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338 aprile giugno 2008

L’acinema di Lyotard a cura di Antonio Costa e Raoul Kirchmayr Premessa [R.K.] 3 Antonio Costa Da “L’autre scène” a “L’acinema”: lavoro del film e teoria del cinema 6 Jean-François Lyotard L’acinema [1973] 17 Jean-François Lyotard Due metamorfosi del seduttivo al cinema [1980] 33 Claudine Eizykman, Guy Fihman L’occhio di Lyotard, da “L’acinema” al postmoderno 42 Dominique Chateau Il figurale e l’allucinazione filmica 73 Paolo Bertetto Il figurale e il cinema 86 Raoul Kirchmayr Estetica pulsionale. Merleau-Ponty con Lyotard 98 Patrizia Magli I paradossi della materia tra “presenza” e “immaterialità” 114 Tiziana Migliore “Questo è il mio corpo”. Operatività del segno tra Jean-François Lyotard e Louis Marin 126 Damiano Cantone Un accordo nel disaccordo. Proposta per un confronto tra le estetiche di Deleuze e Lyotard 137 INTERVENTI Didier Franck Oltre la fenomenologia

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VICINO/LONTANO Carlo Ginzburg, Arnold I. Davidson Il mestiere dello storico e la filosofia

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rivista fondata da Enzo Paci nel 1951 direttore responsabile: Pier Aldo Rovatti redazione: Graziella Berto, Laura Boella, Paulo Barone, Giovanna Bettini, Deborah Borca (editing, deborahborca@libero.it), Silvana Borutti, Damiano Cantone, Alessandro Dal Lago, Rocco De Biasi, Maurizio Ferraris, Edoardo Greblo, Raoul Kirchmayr, Giovanni Leghissa, Anna Maria Morazzoni (coordinamento, tel. 02 70102683), Ilaria Papandrea, Gabriele Piana, Fabio Polidori, Rosella Prezzo, Pier Aldo Rovatti, Antonello Sciacchitano, Giovanni Scibilia, Davide Zoletto direzione: via Pacini 40, 20131 Milano. collaborano tra gli altri ad “aut aut”: G. Agamben, H.-D. Bahr, R. Bodei, M. Cacciari, G. Comolli, G. Dorfles, U. Galimberti, P. Gambazzi, S. Givone, A. Heller, A. Prete, M. Serres, G.C. Spivak, M. Trevi, G. Vattimo, M. Vegetti, P. Veyne, V. Vitiello, S. Zˇizˇek

il Saggiatore S.p.A. Via Melzo 9, 20129 Milano ufficio stampa: autaut@saggiatore.it abbonamento 2008: Italia € 60,00, estero € 76,00 L’Editore ha affidato a Picomax s.r.l. la gestione degli abbonamenti della rivista “aut aut”. L’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e la possibilità di richiedere gratuitamente la rettifica o la cancellazione scrivendo a: Picomax s.r.l. responsabile dati, Via Borghetto 1, 20122 Milano (ai sensi della L. 675/96). servizio abbonamenti: Picomax s.r.l., Via Borghetto 1, 20122 Milano telefono: 02 77428040 fax: 02 76340836 e-mail: abbonamenti@picomax.it www.picomax.it Registrazione del Tribunale di Milano n. 2232 in data 13.1.1951 Proprietà: Francesca Romana Paci Stampa: Arti Grafiche Bertoni, Verderio Inferiore Spedizione in abbonamento postale 45% art. 1, comma 1, decreto legge 353/03 convertito in legge 46/04 – Filiale di Milano. Finito di stampare nel giugno 2008


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Premessa

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l rapporto tra filosofia e cinema è diventato senza dubbio un oggetto controverso e multiforme nella riflessione degli ultimi anni. Proponendo modelli teorici diversi, pensatori come Deleuze e, più recentemente, Zˇizˇek – solo per citare due nomi – hanno contribuito a mutare l’atteggiamento con cui la filosofia si è accostata al cinema, mostrando come quest’ultimo rappresenti a pieno titolo una posta in gioco importante nella comprensione delle forme della cultura contemporanea. A dieci anni esatti dalla sua scomparsa, è venuto il momento di riconoscere che Jean-François Lyotard è stato uno di quei filosofi che ha preso sul serio le potenzialità di pensiero della settima arte. Nel farlo, Lyotard si è guardato bene dal riprodurre un tipico gesto filosofico, tendente a riconoscere ed estrapolare dei contenuti di verità che – in forma più o meno consapevole – sono presenti nel cinema, gesto che è divenuto quasi seriale in una certa recente saggistica e la cui serialità stessa può essere intesa come il sintomo di una difficoltà a pensare il cinema. Infatti, non si tratta semplicemente di impiegare le categorie della filosofia per spiegarlo, operazione alla quale può essere riconosciuta una certa qual utilità marginale, ma che in definitiva tende a esaurirsi in un metadiscorso. Tale metadiscorso non pare poter produrre rilevanti effetti né sulla filosofia, sulle sue categorie, sulle forme della sua (auto)rappresentazione, sulle sue parole, né tanto meno sulla cinematografia, che non sembra avere bisogno di filosofi per ri3


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flettere sulle sue pratiche e sui suoi linguaggi. Come Lyotard ci mostra, si tratta invece di rapportarci altrimenti con il cinema come modalità del pensare. Ed è in questo “come” che occorre vedere la novità da lui introdotta. Con la sua considerazione del cinema, fatta da filosofo e con sguardo filosofico, in primo luogo Lyotard è stato in grado di fornire una serie di strumenti teorici che – elaborati in un campo inter- (o trans-) disciplinare tra arti figurative, fenomenologia, semiotica e freudo-marxismo – si sono rivelati poi efficaci anche in operazioni filosofiche capaci di mettere in scena il pensiero. Così, in secondo luogo, Lyotard si è cimentato in una attività di cineasta che, per quanto limitata, gli ha permesso di realizzare alcuni cortometraggi nei quali ha impiegato il suo strumentario filosofico e critico, il cui centro teorico è dato dalla nozione di figurale, che ha avuto una grande risonanza nell’estetica contemporanea. Perciò non solo possiamo dire che Lyotard ha pensato il figurale ma, anche, che lo ha praticato come trasgressione dei generi di scrittura, fosse questa la scrittura saggistica o quella peculiare “scrittura per immagini” che è il cinema. Il 2 e 3 aprile del 2007, presso l’Istituto universitario di architettura di Venezia (IUAV) si è svolto un convegno internazionale intitolato Jean-François Lyotard dall’acinéma al postmoderno, promosso dal Dipartimento delle arti e del design, a cura degli organizzatori Antonio Costa e Paolo Fabbri, con una serie di interventi di studiosi italiani e francesi, molti dei quali compongono i materiali di questo fascicolo assieme alla traduzione dell’importante saggio L’acinema1 e a Due metamorfosi del seduttivo al cinema, qui pubblicato per la prima volta in italiano. Oltre ad affrontare la questione dell’eredità del pensiero postmoderno, il convegno si è concentrato proprio sul rapporto pensiero-cinema, con l’intenzione di ritornare all’originalità dell’approccio avanguardistico del filosofo francese, declinato nel suo peculiare

1. Si ringrazia Chiara Tartarini per aver gentilmente concesso la riproduzione della sua traduzione di L’acinema, apparsa nel catalogo Bellaria Film Festival. Anteprima per il cinema indipendente italiano, Comune di Bellaria, Bellaria 2003, pp. 75-81.

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fare cinema. Così, durante il convegno sono stati riproposti lavori di Lyotard come L’autre scène, Mao Gillette e Tribune sans tribun – che erano già stati proiettati nell’ambito delle retrospettive dedicate all’avanguardia francese degli anni settanta al Bellaria Film Festival del 2003 – assieme a una selezione di scene tratte da alcuni film che ne hanno ispirato il lavoro teorico, quali Passion di Godard, Nostra signora dei turchi di Carmelo Bene, Apocalypse Now di Coppola. Partendo dalla riflessione filosofica sull’acinema, gli interventi nelle due giornate di studio veneziane hanno dunque provato a definire sia lo specifico dell’interesse di Lyotard per il cinema sia a interrogare – in una prospettiva estetica più ampia – i motivi di un interesse per le derive teoriche da lui sperimentate, per le sue incessanti e libere peregrinazioni. [R.K.]

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Da “L’autre scène” a “L’acinema”: lavoro del film e teoria del cinema ANTONIO COSTA

L’altra scena Il cartello del titolo con cui si apre L’autre scène (1969-72)1 presenta un fastidioso lampeggiamento (clignotement) o sfarfallio, effetto che di solito dipende da un cattivo funzionamento del proiettore. Lo stesso effetto, riproposto nel cartello finale che porta i nomi degli autori, ci fa capire che è qualcosa di voluto, cercato. Si tratta, ad apertura e chiusura del film, di spie, tracce lasciate lì per ricordarci la soglia oltre la quale cominciamo a vedere ciò che si nasconde sotto la regolare cadenza dei 24 fotogrammi al secondo, cominciamo a capire ciò che il lavoro del film occulta. A partire dal titolo di chiara derivazione freudiana, L’autre scène si situa perfettamente nella temperie culturale dei tardi anni sessanta, tanto per i procedimenti che mette in campo quanto per il tema subito esplicitato (la pubblicità).2 In questo non si diffe1. Il cortometraggio, che dura complessivamente 6 minuti, è stato realizzato da JeanFrançois Lyotard con la collaborazione di Dominique Avron, Claudine Eizykman e Guy Fihman. Il suono è stato registrato presso il Service de la Recherche dell’ORTF, e il film è stato sonorizzato al centro tecnico dell’Ecole Normale de Saint Cloud nel 1972. È quanto meno curioso che L’autre scène non sia neppure citato nel monumentale volume curato da Nicole Brenez e Christian Lebrat, Jeune, dure et pure! Une histoire du cinéma d’avant-garde et expérimental en France, Cinémathèque française-Mazzotta, Paris-Milano 2001. 2. Come ha scritto Claudine Eizykman, “si tratta di un tentativo che mira a manifestare (e non a significare) con le immagini e il materiale sonoro come funziona una pubblicità: qui la lama Gillette. L’autre scène avrebbe dovuto comprendere altre sequenze relative a campi differenti dalla pubblicità. Il titolo, mutuato da Freud, indica l’importanza accordata alle operazioni del lavoro del sogno in rapporto al lavoro del film” (Programme CNAC-Georges Pompidou, dicembre 1980, pp. non numerate).

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renzia da produzioni d’avanguardia coeve, se non fosse che tra i suoi autori, in ultima posizione nel rigoroso rispetto dell’ordine alfabetico, non figurasse il nome di Jean-François Lyotard. Il film si apre con l’immagine di un volto di ragazza che vediamo attraverso un mascherino sul quale è “ritagliata” la sagoma ingigantita di una lametta da barba. Nella parte in basso compare la scritta pubblicitaria “Cette lame est amoureuse de votre peau”. L’effetto è simile a quello utilizzato da Antonioni nei titoli di testa di Blow up (1966), chiara allusione a una visione che va oltre gli effetti di superficie. Il volto della giovane donna è quello di una cover girl anni sessanta, non dissimile nei tratti da Veruschka, la modella che il protagonista (David Hemmings) fotografa in una delle sequenze più famose del film di Antonioni. Le immagini di L’autre scène presentano tutte le possibili combinazioni del rapporto tra il tema iconografico della lama e quello della cover girl, secondo la retorica visiva dell’immaginario della pubblicità: in successione, vediamo dettagli degli occhi fortemente truccati, delle labbra carnose sulle quali il raffinato bianco e nero consente di indovinare le tonalità chiare del rossetto (secondo la moda dell’epoca), della pelle levigatissima, dei capelli biondi, lievemente ondeggianti. Volto femminile e lama vengono, attraverso una varietà di effetti ottici, combinati e per così dire compressi nella medesima inquadratura, con risultati che ricordano insistentemente il collage. La varietà delle combinazioni riesce a mantenere i due temi (volto e lama) in una condizione di indecidibilità tra contiguità e similarità o, in termini retorici, tra metonimia e metafora o ancora, in termini freudiani, tra spostamento e condensazione. A complicare (e arricchire) l’effetto interviene una voce fuori campo che offre una serie di varianti giocate sull’annominatio e sull’omofonia di femme, lame (lama), l’âme (l’anima). Gioco pericoloso, dopotutto: una delle ultime inquadrature mostra una lama che penetra nella pelle, lacerandola: il richiamo all’occhio tagliato di Un chien andalou di Buñuel mi sembra evidente. Accanto a composizioni e dettagli di grande eleganza formale, che possono ricordare gli elaborati montaggi delle tavole a fumetti di Guido Crepax, si insinuano effetti di tutt’altro tipo, alla Francis Bacon 7


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per intenderci, grazie al semplice accostamento di un dettaglio degli occhi nella parte superiore del quadro e un ingrandimento delle labbra nella parte inferiore; o da film horror, in un’altra inquadratura in cui gli occhi della cover girl sono incastonati dentro la sagoma vuota della lama: sguardo vivente imprigionato dentro la materia inerte, come in un film pressoché contemporaneo di David Cronenberg (Stereo, 1969).3 Mentre, come ho già ricordato, L’autre scène è firmato da Lyotard con Avron, Eizykman e Fihman, Mao Gillette (1974) è firmato dal solo Lyotard: pur nelle sue dimensioni più ridotte (dura infatti 3 minuti), costituisce uno sviluppo e un approfondimento di L’autre scène, con l’aggiunta di un nuovo elemento iconografico (il presidente Mao), di una nuova parte scritta (come si determina se un intellettuale è rivoluzionario) e con l’eliminazione degli effetti sonori (infatti è muto o meglio silencieux, come si preferiva dire all’epoca, nell’ambito del cinema sperimentale). Ricompare lo slogan pubblicitario di L’autre scène (“Cette lame est amoureuse de votre peau”) combinata questa volta da cartelli che riportano una famosa citazione del pensiero maoista: “Pour déterminer si / un intellectuel / est révolutionnaire / non révolutionnaire / ou contrerévolutionnaire / il existe un critère decisif / il faut savoir s’il veut / se lier aux masses / ouvrières ou paysannes / et s’il se lie / effectivement à elles”. Immagini del presidente Mao si alternano a immagini della pubblicità (la cover girl), lo slogan della lametta viene alternato alla frase di Mao o a parti di essa. I dettagli ingranditi delle immagini combinate vengono spinti oltre il limite della riconoscibilità, con ingrandimenti, sovrimpressioni, manipolazioni grafiche. Parallelamente le frasi sull’intellettuale rivoluzionario vengono spezzettate e isolate, perdendo il senso originario e suscitando nuove associazioni: ne deriva che il lessico

3. L’autre scène è stato programmato, assieme a Mao Gillette (1974) e Tribune sans tribun (1978), nell’ambito delle retrospettive dedicate all’avanguardia francese degli anni settanta al Bellaria Film Festival (2003); i film sono stati riproposti a complemento del convegno internazionale Jean-François Lyotard dall’acinéma al postmoderno promosso dal Dipartimento delle arti e del design dell’Università IUAV di Venezia (aprile 2007). In ambedue le occasioni i film sono stati forniti da Cinédoc/Paris Films Coop (<http://www.cinedoc.org>).

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politico interferisce con le immagini consumistiche e, all’opposto, le immagini della rivoluzione culturale delle guardie rosse sono commentate con lo slogan della pubblicità (“Cette lame aime votre peau”). La commistione tra materiali così eterogenei produce un effetto straniante: i due contesti appaiono irriducibilmente contrapposti e allo stesso tempo complementari e un’iconografia assolutamente familiare all’epoca, grazie al gioco serrato e rigoroso di condensazione e spostamento, finisce per produrre effetti perturbanti. Il sonoro (o meglio il parlato) ha invece un’importanza essenziale in Tribune sans tribun (1978, durata 15 minuti). Si tratta di una notevole performance televisiva di Lyotard, nell’ambito di un programma che dava di volta in volta la parola a personaggi eminenti dell’intellighenzia francese: sottilmente giocato sul filo dell’(auto)ironia. La prestazione di Lyotard mette a punto un uso magistrale della voce a-sincrona che avrà molto più tardi imitatori anche nella nostra televisione. Mostrando quella che potrebbe essere una tipica apparizione televisiva di un intellettuale francese in TV, Lyotard mette fuori sincrono il parlato rispetto all’immagine, trasformando la voce del “tribuno” in una sorta di voce acusmatica4 che dà come risultato una decostruzione del rito televisivo incentrato sulla parola dell’intellettuale, dell’esperto, del filosofo: insomma, come dice il titolo, la “tribuna” resta senza il “tribuno”. Che cos’è l’acinema? C’è evidentemente uno stretto legame tra il testo L’acinema e la sperimentazione che, a partire da L’autre scène, è stata realizzata da Lyotard assieme a Dominique Avron, Claudine Eizykman, 4. Sul concetto di acusma, vedi M. Chion, La voix au cinéma, Editions de l’Etoile, Paris 1982; trad. La voce al cinema, Pratiche, Parma 1991, pp. 31-46. Il termine rimesso in uso da Pierre Schaeffer e ripreso da Chion indicava, all’interno della scuola pitagorica, la pratica del filosofo che parlava ai suoi allievi nascosto dietro una tenda, in modo che non fosse visibile la sorgente della voce. La teoria di Chion parte dall’idea di stabilire un’equivalenza tra il suono cinematografico che arriva allo spettatore separato dall’immagine e l’acusma: il suono sincrono de-acusmatizza la parola cinematografica, mentre la voce off esalta effetti acusmatici.

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Guy Fihman. Fu proprio in seguito a questa esperienza creativa e ai seminari teorici che l’hanno accompagnata, che il gruppo venne invitato a dare un contributo per un numero monografico di “Revue d’esthétique”, curato da Dominique Noguez: nacquero così, oltre a L’acinema di Lyotard, Remarques sur le travail du son dans la production cinématographique standardisée di Dominique Avron, Que sans discours apparaissent les film di Claudine Eizykman e D’où viennent les images claires di Guy Fihman.5 Parallelamente, Claudine Eizykman e Guy Fihman partecipavano al collettivo redazionale della rivista “Le travail du film”, dedicato a Cinéma et psychanalyse, che presentava schede filmografiche di una rassegna sullo stesso tema (al cinema Marais) e interviste agli psicanalisti André Green e Janine Chasseguet Smirgel. Tema del numero monografico era la relazione tra “lavoro del film” e “lavoro onirico”, la stessa che stava alla base di L’autre scène. Da notare che tra i film della rassegna ci sono Un uomo a metà (1965) di Vittorio De Seta, del quale si segnalano le “dissolvenze incrociate ottenute attraverso l’uso di lastre di vetro” e La ragazza che sapeva troppo (1963) di Mario Bava, del quale si evidenziava una “costruzione illogica, a-temporale, irrazionale che è la stessa della realtà psichica” (nell’uno e nell’altro caso, ci sono evidenti analogie con i procedimenti usati in L’autre scène).6 Certo, Lyotard, secondo una tradizione francese che non ha molte corrispondenze nel nostro paese e nelle nostre università, è un filosofo che ha prestato attenzione al cinema e un filosofo il cui pensiero si è incontrato con il cinema.7 Ma c’è qualcosa di più, in quanto Lyotard ha anche avviato un tipo di riflessione che si è tradotta in sperimentazione: sperimentazione diretta, nel caso di L’autre scène, e sperimentazione indotta, nel caso del grup-

5. Cinéma: théorie, lectures, numero speciale di “Revue d’esthétique”, a cura di D. Noguez, 2-4, 1973 (19782). 6. Cfr. “Le travail du film”, 1, gennaio 1970, pp. non numerate. 7. Sull’importanza di Lyotard e in particolare di L’acinema nel quadro delle teorie del cinema degli anni settanta, cfr. F. Casetti, Teorie del cinema 1945-1990, Bompiani, Milano 1993, pp. 230-233; D. Chateau, Cinéma et philosophie, Nathan, Paris 2003, pp. 126-129.

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po di Avron, Eizykman e Fihman, ma anche nel caso di Gianfranco Baruchello con il quale si sviluppò un rapporto di reciproca attenzione che diede luogo, tra l’altro, a quel curioso essai, A partire dal dolce (1979-80), riflessione a più voci, in forma di interviste videoregistrate con vari intellettuali, sulla categoria di dolce.8 Il testo di Lyotard L’acinema fornisce la teoria di quel tipo di sperimentazione. Si tratta di un proclama contro il cinema della norma-normalizzazione. Prima ancora di normalizzare nella convenzione della rappresentazione/narrazione la gamma vastissima delle sue potenzialità, il cinema normalizza la materia di cui è fatto: il movimento. Rispetto all’infinita varietà di movimenti possibili, la produzione del film comporta, secondo Lyotard, l’esclusione di una moltitudine di mobiles. A essere sistematicamente esclusi sono i limiti estremi, vale a dire l’immobilità e l’eccesso di movimento: Imparare i mestieri del cinema consiste nel diventare capaci di eliminare, al momento della produzione del film, un buon numero di questi movimenti possibili. La composizione dell’immagine, della sequenza, del film sembra dover avere luogo a spese di queste esclusioni.9 Il movimento viene, secondo Lyotard, selezionato e reso funzionale alla rappresentazione-narrazione, escludendo pertanto tutto ciò che resta (deve restare) estraneo alla costituzione del sistema rappresentativo-narrativo. Sviluppando e approfondendo tali idee in direzione di un’economia politico-libidinale del cinema, Claudine Eizykman delineerà la contrapposizione tra cinema sperimentale, caratterizzato dal dispendio improduttivo, e quel-

8. Anche questo video è stato presentato al Bellaria Film Festival (2003); su questa esperienza cfr. G. Baruchello, Sull’idea del dolce, accompagnato da Conversazione con Lyotard, trascrizione dal videotape di Baruchello e Alberto Grifi, “Filmcritica”, 300, 1979, pp. 425430. 9. J.-F. Lyotard, L’acinéma, “Revue d’esthétique”, 2-4, 1973; trad. L’acinema, in questo fascicolo.

