giocatori si muovono seguendo una legge specifica e vincolante finché quella legge stessa li libera. Il gioco ammalia, proferisce una parola magica che irretisce. Il gioco affascina e racchiude un mondo nel suo linguaggio figurato. Di natura completamente opposta è una seconda proprietà del gioco, anch’essa assai ricorrente. Il gioco rappresenta qualcosa. Il termine “rappresentare” esprime meglio questa proprietà rispetto al verbo “imitare”, per quanto anche quest’ultimo concetto occupi in generale un posto importante nella psicologia del gioco. Rappresentare vuol dire anche realizzare, attuare all’interno del mondo valido per un tempo definito che è stato creato dal gioco stesso. Il gioco raffigura, dà forma a quanto appare informe. Il gioco è un’azione (dromenon-drama). Rientrano in questo contesto i collegamenti principali tra gioco e culto. Questa azione è sempre in un certo senso azione sacrale; il suo rapporto, o la sua correlazione con il divino sono fondamentalmente sempre presenti; non appena serve a esprimere questo rapporto, il gioco diviene azione di culto, rituale, liturgia e può addirittura assurgere a mistero. Rappresentazione e raffigurazione del sacro, dell’i-


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neffabile, delle Ore sacre, sono questi gli ambiti in cui il gioco espleta la sua funzione più elevata. Si tratta di una sfera in cui il segreto, che volentieri si coniuga con il gioco in ogni sua fase, assume un significato mistico, in cui l’esaltazione e lo stordimento vengono suggellati per divenire entusiasmo ed estasi divini. Culto, gioco e festività: vedete come si spalancano innanzi a noi i giardini della storia della cultura! Ma non li calpesteremo. Una terza proprietà, non costantemente presente, ma forse più importante delle precedenti: il gioco è una contesa. È così negli animali e nei bambini: misurarsi, competere per ostentare il meglio di sé. Tra i contributi che anni fa hanno orientato le mie riflessioni sulle questioni che oggi tento di formulare, ricordo sempre come una preziosa fonte di arricchimento l’articolo di Hermann Usener, dal titolo Heilige Handlung del 1904,3 in cui vengono abilmente svelati le interrelazioni e il significato dei combattimenti degli efebi spartani, delle catervae romane e di numerose altre manifestazioni analoghe. Le lotte nelle scuole per ragazzi, che fino a cinquant’anni fa erano ancora in voga, ma che ora stanno gradualmente scomparendo per ragioni pedagogiche e di pubblica sicurezza,4 i tornei, i confronti agonistici, i cori maschili, tutto questo, dalle celebrazioni più sacre al semplice diletto infantile, rientra nella categoria del gioco come contesa. Combattimenti simulati non escludono esiti cruenti, anche le lotte tra gladiatori sono in fin dei conti dei combattimenti simulati. La contesa non implica però esclusivamente un combattimento con armi affilate. Le competizioni a livello artistico, intellettuale e di prontezza, in velocità e abilità, anche in splendore e mitezza sono antiche e diffuse e forse più importanti per la crescita culturale rispetto al gioco con le armi. Nella sfera della gara ritroviamo se non le origini, di certo il diffondersi dell’arte, della scienza e della

3. “Archiv für Religionswissenschaft”, VII, 1904, p. 281. A mio parere si tende oggi a non prendere per certo il riferimento particolare di questi duelli alla contesa tra l’estate e l’inverno. 4. Nel romanzo Lavengro, George Borrow descrive i duelli scolastici che intorno al 1800 erano ancora in voga a Edimburgo e durante i quali, come racconta, si poteva anche perdere la vita.

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tecnica. Tra breve fornirò degli esempi a riguardo, per ora mi limito a segnalare dei tratti generali. Al gioco come contesa è collegato un elemento particolare, il premio, la posta. Si duella, si gioca per qualcosa: affinché si verifichi una conseguenza di portata cosmica, se il gioco è culto; altrimenti ci si affronta per una sposa, per un regno, per la propria vita o per denaro. Non si gioca a bridge per delle caramelline. E perché non lo si fa? Per smania di vincere? No, perché altrimenti non si tratta più di un gioco, dal momento che il gioco – e qui affiora la contraddizione – per essere tale deve essere serio! Un duello, un gioco d’azzardo o d’astuzia, puntate puramente casuali, gli scacchi o le scommesse, come forma di contesa, sono molto analoghi, profondamente radicati nella natura umana. Ancora una proprietà generale del gioco. Il gioco è creatore di stile. Anche nelle sue forme più semplici. Bambini che danzano e cantano per strada, come ancora oggi capita di vedere nelle piccole località di sera durante il periodo pasquale, possiedono una qualità indescrivibile, pura ed elevata, di stile, che talvolta l’arte e la vita sociale inseguono e vagheggiano invano. Ritmo, reiterazione, cadenza, ritornello, forma chiusa, accordo e armonia, sono tutti attributi del gioco così come elementi costitutivi dello stile. Ecco giardini della cultura ancor più splendidi spalancarsi dinnanzi a noi: l’arte intera è legata al gioco; di fronte a una pastorale o a un idillio ci chiediamo se siano il gioco o l’arte a primeggiare, senza però ottenere una risposta. Gli equivalenti dello stile nell’estetica sono nell’etica ordine e lealtà, frutti anch’essi che maturano nell’eden del gioco. Il gioco presuppone sempre un’associazione, nel senso migliore della parola. Avrete forse già perso la pazienza da tempo e probabilmente starete borbottando: basta con queste premesse e dacci dei dati storici. Ancora un attimo. Come vi avevo promesso, non era mia intenzione parlare delle svariate teorie elaborate dalla psicologia e dalla sociologia riguardo all’origine, alla natura e al significato 100


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del gioco.5 Dovrò tuttavia spendere una parola in merito. Osservando l’insieme di tutte le diverse spiegazioni inerenti a tale questione, emerge quanto esse siano controverse e insoddisfacenti. A turno si adducono motivazioni sulla ragione e l’essenza del gioco: un surplus di forza vitale, imitazione, distrazione, esercizio preliminare, autocontrollo, bisogno di poter fare o causare qualcosa, desiderio di una condizione attraverso cui dominare, competizione, scaricare istinti dannosi, integrazione di attività monotone, ecc. Sembra che il fondamento eletto a ragione esplicativa sia un solo elemento tra i tanti che si possono riscontrare nel gioco. La teoria non permette di fornire una definizione soddisfacente del concetto di gioco. L’intera categoria di “gioco” si muove su un terreno sorprendentemente labile, difficile da delimitare, a stento riusciamo a distinguerla da quella di mito e di culto. Le proprietà essenziali del gioco possono al massimo essere constatate, ma non spiegate: si può affermare che è un’aspirazione a una finalità limitata, un’azione che si autoconclude. Anche l’incredibile scissione della coscienza che determina la completa dissoluzione del soggetto in quel “qualcosa di diverso” dalla realtà tangibile espressa, immaginata, imitata, rappresentata da chi gioca, senza che neppure per un istante apparenza e realtà si confondano (anche se a giocare è un bambino), può essere solo constatata come antinomia esistente. Oltre alla sua inadeguatezza, la teoria del gioco presenta un altro difetto. Chi tenta di fissare il posto che spetta al gioco nella vita corre il rischio, a causa dell’indeterminatezza già accennata di questo concetto, di espandere illimitatamente l’istinto del gioco, di ravvisarlo negli ambiti più disparati, anche in quelli in cui non intendeva cercarlo. Quanti di voi apprendono con sdegno che Karl Groos considerava il fumo in buona parte come un gioco del tatto, badate bene, piuttosto che dell’olfatto.6

5. Un valido riepilogo delle teorie relative al gioco è riportato in H. Zondervan, Het Spel bij Dieren, Kinderen en Volwassen menschen, Wereldbibliotheek, Amsterdam 1928. 6. K. Groos, Die Spiele der Menschen, Fischer, Jena 1899, p. 13.

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Il lato semantico del problema, più della teoria generale, è pertinente al tema storico culturale che ci siamo posti, offrendo uno sguardo sulla sfera semantica in cui, nelle diverse lingue, si muovono le parole per indicare “gioco” e “giocare”. Anche qui ad attenderci una difficoltà dopo l’altra, ci scontreremo tuttavia continuamente con i limiti dell’inavvicinabile. In nessuna lingua la sfera semantica del termine è ben definita, e da una comparazione tra le diverse lingue non risulta mai del tutto identica. L’inglese play o il francese jeu non coprono completamente l’olandese spel o viceversa. Il giocare risale a un tempo antecedente il linguaggio e la cultura, il gioco come nozione generale, come concetto, è invece molto giovane. Non soltanto non esiste una parola indogermanica comune per “gioco”, ma anche all’interno del gruppo germanico il tedesco, l’anglosassone e lo scandinavo si distaccano e ognuna di queste lingue presenta un termine a parte. In alcuni idiomi il concetto e dunque la valenza della parola sono molto sviluppati e ampiamente ramificati, mentre in altri la portata è piuttosto ridotta. Sorprendente in questo contesto la differenza tra il greco e il latino. I greci hanno probabilmente giocato di più, meglio, con maggiore intensità ed entusiasmo, in tutti i sensi, rispetto a qualsiasi altro popolo del mondo, eppure nella loro lingua la contrapposizione della coppia concettuale “gioco-serio” ha assistito a uno sviluppo lacunoso. Spoudhv-serio resta una parola di second’ordine e di estensione limitata e paidiav, il nomen actionis del verbo paivzein, conduce un’esistenza piuttosto stentata; il termine non comprende le grandi lotte rituali e non viene neppure utilizzato nell’accezione di suonare uno strumento musicale. Al contrario, presso i seriosi latini, la parola ludus, accanto alla quale compaiono anche le meno frequenti lusus e iocus, assiste a una vera impennata. Ricca e ampia anche la sfera semantica di spel, spiel e play. Il concetto di gioco, nel suo significato più immediato, collima con quello di contesa, movimento e luce. Da notare come il significato del termine si sia dilatato e il carattere effettivamente ludico tenda a sottrarsi fino a rendere quasi impercettibile il nesso 102


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con il concetto centrale.7 Nei frangenti più complicati, in cui tentavo di esprimere in parole il contenuto delle riflessioni che oggi vi espongo, mi sono chiesto: come ci riuscirò?8 Soprattutto il tedesco mostra un considerevole indebolimento semantico di Spiel. Lo stesso vale anche per l’inglese play. Amanti del gioco come pochi altri popoli, gli inglesi non si sono accontentati di una sola parola, coltivando accanto a essa i due sostantivi game e sport. Nelle lingue germaniche il termine utilizzato per “giocare” serve anche a esprimere il concetto di maneggiare strumenti musicali, come pure in francese e in alcune lingue slave, non tuttavia in latino, italiano e spagnolo, mentre l’accezione si ritrova anche nell’arabo.9 Proprio quest’ultima analogia (tra romanzo, germanico e slavo potrebbe trattarsi di prestiti) ci fa comprendere la profondità del nesso semantico tra il giocare in generale, nel suo significato primario, e nel senso di abilità musicale, di suonare uno strumento. Con il termine olandese speelman10 si indica un musicista e non un pittore. I domini con i quali il linguaggio e la cultura sono soliti collegare il concetto di gioco, sono, oltre alla contesa in generale, soprattutto la mu7. Non è chiaro per esempio il legame con il significato di base in termini come kerspel (termine originario per “parrocchia”) o dingspel (antico per “giurisdizione”) o con l’alto tedesco Beispiel (esempio). Si rimanda a questo proposito alla voce “Spiel”, corredata da una ricca documentazione, nel Deutsches Wörterbuch, considerando anche i composti. Il singolare processo di scolorimento semantico del termine è già presente nel tedesco medio alto, per esempio in ebenspil, endespil, ein ungeteiltez spil = una scelta rischiosa, sie ist mîner ougen spil. Nel significato di splendore spirituale spiln, insieme ai composti inspiln, widerspiln, è molto apprezzato dai mistici. 8. Il verbo utilizzato in olandese è klaarspelen, in cui è contenuto il verbo spelen (giocare), un ammiccamento esplicativo che non trova equivalente in italiano. [N.d.T.] 9. Radice la‘iba. Come mi è stato riferito dal mio collega Wensinck, il significato di questa radice, comprese le forme imparentate, oscilla nelle diverse lingue semitiche tra “ridere, scherzare, giocare, civettare, prendere in giro, stuzzicare, sbavare”. Per lo sviluppo del concetto di gioco è molto istruttivo anche il sanscrito. La radice krı¯d serve a esprimere il gioco di uomini e animali, vento e onde, spesso anche in senso erotico, anche se non viene utilizzato per indicare la capacità di suonare uno strumento; las-, da cui vila¯sa, rientra nell’ambito di “risplendere, apparire o risuonare all’improvviso, oscillare”, infine anche, come spel, spiel, “agire, essere occupato” in generale. In lı¯la¯ predomina l’idea di “facile, futile” e “apparenza”, così che gajalı¯laya¯ può arrivare a significare “come un elefante”. 10. Speelman (suonatore ambulante, cfr. il tedesco Spielmann, chi suona in una banda) è un termine anch’esso composto dal verbo spelen. [N.d.T.]

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sica, la danza, la caccia e l’erotismo, talvolta anche il bere, ma praticamente mai il mangiare. La posizione del termine “gioco” acquisisce una maggiore definizione grazie al suo contrario, che lo integra, ovvero grazie al concetto di serio. Per quanto io sappia, in nessun’altra lingua questa coppia semantica, che si completa e si sostiene vicendevolmente, è così solida e influente come nelle lingue germaniche. L’alto tedesco, il basso tedesco e l’inglese condividono la proprietà del termine ernst-earnest; le lingue scandinave hanno una loro variante di pari valore. Indagando sull’origine della parola ernst sorprende constatare che sia ernst che spel, come concetti generali, hanno il loro fondamento etimologico nella sfera della contesa. Una scoperta scoraggiante se non sapessimo che non tutte le forme di contesa sono condotte con le armi. La contrapposizione gioco/serio, che appare a prima vista compiuta, scontata e irrinunciabile, è, a quanto sembra, relativamente giovane e non del tutto sviluppata in ogni gruppo linguistico. Le fasi più antiche della civiltà non distinguono il gioco, nel senso più ampio, come “qualcosa di diverso”, “qualcosa di autonomo”. Nella nostra coscienza, invece, la qualità di essere “qualcosa di autonomo”, “di diverso dal serio”, è quella dominante. A una riflessione più approfondita, però, anche per noi il contenuto di tale contrapposizione acquista contorni piuttosto fluttuanti. L’“essere diverso da”, che contraddistingue il gioco dal serio, non può essere descritto in termini semplici ed esatti. Ci scontriamo difatti ogni volta contro qualcosa di indeterminato. La dicotomia serio/gioco non è equivalente a reale/irreale, né a vero/falso e non corrisponde neppure a utile/inutile, infatti nel gioco è sempre presente una finalità per quanto possibile immediata. Il gioco è la negazione del serio, ma possiede anche qualcos’altro di caratteristico, racchiude in sé una componente seria. E non è neppure subordinato all’essere serio, come espressione limitata e secondaria di ciò che è serio. A prescindere da come consideriamo questi concetti, il gioco resta una categoria eccezionale, autonoma e primaria dell’agire umano e anche animale.

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Ci siamo così avvicinati alla parte storica delle nostre considerazioni. Compirò ora una carrellata per dimostrare come in tutti i principali ambiti della vita sociale e spirituale, nelle fasi antiche e in quelle recenti della cultura, diverse forme di gioco, a prescindere dalla loro natura, abbiano accompagnato la maturazione stessa della civiltà. Utilizzo il termine “accompagnare” per non destare il sospetto che voglia esporre una qualche teoria evolutiva. Quello che intendo dimostrare non è un’ipotesi per cui la civiltà umana sia nata dal gioco. Si tratta essenzialmente di segnalare un certo parallelismo, un reciproco sostegno, una estesa inscindibilità tra le due categorie di gioco e di serio nella cultura. Si impone, al massimo, la conclusione che, spesso, un elemento culturale acquista le proprie sembianze nelle forme di un gioco. Partendo dal nostro ramo di studi, quanto detto si applica anche alla filosofia e alla scienza. Lo ritroviamo chiaramente nei Veda e nella successiva letteratura dei Brahmana, i manuali delle scuole sacerdotali in cui confluiscono riti d’offerta, miti, spiegazioni e riflessioni sugli elementi essenziali dell’esistenza. In occasione di importanti celebrazioni di offerta i brahmani rivaleggiavano in ja¯tavidya¯, ovvero nella conoscenza dell’origine delle cose. Venivano poste domande di natura cosmogonica, una sorta di indovinelli: “Ti chiedo qual è l’estremo confine del mondo, il centro dell’universo...”.11 “Perché il vento non cessa mai, lo spirito non riposa, perché l’acqua, che tende alla verità, non trova mai pace?”12 “Chi sa, chi può dirci da dove proveniamo, dove ha origine il creato?”13 Le risposte sono molte perché scaturiscono dall’ispirazione, sono spasmodiche, come una soluzione, e la risposta giusta è quella che funziona da un punto di vista logico, liturgico o poetico. Nel contesto di rivalità tra sacerdoti, in questo gioco di 11. Rgveda, I. 164. 34. 12. Atharvaveda, X. 7. 37. Il componimento è costituito quasi esclusivamente da quesiti di ordine cosmologico, in forma di indovinelli; cfr. X. 8. 3-10, X. 2, sull’organismo umano e la terra. Cfr. il componimento Rgveda, VIII. 29. 13. Rgveda, X. 129. 6, imponente e maestoso componimento che Deussen definì il più ammirabile pezzo filosofico che sia stato tramandato dall’antichità, Allgemeine Geschichte der Philosophie, I. 120.

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domanda e risposta, nascono nell’immediato le interpretazioni sull’essenza ultima delle cose più profonde che l’intelletto umano sia mai stato in grado di fornire. La forma più elevata di sapienza è saper porre una domanda cui nessuno sa rispondere. Il re Janaka aveva messo in palio mille buoi come premio per una disputa teologica. Il saggio Ya¯jñavalkya chiede di mettere subito da parte i buoi e batte tutti i suoi avversari in un modo così brillante che uno di loro, Vidagdha Sa¯kalya, perde letteralmente la testa, nel senso che gli cade dal busto nel momento in cui sul suo conto ha una risposta in meno. Quando alla fine più nessuno osa porre una domanda, Ya¯jñavalkya esclama trionfante: “Illustri brahmani, chi di voi, o voi tutti, desidera pormi un quesito, oppure c’è qualcuno tra voi, o forse voi tutti, che desidera sia io a porvi un quesito!”. Questo racconta, quasi giocando, la tradizione sacra.14 La sapienza e il gioco sono indissolubilmente legati. Non nel senso che la sapienza scaturisce dal gioco, ma che la sapienza, come sacra prova di destrezza, viene praticata in forma di gioco. Non crediate che questo nesso sia scomparso con le fasi più progredite della civiltà. Ritengo non sia difficile ravvisare un forte elemento ludico nella storia della sofistica greca. Elemento presente in un certo senso anche nella parola greca provblhma, problema o questione, che vuol dire letteralmente “porre qualcosa davanti agli occhi: prego, prova a risolverlo se ci riesci”. E probabilmente lo si riscontra anche nel fatto che il latino ludus, tra i molti significati, possiede anche quello di “scuola”. La forma ludica emerge chiaramente negli albori della scolastica, e dunque anche nell’università. La contesa intellettuale diffusa nel XII secolo esibisce tutte le caratteristiche di un agone elevato. Dispute e tornei non sono che forme alterne del bisogno vitale di confron14. S´atapathabra¯hmana, XI. 6.3.3, Brhada¯ranyaka-upanisad, III. 1-9. La gara di saggezza dimostra qui ripetutamente la forma tipica dei giochi basati sul contare, il ripetere e il battere l’avversario, superandolo, di cui ha già parlato E.B. Tylor in Primitive Culture, Murray, London 1871, I, cap. III. Inoltre le domande poste risultano degli “enigmi da risolvere per aver salva la testa”, in cui ne va della vita stessa dei partecipanti. Cfr. A. Jolles, Einfache Formen, Niemeyer, Halle 1929, p. 181 sgg.

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tarsi proprio di un’epoca di forti. Abelardo è il massimo rappresentante del nobile gioco intellettuale, egli stesso lo testimonia quando afferma di aver intrapreso lo studio della teologia invece di quello delle lettere come una scommessa.15 Abelardo è il cavaliere errante piuttosto che il trovatore della scolastica, come è stato definito, ovunque in cerca di avversari validi nella dialettica.16 Il carattere agonistico insito nell’attività scolastica di quei tempi emerge in modo evidente dalla descrizione che ne dà Giovanni di Salisbury.17 Non ritengo azzardato correlare il problema degli universali, costante che risale alle origini della scolastica, con quel tratto filosofico del gioco. Le dispute accademiche hanno del resto conservato qualcosa di questa sfumatura in tutti i tempi. Vi avevo già detto che il nostro è un argomento pericoloso. Concedetemi di segnalare soltanto come promemoria che Max Scheler parla di Spieltrieb des rechtslogischen Denkens (pulsione ludica del pensiero attinente alla logica del diritto).18 Non mi azzardo a dare una valutazione sulla fondatezza di questa definizione. Senza dubbio anche in altre discipline scientifiche vi sono degli

15. Abelardo, Opera, a cura di V. Cousin, s.l., s.d., I, p. 7. 16. Ivi, p. 4: “Et quoniam dialecticarum rationum armaturam omnibus philosophiae documentis praetuli, his armis alia commutavi, et trophaeis bellorum conflictus praetuli disputationum. Proinde diversas disputando perambulans provincias, ubicunque huius artis vigere studium audieram, Peripateticorum aemulator factus sum”. È possibile che con “Peripateticus” Abelardo intendesse qui, come gioco di parole, un “filosofo che sta vagando”? 17. Tra cui Metalogicon libri IIII, I, c. 3, anche se è qui presente un forte elemento satirico. Hugo van Sint Victor, De Vanitate mundi, Migne 176.709, mentre descrive una scuola, ci mostra gli studenti intenti nelle loro diverse occupazioni. “Alii autem acriori et ferventiori quodam studio de magnis, ut videtur, negotiis disceptationes quasdam ad invicem exercent et se quibusquam innexionibus et gryphis vicissim fallere contendunt.” Un fervido esempio di filosofia in forma di gara è fornito dalla storia della disputa tra Gerberto e il suo avversario Otrico di Magdeburgo, a Ravenna, davanti all’imperatore Ottone II, nell’inverno del 980-981. Evento riportato da Richer, Historiarum libri IIII, a cura di G. Waitz, Script. rer. Germ., Hannoverae 1877, pp. 104-109, III c. 55-65. Otrico invia una spia a Reims, incaricandola di ascoltare Gerberto di nascosto e ritiene in seguito di averlo colto in errore. Con la figura che lo dimostra si reca dall’imperatore che allestisce la disputa e acuisce lo scontro appositamente, permettendo che Gerberto venga subito attaccato e stimolandolo così a una più decisa opposizione. Quello che siamo soliti chiamare Rinascimento carolingio non è, a mio parere, molto di più di un maestoso gioco di corte basato sull’erudizione, la devozione e la poesia. 18. M. Scheler, Die Wissensformen der Gesellschaft, Der Neue Geist Verlag, Leipzig 1926, I, p. 105.

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speciali ambiti in cui la pulsione al gioco è stata e viene tuttora trattata con leggerezza, come ad esempio nella smania etimologica, prospera già nel Vecchio Testamento e nei Veda, mai repressa nelle sue funamboliche acrobazie neppure a seguito dell’affermarsi di una linguistica più rigida ed esercitata con passione sia da esperti che da profani. Nei periodi di innovazione della filosofia e della scienza riaffiora ripetutamente un espresso elemento ludico con un carattere estremamente controverso. La scienza è polemica, anche se non sempre in egual misura. Nella seconda metà del XVII secolo, quando si è affermata la scienza moderna, abbiamo assistito a uno schieramento in blocchi e fazioni a tutti i livelli. La Querelle des anciens et des modernes che ebbe luogo intorno al 1690 è solo uno dei tanti dibattiti. Pro o contro Cartesio, pro o contro Newton, pro o contro il livellamento del terreno o la vaccinazione, polemiche tra scrittori senza fine; ogni questione scientifica... scatena un putiferio. In tutto questo, giocando, l’intelletto cresce e vive. Il gioco dell’alternarsi di domanda e risposta è fecondo per la sapienza, ma anche per la poesia. Chi risponde con parole crea filosofia o scienza, mentre chi risponde con un’immagine crea poesia. In entrambi i casi la risposta è corretta, se è conforme alle regole del gioco e se è comprensibile per gli altri giocatori. Come nelle civiltà antiche il filosofo è colui che è in grado di porre e risolvere enigmi di portata cosmica, così il poeta è colui che sa parlare il linguaggio dell’arte comprensibile agli iniziati. In questo campo fiorisce tutto ciò che nell’antica tradizione poetica norvegese è definito con il termine kenningar, dove la “spina del linguaggio” è la lingua, la “sala dei venti” la terra, il “lupo degli alberi” il vento, o con allusione al mito e ai dogmi, i “capelli di Sif” e le “lacrime di Freyja” sono l’oro. Rientrano in questo contesto anche i giochi di parole che, come dimostrato da Böhl, hanno trovato ampia diffusione nella lingua del Vecchio Testamento.19 19. F.M.Th. Böhl, Volksetymologie en Woordspeling in de Genesis-verhalen, in Mededeelingen der K. Akad. van Wetenschappen, afd. Lett. 59, A n. 3, 1925. Prendo per valida la defi-

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L’elemento ludico è saldamente legato a tutto quanto è poesia. Sia nella forma che nell’espressione del pensiero. Definire la rima e la metrica, la strofa e il parallelismo un gioco nel senso più elevato del termine non costituisce né un’esagerazione né una riduzione. L’immaginazione funziona sempre come un gioco. Dove è attiva l’esigenza di personificazione, nei miti del gigante primordiale, Purusa o Ymir, così come nelle graziose figure di The Rape of the Lock, è in gioco l’intelletto. Azzarderei l’interpretazione secondo cui tutti gli elementi che nelle culture primitive sono una contaminazione di forme umane e animali – dunque tutto quello che possiamo definire come totem e venerazione di animali –, non si allontanano completamente, neppure un istante, dalla sfera del gioco. Inseriamo in questo contesto anche l’intero apparato allegorico, che non è mai da prendere sul serio neppure, come mi sembra di aver accennato da poco in altra sede,20 nelle visioni sacre come quelle di Hildegard van Bingen. San Francesco venera la sua sposa Povertà con il più sacro dei fervori. Crede forse che essa esista? La dottrina della chiesa non la riconosce. Il confine tra gioco e serio si dilegua proprio nell’epicentro della vita spirituale di Francesco.21 E c’è forse motivo di separare dalla sfera del gioco gli indigitamenta romani con la loro funzione di dare vita a delle divinità, da cui sono scaturiti Pallor e Pavor, Aius Locutius, Rediculus, Domiduca?22 nizione dei giochi di parole data da Böhl come un qualcosa di “all’inizio profondamente serio”, ammesso che la si intenda come gioco. 20. Über die Verknüpfung des Poetischen mit dem Theologischen bei Alanus de Insulis, in Mededeelingen der K. Akad. van Wetenschappen, afd. Lett. 74, B n. 6, 1932, in particolare p. 82 sgg. 21. Intimo come il rapporto di Francesco con la Povertà e con il lirismo ludico, è il legame di Heinrich Seuse, il mistico, con la Sapienza, la cui personificazione era già presente nel Liber sapientiae, così come la personificazione di Justitia, Pax, Misericordia e Veritas nel Salmo 84. Un esempio straordinario di personificazione di una pura astrazione è costituito dalla “Property Woman” degli indiani Haida di cui parla Mauss in Essai sur le don, p. 112 (si veda, infra, la nota 28). 22. Valido a prescindere dall’interpretazione del significato degli indigitamenta, su cui Usener in Götternamen e Warde Fowler in Religious Experience of the Roman People, 1911, divergono profondamente.