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lo che viene da lei definito l’NRI, cioè il cinema “narrativo-rappresentativo-industriale”.10 Il saggio di Lyotard va quindi collocato nell’ambito di quella spinta anti-istituzionale – in senso politico e linguistico-estetico – che caratterizza la teoria e la prassi del cinema dalla metà degli anni sessanta e che coinvolge non solo il cinema sperimentale e d’avanguardia. Si pensi, per esempio, alla teoria del cinema di poesia e della “lingua scritta dell’azione” di Pier Paolo Pasolini,11 che notoriamente non amava l’avanguardia. E tuttavia credo non sia difficile dimostrare le analogie che esistono tra la formula “lingua scritta dell’azione” di Pasolini e quella di Lyotard secondo il quale nel cinema “on y écrit en mouvements”, il cinema è scrittura di movimenti. L’idea pasoliniana di un’energia poetica insita nella natura stessa (riproduttiva) del mezzo cinematografico, che viene negata e convogliata nelle convenzioni narrative del cinema commerciale, potrebbe essere riformulata in termini analoghi a quelli di Lyotard in L’acinema. D’altra parte conosciamo il debito esplicitamente dichiarato da Gilles Deleuze nei riguardi della teoria pasoliniana della soggettiva libera indiretta.12 Più evidente e più facilmente contestualizzabile è la relazione tra L’acinema di Lyotard e le critiche radicali al sistema di rappresentazione prospettica che, secondo la riflessione sviluppata nelle riviste francesi tra la fine degli anni sessanta e i primi anni settanta, unisce e salda in un’unica visione ideologica la pittura del Rinascimento al cinema, la camera obscura di Leonardo alla cinepresa, la prospettiva quattrocentesca a Hollywood.13 Echi di tale impostazione si ritrovano non solo nelle pratiche più radicali dell’avanguardia cinematografica degli anni settanta, ma anche negli studi e nelle ricerche sulla storia del cinema. Pen-

10. Cfr. C. Eizykman, La jouissance cinéma, UGE, Paris 1976. 11. Cfr. P.P. Pasolini, Empirismo eretico, Garzanti, Milano 1972, pp. 171-192 e 202-230. 12. Cfr. G. Deleuze, L’image-mouvement, Minuit, Paris 1983; trad. L’immagine-movimento, Ubulibri, Milano 1984, in particolare il cap. V; Id., L’image-temps, Minuit, Paris 1985; trad. L’immagine-tempo, Ubulibri, Milano 1989, in particolare il cap. II. 13. Su questo aspetto rinvio, anche per la bibliografia, ad A. Costa, Il cinema e le arti visive, Einaudi, Torino 2002, pp. 132-139.

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so in particolare alla contrapposizione introdotta da Noël Burch tra MRI (Modo di rappresentazione istituzionale) e MRP (Modo di rappresentazione primitivo), nella quale è evidente l’intenzionalità di mettere in contrapposizione l’istituzionalizzazione del cinema narrativo attuata da Hollywood e le potenzialità di una sorta di status nascenti del cinema.14 Mi sembrano del resto evidenti le parentele che si possono individuare tra una certa concezione di “primitivo” e varie manifestazioni del cinema d’avanguardia. Un’analoga contrapposizione, anche se ricondotta in un ambito più neutrale, più descrittivo che interpretativo, si ritrova in Gaudreault e Gunning, che hanno delineato l’evoluzione tecnico-linguistica del cinema dei primi tempi nei termini di un passaggio dal SAM (Sistema delle attrazioni mostrative) al SIN (Sistema dell’integrazione narrativa).15 Mi sembrano significative le analogie che sia la formula MRP di Burch che quella SIN di Gaudreault e Gunning presentano con l’NRI di Claudine Eizykman, alla quale va riconosciuta una priorità cronologica e una vicinanza con il pensiero di Lyotard, del quale sono probabilmente debitori tanto Burch quanto Gaudreault e Gunning.16 Contro la normalizzazione del cinema istituzionale narrativo, Lyotard espone l’idea della pirotecnica; e anche qui non sarà inutile ricordare l’importanza che la pirotecnica ha nel sistema delle attrazioni del cinema “primitivo” di Georges Méliès e i legami che esso conserva con il dispendio improduttivo della festa. Lyotard cita il caso del bambino che accende un fiammifero per il puro piacere dell’esplosione di luce/calore e non per accendere il gas: pur nella sua estrema semplicità, l’esempio è assolutamente chiaro e introduce con un’evidenza assoluta la contrapposizione tra il principio di piacere e il principio di realtà derivato dalla teoria freudiana.

14. Cfr. N. Burch, La lucarne de l’infini, Nathan, Paris 1991; trad. Il lucernario dell’infinito, Pratiche, Parma 1993. 15. Cfr. A. Gaudreault, T. Gunning, Le cinéma des premiers temps: un défi à l’histoire du cinéma?, in J. Aumont, A. Gaudreault, M. Marie (a cura di), L’histoire du cinéma: nouvelles approches, Pubblications de la Sorbonne-Colloque de Cerisy, Paris 1989, pp. 49-63. 16. C. Eizykman, La jouissance cinéma, cit.

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Mentre è su questo piano, e in relazione allo sviluppo della teoria dei dispositivi pulsionali, che va interpretato il contributo di Lyotard alla teoria del cinema, è piuttosto su quello dell’analisi-interpretazione dei fatti filmici e della pratica sperimentale che va misurata la proposta teorica del filosofo francese. Visioni “eccessive” Esiste per il cinema, per tutto il cinema, il problema di riattivare ciò che la normalizzazione della rappresentazione nega, ciò che da essa viene espunto, vale a dire l’immobilità e l’eccesso di movimento. Nel primo caso, ecco la dimensione del tableau vivant, nel secondo quella che Lyotard chiama l’esaltazione lirica. Quale esemplificazione diretta di questa implicazione dell’“irrappresentabile della rappresentazione”, Lyotard fa riferimento, da una parte, all’attenzione di Pierre Klossowski al tableau vivant e, dall’altra, alla pittura dell’espressionismo astratto (Rothko e Pollock). Lyotard non esclude però che ci possano essere anche nel cinema corrente momenti particolari in cui, in deroga alla norma della rappresentazione (il movimento ripreso a 24 fotogrammi al secondo, deve poi essere restituito/proiettato alla stessa cadenza) che sfruttano effetti di immobilizzazione o parossistica esaltazione del movimento. E cita al proposito La guerra del cittadino Joe (Joe, 1970) di John G. Avildsen. Un esempio tra i tanti: in Joe (film interamente costruito sull’impressione di realtà), il movimento compare alterato in due momenti: la prima volta, quando il padre picchia a morte il giovane hippy con il quale la figlia vive, la seconda quando, “ripulendo” con il fucile una comune hippy, uccide la figlia senza saperlo. Quest’ultima sequenza si ferma su un primo piano del volto e del busto della giovane donna colpita in pieno movimento. Nel primo omicidio, distinguiamo appena, alle soglie minime di percezione, una gragnola di pugni scagliarsi su un volto indifeso che sprofonda presto nel coma. Questi due effetti, uno di immobilizzazione, l’altro di eccesso di mobilità, sono ottenuti in deroga alle norme della rappresentazione, che esigono che il movimento reale, impresso sulla pellicola a 24 foto14


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grammi al secondo, sia restituito in proiezione alla stessa velocità. Pur presentando due casi di “eccessi”, essi sono tuttavia funzionali al sistema di rappresentazione, alla logica drammaturgica del film e, quindi, risultano alla fine essi stessi normalizzati nell’economia (politica e pulsionale, si direbbe) del film. In un intervento successivo,17 Lyotard cita una sequenza di Apocalypse Now (1979) di Francis Ford Coppola, quella dell’attacco degli elicotteri al suono della Cavalcata delle Valchirie di Wagner, nella quale tuttavia l’eccesso di movimento viene interpretato come un effetto di iperrealismo, con conseguente perdita di realtà: Ma qui arriva un momento in cui la scena è satura di elementi sonori e visivi in rapidissimo spostamento, in cui i dati eccedono l’occhio e l’orecchio, e il destinatario patisce un eccesso di realtà. Tutti gli aneddoti, tutte le trame abbozzate in precedenza sui personaggi principali e secondari sono scompigliate e distrutte, rese in un istante inafferrabili. La scena si svuota di senso. L’eloquenza e le prescrizioni implicite che le sono associate sprofondano nel soverchio di informazioni. […] Lo spettatore non riceve più dalla scena le prescrizioni che implicitamente lo facevano intervenire: fa’ questo, pensa quest’altro. È in uno stato di perdita di vincolo.18 In una sintesi-commento di L’acinema, Dominique Chateau introduce delle possibili esemplificazioni che possono aiutare forse con maggior efficacia a comprendere le implicazioni di questo ritorno del rimosso della rappresentazione; e cita, a proposito del tableau vivant, Passion (1982) di Jean-Luc Godard e, a proposito dell’esaltazione lirica, il cinema di Carmelo Bene.19 Secondo Eizykman e Fihman il termine acinema ha il merito di 17. J.-F. Lyotard, Deux métamorphoses du séduisant au cinéma, in M. Olender, J. Sojcher (a cura di), La séduction, Aubier Montaigne, Paris 1980, pp. 93-100; trad. Due metamorfosi del seduttivo al cinema, in questo fascicolo. 18. Ibidem. 19. D. Chateau, Cinéma et philosophie, cit., p. 126.

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“evocare la natura paradossale del dispositivo cinematografico” che consiste nel produrre il movimento mediante l’immobilità: il cinema infatti riprende e restituisce il movimento “attraverso la sua soppressione”.20 Partendo da questa premessa, i due cineasti e studiosi francesi mostrano quale importanza abbia avuto il pensiero di Lyotard nello sviluppo della loro sperimentazione e in particolare nei loro film V.W. Vitesse Women (1972-74) di Claudine Eizykman e Ultrarouge-Infraviolet (1974) di Guy Fihman. Basterebbero questi rapidi cenni per fornire un’idea del ruolo propulsivo che la riflessione teorica di Lyotard e la sua sperimentazione hanno avuto nella nascita e nello sviluppo dell’avanguardia cinematografica francese degli anni settanta. Certo, ci sono anche altri momenti in cui il pensiero di Lyotard incontra il cinema, sia direttamente che indirettamente, a partire dallo sviluppo delle implicazioni delle formulazioni dell’acinema fino alle non meno importanti e complesse relazioni tra la teoria lyotardiana della condizione postmoderna e il cinema, senza contare poi la spinta che la teoria del figurale, elaborata in Discorso, figura,21 ha esercitato nella teoria e nei metodi di analisi del film.

20. Vedi l’intervento di Eizykman e Fihman in questo stesso fascicolo. 21. J.-F. Lyotard, Discours, figure, Klincksieck, Paris 1971; trad. Discorso, figura, Unicopli, Milano 1988.

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L’acinema [1973] JEAN-FRANÇOIS LYOTARD

Il nichilismo dei movimenti convenzionali Il cinematografo1 è iscrizione del movimento, scrittura di movimenti. Ogni tipo di movimento: per esempio, per quanto riguarda il piano, quello degli attori e degli oggetti mobili, delle luci, dei colori, dell’inquadratura, della focale; per la sequenza, degli stessi elementi ancora e, in più, dei raccordi (del montaggio); per il film, dello stesso découpage e, al di sopra o attraverso tutti questi movimenti, del suono e delle parole, che costituiscono un tutt’uno con essi. C’è, dunque, una moltitudine (per quanto numerabile) di elementi in movimento, una moltitudine di oggetti mobili e possibili candidati all’iscrizione sulla pellicola. Imparare i mestieri del cinema consiste nel diventare capaci di eliminare, al momento della produzione del film, un buon numero di questi movimenti possibili. La composizione dell’immagine della sequenza e del film sembra dover avere luogo a spese di queste esclusioni. Da ciò derivano due interrogativi davvero ingenui rispetto al J.-F. Lyotard, L’acinéma, “Revue d’esthétique”, numero speciale a cura di D. Noguez, Cinéma: théorie, lectures, 2-4, 1973 (19782), pp. 357-369; ripreso in J.-F. Lyotard, Des dispositifs pulsionnels, UGE, Paris 19802, pp. 51-65; la traduzione era già apparsa in AA.VV., Bellaria Film Festival. Anteprima per il cinema indipendente italiano, Comune di Bellaria, Bellaria 2003, pp. 75-81. Una precedente traduzione, a cura di Maurizio Ferraris, era stata pubblicata in J.-F. Lyotard, A partire da Marx e Freud, multhipla, Milano 1979. 1. Queste riflessioni non sarebbero neppure state possibili senza il lavoro pratico e teorico svolto da molti anni da e con Dominique Avron, Claudine Eizykman, Guy Fihman, dentro e fuori l’équipe di ricerca I, 7 dell’Università di Vincennes.

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discorso dell’attuale teoria cinematografica: quali sono questi movimenti e questi oggetti mobili? Perché è necessario selezionarli? Non selezionare alcun movimento significa accettare il fortuito, lo sporco, l’impuro, il non organizzato, il confuso, ciò che è male inquadrato, ciò che è sbilenco e mal fatto… Poniamo, per esempio, che stiate lavorando a un piano con una videocamera, magari su una splendida chioma alla Saint-John Perse. Al momento di visionare, notate che c’è stato un vacillamento: di colpo, disordinati profili di isole, paludi e scogliere taglienti invadono i vostri occhi, li colmano, intercalano, nel vostro piano, una scena venuta da chissà dove, che non rappresenta nulla di riconoscibile, che non si ricollega alla logica del vostro piano, che non ha valore neppure come inserto, perché non sarà ripresa, ripetuta, una scena indecidibile che dovrete eliminare. Non rivendichiamo un cinéma brut, come l’art brut di Dubuffet. Non facciamo parte di un’associazione per la salvaguardia dei provini e la riabilitazione del non montato. Per quanto… Pensiamo che se il vacillamento viene eliminato, lo sia per la sua non conformità, che venga rimosso, al tempo stesso, per proteggere l’ordine dell’insieme (del piano e/o della sequenza e/o del film) e per negare l’intensità che veicola. L’ordine dell’insieme ha per scopo solo la funzione del cinema: che ci sia ordine nei movimenti, che i movimenti si facciano in ordine, che facciano ordine. Siamo in grado di concepire e praticare la scrittura con il movimento, il cinematografare, solo come un’incessante organizzazione dei movimenti: regole della rappresentazione per la localizzazione spaziale, regole della narrazione per il farsi istanza del linguaggio, regole della forma “musica da film” per il tempo sonoro. Quella che chiamiamo impressione di realtà è una vera e propria oppressione di ordini. Questa oppressione consiste nell’applicazione del nichilismo ai movimenti. Nessun movimento, indipendentemente dalla sua provenienza, è dato all’occhio-orecchio dello spettatore per quel che è: una semplice differenza sterile in un campo visivo-sonoro. Al contrario, ogni movimento proposto rinvia ad altro, si iscrive 18


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come un più o un meno sul libro dei conti che è il film, ha valore perché in relazione ad altro,2 perché è dunque una risorsa3 potenziale e vantaggiosa. Il solo vero movimento con il quale si scrive il cinema è dunque quello del valore. La legge del valore (nell’economia cosiddetta politica) sostiene che l’oggetto, nel nostro caso il movimento, vale per quanto è scambiabile, in quantità di un’unità definibile, per quanto è equivalente ad altri oggetti o a quelle stesse quantità. Bisogna dunque che l’oggetto sia suscettibile di movimento perché abbia valore: che proceda da altri oggetti (“produzione” in senso stretto), e che sparisca, ma a condizione di dar luogo ad altri oggetti ancora (consumo). Un processo del genere non è sterile, è produttivo, è produzione nel senso più ampio del termine. La pirotecnica Distinguiamolo bene dal movimento sterile. Un fiammifero acceso si consuma. Ma se con esso accendete il gas, grazie al quale scaldate l’acqua per farvi il caffè di cui ogni mattina avete bisogno prima di andare al lavoro, il suo non è un bruciare sterile, ma un movimento che appartiene al circuito del capitale: merce-fiammifero ¬ merce-forza lavoro ¬ denaro-salario ¬ merce-fiammifero. Tuttavia, quando un bambino accende la capocchia rossa del fiammifero solo per vedere, senz’altra ragione, lo fa perché ama il movimento, i colori che sfumano l’uno nell’altro, le luci che esplodono in tutto il loro splendore, la morte del pezzetto di legno, lo sfrigolio. A lui, dunque, piacciono le differenze sterili, quelle che non portano a nulla, che non sono ammortizzabili e compensabili, a lui piacciono le perdite e ciò che il fisico chiamerebbe degradazione di energia. Il godimento, per quanto fornisca occasione di perversione e non solo di propagazione, si distingue per questa sterilità. Al termine di Al di là del principio di piacere, Freud lo pone come esem2. Revenir à significa “tornare a qualcosa”, “pervenire a qualcosa”, ma significa anche, tra l’altro, “equivalere”, “costare”. [N.d.T.] 3. Gioco di parole intraducibile tra renvoyer, revenir e revenu, che significa, appunto, “risorsa”, “guadagno”, “profitto”. [N.d.T.]

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pio della combinazione della pulsione di vita (Eros) e delle pulsioni di morte. Ma si riferisce al godimento ottenuto attraverso la genitalità “normale”: come ogni godimento, compreso quello che dà occasione alla stasi isterica o allo scenario perverso, il godimento normale include la componente letale, ma la nasconde in un movimento di ritorno, che è quello della genitalità. La sessualità genitale, se è normale, dà luogo a una nascita e quel che nasce è il prodotto4 del suo movimento. Ma il movimento di piacere in quanto tale, più o meno genitale o sessuale, se non inserito nel movimento di propagazione della specie, diverrebbe ciò che, oltrepassando il punto di non ritorno, riversa le forze libidiche al di fuori dell’insieme e a spese di esso (a spese della distruzione e della disintegrazione dell’insieme). Quando il fiammifero prende fuoco, al bambino piace questo dirottamento5 (la parola è cara a Klossowski) dispendioso di energia. Egli produce, attraverso il suo movimento, un simulacro del godimento nella sua componente cosiddetta di morte. Se è un artista, certo lo è perché produce un simulacro, ma soprattutto perché questo simulacro non è un oggetto di valore che vale per un altro oggetto, con il quale si comporrebbe, si compenserebbe e si richiuderebbe in un insieme regolato da una qualche legge costitutiva (in struttura di gruppo, per esempio). Conta invece che tutta la forza erotica investita nel simulacro sia in esso promossa, dispiegata e bruciata invano. Per questo Adorno diceva che la sola grande arte è quella degli artificieri: la pirotecnica, infatti, simulerebbe alla perfezione il consumarsi sterile delle energie libidiche. Joyce accredita questa prerogativa nella sequenza sulla spiaggia dell’Ulisse. Un simulacro inteso in senso klossowskiano, che non va concepito sotto la categoria della rappresentazione, come ciò che, per esempio, mima il godimento, ma in una problematica cinesica, come prodotto paradossale del disordine delle pulsioni, come combinazione di decomposizioni. La discussione sul cinema, e sull’arte rappresentativo-narrati4. Revenu. [N.d.T.] 5. Détournement ha molteplici significati tra i quali anche “deviazione”, “perversione” e “alterazione”. [N.d.T.]

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va in genere, comincia proprio da qui. Perché si schiudono due direzioni per concepire (e produrre) un oggetto, cinematografico in particolare, conforme all’esigenza pirotecnica: due correnti apparentemente contrarie, le stesse che paiono oggi attrarre ciò che vi è di intenso nella pittura e operare anche nelle forme realmente attive del cinema sperimentale e underground. Queste due polarità sono rappresentate dall’immobilità e dall’eccesso di movimento. Attratto verso questi opposti, il cinema smette impercettibilmente di essere una forza dell’ordine: produce dei veri – cioè vani – simulacri, delle intensità di godimento, invece che oggetti consumabili-produttivi. Il movimento di ritorno6 Facciamo qualche passo indietro. Che cosa hanno a che fare questi movimenti di ritorno o questi movimenti reiterati con la forma rappresentativa e narrativa nel cinema di grande distribuzione? Sarebbe insufficiente rispondere a questa domanda in termini di semplice funzione sovrastrutturale di un’industria, il cinema, i cui prodotti, i film, dovrebbero agire sulla coscienza del pubblico per addormentarlo con i suoi infusi ideologici. Se la messa in scena è messa in ordine di movimenti, non lo è in quanto propaganda (a favore della borghesia, direbbero alcuni, e della burocrazia, aggiungerebbero gli altri), ma in quanto propagazione. Nello stesso modo in cui la libido deve rinunciare alle sue eccedenze perverse per poter assicurare, all’interno di una genitalità normale, la propagazione della specie – solo fine per il quale permette la costituzione del “corpo sessuato” –, così il film prodotto dall’artista nell’industria capitalistica (e ogni industria conosciuta al momento lo è), e risultante, l’abbiamo detto, dall’eliminazione dei movimenti anomali, dai dispendi inutili, dagli scarti di puro disfacimento, è composto come un corpo omogeneo e propagatore, un insieme riassemblato e fecondo che saprà trasmettere, non perdere, ciò che porta con sé. Il racconto chiuderà la sin6. L’autore utilizza ancora il termine revenu, che qui si è scelto di tradurre con “ritorno” (economico). [N.d.T.]

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tesi dei movimenti nell’ordine dei tempi e la rappresentazione prospettica nell’ordine degli spazi. Ora, in che cosa possono consistere tali chiusure, se non nel disporre la materia cinematografica secondo la figura del ritorno? Non parliamo qui solo dell’esigenza di guadagno imposta dal produttore all’artista, ma dell’esigenza di forma che l’artista fa gravare sul materiale. Ogni forma cosiddetta “buona” implica la riapparizione dell’identico, la riconversione della diversità nell’unità identica. In pittura, tutto questo può tradursi in rima plastica o in equilibrio di colori; in musica, può essere la risoluzione di una dissonanza nell’accordo di dominante; in architettura, di una proporzione. La ripetizione, principio proprio non soltanto della metrica ma anche della ritmica, considerata nel senso della ripetizione dello stesso (dello stesso colore, della stessa linea, dello stesso angolo, dello stesso accordo o intervallo), è ciò che conviene a Eros-e-Apollo, ciò che disciplina i movimenti e li riconduce ai limiti di tolleranza caratteristici del sistema o dell’insieme considerato. Quanto alla ripetizione, siamo stati fortemente tratti in inganno quando abbiamo creduto, con Freud, di scoprire in essa il movimento stesso delle pulsioni. Perché Freud, in Al di là del principio di piacere fa sempre ben attenzione a tenere distinti la ripetizione dello stesso, che segnala il regime delle pulsioni di vita, e la ripetizione dell’altro, che non può che essere altro dalla prima ripetizione indicata, corrispondente alle pulsioni di morte: essendo queste fuori dal regime assegnabile dal corpo o dall’insieme, non è possibile distinguervi ciò che ritorna, quando, con esse, a ripresentarsi è l’intensità di estremo godimento e pericolo di cui esse sono portatrici. Al punto che bisogna chiedersi se si tratta proprio di ripetizione, o se invece non si tratti ogni volta di altro, e se l’eterno ritorno di queste sterili esplosioni di investimenti libidici non debba essere concepito in un diverso ordine spaziotemporale rispetto a quello della ripetizione dello stesso, come loro copresenza incompossibile [coprésence incompossible]. Qui ci si scontra certamente con l’insufficienza del pensiero, che necessariamente passa per il medesimo che è il concetto. 22


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I movimenti del cinema sono in generale quelli del ritorno, cioè della ripetizione dello stesso e della sua propagazione. La sceneggiatura, un intrigo con epilogo, rappresenta, nell’ordine degli affetti relativi ai “significati” (denotati e connotati, direbbe Metz), la stessa risoluzione di una dissonanza che la forma della sonata in musica. A questo proposito, ogni fine, anche mortale, è buona in quanto fine, come risoluzione di una dissonanza. Nel registro degli affetti relativi ai “significanti” cinematografici e filmici, troverete applicata a tutti i campi (focale, messa in quadro, raccordo, illuminazione, stampa ecc.) la stessa regola di riassorbimento della diversità nell’unità, la legge del ritorno dello stesso attraverso una parvenza di alterità che, in realtà, non è che un espediente. L’istanza di identificazione Questa regola, laddove si applichi, opera principalmente, come abbiamo detto, sotto forma di esclusioni e di cancellazioni. Esclusioni di movimenti di cui gli addetti ai lavori non sono consapevoli, cancellazioni che, in compenso, essi non potrebbero ignorare perché rappresentano una parte importante dell’attività cinematografica. In realtà, queste cancellazioni ed esclusioni costituiscono le operazioni stesse della messa in scena. Eliminando, prima o dopo la ripresa, i riflessi, per esempio, l’operatore e il regista condannano l’immagine sulla pellicola al sacro imperativo di rendersi riconoscibile all’occhio, ed esigono dunque da quest’ultimo che percepisca l’oggetto o l’insieme di oggetti come il doppio di una situazione supposta reale. L’immagine è rappresentativa perché è riconoscibile, perché si rivolge alla memoria dell’occhio, ai punti di riferimento di identificazione stabiliti, noti, nel senso di “ben noti”, certi. Questi riferimenti sono l’identità che misura il ritornare e il ritorno7 dei movimenti. Formano l’istanza (o il gruppo di istanze) alla quale si fissano tutti i movimenti e grazie alla quale essi assumono inevitabilmente la forma di ci-

7. Vedi nota 6. [N.d.T.]

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cli. Così, ogni allontanamento, ogni disturbo, ogni scarto, perdita e irregolarità può avere luogo, perché non si tratta più di dirottamenti, di derive a perdere ma, a conti fatti, soltanto di percorsi più lunghi per un saldo in attivo. È in questo preciso punto di ritorno a fini di identificazione che la forma cinematografica, intesa come sintesi di movimenti corretti, si articola sull’organizzazione ciclica del capitale. Un esempio tra i tanti: in Joe8 (film interamente costruito sull’impressione di realtà), il movimento compare alterato in due momenti: la prima volta, quando il padre picchia a morte il giovane hippy con il quale la figlia vive, la seconda quando, “ripulendo” con il fucile una comune hippy, uccide la figlia senza saperlo. Quest’ultima sequenza si ferma su un primo piano del volto e del busto della giovane donna colpita in pieno movimento. Nel primo omicidio, distinguiamo appena, alle soglie minime di percezione, una gragnola di pugni scagliarsi su un volto indifeso che sprofonda presto nel coma. Questi due effetti, uno di immobilizzazione, l’altro di eccesso di mobilità, sono ottenuti in deroga alle norme della rappresentazione, che esigono che il movimento reale, impresso sulla pellicola a 24 fotogrammi al secondo, sia restituito in proiezione alla stessa velocità. Ci si potrebbe aspettare da ciò una forte carica affettiva, dal momento che questa perversione del ritmo realistico, come aumento o diminuzione, risponde a quella del ritmo organico nella grande emozione. E questo in effetti si produce, ma a beneficio della totalità filmica, e dunque, in definitiva, dell’ordine: perché queste due aritmie si producono non in maniera aberrante, ma esattamente in corrispondenza dei punti culminanti della tragedia dell’incesto impossibile padre/figlia che la sceneggiatura lascia intendere. Esse possono così disturbare l’ordine rappresentativo – fino a sopprimere per qualche istante la cancellazione della pellicola, che ne è la condizione essenziale – ma non cessano, al contrario, di soddisfare l’ordine narrativo, al quale imprimono una bella curva melodica, con la

8. Joe. La guerra del cittadino Joe (1970), di John G. Avildsen. [N.d.T.]

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prima uccisione accelerata che trova la sua risoluzione nell’immobilizzazione della seconda. La memoria alla quale i film si rivolgono non è dunque nulla in se stessa, esattamente come il capitale non è nient’altro che istanza capitalizzante; è un’istanza, un insieme di istanze vuote che non operano affatto attraverso il loro contenuto: la buona forma, la buona luce, il buon montaggio, il buon missaggio, non sono “buoni” perché conformi alla realtà percettiva o sociale, ma perché, al contrario, sono gli operatori scenografici a priori che determinano gli oggetti da registrare sullo schermo e nella “realtà”. La messa fuori scena La messa in scena non è un’attività “artistica”, è un processo generale che riguarda tutti gli ambiti di attività, un processo profondamente inconscio di selezione, di esclusione e di cancellazione. In altri termini, il lavoro della messa in scena si effettua su due piani simultanei, e qui sta l’aspetto più enigmatico. Da un lato, il lavoro consiste semplicemente nel separare la realtà da uno spazio di gioco (un “reale” o un “dereale”, ciò che si trova nell’obiettivo): mettere in scena significa istituire questo limite, questo quadro, circoscrivere la regione di deresponsabilità all’interno di un insieme che, ipso facto, si porrà come responsabile (lo chiameremo natura, per esempio, o società, o ultima istanza), e dunque istituire, tra l’una e l’altra regione, una relazione di rappresentazione o di doppio,9 accompagnata necessariamente da una perdita di valore relativa alle realtà di scena che, allora, divengono solo delle rappresentanti delle realtà di realtà. Ma, dall’altro lato, e in maniera indissociabile, perché la funzione di rappresentazione possa essere assicurata, il lavoro di messa in scena non deve essere solo, come abbiamo appena detto, un lavoro che mette fuori scena, ma un lavoro che conforma tutti i movimenti, da una parte e dall’altra del limite del quadro, che impone, in un luogo come nell’altro, nella “realtà” come nel reale, le stesse norme, che chiama in causa allo stesso modo tutti gli impulsi, e che, 9. Doublure, nel cinema, si riferisce correntemente alla “controfigura”. [N.d.T.]

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pertanto, esclude e cancella fuori scena non meno che in scena. La messa in scena impone all’oggetto filmico gli stessi punti di riferimento che impone anche, di necessità, a ogni oggetto extrafilmico. Essa disgiunge, dunque, prima di tutto sull’asse della rappresentazione, grazie al limite teatrico [théâtrique],10 una realtà dal suo doppio, operando così un’evidente rimozione; ma in più essa elimina, oltre a questa disgiunzione rappresentativa, in un ordine pre-teatrico [pre-théâtrique] ed economico, ogni movimento pulsionale, di dereale o di realtà, che non si presterebbe a raddoppiamento, che sfuggirebbe all’identificazione, al riconoscimento e alla fissazione mnestica. Indipendentemente dal “contenuto”, che può anche apparire “violento”, la messa in scena, analizzata dalla prospettiva di questa primordiale funzione di esclusione, estesa tanto all’“esterno” quanto all’interno dello spazio cinematografico, agisce dunque sempre come un fattore di normalizzazione libidica. Questa normalizzazione, è ormai chiaro, consiste nell’escludere tutto ciò che non può essere ricondotto a forza, sulla scena, nel corpo del film, e fuori scena, nel corpo sociale. Il film, questa strana formazione reputata normale, non lo è molto più che la società o l’organismo. I suoi oggetti, che non sono veramente tali, risultano tutti dall’imposizione e dal desiderio di una totalità tradotta in realtà. Si presume che questi oggetti realizzino la funzione più ragionevole per eccellenza: la subordinazione di tutti i movimenti pulsionali, parziali, divergenti e sterili all’unità del corpo organico. Il film è il corpo organico dei movimenti cinematografici. È l’ekklesia delle immagini, come ciò che è politico lo è per quella degli organi sociali parziali. Per questo, la messa in scena, tecnica di esclusioni e di cancellazioni, che è per eccellenza attività politica, e quest’ultima, che è per eccellenza messa in scena, sono la religione dell’irreligione moderna, l’ecclesiastica della laicità. Il problema centrale non è, in nessuno dei due casi, né la disposizione rappresentativa, né la questione, a es10. Théâtrique è un neologismo introdotto da Lyotard e con ogni evidenza ricalcato su filmique ed économique. [N.d.T.]

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sa correlata, di sapere cosa e come rappresentare, di definire una buona o vera rappresentazione: il problema è l’esclusione o la preclusione di tutto ciò che è giudicato irrappresentabile perché non-ricorrente. Il film agisce, così, come lo specchio ortopedico di cui Lacan ha analizzato, nel 1949, la funzione costitutiva del soggetto immaginario o oggetto a; il fatto che si agisca a livello di corpo sociale non modifica nulla della sua funzione. Ma il vero problema, che Lacan elude a causa del retaggio hegeliano che sottostà alle sue riflessioni, è quello di sapere perché le pulsioni diffuse sul corpo polimorfo abbiano bisogno di un oggetto nel quale riunirsi. All’interno di una filosofia della coscienza, questo termine la dice lunga sul fatto che l’esigenza di unificazione sia data per ipotesi e che sia l’obiettivo stesso di una tale filosofia; in un “pensiero” dell’inconscio, in cui una delle forme più affini alla pirotecnica sarebbe l’ipotesi economica alla quale Freud costantemente accenna, la questione della produzione dell’unità, anche immaginaria, non può più evitare di rivelarsi in tutta la sua opacità. Non dovremo più far finta di comprendere la costituzione dell’unità del soggetto a partire dalla sua immagine nello specchio, dovremo invece domandarci come e perché la parete speculare in generale, e lo schermo cinematografico in particolare, possa diventare un luogo privilegiato di investimento libidico, perché e come le pulsioni si posino su questa pelle così fine, la pellicola, e, per così dire, lo oppongano a se stesse come luogo della loro iscrizione, e per di più, come il supporto che l’operazione cinematografica, in tutti i suoi aspetti, cancellerà. Un’economia libidica del cinema dovrebbe letteralmente costruire gli operatori che sul corpo sociale e organico eliminino le aberrazioni e canalizzino le pulsioni nel dispositivo. E non è certo che il narcisismo o il masochismo siano gli operatori adeguati, perché comportano un tasso di soggettività (di teoria dell’Io) forse ancora troppo elevato. Il “tableau vivant” L’acinema, come abbiamo detto, si situerebbe ai due poli del cinema inteso come grafia dei movimenti: l’immobilizzazione e la 27


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mobilizzazione estreme. Solo per il pensiero questi due sistemi sono incompatibili. Nell’economia pulsionale, invece, sono necessariamente interrelati: lo stupore, il terrore, la collera, l’odio, il godimento, tutte le intensità, sono sempre degli spostamenti sur place. Bisognerebbe analizzare il termine emozione come una mozione che pervenisse all’esaurimento di se stessa, una mozione immobilizzante, una mobilizzazione immobilizzata. Le arti della rappresentazione offrono due esempi simmetrici di queste intensità, l’una in cui appare l’immobilità, il tableau vivant, l’altra invece in cui si manifesta l’agitazione e l’astrazione lirica. In Svezia esiste oggi un società detta di posering, termine preso in prestito alla posa indicata dal ritrattista fotografico: giovani donne prestano i loro servizi presso delle maisons specializzate, servizi che consistono nell’assumere, con o senza abiti, le pose che i clienti desiderano. Dal momento che non si tratta di luoghi di prostituzione, però, a costoro è proibito toccare in qualsiasi modo le modelle. Verrebbe da pensare che una simile associazione sia perfettamente a misura della fantasmatica di Klossowski, nella quale sappiamo l’importanza accordata al tableau vivant, come simulacro quasi perfetto del fantasma e della sua intensità paradossale. Ma bisogna prestare attenzione alla maniera in cui, in questo caso, si dispiega il paradosso: l’immobilizzazione sembra interessare solo l’oggetto erotico, mentre il soggetto si troverebbe in balia del più forte turbamento. Forse non è facile come sembra, e bisognerebbe piuttosto considerare il dispositivo come ciò che opera la segmentazione, sui due corpi, quello della modella e quello del cliente, delle regioni di intensificazione erotica estrema per uno dei due, quello del cliente, reputato dunque intatto nella sua integrità. Una formulazione del genere, nella quale si coglie un’affinità con la problematica sadiana del godimento, obbliga, per quello che ci interessa, a notare quanto segue: generalmente, il tableau vivant ha un potenziale libidico certo, perché mette in comunicazione l’ordine scenico con quello economico e perché si avvale di “persone totali” come di zone erogene staccate sulle quali convogliare le pulsioni 28


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dello spettatore (non stiamo parlando qui di una facile riduzione al voyeurismo). Così facendo, fa percepire il prezzo, elevatissimo, come spiega mirabilmente Klossowski, che il corpo organico, pretesa unità del preteso soggetto, è costretto a pagare perché il piacere esploda nella sua irreversibile sterilità. È lo stesso prezzo che il cinema dovrebbe pagare se si muovesse verso il primo dei suoi due poli estremi, l’immobilizzazione: perché questa (che non è immobilità) significherebbe che il cinema ha continuamente bisogno di sbarazzarsi della sintesi convenzionale che ogni movimento cinematografico diffonde con esso, perché, al posto delle buone forme ragionevoli e unificanti che offre all’identificazione, l’immagine dia sostanza, con il fascino della sua paralisi, all’agitazione più intensa. Si troverebbero già molti film di ricerca e underground per illustrare questo orientamento verso l’immobilizzazione. Bisognerebbe qui affrontare, nella sua complessità, una questione di fondamentale importanza: in Sade o in Klossowski è evidente che il paradosso dell’immobilizzazione si distribuisce chiaramente sul piano della rappresentazione. L’oggetto, la vittima, la prostituta, assume la sua posa, offrendosi così come regione a sé, ma bisogna anche che, nello stesso tempo, si sottragga11 o si umili come persona totale. L’allusione a quest’ultima è un fattore indispensabile dell’intensificazione, perché indica il prezzo inestimabile del dirottamento di pulsioni alla quale procede il godimento perverso. È dunque essenziale che questa fantasmatica sia rappresentativa, che cioè offra allo spettatore delle istanze di identificazione, delle forme riconoscibili, che offra, insomma, materia alla memoria: perché, ripetiamolo, è a spese del superamento di quest’ultima e dello scompiglio dell’ordine della propagazione che l’emozione intensa si farà sentire. Ne consegue che il supporto del simulacro – che si tratti della descrizione dello scrittore, della pellicola del fotografo Pierre Zucca (che illustra (?) La mon-

11. Lyotard utilizza qui il termine se dérober, che ha il significato, appunto di “sottrarsi”, “defilarsi” ecc. Tuttavia, ha anche un significato più specifico riferito alla prostituzione: la prostituta dérobe quando abbandona la prostituzione. [N.d.T.]

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naie vivante),12 della carta del disegnatore Pierre Klossowski – non dovrà essere soggetto ad alcuna perversione rilevante in modo che questa riguardi soltanto ciò che esso supporta, la rappresentazione della vittima: lo mantiene, dunque, nell’insensibilità o nell’incoscienza. Da questo deriva l’attiva militanza di Klossowski in favore della plastica rappresentativa e i suoi anatemi contro la pittura astratta. L’astrazione Ma cosa succede, invece, se è il supporto stesso a essere coinvolto in questa perversione? Saranno allora la pellicola, i movimenti, le illuminazioni, gli aggiustamenti, a rifiutarsi di produrre l’immagine riconoscibile di una vittima o di un modello immobile, e a incaricarsi essi stessi, senza più lasciar nulla al corpo fantasmatico, dell’agitazione e del dispendio pulsionale. La pellicola (per la pittura, la tela) si fa corpo fantasmatico. In pittura, ogni astrazione lirica si basa su questo spostamento che implica l’attrazione, non più verso l’immobilità del modello, ma verso la mobilità del supporto. Mobilità che è tutto il contrario del movimento cinematografico, che deriva da ogni procedimento in grado di scomporre le belle forme che questo suggerisce, a livello elementare o complesso, e che questo tormenta. Essa si oppone alle sintesi di identificazione, si sottrae alle istanze mnestiche e può anche andare oltre, comportando un’atarassia delle costituenti iconiche che dovremmo intendere, ancora una volta, come mobilizzazione del supporto. Ma questa maniera di eludere il movimento attraverso il supporto non deve essere confusa con quella che passa attraverso l’attacco paralizzante della vittima che fa da motivo-modello.13 Qui, non solo non vi è più bisogno di modello, ma è la relazione con il corpo del cliente-spettatore a essere completamente spostata.

12. P. Klossowski, La monnaie vivante, illustrazioni di P. Zucca, Eric Losfeld, Paris 1971. [N.d.T.] 13. Lyotard utilizza il termine motif che significa sia “motivo” (come “ornamento” e come “ragione”, “presupposto”), sia propriamente “modello” per la pittura o per l’arte in genere. Si è preferito lasciare entrambi i significati per non rischiare di perdere il sottinteso etimologico legato al motivus. [N.d.T.]

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Come si produce il godimento davanti a una grande tela di Pollock o di Rothko o davanti a un’opera di Richter, di Baruchello o di Eggeling? Se sparisce il riferimento alla perdita del corpo unificato, se non appare più, grazie all’immobilizzazione del modello e al suo dirottamento finalizzato a deflussi parziali, quanto inapprezzabile sia la disposizione che il cliente-spettatore può ottenere, il rappresentato smetterà di essere oggetto libidico e lo schermo stesso prenderà il suo posto nei suoi aspetti più formali. La pelle sottile non si annulla più a beneficio della carne, ma si offre come carne stessa in posa. Su quale corpo unificato fa però affidamento perché lo spettatore possa goderne e per sembrare a questi davvero di un inestimabile valore? Davanti ai fremiti più sottili, ai confini delle superfici di contatto che raccordano le campiture cromatiche delle tele di Rothko, o davanti agli spostamenti quasi impercettibili di piccoli oggetti o organi di Pol Bury, è a prezzo di rinunciare alla sua totalità di corpo e alla sintesi dei movimenti che lo fa esistere, che il corpo dello spettatore stesso può goderne: questi oggetti esigono la paralisi non più dell’oggetto-modello, ma del “soggetto”-cliente, la decomposizione del suo stesso organismo, la restrizione delle vie di transito e di deflusso libidico a piccolissime regioni parziali (occhio-corteccia), la neutralizzazione del corpo quasi intero in una tensione che blocca ogni deflusso delle pulsioni verso vie diverse da quelle necessarie all’individuazione delle sottili differenze sull’oggetto. Lo stesso dicasi, anche se con modalità differenti, degli effetti degli eccessi di movimento di un Pollock in pittura o di un Thompson (lavoro sull’obiettivo) nel cinema. Il cinema astratto, come la pittura astratta, rendendo opaco il supporto, ribalta il dispositivo e fa del cliente la vittima. E vi è ancora lo stesso principio, anche se in maniera diversa, negli spostamenti quasi impercettibili nel teatro Nô. La domanda, da considerarsi cruciale perché riguarda la messa in scena e dunque la messa in società (fuori scena), è la seguente: è davvero necessario che la vittima sia in scena perché il godimento sia intenso? Se la vittima è il cliente, se in scena c’è soltanto la pellicola, lo schermo, la tela, il supporto, perdiamo con ciò 31


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l’intensità del deflusso sterile? E, se questo è vero, è necessario rinunciare a farla finita con l’illusione, non solo cinematografica, ma anche sociale e politica? Non si tratta forse di un’unica illusione? Ed è necessario credere che si tratti di illusione? Bisogna assolutamente che il ritorno delle intensità estreme sia fatto istanza almeno su questa permanenza vuota, su questo fantasma di corpo organico o di soggetto, che è il nome proprio (anche se non vi ci si saprebbe stabilire)? Questa istanza, questo amore, in che cosa si distingue da questo ancoraggio al nulla che costituisce il capitale?