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Una tipica funzione ludica è costituita dal desiderio dell’esorbitante, dell’esagerazione sbrigliata. La fantasia della cultura vedica che rappresenta il santo asceta Cyavana, alle prese con lo sbalorditivo esercizio del tapas, nascosto completamente in un formicaio, dal quale emergono soltanto gli occhi come due carboni incandescenti23o Vísva¯mitra, che per mille anni rimane in punta di piedi, non differisce molto da quella di un bambino assorto nel gioco. È forse necessario ripercorrere nella produzione poetica di tutti i secoli questo elemento ludico dell’iperbole? Émile Faguet ha parlato di “le grain de sottise nécessaire au lyrique moderne”. È lecito chiedersi se questo granello non ha portato dei frutti troppo rigogliosi. In taluni eccessi di modernismo l’arte poetica retrocede a mero gioco per iniziati, un gioco però futile e senza senso. Tutti i maggiori generi poetici, nella misura in cui hanno adempiuto a una funzione sociale, hanno avuto tutti contemporaneamente un carattere ludico. L’epos perde la propria qualità ludica nel momento in cui diviene imitazione colta. L’Orlando furioso è un gioco splendido e puro, l’Enriade lo è a malapena, l’Alexandreis di Wouter van Chatillon non è più epos. Forse qualcuno avrà da obiettare: è proprio l’epos artificioso, che imita, ad avere le caratteristiche del gioco. Ne parleremo un’altra volta. La lirica comincia a perdere il suo carattere ludico originario non appena cessa di essere cantata, e ne viene privata a mano a mano che con il Romanticismo l’emozione individuale respinge gli elementi di esercizio agonistico e di forma artistica irreprensibile. L’opera teatrale, suprema e più ricca espressione poetica, mantiene il proprio elevato contenuto ludico. Ecco un altro argomento da trattare in un momento successivo; nell’opera cinematografica credo sia del tutto assente la componente ludica, ma forse mi sbaglio. In nessun altro ambito il legame tra arte e gioco è così solido e fondamentale come nella musica. Ho già accennato al fatto che in 23. Maha¯ba¯rata, III. 122.

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più di un gruppo linguistico il termine “giocare” indica anche l’abilità musicale. Ma questo non è tutto e non costituisce neppure l’aspetto principale. Le forme musicali, disgiunte come sono dalla sfera della vita reale, ai poli opposti del concetto e della forma, permangono, nel senso più stretto del termine, all’interno della categoria del gioco. Dopo aver ascoltato le riflessioni condotte sulla contrapposizione tra serio e gioco non controbatterete più affermando che la musica non è seria. Nella sua massima espressione di serietà la musica resta un gioco, come l’opera teatrale. Restano ancora aperte delle questioni di carattere storico-culturale particolarmente rilevanti. Anche come fattore sociale la musica è stata intrappolata per molto tempo nel gioco. Nelle società precedenti alla nostra la musica, oltre che per la sua funzione liturgica, è stata considerata anche come mera abilità artistica ed elemento di svago, come oggetto di rivalità e orgoglio dei principi. Nel 1717 Augusto il Forte di Sassonia organizzò una gara tra celebrità in cui a competere erano chiamati Johann Sebastian Bach e Louis Marchand che però fortunatamente non si presentò. La competizione musicale, come diletto sociale, resta in voga per tutto il XVIII secolo: a Londra Bononcini contro Händel, le cantanti Faustina e Cuzzoni in un famoso alterco; a Parigi la disputa Bouffons contro Opéra, in seguito Gluck contro Piccinni. Soltanto il Romanticismo ha riconosciuto la musica nel suo più profondo valore vitale, senza per questo privarla delle qualità ludiche che continuano a sopravvivere nel virtuosismo e negli schieramenti musicali, di cui è un esempio calzante il contrasto tra i canti di Wagner e quelli di Brahms, ancora non del tutto scemato. Meno immediati risultano i nessi tra il gioco e l’arte figurativa. Sembra che fin dall’inizio l’elemento ludico sia stato messo in secondo piano dalla destinazione pratica dell’opera d’arte, che deve servire come oggetto di culto, di commemorazione o utilità e ancor più il fatto che la sua produzione ed esposizione non possono aver luogo in forme sociali. Ma è proprio in questo ambito che l’impulso ludico, lo Spieltrieb, viene assunto, già da Kant e Schil111


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ler, come origine e ragione della produzione artistica.24 Lasciando da parte la teoria e cercando di rinvenire chiare manifestazioni dell’elemento ludico nell’arte figurativa, lo ritroviamo sorprendentemente proprio laddove l’arte è più tecnica che fantasia. Consideriamo dunque l’arte e la tecnica insieme. L’arte e l’abilità tecnica erano una cosa sola in epoche passate così come l’opera d’arte e il manufatto. In nessun altro ambito l’impulso culturale si esplica in modo così forte, spontaneo e immediato come quando l’arte e la tecnica seguono uno sviluppo congiunto. In parte questa crescita si svolge nella sfera del gioco. Così almeno è interpretato dalla tradizione: i grandi artefici della preistoria hanno prodotto sorprendenti opere d’arte e creato delle novità rivaleggiando o come incarico per avere salva la propria vita. È qui particolarmente evidente la smania di creare qualcosa di esorbitante. L’uomo vuole vedere il miracolo, vuole compierlo. E lo realizza in gare di cui il mito è testimone: Tvastar, l’artefice che aveva forgiato il “martello lancia tuoni” di Indra, gareggiando in abilità artistica con i tre Ribhu. Wieland, il fabbro, la cui spada fendeva le nubi fluttuanti di lana, e soprattutto Dedalo – prozio mitico di Leonardo –, le cui statue sanno camminare e che riesce a far passare un filo tra le pieghe di una conchiglia (un opera commissionatagli, un problema), utilizzando una formica come animale da traino. Rendere possibile l’impossibile, è questo di cui si occupa la tecnica, suscitando lo stupore di coloro che osservano. La tradizione poetica scade qui volentieri dall’esorbitante all’assurdo, la tecnica dell’immaginazione non si arrestava di fronte a nulla. L’arte o la tecnica, ci si chiede, devono qualcosa nella fase iniziale e di sviluppo, alla forma ludica o agonale? Senza alcun dubbio. Nella vita artistica e dell’artigianato medievale, il “capolavoro”, radicato direttamente nel gioco, occupa lo stesso posto che nelle università spetta alle disputationes pubbliche.25 Gli artisti

24. F. Schiller, Lettere sull’educazione estetica dell’uomo (1795), Armando, Roma 1984, lettera XIV. 25. G.G. Coulton, Art and the Reformation, Blackwell, Oxford 1928, p. 136.

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stessi lavorano con capolavori assegnati e dispute. “Questo presbiterio è stato ideato, in competizione, da Villard de Honnecourt e Pierre de Corbie” – invenerunt inter se disputando, è scritto su uno dei disegni tratti dal famoso libro di schizzi architettonici.26 Si inserisce in questa linea anche il concorso, indetto dalla città di Firenze nel 1418 per completare la cupola del Duomo, per cui furono presentati quattordici progetti tra i quali vinse quello di Brunelleschi. Nella tecnica dei tempi più recenti l’elemento ludico sembra del tutto scomparso. Eppure qualche anno fa un direttore di un’importante compagnia di navigazione del nostro paese mi disse che la competizione tra le nazioni per costruire navi postali sempre più grandi e più veloci era un fenomeno che non si poteva ricondurre a nessun vantaggio di tipo economico o tecnico. Gara, contesa, concorrenza, pubblicità, gioco, sono tutti elementi strettamente correlati tra loro. Approdiamo ora a un terreno in cui non ci si aspetterebbe di trovare tracce del fattore ludico, ovvero in quello delle attività pratiche e delle relazioni commerciali. Per quanto riguarda lo scambio di prodotti desiderati si sarebbe portati a concludere, soprattutto ai giorni nostri, che ogni elemento, fin dall’inizio, è estremamente serio: bisogno di quanto è indispensabile, mero calcolo delle possibilità di acquisto, rapida e anche malvagia caccia al guadagno. Seppur noti dalla notte dei tempi, questi fattori non sono gli unici a determinare le forme degli scambi commerciali. La vita economica non nasce esclusivamente dalla necessità, ma, per quanto possa apparire paradossale, si sviluppa anche nella sfera della generosità, dell’amicizia, della fiducia, dell’onore, dell’orgoglio e dell’avventura. Non potendomi dilungare troppo, mi limiterò a fornire due soli esempi: uno tratto dall’etnologia e uno dalla storia economica moder-

26. Album de Villard de Honnecourt, a cura di H. Omont, pl. XXIX. Testimonia il perpetuum mobile, di cui offre una prova, affermando pure: “Maint ior se sunt maistre desputé de faire torner une ruée par li seule...”.

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na. Chi di voi conosce lo straordinario e affascinante libro di Malinowski Argonauti del Pacifico occidentale27 comprende cosa ho in mente, sa che con il termine kula si intende una consuetudine particolare di un gruppo di isolani della Melanesia che sono soliti compiere, con cerimoniali solenni, navigazioni molto pericolose da isola a isola in due direzioni opposte, con l’unico scopo di scambiare tra i partecipanti a questo gioco di generosità, fiducia e collettività, oggetti che non hanno nessun valore biologico (come l’oro), ovvero collane di conchiglie rosse e braccialetti di conchiglie bianche, offerti in proprietà temporanea, come regalo, nel corso di svariati cerimoniali strettamente collegati al mito e alla magia. Questi oggetti godono di particolare fama e sono molto ambiti, come i nostri trofei sportivi. Orgoglio e onore sono i motivi propulsori. Per quanto non economico, anzi addirittura anti-economico, tale fenomeno rappresenta un sistema creditizio puro. I kula non devono essere considerati come l’origine del commercio tradizionale praticato per il puro profitto – elemento presente come qualcosa di subordinato e di rango inferiore – bensì come uno scambio commerciale in forma di culto. Grazie alla descrizione data da Malinowski dei kula praticati dagli abitanti delle isole Trobriand, è stato possibile chiarire fenomeni analoghi emersi in altre parti del mondo, uno studio che ha permesso di scrivere un nuovo capitolo dell’etnologia. Mi riferisco in particolare ai potlach della tribù indiana dei Kwakiutl della Colombia britannica. Si tratta di una grandiosa manifestazione basata su cerimonie in cui si elargisce tutto quanto si possiede per ottenere onore e prestigio del clan e con l’obbligo di contraccambiare in un momento successivo. Fede e mito sono profondamente congiunti in questa usanza, ma alla sua base c’è la volontà di manifestare generosità e fiducia. I potlach possono essere definiti a tutti gli effetti un gioco, come sostiene anche Mar-

27. B. Malinowski, Argonauti del Pacifico occidentale. Riti magici e vita quotidiana nella società primitiva (1922), Bollati Boringhieri, Torino 2004; cfr. Id., Diritto e costume nella società primitiva (1926), Newton Compton, Roma 1972.

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cel Mauss, che nel suo Saggio sul dono28 ha raccolto i più disparati parallelismi, tratti in particolare dall’antichità classica e germanica.29 Si profila la conclusione che regalare a credito (che oggi suona praticamente come una contradictio in terminis) è una pratica antica e molto più onorevole del vendere qualcosa per un controvalore diretto. Dove corre dunque il limite tra serio e gioco? Dove rintracciamo questa linea di demarcazione, guardando all’esempio tratto dalla storia economica moderna che vi avevo promesso? Agli albori del capitalismo, a Genova e ad Anversa, assistiamo alla nascita del commercio a termine e delle assicurazioni sulla vita in uno stretto legame con la pratica delle scommesse tanto che è lecito chiedersi se la seria forma economica abbia preceduto quella ludica o viceversa.30 Quelle weddingen (puntate), ampiamente descritte nell’opera di Anthonio van Neulighem dal titolo Openbaringe van ‘t Italiaens boeck-houden (Rivelazioni sulla contabilità italiana) del 1631,31 ripetutamente vietate, tra gli altri, da Carlo V,32 dipendono espressamente dalle seguenti eventualità: “La 28. M. Mauss, Essai sur le don. Forme archaïque de l’échange, “L’année sociologique”, n.s., I, 1923-24, Paris 1925, p. 1021: “Le potlatch est en effet, un jeu et une épreuve” (trad. Saggio sul dono, Einaudi, Torino 2002). Non riesco a distaccarmi dall’impressione che G.W. Locher, in The Serpent in Kwakiutl Religion, Leiden 1932, trascuri troppo gli elementi sociologici del potlach a favore della sua interpretazione religiosa. Si confronti a riguardo anche R. Maunier, Recherches sur les échanges rituels en Afrique du Nord, “L’année sociologique”, n.s., II, 1924-25, Paris 1927. 29. A prima vista può apparire forzata la mia intenzione di aggiungere a questi parallelismi anche il vœu du faisan, lo smodato banchetto di Filippo il Buono a Lille nel 1454. Non per il suo carattere ludico, ma come tipico esempio di competitiva e reciproca esibizione di opulenza e prodiga ospitalità. La festa data dal duca conclude una serie di banchetti organizzati a turno dai nobili della Borgogna; ci si passava il testimone mediante una corona, partendo dal basso e aumentando costantemente l’entità dell’evento fino a che il duca primeggiava su tutti per sfarzo ed eccesso. La Marche, Mémoires, II, p. 340 sgg., cfr. il mio Herfsttij der Middeleeuwen, H.D. Tjeenk Willink, Haarlem 1919, pp. 124, 370 (trad. Autunno del Medioevo, Rizzoli, Milano 1997). Non ci distacchiamo qui di troppo dal potlach. 30. Cfr. E. Bensa, Histoire du contrat d’assurance au moyen âge,1897, p. 84 sgg.; Ehrenberg, Zeitalter der Fugger, II, p. 19 sgg., dove è indicata la bibliografia qui utilizzata; J. van Dillen, in De Economist, 1927, p. 505. 31. Per esempio, pp. 77, 86 sgg., 91-107; si veda “Grooten boeck”, ivi, pp. 25, 26. 32. Tra cui 4 dicembre 1544, si veda Verachter, Inventaire des chartes d’Anvers, n. 742, p. 215 (qui datato 1543); Coutumes de la ville d’Anvers, II, p. 400, IV, p. 8. Divieti analoghi a Barcellona, 1435, a Genova, 1467: “decretum ne assecuratio fieri possit super vita [sic] principum et locorum etc. mutationes”, Bensa l.c.

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vita e la morte di persone, viaggi o peregrinazioni, partorire un figlio o una figlia, o occupare paesi, fortezze o città”. Anche per la scelta di un nuovo papa, racconta Ehrenberg, “aveva luogo tutto un via vai, come durante le scommesse sulle corse”. È noto che soprattutto il mondo anglosassone, amante del gioco, scommette sul risultato di qualsiasi cosa. Possiamo parimenti affermare che quando “si gioca in borsa” il limite tra il gioco e il serio, che invano ricerchiamo, non è determinato dalla domanda, a prescindere che si tratti del prezzo del grano o del risultato di una prestazione sportiva e indipendentemente dalla presunta possibilità di calcolo economico o dalla semplice casualità umana. Con questi esempi siamo giunti all’ultimo ambito in cui intendo segnalare la presenza di forme ludiche nella cultura, ovvero quello dello Stato e della società in generale. Ho parlato poco fa di scommesse, weddenscap. Il termine germanico antico wedde ha una storia e un significato singolari. Equivale al francese gage e all’inglese wages, ma è anche compreso nell’inglese wedding e nel vostro jaarwedde (stipendio annuale). La nozione di gioco sembra molto lontana in questi casi. Se però ci riportiamo al diritto germanico antico, risulta praticamente svanita la distinzione tra la stipula di un contratto e l’impegno in una scommessa, nel senso moderno. Il wedde-vadium è l’oggetto simbolico33 che una delle parti porge alla terza a sancire il vincolo preso. Ogni forma di wedden in questo significato antico contiene la promessa di adempiere a qualcosa di particolare. Ci avviciniamo così alla promessa solenne rimasta a lungo come forma ludica nella tradizione cavalleresca34 oppure alla contesa o al duello in generale, muovendoci, se non del tutto, almeno in parte nella sfera del gioco.35 33. Per il suo valore simbolico il wedde è diverso dal pegno. 34. Cfr. il mio Herfsttij der Middeleeuwen, cit., pp. 112-127 (trad. Autunno del Medioevo, cit.). 35. Nel diritto inglese la Wager of battle, l’invito al duello giudiziario, e la Wager of law, l’invito al giuramento di innocenza, sono due formule pure di scommessa, abolite rispettivamente solo nel 1819 e nel 1833. Cfr. Murray, Dictionary, alla voce “Wager”; cfr. anche M. Mauss, “Revue de l’histoire du droit français”, 4, VII, 1928, p. 331 sgg., a proposito del contesto germanico antico: “Le pari est une forme populaire du contrat”, le usanze di matrimo-

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Si getta il gage de bataille, il guanto o qualcos’altro, nella lizza, così come per il matrimonio si mette in palio la sposa, si tratta del brautlauf (corsa per la sposa), oppure quando, nel caso del concorso, si parla di wettsteigerung. Brunilde sottopone i suoi pretendenti a delle prove di forza, Freyja è la posta del combattimento tra gli asi. Le usanze giuridiche antico-tedesche pullulano di motivi ludici: i confini di una marca o di una proprietà vengono stabiliti con una gara di corsa o con il lancio con l’ascia, toccando un punto alla cieca o mediante una roulette primitiva, facendo rotolare un uovo.36 Forma ludica e interesse serio costituiscono così un groviglio insolubile. Accanto alla parola wedde ritroviamo il termine latino-medievale di origine germanica plegium, con una valenza pressoché analoga, che ha dato luogo al francese antico pleige e all’inglese pledge. L’area semantica va da “fungere da garante, rispondere per qualcuno” a “rispondere a un brindisi”. Come origine del termine viene preso il germanico antico plegan, che equivale all’olandese plegen (essere solito, commettere), il cui significato più remoto è appunto “fungere da garante”. Da una forma di plegan deriva anche l’inglese play, anglosassone plega. Verdam en Van Wijk, e con loro Boekenoogen nel Woordenboek,37 respingono l’uguaglianza tra plegan-pledge = fungere da garante e pleganplay = giocare, per via della forte differenza di significato.38 Se invece colleghiamo questi termini al wedde-vadium nel contesto del nostro discorso, l’origine comune da plegan, con un’accezione semantica che si avvicina di molto al gioco, diviene al contrario altamente probabile. Passo ora a una relazione diversa, ma ancora più importante. nio ci portano a “classer le mariage parmi les contrats a épreuves”, che “se rattachent à prestations totales de type agonistique”. 36. Grimm, Rechtsaltertümer, l’intero capitolo III dell’Introduzione. La definizione della proprietà mediante una gara di corsa è riapparsa nel Sudafrica moderno in relazione ai giacimenti d’oro, dove i contendenti partono posizionati tutti su una fila. 37. Autori e redattori di importanti dizionari della lingua olandese. [N.d.T.] 38. Middelnederlandsch Woordenboek, alla voce “plegen”, 437. I; Franck van Wijk, Etymologisch Woordenboek, id. 507; Wdb. der Ned. taal, id. 2483. Sia l’inglese to play che il neerlandese plegen e l’alto tedesco pflegen sono sensibilmente esposti al processo di scolorimento semantico cui ho accennato prima.

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Nella Roma antica il popolo chiedeva panem et circenses, lo abbiamo imparato a scuola. Solo dopo aver letto l’opera magistrale di Rostovtzeff Social and Economic History of the Roman Empire, ho cominciato a capire però quanto, accanto al pane, anche il gioco costituisse una delle ragioni d’essere dello stato romano e un diritto fondamentale del popolo. L’impero romano non fu solo un’istituzione volta a perseguire rendimenti (quale Stato lo è in effetti?). Il trionfo che concludeva una guerra era una celebrazione essenziale quanto il traguardo bellico raggiunto che poteva essere costituito dall’affermazione dei confini o dall’allontanamento dei nemici. Rostovtzeff dimostra, senza pronunciarlo per nome, come dalla struttura imponente ma corrotta dell’impero romano affiori un elemento che non possiamo definire in altro modo se non ludico: nelle innumerevoli, quasi effimere città, con i loro magnificenti e futili sfarzi costituiti da terme, arene e archi di trionfo a beneficio dell’esiguo ceto di ricchi, tra il popolo condannato all’indigenza e all’ignoranza, nelle pompose iscrizioni di generosi benefattori, nella letteratura elogiativa dei panegirici, nello stile ludico e languido dei mosaici e degli affreschi. Sto forse cadendo nell’errore che io stesso ho segnalato, sto oltrepassando i limiti del concetto di gioco? Non credo. Nel corso dei secoli e in tutti i popoli un elemento ludico si mescola in tutto ciò che è status, condizione sociale, fazione o corporazione. Particolarmente evidente quest’ultimo elemento nel Medioevo, nell’istituzione cavalleresca e nella letteratura cortese, nelle gilde e nelle camere di retorica. Sorvolerò qui le caratteristiche ludiche presenti nei tornei, nell’araldica, nelle corti e nelle lotte cavalleresche, nella poetica dei Minnesänger e nelle usanze cortesi di cui ho già avuto modo di parlare in altra sede.39 Ciò che è consuetudine nobiliare, chiusura sociale nella propria cerchia, per quanto possa essere considerato serio, si muove pur sempre al margine del gioco; un nobile in vita scrive sorridendo la propria satira, mentre il cittadino sta a guardare invidioso. Il XVIII secolo ci consente di assistere al ricco sviluppo del gio39. J. Huizinga, Autunno del Medioevo, cit. capp. II-X.

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co della cultura, per un’ultima volta, in un suggestivo ed elegante carattere chiuso. Abbiamo già descritto il suo spirito intellettuale fatto di dispute pubbliche e dibattiti polemici; non solo la musica, ma anche la scienza e l’arte vi prosperano. Lo stile stesso con cui questo secolo si manifesta al suo esordio, il rococò, tende quanto mai all’aspetto ludico. L’esotismo del XVIII secolo, la mania dell’esotico, con turbante o veste da camera, con le Lettere persiane e le sonorità alla turca e soprattutto le chinoiseries con pagode da giardino e padiglioni da tè, cos’è tutto questo se non gioco? Ma anche quando l’emozionalità ispira l’intelletto e il senso di libertà, questo elemento non va perso: nel sentimentalismo, nelle associazioni militari dei “patrioti” dei Paesi Bassi, in Chatterton e Ossian, nella rinascita del gusto gotico, in breve, nell’importante sviluppo della nostra coscienza estetica che dobbiamo chiamare romanticismo, in tutto questo si intersecano il serio e il gioco. E oggi? Il nostro giudizio prende a vacillare, il quadro diviene sfocato. La società contemporanea conosce una profusione del gioco, in forme e dimensioni inesistenti in passato. Il mondo è un conduttore tanto che una moda, come il cruciverba o lo yo-yo, si diffonde con più rapidità di un’epidemia di vaiolo o della sindrome di Weill. Per il sociologo il fenomeno “moda” è di certo importante, ma io mi riferisco ad altre cose. Partendo dall’Inghilterra, lo sport internazionale è diventato un fattore determinante nella nostra vita sociale. Ha così attirato nella propria sfera di organizzazione, competizione e pubblicità anche attività che non hanno una componente atletica (di divertimento non posso parlare) come il gioco delle carte e gli scacchi. Comunque, non è mia intenzione parlare dello sport in sé quanto del suo contenuto rispetto alla questione del limite che ci tiene occupati. Possiamo continuare a considerare lo sport un gioco? Se ci poniamo questa domanda scopriamo che nella nostra cultura esibizionista, ipersviluppata e iperconsapevole i valori morali del gioco e del serio hanno subito una profonda contaminazione. Come non mai tendono a rovesciarsi completamente. Il gioco perde la propria qualità di svincolatezza, autonomia, 119


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spontaneità e vuole diventare serio, mentre vediamo che le attività tecniche ed economiche serie tendono a sfociare nella sfera del gioco. In tutti i campi in cui domina il concetto di record, come nell’aviazione e nelle navigazioni transoceaniche, si supera il limite verso il gioco, e non solo in questi casi. Nei modi più svariati le forme, presunte serie, di attività politiche e culturali danno sfogo ai propri istinti ludici. La società contemporanea è forse meno consapevole rispetto alle civiltà arcaiche di quando e a che cosa sta giocando. L’ho detto già due volte: questo è un argomento pericoloso. Chi non nutre una incrollabile fiducia nell’intelletto e nell’esistenza fa meglio a non arrischiarsi su questo versante del pensiero. Il gioco è una categoria che fagocita tutto, come la follia personificatasi dinnanzi a Erasmo, che doveva diventare sovrana del mondo. Non lanciatevi nell’affannosa ricerca di rinvenire un elemento ludico in tutte le attività importanti della civiltà contemporanea, rischiate di scontrarvi con i vostri amici e con voi stessi. Manteniamo un certo distacco. Mi rifaccio a un altro personaggio. H.G. Wells, che ha toccato questo punto in modo calzante in uno dei suoi romanzi40 quando parla degli irlandesi. A mio parere l’elemento del gioco è oggi presente sia nella nuova Russia41 sia nella società americana. In tutto ciò che è parlamentarismo e fascismo, con elezioni, comitati d’azione e demolizione dei ministeri, un elemento ludico è innegabile e... indispensabile. Se lo si elimina, introducendo per esempio il diritto di voto proporzionale, si assiste a un indebolimento e a un irrigidimento della vita politica. Un certo delirio semi-volontario che riscontriamo oggi nell’at40. H.G. Wells, Joan and Peter, 1920, cap. XII, § 8; cap. XIII, § 6. 41. Mi riferisco tra l’altro all’usanza di conferire un nome alle località secondo un’importante personalità o allo stimolo infantile di emulare delle azioni utili dal punto di vista economico, ad esempio mediante manifesti celebrativi attaccati alle stazioni: “Il macchinista tal dei tali (con foto) ha percorso tot chilometri consumando soli X kg di carburante”. Questi sono tuttavia fenomeni superficiali; il carattere ludico dell’esperimento russo è molto più profondo. Sulle navi da guerra americane si affiggono dei simboli di prestigio a macchinari o cannoni che si sono rivelati particolarmente utili, decorandoli con una gigantesca E = efficiency.

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tività politica di tutti i giorni, se vogliamo guardare alle cose con gli occhi aperti, si spiega e si giustifica in parte con l’ineluttabile qualità ludica legata a ogni forma di cultura. Sfioriamo costantemente le questioni più profonde dello studio della cultura, problemi per cui l’etnologia, la psicologia e l’epistemologia, messe insieme, stentano a trovare una risposta (per non parlare di una soluzione). Solo grazie al gioco gran parte della cultura non viene tacciata di ipocrisia. La società si salva, si riscatta, si redime nel gioco. Siamo ormai prossimi alla conclusione. A quanto pare, non siamo riusciti a tracciare una linea che segni i limiti che volevamo ricercare. Ogni volta che abbiamo tentato di determinare il gioco, nel sacro o nel profano, nel bello e nel nobile o nel quotidiano e futile, ci siamo ritrovati ben presto ai confini della nostra stessa capacità espressiva. I limiti di serio e gioco si muovono nella sfera dell’inavvicinabile. Non interpretate, vi prego, questo mio discorso come un contributo rassegnato e disfattista sulla cultura e la società. Non intendo denigrare il serio, ma lodare e sublimare il gioco. Se vi spaventa l’assenza di una netta demarcazione tra i due, vi indico dei punti di delimitazione entro i quali potete muovervi sicuri. Dall’altra parte rispetto a tutto ciò che definiamo gioco si trovano le cose più profonde che l’uomo possieda; la pietà e l’equità, la sofferenza e la speranza. Basta una loro goccia per consacrare la vostra azione e il vostro pensiero e rendere ininfluente la questione del limite che ci siamo posti. Ancora un passo in avanti. Alcuni anni fa stavo viaggiando in treno con un fisico, mio conoscente. Discutemmo dei fondamenti delle nostre scienze e toccammo argomenti assai profondi. Alla fine, il fisico, l’uomo dalla conoscenza matematica e scientifica, esclamò: “Per te anche la scienza è, mi pare, un gioco nobile?”. Trasalii per un istante e risposi con uno stentato sì, ma dentro di me sentivo gridare: no! Ammettere che ciò a cui avevo dedicato tutte le mie forze non era nient’altro che questo, non era forse una profanazione e un fallimento? 121


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A meno che in effetti il concetto sempre evanescente di gioco, nel senso più elevato e ampio del termine, non fagociti in sé quanto di questo mondo è futile ed elevi tutto ciò che è serio. Così è stato compreso da un pensatore le cui parole, di tanto in tanto, sembrano risuonare in eterno. “Alle Creaturen sind Gottes Larven und Mummereien [tutte le creature sono larve e maschere di Dio]”, ha detto Lutero: maschere con le quali e dietro le quali un Dio nascosto mette in scena il mondo, l’intera storia non è altro che la giostra di Dio, come Lutero stesso aveva sostenuto in altra sede.42 La contrapposizione che abbiamo provato a definire si dissolve realmente e irrevocabilmente in questa acuta metafora.