Traduzione dal francese di Chiara Tartarini

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Due metamorfosi del seduttivo al cinema [1980] JEAN-FRANÇOIS LYOTARD

1. Il titolo è doppiamente ingannevole. Sembra assertivo, dovrebbe essere interrogativo. La questione – posta a proposito del cinema politico – è: c’è qualcosa che sfugge alla seduzione? I casi sono due: l’opera di Syberberg; e, in Apocalypse Now di Coppola, la sequenza dell’attacco al villaggio vietnamita da parte dei soldati americani in elicottero. Ora non dirò quasi nulla dell’opera di Syberberg. 2. Non esiste frammento conservato di Gorgia che non riguardi la peithò (la persuasione), la goetèia (l’incantamento) del linguaggio, il suo inganno (apàte), la sua potenza (dynàstes). La tragedia è un inganno, dice, e aggiunge: “Chi inganna è più giusto di chi non inganna, e chi si lascia ingannare è più saggio di chi non è ingannato” (Diels 82 B 23).1 Gorgia dice inoltre che “lo stesso rapporto intercorre sia tra la potenza di un discorso e la disposizione dell’anima, sia tra l’azione dei farmaci e la natura del corpo” (Diels 82 B II, 14). Interrogandosi su questa potenza, dice che essa consiste nella metastàsis delle opinioni dell’uditore: nel loro spostamento, nel-

J.-F. Lyotard, Deux métamorphoses du séduisant au cinéma, in M. Olender, J. Sojcher (a cura di), La séduction, Aubier Montaigne, Paris 1980, pp. 93-100. 1. Le traduzioni di questo e del seguente frammento sono tratte da I presocratici. Prima traduzione integrale con testi originali a fronte delle testimonianze e dei frammenti nella raccolta di Hermann Diels e Walther Kranz, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2006.

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lo spostamento del loro fondamento. In un dialogo intitolato Menesseno, il Socrate di Platone descrive l’efficacia dell’orazione funebre che un oratore ha l’incarico di pronunciare ogni anno in memoria dei cittadini morti per Atene. Ne risulta che questa efficacia consiste nella metastasi2 dei nomi sulle istanze pragmatiche del destinatario (voi) e del referente (loro), secondo il seguente dispositivo: – questi morti furono virtuosi; – lo furono perché erano ateniesi e morirono per Atene; – voi siete ateniesi; – voi siete virtuosi. In queste analisi della retorica antica troviamo i rudimenti di una pragmatica della seduzione a opera del linguaggio. 3. Queste indicazioni sono sufficienti per individuare il modo in cui mi sembra interessante parlare della seduzione. Non intendo considerarla come un’azione intenzionalmente esercitata da un seduttore sulla sua vittima: l’osservazione di Gorgia sulla tragedia significa che l’uno e l’altra giocano a un gioco le cui regole sono determinate dalla seduzione stessa (l’inganno, l’apàte). Non intendo nemmeno investigare le profondità del desiderio e del piacere. Ci si attiene alle categorie della pragmatica del linguaggio: un discorso, con quel che significa e con la sua forma, un destinante, un destinatario, un referente (ciò di cui parla il discorso). La seduzione sarebbe un caso di efficacia pragmatica dei discorsi. 4. La questione è: in cosa essa consiste? E il metodo: esistono delle situazioni pragmatiche o l’efficacia del discorso non deve niente alla seduzione? Immagino due casi: quello in cui il discorso produce effetti pragmatici senza “incantamento”, e quello in cui il suo effetto consiste nel sospendere la relazione pragmatica tra

2. “La metastasi è una figura di dialettica per la quale si riversa sul conto d’altri o su circostanze giudicate impellenti la colpa che si è costretti ad ammettere” (Dictionnaire de poétique et de rhétorique, a cura di H. Morier, PUF, Paris 1961).

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destinante, destinatario e referente. Ovvero, da una parte, la relazione pragmatica non seduttiva; dall’altra, la relazione pragmatica sospesa. 5. Ammettiamo che l’efficacia pragmatica del discorso seduttivo consista in una metastasi, come dice Gorgia. Come comprenderla? Platone ne dà un’indicazione a proposito dell’orazione funebre. Il tema del discorso è: (I nostri morti) erano belli. È un enunciato descrittivo narrativo. Ora, esso agisce come un enunciato prescrittivo: Siate belli! Allo stesso modo, il descrittivo: Hai gli occhi veramente chiari opera come il prescrittivo Lasciati avvicinare. O ancora, l’interrogativo Dove troverò l’affetto? va inteso: Amami. E certamente un enunciato narrativo del tipo: Incrociò dunque una donna il cui portamento lo fece voltare, questo narrativo indirizzato a una donna può valere come una prescrizione a fare attenzione all’interesse che il narratore le rivolge. E non soltanto nel caso in cui lei stessa ritenga di camminare come la protagonista. È sufficiente in generale che la storia, quale che sia la relazione dei suoi protagonisti con il destinatario, sia “ben raccontata” perché essa modifichi la disposizione di quest’ultimo nei riguardi del narratore. 6. Si potrebbe azzardare a dire, sulla base di questi esempi, in che cosa consista sedurre, almeno dal punto di vista del destinatario: la seduzione avrebbe come effetto, sul destinatario di un discorso pur non prescrittivo, di renderlo vincolato. Il discorso può essere descrittivo, interrogativo, narrativo, esclamativo ecc.: trasmette sempre una prescrizione non formulata. Una prescrizione (in generale) vincola il destinatario, nel senso che gli propone di eseguire ciò che essa ordina, domanda, prega, supplica di fare. L’esecuzione (performanza) della prescrizione, se essa ha luogo, farà passare il destinatario sulla scena del referente, dove interpreterà l’atto prescrittivo: sull’ingiunzione Chiudi la porta, il destinatario chiuderà la porta. Ma la prescrizione esplicita non fa che vincolare: il destinatario può anche non passare all’esecuzione. È soltanto a questa condizione che può sentirsi vincolato, e non costretto. 35


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Un discorso descrittivo non vincola il suo destinatario, in questo senso preciso; se è di natura scientifica, per esempio, lo pone non tanto come attore sulla scena del referente, ma come destinante di un nuovo enunciato che conferma o confuta quello di cui è stato destinatario. Se il discorso descrittivo opera per mezzo del vincolo, dunque come un prescrittivo, si dirà che si ha seduzione. Stessa cosa vale per gli altri generi di discorso quando non hanno soltanto il loro effetto specifico (acconsentire o no per il dimostrativo, rispondere per l’interrogativo ecc.), ma che inoltre mettono il destinatario in una posizione di vincolo. 7. Sia una narrazione a forte contenuto mimetico, come dice Platone, o addirittura totalmente mimetico, cioè in cui la relazione pragmatica del narratore con il suo destinatario è quasi interamente, o interamente cancellata, a beneficio delle relazioni pragmatiche tra gli eroi della storia (sulla scena del referente). È il caso del teatro, almeno quello classico: il drammaturgo non parla in quanto tale agli spettatori, ma gli eroi parlano tra loro. Stessa cosa vale per il cinema hollywoodiano (dopo l’invenzione del parlato, di cui si intuisce l’importanza per il nostro soggetto). Lo stesso si può dire per il progetto d’arte totale che Wagner intende realizzare con l’opera. La relazione prescrittiva quando è esplicita, giocata come tale, richiede un Io che vincola, e un Tu che deve decidersi. Queste grandi narrazioni possono rappresentarla sulla scena referenziale, ma esse occultano le istanze del destinante (il regista, il drammaturgo, il musicista) e anche del destinatario (lo spettatore anonimo) della narrazione stessa. Le condizioni sono così favorevoli alla trasmissione di un discorso prescrittivo non esplicito. Si vede e si ascolta la storia di Tristano, si registra la richiesta: Soffri e gioisci di un amore corrisposto impossibile. 8. Il termine realismo al cinema dovrebbe indicare un perfetto occultamento delle istanze del narratore e del narratario, cioè la mimesi perfetta. Questo occultamento è realizzabile soltanto se il quadro spaziale e temporale in cui si svolge l’azione non lascia trasparire l’intervento di un regista: dunque se questo quadro è il 36


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più conforme possibile alle norme culturali della percezione nello spazio e nel tempo, che sono quelle alle quali obbediscono gli spettatori. Questi possono allora essere comodamente commutati nei destinatari delle prescrizioni non esplicite che la narrazione veicola. Sono sedotti: che essi lo sappiano e lo accettino, o che lo sappiano e non lo accettino, o che non lo sappiano affatto, non è questa la questione. La metastasi dello spettatore in vincolato è resa più agevole dal realismo. 9. Il film di Coppola Apocalypse Now è un film realista in questo senso. Si assiste allo svolgersi della storia di una pericolosa missione di ricerca sul teatro delle operazioni in Vietnam; si registra l’ingiunzione: Vivi l’intensa epopea di un’inutile lotta. Tuttavia la sequenza dell’attacco degli elicotteri al villaggio (sulle note della Cavalcata delle Valchirie diffusa a massima potenza dall’impianto delle macchine da combattimento) è forse di un’altra fattura: chiamiamola iperrealista. Quando il realismo diventa iperrealista, produce altri effetti, tra i quali, cessa di sedurre nelle condizioni precedentemente descritte. La questione è: smette di sedurre del tutto? La mia ipotesi è: sì. Ma non è nient’altro che un’ipotesi, e deriva dal fatto che la mia percezione di questa scena è stata di tutt’altra qualità rispetto a quella del film nel suo insieme. Trovo veramente difficile darne una spiegazione. 10. L’iperrealismo è il nome che gli europei hanno dato a una corrente della pittura americana agli inizi degli anni settanta. È stata principalmente una soluzione nuova data al problema del rapporto tra la pittura e la fotografia, un problema che si è posto alla prima a partire dall’invenzione della seconda. Questa soluzione è contenuta quasi interamente in tre dichiarazioni. Audrey Flack: “La fotografia mette alla mia portata delle cose che senza di essa mi sarebbero inaccessibili”; Gerard Richter: “La fotografia non è un mezzo utile alla pittura. È la pittura che è un mezzo utile a una foto prodotta con i mezzi della pittura”; Andy Warhol, iperrealista almeno nel cinema: “Se dipingo in questo modo, è perché voglio essere una macchina”. Audrey Flack vuole dire: “La fotogra37


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fia permette un’iperpittura”; Richter: “La pittura permette un’iperfotografia”; Warhol: “Voglio essere un moltiplicatore anonimo di immagini, un trasformatore inespressivo e plurale”. La riproduzione meccanica (diventata molto più che meccanica) significava per Walter Benjamin la perdita di aura delle opere. È qui accettata per tre dei suoi effetti: sperimentazioni nuove nell’arte di dipingere (Flack); nuove sperimentazioni nella produzione industriale di immagini (Richter); nuove sperimentazioni per il destinante, il pittore (Warhol). Resta da dire quel che ne è del destinatario, di cui qui ci preoccupiamo. 11. Questa accettazione, e anche questa ricerca attiva, degli effetti della riproduzione in multipli, si delinea già, senza manifestarsi, nell’arte dandy. Benjamin la descrive in Baudelaire, Bataille in Manet. La ritroviamo in Jacques Monory. Con il tema del multiplo si trovano associati quello dell’istantaneo, dell’immobilizzazione (acinéma), dell’indifferenza (perdita di aura), dell’anonimato (perdita di identità). Ma il dandismo li mantiene nell’incertezza: piangerò o riderò di questa nuova condizione? L’iperrealismo oltrepassa l’esitazione. Interpreta a fondo la riproduzione. 12. Bataille dice che, con Manet, la pittura perde la sua “eloquenza”. Non rimanda più a un senso, coglie l’evento in quanto tale, lo immobilizza. L’eloquenza è la possibilità di iscrivere la scena dipinta in una narrazione, sia essa di carattere mitologico, religioso, storico, intimista o anche semplicemente intimo. E la narrazione che ambienta la scena, se questa è realista nel senso definito poc’anzi, trasmette a chi guarda una o delle prescrizioni. Distruggendo innanzitutto l’eloquenza, gli iperrealisti svuotano la scena del suo sproloquio narrativo, e allo stesso tempo del suo bisbiglio prescrittivo. Una realtà si presenta, ma senza passato né avvenire. Dunque senza scopo proposto al destinatario. Con una sorta di stupidità accecante. Non dà luogo a storia, non ha rapporti col tempo se non attraverso l’entropia o la ripetizione. Tutto ciò che può succedere è che la scena affondi o si riproduca. L’intervento di chi guarda non è sollecitato. Chi guarda non è affatto vincolato. 38


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Percependo la scena, la riproduce. Come vuole Warhol, egli fa parte della macchina, è privato dell’autorità per trasformare la scena, dal momento che non ne riceve alcuna prescrizione implicita (né evidentemente esplicita). 13. La sequenza dell’attacco al villaggio in Apocalypse Now mi ha posto all’incirca in questa condizione. La differenza con l’iperrealismo sta nel fatto che la scena non è né dipinta né fotografata, bensì filmata, dunque in movimento. Il movimento di immagini e suoni, di per sé, si presta di norma all’eloquenza narrativa, e alla prescrizione seduttiva che l’accompagna. Ma qui arriva un momento in cui la scena è satura di elementi sonori e visivi in rapidissimo spostamento, in cui i dati eccedono l’occhio e l’orecchio, e il destinatario patisce un eccesso di realtà. Tutti gli aneddoti, tutte le trame abbozzate in precedenza sui personaggi principali e secondari sono scompigliate e distrutte, rese in un istante inafferrabili. La scena si svuota di senso. L’eloquenza e le prescrizioni implicite che le sono associate sprofondano nel soverchio di informazioni. 14. Lo spettatore non riceve più dalla scena le prescrizioni che implicitamente lo facevano intervenire: fa’ questo, pensa quest’altro. È in uno stato di perdita di vincolo. Tutti noi abbiamo visto un gran numero di film di guerra o politici. Sono tutti eloquenti, mostrano tutti o un’epopea positiva, o un’epopea negativa, o un’epopea impossibile, o un misto delle precedenti. Apocalypse Now è un misto completo: epopea positiva dell’eroe, epopea negativa dell’ufficiale ricercato, epopea impossibile della guerra. Ma il blocco di immagini dell’attacco al villaggio non appartiene affatto all’epopea, cioè alla narrazione. Non siamo lanciati in direzione di un compito da adempiere, neanche affettivo. Non dobbiamo far niente, né proiettare, né ricordare, né sentire; non c’è un orizzonte. Siamo stupidi. Lo sbigottimento viene dal fatto che nessun racconto può prendersi carico di questo caos di dati e suggerire un obbligo al destinatario. Questi non è sedotto. Gorgia direbbe che non è saggio, o che Coppola non è giusto. E in ef39


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fetti se una delle regole di questo cinema (come della tragedia) è di sedurre, questa sequenza rimanda piuttosto alla follia e all’ingiustizia. 15. Un mio amico, un giovane ricercatore americano, veterano del Vietnam, ha tentato a due riprese di farmi comprendere cosa dovevano essere questa follia e questa ingiustizia. Aveva grosse difficoltà a scrivere, e anche a esprimersi a parole. Ma l’impotenza a parlare diventava schiacciante quando si trattava della guerra. La prima volta accadde senza preavviso, tra panini e vino, nel pieno di un mezzogiorno californiano. La seconda, due anni più tardi, in un’intera notte passata a bere e a fumare. Non arrivammo a sapere nulla, soltanto che c’era qualcosa. La sequenza di Coppola mi fa capire questa difficoltà. Non è la colpa, né l’orrore. Ci sono dei pacchetti di immagini che lo hanno posto al di fuori del vincolo. È stato esautorato: ha perso ogni autorità a riprendere queste scene in un racconto, in una teoria. È stato fulminato nella stupidità, immobilizzato dall’iperrealtà. Il silenzio dei deportati, al ritorno dai campi, deve appartenere a questa stessa esautorazione. 16. Dico che siamo sui confini della seduzione. Ma forse non è che la scomparsa di una sorta di seduzione. E forse la stupefazione e l’esautorazione sono gli effetti di un altro gioco di seduzione. Non si tratterebbe di prescrivere sottobanco, piuttosto si tratterebbe di non prescrivere, di non obbligare l’interlocutore, di porlo fuori gioco. Un altro seduttivo (un altro operatore di seduzione) entrerebbe in funzione. Forse. Ma posto che la seduzione sia un gioco, cioè uno scambio di colpi che obbedisce a un minimo di regole, suddiviso in partite compiute al termine delle quali è possibile ricominciare con una nuova mano, e in cui seduttore è il nome che porterà il vincitore, e sedotto il perdente, mi domando quale possa essere una “seduzione” che mette fuori gioco uno dei due giocatori. 17. L’altro caso da esaminare doveva essere quello del cinema di Syberberg. A tal proposito, non dirò che una cosa. L’opera di Sy40


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berberg è evidentemente una riflessione sulla seduzione operata dal racconto nazista, di cui il racconto wagneriano è stato un paradigma, non soltanto nei suoi temi romantici e mitici, ma anche nella sua forma di spettacolo totale. Il procedimento più evidente che adotta il destinante Syberberg per ottenere su di noi, suoi destinatari, l’effetto di riflessione, è quello della lettura: predominio del testo, impaginazione con illustrazioni (tableaux vivants quasi immobili, che esibiscono la loro potenza seduttiva), suddivisione in capitoli tematici (nel colloquio con Winifred Wagner). La questione è: la distanziazione operata dalla mise en lecture delle immagini, ovvero dei dati narrativo-prescrittivi, ci pone, noi che siamo i suoi destinatari, al di fuori della seduzione? Essa agisce senza “incantamento”? O forse ci prescrive ancora qualcosa in modo non esplicito. E se sì, che cosa ci prescrive? Si potrebbe credere che i procedimenti di Syberberg rimandino all’estetica di Bertolt Brecht. Ma la distanziazione di Brecht provocava un Lottate con gli sfruttati, che sfociava sull’orizzonte di un’epopea, il grande racconto marxista. Così da questo sappiamo che Brecht resta seduttivo. Ma questa “eloquenza” non c’è in Syberberg. Forse non ce n’è affatto? Mi sembra che il destinatario di Hitler, un film dalla Germania (Hitler, ein Film aus Deutschland, 1977) si trovi nella seguente condizione: chiamato a riflettere dalla natura delle immagini, è allo stesso tempo spinto a entrare nell’epopea nazista dall’eloquenza (se non wagneriana, quanto meno post-wagneriana, diciamo quella di un’opera come Hymnen di Stockhausen) della colonna sonora. Il romanticismo di un’epopea mostruosa passata non smette di attraversare musicalmente la meditazione plastica su di essa. Questa equivocità produce effetti contrari sui diversi destinatari, e a volte anche sullo stesso. È forse questo un caso di seduzione sospesa?

Traduzione dal francese di Antonio Bigini

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L’occhio di Lyotard, da “L’acinema” al postmoderno CLAUDINE EIZYKMAN GUY FIHMAN

d’obbligo una nota preliminare: analizzare lo sviluppo del pensiero di Jean-François Lyotard e il ruolo che il cinema vi occupa, significa per noi anche evocare il cammino percorso insieme a Lyotard. Nel pieno degli anni sessanta, mentre eravamo studenti di filosofia all’Università di Nanterre, siamo stati infatti catturati da Discorso, figura1 allora in via di elaborazione nel pensiero di JeanFrançois Lyotard. Le analisi dell’ex militante di “Socialismo o barbarie” hanno accompagnato gli eventi del maggio-giugno 1968. In seguito, alla riapertura dei corsi, con la partecipazione al seminario chiuso sul lavoro del sogno secondo Freud, siamo diventati compagni di “derive lyotardiane a partire da Marx e Freud”, nel senso che si è inaugurata una relazione molto particolare, non più soltanto da studenti né tanto meno da discepoli, una relazione di scambi segnata dal bisogno, presente nel lavoro così come nei rapporti personali, amicali ma radicali, in cui capitava di abbozzare i piccoli racconti che annunciavano la fine di quelli grandi. Fu così che, tra le altre iniziative di questo seminario, si formò un gruppo di lavoro, composto da Dominique Avron, Jean-François Lyotard e noi, che si proponeva di testare nella pratica la nuova ipotesi teorica che avevamo formulato nel

È

1. J.-F. Lyotard, Discours, figure, Klincksieck, Paris 1971; trad. Discorso, figura, Unicopli, Milano 1988. [N.d.T.]

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corso del seminario: l’esistenza di un’analogia tra il lavoro del sogno e quello del film. Alla fine degli anni sessanta, presso il servizio di ricerca dell’ORTF,2 portammo avanti una complessa sperimentazione in video, che approdò in particolare alla realizzazione del film intitolato L’autre scène. Questa sperimentazione fuori dagli schemi (tanto universitari che dell’ORTF) ebbe diversi prolungamenti, tra cui si annovera la pubblicazione di alcuni contributi sul numero speciale della “Revue d’esthétique”, Cinéma: théorie, lectures, pubblicato nel 1973. Tra i testi apparsi – riuniti e presentati da Dominique Noguez – c’erano L’acinema di JeanFrançois Lyotard, Remarques sur le travail du son dans la production cinématographique standardisée di Dominique Avron, Que sans discours apparaissent les films di Claudine Eizykman, e D’où viennent les images claires di Guy Fihman. Questi quattro articoli presi insieme non facevano sistema, ma la presenza di rinvii incrociati indicava la convergenza delle posizioni, e nonostante il fatto che i problemi trattati e le problematiche sviluppate da ciascuno restassero singolari, le interazioni erano forti. La problematica sviluppata da Jean-François Lyotard in L’acinema ha avuto un sicuro impatto nel campo della sperimentazione cinematografica internazionale, come testimoniano le violente reazioni che accompagnarono la pubblicazione della sua traduzione inglese. Per quel che ci riguarda, i film realizzati dopo L’acinema, V.W. Vitesses Women (Claudine Eizykman, 1972-74) e Ultrarouge-Infraviolet (Guy Fihman, 1974), esplorano per eccesso e difetto i limiti fissati da Jean-François Lyotard per l’acinema: il movimento senza movente, al di là dell’estrema mobilizzazione e il tableau non più vivant ma cromaticamente changeant. Il contenuto dell’acinema ne risultò così cambiato. Questi due film furono selezionati al Festival EXPRMNTL 5 di Knokke-le-Zout nel 1974-75, dove si svolse una tavola rotonda – a cui partecipò anche Jean-François Lyotard – in cui alcuni intellettuali francesi furono invitati a esporre le loro posizioni riguardo alla sperimenta2. Office de radiodiffusion télévision française, ente unico della radiotelevisione pubblica francese smantellato nel 1974. [N.d.T.]

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zione filmica, che i più non conoscono, cosa che in genere non impedisce loro di condannare queste pratiche minoritarie di un’arte a grande diffusione sociale. Jean-François Lyotard fu uno dei pochissimi a difendere l’avanguardia anche al cinema. Adottò una posizione del tutto simile quando, sollecitato da France 3, che voleva dedicargli una rubrica televisiva, concepì Tribune sans tribun che, incomparabile grazie alla sua qualità visiva e al suo gioco di presenza-assenza, resta esemplare. Non è comunque nostra intenzione fare una recensione esaustiva delle circostanze (i convegni), delle situazioni (gli impegni universitari), delle occasioni (le realizzazioni e le programmazioni) che ci hanno riuniti nel campo del cinema, come per esempio i Ciné-immatériaux che hanno accompagnato la mostra Les Immatériaux. Vorremmo piuttosto evidenziare come l’acinema occupi, all’interno del pensiero di Jean-François Lyotard, un posto ben più importante di quello che risulta dalle occorrenze esplicite nelle sue opere sul cinema, il quale nella sua modalità sperimentale è sempre presente nell’orizzonte della sua riflessione. In altre parole, vorremmo trattare l’occhio di Lyotard a partire dall’acinema. Questo è quanto si cominciò a fare nel seminario-atelier dedicato al cinema, nell’ambito del convegno Comment juger, à partir des œuvres de Jean-François Lyotard? che si tenne a Cerisy-la-Salle nell’estate del 1982. Il seminario, che il responsabile, co-autore di questo articolo, scelse di intitolare L’acinéma, in omaggio e in riferimento all’articolo omonimo di Jean-François Lyotard del 1973, era stato incentrato sull’avanguardia al cinema e comprendeva proiezioni (alcune delle quali in sessione completa) e interventi di cineasti, in particolare Michael Snow, Peter Kubelka, oltre che i firmatari stessi. Acinema: riprendere questo titolo per l’insieme degli interventi dei cineasti e delle presentazioni cinematografiche e videografiche di quel seminario, non significava soltanto rivolgere un omaggio rituale a una persona che viene consacrata da un convegno che gli è dedicato. Jean-François Lyotard ha trascurato pochi ambiti: lungo i suoi 44


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testi si stabiliscono delle connessioni molteplici tra linguistica, psicanalisi, storia, pittura, politica, letteratura, scienze, musica, cinema, che riprendono e rimettono instancabilmente in gioco delle questioni di filosofia. Lyotard possiede un’estrema curiosità per molteplici ambiti e un’acuta capacità di discernimento nell’affrontare le opere, ovvero quel che si chiama occhio. Il cinema occupa un discreto ruolo nella sua opera. Quattro3 sono i testi in cui è esplicitamente trattato: il primo si intitola L’acinema;4 il secondo comprende un commento sul film di Michael Snow La région centrale;5 il terzo affronta Apocalypse Now di Francis Ford Coppola e il cinema di Hans-Jürgen Syberberg, in particolare Hitler, un film dalla Germania;6 il quarto si intitola Idée d’un film souverain.7 Lyotard ci ha lasciato anche annotazioni sparse su film di Méliès,8 Francis Thompson,9 Tony Conrad,10 Werner Nekes e Dore O.,11 Guy Fihman12 e Gianfranco Baruchello.13 Inoltre, tra i molti dispositivi che Lyotard ha analizzato, certi sono di ordine cinematografico: i dispositivi ottici di Duchamp, il pied-caméra di Snow, il telescopio in Récits tremblants,14 il dispositivo quasi-cinematografico che immagina per

3. C. Eizykman, Une esthétique cinématographique en quatre temps, di prossima pubblicazione. 4. J.-F. Lyotard, L’acinéma, “Revue d’esthétique”, 2-4, 1973; trad. L’acinema, in questo fascicolo. 5. Id., The unconscious as mise-en-scène, in M. Benamou, C. Caramello (a cura di), Performance in Postmodern Culture, University of Wisconsin-Coda Press, Milwaukee-Madison (Wis.) 1977. 6. Id., Deux métamorphoses du séduisant au cinéma, in M. Olender, J. Sojcher (a cura di), La séduction, Aubier Montaigne, Paris 1980; trad. Due metamorfosi del seduttivo al cinema, in questo fascicolo. 7. Conferenza del 1995, il cui testo è ripreso in Id., Misère de la philosophie, Galilée, Paris 2000. 8. Id., Discorso, figura, cit., p. 406, nota 31. 9. Id., L’acinema, cit. 10. Da un colloquio con Alain Pomarède in “Art Present”, 8, 1979. 11. Ibidem. 12. J.-F. Lyotard, Sur la constitution du temps par la couleur dans les œuvres récentes d’Albert Aymé, Editions Traversière, Paris 1980. 13. Id., Monogrammes, in Loin du doux, catalogo della mostra Baruchello, Galerie Le Dessin, Paris 1982. 14. J.-F. Lyotard, J. Monoiry, Récits tremblants, Galilée, Paris 1977. [N.d.T.]

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vedere la pittura di Albert Aymé. Questo interesse per il cinema non resta distante, dato che non soltanto non gli è estraneo15 il maneggiare l’attrezzatura, ma Lyotard – all’occasione – sa utilizzarla in maniera innovativa. Così, quel singolare autoritratto realizzato per una rubrica televisiva, che si distingue da qualsiasi altra rubrica per l’originalità del dispositivo che presenta (lo sfasamento della voce off), merita a buon diritto il suo titolo: Tribune sans tribun.16 Jean-François Lyotard appartiene quindi alla schiera di quei rari filosofi che si sono occupati di cinema17 e di cinema sperimentale, a cui è dedicato il suo primo articolo al riguardo. L’acinema: il titolo dato da Jean-François Lyotard all’articolo cattura l’attenzione e impone di ritornare al punto di partenza di ogni studio sul cinema: la sua relazione con il movimento. Acinema: il termine può lasciare perplessi (dato che per ogni spettatore il cinema è movimento), ma ha il grande merito di evocare la natura paradossale del dispositivo cinematografico, che consiste nel produrre movimento con delle immobilità. È di questo ancoraggio nella paralogia, visiva ma anche tecnologica, che tratteremo successivamente. Mentre comunemente si dà per scontato che il cinema sia inscrizione di movimento, Jean-François Lyotard osserva subito che il cinema seleziona i movimenti trattenendo soltanto quelli che garantiscono “un’identità, un’unità, una sintesi ordinata”. Per questo una grande quantità di movimenti sono esclusi, e in particolare gli estremi del movimento, l’immobilizzazione e l’eccesso di mobilità, che si trovano invece esplorati e dispiegati nel cinema sperimentale: così viene definito l’acinema. Da una parte questa concezione dell’acinema sottende l’approccio di Jean-François Lyotard al cinema, dal momento che i film vengono analizzati il più delle volte a partire dalle tracce di 15. Ricordiamo l’esperienza del periodo 1969-72 che ha portato alla realizzazione collettiva di L’autre scène e personale, da parte di Jean-François Lyotard, del film Mao Gillette (16mm/3min/1974). 16. Tribune Libre, France 3, 17 marzo 1978. 17. Si ricorda che gli scritti di Deleuze sul cinema datano 1983-85.

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sperimentazione che contengono; ciò implica, al varco, un punto metodologico importante, cioè che è a partire dal cinema sperimentale che contiene più movimenti che si affronta il cinema che ne contiene di meno. Dall’altra parte, prima di analizzare tale posizione, è importante osservare che la problematica della bipolarità del movimento determina la sua efficace uscita di campo dal cinema sperimentale, verso le arti della rappresentazione, e in particolare verso la pittura, dove i due poli dell’immobilità e dell’eccesso di movimento sono esemplificati dal tableau vivant e dall’astrazione lirica. Nell’acinema si stabilisce una relazione particolare tra il cinema sperimentale e la pittura, per cui i poli del movimento che definiscono l’acinema, l’immobilizzazione e l’eccesso di mobilità, sono analizzati attraverso il tableau vivant (disegni e testi di Klossowski) e l’agitazione dell’astrazione lirica (Pollock e Rothko). È la pittura che permette a Lyotard di pensare gli estremi del movimento, o è piuttosto l’analisi delle opere statiche, che trae forza dal fatto che Lyotard guarda queste opere mediante il dispositivo acinematografico? Sette anni dopo, in Sur la constitution du temps par la couleur dans les œuvres récentes d’Albert Aymé la presenza dell’acinema è evidente. Al paragrafo 23, Lyotard ritorna sulla sua prima ipotesi, secondo cui queste opere presentano il “movimento dei colori”: “In verità il movimento non è quello dei colori, ma sembra piuttosto risultare dal rapporto tra la posizione della treccia e quella dell’osservatore. Si può concepire la treccia come immobile, mentre l’osservatore si sposta attorno a essa nello spazio tridimensionale: ogni superficie tricroma è come l’istantanea di un segmento della treccia colto nel suo spessore. La discontinuità delle superfici potrebbe essere ottenuta attraverso un dispositivo intermittente (a otturazione periodica), in grado di creare il ritmo delle presentazioni”.18 Il dispositivo intermittente che Lyotard suggerisce, non è forse lo stesso che ha usato mentalmente per vedere queste tele? In altre parole ha messo in 18. J.-F. Lyotard, Sur la constitution du temps par la couleur dans les œuvres récentes d’Albert Aymé, cit.

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movimento le superfici separate, secondo delle matrici e dei ritmi, per produrre effetti di spessore, immaginando così un film per studiare questi quadri e un dispositivo intermittente per presentarli. Applicando alla pittura di Albert Aymé il dispositivo cinematografico, nel suo principio di messa in relazione seriale di immagini statiche, Lyotard rovescia gli schemi convenzionali della percezione della pittura. Allo stesso modo con l’acinema, caratterizzato dai poli estremi del movimento, Lyotard rovescia anche gli schemi convenzionali di osservazione dei film industriali. Joe. La guerra del cittadino Joe e Apocalypse Now sono due film industriali che, visti nella problematica dell’acinema, contengono una scena di immobilizzazione e al tempo stesso una di estrema mobilità (il primo), e una scena quanto meno di intensa agitazione (Apocalypse Now), ma che generano sullo spettatore effetti dissimili: in Joe. La guerra del cittadino Joe, le sequenze di immobilizzazione e di estrema mobilità, associate all’amore impossibile di un padre per sua figlia, sono assorbite nel corso del film senza sconvolgerne l’ordine né generare squilibri nello spettatore; al contrario, Apocalypse Now presenta una sequenza di estrema agitazione in cui l’eccesso di informazioni visive e sonore crea come un buco nel film e sprofonda lo spettatore nell’ebetismo: è “stupido, esautorato”, come scrive Jean-François Lyotard. Da Joe. La guerra del cittadino Joe analizzato in L’acinema, ad Apocalypse Now analizzato in Due metamorfosi del seduttivo al cinema,19 il quadro teorico si è spostato da Freud e l’astrazione lirica, Klossowski e Sade, alla pragmatica dei discorsi e all’iperrealismo. Lyotard formula l’ipotesi secondo cui c’è seduzione nel primo film, ma non nel secondo. La seduzione è una modificazione del destinatario di un discorso o di un’opera, per mezzo delle indicazioni, le prescrizioni che egli riceve e che a sua volta elabora e trasforma. Per il cinema, la seduzione opera tanto più efficacemente quanto più il quadro di percezione dello spettatore e la composizione del film dipendono dalle norme del realismo. Così, Apocalypse Now appartiene alla categoria dei film reali19. Id., Due metamorfosi del seduttivo al cinema, cit.

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sti e dà origine a una seduzione, eccetto che per la sequenza dell’attacco degli elicotteri americani a un villaggio vietnamita al suono assordante della Cavalcata delle Valchirie, che cattura l’attenzione di Jean-François Lyotard, in quanto invece di favorire una relazione con lo spettatore, la impedisce: “Ma qui arriva un momento in cui la scena è satura di elementi sonori e visivi in rapidissimo spostamento, in cui i dati eccedono l’occhio e l’orecchio, e il destinatario patisce un eccesso di realtà. Tutti gli aneddoti, tutte le trame abbozzate in precedenza sui personaggi principali e secondari sono scompigliate e distrutte, rese in un istante inafferrabili. La scena si svuota di senso. […] Lo spettatore non riceve più dalla scena le prescrizioni che implicitamente lo facevano intervenire: fa’ questo, pensa quest’altro. È in uno stato di perdita di vincolo”.20 Questa condizione di “patimento di un eccesso di realtà”, di blocco, procurata allo spettatore, Lyotard la chiama iperrealismo. Si noterà però che questi eccessi di “movimenti” di ogni tipo, compresi quelli sonori, non rientrano più nell’ambito dell’acinema, che si limita all’immobilizzazione nel contesto delle tecniche di riproduzione. Il modello della pragmatica del linguaggio, così come viene utilizzato da Jean-François Lyotard nei suoi studi di opere d’arte, pittura e film, ha un valore euristico certo e una sicura portata per l’analisi filmica, in quanto fissa il quadro degli operatori che regolano la relazione dello spettatore con il film, e delle categorie che permettono di pensare tale relazione senza l’esclusiva dell’uno sull’altro, né l’egemonia delle categorie linguistiche che hanno portato alla rovina il progetto semiologico modellato sulla linguistica (strutturale). Resta aperta una questione, a proposito della relazione tra spettatore e film in questa sequenza: si esaurisce definitivamente nell’ebetismo? O solo temporaneamente? In tal caso, come abbiamo potuto sperimentare, non occuperebbe che un momento nello svolgimento di un processo più complesso. Il numero impressionante di spostamenti di oggetti, elicotteri 20. Ibidem.

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e uomini, di movimenti cinematografici, che prendono o sono dotati di molteplici posizioni e direzioni, e il livello sonoro saturo, creano uno stato di confusione e di oppressione che accresce lo scoordinamento dello spazio cinematografico e della cornice percettiva dello spettatore. Ora, accade che, dopo questa confusione, lo spettatore ordini progressivamente i molteplici movimenti e le sofisticate posizioni degli oggetti mobili in un viluppo spaziale continuo sempre più ampio, che scatena un effetto tra i più impressionanti: aspira nella sua dinamica travolgente lo spettatore, lo strappa dalla sedia, lo trasporta nel “cielo vietnamita”, lo precipita sulla piazza del villaggio dove avvengono i combattimenti, e dove viene inesorabilmente ricondotto e inchiodato. Lo spettatore del film viene dunque espulso dal suo posto protetto e insopportabile, e gettato a combattere sulla scena di una guerra di cui ignora tutto, realizzando così il passaggio dalla sala alla scena, tacitamente escluso dalle norme dello spettacolo cinematografico. Questa sequenza consta di due momenti: a quello dell’ebetismo, analizzato da Jean-François Lyotard, segue un secondo momento che non rientra né nell’ambito dell’iperrealismo, in quanto l’eccesso di informazioni non fa più blocco, né in quello del realismo, dato che l’attuazione del passaggio percettivo fa eccezione alle regole della separazione scena-sala, che ne costituisce uno dei fondamenti. Questo secondo momento appartiene dunque a un altro regime di visione che nasce con questa sequenza. Può questo nuovo regime di visione generare un altro caso di seduzione? E se c’è una prescrizione, da dove proviene? Dobbiamo ipotizzare che la prescrizione non emani essenzialmente dalla scena, dato che, dal momento in cui il processo è messo in moto, il lasso di tempo tra l’elaborazione della prescrizione e l’attuazione del passaggio percettivo da parte dello spettatore è troppo breve. Se c’è una prescrizione, potrebbe venire direttamente dallo spettatore. Potrebbe allora trattarsi di un caso nuovo di seduzione, che non mette del tutto fuori gioco lo spettatore, visto che egli è in grado di modificare il suo stato di stupore. La scena si svolge informe e imperturbabile fino a che lo spet50


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tatore non esce dalla sua oppressione e dalla sua immobilizzazione, nel momento stesso in cui comincia a scoprire, a seguire e a elaborare, la batteria di movimenti dell’attacco degli elicotteri. Lo spettatore non è più nella situazione in cui riceve dei dati e delle istruzioni che riconosce, ma cerca segni ed elabora piani che ignora. Nello specifico sintetizza la costruzione del viluppo e del ri-coordinamento di uno spazio volumetrico, che a sua volta lo trasporta nella sua dinamica. L’esecuzione è immediata, brutale e sorprendente. Per sfuggire al patimento dell’ebetismo, lo spettatore diventa sensibile alla (ri)composizione della scena, che tuttavia lo fa precipitare in un’altra paura, quella del passaggio del limite dalla sala cinematografica alla scena dello schermo. Scambia la paura per il terrore, o forse li accumula, ma allenato a dover occupare entrambi i luoghi, può provare allo stesso tempo paura, terrore e piacere del cinema: questi passaggi apparenti insieme formano un esito emozionale ed estetico. In effetti, questo dislocamento della posizione dello spettatore segnala una rottura delle regole del gioco delle immagini in movimento, quella stessa rottura che ha inaugurato la nascita e l’iscrizione – alla fine del XIX secolo – del visivo cinematografico. Il film dei fratelli Lumière L’arrivo del treno alla stazione21 ha provocato paura nei primi spettatori, che immaginarono che il treno continuasse la sua corsa fin dentro la sala, oltrepassando il limite dello schermo, mentre gli spettatori inglesi tremavano di fronte all’infrangersi sullo schermo delle onde (filmate) di Rough Sea at Dover22 di William Paul, pronte a sommergere la sala. I fratelli Lumière, William Paul e Francis Ford Coppola hanno dato versioni opposte di questo passaggio del limite, dalla scena alla sala per i primi, dalla sala alla scena per il secondo. Si tratta di un’esperienza rara, che segnala sempre un’innovazione cinematografica, una rottura estetica. Nel 1981, ritornando sui film sperimentali, Lyotard dichiara: “È spesso del meta-cinema: del cinema che parla dei procedi21. Arrivée d’un train en gare de La Ciotat (1895), di Auguste e Louis Lumière. [N.d.T.] 22. Rough Sea at Dover (1895), di Robert William Paul. [N.d.T.]

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menti del cinema e che li esibisce”,23 in particolare a proposito di Wavelength e di La région centrale24 di Michael Snow, e di qualche film flicker25 di Tony Conrad. Meta-cinema o (meglio) acinema, in ogni modo questi termini implicano la dimensione paralogica del dispositivo cinema, su cui ora ci soffermeremo. “Il cinematografo è iscrizione del movimento”: questa definizione condivisa, che esibisce un’apparente evidenza etimologica, è tuttavia incompleta; e ciò che manca è niente meno che l’essenziale che contrassegna specificamente questo dispositivo, e cioè che il cinema iscrive e restituisce il movimento attraverso una serie di immobilità. Questa precisazione non è affatto superflua, ed enuncia una condizione strettamente necessaria che soltanto il cinema, tra le arti del movimento – dal teatro delle ombre, al cinetismo, alla danza – soddisfa. Non si può dunque ignorare che il cinema proceda attraverso serie di immobilità; tuttavia questo fatto resta singolarmente misconosciuto, in particolare in ambito teorico, dove la relazione paradossale con il movimento, costitutiva del cinema, non è presa in considerazione. Così inteso, il cinema risale ai paradossi di Zenone di Elea, nonostante in genere lo si riferisca compulsivamente al dispositivo della Caverna, verso il quale certamente Platone apporta delle innovazioni, ma soltanto nella misura in cui indica la possibilità di ottenere una versione del teatro delle ombre parlanti per riflessione, dispositivo che i suoi precedenti creatori facevano funzionare per trasmissione. Ciò oltretutto non apporta alcunché alla relazione paradossale costitutiva del cinema – produrre movimento con delle immobilità – che come tale giustificherebbe che il cinema si chiamasse acinema. In verità tale richiesta non figura nel testo di Jean-François Lyotard che porta questo titolo, e anche la problematica qui ab-

23. Da un colloquio con Alain Pomarède in “Art Present”, cit. 24. J.-F. Lyotard, The unconscious as mise-en-scène, cit. 25. “Flicker: in campo cinematografico e televisivo indica una successione di improvvisi e bruschi cambiamenti che si producono in un’immagine quando il numero di fotogrammi al secondo è troppo ridotto per produrre la persistenza della visione” (The Oxford English Dictionary, Clarendon Press, Oxford 1989). [N.d.T.]