Traduzione dall’olandese di Alessandra Liberati con la revisione di Dolores Ross

42. Luther, Werke, Erlanger Ausgabe, XI, p. 115; cfr. Weimarer Ausgabe, XV. 373. 5, XVI. 263. 4, XIX. 360. 19, XXIII. 8. 36, XL. 174. 3, 175. 17, XLII. 507. 16, riportato da F. Blanke, Der verborgene Gott bei Luther, Berlin 1928. Sebastian Frank, il disfattista religioso, vizia il pensiero di Lutero e lo priva del suo senso più profondo, interpretando questo gioco del mondo come un’inutile farsa carnevalesca che Dio stesso disprezza e confonde. Cfr. R. Stadelmann, Vom Geist des ausgehenden Mittelalters, Halle 1929, p. 258.

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Il gioco come struttura [1947] ÉMILE BENVENISTE

mmenso è il campo che compete al gioco. Le sue forme sono così varie che non vi è nessuno dei nostri comportamenti, delle nostre parole o dei nostri pensieri che non vi appartenga in qualche misura; talmente poco conciliabili tra di loro che ci si stupisce di vederle designate allo stesso modo. Delle manifestazioni infinitamente diverse che ne risultano e che fanno apparire il gioco meno come un’attività particolare che come una certa modalità propria di tutte le attività umane, si è soprattutto cercato l’origine in una tendenza bio-psicologica che troverebbe qui esercizio e soddisfazione. Non seguiremo questa strada: è del gioco, non del giocatore che sarà qui questione. Procedendo inversamente, considereremo il gioco come un dato di fatto, come forma, per cercare di svelare gli elementi che ne concatenano la struttura e per tentare una definizione della funzione che esso svolge. Possiamo da subito proporre una definizione minima del gioco, che ne sottolinei i caratteri fondamentali, quelli senza i quali esso non esiste. Chiameremo gioco ogni attività regolata che ha il suo fine in se stessa e non mira a una modificazione utile del reale. Emergono già i tratti principali che contraddistinguono il gioco: il fatto che sia un’attività che si svolge nel mondo, ma che ignora le condizioni del “reale”, poiché ne fa deliberatamente astrazione; il fatto che esso “non serva a niente” e si presenti co-

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É. Benveniste, Le jeu comme structure, “Deucalion”, 2, 1947, pp. 159-167.

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me un insieme di forme la cui intenzionalità non può essere orientata verso l’utile, ma che trova il suo fine nella sua realizzazione; infine, il carattere formale e regolato del gioco, il quale deve svolgersi secondo alcuni limiti e condizioni rigorose, e che costituisce una totalità chiusa. Tutti questi tratti, bisogna dirlo, separano il gioco dal “reale”, in cui il volere umano, asservito all’utilità, va a sbattere di continuo contro l’evento, l’incoerenza, l’arbitrario, in cui nulla giunge mai al termine previsto né segue le regole ammesse, in cui la sola certezza che l’uomo possiede, quella della sua fine, gli appare al contempo iniqua e assurda. Il gioco sfugge a tutte queste limitazioni, in quanto è innanzitutto forma. Qualificarlo come “forma” vuol dire opporlo a un “contenuto”, che non sarebbe altro che la realtà. Ma da ciò non consegue che il gioco è una forma vuota, una produzione di atti privi di senso. La coerenza della sua struttura e la sua finalità interna implicano al contrario un senso che è come inerente alla sua forma e che è sempre estraneo a qualsiasi finalità pratica: esso è prodotto dall’arbitrario stesso delle condizioni che lo limitano e attraverso le quali, passando dall’una all’altra, esso giunge a compimento; il suo essere è tutto nella convenzione che lo regola. Se una sola delle regole che lo mantengono fuori dal “reale” è violata, il gioco cessa e si ricade nella realtà. Dunque arbitraria sarà anche, e necessariamente, la condizione propria dei partecipanti, i quali si spogliano del loro ruolo [personnalité] quotidiano per assumere solamente quello che l’esigenza del gioco gli assegna; la loro sola funzione sarà di permettere al gioco di realizzarsi. E deve realizzarsi come azione, essendo la trascrizione di uno schema anticipatamente dato e che esiste di per sé fino alla sua conclusione. È dunque il gioco che determina i giocatori, non l’inverso. Esso crea i suoi attori, conferisce loro un posto, un rango, una figura; regola il loro mantenimento, il loro aspetto fisico, li crea addirittura, a seconda del caso, morti o vivi. Tutto è condizionato dallo svolgimento del gioco, all’interno delle condizioni nelle quali esso consiste. Di questa seconda realtà nella quale il gioco ci installa e ci mantiene per il tempo della sua durata, non è sufficiente dire che 124


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è differente dalla “vera” realtà. La si può caratterizzare con più precisione grazie ad alcune espressioni che le applichiamo. L’estensione che diamo alla parola gioco chiarisce la rappresentazione che ne facciamo. Parliamo del gioco delle carte, del gioco della pallacorda, e anche del gioco di una biella, del gioco delle istituzioni, o della recitazione [jeu] di un artista. Diciamo che un attore recita [joue] e che una porta è mobile [joue]. Impieghiamo delle espressioni molto diverse come: entrare in gioco; mettere in gioco; lasciare un po’ di gioco [donner du jeu]; prendersi gioco di... Lo stesso vocabolo sembra significare al contempo movimento, obbligo, artificio, facilità o esercizio. Tutta questa diversità, persino contraddittorietà, è gravida di insegnamenti, che in primo luogo ci dicono qualcosa di noi stessi; la testimonianza delle parole mette in luce la nostra concezione del gioco. In questo ambito non esiste alcuna nozione immutabile: dove noi non vediamo altro che varietà di una stessa specie – per esempio, il gioco dei bambini e il gioco sportivo –, i greci distinguevano due realtà indipendenti (paignion e athlos) che non avrebbero mai confuso. Molte lingue fanno la stessa distinzione. Ma, a parte questo, è possibile distinguere, nelle molteplici accezioni in cui ritroviamo la parola, i tratti costanti di una definizione. Ad aver causato questa proliferazione semantica è il fatto che ogni esercizio collettivo, ogni “rappresentazione”, ogni figurazione sono ormai considerati come un “gioco”, come un’imitazione “non seria” della realtà. È il loro lato fittizio che si trova così sottolineato. Il soldato che si esercita, il lottatore nell’arena, l’attore sulla scena compiono semplicemente i gesti dettati dal loro ruolo, fino in fondo. Ogni comportamento che riproduce i contorni esterni di un’azione pianificata, che ne imita l’andatura e lo sviluppo, sarà qualificato come gioco. Per estensione si designerà così un funzionamento considerato dall’esterno, nel suo movimento regolare, indipendentemente dal risultato raggiunto: si parlerà di gioco dei muscoli, meccanismo formale, legame delle parti nel tutto che le ordina, ma la cui funzione non è presa in considerazione. Si trova così unificata, nei termini che la traducono, la nostra rappresentazione del gioco. Essa si è costituita a partire dal momento in cui, 125


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in latino, jocus (che ha dato origine alla nostra parola “gioco”) ha soppiantato ludus. Jocus è il gioco-di-parole, il discorso non serio, la battuta scherzosa; ludus è propriamente l’“esercitazione” [entraînement] in tutte le sue forme: esercitazione allo studio (da cui deriva ludus, “aula, scuola”) o esercitazione al combattimento, esercizio militare (da cui deriva ludus, “competizione, gioco da circo”). La sostituzione di ludus con jocus, il quale è il solo a essere sopravvissuto, consacra un atteggiamento diverso di fronte agli esercizi e concorsi, ridotti ormai al rango di semplici “giochi”. Possiamo così determinare l’area di questa rappresentazione. Ma non siamo per questo informati sulla sua natura. Impariamo solamente che il gioco è specificato in maniera sempre più netta come distinto dalla realtà, come “non serio”. Ciononostante il gioco è anche, a suo modo, una realtà. Bisogna quindi che il gioco, separato dal reale e dal quotidiano attraverso le sue convenzioni, abbia una sua realtà propria. Dunque vi è senz’altro una realtà del gioco, altrettanto specifica, con le sue leggi, la sua necessità, la sua logica, il suo codice e persino il suo linguaggio. Di che natura è questa particolare realtà, e in che rapporto si trova con l’altra che essa esclude? Il gioco realizza, tramite i suoi partecipanti, una sorta di dramma completo, di forma generalmente agonistica, consistente in una lotta per il possesso di un oggetto, strumento o simbolo di vittoria. Si gioca in un gruppo chiuso – una squadra, un circolo, un club, una troupe, una classe ecc. –, la cui unica ragion d’essere è il gioco, e che è interamente consacrato alla sua realizzazione. Tra i membri di questo gruppo, il legame del gioco può essere più forte di un vincolo di sangue; crea un sentimento estremamente forte di comunità dal quale trae la sua missione, il suo onore, i suoi simboli; i giocatori hanno un ruolo [personnalité], spesso si travestono. Tutto ciò aiuta a definire il tipo di realtà in cui si svolge il gioco: è una realtà mistica e che prende in prestito dal sacro alcuni dei suoi caratteri più visibili. Questa conclusione si riallaccia a quelle che i sociologi deducono dalle forme attuali del gioco. Numerosi studi sull’origine e il 126


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significato di gran parte dei nostri giochi mostrano la sopravvivenza di tracce più o meno chiare di antiche cerimonie sacre, danze, lotte, mascherate. Il gioco della palla drammatizza antichi miti tribali. Nei girotondi e nei giochi d’infanzia si perpetuano dei riti nuziali. I giochi d’azzardo sono destinati a consultare o a influenzare la sorte. In qualche gioco-partita è possibile ancora riconoscere la traccia di culti agrari. La trottola è un’antica ruota divinatoria, ecc. Ovunque appare così una profonda relazione tra il gioco e il sacro.1 E saremmo ancora più tentati di identificare le due essenze, visto che la passione del giocatore, che lo sottrae dal mondo reale, assomiglia spesso all’estasi del fedele quando è in contatto con il sacro; è la stessa esaltazione, la stessa pateticità, una frenesia che può portare all’assassinio o al suicidio. Ciononostante, al di sotto di questa sicura parentela, discerniamo le differenze fondamentali, tra cui dobbiamo mettere in luce le principali. Il sacro suppone una realtà, quella del divino; attraverso il rito, il fedele è introdotto in un mondo distinto, più reale di quello vero. Il gioco, al contrario, si separa deliberatamente dal reale. È possibile dire che il sacro appartiene al sur-reale, mentre il gioco all’extra-reale. Inoltre, l’operazione sacra ha una finalità pratica che è quella di rendere abitabile il mondo terrestre, di cacciare le forze ostili, di organizzare la società, di procurare la sussistenza o la vittoria. Il gioco non ha in sé alcuna fina-

1. Su questo punto incontriamo, ma contraddicendoli, alcuni sviluppi del libro, peraltro ottimo, di J. Huizinga, Homo ludens (1939, Einaudi, Torino 1946, 19823). Le presenti riflessioni erano già state elaborate quando siamo venuti a conoscenza di quest’opera, dove non avremmo d’altronde trovato se non delle argomentazioni contro la tesi che l’autore sostiene. Huizinga annette al gioco praticamente qualsiasi attività umana sottostante a delle regole. Non si vede quindi più a che cosa il gioco si opponga né, di conseguenza, in che cosa consista. La questione fondamentale dei rapporti tra il gioco e il sacro è così, secondo noi, interamente falsata, sebbene essa resti il cuore del problema. Rimane il fatto che Huizinga chiarisce l’analisi dei grandi fenomeni della cultura, se non altro mostrandovi, e spesso in maniera suggestiva, l’importanza che il gioco riveste. (Roger Caillois, che ha potuto leggere il nostro articolo in manoscritto, ha avuto la gentilezza di segnalarci un suo studio [Le ludique et le sacré, comparso in “Confluences”, 10, 1946 e in seguito incluso, con il titolo Jeu et sacré, nella seconda edizione di L’homme et le sacré, Gallimard, Paris 1950; trad. L’uomo e il sacro, Bollati Boringhieri, Torino 2001, N.d.T.] in cui analizza e discute approfonditamente questa stessa opera di J. Huizinga. Malgrado la differenza dei punti di vista, le sue osservazioni anticipano alcune delle nostre conclusioni riguardo alle relazioni tra gioco e sacro.)

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lità pratica; la sua essenza è nella sua stessa gratuità. Per questo non possiamo attribuire al gioco il fine di provocare le emozioni che suscita; queste emozioni non sono altro che delle conseguenze che non hanno a che fare con la natura del fenomeno. Infine, nel sacro, ognuna delle regole molto severe della cerimonia ha in sé la sua efficacia; esse devono provocare l’intervento della divinità attraverso un’invocazione diretta e allo stesso tempo permettere agli uomini di sopportare senza pericolo il terribile e malefico contatto con il sacro. Nel gioco, le regole non sono nulla prese separatamente, mentre insieme sono tutto, il che mostra molto bene la loro proprietà strutturante; servono a delimitare il quadro spaziale e temporale, le “convenzioni”, e nello stesso tempo costituiscono di per sé l’intero gioco. Perciò, complessivamente, il sacro è tensione e angoscia; il gioco, esaltazione e liberazione. Tutto oppone dunque il gioco e il sacro. E ciononostante tutto li apparenta. In questa relazione dialettica risiede senza dubbio il loro vero rapporto. Essi hanno infatti una struttura simmetrica ma opposta. Questa omologia definisce il gioco e il sacro attraverso dei tratti comuni e un orientamento contrario. Mentre il sacro eleva l’uomo al divino, che è un “dato” e che è la fonte di ogni realtà, il gioco riporta senza pericolo il divino al livello dell’uomo e, attraverso un insieme di convenzioni, glielo rende immediatamente accessibile. Dunque il gioco non è, in fin dei conti, nient’altro che un’operazione desacralizzante. Il gioco è un sacro invertito e le regole del gioco servono esclusivamente ad assicurare questa inversione, che apparirà meglio se mostriamo in che cosa consiste questa trasmutazione e come si realizza. Nel sacro risiede la suprema efficienza, condizione primordiale dell’efficienza umana. I nostri atti non hanno nessuna conseguenza e sono vani se il loro potere non è garantito sin dall’inizio dalla cerimonia in cui l’officiante li ha compiuti nelle forme prescritte e ha evocato il loro prototipo divino. Ora, il potere di questo “atto” sacro risiede precisamente nella congiunzione tra il mito che enuncia la storia e il rito che la riproduce. Se confrontiamo questo schema con quello del gioco, la differenza appare essenziale: nel gioco, sopravvive solo il “rito”, si mantiene solo la forma 128


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del dramma sacro dove tutte le cose sono poste ogni volta di nuovo. Ma il “mito”, l’affabulazione in parole pregnanti che conferisce agli atti il loro senso e la loro virtù, è dimenticato o abolito. Staccato dal suo mito, il rito si riduce a un insieme regolato di atti ormai inefficaci, a una riproduzione inoffensiva della cerimonia, a un puro “gioco”. Della lotta divina per il possesso del sole, non resta che un gioco con la palla in cui il giocatore può impunemente e a suo piacere – un dio ha mai avuto un tale privilegio? – appropriarsi del disco solare. Tale è il ludus. Il jocus offre una struttura simile, ma rovesciata. Sono le parole, non più gli atti, a costituire il gioco, ma delle parole a cui non resta altro che la loro virtù propria; vengono proferite “come se” traducessero una realtà, ma al di sotto di questa convenzione, accettata da tutti i partecipanti, non nascondono in realtà nessun contenuto vero. Il jocus è contraddistinto dal carattere deliberatamente fittizio della realtà a cui allude; ma questa non è una realtà costruita, che sarebbe semplice menzogna; la menzogna suppone o crea lo stesso tipo di realtà della veracità, mentre il gioco-di-parole, la storia “per ridere”, rinvia a una realtà differente ammessa come tale. Risulta allora che, al contrario del ludus, e in maniera simmetrica, il jocus consiste in un puro “mito”, al quale non corrisponde nessun “rito” che gli dia una presa sulla realtà. Possediamo in sostanza gli elementi di una definizione del gioco come struttura. Esso ha origine nel sacro di cui fornisce un’immagine inversa e spezzata. Se il sacro può definirsi attraverso l’unità consustanziale del mito e del rito, si potrà dire che vi è gioco quando si compie solamente una metà dell’operazione sacra, traducendo solamente il mito in parole o soltanto il rito in atti. Ci troviamo così fuori dalla sfera divina e umana dell’efficiente. Il gioco, così compreso, avrà due varietà: giochica [jocique], quando il mito è ridotto al suo proprio tenore e separato dal suo rito; ludica, quando il rito è praticato per se stesso e separato dal suo mito. Sotto questo doppio aspetto, il gioco incarna ognuna delle due metà in cui la cerimonia sacra si trova scissa. Inoltre, è caratteristico del gioco il ricomporre in maniera fittizia, in ognuna delle sue due forme, la metà assente: nel gioco di parole si fa come se 129


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una realtà di fatto dovesse derivarne; nel gioco fisico si fa come se una realtà di ragione lo motivasse. Questa finzione permette agli atti e alle parole di essere coerenti con se stessi, in un mondo autonomo che le convenzioni hanno sottratto alle fatalità del reale. Spingendo più lontano questa definizione, al fine di verificarla, è possibile ipotizzare che essa fornisca le condizioni necessarie e sufficienti per la produzione di ogni gioco, per trasformare in gioco qualsiasi attività regolata. Di fatto, affinché una tale attività si ribalti in un gioco, è necessario e sufficiente che la si consideri nella sua struttura organizzata, facendo astrazione del fine “reale” che essa si propone: è un gioco la giustizia con il suo cerimoniale e i suoi riti immutabili, se si trascura la causa giudicata; è un gioco la politica che si svolge tra tante forme e regole, se ci si disinteressa del governo degli uomini; è un gioco la poesia, concatenamento di forme arbitrarie regolate rigidamente, se si disdegna il sentimento espresso; è un gioco il culto, la cosa più regolata di tutte, se lo si separa dai miti che esso attualizza; è un gioco la guerra... ecc. Ogni manifestazione coerente e regolata della vita collettiva e individuale è trasformabile in gioco quando le si sottrae la motivazione di ragione o di fatto che le conferisce l’efficacia. Ora possiamo forse discernere ciò che in noi fa appello al gioco e vi trova soddisfazione. Il gioco come struttura rinvia senza dubbio a una struttura umana che, avendolo modellato, vi si adatta. Se lo si considera da un punto di vista molto generale rispetto all’uomo, si nota innanzitutto che il gioco è legato al predomino della vita subconscia di cui è, sin dalla più tenera età, una manifestazione vitale. In quanto libera un’attività spontanea, esso corrisponde a un istinto profondo. Quando il bambino acquisisce la prima nozione di reale, quando comprende che il mondo “utile” è composto di pericoli, cose illogiche e divieti, trova rifugio nel gioco e compensa così lo sforzo spossante che l’apprendistato della realtà impone alla sua mente. E a ogni età, che vi si lasci andare o che lo si ricerchi, il gioco significa oblio dell’utile, benefico abbandono alle forze che la vita reale imbriglia e su cui infierisce. Nel gioco di gruppo è un forte inconscio collettivo quello 130


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che trova la sua soddisfazione, al di là dell’inconscio individuale. L’attività del gioco, nel bambino, infatti, corrisponde alla sua rappresentazione innata delle cose, che è essenzialmente magica. È proprio questa visione magica, che il mondo vero delude in ogni istante e sempre più, che il gioco permette di vivere al bambino: si può identificare con chiunque, creare qualunque cosa, spezzare il regno del possibile e dell’impossibile. Da un’età all’altra, i prestigi del gioco non variano: dal momento in cui vi si entra, tutti i poteri della società e della ragione sono sospesi. Il rigore del fittizio sovverte il reale. È sufficiente diventare quello che il gioco richiede e assumere i rischi previsti, affinché un mondo soddisfacente e intelligibile nasca dalle sue stesse regole. Bisogna porre questa antinomia dello spirito rispetto al mondo “vero” affinché si rivelino tanto l’autenticità della vita di gioco quanto la sua funzione. Il gioco permette di risolvere o di abolire questo conflitto, nel quale si riassume il rapporto della coscienza con il mondo. La coscienza è condannata a brancolare dolorosamente in un reale che essa non può vivere d’emblée, né accettare completamente, poiché se è vero che spesso riesce a modificarlo, d’altra parte non è mai in condizione di comprenderlo. Questa è la fatalità. Per realizzare la sua tendenza più profonda, la coscienza deve irrealizzarsi rispetto all’universo. Ecco dove il gioco interviene: esso figura come una delle modalità più rivelatrici di questa irrealizzazione a cui aspira il subconscio, perché il gioco significa libera espansione. Non è la sola testimonianza: l’immaginazione, il sogno, l’arte sono delle altre. Ma soltanto il gioco permette alla coscienza di vivere la sua irrealizzazione in un mondo che le è dato e nel quale l’irrealizzazione è la legge. Ci troviamo dunque nel punto in cui si congiungono un bisogno che emana dalla coscienza e una forma proposta dal gioco. Il bisogno di irrealizzarsi si libera in questa struttura data e completa. Esso non riuscirebbe a trovare altrove, nel sacro per esempio, la stessa soddisfazione, poiché, per quanto il sacro sia separato dalla vita reale, rimane coordinato a essa, dal momento che la comanda; solo il sacro dà al reale la sua realtà, la sua consistenza, e agli uomini il potere di gestirlo e governarlo. Dunque la distinzio131


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ne tra sacro e profano non si sovrappone assolutamente a quella tra gioco e reale; le è solamente parallela. In quanto esso conserva soltanto la forma del sacro e la proietta al di fuori della realtà, il gioco si assicura al contempo la magia dell’irreale e la consistenza dell’umano, la gioia dell’espansione libera e l’ordine della sicurezza. Ognuno può allora, per quanto glielo permettono la sua immaginazione e la sua passione, valorizzarlo di nuovo e addirittura ri-sacralizzarlo in funzione di un mito personale.

Traduzione dal francese di Giuseppe Bianco

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L’attrazione, l’orrore del gioco [1958] MAURICE BLANCHOT

al libro di Huizinga e dall’opera recentissima di Roger Caillois, ricaviamo l’impressione che il gioco giochi a passare attraverso le maglie della riflessione e a conservare qualcosa di leggermente enigmatico: forse perché questa leggerezza lo colloca a tratti al di sopra e a tratti al di sotto delle affermazioni serie che intendono definirlo. In questo senso, vi è già un’affinità – ma anch’essa ingannevole – tra l’arte e il gioco.1 I due libri ci portano a questa conclusione attraverso la ricchezza delle considerazioni, l’ampiezza e la precisione dell’esame, il carattere convincente delle formule. Quello di Huizinga, un poco disordinato ma molto sicuro nella sua impostazione, ci ha fatto notare e, anzi, ci ha mostrato con precisione come un’attività infantile, insignificante e irresponsabile, sia vicina alle più alte manifestazioni della cultura. Le arti, il diritto, perfino la saggezza, sono, all’origine, animati dallo spirito del gioco e trovano, in questa attrazione, accesso allo spirito che è loro proprio. Huizinga non dice che la cultura – termine purtroppo incerto – deriverebbe dal gioco per un processo di evoluzione, provenendo dal

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M. Blanchot, L’Attrait, l’Horreur du Jeu, “Nouvelle Revue Française”, 65, 1958. Ringraziamo la rivista “Riga” e il traduttore Daniele Gorret per averci dato il permesso di ripubblicare questo testo (“Riga”, 23, 2004). 1. J. Huizinga, Homo ludens (1939), trad. di A. Vita, Einaudi, Torino 1946, 19732; R. Caillois, I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine (1958, 19672), a cura di L. Guarino, Bompiani, Milano 1981.

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gioco come l’adulto viene dal bambino. Dice invece, in modo più sottile, che essa nasce sotto forma di gioco, o anche che nasce nel gioco, dal quale trae il carattere di competizione regolamentata, di lotta spirituale, di combattimento fittizio e felice. Eppure il gioco precede ogni cultura; gli animali giocano quanto gli uomini; il gioco infantile è a tutti gli effetti gioco. Nello stesso tempo non possiamo fare a meno di notare che, in molte società, le istituzioni sacramentali funzionano come giochi, di cui possiedono la struttura, gli usi, le bizzarrie: “Innegabile è l’estrema somiglianza delle forme rituali e delle forme ludiche”. Il gioco è vicino al sacro, come la cultura è vicina al gioco. Nel gioco sacro né il gioco né il sacro vengono alterati dalla loro alleanza. Il teatro, quale esso fu, realizzazione mistica, divertimento solenne, manifestazione del potere artistico, rivela come si affermino, in una simultaneità e in una comune appartenenza, il sacro, l’arte, il gioco: i tre richiami indirizzati originariamente all’uomo per metterlo in rapporto con gli dèi attraverso la libertà innocente per una realizzazione particolare. Il gioco è qui come il mediatore che, permettendo di giocare con il sacro, dà all’arte il potere di costituire una comunicazione di forma nuova, in parte libera, in parte obbligata, in parte attiva, in parte passiva, con ciò che, senza lo spirito del gioco, la sprofonderebbe nel silenzio, nella sterilità e nel terrore. L’arte non è il gioco e non è il sacro, ma il gioco le offre il gioco che, nello spazio che le è proprio, la libera per la realizzazione a distanza del divino (e di quella distanza che è il divino). La definizione del gioco, come ce la propone Huizinga, spiega questo ruolo sorprendente: giocare è, nella sua essenza, collocarsi e aver coscienza di tenersi al di fuori della vita corrente, in uno spazio nettamente delimitato, per un tempo circoscritto con precisione, sottomettendosi liberamente a regole molto strette, senza perseguire altri fini se non il gioco stesso, il quale, per la tensione che provoca e la gioia cui si accompagna, impegna interamente il giocatore fino al momento in cui lo libera altrettanto interamente. Definizione molto attraente. Si vede subito quali tratti comuni essa suggerisca tra l’attività religiosa, l’attività ludica e l’attività artistica. Tutte e tre separano l’uomo dal mondo quotidia134


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no. Il terreno di gioco – che sia lo stadio o la scacchiera – è il tempio assoluto, inizio d’un altro regno, affermazione d’altre leggi e d’altri costumi; è il cerchio magico in cui il non-giocatore non può entrare, come non vi entrano le cure del mondo, e che all’osservatore esterno pare il luogo di un’attività irragionevole, come possono parergli irragionevoli i gesti della liturgia o l’uomo assorbito nella contemplazione di una superficie variopinta. L’intermezzo, tempo in cui si gioca, ben designa l’interruzione del tempo che si attua ogni volta che vi è gioco, celebrazione, spettacolo. La festa è l’evento comune in cui un lato è gioco e l’altro lato è cerimonia cultuale, più tardi manifestazione culturale: lì si incontrano dèi e uomini, lì ciò che sta al di sopra degli dèi, ciò che sta al di sotto dell’uomo laborioso, il sacro e l’allegria, si annunciano nel tempo intermedio per misurarsi in colui che ha il ruolo di vivere tra il qui e l’aldilà: il poeta, giocoliere di parole e oracolo fatale, potenza impotente. Questi rapporti appaiono così essenziali da chiedersi perché il giocatore di dadi non sia Michelangelo che dipinge la Cappella Sistina o il prete che canta la messa. Il fatto è che questi caratteri solo formali sono ingannevoli: a farvi troppo affidamento, si dovrebbe dire che l’operaio che lavora in fabbrica non si distingue in nulla dall’uomo che gioca né dal prete che celebra: anch’egli appartiene a uno spazio separato dal mondo in modo altrettanto netto del luogo del sacrificio e del terreno da golf: “Vietato l’accesso agli estranei”. La durata del rito del lavoro è rigorosamente definita; l’inizio e la fine vi sono segnalati da uno strano cerimoniale – il richiamo delle sirene, il controllo di bizzarre apparecchiature – destinato ad aprire e a chiudere un tempo particolare. In fabbrica, l’uomo del lavoro obbedisce a regole inesorabili da cui non può allontanarsi; infine, come il prete o il calciatore, ha una speciale divisa che lo traveste immediatamente da lavoratore. In fabbrica, egli è davvero qualcun altro, altrettanto escluso, altrettanto estraneo agli agi del mondo quanto può esserlo il grande indovino, votato inoltre a quella vita più ordinata, più astratta e più libera dalle incertezze naturali che Caillois riconosce nel gioco, immagine ideale della vita. 135


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Il lavoro – proprio perché costringe il lavoratore meccanico a un’esistenza a sé stante (si pensi ai lavoratori delle città atomiche) – non è, forse, lontano dal sacro, ma non è un gioco. Cosa significa giocare? Cosa è gioco nel gioco? Il tratto che fino a ora abbiamo trascurato è l’evidenza stessa del gioco, è come la sua essenza leggera: il gioco non è che gioco, ecco la sua più esatta definizione. Quando giochiamo, non lavoriamo, non moriamo, anche se i gesti sono quelli del lavoro o evocano la fatalità della morte. Il gioco non è che gioco: quando giochiamo, non facciamo altro che giocare, ci spendiamo e ci chiudiamo nel gioco, non abbiamo altro orizzonte, perché il gioco è sempre interamente purezza di gioco, pura affermazione di qualcosa di irriducibile che, secondo Huizinga, non può essere nominato in francese, che l’inglese chiama fun, il tedesco Spass e che in francese, povera lingua, designiamo maldestramente parlando di qualità ludica. Il “non è che” del gioco è quindi molto ricco e assai poco semplice. Significa: il gioco è finzione, “attività libera, avvertita come fittizia”. In generale, la regola fa il gioco; ma molti giochi non hanno regole: si gioca con le bambole improvvisando in libertà. In questo caso – è un’annotazione profonda di Caillois – “la finzione, il senso del come se sostituisce la regola e adempie alla stessa funzione”. Quando c’è regola, “la regola crea una finzione”; ma quando la condotta del gioco è una parvenza, una semplice mimica, “questa coscienza dell’irrealtà sostanziale del comportamento adottato separa dalla vita corrente, invece e al posto della legislazione arbitraria che definisce altri giochi”. I giochi sarebbero quindi o regolati o fittizi. Però, in tutti i casi, il gioco non è che un gioco. Anche quando si gioca per davvero, obbedendo alla serietà del gioco che è spesso molto superiore alla serietà della vita, il senso della leggerezza, dell’inatteso, dell’incoscienza e dell’assenza di giustificazioni – l’assoluto del gioco – libera il giocatore nella sola passione di giocare. Se ricordiamo al bambino che non è un vero cavallo, il pesante errore che commettiamo non deriva dall’illusione che stiamo spezzando, ma dalla pesantezza che introduciamo nello spazio leggero del gioco. Il bambino sa bene che non è un cavallo; non vi è, da parte sua, né simulazione né simulacro. Ma il 136


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gioco è che egli gioca e che si deve rispettare, con la discrezione e il riserbo propri del gioco, questa convenzione: giocare non è fingere d’essere un cavallo né comportarsi da cavallo, è semplicemente “giocare al cavallo”. È il gioco che crea la finzione, la finzione non è che un gioco, la categoria sembra irriducibile. Osserverò che per dare del gioco una definizione che permetta di distinguere il giocatore dal lavoratore, bisogna sommare un certo numero di caratteri riuniti dalla sola legge della giustapposizione: il gioco è un’attività 1) libera, 2) separata, 3) incerta, 4) improduttiva, 5) regolata, 6) fittizia. Caillois, da cui prendo a prestito questo elenco, ne riconoscerebbe, credo, l’insufficienza perché uno dei compiti del suo libro è di proporre una classificazione dei giochi distribuendoli in gruppi distinti a seconda delle diverse attitudini psicologiche che presuppongono. Ne distingue quindi quattro specie: “l’ambizione di trionfare grazie al solo merito in una competizione regolata” (scacchi, calcio, corse); “l’abdicazione della volontà a vantaggio di un’attesa ansiosa e passiva della decisione della sorte” (lotterie, scommesse, la conta nei giochi infantili); “il piacere di assumere una personalità a noi estranea” (arti dello spettacolo, travestitismo, illusionismo); “la ricerca della vertigine” (acrobazie, volo, altalena). Il merito di questa ripartizione è innanzitutto che, pur facendoci conoscere la vastità dell’area dei giochi, organizza questo immenso disordine fissando per noi dei termini precisi, dei centri incontestabili, benché misteriosi, dell’inesauribile invenzione del gioco: competizione, azzardo, simulacro, vertigine. Caillois indica in quale modo si coniughino questi quattro termini, quali rapporti li avvicinino e li allontanino, come l’istinto di competizione e la ricerca della fortuna si esprimano ugualmente in giochi regolati, il piacere della finzione e la ricerca della vertigine in improvvisazioni a volte turbolente che presuppongono uno sdoppiamento e perfino l’abolizione della consapevolezza. I giochi di competizione e i giochi d’azzardo si oppongono fra loro poiché gli uni esigono lo sforzo e provano il merito, mentre gli altri non richiedono né talenti né competenze ma il vuoto della volontà e l’accettazione passiva del137


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le decisioni della sorte. Tuttavia, che siano giochi di volontà o dell’assenza di volontà, hanno ugualmente bisogno di una minuziosa esattezza di regole: nel caso della competizione perché la convenzione regolata purifica la lotta rendendola fittizia e misurata – cioè innocente; nel caso dell’azzardo perché non vi è rapporto possibile con l’estrema indeterminatezza e la totale incertezza se non nel campo rigorosamente determinato da convenzioni fisse e preliminarmente fissate: per raggiungere la sorte, bisogna escludere l’arbitrario. Huizinga si interessa soltanto ai giochi che interessano la cultura: è questo il suo partito preso. Caillois, al contrario, s’interessa a tutti i giochi ai quali concede un uguale spazio nella sua vasta classificazione, proprio perché pensa che tutti i giochi, o gli atteggiamenti psicologici che nascondono, siano lungi dall’essere ugualmente favorevoli al risveglio o allo sviluppo delle grandi civiltà. Là dove regnano la maschera e la vertigine, come nelle comunità arcaiche, ci troviamo in presenza di forme di società, “società del caos”, ricche di una cultura originale, ma intrappolate da forze ipnotiche e di possessione. Là dove i giochi d’impeto e di mimica cedono il passo ai giochi di competizione, abbiamo a che fare con “società ordinate, società di uffici, di carriere, di codici e tabelle, di privilegi controllati e gerarchizzati, in cui l’agon e l’alea, vale a dire, qui, il merito e la nascita, appaiono come gli elementi primi e peraltro complementari del gioco sociale”. “Che ne sia la causa o la conseguenza, ogni volta che un’alta cultura riesce a emergere dal caos originario, constatiamo una sensibile regressione delle potenze della vertigine e del simulacro.” La Grecia è l’esempio illustre della scelta decisiva e pressoché improvvisa per cui una società rigetta gli antichi rapporti fondati sulla trance e il panico in favore di rapporti di coerenza garantiti dallo spirito di competizione, l’emulazione regolata, la misura inventiva. Licurgo è dapprima l’uomo-lupo delle confraternite di licantropi, poi è, di colpo, il legislatore dell’Occidente.2 2. Naturalmente, se ci atteniamo soltanto a questi termini di paragone, non vi è motivo per giudicare la barbarie militare di Sparta più civile della società di maschere da cui proviene.

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L’opera di Caillois è quindi, in massima parte, consacrata, più che ai giochi, a delineare – partendo dai giochi – una teoria della civiltà in cui l’autore riprende, in una luce e in una prospettiva rinnovate, i temi di etica sociologica che studia e formalizza da tanti anni. Trascurandoli, trascurerò l’essenziale del libro, ma vorrei limitarmi al pensiero del gioco. La classificazione da lui proposta rimane convincente, ed è possibile che i giochi servano da rivelatori di istinti che vi si mostrano in modo più leggibile che non altrove. Quello che ci mette in imbarazzo è il problema posto dal riferimento a ciò che l’autore chiama a volte istinti, a volte impulsi, a volte atteggiamenti psicologici elementari, a volte princìpi o energie. L’incertezza su questi nomi (applicati a moti tanto differenti come il gusto per la competizione, l’attesa del caso, il piacere del simulacro, l’attrazione della vertigine) dimostra che la classificazione rinvia a una concezione psicologica e filosofica della natura umana che questo saggio non ha cercato di elaborare e che crea qualche difficoltà. Perché questi quattro istinti, anche se non sono istinti? Perché compongono con il gioco delle categorie irriducibili? Perché il gioco gioca con questi quattro moti ma gioca anche con ciascuno di essi o non si associa con l’uno piuttosto che con l’altro, rivelando così con maggior purezza il suo enigma di gioco? Mi limiterò a porre, tra le altre, queste domande. Quando leggiamo il libro di Huizinga, ci scontriamo con l’idea che “gli animali giocano esattamente come gli uomini; tutti gli aspetti fondamentali del gioco umano si trovano già presenti in quello delle bestie”; eppure, come ha scritto Schiller, “una volta per sempre e per finirla con questo problema, l’uomo gioca solo là dove è pienamente uomo ed è uomo completo solo là dove gioca”. Questa contraddizione è come superata da un’osservazione di Caillois: “I giochi d’azzardo – egli scrive – appaiono i giochi umani per eccellenza. Gli animali conoscono i giochi di competizione, di simulacro e di vertigine”, ma ignorano quelli d’azzardo. “Attendere passivamente e deliberatamente la decisione di una fatalità, rischiare su di essa un bene per moltiplicarlo in propor139


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zione alle possibilità di perdita” è proprio dell’uomo. Siamo innanzitutto sorpresi di scoprire che fra tutti i giochi, i giochi d’azzardo, con la loro cattiva reputazione, più dei giochi civilizzatori della competizione, più dei giochi sacri dello spettacolo, intrattengono un rapporto privilegiato con noi. Giocare umanamente è quindi essenzialmente “giocare ai dadi”. Il che non significa che tocchiamo qui il segreto del gioco, ma che, stando alle parole scelte con oculatezza da Caillois, l’attesa, il rischio, la sorte segnano in quali punti il gioco incontra l’uomo e appartiene a lui solo. Queste tre parole sono certamente capaci di insegnarci qualcosa sui rapporti tra l’uomo e il gioco. L’attesa che il più volgare dei giochi – la roulette – mette in gioco, non è quell’abdicazione della volontà con cui Caillois oppone l’alea all’emulazione attiva dei giochi di competizione. Al contrario, come ha affermato, credo, Alain, è là dove si decide, senza altra ragione all’infuori della decisione stessa – cioè nel gioco – che il potere di decidere è più alto. Il giocatore che decide di giocare, di continuare a giocare e di puntare con una scelta assolutamente astratta, è l’uomo che fa esperienza di ciò che significa la parola “decisivo” e del salto che ogni decisione comporta. L’assenza di volontà è soltanto l’assenza d’appoggio per la volontà: la volontà che vuole e determina sotto la minaccia e nelle vicinanze dell’indeterminatezza, dell’incertezza più assolute, senza per questo perdersi. Questo è più sfiancante di qualsiasi lavoro. Si può passare la giornata a lavorare, ma non si può passare la vita a giocare, a meno di non renderla molto breve. Perché a questa avventura si aggiunge il peso della sua facilità che non permette di resisterle, il peso della ripetizione che, in ogni istante, la ricomincia e la conclude, dividendo il tempo in intervalli separati (il gioco è opera perpetua), infine il peso della tentazione del rischio, perché il giocatore è l’uomo che si mette in condizione di non essere sicuro di nulla e di conoscere in ogni momento, anche se con modalità limitate, la massima insicurezza: l’essenza dell’insicurezza. Come è possibile che fattori così gravi non compromettano la leggerezza del gioco? La sorte, la terza parola-chiave del gioco 140


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umano, è quella che, essendo in se stessa leggerezza infinita, salvaguarda la pura spensieratezza del gioco, mantenuto inoltre al di fuori della vita confusa, dal rigore della sua organizzazione formale. La sorte è un modo d’essere in familiarità con il non-familiare, in confidenza con ciò che sta al di fuori di ogni sicurezza, di ogni fiducia, e perfino con ciò che sta completamente al di fuori di noi. Questa familiarità del non-familiare non ha nulla su cui posarsi e non si riposa: è per questo che esige il più leggero dei movimenti. Ovunque ci appesantiamo, ci allontaniamo dalla possibilità che è il gioco e ci allontaniamo dal gioco che è la possibilità di giocare. L’attesa del giocatore è questo modo di mantenersi con una decisione puramente umana in rapporti di familiarità con l’indecisione puramente inumana; l’attesa non è soltanto attesa della fortuna, attesa che la fortuna rende leggera, ma è la fortuna stessa che ci tocca nell’intimità da lei aperta con l’inatteso. La fortuna non fa mai parte di ciò che aspettiamo; che il numero 22 sia il numero destinato a uscire, non posso aspettarmelo, è l’inatteso. L’attesa del giocatore è legata alla fortuna, essendo la pura attesa, decisa e noncurante, dell’inatteso che non si lascia attendere. Parlo di fortuna ma anche di sfortuna. Perché qui sta il curioso che ci viene svelato dall’esperienza del gioco: nel gioco, non solo fortuna e sfortuna sono unite, dal momento che l’una ci espone all’altra, ma non si distinguono neppure. Tutto è sempre fortuna nell’attesa del gioco. La fortuna è ciò che cade, non ciò che accade nel movimento regolato del tempo, e questa caduta, questa caduta per leggerezza, è, che cada bene o male, l’incontro con l’occasione unica, il favore dell’intervento puro, di ciò che si ottiene solo giocando. Soltanto l’uomo che, non sapendo giocare, per ragionevolezza, serietà o scrupolo, si sottrae al rischio del gioco, conosce davvero la sfortuna, quella che consiste nell’ignorare perfino la sfortuna e nel non avere la leggerezza che rende possibile la caduta, benché, per l’attenzione ai risultati, nel gioco si appesantisca presto quella libertà leggera dell’attesa, e benché, troppo favorevole o troppo sfavorevole, ciò che il caso ci offre finisca per nasconderci la for141


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tuna stessa del caso e il dono dell’unica ricchezza che ci sia concessa nel gioco: quella del puro incontro.3 “L’attrazione del gioco”: prendo a prestito queste parole dalle pagine più profonde che Georges Bataille, in Le coupable, abbia consacrato alla fortuna. Ma Bataille dice anche: “Di poche cose l’uomo ha più orrore che del gioco”. L’attrazione, l’orrore del gioco, due parole così poco discernibili come, nel gioco, la fortuna e la sfortuna. Provando il modo in cui si combinano, si comprenderà meglio perché giocare dia luogo a grandi passioni e perché la passione più grande sia quella dei giochi d’azzardo. È che qui ci troviamo, in condizioni di ingegnosa semplicità, sotto l’attrazione di ciò che fa orrore, usando ciò che vi è di più propriamente umano – il taglio della decisione pura – per metterci alla prova di ciò che vi è di più estraneo all’uomo, l’indeterminato e l’indeciso, elemento assolutamente affascinante. In questa prospettiva, faccio osservare che il paradosso del gioco è esattamente il paradosso del suicidio, nel corso del quale pretendiamo, con decisione puramente umana, di disporre dell’assolutamente indeciso, quell’altro incontro sempre fortuito che si compie nell’occasione e nel caso della morte.

Traduzione dal francese di Daniele Gorret

3. Si dirà che la sfortuna è ciò che appesantisce il gioco, ma certi giocatori riconoscono che è più difficile sopportare una lunga serie di colpi fortunati che non sfortunati, più disumano vincere che non perdere.

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Le carte [1967] ROGER CAILLOIS

Storia L’origine del gioco delle carte è incerta. Non sappiamo se il gioco sia arrivato in Occidente dall’Oriente, portato dagli arabi o dai crociati, oppure, al contrario, se sia nato in Occidente, o se giochi analoghi e simili siano stati inventati autonomamente in Europa, in India, in Persia, in Cina. In Europa, un monaco di nome Giovanni Juzzo de Coveluzzo segnala che nell’“anno 1379 fu recato in Viterbo el gioco delli carti, che venne de Saracinia, e chiamasi tra loro naib”.1 In Cina un testo sfortunatamente tardo e privo di una qualsiasi autorità riferisce che trentadue tavolette di avorio furono presentate all’imperatore da un ufficiale della Corte, verso l’anno 1120. Alcune riguardavano il Cielo, altre la Terra, altre ancora l’uomo, la maggior parte nozioni astratte come il caso e i doveri dei cittadini. L’imperatore Kao Tsung2 avrebbe fatto riprodurre le carte e le avrebbe diffuse in tutto l’impero. Nelle Indie la prima menzione del gioco delle carte risale al giugno del 1527. Si trova nelle memorie dell’imperatore Babur:3 “Quando partimmo per Agra, Mir Ali Korchi fu inviato a Tatta R. Caillois, “Les cartes”, in R. Caillois (a cura di), Jeux et Sports, Encyclopédie de la Pléiade, Gallimard, Paris 1967. 1. Giovanni Juzzo de Coveluzzo è autore di una cronaca intitolata Annali di Viterbo, risalente al 1470, composta a partire dalle note lasciategli dal nonno, Nicola de Coveluzzo, dalla quale è tratta la citazione. [Tutte le note che seguono sono del traduttore] 2. Kao Tsung (1127-1162) fu il primo imperatore cinese della dinastia dei Song del Sud, che regnò tra il 1127 e il 1279.

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presso Shah Hassan. Questi amava molto le carte da gioco e mi aveva chiesto parecchi mazzi che gli inviai”. Per complicare il tutto, il termine impiegato, Ganjifa, è persiano. Di fatto il poema sanscrito di Grindhar e il Ganjifa khelana di Viresvana d’Ahmedabad attribuiscono al mazzo un’origine persiana. Siffatta questione di priorità, probabilmente insolubile, riguarda gli eruditi. È preferibile descrivere le carte conosciute e ricercare i loro caratteri comuni, la distinzione tra le figure, o onori, e le carte numerate [cartes de points ou numérales], la distribuzione in serie parallele, che definiscono diversi emblemi, infine un ordine dei valori rigorosamente gerarchizzato. Per il resto occorre ribadire che tutto le separa o addirittura le oppone: la forma, il numero, la materia, i simboli e gli stessi giochi cui esse sono destinate. Carte d’Oriente In Cina il mazzo è chiamato “mille volte diecimila carte”, numero totale, se mai lo fosse. In realtà conta soltanto 30 carte: 3 serie di 9 lame ciascuna e tre atouts, che sono le carte chiamate rispettivamente “mille volte diecimila”, “il fiore bianco” e “il fiore rosso”. Sulle carte terrestri sono disegnati quattro marchi rossi che corrispondono ai punti cardinali e sulle carte umane sedici marchi rossi che corrispondono alle virtù cardinali (benevolenza, giustizia, ordine e saggezza), ciascuna rappresentata quattro volte. La somma dei marchi del mazzo corrisponde al numero delle stelle. Il mazzo è così un microcosmo, un alfabeto di emblemi che copre l’universo. Questa tendenza enciclopedica compare con minor chiarezza nei giochi indiani, anch’essi molto sistematici, ma più strettamente dipendenti dalla teologia. Alla fine del XVI secolo, cinquant’anni dopo la menzione dei due inviati di Babur a Shah Hassan, Abul Fazl Allami4 descrive un mazzo di 144 carte, 12 serie di 12 lame. Akbar lo ridusse a 96 carte, cioè a 8 serie. 3. Zahir ud-Din Muhammad, noto come Babur (1483-1530), discendente diretto di Gengis Kahn e di Tamerlano, fu il fondatore della dinastia Moghul in India. 4. Abul Fazl Allami (1551-1602), fu storico, segretario, comandante dell’esercito e teologo dell’imperatore Akbar (1542-1605), discendente di Babur. Le sue maggiori opere lette-

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Si concorda sul fatto che il mazzo di 96 carte sia un adattamento islamico di un mazzo indiano di 120 carte, divise in 10 serie di 12 lame, che corrispondono alle 10 incarnazioni o avatar di Visnu illustrati con i loro simboli. L’iconografia varia a seconda dei centri di fabbricazione. Questo mazzo è chiamato desavatara.5 Ancora oggi viene impiegato in India per il gioco. Ogni serie comprende due figure, il re e il visir, e dieci carte numerate da 1 a 10. Nelle prime cinque serie l’ordine delle carte numerate è ascendente, da 1 a 10, essendo l’1 la più bassa. Negli ultimi cinque l’ordine è invertito e l’1 diventa la più alta. Di solito la carta più forte del mazzo è, durante il gioco, quella che rappresenta l’incarnazione del dio in Rama o in Narashima. Dopo il tramonto è quella che reca la figura di Krishna, almeno quando è presente nel mazzo. In alcuni mazzi di Bishnupur, in Bengala, e dell’Orissa, Budda appare nella forma incarnata di Jagannatha, che ha il loto come emblema. È dotato di quattro braccia e di un aspetto semi-umano, come gli altri avatar delle prime cinque serie. Nel 1895 Haraprasad Sastri6 ha ricavato da questa rappresentazione del tutto estemporanea un argomento a favore dell’antichità del mazzo. Tutte le carte sono dipinte a mano, le più comuni su tela o su cartone bollito e verniciato, le più curate su avorio o madreperla. Alcune sono cesellate su argento o oro. Generalmente sono rotonde, ma se ne trovano anche di ovali e di rettangolari. Gli avatar sono frequentemente raffigurati in azione, il che obbliga l’artigiano a riprodurre su spazio ridotto scene talvolta molto complicate che riuniscono più personaggi o animali. Le carte contengono tante volte quanto lo richiede il loro valore l’emblema dell’avatar che dà il suo nome alla serie. Questi emblemi in genere sono i seguenti: pesci, tartarughe, conchiglie, dischi, fiori di loto, coppe, asce, archi, bastoni e spade. Ma elefanti, scimmie, vacche, cavalli,

rarie, risalenti alla fine del XVI secolo e scritte in persiano, sono l’Ain-i-Akbari e l’Akbarnama, cioè la biografia ufficiale dell’imperatore Akbar e dei suoi predecessori. 5. In sanscrito, letteralmente, “dieci avatar”. 6. Haraprasad Sastri (1853-1936), indologo e scrittore bengalese, è noto per aver scoperto il più antico manoscritto in lingua bengalese, noto con il titolo di Charyapadas, risalente a un’epoca compresa tra il X e il XII secolo d.C.

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leoni, cobra o donne sono impiegati in misura non minore. Alcuni mazzi rappresentano delle scene o compaiono da uno a dieci personaggi, a seconda del valore delle carte: un fumatore solitario, due uomini mentre discutono, una dama e la sua serva in visita a un sadhu,7 due uomini mentre compiono il giro della corda che si innalza in verticale e altri due che assistono alla scena, una giovane che danza davanti al re e tre cortigiani, ecc. Dall’Ain-i-Akbari di Abul Fazl Allami conosciamo le 12 serie del primitivo mazzo di 144 carte. Erano le seguenti (con gli emblemi delle carte numerate): Re di Delhi Re di Orissa Re di Bijapur Regina Re di Fortezza Re di Tesori Re di Combattimento Re di Nave Re degli Dei Re dei Demoni Re di Foreste Re di Rettili

Cavalli Elefanti Fantaccini Donne Fortezze Giare colme di monete Guerrieri in armi Navi Divinità Demoni Animali selvatici Serpenti

Sembra che queste dodici serie si ripartiscano in tre gruppi: la prima esprime una divisione geografica dell’India, i tre Re di Delhi, di Orissa, di Bijapur con l’unica Regina; il secondo comprende i diversi domini o attributi del potere reale: le piazzeforti, le finanze, l’esercito e la marina; infine il terzo riunisce ciò che sfugge agli uomini: il mondo degli dei e il mondo degli animali. Questo è il mazzo che Akbar avrebbe trovato troppo complicato. Lo sostituisce con un mazzo composto da 8 serie corrispon-

7. In sanscrito significa “il sant’uomo”, “l’uomo di bene”; indica quell’asceta che, devoto a Shiva o a Visnu, mediante la pratica dello yoga e della meditazione, cerca di realizzare la liberazione dall’illusione e dalla sofferenza.

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denti alle principali dignità della sua corte. Le carte numerate illustrano allora le diverse attività di ogni dipartimento amministrativo, in modo che l’intero mazzo sia formato da scene con personaggi. Il Signore del Tesoro (Surukh) ha per insegna una moneta d’oro. Le carte numerate rappresentano gli ufficiali della Zecca imperiale: il gioielliere, il fonditore, il raffinatore, gli addetti al conio, alla pesatura, ai conti. L’emblema del Signore della Scrittura (Bharat) è un diploma. Le carte numerate raffigurano le diverse attività di segreteria. Poi vengono il Signore del Commercio (Quimash) con gli animali che trasportano le merci e i servitori che le scaricano, il Signore dell’Arpa (Chang), i cui musicisti suonano vari strumenti, il Signore della Spada (Shamsher), che ordina il lavoro delle armerie, il Signore della Corona (Taj), la cui insegna è un’acconciatura ornata di gioielli, il quale sovrintende all’attività febbrile degli intagliatori e dei ricamatori, infine il Signore degli Schiavi (Ghulaman), in groppa a un elefante, mentre amministra il popolo degli ufficiali di Corte e dei loro servitori “gli uni ebbri, gli altri sobri”, come viene precisato. Queste sono le insegne classiche del mazzo del Ganjifa. Nelle carte numerate i simboli sostituiscono rapidamente le scene animate primitive, che non permettevano di leggere facilmente il valore. Divennero le seguenti, fissate dalla tradizione. Scene superiori: moneta d’oro e disco rosso (Surukh), diploma con un’iscrizione (Bharat); ovale con due cerchi decorati: forse turbante, forse cuscino (Quismash); arpa, spesso disegnata rassomigliante a un uccello con il becco lungo (Chang). Serie inferiori: disco di colore bianco (Safet), spada (Shamsher), corona o cappuccio con tre punte (Taj), infine personaggio semplificato (Galam). Questi sono all’incirca gli emblemi delle carte che anche recentemente la Casa Camoin & Co. di Marsiglia ha fabbricato per l’uso dei popoli orientali. I mazzi di 96 carte da essa stampati e che Enrico di Germania ha potuto esaminare inalberavano gli stessi simboli; per le quattro serie inferiori: corone, lune (la moneta d’argento), spade, schiavi; arpe, soli (la moneta d’oro), diplomi, cuscini per le quattro superiori.