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bozzata resta implicita in tutto l’articolo del 1973 che, studiando il cinema nel contesto dei dispositivi pulsionali,26 dove già si annuncia la grande ed effimera pellicola dell’Economia libidinale,27 attribuisce al cinema sperimentale – l’acinema – gli estremi del movimento come luogo di manifestazione di questa paralogia. E se così facendo, Jean-François Lyotard, a proposito del cinema, mostra interesse nei confronti della paralogia, nondimeno stabilisce, non fosse che per il titolo, la natura paradossale che sta al fondamento del cinema, la cui presentazione sarebbe la posta in gioco del cinema sperimentale. Partire dall’acinema significa quindi innanzitutto consegnare la sua intera portata alla costituzione paradossale che è sempre, al di là delle diverse soluzioni tecniche, quella di produrre del movimento con delle immobilità. Un corollario di questa formulazione è che il principio stesso del cinema è un’invenzione di Zenone di Elea. Questa attribuzione misconosciuta è tuttavia incontestabile se si è d’accordo, per esempio, nell’attribuire il titolo di inventore della scarpa non a chi fabbrica un nuovo genere di calzatura, ma piuttosto a colui che ebbe l’idea della scarpa quando ancora non ne esisteva nessuna. Ma se tale postmoderno della prima ora è per noi sconosciuto, non è questo il caso dell’inventore del cinema. Zenone non è soltanto il creatore della parola kinéma, ma anche il primo che ha esposto in alcuni celebri paradossi il principio stesso del cinema: produrre del movimento con delle immobilità. Come ogni invenzione vera e propria, anche questa ha un lontano rapporto con il contesto che l’ha originata. Nel caso specifico, si tratta di una polemica filosofica, in cui Zenone non cercava di convincere, ma, partendo dalle stesse premesse dei suoi avversari, spingeva logicamente a concludere in maniera diametralmente opposta. In uno dei suoi teatrini di argomentazioni che vertevano sul movimento, Zenone sarà portato a scommettere, solo contro tutti e contro l’evidenza, per la tartaruga contro 26. J.-F. Lyotard, Des dispositifs pulsionnels, UGE, Paris 1973. [N.d.T.] 27. Id., Economie libidinale, Minuit, Paris 1974; trad. Economia libidinale, Colportage, Firenze 1978.

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Achille, e per vincere questa scommessa impossibile, a inventare il cinemetodo. Nei paradossi di Zenone di Elea la tradizione filosofica vede delle argomentazioni contro il movimento, in grado di generare difficoltà che la Ragione ha il dovere di rimuovere. Tuttavia l’esistenza stessa del dispositivo cinema, strettamente conforme all’argomentazione zenoniana, conduce a un altro atteggiamento di fronte alla paralogia, per cui la possibilità logicamente fondata dell’impossibilità del movimento comanda la possibilità tecnologica del cinema. Con i paradossi di Zenone di Elea, il problema del cinema è ben posto; con il cinematografo Lumière, la soluzione (fotografica) è ben trovata, dal momento che il cinema prende e dà movimento attraverso la sua soppressione. L’apparecchio Lumière è uno sfilare intermittente che assicura l’insieme di tre funzioni essenziali: ripresa, duplicazione, proiezione. E se nel dispositivo è presente del movimento – quello dell’avanzamento a scatti del film –, anche un altro movimento gli è associato, che neutralizza l’effetto del primo: quando la pellicola si muove, l’otturatore sopprime in fase di ripresa, come in proiezione, l’effetto della luce, cosicché sul nastro filmico, come sullo schermo, non c’è che una serie di istantanee immobili. È sopprimendo il movimento che il cinema lo ottiene: questa condizione si applica a tutti gli apparecchi. Se vi sono diversi modi per ottenere questo risultato, è necessario che si ottenga: così nelle cinemacchine a movimento continuo, l’immobilità si ottiene per accoppiamento di velocità. Il cinema è movimento per mezzo di immobilità: questa costituzione paradossale e fondatrice, indipendente da una tecnologia particolare, è perciò stesso “politecnica”. Si verifica non soltanto per il cinema fotografico, ma anche per il cinema grafico che l’ha preceduto (che è dunque del cinema pre-fotografico e non del pre-cinema) o per il cinema elettronico (video) attuale. Il cinema olografico, fin dalle sue prime concretizzazioni,28 dà 28. Una prima realizzazione di cineolografia degli autori di queste righe (Vols d’oiseaux, in omaggio a Etienne-Jules Marey) è stata presentata in forma privata nei locali della Fondazione Hugot del Collège de France (dal 22 aprile al 16 giugno 1982), oltre che al Colloque di Cerisy.

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a questa condizione originaria del movimento per mezzo del non-movimento un’intensità ancora più implacabile. Perché questa tecnologia non soltanto soddisfa la condizione della serie di istantanee immobili, ma soddisfa anche delle precise condizioni di immobilità per ogni termine della serie. Mentre – come è noto – in fotografia un eccesso di mobilità della camera o del soggetto in fase di ripresa si traduce in un’immagine mossa, l’iscrizione delle interferenze, che è il principio dell’olografia, produce in circostanze analoghe un’assenza di iscrizione, dato che per natura un interferogramma costruttivo è immobile oppure non è. La cineolografia (oltre a permettere alla visione di recuperare la sua integralità, laddove le altre tecnologie le impongono la monocularità, anche se questa è un’altra questione) porta così a un grado di perfezione superiore la natura paradossale che è all’origine di ogni dispositivo cinematografico. Se non è a questa determinazione paradossale universale nell’ordine delle cinemacchine che guarda esplicitamente il concetto di acinema, quanto piuttosto a quella di una forma di cinema che altrove viene specificata con il qualitativo di “sperimentale”, tuttavia la prima è necessaria all’esplicitazione della seconda. “L’acinema – scrive Jean-François Lyotard – si situerebbe ai due poli del cinema inteso come grafia di movimenti: l’immobilizzazione e la mobilizzazione estreme.”29 E visto che in Lyotard questa definizione, esemplificata dal tableau vivant e dall’astrazione lirica, serve a comprendere le arti plastiche, guardiamo per parte nostra cosa ne è in campo cinematografico. Nel cinema si possono trovare i corrispettivi diretti di queste categorie nei primi film di Warhol (Eat, Sleep, Couch) che rientrano nella problematica del tableau vivant, mentre la grande tradizione del film grafico, da Len Lye a Robert Breer, illustrerebbe l’astrazione lirica. Non ci si può tuttavia attenere alla lettera di questa formulazione del 1973, in quanto proprio due nostri film del 1972-74, che a prima vista sembrano conformarsi a questa problematica 29. J.-F. Lyotard, L’acinema, cit.

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della doppia polarità, possono essere visti come un dibattito su questa definizione espresso per via filmica. Da una parte, Ultrarouge-Infraviolet (Guy Fihman, 1974) presenta come unico movimento delle variazioni cromatiche su un motivo ripreso da un quadro di Pissarro. Non si tratta di un tableau vivant, ma di un tableau changeant, cioè del movimento dei colori in seno all’immobilità estensiva. Dall’altra parte, V.W. Vitesses Women (Claudine Eizykman, 1972-74), con le sue pulsazioni di sequenze intrecciate, pur situandosi bene nell’ordine della mobilizzazione estrema, non rientra tuttavia nell’ambito dell’astrazione lirica, dato che, più che l’agitazione, mostra il sovrappiù di mobilità proveniente dalle collisioni scandite della figurazione. Questo film dimostra quindi che è possibile seguire non soltanto diversi racconti in contemporanea, ma anche quel che deriva dalla serie unica composta da due o più serie alternate, e cioè il movimento senza mobile della loro interferenza. Queste brevi annotazioni mostrano che, se la definizione di acinema data da Lyotard offre materia su cui discutere, resta tuttavia al di qua della paralogia del movimento, che, come si vede in certi film, non si limita agli estremi del movimento, per cui è indispensabile varcare il confine. L’acinema si specifica allora in senso più generale per la presenza sullo schermo della costituzione paradossale del cinema, mentre per ciò che convenzionalmente si chiama cinema, ovvero il cinema nelle sue varie forme romanzesche, è essenziale che le tracce di questa origine paradossale non appaiano sullo schermo che in casi eccezionali. C’è dunque da chiedersi: bisogna intraprendere la via dei prefissi successivi, che specificherebbero l’acinema, cinema sul cinema, come meta-cinema piuttosto che para-cinema? O più semplicemente bisogna attenersi all’oggetto a cui mirano tutte queste designazioni, che non è tanto l’altro cinema né l’altro del cinema, ma il Cinema stesso? Ciò che importa qui è che, mobilitando la questione dell’origine, si introduce con essa l’esigenza, nuova per il cinema, di un modo di procedere intrinseco, che non ha soltanto il dovere di articolare il cinema-macchina con il cinema-nastro, ma implica altresì che il cineasta abbia presente l’origine del 56


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cinema, così come uno studioso di geometria di oggi ha presente l’origine della sua disciplina. Questo approccio intrinseco tuttavia interseca necessariamente quello storicizzante, che, partendo dalle opere e dai nomi del cinema sperimentale, ritroverebbe nella logica delle sperimentazioni l’articolazione paradossale del dispositivo, che nessuno sperimentatore degno di questo nome può misconoscere, quand’anche ignorasse tutto di Zenone di Elea. Questi due modi di procedere si ricongiungono dunque per installare l’acinema nel cuore della problematica di legittimazione per via paralogica su cui sfocia La condizione postmoderna,30 e per identificarlo con queste sperimentazioni di immediato successo, la cui forza sta nella capacità di rinnovare e di rimettere in gioco il dispositivo stesso. I film presentati sono di questo tipo, e mostrano che questa paralogia visiva è oggetto di attuali conquiste, e che la serie di oggetti immobili non produce soltanto movimento, ma anche il mutevole, il commovente, il mobilizzante, il pulsante, il cromatizzante. Definendosi per la presenza sullo schermo della configurazione paradossale del dispositivo, l’acinema si iscrive anche dentro un’estetica per cui è importante presentare le tracce stesse della presentazione. E se eventualmente questi film presentano che c’è dell’impresentabile, tuttavia hanno innanzitutto presentato dell’impresentato, cosa che ai nostri occhi è essenziale.31 La filosofia ne fornisce un esempio: se non si può presentare il Tutto, ammettiamo non di meno che il carattere impresentabile dell’U30. J.-F. Lyotard, La condition postmoderne, Minuit, Paris 1979; trad. La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano 1981. [N.d.T.] 31. Jean-François Lyotard ha sempre insistito sull’importanza data alla questione dell’impresentabile, indicando che lo scopo dell’arte non è tanto quello di presentare l’impresentabile, aprendo in tal modo la via all’ineffabile e alla confusione teorica, come certe formulazioni troppo rapide potrebbero far credere, quanto molto precisamente di presentare che c’è dell’impresentabile. L’idea che questo possa accadere proprio quando l’opera presenta dell’impresentato, è nostra. Un esempio è dato dalle cinecromie di Guy Fihman, che, mostrando molte composizioni cromatiche inedite al cinema, perfino tutte quelle che il supporto può registrare, suggeriscono attraverso diversi procedimenti che esistono anche altre combinazioni che è possibile presentare (cfr. Trois couches suffisent e Trois couches ne suffisent pas, 1977-79).

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niverso si presenta diversamente dopo che Kant ha introdotto l’ipotesi galattica. L’insistenza sull’innovazione non indica soltanto una preferenza per questa forma di estetica postmoderna del sublime; mettendo l’accento sulle potenzialità proprie della presentazione, si preserva la possibilità di un altro esito al conflitto delle facoltà, che nel suo fondamento stesso l’estetica del sublime ammette come risolto a profitto del concepibile, dal momento che la facoltà immaginativa non ha altra scelta che di insistere sulla potenza della sua rivale o sulla sua propria impotenza. Si prenda per esempio Arnulf Rainer (Peter Kubelka, 195860). Questo film, il quarto realizzato dal suo autore, segna una coda nel movimento che conduce Kubelka alla ricerca dell’essenza del cinema. Arnulf Rainer si presenta come un’organizzazione seriale (fotogramma a parte, tanto per l’immagine che per il suono), secondo delle rigorose concezioni metriche, dei quattro più semplici elementi del cinema: quadro nero o bianco, silenzio o rumore bianco. Ma questi elementi che compongono il nastro filmico sono gli stessi che si ritrovano nel proiettore: nero e luce, silenzio e suono. E dato che sul film non ci sono che gli elementi già presenti nella macchina, Arnulf Rainer è quindi in senso proprio del Cinema-Nastro posto dentro del Cinema-Macchina. Da ciò si vede come questo film ambisca a essere l’ultimo film, a essere cioè per il cinema quello che il quadrato bianco su sfondo bianco di Malevicˇ voleva essere per la pittura. A ciò corrisponderebbe meglio, per il cinema, Rythmus 21 di Hans Richter, mentre Arnulf Rainer realizzerebbe al cinema ciò che in pittura non avvenne che con il quadro di René Guiffrey, composto da una tela quadrata dipinta di bianco, eccezion fatta per un quadrato centrale bianco di imprimitura, al cui proposito Jean-François Lyotard, in un saggio videografico sulla pittura di René Guiffrey intitolato A blanc, mostra l’analogia con il paradosso del bugiardo. Presentando sul nastro filmico gli stessi elementi che sono nella cinemacchina, Arnulf Rainer potrebbe anche essere visto come il primo film, dato che nonostante (o proprio per) l’organizzazione seriale volontariamente equilibrata tra gli elementi posti come equivalenti nella loro simmetria, questo film mostra delle dispa58


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rità e delle eterogeneità costitutive. Disparità, in quanto il neronastro assommandosi al nero-macchina annulla agli occhi dello spettatore, da una parte, la simmetria del nastro, dall’altra, l’eterogeneità tra immagini e suoni, perché se il nero può sembrare corrispondere al silenzio, il bianco – che i quadri trasparenti lasciano vedere – non può corrispondere percettivamente nell’ordine sonoro ai rumori che i fisici definiscono bianchi, perché includono tutte le frequenze. Da ciò si può comprendere perché il film successivo realizzato da Kubelka sia Unsere Afrikareise (1961-66), film in cui dominano precisamente le articolazioni immagini/suoni. Presents (1980): dal titolo stesso, l’ultimo film di Michael Snow mostra la sua vicinanza con la problematica della presentazione.32 Ma non si può cogliere tutta la portata di questo film senza evocare ciò per cui Snow ha segnato la sua presenza nel cinema, in film come Wavelength (1967), <———> (1969)33 e La région centrale (1970-71), che semplicemente è il movimento di macchina. Dello zoom di Wavelength, che prosegue il suo trasporto ottico inesorabilmente per quarantacinque minuti, indifferente ai vari fatti che accadono nell’atelier, passando per la panoramica di <———>, che esplora instancabilmente un’aula universitaria in un va e vieni ostinato ma neutro (tutt’altra cosa rispetto all’avanti e indietro ossessivo di un dispositivo di sorveglianza), fino a La région centrale, in cui una montatura particolarmente elaborata permette alla macchina da presa, un vero e proprio occhio senza corpo, di esplorare secondo tutti i percorsi di una sfera, una regione deserta del Canada, questo insieme (in cui ogni film è lui stesso una prima) costituisce una sorta di analitica dei movimenti cinematografici. Presents riprende questa vena amplificandola. Il film si apre con un’ouverture, che non è la banale salita progressiva della luce, ma la costituzione stessa del 32. Le diverse nozioni sussunte in inglese e in francese sotto il titolo Presents sono state oggetto di una presentazione (post-sincronizzata) di Michael Snow nell’ambito del Colloque di Cerisy, il cui testo (molto) originale appare in The Collected Writings of Michael Snow, Wilfrid Laurier University Press, Waterloo (Ontario, Canada) 1994, pp. 203-204. 33. <———> questo è il titolo grafico del film; il titolo parlato è Back and Forth.

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quadro a partire da una semplice linea che prenderà a svilupparsi includendo già tutta l’informazione. In questa prima parte si vede, in tutti gli stadi permessi da questa anamorfosi evolutiva realizzata elettronicamente, una donna nuda sdraiata sul letto; quando lei si sveglia il quadro si stabilizza, e una dissolvenza incrociata sulla stessa scena segna il passaggio alla seconda parte caratterizzata da una singolare agitazione. Mentre ci sembra di seguire le evoluzioni di questa persona e del suo compagno che svolgono le loro faccende in questo interno, presto ci si accorge che è l’insieme del set a ruotare attorno alla macchina da presa che invece rimane statica, senza istituire quelle relazioni meccaniche armoniose abitualmente richieste durante le riprese di un film. Ogni spostamento è uno choc, e gli choc si moltiplicano. Analogamente alle relazioni tumultuose che i personaggi intrattengono, la relazione tra macchina da presa e scenografia è essa stessa una scena di lavoro domestico, tanto che, man mano che la confusione cresce, la scenografia si rompe sotto i colpi delle collisioni con la macchina da presa dietro cui sta Snow, fino allo sfondamento che segna il passaggio alla terza parte: mosaico di sequenze, immagini familiari, appunti fugaci, quaderni di viaggio, temi ricorrenti che si intrecciano, un colpo di gong che sottolinea ogni cambio di inquadratura, e inquadrature a migliaia, sempre girate in macchina a mano, e movimenti onnidirezionali, che a una prima visione lasciano trapelare una retorica del movimento. Con i film di Claudine Eizykman, la problematica del movimento si sposta: il già citato V.W. Vitesses Women (1974) faceva emergere dagli intrecci di sequenze una sovra-mobilità impossibile da attribuire ad alcun oggetto mobile e che nessuna macchina da presa potrebbe filmare. Questa esplorazione di nuove potenzialità prosegue nei film successivi: Bruine Squamma (197274), Moires Mémoires (1972-78), Opernéïa (1976-80), prendendo ogni volta una nuova piega fino a sfociare in Lapse (1976-81), la cui pertinenza per la problematica qui sviluppata sta nella messa in forma e nell’entrata in forze dei movimenti di apparizione. Distinti dai movimenti delle apparenze, esistono almeno due movimenti di apparizione. Il primo è prodotto dalla facoltà im60


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maginativa, quella facoltà che, come notava Leonardo, fa riconoscere delle figure nelle nuvole o delle scene nell’intonaco dei muri. Numerosi cineasti hanno esplorato questa via, presentando in diversi modi la testura costitutiva dell’emulsione, la grana: Paul Sharits, Axiomatic Granularity (1972-72), Ernie Gehr, History (1970), Dominique Willoughby, Masses turbulentes (1976). Questi film in particolare traggono la loro forza dalla granulazione intermittente, vero e proprio movimento browniano che sorge dai ri-posizionamenti aleatori della grana nella serie dei quadri, e che si comporta come supporto di imputazione, facendo apparire diversi movimenti, brulichii e turbolenze, ma anche, a seconda dell’immaginazione, delle figurazioni. L’altro movimento di apparizione non dipende soltanto dall’immaginazione. Lo si può riferire a quell’esperienza interna all’apparato percettivo in cui qualcosa o qualcuno appare, senza che però vi sia stato un movimento dell’oggetto o del soggetto. Apparizione e sparizione sono allora i movimenti stessi della percezione, indipendenti dai movimenti del percepito. È in un tale spazio che Lapse ci fa muovere: emergendo dalla grana, i corpi cadono e svaniscono in pulsazioni granulari. E dato che apparenza e apparizione concordano in parte con l’uso che Lyotard fa delle categorie di Duchamp (cfr. I transformatori Duchamp),34 poniamo questa equazione: Lapse, ovvero dati come (I) la grana di illuminazione, (II) la caduta dei corpi, (III) la caduta del film. “Cinema a colori”: l’espressione convenzionale testimonia implicitamente che il colore sarebbe una qualità che viene ad aggiungersi al cinema dall’esterno, inessenziale se non superflua. Al contrario, per e attraverso le sue cinecromie, Guy Fihman rivendica l’appellativo di “Cinema di colori”, e con questo l’istituzione di una relazione necessaria. La tradizione filosofica rinforzerebbe questa posizione che associa inevitabilmente al problema del movimento quello del 34. J.-F. Lyotard, Les transformateurs Duchamp, Galilée, Paris 1977; trad. I transformatori Duchamp. Studi su Marcel Duchamp, Hestia, Cernusco Lombardone (CO) 1992. [N.d.T.]