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I mazzi persiani conoscono soltanto cinque carte differenti: il re, la dama, la danzatrice, il soldato e il leone (che è l’asso). Si distinguono per il colore del loro sfondo: verde per il re, bianco per la dama, rosso per la danzatrice, oro per il soldato e nero per il leone. Quest’ultimo divora una gazzella o combatte con un serpente. Un sole nasce alle sue spalle, come nei blasoni persiani. Queste carte rettangolari di piccolo formato, generalmente di cuoio bollito e anch’esse dipinte a mano, rivelano un’estrema varietà di stile e di esecuzione. Alcune sono di una straordinaria finezza. Ce ne sono altre il cui disegno commuove per quanto è malriuscito o seduce per quanto è audacemente semplificato. Questo mazzo un tempo serviva per giocare a una specie di poker senza mazzetto né scarto. Senza dubbio è opportuno interpretare le cinque carte come una rappresentazione della Corte. Vengono fabbricate ancora oggi, sui modelli antichi, ma per uso quasi esclusivo dei turisti. Carte d’Occidente I primi mazzi di carte conosciuti in Occidente si avvicinano più alla simbolica cinese, razionale e civile, che alla copiosa mitologia dell’India. I Naibi, carte note in Italia fin dal XIV secolo, sono una specie di memorandum di conoscenze utili. Si compongono di 50 immagini distribuite in 5 serie di 10 lame. Le serie corrispondono agli Stati della Vita, alle Muse, alle Scienze, alle Virtù e, infine, ai Pianeti. Gli Stati della Vita sono ordinati tra la condizione più umile e il potere supremo, temporale e spirituale. Sono il mendicante, il servitore, l’artigiano, il mercante, il gentiluomo, il cavaliere, il dottore, il re, l’imperatore e il papa. Per completare la seconda serie, Apollo è aggiunto alle nove muse. Alle carte raffiguranti i sette pianeti sono aggiunte delle lame che simboleggiano l’Ottava Sfera, il Primo Mobile e la Causa Prima. Per le Scienze e le Virtù c’era solo l’imbarazzo della scelta. Il mazzo aveva unicamente uno scopo didattico. Il tarocco nacque verisimilmente dalla combinazione tra i Naibi e le carte numerate. Queste ultime, andando da 1 a 10, comprendono infatti le quattro serie che sussistono nei mazzi di ritratto spagnolo: 148


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coppe, spade, denari e bastoni. Si ritiene che queste insegne facciano allusione rispettivamente al clero (la coppa è il calice), alla nobiltà, ai commercianti e ai contadini. Un trattato veneziano del 1545 propone un’altra spiegazione: “Le spade richiamano la morte di coloro che si disperano al gioco; i bastoni indicano il castigo che meritano coloro che ingannano; i denari mostrano l’alimento del gioco; infine le coppe la bevanda in cui si stemperano le dispute tra i giocatori”. I Naibi sembrano aver fornito gli arcani maggiori in numero di ventuno e senza contare la Matta, lama non numerata. Nei tarocchi ogni serie di carte da punti comporta quattro figure: il re, la regina, il cavaliere e il valletto. I mazzi figurati francesi ne conservano tre: il re, la dama e il fante. I mazzi figurati tedeschi, oltre al re e alla regina, distinguono un fante superiore, la cui insegna è orientata verso l’alto della carta, e un fante inferiore, con l’insegna diretta verso il basso. Nei mazzi tedeschi gli emblemi furono anzitutto gli uomini, i quadrupedi, gli uccelli e i fiori, che talvolta sostituivano gli scudi. Nel tipo classico, ancora oggi in uso, le quattro serie hanno per divisa le ghiande, le foglie, i cuori e i sonagli. Mazzi più complessi non ebbero successo duraturo. Uno di essi contava non meno di quindici insegne: cornamuse, diapason, cardi, viti, caschi, lucertole, fragole, piume, pesci, granate, rose, corone, scudi, aquilegie e fiori in bocciolo. Se si ammette che questi supposti boccioli possono derivare da una cattiva interpretazione di un disegno che rappresentava i sonagli, le quindici serie si ripartiscono facilmente in cinque categorie: il potere (corone, scudi, caschi), la musica (diapason, cornamuse, sonagli), gli animali (piume, lucertole, pesci), i fiori (cardi, rose, aquilegie), i frutti (granate, viti, fragole). I quattro emblemi dei mazzi francesi sono di solito ritenuti essere i simboli di differenti armi: il fiore, la guardia della spada; il cuore, la punta del proiettile di balestra; il quadro, il ferro quadrangolare della lancia; la picca, il ferro dell’alabarda. Tuttavia, è più frequente e anche più verisimile vedere nei cuori il coraggio, virtù distintiva della nobiltà, da cui è esclusivamente 149


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formata la cavalleria, nelle picche il riferimento alle armi caratteristiche della fanteria; nei quadri, come testimonia il nome,8 il pesante proiettile lanciato dalla balestra, che preannuncia l’artiglieria; nei fiori, infine, il foraggio di cui è responsabile l’intendenza. Nel mazzo francese le figure hanno variato all’infinito, non come le insegne che si sono perpetuate senza cambiamenti fin dalla loro invenzione. I personaggi che si ritiene siano raffigurati hanno un aspetto guerresco tanto quanto le insegne; sono tratti dalla Bibbia (David re di picche, Judith donna di cuori, Rachele donna di quadri); dall’antichità greca o romana (una dea, Pallade, dama di picche; un eroe dell’Iliade, Ettore, fante di quadri; due conquistatori, Alessandro re di fiori, e Cesare re di quadri), dalle chansons de geste (Ogier9 fante di picche; Lancillotto fante di fiori, Carlo – Carlomagno – re di cuori). Un compagno di Giovanna d’Arco, La Hire, ispira il fante di cuori. Una sola carta è praticamente anonima, cioè Argina, la donna di fiori, che viene interpretata come l’anagramma di Regina. Queste designazioni si sono conservate. Però in occasioni innumerevoli la fantasia dei cartai ha cercato nella natura, nella storia o nell’attualità delle figure, rivelatesi instabili, da sostituire ai personaggi tradizionali, figure la cui breve carriera divertiva una generazione appena. In questo modo vennero impiegati i regni naturali, le classi sociali, i saggi greci, le stagioni, le divinità mitologiche e perfino gli eroi romanzeschi. Così i personaggi dei Tre moschettieri ispirarono un gioco dove Aramis, Anna d’Austria e Bazin illustravano i cuori, Athos, Milady e Grimaud (che è d’altronde il nome dell’editore del mazzo) i fiori; Porthos, la Duchessa di Chevreuse e Mosqueton i quadri; d’Artagnan, Madame Bonacieux e Planchet le picche. Un mazzo del XVII secolo ricorre alle diverse parti del mondo e ai sovrani celebri che hanno fondato un impero; Costantino per 8. Quadri è in francese carreau, il cui primo e più antico significato è appunto “proiettile di balestra, in ferro, a forma di losanga a quattro lati” (Robert). 9. Cavaliere di Carlomagno altrimenti noto, nella versione latinizzata, come Uggeri il Danese.

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l’Europa, Ciro per l’Asia; per l’Africa il musulmano Almanzor e per l’America l’inca Atahualpa. I mazzi aneddotici rispondono a due preoccupazioni principali: l’insegnamento e la satira. I primi, la maggior parte dei quali risale al XVIII secolo, servono a imparare il blasone, le lingue morte, le fiabe, la geografia, la musica, l’aritmetica, la storia o il sistema dei pesi e delle misure. Ogni carta rappresenta un elemento, accompagnato dalla sua definizione o da un commento esplicativo. Per esempio, un mazzo è consacrato all’arte delle fortificazioni: le carte rappresentano un bastione, un saliente,10 una caponiera,11 una cittadella, un barbacane ecc., ogni volta con una corta descrizione tecnica. La Rivoluzione vide nascere diversi mazzi politici che diffondevano i nuovi nomi dei mesi, che esaltavano le nuove virtù richieste ai cittadini o stigmatizzavano gli abusi e i vizi dell’Ancien Régime. Naturalmente ci furono anche dei mazzi controrivoluzionari. Le figure [portraits] didattiche e quelle politiche sono effimere. Dipendono dalla moda e allontanano le carte dalla loro funzione propria, che non è di istruire o di rendere popolare un’ideologia. Le carte, durante tutta la loro storia, hanno avuto due funzioni nettamente definite, d’altronde inestricabili: la divinazione e il gioco. Senza dubbio i bambini le prendono in mano per farle tenere in equilibro le une sulle altre, e i prestigiatori per i loro giochi illusionistici. Ma non sono affatto degli utilizzi che derivano dalla loro natura. Usi Divinazione. Non ci sono solamente le carte che servono simultaneamente al gioco e alla divinazione. Esiste più di un gioco impiegato al tempo stesso per gli stessi due scopi: gli ossicini, 10. Redan nell’originale. Il termine, del lessico architettonico militare, designa una fortificazione a forma di mezzaluna. 11. Caponnière nell’originale. Il termine indica un doppio camminamento coperto, racchiuso da palizzate e costruito sul fondo di un fossato a secco, che permette le comunicazioni con un’opera collocata fuori dalla cinta muraria.

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per esempio. Allo stesso modo, è probabile che in origine il gioco dell’oca fosse legato a una qualche consultazione simile. Ma in fondo non c’è nulla che possa essere legittimamente confrontato con le carte quanto a ricchezza, diffusione e permanenza dei procedimenti. La cartomante (la professione è quasi esclusivamente femminile) si serve dei mazzi ordinari, dei tarocchi o di mazzi speciali derivati da quelli tradizionali, nei quali molto spesso ogni carta reca il suo significato, impresso in un riquadro. Se impiega un mazzo comune, la veggente identifica il consultante con una figura del mazzo, tenendo conto della sua età, del suo sesso e del colore dei suoi capelli. Poi, con un procedimento variabile, estrae dal pacchetto le carte che devono servire da supporto alle sue predizioni. Il numero dei cartomanti dichiarati o clandestini è incredibilmente alto, e quello dei loro clienti è ancor più sorprendente. Questi ultimi si ritrovano in tutte le classi sociali. In una capitale come Parigi, la visita, settimanale o mensile, alla cartomante non è rara e compare tra le spese di molte casalinghe. Quando la veggente utilizza le carte comuni, la tecnica è sommaria, i commenti sono stereotipati e generalmente di una desolante povertà. Viaggi, amori, denaro, affari, trionfo o fallimento, eredità, tradimento, protezione di una relazione altolocata, malattia, morte, il repertorio delle profezie e pure il vocabolario con cui sono espresse sono di una notevole monotonia. Però ciascuno vi ricerca un incoraggiamento o un’inquietudine che sembra aggiungere quasi una dimensione nuova alla propria vita. La speranza è più accesa, il timore più vivo se la riuscita o il rovescio sono stati annunciati e, cosa più importante, annunciati da una pitonessa patentata. Costei, confidente e direttrice di coscienza al tempo stesso, collabora con il cliente. È lui a estrarre le carte fatidiche e lei interpreta il messaggio. Il consultante resta costantemente giudice della miracolosa concordanza che i suoi tormenti e le sue preoccupazioni rendono manifesta. Con tatto, con arte, con domande discrete e mirando all’approvazione a ogni parola, lei fa attenzione a conservare quel problematico accordo che dà 152


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credito a predizioni e consigli. Se non ci riesce, dichiara che le carte “non vogliono parlare”. La consultazione è così rimandata. Le 78 lame dei tarocchi restano lo strumento per eccellenza – preferito e prestigioso – delle cartomanti. A seconda del modo adottato nell’estrarre le carte, vengono utilizzati soltanto gli arcani maggiori o l’intero mazzo. Di solito la veggente allinea davanti al cliente i 22 arcani maggiori rovesciati e gliene fa scegliere dodici, disposti seguendo l’ordine delle dodici posizioni chiamate “case”. Poi mischia gli arcani rimanenti con le carte numerate e ricomincia l’operazione. Ogni casa è così provvista di due lame. Si ritiene che la prima riveli il principio ordinatore della Casa, la seconda le eventuali reazioni e gli eventi futuri. Le 12 Case sono rispettivamente i domicili della vita, dei beni, dell’entourage, dell’eredità paterna, dei figli, della servitù, cioè dei servitori e degli animali domestici (non cavalcabili), del congiunto, della morte, della religione, degli onori, degli amici, delle afflizioni. Ciascuno corrisponde inoltre a una parte del corpo. L’insieme ingloba tutto ciò che può accadere nel corso dell’esistenza. L’origine astrologica di questo quadro è evidente. Le 12 Case sono d’altronde ricalcate sulle influenze zodiacali. Quanto alle carte stesse, in modo particolare per gli arcani maggiori, sono state oggetto delle più diverse e sottili esegesi. Gli emblemi delle carte numerate sono assimilate ai quattro elementi: le spade all’aria (infatti la spada rotea nell’aria), i bastoni al fuoco (vengono ricavati dal legno, che si infiamma), le coppe all’acqua (contengono i liquidi), i denari alla terra (sono fatti dei metalli custoditi in essa). Non basta: le spade simboleggiano inoltre la volontà e la potenza; i bastoni il lavoro e i doveri connessi allo stato, l’energia materiale e la fecondità; le coppe l’amore e il misticismo, l’elaborazione intima delle ricchezze spirituali; i denari, infine, le conoscenze e l’arte combinatoria, l’intera capacità creatrice che dà ordine al mondo esterno. Enumerare gli insegnamenti sovrapposti che si pensa le 22 figure veicolino non avrebbe fine. Non c’è scienza congetturale o dottrina esoterica (astrologia, aritmosofia, alchimia ecc.) che non abbia contribuito a chiarirne (o piuttosto a renderne più denso) il mistero. 153


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La lista e l’ordine dei 22 arcani sono ben noti: I. Il Battelliere; II. La Papessa; III. L’Imperatrice; IV. L’Imperatore; V. Il Papa; VI. L’Innamorato; VII. Il Carro; VIII. La Giustizia; IX. L’Eremita; X. La Ruota della Fortuna; XI. La Forza; XII. L’Impiccato; XIII. La Morte; XIV. La Temperanza; XV. Il Diavolo; XVI. Il Monastero;12 XVII. La Stella; XVIII. La Luna; XIX. Il Sole; XX. Il Giudizio; XXI. Il Mondo e, infine, fuori dalla serie, la Matta. Questa sequenza eterogenea ha fatto scorrere molto inchiostro. In esso venne scoperto il linguaggio geroglifico universale. Court de Gébelin vi decifrò i tesori della saggezza della tradizione. L’egittomania della prima metà del XIX secolo pretese di identificarne i simboli con l’aiuto dello zodiaco di Dendera. Gli occultisti moderni, Eliphas Lévi, Papus, Stanislas de Guaita, Oswald Wirth interpretarono ogni dettaglio e il colore di ogni dettaglio. A tutto venne attribuito un significato recondito e iniziatico. Difatti, sembra che si tratti di un insieme composito in cui vengono giustapposte immagini di origine ebraico-cristiana (il Giudizio Universale, il Diavolo e il Santuario, che assomiglia molto alla Torre di Babele), le virtù pronunciate dalla Chiesa (la Giustizia, la Forza, la Temperanza), alcuni astri accompagnati da segni dello zodiaco (la Luna con il Cancro, il Sole con i Gemelli, la Stella posta sopra l’Acquario, le due grandi potenze del tempo, il Papa e l’Imperatore, con l’Aquila o la Tiara, e ciascuno affiancato da una sposa (fantasia, irriverenza o bisogno di simmetria). Sull’arcano che raffigura il Mondo si riconoscono i simboli dei quattro Evangelisti. Le allegorie dell’Amore e della Morte sono del tutto classiche. L’Impiccato, la Ruota della Fortuna si incontrano frequentemente nell’immaginario medievale. L’Eremita con la sua lanterna evoca senza dubbio Diogene, mentre riconoscerei volentieri Alessandro nel trionfatore incoronato, vestito con un’armatura, che troneggia sul Carro. La moda di Alessandro fu assai considerevole per l’epoca. Con Diogene forma una coppia leg-

12. Maison-Dieu nell’originale. I monasteri denominati in tale modo furono un’istituzione tipicamente medievale: fornivano un riparo ai pellegrini, ai poveri e ai viandanti. In seguito diventò ospedale per i malati del circondario.

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gendaria in cui si oppongono l’indigenza orgogliosa e la grandezza terrena. La prima lama, il Battelliere, che ricorda il celebre quadro di Hieronymus Bosch Il prestigiatore,13 appartiene anch’esso al repertorio delle allegorie del tempo. Questa carta ordina l’intero mazzo. Sulla tavola del saltimbanco, gli accessori che ha estratto dal suo sacco, assieme alla bacchetta che brandisce, sembrano rimandare alle quattro insegne delle carte numerate: alcune monete per i denari, calici per le coppe, un coltello per le spade, la bacchetta per i bastoni. Al centro i dadi, affinché il giocatore o il consultante non dimentichi che la distribuzione delle carte dipende dal caso. L’ultimo arcano, la Matta o il Folle, una specie di vagabondo con un mastino ai suoi piedi, talvolta accostato a un’altra tela di Hieronymus Bosch, Il figliol prodigo,14 non fa parte della serie. È una carta libera, anch’essa vagabonda, polivalente. Certo poteva essere aggiunta a una qualunque combinazione che si voleva sviluppare: una specie di joker avant la lettre. Il Nano Giallo svolgeva una funzione analoga nel mazzo che ha lo stesso nome, prima che il sette di quadri non ne prendesse la parte. Il numero di arcani varia con i mazzi. Un antico tarocco fiorentino comprende 35 lame numerate e 6 fuori dalla serie. Possiamo riconoscervi le tre Virtù teologali, i quattro Elementi, i dodici segni dello Zodiaco, ecc. In una parola, indipendentemente dal numero e dalla composizione, la sequenza di simboli è formata con l’ausilio delle immagini più diffuse ed eloquenti. I simboli sono indifferentemente di origine laica o ecclesiastica, pagana o cristiana, erudita o popolare. L’essenziale è ottenere una “totalità” che racchiuda l’universo. Al momento dell’estrazione la “totalità” rappresentata dalle carte interferisce con la “totalità” coperta dalle Case. Tutte le combinazioni sono possibili e non ci sono eventi concepibili che non rientrino nella doppia rete. La tastiera è infinita. Inoltre sem13. Databile tra il 1475 e il 1480, opera conservata presso il Musée Municipal di SaintGermain-en-Laye. 14. Databile al 1500-1502, opera conservata presso il Museum Boymans-van Beunigen di Rotterdam.

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bra controllabile, leggibile. Le altre manzie come la sfera di cristallo, i fondi di caffè, il piombo fuso, il fumo dell’incenso, l’olio sparso sull’acqua, e chi più ne ha più ne metta, sembrano dipendere in misura maggiore dal capriccio del divino. Qui il dizionario, il codice, è sotto gli occhi dell’interessato. Certo, questi manca di quei doni, talvolta di quel sapere che gli permetterebbe di interpretarlo efficacemente. Ma conosce il principio, identifica i simboli, rettifica secondo necessità la congettura sfortunata fatta dall’officiante. Lo rimette sulla buona strada e così partecipa all’appassionante lettura del suo stesso destino. Pare che questa sia la ragione del favore persistente che incontrano i tarocchi e, più in generale, la divinazione fatta con le carte. Si presentano come una lingua completa, certo misteriosa ma dal vocabolario ristretto, dalla sintassi inflessibile. Lo stesso consultante estrae gli elementi che lo riguardano, sotto forma di immagini precise dal senso catalogato. Segue il discorso del Maestro, che adatta al suo caso particolare il significato generale. Il divinatore non appare più come un mago che vaticina, che forse inventa, a partire da mutevoli volute di fumo, da riflessi vaghi e quasi impercettibili, da chiazze di metallo raffreddato. Quelle forme instabili, mai identiche a se stesse, lasciano la porta aperta all’incertezza, all’errore, all’inganno. Questa volta, invece, il lessico è dato una volta per tutte. I geroglifici sono immutabili e in numero limitato. La sorte interviene solo per designare quelli che contengono l’avvenire del consultante. Non rimane che saperli decifrare, il che è opera di scienza o di perspicacia, così come il medico costruisce la sua diagnosi interpretando i sintomi che è in grado di identificare. Principio dei solitari. Le carte servono pure per fare i “solitari” o “pazienze”. Le due parole esprimono perfettamente il motivo per cui questa attività è a metà strada tra la divinazione e il gioco. Mentre i solitari sono ancora consultazioni della sorte, le pazienze sono già un divertimento e un modo di passare il tempo. In entrambi i casi si tratta esattamente degli stessi procedimenti, sottoposti alle stesse regole ed esposti alle medesime peripezie. La differenza deriva dal fatto che il giocatore abbia formulato mental156


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mente una domanda oppure no, o abbia anche espresso un voto, prima di cominciare a disporre le carte. Dei solitari esistono infinite variazioni. Quasi tutte si basano sullo stesso principio. Le carte, accuratamente mescolate, sono collocate a rovescio, tutte o in parte, secondo uno schema determinato. Quelle che sono girate danno avvio al gioco e possono essere spostate dal giocatore a piacimento, a condizione che lo spostamento sia autorizzato dalle regole che definiscono il “solitario”. Le carte liberate, quelle che cioè non sono coperte da nessun’altra, sono ritirate dal gioco in ordine ascendente o discendente, a seconda della convenzione adottata. In questo modo il giocatore, con “pazienza” e rispettando delle proibizioni definite precedentemente, che rendono il suo compito aleatorio, si sforza di ricostituire le quattro serie del mazzo. Nel farlo osserva la gerarchia delle carte. Parte dal caos e deve giungere all’ordine. All’inizio le carte sono alla rinfusa. Alla fine, nel caso del “solitario”, sono perfettamente ordinate, a seconda del loro colore, e per ciascun colore a seconda del loro valore. Nel corso dell’operazione il meccanismo si blocca con maggiore o minore facilità, in relazione alla severità dei divieti in vigore. Perché il “solitario” non riesca, generalmente basta che qualche carta libera non sia utile e che tutte quelle che sarebbe necessario estrarre si trovino coperte. L’oracolo si è allora pronunciato. Il voto non sarà esaudito. La domanda ha ricevuto una risposta negativa. Per fortuna, nulla è definitivo: il giocatore ha la possibilità di ricominciare fino a ottenere un risultato favorevole. In questo fallisce raramente. Il solitario è in effetti molto più un gioco di quanto non sia una vera e propria consultazione della sorte, che potrebbe avere luogo solamente una volta per ogni domanda determinata. La consultazione è solo un pretesto, un modo per rendere interessante la partita fornendole una specie di posta in gioco ideale. Il giocatore si intestardisce unicamente ad avere successo, a sopravanzare le difficoltà che si compiace di rendere sempre più gravose (svelto però, in caso di bisogno, a concedersi gli accomodamenti necessari; ma allora ricomincia il gioco per cercare di terminarlo senza il loro umiliante soccorso). 157


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Due giocatori possono mettere in comune le loro pazienze, dove ciascuno si ingegna ad avanzare e a disturbare o a ritardare gli avanzamenti dell’altro. Di questo tipo è il gioco della crapette, chiamato in modo più esplicito la chicaneuse. Ogni avversario dispone di un mazzo di 52 carte. Si tratta di liberare e di sistemare i due mazzi, dapprima inestricabilmente mescolati, seguendo le regole ordinarie delle riuscite. Il vincitore è colui che si è sbarazzato per primo di tutte le carte ricevute in mano, le sue e quelle che il suo rivale è riuscito a imporgli. Il meccanismo è sempre quello di una pazienza, il passaggio dal disordine all’ordine, obbedendo a delle regole rigide, ma questo aspetto si unisce ora all’elemento della competizione introdotto dalla concorrenza tra i giocatori, il che rende la crapette un gioco nel vero senso della parola. Principio dei giochi. Malgrado la loro estrema diversità, i giochi di carte hanno quasi tutti un identico fattore: la combinazione, in proporzioni variabili, di competizione e di caso. L’originalità dei giochi di carte consiste nel riunire nel giocatore le due attitudini opposte, che sembrano contraddittorie. Rarissimi sono i giochi governati da un altro fattore determinante. In genere sono giochi di carattere infantile. Le carte, pressoché interscambiabili, non hanno per così dire nessun ruolo individuale. È il caso, per esempio, del gioco polacco denominato nervouwka. Ogni giocatore batte il suo mazzo con cura, poi il più rapidamente possibile rovescia le sue carte davanti a sé una per una, fino a quando uno dei due si imbatte in un Asso, che viene allora posto al centro. Quindi bisogna aspettare di imbattersi in un Due, da collocare sopra l’Asso, poi un Tre sul Due, un Quattro sul Tre e così via, fino al Re, prima di ricominciare con un altro Asso una nuova serie. Al giocatore è vietato riprendere la carta utile che, in preda alla precipitazione, ha collocato sul suo pacchetto e non sulla pila centrale, in modo tale da essere preso tra due necessità opposte: la velocità e il controllo di un movimento che tende a imballarsi. Questo gioco, che si apparenta a quello del “piccione vola”, deve essere considerato non tanto un gioco di carte quanto un esercizio di educazione dei riflessi, un gioco di 158


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frenesia controllata. Le carte forniscono allora nulla più che un semplice supporto. In Francia, nel XVIII secolo, su certi giochi venivano stampate delle domande e delle risposte in aggiunta alle figure e ai numeri. Il loro incontro, dovuto al caso della partita, provocava delle combinazioni strane o divertenti. Le domande sono per esempio: Amate il sorriso di Cupido? Siete innamorati? Posso contare su di voi? Vi ribellate quando vi confrontate? E le risposte: Niente affatto. Per questo, consultate i miei occhi. Infinitamente, sul... prato. Questo non si dice. È chiaro che, in certe condizioni, il gioco di carte è soltanto un pretesto per iniziarne altri. Oggi in Messico va di moda un mazzo con 54 simboli. Ci troviamo il vaso di fiori, il pesce, il gambero, il soldato, l’ubriaco, la puttana, il ragno, lo scorpione, il vessillo, la morte, la pipa, la barca, il tonno, la stella, l’assassino ecc. Queste immagini paiono un’estensione delle 36 insegne tra le quali, a Cuba, si effettua l’estrazione della lotteria quotidiana conosciuta con il nome di sciarada cinese. Di fatto in Messico il gioco, malgrado l’apparenza, assomiglia più al lotto che a un gioco di carte. Ciascun giocatore mette una posta su uno o più emblemi e vince se la carta corrispondente esce tra le prime. Ho visto gli indiani giocare di sera a questo gioco nella piazza dei villaggi, tra l’odore e la luce terribile delle lampade ad acetilene. Il gioco europeo della prateria verde, salvo il fatto che vengano usate le carte ordinarie, si basa su un meccanismo del tutto simile. Si tratta di vere e proprie scommesse, dove la natura particolare delle carte non è presa in considera159


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zione. Semplici cifre esplicherebbero altrettanto bene la medesima funzione. Lo stesso accade per il gioco detto il cane di picche, dove vengono estratti dal mazzo gli altri tre Fanti in modo che i giocatori possano eliminare le loro carte per coppie dello stesso valore, finché uno dei due rimane alla fine in possesso del quarto, il Fante di Picche, figura umiliante, la sola a essere priva di omologo. Il gioco serve a designare un capro espiatorio, una vittima che deve pagare un pegno o essere costretta dagli altri a subire una qualche vessazione, come lo sfregamento del volto con la fuliggine. Ma sono eccezioni, adattamenti marginali del gioco delle carte. Questo viene impiegato seguendo la sua natura soltanto quando le regole tengono conto dell’opposizione tra le serie e la gerarchia dei valori. È in quel momento che si trovano uniti il caso e la competizione, la fortuna e il sapere che sono i poli complementari e antagonisti del gioco. Come nella vita, alla nascita, la fortuna interviene all’inizio del gioco, durante la distribuzione delle carte, alla quale presiede il caso. Poi, dopo aver ricevuto la sua “mano”, ognuno è libero di condurre il gioco come desidera. Nel gioco infantile della battaglia, i giocatori dispongono, in verità, di forze identiche, come nella dama o negli scacchi. In compenso, non gli è permesso di giocare la carta da loro scelta, ma obbligatoriamente quella cui tocca il giro. In questo modo il caso fa di nuovo la parte del leone, tanto che la battaglia è uno dei giochi di carte in cui le possibilità di difesa sono le più limitate. Nei giochi di danaro, giocati contro il banco e nei quali numerosi mazzi sono mescolati nel sabot, va da sé che la difesa sia e debba restare illusoria. Il gioco tende in effetti a realizzare le condizioni dell’alea pura, dove il giocatore non fa altro che attendere speranzosamente e trepidamente la decisione della sorte, in questo caso il valore delle carte che il banchiere capovolge. La combinazione di alea e di agon comincia nel momento in cui i giocatori si contrappongono e si disputano il pegno della partita. Più aumenta l’importanza consentita alla fortuna, più la stessa partita è breve, senza peripezie né manovre sapienti. All’estremo si 160


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colloca il poker, nel quale, in un certo senso, non si gioca, dal momento che il gioco consiste soltanto nello scartare le carte, e inoltre non è obbligatorio che la sfida venga accolta. Il margine di difesa non risiede nell’abilità e neppure nella riflessione: il giocatore conosce immediatamente le carte che deve scartare, e decide soltanto se non sarebbe meglio non scartarle tutte, per tentare di convincere i suoi avversari che il suo gioco è migliore di quanto non sia in realtà. L’arte del poker è un’arte del rischio calcolato. L’impassibilità, la capacità di sostenere una menzogna può essere onerosa, il talento di riconoscere la psicologia dell’avversario senza far indovinare la propria, l’attitudine a sorprendere sempre alternando la prudenza e la temerarietà e senza tenere conto dell’esito felice o infelice delle mani precedenti, tutte queste risorse interiori rappresentano la difesa del buon giocatore contro la sfortuna e compensano in parte il disequilibrio imposto continuamente dalla sorte. Al contrario, in un gioco tattico come il bridge l’incertezza è ridotta al minimo. Per prima cosa le carte sono interamente distribuite; le congetture sono facilitate, mentre l’esistenza di un mazzetto le renderebbe press’a poco inoperanti. Questo primo aspetto è così importante che, in alcuni paesi, è quello che la legge ha considerato per distinguere i giochi d’azzardo dagli altri. In secondo luogo, degli annunci convenzionali permettono al giocatore attento di valutare le forze in campo e di situare la maggior parte delle carte con una precisione talvolta stupefacente, benché sempre malsicura. La scelta pertinente dell’atout ne deriva naturalmente, così come il numero delle mani che può ragionevolmente impegnarsi a vincere il giocatore che si è aggiudicato il contratto. Infine, lo svolgimento del gioco, questa volta complesso, permette al giocatore di dimostrare la sua scienza e la sua abilità. Speculando sulla situazione presunta delle carte, tenta le impasses utili oppure obbliga l’avversario a disfarsi di una delle sue carte vincenti [cartes maîtresse]. Certo, la ripartizione delle carte tra le diverse mani ci ricorda che a ogni nuova distribuzione la fortuna determina le situazioni di fatto, a partire dalle quali ciascuno deve ingegnarsi a vincere. Ma data per acquisita tale disuguaglianza fondamentale, tutto co161


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spira a ristabilire i privilegi dell’intelligenza e della strategia. L’istituzione del “morto” va nella stessa direzione. Il partner di colui che si è aggiudicato il contratto allinea le sue carte e non interviene più nella partita. In questo modo il responsabile del gioco lo conduce a suo piacimento, senza timore di essere contestato per una manovra inadeguata da parte del suo compagno. Soprattutto, essendo note le carte di questi, conosce al tempo stesso quelle dei suoi avversari e deve soltanto congetturare sui loro rispettivi proprietari con l’ausilio degli annunci fatti nel corso delle puntate. Nei giochi d’azzardo il joker svolge la stessa funzione del morto nei giochi tattici: rinforza la dinamica principale del gioco. Questa carta ambigua sostituisce all’improvviso qualsiasi carta mancante, con lo scopo di completare o di rendere più forte una combinazione in grado di assicurare la vincita della partita. Riceverlo durante la distribuzione segnala un privilegio smisurato che sottolinea magnificamente la sovranità e l’arbitrio del caso. Non è opportuno in questa sede descrivere un gran numero di giochi di carte e neppure enumerarne i caratteri distintivi. L’importante è constatare che la maggior parte di essi oscilla tra la preminenza attribuita al caso e la supremazia restituita all’iniziativa umana; strutturando la loro contrapposizione, bisognerebbe redigere il “gioco” dei due principi. L’attrazione durevole esercitata dai giochi di carte deriva proprio dal fatto che associano le seduzioni complementari dei dadi e degli scacchi: l’attesa ansiosa (ma quanto sapore in quell’ansia!) del decreto del caso, poi gli sforzi presto compiuti per approfittare della fortuna o per contrastare un destino avverso. In questo i giochi di carte sono l’immagine della vita, anch’essa composta da caso e industriosità. Restano molti giochi, cioè attività libere, limitate, ideali, dalle regole ferree, chiare e volontariamente accettate, divertimenti che offrono un riposo dal mondo faticoso e confuso dell’esistenza quotidiana. Senza contare il supremo guadagno che definisce il loro universo secondo: si entra in essi e se ne esce senza costrizione, quando si vuole. 162


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Riferimenti bibliografici H.R. d’Allemagne, Les cartes à jouer du XIVe au XXe siècle, 2 voll., Hachette, Paris 1906. W. Gurney Benham, Playing Cards, Ward, Lock & Co., London 1931. J. Boussac, Encyclopédie des jeux de cartes, Chailley, Paris 1896. S.I. Clerk, The Art of Ganjifa Cards, “Modern Review”, Calcutta, dicembre 1946. S. Culin, Chess and Playing Cards, Washington 1938. N.T. Horri, Bibliography of Card Games and the Mystery of the Playing Cards, Cleveland 1892. G.M. Khare, The Game of Ganjifa and its Variations (Marathi), in Bharata Itihasa Samshodaka Mandala, vol. XXII, 3-4, Poona 1942. R. von Leyden, The Playing Cards of India, Bombay 1946. R. von Leyden, N. von Leyden, Ganjifa, the Playing Cards of India, “Marg”, III, 4, Bombay 1949. R. Merlin, Origine des cartes à jouer, Paris 1869. K.T. Morley, Old and Curious Playing Cards, Batsford, London 1931. C. Schreiber, Playing Cards of Various Ages and Countries, 3 voll., Murray, London 1892.

Traduzione dal francese di Raoul Kirchmayr

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Archivio Enzo Paci A oltre trent’anni dalla morte di Enzo Paci, con il moltiplicarsi degli studi e delle iniziative legate alla sua opera, l’Archivio chiede a chi ha scritto e scriva su Enzo Paci di voler gentilmente inviare copia del proprio lavoro all’Archivio stesso. Lo scopo evidente è quello di riunire e fare conoscere lavori e ricerche, e i loro autori, per favorire altri studi. Nello stesso ternpo si intende garantire la presenza di una collezione completa di scritti di e su Enzo Paci nel luogo che ne conserva manoscritti e biblioteca. L’invito si rivolge anche a chi abbia scritto una tesi di laurea o una dissertazione di dottorato su Enzo Paci e/o sul contesto culturale in cui si è mossa la sua attività. Al momento la collezione è parziale e sembra utile completarla. Si potrà in questo modo compilare anche un elenco degli studiosi interessati. Inoltre si è avviata l’acquisizione e la catalogazione dell’epistolario. Chiediamo pertanto a chi sia in possesso di lettere di Enzo Paci di collaborare, inviandoci fotocopia delle lettere; se ne ha tenuto copia e non ha nulla in contrario, sono benvenute anche fotocopie delle lettere del corrispondente. L’indirizzo al quale inviare il materiale è: Archivio Enzo Paci via Beato Angelico 5 20133 Milano Ringraziamo tutti anticipatamente e raccomandiamo di accludere al materiale anche il proprio recapito.


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L’enigma dei tre alberi. Memoria, realtà e scrittura nella “Recherche” di Proust MASSIMILIANO ROVERETTO

l percorso di lettura qui proposto si snoda tra Proust e Freud, a partire da un’esperienza di falso riconoscimento, nota anche sotto il nome di déjà-vu, descritta in un passo di All’ombra delle fanciulle in fiore. Ancora una volta, dunque, Proust e la psicanalisi. Una coppia collaudata, con alle spalle una storia lunga decenni, fatta di innamoramenti repentini, rifiuti, crisi, ritorni di fiamma.1 Una storia che ha ancora senso interrogare? Forse sì. In primo luogo perché non ancora conclusa, dal momento che la figura di Proust e la sua opera continuano a essere oggetto di studi la cui matrice psicanalitica è più o meno scoperta e dominante. Si pensi ad esempio, per restare in Italia, a lavori come quello di Mario Lavagetto o, più recentemente, di Silvano Agosti.2 Ma anche perché, attraverso gli anni, la fisionomia dei suoi protagonisti è mutata, facendosi sempre più complessa e meno immediatamente riconoscibile: quella della Recherche in ragione del progressivo disvelarsi della molteplicità e dell’embri-

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1. Per una sua ricostruzione, si veda la sezione a essa dedicata della storia della critica proustiana inserita da Jean-Yves Tadié in appendice al suo Proust (1983), trad. di F. Sossi, il Saggiatore, Milano 1985. 2. Cfr. M. Lavagetto, Stanza 43. Un lapsus di Marcel Proust, Einaudi, Torino 1991, e S. Agosti, Realtà e metafora. Indagini sulla Recherche, Feltrinelli, Milano 1997. Nel 1999 la “Revue Française de Psychanalyse” ha dedicato a Proust un numero monografico (LXIII/2) intitolato Marcel Proust visiteur des psychanalystes.

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catura dei suoi livelli genetici; quella della psicanalisi in seguito a ciò di cui Sergio Benvenuto, in un suo recente saggio, ha parlato nei termini di un declino delle spiegazioni psicanalitiche classiche, il quale non lascerebbe tuttavia spazio a teorie migliori, ma condurrebbe alla presa di coscienza di come l’analisi sia meno spiegazione scientifica che pratica etica.3 Da qui l’esigenza, nel tornare ad applicare la sonda analitica al testo proustiano, di non farne lo strumento di una ricerca del suo senso, servendosene piuttosto al modo di uno stetoscopio, con il quale auscultare il cuore pulsante di quel mostro di parole il cui appello finisce sì per giungerci, ma da una distanza siderale di cui l’intimità del discorso a esso sotteso, secondo quanto a suo tempo osservato da Benjamin, non è che il travestimento.4 Quasi che si trattasse di abbandonarvisi a mezzo, senza lasciarsene del tutto ghermire: di agganciare il nostro desiderio di lettori a quello che vi si produce mantenendo al contempo la distanza necessaria a discernere il rumore prodotto dalla penna di Proust, a percepirne lo scricchiolio soccombente sotto il peso del suo respiro di asmatico e tuttavia al pari di quello, in tale sinistra vicinanza alla morte, ostinato, insistente, infaticabile. Di cogliervi lo spessore, l’andatura singolare ed esemplare al contempo di una scrittura che non appartiene in proprio né all’opera né al suo autore, ma prende corpo in un gioco di sponda tra l’uno e l’altra, o meglio nello spazio, coincidente con l’esperienza della narrazione, a partire dal quale soltanto la genesi di ambedue diviene pensabile. “Scendemmo verso Hudimesnil” Quando, nel suo saggio su Proust, Samuel Beckett redige un elenco degli episodi di memoria involontaria che attraversano da un capo all’altro la Recherche, egli precisa di non avervi incluso un certo numero di esperienze similari, appena abbozza3. Cfr. S. Benvenuto, Perversioni. Sessualità, etica, psicoanalisi, Bollati Boringhieri, Torino 2005, p. 59. 4. Cfr. W. Benjamin, Per un ritratto di Proust (1929), in Ombre corte. Scritti 1928-29, a cura di G. Agamben, Einaudi, Torino 1993, p. 364.

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te o abortite, che potremmo definire, assumendo quella narrata in Combray quale archetipo della serie, delle madeleines mancate.5 Una di queste, nondimeno, vi è menzionata. Lo sfondo da cui Beckett la preleva è quello della dialettica, rigorosamente non riconciliata, del desiderio e della sua disillusione, il cui primo momento, costituito dal capitolo conclusivo di Dalla parte di Swann intitolato Nomi di paese: il Nome, trova l’adeguato contrappunto in Nomi di paese: il Paese, seconda parte di All’ombra delle fanciulle in fiore. È durante una passeggiata in carrozza insieme a Madame de Villeparisis che l’ignoto, come lo chiama Maurice Blanchot,6 si fa incontro al protagonista, strappandolo alle fantasticherie che andava intessendo intorno a una pescatrice scorta lungo la strada. Scrive Proust: Scendemmo verso Hudimesnil; di colpo, fui pervaso da una felicità profonda, quale di rado avevo provato dopo i tempi di Combray, una felicità analoga a quella ispiratami, fra l’altro, dai campanili di Martinville. Senonché, stavolta, restò incompleta. Avevo notato, un po’ discosti dal tratto di strada a schiena d’asino che stavamo percorrendo, tre alberi che dovevano segnare l’inizio d’un viale coperto e formavano un disegno su cui i miei occhi non si posavano ora per la prima volta; non riuscivo a ricordare il luogo da cui erano come ritagliati, ma sentivo che, un tempo, mi era stato familiare; e così, la mia mente oscillando fra qualche anno lontano e il momento presente, i dintorni di Balbec vacillarono e io mi chiesi se tutta quella passeggiata non fosse da cima a fondo un’invenzione, Balbec una località dove non ero mai stato tranne che con la fantasia, Madame de Villeparisis un personaggio di romanzo, e i tre vecchi alberi la realtà che ritroviamo alzando gli occhi dal libro che

5. Cfr. S. Beckett, Proust (1931), trad. di C. Gallone, Sugar, Milano 1962, pp. 42-45. 6. Cfr. M. Blanchot, Il libro a venire (1959), trad. di G. Ceronetti e G. Neri, Einaudi, Torino 1969, p. 26.

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stavamo leggendo e che descriveva un ambiente nel quale avevamo finito col crederci effettivamente trasportati.7 A imbrogliare le carte, a far decadere ogni opposizione binaria, non solo di presente e passato, ma anche di realtà e finzione, è da una parte la violenza con cui l’impressione di riconoscimento s’impone; dall’altra il fatto che, rispetto agli altri episodi di memoria involontaria della Recherche, fa qui difetto il rinvenimento, nondimeno avvertito come un’esigenza inderogabile, del ricordo corrispondente all’oggetto dell’apparizione. Poiché i tre alberi debbono appartenere a un luogo altro rispetto a quello nel quale compaiono, essi vengono assimilati alla realtà cui l’io aderisce, a costo di degradare l’intero universo di Balbec, che pure per quell’io è il solo mondo vero, a finzione e fantasma. All’interno di questa cornice, il soggetto non sa più dove situarsi: dalla parte del reale, ossia di quei tre alberi che designano tuttavia un esterno al cui luogo esso non dovrebbe appartenere? Oppure dall’altra parte, quella del mondo del romanzo, che nella sua acquisita irrealtà continua a risultare, osservato e ordinato attraverso gli occhi di un’interiorità fino a poco prima padrona di sé sebbene ora singolarmente divisa, quanto di più verosimile? Innescando un movimento di oscillazione che non arriva a trovare nell’emersione di un ricordo ben determinato il suo naturale punto d’arresto, l’incontro con l’enigma posto dai tre alberi trascina nella sua deriva le coordinate stesse della narrazione. Lo sprofondare dello sguardo del protagonista, il venir meno di un soggetto presente a se stesso quale centro ordinatore della scena, vi scavano un vuoto sul cui bordo la scrittura minaccia, nell’incapacità di recuperarlo a sé, di arenarsi. Questo vuoto e i tre alberi, quel piccolo frammento di realtà che persiste a essere, rifiutando di sciogliersi al modo di una madeleine nella tazza della memoria, sono la stessa cosa. Per padroneggiare l’oscillazione, per ritrovarcisi, occorrerà quindi ricucire la lacerazione prodotta nel sogget7. M. Proust, All’ombra delle fanciulle in fiore, in Alla ricerca del tempo perduto, trad. di G. Raboni, Mondadori, Milano 1983, vol. I, pp. 869-870. D’ora in poi abbreviato in OFF.

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to da quanto vi ha fatto irruzione, integrarlo nella sua struttura, dire il senso di quanto non cessa – da un dentro mai così lontano – di fissarlo muto. Occorrerà insomma che il reale in eccesso incarnato nei tre alberi sia interiorizzato in un ricordo, conformemente al modello della madeleine. Non fosse che, già in quest’ultimo, al ripiegamento introspettivo si accompagnava la sensazione di un piacere legato a circostanze eccezionali e al contempo sottratto al divenire delle cose, un piacere che il narratore dichiara ora “solo presentito e che io stesso dovevo creare”, unica chiave d’accesso per la “vera vita”. Ad affiorare dal pozzo dell’anima sarà così non un profilo familiare, ma una realtà ignota e insondabile, o ancora il desiderio di qualcosa di sconosciuto, quello stesso desiderio la cui insistenza informa la piccola frase di Vinteuil o il profumo inebriante dei biancospini di Combray. E difatti, con uno scivolamento sintomatico, il correlato interiore della percezione attuale viene identificato nel testo dapprima in un’immagine mnestica, quindi in un’immagine onirica, e infine nella raffigurazione di un pensiero: in qualcosa quindi di ben più immateriale e difficilmente riducibile al modello del ricordo quale fedele rappresentazione di un oggetto collocato nel passato. Finché, dopo aver preso in esame anche l’eventualità che l’impressione di riconoscimento sia stata originata da un disturbo neuro-fisiologico, il narratore avanza un’ultima, suggestiva spiegazione. I tre alberi continuavano a venire verso di me: apparizione mitica, forse, girotondo di streghe o di norne che mi proponeva i suoi oracoli. Fui tentato di crederli fantasmi del passato, compagni diletti della mia infanzia, amici scomparsi che facevano appello ai nostri comuni ricordi. Come ombre, sembrava mi chiedessero di portarli con me, di restituirli alla vita. Nel loro gesticolare ingenuo e appassionato riconoscevo l’impotente rimpianto di un essere amato che ha perso l’uso della parola e sa di non poterci dire le cose che vorrebbe e che noi non riusciamo a indovinare.8 8. Ivi, pp. 871-872.

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Con incedere sonnambolico, il dettato proustiano scende la china dell’Averno, fino a ritrovare nel cuore dell’interiorità, nello spazio per il soggetto più intimo, la più radicale delle estraneità: una scena spettrale, di morte, che lo eccede due volte – in quanto scena, che come l’anderer Schauplatz di cui parla Freud a proposito del sogno lo implica al suo interno; e in quanto limite estremo dell’esperienza umana, soglia oltre la quale regnano solo l’oscurità, il silenzio, l’impossibile a viversi. Attraverso la ricerca di un’immagine mancante, siamo approdati all’evocazione di una scena di mancanza: di vita, di presenza, ma soprattutto di parola. I tre alberi, finalmente rivelatisi per spettri, non consegneranno il loro segreto né al protagonista né al narratore, il quale se ne rammarica poco oltre come di una perdita irreparabile. A meno che essa, non preceduta da alcun possesso e quindi in sommo grado paradossale, non sia la condizione stessa di un incontro e di un ritrovamento. Se i tre alberi fossero stati immediatamente riconosciuti, se la continuità dei vissuti da essi scompaginati fosse subito tornata a ordinarsi intorno a una qualche madeleine, le pagine che stiamo leggendo non sarebbero infatti mai state scritte. Come forse la Recherche in quanto opera né autobiografica né romanzesca, né realistica né simbolica. L’emergenza di una dimensione eccedente le opposizioni binarie di presente e passato, reale e immaginario coincide dunque con la produzione dell’opera nella misura in cui questa mette capo a una pratica di continuo distanziamento dall’uno e dall’altro dei due poli. Poiché però la soppressione di ogni opposizione coincide da ultimo con l’unica condizione di radicale non appartenenza dell’uomo al mondo, ovverosia con la morte, una tale dimensione non potrà appartenere ad alcun vissuto, e la pratica del distanziamento dovrà funzionare anche nell’altro senso, in modo da far sì che ci si possa mettere all’ascolto di qualcosa da cui è necessario al contempo distogliersi, parlando magari di tre alberi per parlare d’altro e parlando d’altro per parlare dell’apparente ovvietà che i tre alberi rappresentano. Anche se a farsi carico del distoglimento, come del resto dell’incontro, è talvolta il caso:

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Presto, a un incrocio, la carrozza li abbandonò. Trascinandomi lontano da ciò che credevo essere l’unica verità, da ciò che mi avrebbe reso veramente felice, quella carrozza somigliava alla mia vita. [...] E quando la carrozza proseguì in altra direzione e io, voltate loro le spalle, non li vidi più, mentre Madame de Villeparisis mi chiedeva conto della mia aria trasognata, ero triste come se avessi perduto un amico o fossi morto io stesso, come se avessi rinnegato un morto o, imbattutomi in un dio, non l’avessi riconosciuto. Bisognava pensare al ritorno.9 Déjà-vu e altre paramnesie Alla voce “déjà-vu”, Il dizionario della lingua italiana di Giacomo Devoto e Gian Carlo Oli riporta per l’accezione sostantivale la seguente definizione: “In psicologia, sensazione di aver già vissuto in precedenza una situazione che si sta attualmente verificando. [Propr. ‘già visto’]”. Si potrebbe quindi pensare che, ammesso che di questo, nella discesa verso Hudimesnil, si tratti, l’esperienza narrata da Proust sia passibile di una spiegazione puramente psicologica. Di déjà-vu e dei fenomeni a questo affini, Freud si è occupato a più riprese. In un testo del 1913, Falso riconoscimento (“déjà raconté”) durante il lavoro psicoanalitico, ci viene spiegato che quando, nel corso di un’analisi, un paziente fornisce una nuova comunicazione asserendo viceversa di ripetere quanto già detto in una precedente seduta, è perché la sua memoria sostituisce retroattivamente a un’intenzione o tentativo di parlare, infrantisi contro una resistenza inconscia, il ricordo di averlo effettivamente fatto. Del tutto analoga è la dinamica che presiede ai casi di déjà-vu propriamente detti, come quello occorso a una paziente di Freud all’età di dodici anni. Recatasi per la prima volta in visita presso degli amici di famiglia, aveva provato l’impressione di conoscerne da sempre la casa, che pure non aveva mai visto. Non 9. Ivi, p. 872.

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questa tuttavia le era davvero familiare, ma il dramma che vi si stava vivendo, essendo uno dei due figli della coppia gravemente malato, in punto di morte come tempo prima lo era stato il di lei fratello. Freud ipotizza quindi che una fantasia di morte, dalla paziente allora concepita nei confronti di quello e rimasta, comprensibilmente, inconscia, fosse stata riattivata dall’analogia dei casi, e non avesse potuto manifestarsi se non in forma mascherata, attraverso lo spostamento dell’identità delle situazioni, appiglio alla persistenza del desiderio rimosso, su quella, innocente quanto illusoria, dei luoghi.10 Del tutto coerentemente l’insistenza sull’irriducibilità del fenomeno a una mancata riproduzione di un’immagine latente ritorna in uno degli ultimi lavori freudiani, Un disturbo della memoria sull’Acropoli (1936), in cui si afferma che la sensazione del déjà-vu si produce ogni qual volta “cerchiamo di annettere qualcosa al nostro Io, così come nell’estraniazione ci sforziamo di escludere qualcosa da noi”.11 In una parola, il déjà-vu è secondo Freud una paramnesia, un ricordo apparente, artefatto, più o meno disturbato dall’intervento di altri processi psichici. Ma quel che più ci può interessare, è l’idea che simili alterazioni del funzionamento della memoria supposto normale si producano regolarmente, soprattutto in relazione ad alcune categorie privilegiate di ricordi, quali ad esempio quelli d’infanzia. In un importante articolo del 1899, Ricordi di copertura, Freud, mettendo in atto una diversione autobiografica, sebbene non dichiarata, e avvalendosi di una cornice narrativa che meriterebbe un’analisi a parte, ci presenta una scena d’infanzia piuttosto lunga, il cui materiale è a prima vista “indifferente” e il perché della sua fissazione nella memoria “inspiegabile”. Tutto ruota attorno a due elementi che ricordano molto da vicino la madeleine proustiana: il colore giallo insolitamente acceso di un fiore 10. Cfr. S. Freud, Opere, a cura di C.L. Musatti, Boringhieri, Torino 1967-1980, vol. VII, pp. 289-290 (d’ora in poi abbreviato in OSF). Lo stesso caso è riportato in un passo della Psicopatologia della vita quotidiana (1904) che colloca l’esperienza del déjà-vu nell’ambito del miracoloso e del perturbante (Unheimlich). Cfr. OSF, vol. IV, p. 285. 11. OSF, vol. XI, p. 478.

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alpino e il sapore impagabile e mai più ritrovato di una fetta di pane nero, offerta da una contadina ai bambini spossati dai loro giochi. A seguito dell’analisi, emerge tuttavia la sovradeterminazione di tali supposti ricordi, l’origine della cui carica affettiva viene riportata a due fantasie consce, fabbricate all’età di 17 e 20 anni e proiettate l’una sull’altra, di miglioramento della propria condizione economica e sociale, sulle quali se ne sarebbe successivamente innestata una terza il cui carattere “grossolanamente sensuale” avrebbe decretato la rimozione dell’intero complesso, imponendo la fabbricazione del ricordo di copertura.12 È vero che, affinché la conversione di una fantasia in ricordo possa aver luogo, il soggetto deve disporre di “una qualche traccia mnestica, il cui contenuto presenti punti di contatto con quello della fantasia, e, per così dire, le venga incontro”; nondimeno, la conclusione è audace: nessun contenuto mnestico andrebbe in realtà esente da processi di rielaborazione e traduzione, al punto che “il materiale costituito dalle tracce mnestiche ci rimane, nella sua forma originaria, del tutto ignoto [...]. Forse, va perfino messo in dubbio se si abbiano ricordi coscienti provenienti dall’infanzia o non piuttosto ricordi costruiti sull’infanzia”.13 Per quanto l’esistenza di tracce mnestiche che si conserverebbero inalterate sembri qui essere ammessa, parrebbe da escludere che esse possano entrare a costituire la sfera dello psichico senza subire una trascrizione che ne alteri lo status. Dovesse anche conservarsi sulla superficie sulla quale si inscrive, l’alterazione che, producendosi al livello del corpo, fa da supporto alla corrispondente percezione non sarebbe comunque una traccia mnestica, in quanto non situata nella coscienza (sede delle qualità percettive) né nell’inconscio (sede delle tracce mnestiche). Non sarebbe insomma integrata all’insieme dei processi psichici e alla memoria in particolare, giacché quest’ultima, secondo l’immagine degli Studi sull’isteria (1895), consiste in un’organizzazione di archivi complessi, in cui ogni ricordo fa capo contemporanea12. Cfr. OSF, vol. II, pp. 438-439. 13. Ivi, p. 452.

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mente a più sistemi di classificazione (ordine cronologico, catene di associazioni, grado di accessibilità alla coscienza, ecc.).14 Risolvendosi in una sorta di continua traduzione da una lingua all’altra, nessuna delle quali si presenta come l’originale, la memoria si basa anzi sul principio di una sopravvenuta impossibilità di riportare un ricordo alla pura presenza;15 al punto che un ricordo che si volesse originario, oggettivo e selvaggio non potrebbe che rappresentare un’illusione retrospettiva, un effetto prospettico interno alla sua stessa registrazione. Su questi risvolti del discorso freudiano ha lavorato a lungo Jacques Derrida, mostrando come la costituzione della nostra memoria, confondendosi con la cancellazione della traccia che vi si tramanda, presupponga alla propria origine non il riferimento alla pienezza di una presenza, ma già lo scarto che l’intacca.16 In Mal d’archivio, riferendosi alla lettura freudiana della Gradiva di Jensen, Derrida ha ribadito il punto: il momento della prima impres-

14. Cfr. J. Laplanche, J.-B. Pontalis, Enciclopedia della psicoanalisi (1967), a cura di L. Mecacci e C. Puca, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 641. 15. A proposito del processo di trascrizione e del tipo di perdita dell’originale che esso comporta, i testi freudiani da chiamare in causa sarebbero molteplici, a partire dalla celebre lettera n. 52 a Wilhelm Fliess e dal Progetto di una psicologia fino alla Nota sul Notes magico. Il punto della questione è stato peraltro già fatto da Mario Spinella in un suo contributo intitolato Il notes magico di Marcel (“Il piccolo Hans”, 30, 1981, pp. 38-62) e dedicato proprio al raffronto tra la concezione freudiana della memoria e quella che traspare dai testi di Proust. Basti qui segnalare, per ciascuno dei due autori, un passo significativo. Per il primo si tratta di un particolare relativo all’episodio dell’oblio del nome proprio “Signorelli”: nel suo primo resoconto del fatto, contenuto in Meccanismo psichico della dimenticanza (1898), Freud osserva come, pur non riuscendo in alcun modo a ricordare il nome del pittore, il suo autoritratto, dipinto nell’angolo di uno degli affreschi del duomo di Orvieto, gli fosse tuttavia presente, fin nei minimi dettagli, con inusitata vivacità. Situazione che rimase inalterata, al pari della relativa irritazione, per parecchi giorni, “finché – prosegue Freud – non incontrai un italiano colto che me ne liberò comunicandomi il nome cercato: Signorelli. Al cognome seppi subito aggiungere, di mio, il nome: Luca. E ben presto impallidì il nitidissimo ricordo dei lineamenti del maestro ritratti nell’affresco” (OSF, vol. II, pp. 424-425). A questa sostituzione di una determinata trascrizione della traccia mnestica con un’altra, quanto avviene nel caso della madeleine sembra essere assai vicino. Scrive infatti Proust: “La vista del biscotto, prima d’assaggiarlo, non m’aveva ricordato niente; forse perché, avendone visti spesso, senza mangiarne, sui vassoi dei pasticceri, la loro immagine aveva lasciato quei giorni di Combray per unirsi ad altri giorni più recenti [...]” (Dalla parte di Swann, in Alla ricerca del tempo perduto, cit., vol. I, p. 58, corsivo mio. D’ora in poi PS). 16. A partire dal saggio del 1966 Freud e la scena della scrittura, poi incluso in La scrittura e la differenza (1967), trad. di G. Pozzi, Einaudi, Torino 1990.