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cambiamento dei colori. Anche se i paradossi cromatici di Zenone di Elea non ci sono pervenuti, sappiamo che la paralogia del movimento si inseriva in quella più generale del cambiamento (di luoghi, di forme, di qualità). E se si dichiara il cinema Arte del movimento, bisogna anche ammettere il cinema come Arte del cambiamento (di cui il colore è la forma canonica). E anche qui la storia storicizzante ritrova questo modo di procedere intrinseco. Ciò accade tanto nell’ordine dei dispositivi, dove si scopre che è per lo studio del cromatismo che Joseph Plateau elabora il suo disco finestrato che consentirà la prima sintesi grafica del movimento estensivo, quanto in quello delle produzioni filmiche, dove vediamo che è attraverso il colore che l’astrazione arriva al cinema con Arcobaleno di Bruno Corra (1912), che – nonostante non sia conservato – è il primo film sperimentale, nel senso attuale del termine, prima ancora del progetto non realizzato del Rythme coloré di Survage (1913). È nella tradizione di queste origini che si iscrive Ultrarouge-Infraviolet (1974) prima evocato, consacrato ai soli cambiamenti di colore, movimenti qualitativi per eccellenza. La paralogia manifestata in questo film, che fonda la tecnologia dei colori, si dispiega in Trois couches suffisent (1979), in cui la seconda sequenza, intitolata “natura intermittente” – non “natura morta” né “still life” –, poggia su ciò che queste due espressioni, che pure si traducono a vicenda, lasciano sfuggire nel loro scarto, sottolineando così quel cromatismo che necessariamente manca alla pittura, e che da parte sua il cinema “a colori” non aveva mai presentato. Dopo aver mostrato quel che si svolgeva a partire dall’acinema, si vorrebbe indicare per concludere in cosa l’acinema è essenziale alla comprensione dell’arte di Lyotard. Se è vero che Lyotard non ignora il cinema, né tanto meno la sperimentazione cinematografica, si potrebbe credere, se ci si attenesse alle occorrenze esplicite del cinema nei suoi scritti, che questo resti per lui un oggetto di interesse marginale. Ma l’impiego che Lyotard ne fa in campo estetico, questo movimento di ritorno del cine62


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ma sulle arti plastiche, deve risvegliare l’attenzione, dal momento che il cinema ritorna anche in campo filosofico, dove sembra accompagnare gran parte dei momenti forti del pensiero di Lyotard. Lo si può riscontrare in filigrana già a partire da Discorso, figura nell’interesse portato su Coup de dès: questo riferimento è meno sorprendente se si nota che quel che Lyotard vede nella poesia di Mallarmé non è la banale categoria della mise en page [impaginazione], ma piuttosto quella, in cui già opera l’acinema, della mise en plages [messa in superfici]. Va ricordato che “la novità di questa spaziatura della lettura”, che è contemporanea all’avvento del cinematografo, ha “il vantaggio di rallentare e a volte accelerare il movimento”.35 L’altra faccia della filigrana sarebbe costituita dalle sperimentazioni filmiche e videografiche iniziate in comune da Jean-François Lyotard, Dominique Avron e gli autori di queste righe, con l’obiettivo di investigare il lavoro del film a partire dall’analisi critica effettuata da Lyotard sul lavoro del sogno.36 Niente meglio dell’acinema permette di seguire il cammino che porta da Des dispositifs pulsionnels all’Economia libidinale: dalla pelle sottile alla grande pellicola effimera, si potrebbe dire, perché come si può pensare la superficie, sensibile agli investimenti libidinali, senza l’economia dell’acinema? Altrettanto esplicito è il fondamento comune, la paralogia che lega l’acinema con La condizione postmoderna. Si osserverà al riguardo che l’acinema conduce a una posizione diametralmente opposta a quella di Maurice Merleau-Ponty, il quale dichiarava: “Il cinema è anzitutto un’invenzione tecnica in cui la filosofia non c’entra affatto”.37 E quando l’interesse teorico di Lyotard si rivolge alle frasi, il cinema ritorna. Nel suo Essai d’analyse du dispositif spé-

35. Ibidem. 36. Cfr. il numero speciale e unico della rivista “Le travail du film”, gennaio 1970, curato dagli autori in occasione del ciclo di film Cinéma et psychanalyse; cfr. anche L’autre scène (1969-72). 37. M. Merleau-Ponty, Le cinéma et la nouvelle psychologie, “Les Temps Modernes”, novembre 1947, p. 943; trad. “Il cinema e la nuova psicologia”, in Senso e non senso, il Saggiatore, Milano 1962, p. 81.

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culatif,38 partendo da Hegel, Lyotard scrive: “La questione non è senza analogia con quella del cinema. Sia un’inquadratura: l’analisi dell’effetto Kulesˇov mostra che la concatenazione della seconda inquadratura determina il senso della prima”. Questa determinazione delle concatenazioni in senso contrario alla causalità potrebbe, col pensiero in movimento, segnare l’avvento della paralogia nel prosare. Ma bisogna anche ricordare che l’effetto Kulesˇov, che svolge un ruolo di mito fondante per la teoria del montaggio nel cinema narrativo, non è che un’esperienza attraverso la quale il cineasta sovietico ha cercato di prosare con le immagini, concatenando le sequenze sul modello delle frasi più semplici, che è una delle potenzialità più ridotte del cinema. Ma gli effetti forti dei Nomi dell’acinema riecheggeranno anche nell’opera maggiore, evocata allora da Lyotard sotto il nome di Arcipelago delle frasi, che sarà poi Il dissidio.39 Al di là del tentativo di delineare il ruolo che l’acinema riveste in questa opera, possiamo osservare come questo testo, al di là dello sviluppo tematico a cui darà luogo, manifesti anche la coerenza concettuale: non bisognerebbe che la critica facesse con Lyotard quel che ha fatto con Wittgenstein, per esempio, verso cui ha praticato un’eccessiva periodizzazione, opponendo un primo periodo a un secondo, e addirittura a un terzo, perdendo così il filo essenziale che caratterizza la forza e la forma di un pensiero. Nello specifico, l’uscita dalla militanza di membro anziano del gruppo “Socialismo o barbarie” non corrisponde in Lyotard all’abbandono della politica: in Peregrinazioni40 (1986-88), considera l’acinema come l’approccio alla “comparazione del politico e dell’arte” (pp. 38. J.-F. Lyotard, Essai d’analyse du dispositif spéculatif, “Degrés”, 26-27, 1981. Allo stesso modo in “Petite économie libidinale d’un dispositif narratif: la Régie Renault raconte le meurtre de Pierre Overney”, in Des dispositifs pulsionnels, cit., Lyotard analizza le concatenazioni negli enunciati narrativi prodotte dall’effetto Kulesˇov: tra due frasi, così come tra due inquadrature cinematografiche, si instaura un’unità spazio-temporale e una relazione di implicazione – fondate sull’elisione – che le collegano, che lo spettatore ricostruisce mentre il commentatore le costituisce. 39. J.-F. Lyotard, Le différend, Minuit, Paris 1983; trad. Il dissidio, Feltrinelli, Milano 1987. 40. Id., Pérégrinations, Galilée, Paris 1990; trad. Peregrinazioni: legge, forma, evento, il Mulino, Bologna 1992. [N.d.T.]

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52-53). Allo stesso modo, Il dissidio non si oppone a Discorso, figura che, al contrario, costituisce la prima ricognizione nell’analisi delle relazioni inconciliabili tra testuale e figurale. Dopo la deviazione per i giochi linguistici wittgensteiniani, Il dissidio, esplorando l’arcipelago generalizzato delle frasi – in cui il gesto animale (cfr. la coda eretta del gatto, § 123) è una frase e il silenzio stesso una frase negativa –, potrebbe sembrare di primo acchito abbandonare il partito preso del figurale, mantenuto sempre al di fuori del testuale. Ma Lyotard stesso indica che con “la svolta linguistica della filosofia occidentale, giunge l’ora di filosofare” (§ contesto, p. 11), ed è in questo universo di frasi che Lyotard situa precisamente il proprio oggetto. “Il dissidio è lo stato instabile e l’istante del linguaggio in cui qualcosa che deve poter essere messo in frase, ancora non può esserlo” (§ 22). È l’al di fuori del linguaggio, che si percepisce a volte nell’ordine dell’estetica, altre volte in quello dell’affetto o della politica. Il cinema occupa un ruolo discreto ed essenziale nella riflessione di Jean-François Lyotard: poco alla volta l’analisi si fa densa nel 1973 con L’acinema e Petite économie libidinale d’un dispositif narratif: la Régie Renault raconte le meurtre de Pierre Overney, filante nel 1977 in The unconscious as mise-en-scène, poi ricorrente con l’Essai d’analyse du dispositif spéculatif, incisiva nel 1982 in Due metamorfosi del seduttivo al cinema, a proposito di Apocalypse Now e dei film di Syberberg, in particolare di Hitler, un film dalla Germania. In seguito, a eccezione della mostra Les Immatériaux nel 1985, questo ruolo è restato modesto, con osservazioni sparse a proposito del cinema, che riprendono e prolungano delle questioni poste in precedenza. Così, in Le sublime et l’avantgarde41 (1983-87) Lyotard ritorna sui film di Hans Syberberg, la cui equivocità stava nel contrasto tra l’incitazione alla riflessione e la forma epica data al nazismo, che viene accentuata dalla musica quasi-wagneriana di Stockhausen. Rimossa questa contraddi41. Id., “Le sublime et l’avant-garde”, in L’inhumain, Galilée, Paris 1987; trad. “Il sublime e l’avanguardia”, in L’inumano: divagazioni sul tempo, Lanfranchi, Milano 2001. [N.d.T.]

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zione, il secondo sguardo rivolto al cinema di Syberberg vi scopre la conversione forzata di “un’estetica del sublime in una politica del mito” praticata dal nazismo sulle arti.42 Segue poi l’evocazione in Heidegger e “gli ebrei”43 (1988) di Shoah, film di Claude Lanzmann che sospende l’ipotesi tratta dall’analisi di Apocalypse Now: l’immobilizzazione e lo stupore sopportati dallo spettatore-vittima chiarivano lo stato rispettivo dei soldati (americani) di ritorno dalla guerra in Vietnam e i deportati dei campi di concentramento. Jean-François Lyotard scrive che “il film di Claude Lanzmann, Shoah, fa eccezione, solo lui forse” all’oblio che deriva dall’inscrizione.44 Bisogna concluderne che Shoah, al contrario di Apocalypse Now, non concerne un simulacro riprodotto o subito dallo spettatore, ma una relazione che lega per mezzo del dubbio le diverse parti al di fuori di ogni retorica di testimonianza e al di fuori di ogni catarsi. Que peindre? (1987), consacrato alla pittura di Adami, Arakawa, Buren, è il luogo per il pensiero del sublime di uno spostamento: dall’assenza e dall’impresentabile, alla presenza e alla sensazione. Questo testo include anche un’indicazione sulla “forma, in senso kantiano, ovvero trascendentale, la forma spazio-temporale della visione, che al giorno d’oggi è cinematografica…”, che conduce alla necessità di un’estetica nuova, “senza natura sensibile”.45 Signé Malraux (1987) include, da una parte, un breve commento sulla fotografia e il cinema,46 tratto da Les voix du silence, non senza rapporto con l’acinema per la considerazione del movimento neutralizzato: il ritiro “del movimento e della finzione dal racconto” è accreditato alla fotografia e non al cine42. Id., Le sublime et l’avant-garde, conferenza del 1983 pubblicata in rivista nel 1985, in seguito ripresa in L’inumano, cit., p. 123 sgg. 43. Id., Heidegger et “les juifs”, Galilée, Paris 1988; trad. Heidegger e “gli ebrei”, Feltrinelli, Milano 1988. [N.d.T.] 44. Ibidem. 45. Id., Que peindre?, Ed. de la Différence, Paris 1987, p. 109. 46. Un’altra relazione a proposito della fotografia e del cinema industriale è istituita in Le postmoderne expliqué aux enfants, Galilée, Paris 1986, pp. 19-20; trad. Il postmoderno spiegato ai bambini, Feltrinelli, Milano 1987; e in L’inumano, cit., p. 145.

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ma.47 L’allusione è certamente rapida, dal momento che Malraux altrove afferma che la particolarità del film sta nell’indipendenza della macchina da presa rispetto alla scena rappresentata, e nella successione delle inquadrature, sulla quale il découpage interviene con un gesto artistico e non tecnico.48 Dall’altra parte, in una frase cristallina, Jean-François Lyotard ricorre di nuovo alla sospensione del movimento per esprimere la grandezza di L’espoir, film di André Malraux: “Dato che narrare non significa affatto raccontare una storia, bensì mostrare la scena, la sola, in cui si affrontano e si stringono la bassezza e l’insurrezione: scena sottratta al materiale grezzo del fatto, e lavorata con i mezzi filmici in modo che la sua verità metafisica si stacchi dal corso degli eventi e si fissi per sempre nell’istante”.49 L’evocazione dell’arresto sul movimento, legato a sentimenti estremi, suggerisce una prossimità con il sublime e con la presenza. C’è dunque una continuità nell’attenzione rivolta al cinema. Ma alla problematica dell’acinema (o dell’iperrealismo) – l’immobilizzazione dello spettatore provocata da un eccesso di movimenti o una quasi-immobilità nel film – segue un’estetica del sublime, dell’irrappresentabile, quindi della presenza. Questo passaggio riflette, più che l’abbandono della questione del movimento, una vicinanza tra le due problematiche. Il paradosso cinematografico affiora nel termine acinema, ma è superato dalla considerazione fondamentale dei movimenti potenziali e delle norme che regolano il loro uso, e degli effetti che ne derivano per gli spettatori. L’importanza accordata allo stato mobilizzato o immobilizzato dello spettatore, invece, include una possibile anticipazione del sublime. Inoltre l’immobilità e l’eccesso di movimenti nella pittura non sono commensurabili con l’immobilizzazione e l’eccesso di mobilità o di movimenti nel cinema, e più particolarmente con la mobilità del supporto e l’immobilizzazione dello spettatore nel cinema (underground) sperimentale.

47. J.-F. Lyotard, Signé Malraux, Grasset, Paris 1996, pp. 347-348. 48. Quest’ultima osservazione va letta nel contesto dell’epoca d’origine. 49. Id., Signé Malraux, cit., p. 219.

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Jean-François Lyotard distingue il movimento (e più precisamente l’insieme dei movimenti selezionati dal cinema) dalla mobilità (chiamata anche acinema o astrazione), cioè le tracce iscritte sul supporto che non danno luogo a riconoscimento. Distingue anche “il supporto, che è la tela per la pittura e la pellicola per il cinema”; la mobilità del supporto cinematografico è quanto meno di un altro ordine rispetto a quella della tela. Le diverse occorrenze della mobilità mostrano che si tratta di una convalida filosofica dell’analisi del postmoderno che JeanFrançois Lyotard ricercò a più riprese nel cinema. La mobilità è pensata come un cambiamento del funzionamento che affligge la società almeno dalla fine degli anni cinquanta, nel contesto delle trasformazioni tecnologiche prodotte dall’informatica. La mobilità, all’opera nel cinema e in modo diverso in Le travail du rêve ne pense pas e in Leçons sur l’analytique du sublime,50 struttura e guida l’analisi e la costruzione del postmoderno. JeanFrançois Lyotard non smetterà, a partire dal 1979, di pensare dinamicamente il postmoderno, il sublime, il dissidio e l’avanguardia nelle loro relazioni reciproche. Il postmoderno s’iscrive in uno sviluppo evolutivo legato alla proliferazione della sperimentazione che si è generalizzata, portando a un’estetizzazione della società51 e a una trasformazione del sentimento del sublime. La fede in un “grande racconto unitario” di emancipazione e di speranza, in cui l’uomo occupa il centro del mondo, caratterizza il moderno. Con il postmoderno, dissolta questa fede, il moderno persiste nell’esigenza di una significazione di quella situazione che Lyotard chiama storicità. Per Lyotard il postmoderno non segue al moderno, “è uno stato del moderno”;52 e “il postmoderno manifesta come la scrittura, nel senso più ampio, del pensiero e dell’azione si colloca dopo 50. Id., Le travail du rêve ne pense pas, inizialmente pubblicato separatamente nella “Revue d’esthétique”, costituisce un capitolo di Discorso, figura, cit., pp. 271-301; Id., Leçons sur l’analytique du sublime, Galilée, Paris 1991. 51. Id., Moralités postmodernes, Galilée, Paris 1993, pp. 29-33. 52. Id., L’inumano, cit., p. 44.

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aver subito il contagio della modernità, e dopo aver tentato di guarirne”.53 Il postmoderno non dipende da una periodizzazione, né determina uno stile. È fuori dalla fissità, dalla linearità. Così come l’effetto Kulesˇ ov indica che ciò che viene dopo spiega quel che precede, cioè che la comprensione non deriva da un processo lineare e cronologico, ma da una molteplicità di occorrenze visive e sonore e dalle loro elaborazioni cognitive acroniche, anche il postmoderno non significa “ciò che viene dopo il moderno”, né il recente o l’attuale: il postmoderno viene contemporaneamente prima, assieme e dopo il moderno, senza per questo cancellarlo. Così coesistono diversi “postmoderni”; precedendo il moderno, il postmoderno è un meccanismo che annuncia una rottura, limitato nel tempo, stupefacente e incompreso, non visto, come spesso accade per un’opera d’arte, in grado di suscitare un brusco sentimento di sublime. Il sublime risulta da una discordanza tra sensibile e intelligibile, che genera un sentimento di pena e di piacere: un’opera nuova non piace per la sua novità; per diventare moderna deve smettere di non piacere, è dunque sempre anteriore al moderno: “Un’opera può divenire moderna solo se è prima postmoderna”.54 L’estensione del postmoderno in seno al moderno, poi il superamento, anzi la preminenza, del postmoderno sul moderno, determinano degli stadi del postmoderno ai quali corrispondono delle inflessioni del sentimento del sublime: il postmoderno orientato verso la moltiplicazione delle sperimentazioni nella scienza, nella tecnica, nell’economia, che, come l’arte, sostituiscono alle norme presupposte i giochi dei possibili creando così un sentimento di potenza, di “esultanza”. Ma nel corso delle trasformazioni, la fluidità e la plasticità della produzione-circolazione generano un’estetizzazione delle pratiche e dei pensieri, confondendo natura e artificio, e non lasciando altra possibilità che quella di rappresentare ciò che è perduto. Al sublime di po53. Id., Moralités postmodernes, cit., p. 89. 54. Id., Il postmoderno spiegato ai bambini, cit., p. 21.

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tenza risponde un sentimento di sublime moderno di nostalgia, entrambi distinti dal vero e proprio sentimento del sublime.55 Ma la mobilità del postmoderno rivela anche delle situazioni transitorie che concorrono alla fortificazione del sistema: così, certe controversie possono tramutarsi in litigi, dei paradossi nel vecchio sistema diventano, in quello nuovo, oggetto di consenso scientifico. Tuttavia si affinano pensieri e si creano scarti: l’innovazione non è una paralogia, la modificazione di una regola in un gioco non è simile all’invenzione di un nuovo gioco; e la sperimentazione acquista un doppio statuto: da una parte si sottolinea la sua connivenza col capitale relativamente all’illimitazione dei possibili, in particolare la programmazione informatica e l’interattività, dall’altra invece la sperimentazione dei poli,56 il “logoramento”57 irriducibile del materiale o l’esaurimento della fluidità esaltante e vana, testimoniano sempre di una dimensione di eccesso, di resistenza, di cortocircuito. Questa dimensione è immanente alla riconsiderazione congiunta intrapresa da Jean-François Lyotard del postmoderno, del dissidio e del sublime. In L’acinema e in Due metamorfosi del seduttivo al cinema, questi concetti risuonano della relazione privilegiata che l’avanguardia o la sperimentazione (cinematografica o altra) intrattengono con “la forza di pensare ai limiti”,58 con l’idea di assoluto che sostiene il vero e proprio sentimento del sublime. Jean-François Lyotard pensa moderno e postmoderno insieme, mentre un’abitudine cinematografica li oppone o identifica.59 È la questione della modernità che viene trattata, e più particolarmente quella del cinema moderno, nonostante a volte sotto la nozione di modernità si ritrovino delle caratteristiche del post55. Ivi, p. 23. 56. Id., L’acinema, in questo fascicolo. 57. Id., La condizione postmoderna, cit., p. 23. 58. Id., Temoigner du différend, Osiris, Paris 1989, p. 92. 59. .Sul cinema moderno, vedi gli studi di François Jost e Dominique Chateau, Cinémas de la modernité, films, théories, Klincksieck, Paris 1981; Jean Narboni, Tous les autres s’appelent Meyer, “Trafic”, 3, 1992; Fabrice Revault d’Allones, Pour le cinéma moderne, Yellow now, Paris 1994.