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sione, quello in cui il piede della pompeiana, fondando la possibilità di un’archeologia a venire, lascia la sua impronta sulle ceneri eruttate dal vulcano, è puramente mitico, apparizione spettrale impossibile a fissarsi, ma che non per questo cessa di ossessionarci. Non sorprende così di trovare, in un testo freudiano interamente costruito sulla metafora archeologica come Costruzioni nell’analisi (1937), la seguente ammissione: sebbene ogni analisi dovrebbe a rigore terminare, passando attraverso la costruzione dell’analista, nel ricordo dell’analizzato, abbastanza frequentemente ciò che è dato raggiungere è unicamente un sicuro convincimento circa l’esattezza della costruzione, sostenuto, in alcune analisi, dall’emergere, sia nei sogni immediatamente successivi alla comunicazione della costruzione, sia in fantasticherie diurne, del ricordo straordinariamente nitido non dell’evento oggetto della ricostruzione, ma di alcuni particolari a esso connessi (volti delle persone, stanze, suppellettili), i quali, non mettendo capo a ulteriori associazioni, andrebbero interpretati, al pari dei ricordi di copertura, come l’esito più diretto e non ulteriormente riducibile di un compromesso tra la spinta ascensionale del rimosso e la resistenza che a esso si oppone.17 Nel suo incessante ritorno, il riferimento all’origine, dato costante dell’esperienza freudiana, si rivela così artefatto scenico, prodotto fittizio quantunque non arbitrario. Ed è a questo livello che Derrida gioca la carta del rapporto tra indagine psicanalitica e finzione letteraria. Delle due, a essere in ritardo sarebbe la prima: non in virtù di un maggiore contenuto di verità dell’altra, ma per il fatto di esserne già da sempre abitata.18 La memoria involontaria come condizione di possibilità dell’opera L’ipotesi è quindi che il percorso dell’analisi si avvolga nella spirale di un indefinito retrocedere, del quale non sarebbe mai dato di rinvenire il termine ultimo e che non farebbe che ripetere uno

17. Cfr. S. Freud, Costruzioni nell’analisi, in OSF, vol. XI, p. 549 sgg. 18. Cfr. J. Derrida, Mal d’archivio. Un’impressione freudiana (1995), trad. di G. Scibilia, Filema, Napoli 1996, pp. 125-129.

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stesso canovaccio, un abbozzo di narrazione incentrato, come nel caso del passo proustiano e dei suoi modelli classici, dal virgiliano “tendebantque manus ripae ulterioris amore” alla discesa agli inferi nel canto XI dell’Odissea, sull’evocazione di un dialogo impossibile, sulla ricerca anzi di un oggetto la cui perdita non sarebbe preceduta da alcun possesso.19 Viene qui in mente il commento di Jacques Lacan al sogno del padre e del figlio che brucia, da Freud sorprendentemente utilizzato per mostrare come il sogno sia sempre appagamento di desiderio. Erigendo all’interno del sogno il simulacro di quanto nella realtà va accadendo, il padre non soddisfa allucinatoriamente il proprio desiderio in quanto desiderio di una realtà determinata, quale ad esempio quella del figlio restituito alla vita. Lo presentifica invece allucinandolo, “come la perdita fatta immagine nel punto più crudele dell’oggetto”. Ne afferma l’istanza negata, sospesa al limite che, intaccandone la pienezza dall’interno, lo sostiene in quanto appunto desiderio e non piuttosto bisogno o domanda d’amore e reciprocità. Di modo che Lacan può chiedersi: “Dov’è la realtà in questo incidente, se non che si ripete qualcosa, di più fatale insomma, attraverso la realtà?”.20 Sulla base di questo presupposto, anche la distanza, a prima vista abissale, tra l’esperienza di déjà-vu raccontata in All’ombra delle fanciulle in fiore e gli altri episodi di memoria involontaria del romanzo si trova a essere fortemente ridotta, se non del tutto annullata: dell’oggetto della Ricerca, le madeleines stesse non sarebbero insomma altro che rappresentanti, succedanei, formazioni sostitutive. Eppure, è proprio sull’idea che in esse il passato effettivamente risorga che Proust imbastisce, nel Tempo ritrovato, la sua este-

19. Il rimando al topos classico del viaggio nel mondo delle ombre è stato stabilito da Silvano Agosti in Realtà e metafora, cit., p. 36. In un’analoga direzione si muove Franco Rella nel suo Scritture estreme. Proust e Kafka, Feltrinelli, Milano 2005 (si vedano le pp. 33-34). 20. J. Lacan, Il seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (1964), a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2003, p. 57. Poche pagine prima, Lacan aveva osservato come ciò che si ripete sia sempre qualcosa che si produce come per caso: se c’è un inconveniente che impedisce al soggetto di venire alla seduta, l’analista non si fa ingannare.

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tica. Chi lo ha meglio evidenziato è stato ancora una volta Beckett, il quale muove dalla constatazione di come, insieme alla sofferenza, amorosa innanzitutto, la memoria involontaria costituisca una delle due forme di rottura dell’Abitudine rinvenibili nella Recherche. Sottraendo agli esseri e agli oggetti la loro singolarità, impedendo che lo scorrere del tempo ne renda giorno per giorno irriconoscibili l’identità e i connotati, l’Abitudine intesse l’orizzonte di precomprensione con il quale la nostra realtà quotidiana si identifica; di contro, la memoria involontaria ci restituisce la percezione di un oggetto “come particolare e unico, e non come il semplice membro di una famiglia”, in quell’“incantesimo della realtà” che avviene “quando esso appare indipendentemente da ogni nozione generale e privo della sanità di una causa, isolato e inesplicabile sotto la luce dell’ignoranza”.21 Attraverso il suo intervento, il soggetto, rivoltato come un guanto, entra in contatto con una dimensione dalla quale nessun diaframma interviene più a proteggerlo, con un al di là di se stesso che si presenta perciò al contempo come l’al di qua dello psichismo: un paesaggio rimastogli ignoto per non esservi mai stato con tutto il corredo delle sue abitudini, dei suoi livelli di coscienza, della sua volontà, quantunque da sempre vi sia radicato. Questo tipo di esperienza, questo incontro inaudito con il reale coincide secondo Beckett senza resti con l’esperienza artistica e più precisamente letteraria. Per questo motivo egli può affermare che l’intera Recherche, e a ciò basterebbe anche solo l’episodio della madeleine, è “un monumento alla memoria involontaria e all’epica della sua azione”, al gesto di questo “mago indisciplinato” che ama rivendicare il proprio diritto a scegliere “il momento e il luogo in cui compirà il suo miracolo”.22 Questa prospettiva non è tuttavia, rispetto a quella psicanalitica, del tutto incompatibile. Come si è visto, infatti, Freud non esclude che le tracce del passato si inscrivano in maniera permanente nei soggetti; semplicemente, si trova a fare i conti con il problema della loro elaborazione 21. S. Beckett, Proust, cit., p. 31. 22. Ivi, p. 40.

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psichica, il che lo conduce a lasciarle sullo sfondo della sua indagine, a relegarle in una sorta di fuori campo cinematografico. Ma è proprio a questo intrecciarsi delle dimensioni del tempo, e quindi dello psichismo, e della corporeità, con la sua durata inarticolata e opaca che si sottrae alla coscienza che pure la sottende, che Proust volge lo sguardo. Non dovremmo dimenticare che, se è alle soglie della dimora dei principi di Guermantes che il protagonista del romanzo, a un punto che supponiamo essere il più prossimo all’identificazione con l’autore del libro, fa l’esperienza ripetuta della memoria involontaria, è nondimeno solo nel corso della matinée, ovverosia di una vera e propria danza macabra, che ne penetra compiutamente il senso. La rovina dei corpi, l’appannamento degli sguardi, l’incertezza dei movimenti di coloro che, felicemente illusi, continuano a non prenderne atto e a ripetere i gesti, i comportamenti, i discorsi di sempre, non è uno sfondo inessenziale, né un semplice memento mori; al contrario, è nel momento in cui il duca di Guermantes, la cui fisionomia si è mantenuta sorprendentemente pressoché inalterata, si alza e prende a incedere faticosamente, barcollando, che il protagonista comprende l’essenziale (e, in grazia di ciò, diventa narratore, l’opera concludendosi nella misura stessa in cui la sua scrittura può ora essere finalmente intrapresa). Materializzato nei “viventi trampoli” su cui gli uomini stanno “appollaiati”, trampoli “che aumentano senza sosta sino a diventare, a volte, più alti dei campanili, sino a rendere difficili e perigliosi i loro passi, e da cui improvvisamente precipitano”, c’è un tempo che resta, lo stesso tempo la cui densità troppo presente per imporsi allo sguardo balugina nel suo venir meno, nella debolezza delle gambe “di quei vecchi arcivescovi che non hanno più nulla di solido tranne la loro croce di metallo”. Il tempo appare nel momento in cui scade, in una prefigurazione della morte (si veda la minaccia incombente della catastrofe neurologica) che, mettendo il soggetto di fronte al suo venir meno, lo rigetta dalla parte delle cose, presenti attorno a lui e fin dentro il suo corpo. L’enormità di quanto scritto da Proust non deve passare inosservata: nell’esperienza della memoria involontaria, a riaffiorare dal passato non è l’immagine acustica del “tintinnio saltellante, 178


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ferruginoso, instancabile, stridulo e fresco della campanella, annuncio che il signor Swann se n’era finalmente andato e che la mamma stava per salire”, ma “proprio quella campanella”, esclusa ogni possibilità di mutarne qualcosa e forse anche, sebbene il narratore non lo dica, caduto ogni aggettivo. Se questo è possibile, leggiamo poche righe oltre, è perché quando la campanella aveva suonato io esistevo già, e dopo, perché sentissi ancora quel tintinnio, bisognava che non ci fosse stata discontinuità, che nemmeno per un istante avessi cessato, mi fossi preso il riposo di non esistere, di non pensare, di non avere coscienza di me, giacché quell’istante lontano stava ancora in me, potevo ritrovarlo, tornare sino a lui, solo scendendo più profondamente in me. Ed è perché contengono così le ore del passato che i corpi umani possono fare tanto male a chi li ama, perché contengono tanti ricordi di gioie e di desiderî già cancellati per loro, ma così crudeli per chi contempla e prolunga nell’ordine del tempo il corpo adorato di cui è geloso, geloso fino a sperarne la distruzione.23 In questo scivolamento dall’“io” della prima frase ai “corpi” della seconda – corpi che colui o colei che li vive non sanno e che potrebbero apprendere unicamente nello sguardo geloso dell’altro, in un gioco di specchi indissociabile dalla loro esistenza personale – si gioca la condizione di possibilità dell’opera. A nostra insaputa, in un dentro di noi che ci eccede e cui non v’è accesso diretto, riposa l’unico fondamento, per quanto paradossale, dell’identità delle cose e degli esseri. La funzione della scrittura Quelle che talvolta il narratore della Recherche chiama resurrezioni del passato, e che tuttavia, dal momento che nella lotta delle due sensazioni, l’originaria e l’attuale, è sempre la prima a 23. M. Proust, Il tempo ritrovato, in Alla ricerca del tempo perduto, cit., vol. IV, pp. 759760 (d’ora in poi abbreviato in TR). I corsivi sono miei.

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soccombere, non lo sono mai, ci consentono soltanto di stabilire con tale riserva un contatto fugace; ce ne forniscono unicamente un riflesso inafferrabile, che resta da convertire in qualcosa di stabile anche davanti agli occhi del mondo, e oltre la morte dei corpi. L’Arte, che rivendica qui la piena titolarità della maiuscola, è per Proust questa nuova forma dell’eterno; “nuova” nel senso di “inedita”, o piuttosto di “inaudita”, ma anche e al tempo stesso di “ulteriore”. A questo riguardo, conviene riferirsi ad alcune osservazioni formulate da Maurice Blanchot in un breve ma denso testo, intitolato L’esperienza di Proust e contenuto in Il libro a venire. Dopo aver mostrato come la memoria involontaria funga nella Recherche da controparte dell’azione distruttiva del tempo sugli esseri, affrancando il soggetto dall’ordine della temporalità per agganciarlo alla persistenza a essere propria dei corpi e delle cose, Blanchot sottolinea come questo tempo abolito debba ancora rovesciarsi – “con una contraddizione di cui, tanto è necessaria e feconda, [Proust] appena s’avvede” – in “un po’ di tempo allo stato puro”, nel quale presente e passato, che il tempo distruttore tiene accuratamente separati onde legarci alla loro catena, non siano semplicemente aboliti, ma entrino in congiunzione in un istante perennemente al di fuori di se stesso, in uno “spazio interiore in divenire, dove le estasi del tempo si dispongono in una simultaneità affascinante”, e che coincide con “il tempo stesso del racconto, il tempo che non è fuori del tempo, ma come fuori è sperimentato, sotto forma di uno spazio, l’immaginario spazio in cui l’arte trova e dispone le sue risorse”.24 Quasi che, anche solo gettando sul soggetto la propria ombra, il tempo abolito (espressione sotto la quale si cela la pienezza dell’essere) avesse il potere di scavarvi un solco, di far sì che esso, venendo per una volta meno a se stesso, sia preso in controtempo, in una disposizione a essere sorpreso, invaso, suscitato dalle cose, la quale può senza dubbio, come nel caso dei

24. M. Blanchot, Il libro a venire, cit., pp. 21-22.

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tre alberi, instaurarsi contro la sua volontà, ma di cui non è escluso egli possa fare esercizio.25 L’esistenza del soggetto diventa così quella di un’interiorità che scrivendo si espone, ed esponendosi si diffonde in uno spazio che non padroneggia, nell’esteriorità di immagini che, pur essendone la proiezione, già appartengono al corpo immateriale dell’opera. Nel momento stesso in cui sorge, il tempo allo stato puro evolve quindi in una quarta forma di tempo, che Blanchot chiama “tempo del racconto” e che si nutre dei materiali di risulta che il tempo distruttore ritirandosi abbandona nello spazio della scrittura, nell’entre-deux in cui il soggetto della narrazione, a partire dai resti dell’esperienza vissuta in prima persona, appare. Il tempo del racconto è perciò anche lo schermo sul quale si delineano i contenuti della Recherche, quelle verità relative alle passioni, ai caratteri e ai costumi che pure – osserva Blanchot – non sono da Proust mai enunciate come tali, bensì trattate nei termini di digressioni, dissertazioni psicologiche, razionalizzazioni mai compiute e sempre passibili di revoca o ulteriori sviluppi, attraverso le quali soltanto la costruzione romanzesca può progredire.26 Mediante il filtro della scrittura, a suo modo anch’essa un’immagine mobile dell’eternità, i vissuti del soggetto sfuggono sì all’azione usurante del tempo distruttore, per il quale conservare equivale a impoverire, ridurre, concettualizzare;27 ma unicamente per essere consegnati a un diverso movimento di alterazione, in cui la loro singolarità e immediatezza, cessando di essere qualcosa di intimo e incomunicabile, diviene uno strumento euristico del quale, se conveniente all’altrettanto irriduci25. La stessa esperienza della madeleine, dal punto di vista della narrazione, sopraggiunge a coronamento di un progressivo allargamento della sfera della coscienza, a sua volta innescato, in un gioco di scatole cinesi in cui la distinzione tra volontario e involontario finisce per risultare impraticabile, da uno stato di coscienza crepuscolare, sospeso tra il sonno e la veglia. 26. L’idea che nella Recherche “il dissolversi delle identità – formate innanzitutto e per lo più dal pregiudizio e dalla immaginazione, nostra e altrui – permette lo stagliarsi di vere leggi della conoscenza” è sviluppata da Maurizio Ferraris nel suo Ermeneutica di Proust, Guerini, Milano 1987 (p. 77). 27. Per un riscontro in Freud, cfr. la nota del curatore alla p. 171 della Psicopatologia della vita quotidiana, in OSF, vol. IV.

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bile singolarità del suo sguardo, ciascun lettore potrà servirsi. Potremmo dire, ed è anzi Proust stesso, nel Tempo ritrovato, a farlo, che essi subiscono una traduzione, senza la quale al profilo latente nelle lastre fotografiche della memoria involontaria, non ancora sviluppate dall’intervento dell’intelligenza, non sarebbe dato rivelarsi.28 Quando un Bosco somiglia a un bosco: la morte degli Dei sullo sfondo della “Recherche” La funzione della scrittura nella Recherche sarebbe quindi di erigere un argine volto a contenere l’eccesso da essa stessa suscitato, di tendere un velo sull’indicibile non solo e non tanto affinché esso resti celato, quanto per fissarne i lineamenti e il rilievo. Una funzione apotropaica, il cui senso si rivela in alcuni luoghi privilegiati dell’opera, come ad esempio le ultime pagine di Dalla parte di Swann, in cui sono ritratti gli stessi viali del Bois de Boulogne lungo i quali il narratore, al tempo della sua adolescenza, attendeva le apparizioni di Madame Swann, ma con un salto nel tempo dagli anni attorno al 1890, nei quali possiamo approssimativamente situare le vicende narrate nel libro, a una mattina del novembre 1908.29 Il passo, inaugurato dalla descrizione dell’incanto del bosco immerso nella luce autunnale, riprende ben presto un’andatura autobiografica, e la ghiaia dei viali del parco torna a scricchiolare sotto il passo dei suoi frequentatori di un tempo, in primo luogo le donne – o piuttosto la Donna. Ma la Donna si rivela ora mancante, figura di un’assenza che invano il narratore cerca di situa28. Poche pagine dopo l’esperienza del pavé sconnesso e degli altri ricordi involontari, il narratore del Tempo ritrovato dichiara: “Se cercavo di rendermi conto di quanto succede effettivamente nel momento in cui una cosa produce su di noi una determinata impressione [...] capivo che il libro essenziale, il solo libro vero, un grande scrittore non deve, nel senso corrente del termine, inventarlo, bensì, visto che esiste già in ciascuno di noi, tradurlo. Il dovere e il compito d’uno scrittore sono quelli d’un traduttore” (TR, p. 571). 29. Per la collocazione delle vicende oggetto di Dalla parte di Swann negli anni attorno al 1890, cfr. J.-Y. Tadié, Proust, cit., p. 68. La data del 1908 è desunta invece dalle indicazioni di Gareth H. Steel, Chronology and Time in À la recherche du temps perdu, Droz, Genève 1979, pp. 171-172. Cfr. anche, nell’apparato critico dell’edizione qui utilizzata della Recherche, la nota 2 alla p. 508 e la nota 2 alla p. 515 (vol. I).

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re, di inscrivere nella catena degli anni e nelle ragioni del tempo. Da qui i reiterati lamenti sulla scomparsa delle vetture a cavalli, sostituite dalla volgarità delle automobili e dei loro baffuti chauffeur; sulla degradazione delle toilette femminili; sulla foggia di abiti che ci vengono detti non essere più nemmeno di stoffa. Su di una realtà, in definitiva, che cessando di essere avrebbe sottratto a quella destinata a succederle ogni incanto. Ma è davvero di questo che si tratta – del rimpianto per un passato contro la cui perdita a nulla varrebbero gli esorcismi della memoria e della scrittura? Il dubbio, che assale il narratore, se mai riuscirà a far intendere ai suoi lettori l’emozione provata in “certi mattini d’inverno, quando incontrav[a] Madame Swann che passeggiava”, rivestita di un “mantello di lontra” e di tutte le insegne del desiderio, è davvero legato alla fugacità degli anni, degli oggetti e persino dei luoghi, di quello stesso Bois de Boulogne e del viale delle Acacie, dall’identità tanto fragile che “bastava che Madame Swann non giungesse, identica, nel medesimo istante, perché [...] fosse altra cosa”? In una lettera a Jacques Rivière del 7 novembre 1914, Proust stesso sconfessa, in maniera peraltro piuttosto sibillina, queste pagine che mostra di considerare un semplice “paravento”, finalizzato a dissimulare l’incompiutezza di un volume che, per volontà dell’editore, non avrebbe dovuto in ogni caso superare le cinquecento pagine; ragion per cui il lettore è diffidato dallo scorgervi l’approdo a uno scetticismo disincantato.30 Ma quanto queste parole celano è forse il segno di un disagio ancora più profondo, che si manifesta nei numerosi passaggi del testo in cui il narratore si interroga sul proprio sgomento di fronte alle “nuove componenti dello spettacolo”, che gli passavano davanti “in ordine sparso, a caso, senza verità, prive in se stesse d’una qualsiasi bellezza che i miei occhi potessero, come allora, sforzarsi di comporre”. E se, a essersi guastato, fosse non lo spettacolo, ma lo sguardo a esso rivolto? Prendiamo ad esempio la frase che precede il lamento sugli chauffeur: 30. La lettera si trova citata in una delle note sopra ricordate (vol. I, p. 1271).

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L’idea di perfezione che custodivo in me, l’avevo prestata allora all’alta sagoma d’una victoria, alla magrezza di quei cavalli furiosi e leggeri come vespe, dagli occhi iniettati di sangue come i crudeli cavalli di Diomede, che adesso, in preda a un desiderio di rivedere ciò che avevo amato non meno ardente di quello che, tanti anni prima, mi spingeva lungo lo stesso itinerario, volevo avere di nuovo davanti agli occhi [...].31 Formulando l’idea che la perduta bellezza delle cose fosse già il frutto di un’attribuzione soggettiva, il narratore ci consegna le chiavi di una lettura dell’opera sotto il segno sì della nostalgia, ma di una nostalgia senza oggetto, rispetto alla quale l’individuazione di un archetipo d’incanto e di felicità, quale quello esibito nelle esperienze di memoria involontaria, costituirebbe una sorta di formazione difensiva, di riempimento del vuoto che anima dall’interno il movimento stesso della Ricerca. Con le sue stesse parole: [...] quando una fede scompare, le sopravvive, e si fa via via più vivace per mascherare il vuoto del nostro perduto potere di dare realtà alle cose nuove, un attaccamento feticistico alle cose vecchie ch’esso aveva animato, come se in quelle e non in noi risiedesse il divino e la nostra attuale incredulità avesse una causa contingente, la morte degli Dèi.32 Ciò con cui avremmo dunque a che fare è un processo nichilistico, di sgretolamento dei vecchi valori, una sorta di malattia degenerativa la cui origine non sarebbe tuttavia estranea alla fede che ne risulta affetta. Ma, qualora questo fosse vero, dovremmo ammettere anche che una fede pura, intatta, incontaminata non sia mai esistita, e che l’attaccamento feticistico, cui il narratore fa riferimento come a una compensazione per la perdita di quella, ne costituisca viceversa un tratto fondante. D’altra parte, occorre 31. PS, p. 512. Il corsivo è mio. 32. PS, p. 513.

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prestare attenzione al fatto che tale processo non comporta alcuna perdita netta. Se il narratore afferma che con gli abiti di un tempo avrebbe anche voluto ritrovare le dimore delle signore che li portavano e le sere quivi trascorse, egli si fa anche scrupolo di aggiungere che la malia di quei momenti era legata a dei godimenti desiderati, e che allora non aveva saputo scoprire: inconcludenti nel momento in cui furono vissuti, quei minuti appaiono ora ai suoi occhi di per sé bastanti, dotati di un alone di mistero, bellezza e verità del tutto autosufficiente.33 Il valore dei vissuti è dunque allo stesso tempo ciò che la morte degli dèi che eravamo, o che abbiamo creduto di essere, intacca, e ciò che questa stessa morte produce. E il tempo perduto, l’unico a poter essere ritrovato.34 Ma la conclusione che, poche pagine dopo, Proust ne trae, tradisce uno scivolamento nichilistico ben altrimenti perturbante, che le fa entrare in stretta risonanza con il passo sui tre alberi di Hudimesnil dal quale siamo partiti. Questa, infatti, la visione che si para innanzi al narratore nel momento in cui egli si rende definitivamente conto della latitanza della Donna, o, se preferiamo, degli Dèi: Il sole s’era nascosto. La natura riprendeva a regnare nel Bois, dal quale era dileguata l’idea che fosse il Giardino elisio della Donna; al di sopra del mulino fittizio, il cielo reale era grigio; il vento increspava il Grande Lago di piccole onde, come un lago; grossi uccelli percorrevano velocemente il Bosco, come un bosco, e lanciando acuti stridi si posavano uno dopo l’altro sulle grandi querce che sotto la loro corona druidica, e con maestà dodonea, parevano proclamare il vuoto inumano della foresta sconsacrata [...].35 33. A proposito di tale inconcludenza, cfr. OFF, pp. 90 e 111. 34. Il rapporto tra nostalgia e creazione artistica viene tematizzato da Gilles Deleuze, in un passo dell’Immagine-tempo riguardante il cinema di Visconti, attraverso l’introduzione della categoria del “troppo-tardi” e con esplicito riferimento, oltre che al Nevermore di Poe, a Proust. Cfr. L’immagine-tempo (1985), trad. di J.-P. Manganaro, Ubulibri, Milano 1989, p. 112. 35. PS, p. 515.

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Il Bosco è certamente qui il Bois de Boulogne, come il Lago è il Lago grande che vi si trova. Nella transizione dalla maiuscola alla minuscola, però, non è solo la fede nel valore della loro bellezza a vacillare, ma anche l’individuazione dei luoghi, l’identità topografica, la riconoscibilità di un ambiente ospitale per le nostre abitudini, prosaiche o poetiche che siano. Tolta la patina di cui la nostra familiarità l’ammanta, la realtà non torna insomma a essere se stessa, ma finisce per confondersi con l’eccesso stesso del desiderio che ci abita, allo stesso modo in cui, in un’esperienza di déjà-vu, si finisce col perdersi, col non sapere più dove siamo: qui, nella vertigine che ci coglie? Nell’oggetto là fuori, in cui l’apodittica certezza del cogito sembra per un istante essere migrata? Nel frusciare delle fronde in cui gli antichi leggevano ogni sorta di cose, ivi compresi i messaggi degli dèi per i quali non abbiamo più orecchio? La natura del cui regno le parole di Proust non descrivono, ma appena evocano il ritorno – e non a caso a margine, sul bordo estremo del libro cui sono consegnate –, non è evidentemente un’istanza materna, il grembo sollecito ad accogliere l’uomo che vi fa ritorno. Essa appare piuttosto, nella sua inerte insignificanza, come un deserto, un luogo di esilio, ostile, del cui potere di seduzione – in tutto, e non da ultimo nel suo confondersi con l’inenarrabile, analogo a quello del canto delle sirene per Ulisse – sarebbe arduo dire in che cosa consista. Ciononostante, tale seduzione continua a esercitarsi. Di modo che l’elemento di cui la scrittura proustiana si nutre non potrà essere né la revoca senza appello dell’orizzonte della nostra esperienza, né il suo mantenimento, bensì la sua sospensione, la sua messa in movimento, il suo essere attraversato da correnti e da nubi che, come in certe pagine di Nietzsche, non riusciamo a indovinare se ci portino il sereno o nuove tempeste.

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Cose epistemiche HANS-JÖRG RHEINBERGER

Per produrre qualche effetto, bisogna uscire da quel che si domina. Jacques Derrida

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uasi quarant’anni fa usciva il libro forse più influente di Jacques Derrida, come si può constatare a posteriori: Della 1 grammatologia. Questo libro sta all’inizio del mio percorso filosofico e mi ha accompagnato nelle mie ricognizioni in campo scientifico e storico-scientifico. Inizio la mia esposizione con un estratto piuttosto lungo del primo capitolo della Grammatologia, intitolato “La fine del libro e l’inizio della scrittura”. Fino a un certo tempo fa, con un gesto e per motivi profondamente necessari, di cui sarebbe più facile denunciare l’usura che disvelare l’origine, qua e là si diceva “linguaggio” per azione, movimento, pensiero, riflessione, coscienza, inconscio, esperienza, affettività ecc. Oggi si tende a dire “scrittura” per tutto ciò e per altro: per designare non solo i gesti fisici dell’iH.-J. Rheinberger, “Alles, was überhaupt zu einer Inskription führen kann”, in Iterationen, Merve, Berlin 2005, pp. 9-29. Hans-Jörg Rheinberger, nato nel 1946, ha compiuto studi di filosofia e di biologia molecolare. Insieme a Hanns Zischler ha tradotto Della grammatologia di Jacques Derrida (Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1974). Dal 1997 è direttore del Max Planck Institut per la storia della scienza a Berlino. Sue pubblicazioni: Experiment, Differenz, Schrift (1992), Towards a History of Epistemic Things (1997), Experimentalsysteme und epistemiche Dinge (2001), The Mapping Cultures of Twentieth Century Genetics (2004, a cura di H.-J. Rheinberger e J.-P. Gaudillière). 1. J. Derrida, Della grammatologia (1967), trad. di R. Balzarotti, F. Bonicalzi, G. Contri, G. Dalmasso, A.C. Loaldi, Jaca Book, Milano 1969.

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scrizione letterale, pittografia o ideografica, ma anche la totalità che la rende possibile; inoltre, al di là della faccia significante, anche la faccia significata, e in questo modo tutto ciò che può dar luogo a un’iscrizione in generale, letterale o no, e anche se ciò che essa distribuisce nello spazio è estraneo all’ordine della voce: cinematografia, coreografia, sicuramente, ma anche “scrittura” pittorica, musicale, scultorea ecc. Si potrebbe anche parlare di scrittura atletica e ancor più, se si pensa alle tecniche che dominano oggi questi ambiti, di scrittura militare o politica. Tutto ciò per descrivere non solo il sistema di notazione che si applica secondariamente a queste attività, ma l’essenza e il contenuto di queste attività stesse. Proprio in questo senso oggi il biologo parla di scrittura e di pro-gramma a proposito dei più elementari processi di informazione della cellula vivente. E infine tutto il campo coperto dal programma cibernetico, che esso abbia o no dei limiti essenziali, sarà campo di scrittura. Pur supponendo che la teoria della cibernetica riesca a dislocare in essa ogni concetto metafisico – persino quello di anima, di vita, di valore, di scelta, di memoria – che finora erano serviti a differenziare la macchina dall’uomo, essa dovrà conservare, finché non si denunci a sua volta la sua appartenenza storico-metafisica, la nozione di scrittura, di traccia, di gramma e di grafema. Ancora prima di essere determinato come umano (con tutti i caratteri distintivi che si sono sempre attribuiti all’uomo e tutto il sistema di significati che essi implicano) o come a-umano, il gramma – o il grafema – darebbe così il nome all’elemento. Elemento senza semplicità. Si intenda elemento come l’ambiente o l’atomo irriducibile dell’archi-sintesi in generale, di ciò che si dovrebbe proibire di definire all’interno del sistema di opposizioni della metafisica, di ciò che conseguentemente non si dovrebbe chiamare l’esperienza in generale, né l’origine del senso in generale. Questa situazione si è annunciata già da sempre.2

2. Ivi, pp. 26-27 (traduzione modificata sulla base di quella di Rheinberger).

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Oggi a questa lista si possono aggiungere: le gigantesche macchine da scrivere che, in qualità di calcolatori, connettono in rete i laboratori di ricerca, coordinano grandi progetti, controllano dati scientifici e amministrativi, nonché guidano il flusso della produzione, delle merci e del denaro; gli eserciti; infine, gli uffici elettronicamente equipaggiati di tutti coloro che riflettono su quel fenomeno che si chiama rivoluzione informatica. Al pc, in un libro che porta il suo nome, si vede anche Jacques Derrida.3 Tuttavia, la situazione non è nuova. “Si è annunciata già da sempre”, conclude a sorpresa il passo citato. In Il gesto e la parola4 André Leroi-Gourhan insieme a Roy Harris in L’origine della scrittura 5 hanno convincentemente argomentato che i sistemi di scrittura non si sono originati né da un primitivo raddoppiamento pittorico-referenziale dello stato di cose né da un raddoppiamento sin dall’inizio notativo-lineare delle comunicazioni del soggetto parlante. Ma, indipendentemente da ogni impressione o espressione, vuoi visiva vuoi fonetica, sono emersi dalle modalità di un’attività graficamente adatta alla propria creazione. “Il simbolismo grafico – dice Leroi-Gourhan – gode di una certa indipendenza dalla lingua parlata.”6 La coordinazione storicamente precoce tra scrittura e linguaggio, nonché la subordinazione finale della scrittura al linguaggio – almeno così pretende la tradizione filosofica – non fu la causa del suo emergere ma la conseguenza della polivalenza funzionale della scrittura, della sua eccedenza. La forma del grafismo precede, non segue. Ciò che oggi occupa lo spazio figurativo è debitore dello sviluppo delle convenzioni grafiche in direzione del pittorico. Ciò che oggi ci è familiare come scrittura si è fatto strada verso il lineare. Abbiamo a che fare con il risultato di una differenziazione storica dai sistema simbolici “condensati” e “articolati” sulla base di una “gramma-

3. G. Bennington, J. Derrida, Jacques Derrida, Seuil, Paris 1991, p. 15. 4. A. Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola (1964-65), trad. di F. Zannino, Einaudi, Torino 1979. 5. R. Harris, L’origine della scrittura (1986), trad. di A. Perri, Stampa alternativa e graffiti, Roma 1998. 6. A. Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola, cit., p. 252 (traduzione leggermente modificata).

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tica delle differenze”.7 All’origine delle notazioni di scrittura si ritrovano fondamentalmente, almeno fin dove si spingono le congetture archeologiche, le pratiche dei numeri. “Con la certezza dei limiti probabilistici l’homo sapiens dominava l’uso dei numeri prima ancora dell’uso delle lettere. [...] L’umanità doveva diventare ‘numeraria’ prima che letteraria”, scrive Harris. E aggiunge che “qualcosa nella cultura occidentale dice che la questione dell’origine della scrittura [...] non poteva essere correttamente posta finché la scrittura stessa non si fosse contratta fino alle dimensioni del microchip. Solo dopo quest’ultima rivoluzione delle comunicazioni fu chiaro che l’origine della scrittura è connessa al suo futuro per vie che lasciano interamente fuori il linguaggio”.8 D’ora in avanti si tratta del discorso del grafema, da sempre in atto ma solo ora finalmente messo in giusta luce. Il tema della scrittura in quanto grafematesi resta all’ordine del giorno, anche se si odono voci che come ultimo grido annunciano la “svolta semiotica”, con cui la scrittura viene associata, peraltro abbastanza superficialmente. La sua dimensione, ci assicura Bruno Latour, “consiste nel fatto che, immune dalla doppia tirannia del referente e del soggetto parlante, sviluppa quei concetti che conferiscono valore specifico ai mediatori. I quali non sono più membri intermedi o trasportatori, che veicolano i significati dalla natura al linguaggio o viceversa”. E a riprova del perdurante e radicato pregiudizio del legame originario tra linguaggio e scrittura aggiunge, un po’ per spiegarlo e un po’ per confutarlo: “Testo e linguaggio producono il significato; al tempo stesso introducono i riferenti interni al discorso e il parlante, che vengono installati nel discorso”.9 Nell’ultimo decennio, a seguito della rivoluzione semiologica così descritta, una variante di postmodernismo ha dato il cambio alla prima. In riferimento a

7. N. Goodman, I linguaggi dell’arte (1968), il Saggiatore, Milano 1976. 8. R. Harris, L’origine della scrittura, cit., pp. 151, 175 (traduzione leggermente modificata). 9. B. Latour, Non siamo mai stati moderni. Saggio di antropologia simmetrica (1991), trad. di G. Lagomarsino, Eleutheria, Milano 1995, p. 79 (traduzione modificata sulla base di quella di Rheinberger).

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queste sequenze e conseguenze Latour ci invita finalmente a riconoscere che non siamo mai stai moderni – Nous n’avons jamais été modernes. Latour ha ragione. Non sono dei giochi di parole a costituire il senso complessivo del mondo. “Noi viviamo in società che come legame sociale hanno quello costituito da oggetti fabbricati in laboratorio.”10 Ma già da sempre abbiamo vissuto in un mondo il cui legame sociale sono oggetti inscritti, o meglio “sequenze formali” di oggetti, come si esprime lo storico dell’arte George Kubler,11 anche se non da sempre provengono da laboratori, ma da siti paleolitici, da campi neolitici, da forni di fusione dell’età del bronzo, da officine e da corti rinascimentali. Seguendo Kubler possiamo anche noi, parlando del divenire uomo del singolo, rappresentare la storia personale di ciascuno “come la messa in moto di due ruote del destino: una forma il temperamento, l’altra determina l’ingresso in una successione”.12 La storia esiste per noi solo grazie all’esistenza di successioni formali di oggetti-contrassegno, riproducibili in modo differenziale, di “oggetti primari”, di “mutanti” e delle loro ulteriori “repliche”, insomma di tutta la “discendenza” delle cose.13 Il museo preistorico e le collezioni di storia naturale vivono per il principio delle serie e degli sciami. Alla storiografia, in particolare alla storia della scienza, tocca andare al fondo delle condizioni locali di tali genealogie. Concorda anche Latour, che qui segue Michel Serres. La storia non è mera storia di uomini, ma è sempre stata anche storia di oggetti.14 Ma per noi non esiste oggetto che non sia grafema. Ogni essere, in quanto esserci, è un essere scritto. È solo l’immemorabile qualità di questa scrittura generalizzata, della grammatologia dell’essere, che rende materialmente possibile la reitera-

10. Ivi, p. 35. 11. G. Kubler, La forma del tempo. La storia dell’arte e la storia delle cose (1962), trad. di G. Casatello, Einaudi, Torino 1989, pp. 43-50. 12. Ivi, p. 14 sgg. 13. Ivi, pp. 50-65. 14. B. Latour, Non siamo mai stati moderni, cit., p. 102.

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zione e la ricorrenza, la differenza in quanto differenza e, quindi, in generale la storia e il senso. Il suo fondamento elementare è stato proposto da Derrida occasionalmente, senza tornare a sviluppare i dettagli. Riprendo il luogo citato ancora una volta: “In questo senso oggi anche il biologo parla di scrittura e di pro-gramma a proposito dei più elementari processi informativi della cellula vivente”. Del resto successivamente Derrida non ha esitato a usare le scoperte biologiche su ibridazione e innesto come metafore del lavoro di interpretazione, cioè della prassi della reiterazione dei testi.15 Cosa mi fa rivolgere alla scrittura? Nulla di più, ma anche nulla di meno del fatto che, in un senso fondamentale e al tempo stesso contingente, la nostra macchina dell’essere sia una macchina da scrivere. Quando finalmente l’essere arriva al linguaggio, alla parola (a cui la scrittura dovrebbe subordinarsi da Platone a de Saussure) alle spalle c’è un processo di iscrizione biologica durato ben tre miliardi di anni, che chiamiamo ancora con il termine inappropriato di evoluzione, come se fosse lo “scartamento da un involucro”.16 Ancor prima di ogni semantica delle successioni formali, prima di ogni stratigrafia e genealogia dei manufatti – punte di frecce, volte a crociera, carrozze o macchine calcolatrici – la semantica dell’essere si basa su una scrittura stereochimica.17 La replicazione di insiemi molecolari, che Manfred Eigen chiama “quasi specie” molecolari,18 un tempo nel brodo primordiale, oggi in provetta, è un processo di riproduzione di sciami matriciali.

15 J. Derrida, “La double séance”, in La dissémination, Seuil, Paris 1972, pp. 199-318, a p. 230. 16. Gioco di parole latente tra Entwicklung, comunemente usato per evoluzione, benché qui Rheinberger usi il termine Evolution, e Auswicklung, nel senso di scartamento. [N.d.T.] 17. Cfr. F. Jacob, R. Jakobson, C. Lévi-Strauss, P. L’Heritier, Vivre et parler, “Les lettres françaises”, febbraio 1968, p. 1221 sgg.; F. Jacob, Le modèle linguistique en biologie, “Critique”, 322, 1974, pp. 197-205; V.A. Ratner, The genetic language, in R. Rosen, F.M. Snell (a cura di), Progress in Theoretical Biology, Academic Press, New York 1974, pp. 143-228; per un’ulteriore discussione, cfr. R.N. Mantegna, S.V. Buldyrev, A.L. Goldberger, S. Havlin, C.K. Peng, M. Simons, H.E. Stanley, Linguistic Features of Noncoding DNA Sequences, “Physical Review Letters”, 73, 1994, pp. 3169-3172. 18. M. Eigen, Gradini verso la vita: l’evoluzione prebiotica alla luce della biologia molecolare (1987), trad. di F. Canobbio Codelli, Adelphi, Milano 1992.

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Certo, in primo luogo si può dire che molecole diventano matrici grazie a una duplicazione solo finitamente esatta. Ma così l’avventura della scrittura non è incondizionatamente legata solo al progresso, ma già da sempre all’irrevocabile pro-scrizione.19 Ciò vale sia per la riproduzione differenziale degli esseri sia per la moltiplicazione dei “quasi oggetti”20 pragmatogonici di Michel Serres, per non dire della reiterazione e della riproduzione di testi. Non esiste scritto che non sia sovrascritto. Lo scarabocchio è la precondizione di ogni storia e la prima storia è la differenza. “La necessità di passare attraverso la determinazione cancellata, la necessità di questa trascrizione, è irriducibile.”21 In essa diviene [reale] ciò che nel movimento che produce la successiva “scartoffia” appare come differenza. Lacerata a distanza, realizza nel proprio movimento il corso verso l’“istoriale”;22 porta in primo piano ciò che sperimentiamo come tempo e temporalità. In questo la scrittura generalizzata e l’evoluzione sono particolari scartoffie e storie, impossibili le une senza le altre. Grafemi e differenze si presuppongono reciprocamente senza che si possa ascrivere loro un’origine comune. La cancellazione della loro origine sta nel movimento di raddoppiamento. Chi non lo sa per esperienza? Da qui si diparte una strada – expérience – verso l’esperimento, segno e segnale della scienza dei tempi nuovi, del suo caratteristico modo di produrre successioni formali di cose, catene grafematiche di eventi, in sostanza di “cose epistemiche”.23 Porta alle formazioni che una volta Bachelard chiamò “le prodigiose epigrafie della materia”,24 alle “incisioni” del microcosmo che risultano leggibili solo scrivendole. La cera dei fisici non proviene dall’alveare delle api. Non ha il profumo dei fiori da cui origina, ma del sudore dei metodi che l’hanno purificato. Più 19. Gioco di parole intraducibile tra Fortschritt, progresso, e Fortschrift, prolungamento della scrittura. [N.d.T.] 20. M. Serres, Statues, Bourin, Paris 1987. 21. J. Derrida, Della grammatologia, cit., p. 45. 22. Ibidem. 23. H.-J. Rheinberger, Experiment, Differenz, Schrift, Basiliskenpresse, Marburg 1992. 24. “Que de pensées doit nous livrer cette prodigieuse épigraphie de la matière!”, G. Bachelard, Le nouvel esprit scientifique (1934), PUF, 1995.

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pulito, più forte. È il momento in cui l’“organizzazione del sapere”, differenziale e non conclusiva, si realizza al confine dell’ignoranza,25 e quanto indichiamo come pensiero “passa all’atto” nella propria materialità grafematica, mantenendo tuttora in esclusione interna gli immaginari riflessi speculari del cogito. Qui ci troviamo al punto in cui il semplice viene sperimentato come semplificato, dove conserva in sé la traccia della propria degenerazione dal complesso. Qui ci troviamo al punto in cui il sapere ancora “non (vuol) sapere della verità come causa”, in quel luogo del Non-volerne-sapere che, secondo Lacan, conferisce al sapere fecondità e potenza.26 In quanto stato grafematico del sapere, nella situazione sperimentale, gioca ben più di una scienza dei segni. Secondo Serres si tratta di una “pragmatogonia” di cose epistemiche – si potrebbe parlare di grammatogonia – che all’arsenale dei neografismi ne aggiunge uno nuovo. Tecnicamente parlando, tali grafismi sono tanto intrinseci e alla produzione e al prodotto, che i due vocaboli, scienza e tecnica, sono quasi diventati sinonimi. Si parla di tecnoscienze. L’acquisizione più recente è la tecnologia genetica. Grazie a essa il laboratorio, questa fucina di cose epistemiche, entra nell’organismo stesso, dove da potenzialmente immortale comincia a scrivere con la propria macchina da scrivere ontologica. È lei che ha portato al maggiore progetto di decifrazione del secolo, al programma di sequenziamento del genoma umano.27 Ma ci vuole prudenza con il termine “tecnoscienze”. Infatti, presupponendo l’identità di tecnica e scienza, proprio per la sua supposta evidenza, altera più che chiarire il carattere e il processo delle scienze sperimentali. Anche Martin Heidegger ha contri25. “Toute la vie intellectuelle de la science joue dialectiquement sur cette différentielle de la connaissance, à la frontière de l’inconnu”, ibidem. 26. J. Lacan, “La science et la vérité”, in Écrits, Seuil, Paris 1966, p. 869. 27. D.J. Kevles, L. Hood (a cura di), The Code of Codes. Scientific and Social Issues in Human Genome Project, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1992; cfr. anche L. Kay, Wer schrieb das Buch des Lebens? Information und Transformation der Molekularbiologie, in M. Hagner, H.-J. Rheinberger, B. Wahrig-Schmidt (a cura di), Objekte, Differenzen und Konjunkturen. Experimentalsysteme im historischen Kontext, Akademie Verlag, Berlin 1994, pp. 151-179.

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buito alla propagazione di questo equivoco affermando: “La folle corsa che oggi trascina le scienze, neppure loro sanno dove, deriva dalla forza propulsiva, sempre maggiore e sempre più in balia della tecnica, del metodo e delle sue possibilità. Nel metodo sta l’autorità del sapere. Il tema appartiene al metodo”. Per contro per Heidegger solo il “pensiero” salvaguarda la particolarità di aprirsi una strada all’intorno, “incontrando e aprendo al pensiero quel che il pensiero ha da pensare”.28 Ma cosa fa di diverso il pensiero sperimentale, chiaramente grafematico, dal disporre tracce in uno spazio di rappresentazioni, le quali aprono la strada proprio a quel che c’è da sperimentare? La produzione di tracce in uno spazio materiale di rappresentazioni di una scienza è un gioco di scrittura. Le cose epistemiche sono articolazioni di grafemi. Ultracentrifughe, microscopi elettronici, elettroforesi su gel, tracciamento radioattivo (raccogliere tracce: à la Heidegger, il nome indica l’“essenza” del metodo) producono quello spazio di presentazioni, cioè di scrittura, in cui i grafemi si piegano agli oggetti epistemici. Descrivere la successione di gel di un laboratorio di biologia molecolare può servire a chiarire il processo. Le successioni di gel mostrano come la biologia molecolare procede nel suo lavoro. Un gel si presenta come sottile lastra porosa di resina sintetica versata su una piastra. Lì, applicando una differenza di potenziale elettrico, diversi grossi frammenti di DNA migrano diversamente. Attraverso una presupposta manipolazione biochimico-enzimatica, una sintesi con rotture statistiche delle catene, le molecole sono elaborate in modo da differire di volta in volta per una sola unità costruttiva in tutta la loro lunghezza. Sono poi marcate applicando componenti radioattive alla loro sintesi. Possono così essere rese visibili come sequenza di strisce scure su una pellicola fotografica. Quattro colonne rappresentano le quattro basi nucleotidiche del DNA: G, A, C e T. Si può leggere tale scrittura dal basso verso l’alto, ottenendo la cosiddetta sequenza genetica. La 28. M. Heidegger, “L’essenza del linguaggio”, in In cammino verso il linguaggio (1959), a cura di A. Caracciolo, Mursia, Milano 1973, p. 141 (traduzione modificata).

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scrittura della vita è così trasposta nello spazio di scrittura del laboratorio e trasformata in cosa epistemica nel mondo di dimensioni intermedie in cui operano i nostri organi di senso. In quanto ricercatore, il biologo non opera direttamente sui geni della cellula, ma lavora con grafemi prodotti sperimentalmente in uno spazio di rappresentazioni. Se vuol sapere cosa significano, non può far altro che interpretare tale articolazione di grafemi attraverso altri grafemi. L’interpretazione di una successione di gel non può essere altro che un’ulteriore successione di gel. Nella scienza non c’è nulla che sfugga alla processualità permanente della presentazione, al costante slittare di una rappresentazione sotto l’altra, dove al tempo stesso si perde il loro senso inteso come immagine. I problemi scientifici producono catene di rappresentazioni, che mostrano una certa connessione formale. Infatti, sono ordinabili in successioni o serie, i cui membri non stanno in alcun modo necessariamente tra loro in “rapporto di causa ed effetto”, come già faceva osservare Claude Bernard, il grande biologo e fisiologo sperimentale francese.29 Il loro succedersi non ubbidisce né alla logica della deduzione né alla causalità fisica. Tuttavia, il processo è organizzato nel senso del principio di produzione di differenze “coesive”. In ultima analisi è un processo di rappresentazioni senza punto di riferimento finale e, pertanto, anche senza origine. Per quanto paradossale possa sembrare è questa la condizione della potenza della spesso citata “obiettività” della scienza, della sua particolare oggettività e temporalità. In una determinata epoca e in una determinata disciplina all’interno di un determinato orizzonte di problemi, in quanto vale come vero si ritrova sempre la condizione minimale di coerenza di una catena significante, cui è conferita dignità di oggetto. Sul tipo di coerenza decide lo spazio disponibile delle rappresentazioni, mentre sullo spazio delle rappresentazioni decide l’arsenale delle tecniche di rappresentazione. Pertanto, è impensabile una biologia molecolare senza l’alta tecnologia dell’ultracentrifugazione, della microscopia elettronica e dell’analisi strut29. C. Bernard, Philosophie. Manuscrit inédit, Hatier-Boivin, Paris 1954, p. 14.

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turale X-grafica. Ma non ci sarebbe biologia molecolare neppure senza i procedimenti incomparabilmente più semplici, modesti e realizzabili con strumenti hobbistici, della cromatografia e della genetica batterica. Cosa valga come tecnologia e cosa no, non lo decide la tecnologia, ma il processo epistemico. Sul punto si può concordare con Heidegger: l’essenza della tecnica non è di natura tecnica. Quel che succede negli spazi “iperreali” dei moderni laboratori30 è più vicino di quanto comunemente non si creda alla produzione dell’atelier artistico. Il movimento cui entrambi obbediscono è il movimento di ciò che Brian Rotman indica come “xenotesto” o “altrotesto”. “Il termine non indica altro che la capacità di indicare altro. Il suo valore è determinato dalla capacità di attivare varianti di se stesso. Pertanto, uno xenotesto non ha alcun ‘significato’ ultimo, alcuna ‘interpretazione’ unica nel suo genere, canonica, definitiva, finale. Il suo significato consiste nell’essere in grado di produrre il proprio futuro interpretativo.”31 Non è un caso che uno dei cofondatori della biologia molecolare, François Jacob, abbia descritto il processo delle scienze sperimentali come “macchina per generare il proprio futuro”.32 I generatori di futuro si distinguono per il fatto che gli eventi da essi prodotti sono trattabili ed esprimibili solo al futuro anteriore. Ricevono significato da quel che saranno stati. Di conseguenza sono puri significanti. (Sorge inevitabilmente un paradosso quando si è costretti a utilizzare una terminologia per superarla.) A questo punto non si distinguono dagli esseri viventi. Gli eventi cui i viventi vanno incontro durante la loro riproduzione differenziale – il biologo li chiama mutazioni – nel momento in cui si producono non hanno alcun significato. Sono asignificativi. Acquisiscono significato solo da ciò che saranno stati nel loro futuro interpretativo. Ciononostante senza di loro non ci sarebbe viven30. Sul concetto si veda Jean Baudrillard, Agonie des Realen, Merve, Berlin 1978. 31. B. Rotman, Semiotica dello zero (1987), trad. di D. Faraone, Spirali, Milano 1988, p. 151 (traduzione modificata sulla base del testo riportato da Rheinberger). 32. F. Jacob, La statua interiore (1987), trad. di L. Guarino et al., il Saggiatore, Milano 1988, p. 8 (traduzione leggermente modificata).

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te. Logica del vivente e logica della ricerca appartengono a grammatologie affini, a un analogo “gioco del possibile”.33 Non lo si può maneggiare in modo selettivo e prestabilito. O si gioca o non si gioca. E se si gioca non si può concludere sulla base della struttura specifica del gioco. Infatti, per sapere cosa si è di volta in volta fatto, bisogna partecipare al giro successivo. A questo punto non siamo molto distanti dai giochi linguistici di Wittgenstein. “Il nostro errore – osserva Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche – consiste nel cercare una spiegazione là dove dovremmo vedere ciò che avviene come fenomeno originario. Cioè, dove avremmo dovuto dire: ‘Si gioca questo gioco linguistico’.”34 Giochi linguistici o giochi di scrittura. Ne prenderemo possesso attraverso un inevitabile ritardo temporale. Tanto per l’artista quanto per lo scienziato, quando sono in attività, vale di regola che non sanno quel che fanno. Questa Nachträglichkeit costitutiva è connessa al carattere della traccia, dei grafemi.35 Si devono raddoppiare per diventare quel che sono stati. Designiamo l’effetto macroscopico di questa struttura microscopica con il termine di inaudito. L’intera storia della scienza consiste nel vano tentativo di prevenire l’inaudito preparandolo. Oggi vedo essenzialmente così il messaggio della grammatologia e cioè che la scrittura è l’altro nome di questa struttura. Al di là degli enunciati iniziali della filosofia greca sul mero sostituto e/o supplemento della parola parlata, la scrittura interviene nel movimento dei sostituti e molto di più nella loro determinazione. Non c’è sostituto senza sostituendo già scritto.36 Sta lì tutta l’efficacia della scrittura. È tempo che ci svegliamo dal sogno cartesiano di una sola strada, il discorso sul metodo, che prende le mosse dall’accer-

33. F. Jacob, Il gioco dei possibili (1981), Mondadori, Milano 1983. 34. L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche (1953), a cura di M. Trinchero, Einaudi, Torino 1967, § 654 (traduzione leggermente modificata). 35. Sulla temporalità della Nachträglichkeit, cfr. R. Nägele, Reading after Freud, Columbia University Press, New York 1987. 36. Gioco di parole intraducibile tra Satz, enunciato, ed Ersatz, sostituto. [N.d.T.]

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tamento dell’essere dell’io pensante e si realizza nella lettura del “[grande] libro del mondo”.37 La metafora è tanto vecchia quanto il libro, almeno quanto il libro stampato e, quindi, quanto si designa come scienza moderna. Su questa metafora non ci sarebbe quasi nulla da ridire, se l’“effettivamente scientifico” non fosse colto in termini di scrittura. Qui non ho parlato d’altro. Ma il mio tema era anche che ci sono infiniti libri e infiniti compositori. Innanzitutto, ciò dimostra che le storie della scienza vanno scritte una volta di più e che la riserva di grafemi è inesauribile. L’impossibilità di ricuperare le connessioni grafematiche all’orizzonte fluttuante tra sapere e ignoranza ha una cronologia documentabile. Essa si sottrae al concetto classico di causalità, a cui in maniera cangiante, ma sempre in nome della legge, il concetto di storia è stato collegato. Solo la traccia, che questi concetti hanno lasciato dietro di sé, produce quel che con un gesto tanto allucinatorio quanto inevitabile si chiama certificazione dell’origine. Dopo di che a questo punto non si possono formulare previsioni. Lo ha formulato in modo limpido François Jacob nel capitolo “Il tempo e l’invenzione dell’avvenire” alla fine del suo saggio Il gioco dei possibili. Anche se fosse in nostro potere di produrre il futuro, il sistema è fatto in modo che le nostre previsioni debbano rimanere incerte. [...] Quel che possiamo congetturare oggi non diventerà realtà domani. In ogni caso ci saranno dei cambiamenti e il futuro sarà diverso da quel che crediamo. Ciò vale specialmente per la scienza. La ricerca è un processo senza fine, di cui non si può mai dire quali sviluppi prenderà. L’imprevedibilità è intrinseca alla natura del risiko scientifico. Per definizione non si può mai sapere prima se si incapperà in qualcosa di veramente nuovo. È impossibile dire dove un certo campo di ricerca porterà. Di conseguenza non si possono selezionare certi 37. Cartesio, Discorso sul metodo, a cura di L. Urbani Ulivi, Bompiani, Milano 2002, parte I, p. 105.

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aspetti della scienza ed escluderne altri. Come ha sottolineato Lewis Thomas, la scienza o si prende o si lascia.38 Ma non sarebbe meglio parlare di scienze al plurale? Come richiama Isabelle Stengers non ne esiste una sola.39 Pertanto la partita rimane aperta. È sempre stato così. Della scienza, come di ogni arte, non si può dire molto di più che: “Si gioca a questo gioco”. Oggi si comprende meglio di ieri che, proprio nelle reazioni xenofobe a ciò che sempre meno senza problemi si può rubricare sotto la voce “progresso scientifico”, si tratta meno di “contesti” e più di “xenotesti”. Per contro si potrebbe reclamare una maggiore xenofilia – diciamo, un certo amore per le cose epistemiche.

Traduzione dal tedesco di Antonello Sciacchitano.

38. F. Jacob, Il gioco dei possibili, cit., p. 93 sgg. 39. Cfr. I. Stengers, Wissenschaft als Passion, “Lettre International”, 27, 1994, pp. 72-76.

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