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moderno. Dopo la Seconda guerra mondiale, il cinema moderno segue il cinema classico e se ne distingue, vi si oppone. Classico e moderno definiscono una periodizzazione e delimitano una frontiera tra due stili o due estetiche; impercettibilmente tre, dato che, se il cinema narrativo contemporaneo è moderno, allora il cinema sperimentale d’avanguardia è postmoderno. Notiamo inoltre l’esistenza di un doppio divario tra le posizioni cinematografiche e quelle di Lyotard. Da una parte, il divario tra la periodizzazione cinematografica e il posizionamento degli stati del postmoderno: dall’“ozio della modernità”60 durante gli anni venti nascono l’avanguardia, che prolifera, e il postmoderno che vi è connesso. Dall’altra, il divario tra la bipolarità degli stili attribuita al cinema e l’attenzione rivolta da Lyotard alle transizioni nell’analisi della pittura. Al passaggio dall’acinema a un’estetica del sublime, si accompagna il passaggio dall’analisi dei film sperimentali e narrativorappresentativi che includono movimenti estremi, a quella dei film d’eccezione, che conferisce loro uno statuto di quasi-prototipi. Questi ultimi si distinguono per un ancoraggio storico forte (il nazismo, la guerra di Spagna) e per un tenore visivo moderato (la sobrietà di Shoah). Il visivo indica qui l’ordine di “logoramento” del materiale e degli eventi non visti che ne risultano. La scelta di questi film e l’analisi giudiziosa condotta da JeanFrançois Lyotard spingono a chiedersi se la problematica del sublime debba rivolgersi elettivamente a film il cui tenore visivo è temperato e quello cognitivo elevato; e a domandarsi se questo equilibrio è irriducibile al conseguimento del sentimento del sublime, proprio mentre sembra conforme al processo del pensiero del sublime. Il sentimento di sublime secondo Kant è suscitato dalla visione di oggetti di tre specie: naturali e dinamici come l’oceano, il vulcano, l’uragano ecc.; naturali e statici come il ghiacciaio ecc.; artificiali e immobili come una piramide o una chiesa. È la grandezza che li accomuna a far scattare una stasi nel processo del pensiero, che conduce al sentimento del sublime. 60. J.-F. Lyotard, Chambre sourde, Galilée, Paris 1998, pp. 62-63.

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Con il cinema, non si tratta soltanto di un cambiamento nella natura o nella scala dell’oggetto, ma di un cambiamento di percezione integralmente dinamica e artificiale, concomitante con un modo di contemplazione che si distingue da quello del sublime per la sua immersione nell’immobilità, dato che il movimento proviene dall’oggetto e dal pensiero, ma anche dalla tecnologia delle immagini. Questo eccesso modifica le condizioni della sensorialità, appurate le opere cinematografiche che ne partecipano e che lo manifestano. Incontro a loro, il grado zero di un’estetica.

Traduzione dal francese di Antonio Bigini

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Il figurale e l’allucinazione filmica DOMINIQUE CHATEAU

on sono del tutto sicuro di aver ben afferrato che cosa sia il figurale, ma non mi preoccupo perché se c’è una cosa di cui sono sicuro è il fatto che “il ben afferrato” non sia nell’ordine del figurale. Niente gli è più estraneo che la celebre massima: “Quel che si concepisce bene si enuncia chiaramente”. Nulla gli è più estraneo della buona concezione e dell’enunciato chiaro. “[Dedichiamoci] all’autosufficienza del discorso”, dice Lyotard.1 “È facile dissipare il prestigio attuale del sistema, della recinzione nella quale gli uomini del linguaggio credono di poter rinchiudere tutto ciò che è senso” (p. 39). E sia. Sono sensibile a questa sorta di eloquenza che Lyotard dispiega principalmente nella sua introduzione, e che si ritrova a tratti nel suo libro, in mezzo a dei passaggi più carichi che sanno di un’epoca dove bisognava mostrarsi all’altezza del pesante strutturalismo per aspirare alla sua confutazione. Ma la mia fascinazione per i voli di Discorso, figura, lungi dal calmare la mia perplessità, la rilanciano. Quello che qui mi affascina, allo stesso tempo mi lascia pensoso. Ammiro i commentatori che sembrano aver capito tutto, quando proprio tutto indica che il proposito di Lyotard sfugge a questa comprensione totalizzante, sintetica, unificatrice: “Rinunciamo – scrive – alla follia dell’unità, alla fol-

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1. J.-F. Lyotard, Discours, figure (1971), Klincksieck, Paris 2002; trad. Discorso, fugura, Unicopli, Milano 1988.

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lia di poter fornire la causa prima in un discorso unitario e al fantasma dell’origine. L’utopia freudiana ci mantiene nella regola dettata dalla pulsione, detta di morte, per la quale l’unificazione del diverso, perfino nell’unità di un discorso, compresa la teoria freudiana naturalmente, è sempre respinta e interdetta” (p. 46). Certi commentatori trattano il figurale come una sorta di alone intellettuale; la nozione vi si presta senza dubbio, alla maniera dell’aura benjaminiana. In ogni caso, mi sembra che i commentatori che trattano il figurale come se fosse un buon vecchio concetto – un concetto, cioè l’unificazione del diverso secondo Kant, compito assegnato all’intelletto – manipolano le idee di Lyotard in senso contrario alla sua intenzione principale; ne fanno una sorta di gioco linguistico di cui la sintassi non richiama altra semantica che quella che presenta la sua propria assiomatica. È particolarmente flagrante che il fondamento freudiano sparisce dal commentario, quando questo diviene un discorso puramente formale, o – è il colmo! – formalista. Ora, avverte l’autore, “fare dell’inconscio un discorso significa omettere l’energetica” (p. 42). Oltre la critica dello strutturalismo, questo vuol dire che il regime intellettuale qui mirato implica la rivoluzione epistemologica del freudismo, una rivoluzione che sposta il criterio della verità dei processi secondari (immagine, referenza) verso i processi primari (desiderio, fantasma). Lo spostamento, o lo scarto, è in effetti l’operazione costante di questo discorso che si decostruisce da solo, che progredisce seguendo il movimento di una costante regressione. Lyotard parla persino di “decadenza” per qualificare questo movimento di autodecostruzione del suo proprio discorso: “Il lettore sarà sensibile a una decadenza, nel corso di questa serie di sezioni, tale per cui potrebbe contestare l’incertezza del mio pensiero. Di fatto ciò che declina dalle prime alle ultime righe è l’importanza accordata alla percezione” (p. 47). Di fatto, si è entrati attraverso l’annuncio spettacolare di una “difesa dell’occhio” contro la pretesa discorsiva (p. 38), il ritiro del dire del simbolo a vantaggio del vedere che esso maschera più o meno come l’arte gli domanda (p. 40), e dunque, una volta che la maschera è stata levata, il ritorno 74


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dell’occhio alle cavità stesse del discorso: “Anch’esso […] fa appello all’occhio ed è energetico” (p. 43). Ma, giustamente, trattandosi di energetica, non si può trattare di fermarsi alla superficie discorsiva o visiva, anche all’immagine – cosa che conduce, segnala per esempio Lyotard, all’errore di confinare il figurale poetico nell’immagine, ad assimilare indebitamente l’opera al sogno (p. 355). Il figurale decostruisce tutto, anche l’immagine. Il figurale “non soltanto decostruisce il discorso ma anche la figura in quanto immagine riconoscibile o buona forma. E, al di sotto del figurale, la differenza: non semplicemente la traccia o la presenza-assenza, indifferentemente discorso o figura, ma il processo primario, il principio di disordine, la spinta al godimento” (p. 362). Il fatto più fondamentale qui è che il figurale è dell’ordine della decostruzione, della differenza incessante e di una “dialettica immobile” (p. 48). Se il figurale può dialogare con la filosofia, è su questo terreno delle scelte della modalità di pensiero. Pierre Zima, proprio a proposito della decostruzione, cercandone l’origine tra gli altri in Nietzsche, parla di “dialettica bloccata, […] una dialettica che gira a vuoto, essendo incapace di superare l’antinomia in una sintesi più ricca”; è questo, aggiunge, un punto di vista hegeliano, perché, dal punto di vista nietzschiano, al contrario, “ogni tentativo di sintesi o di Aufhebung appare come un tour de force concepito per camuffare l’arbitrario”.2 Nel corso della sua critica della dialettica, Lyotard nota: “Non si è ancora considerata una difficoltà essenziale a tutto il pensiero dialettico da Hegel, se non da Eraclito e Parmenide, fino a Sartre, relativa alla possibilità del ‘falso’, dell’‘alienato’, dell’‘inerte’, cioè della mutilazione, della reificazione, del blocco del processo, del suo recesso possibile” (p. 63). Si coglie qui tutta la differenza tra il movimento progressivo della dialettica che approda all’Aufhebung come superamento e il movimento regressivo di un pensiero adialettico, risolutamente fermo alle antinomie. 2. P. Zima, La negation esthétique. Le sujet, le beau et le sublime de Mallarmé et Valéry à Adorno et Lyotard, L’Harmattan, Paris 2002, pp. 26-27.

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Questo meccanismo intellettuale della decostruzione è trasposto da Lyotard sul piano generale del poetico e sul piano più particolare del significante visivo. Prende come esempio il rebus che “impone delle forme forti di sovversione allo spazio testuale” (p. 328). Così, per comprendere la significazione di un dato rebus bisogna “che sia decifrato e trasposto nel linguaggio qualcosa che non è in esso”, un’informazione grafica o altro che “stona” col linguaggio primo (p. 332). A proposito delle proposizioni tipografiche destrutturate di Michel Butor, Lyotard parla di “trattamento plastico o figurale dello spazio grafico” (p. 398), di “relazioni […] fra lo spazio figurale e lo spazio testuale” (p. 404) e constata che “l’opera è critica: decostruisce una ‘buona forma’”(p. 406). Allo stesso modo, a proposito dell’anamorfosi in pittura (il teschio degli Ambasciatori di Holbein), egli scrive che “la buona forma della rappresentazione è decostruita dalle forme ‘cattive’” (p. 409); “con l’anamorfosi – aggiunge – è attaccato il significante stesso, che si rovescia sotto i nostri occhi” (p. 409). Quel che colpisce in tutti questi esempi, che rappresentano l’essenziale dell’analisi lyotardiana, è che caratterizzano delle configurazioni in cui lo scarto, o la critica, o la decostruzione, è volontaria. È volontariamente che esse introducono uno scarto nei confronti della “buona forma” supposta e che questo scarto induce a un esercizio antinomico (“l’attenzione fluttuante” cara a Freud) della lettura: “L’occhio cessa così di essere catturato e viene restituito all’esitazione del percorso e del luogo, così come l’opera è restituita alla differenza degli spazi, che è il dualismo dei processi. […] Questa costituzione intrinseca dell’opera la rende affine alla costituzione del discorso dell’analisi: entrambe comportano un’interpretazione” (pp. 409-410). Insomma, il figurale non è affatto una condizione della riconciliazione con il senso. Concerne piuttosto quel che lo fa cedere, quel che lo fa screpolare, e, per questo, reca traccia nel secondario del primario fino a far risalire per recesso il primario alla superficie: “Se il discorso-sintomo è una superficie secondaria abitata dalle tracce di operazioni primarie, l’ascolto fluttuante e la regola fon76


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damentale rovesciano questa relazione, ponendo tale superficie in uno spazio primario che fa eco a tali tracce e in cui potranno manifestarsi. […] Il senso si rivela soltanto incontrando delle significazioni” (p. 412). Oltre all’assioma decostruzionista, Lyotard propone la scommessa di un ribaltamento dei rapporti tra il secondario e il primario, dato che quest’ultimo, invece di restare soggiacente, viene ad abitare l’altro, di modo che l’opera che lo realizza è “una sorta di oggetto transizionale” che trasgredisce la realtà iscrivendovi lo scarto fluttuante dell’immaginario, quello della figura e del testo che, “invece di rinviare il desidero a se stesso, lo appaga e lo perde nella sua ricorrenza infinita” (p. 414). “Questa è la forza che puntella l’opera”, dice ancora Lyotard. “L’opera è al bordo della sua rottura.” L’opera e la sua poetica, come la filosofia soggiacente alla loro teoria, sono quindi poste sotto il segno della decostruzione: “È la decostruzione, lo scarto, la critica che fa la dimensione poetica della figura” (p. 358). Arrivo dunque al surrealismo, perché mi pare che presenti delle caratteristiche interessanti riguardo a questa poetica del figurale, che concerne allo stesso modo sia la poesia propriamente detta, sia le arti visive. Lyotard cita Breton fin dall’inizio, per appoggiare questa “difesa dell’occhio” che è, secondo lui, Discorso, figura: “L’occhio esiste allo stato selvaggio” (p. 38), una frase inaugurale di Le surréalisme et la peinture.3 Lo cita ancora più avanti, per esempio: “Per me, non lo nascondo, la più forte [immagine surrealista] presenta il più alto grado di arbitrarietà”4 (p. 287). Al contrario, strada facendo, prende le distanze di fronte alla pretesa rivoluzione surrealista. Certamente, nel suo corpus include delle “immagini forti” del surrealismo, per esempio: “Nel sonno di Rose Sélavy c’è un nano uscito da un pozzo che di notte viene a mangiare il suo pane”, immagine – come dice Breton – che “ha in se stessa una giustificazione formale 3. A. Breton, Le surréalisme et la peinture, Gallimard, Paris 1965, p. 1. 4. Id., Les manifestes du surréalisme, Sagittaire, Paris 1946, p. 63.

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derisoria”5 (p. 321). Ma, in seguito, dopo avere affermato che la decostruzione è “la dimensione poetica della figura”, aggiunge subito: “Proprio questo era stato compreso dal surrealismo che tuttavia esitava a portare la trasgressione al di fuori del caso 2.31. Nessun attentato alla langue, soltanto deroghe di parole. E, almeno in Breton, soltanto semantiche” (p. 358). Il caso 2.31, nella “tavola ragionata delle follie poetiche”, redatte da Lyotard, è: “2. Deroghe che vertono sulla parola […] 2.3 Livello semantico: 2.31 Livello lessicale: immagini, metafore, paragoni, rassomiglianze di termini molto improbabili: ‘Quelquefois je vois au ciel des plages sans fin couvertes de blanches nations en joie’ (Rimbaud). N.B. Un uso frequente di un gruppo di questo genere finisce per sopprimere il suo carattere di deroga” (pp. 344-345). Tra parentesi, si noterà che, così come Socrate diceva che “sono difficili le cose belle”, si può dire che “difficile è il figurale”. Poche proposizioni artistiche si salvano agli occhi di Lyotard. Infatti, il discorso sul figurale è altrettanto critico e perturbante del figurale. Comporta un aspetto di valutazione tagliente che disturba un po’ nella misura in cui, col susseguirsi dei verdetti, pare si avvicini a un gusto del figurale che sarà allo stesso tempo un disgusto della “buona forma”. Esteticamente, tuttavia, si può pensare che questo atteggiamento rimanga nella linea kantiana, poiché la filosofia della terza Critica, 1) respinge la “buona forma” che conduce al giudizio di perfezione, poiché mette l’immaginazione al servizio dell’intelletto, e 2) preconizza il rovesciamento che, mettendo al contrario l’intelletto al servizio dell’immaginazione, si applica a delle forme, se non brutte, quanto meno relativamente incerte. In Kant oltretutto c’è un gusto estetico che sposta il geometrico (un campo rettangolare di pepe) a favore della forma indeterminabile (la giungla di Sumatra). Fine della parentesi. Ci si può stupire, in ogni modo, che Lyotard dica a proposito 5. Ivi, p. 63.

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di Breton che ci sono soltanto delle deroghe della parole e non della langue, cosa che implica presumibilmente un giudizio di valore, e che non abbia visto in lui nient’altro che degli scarti esclusivamente semantici. La prima restrizione spinge a una discussione un po’ scolastica per sapere se la trasgressione è più potente quando colpisce la langue (per esempio, “la creazione di parole nuove” in Joyce o Jarry) piuttosto che la parole; allo stesso modo in cui non si sa perché l’“oscura chiarezza” di Corneille è classificata da Lyotard dalla parte della langue e non da quella della parole, al contrario delle “rassomiglianze di termini molto improbabili” (esempio di Rimbaud). “Non è questione di gusto”, scrive Lyotard, “è un problema decisivo e non è neppure una questione di ‘arte’. È il problema della funzione critica delle opere” (p. 327). Ma ciò non impedisce che si installi malgrado tutto un gusto del figurale che si richiama al criterio superiore di una “poesia radicale”, quella di Mallarmé evidentemente, campione di tutti i rilanci nella gerarchia artistica – “Mallarmé sottrae radicalmente il linguaggio articolato alla sua funzione prosaica, di comunicazione, rivelandovi invece un potere che lo eccede, il poter essere ‘visto’ e non solo letto-inteso; il potere, quindi, di figurare e non solo di significare” (p. 90); allo stesso modo: “Pertinente invece è la funzione che Mallarmé chiamava critica” (p. 356). Il problema è che la radicalità non può essere eretta a criterio gerarchico del gusto senza attentare all’idea stessa di trasgressione – in questo campo, l’eccezione non deve diventare la regola. Per quanto riguarda la seconda restrizione di Lyotard, basta rileggere l’inizio dell’Amour fou per convincersi che la trasgressione di Breton è tutta sintattica e che colpisce allo stesso modo langue e parole (d’altronde, come può una trasgressione della parole lasciare la langue tale e quale essa si dà nella sua integrità primaria?): “Boys del severo, interpreti anonimi, incatenati e brillanti della spettacolare rivista che per tutta una vita, senza speranza di mutamento, occuperà il teatro mentale, hanno sempre gravitato misteriosamente intorno a me degli esseri teorici, che interpreto come portatori di chiavi: portano le chiavi delle situazioni. Essi detengono, voglio dire, il segreto degli atteggiamenti 79


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più significativi che mi troverò a prendere di fronte a certi eventi inconsueti che mi avranno inseguito col loro segno”.6 Allo stesso tempo bisogna ricordare che per Lyotard il figurale definisce la poetica in generale; l’idea che la poesia è il figurale della prosa caratterizza abbastanza bene la frase di Breton, un affascinante complesso di fluidità e rotture. La trasgressione non è meno pregnante che in Mallarmé, anche se meno visibile, sebbene non sia esplicitata graficamente come nel famoso Coup de dés. Ma allo stesso modo questa figurazione del figurale, volontaria o ostentata, può essere giudicata meno sottile della grafica discretamente dissimulata in un flusso testuale (come il coniglio nascosto nell’albero) e appena rivelata da sincopi asintattiche, da curiose occorrenze simultanee e da sottili telestrutture. D’altronde Lyotard scrive: “La verità che si affaccia nelle opere viene dal di sotto: il desiderio è suo padre” (p. 314). Prendendo in esame un’altra immagine di Breton: “Sul ponte, la rugiada a testa di gatta si cullava”, nota che il ponte di Breton è “quello che la metafora getta fra le parole” (e ricorda, in questa occasione, la didascalia di Nosferatu che affascinava i surrealisti: “Passato il ponte, i fantasmi gli vennero incontro”, pp. 322-323). È perché Breton vanta la “forza allucinatoria”7 della sua immagine che Lyotard evoca un’“interpretazione fenomenologica”: “con l’allucinazione passiamo nell’al di là del sensibile”, ma precisa anche che “l’immagine non ha il suo segreto nell’esperienza dello spazio, è il prodotto di una matrice inconscia che è al di qua di ogni esperienza”. Prendo qui in considerazione il gioco tra l’aldi-là e l’al-di-qua del sensibile. Certo, per Lyotard si tratta soprattutto del recesso che porta al primario: “L’infrazione ha in ogni caso avvio dal processo primario: non deve nulla al gesto creativo di spazi sensibili, tutto alla mobilità del desiderio”. Certo, rifiuta le “filosofie dell’espressione” (p. 323), che cercano il consenso

6. Id., L’amour fou (1937), Gallimard, Paris 1999, p. 7; trad. L’amour fou, Einaudi, Torino 1974, p. 3. 7. Id., Les manifestes du surréalisme, cit., pp. 63-64.

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della significazione contro il dissenso del desiderio; le immagini che gli interessano ci iniziano, non tanto alla “connaturalità con le parole”, ma a “un’estraneità che […] non ci mette in intesa con le parole e le cose bensì in scacco” (p. 323). Tuttavia, il cinema, dato che è stato appena evocato, pone a questo proposito un grande problema. Il rapporto con la parola e l’immagine che l’accompagna (Lyotard vi dedica un lungo discorso) si instaura tra l’arbitrarietà del sistema linguistico e la naturalità dell’habitus del loro uso (tra Saussure e Benveniste). In queste condizioni, si può capire molto bene come l’immagine linguistica possa rientrare nello schema della costruzione. Senza dubbio, lo si può capire anche a proposito dei film lettristi o sperimentali, dove l’impressione di realtà è deliberatamente abbandonata o messa in crisi, mai assunta in quanto tale. Al contrario, nel cinema dell’impressione di realtà, il rapporto con l’immagine è del tutto differente. È quello dell’allucinazione paradossale, “allucinazione – scrive Christian Metz –, dovuta alla tendenza a confondere livelli di realtà distinti, dovuta a un temporaneo fluttuare nel gioco della prova di realtà in quanto funzione dell’Io; allucinazione paradossale perché gli manca quel carattere tipico dell’allucinazione vera e propria, di produzione psichica interamente endogena: il soggetto, invece, ha allucinato ciò che era veramente di fronte a lui, ciò che nello stesso momento egli percepiva effettivamente: le immagini e i suoni del film”.8 Infatti, questo aspetto riguarda ogni sorta di immagine: quella del sogno secondo Freud – “il desiderio onirico viene allucinato, e, in quanto allucinazione, trova il modo di credere alla realtà del proprio appagamento”9 – e quella della pittura secondo Etienne Souriau – “a metà strada tra l’immaginazione pura e la presenza concreta […] un’illusione sollecitata e consentita, un’allucinazione dolce e collettiva”.10 8. C. Metz, Le signifiant imaginaire. Psychanalyse et cinéma, UGE, Paris 1977, p. 126; trad. Cinema e psicanalisi. Il significante immaginario, Marsilio, Venezia 1980, p. 95. 9. S. Freud, Supplemento metapsicologico alla teoria del sogno (1915), in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1980, vol. VIII, p. 96. 10. E. Souriau, La correspondance des arts, Flammarion, Paris 1969, pp. 65, 97.

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Evidentemente, per condividere questa analisi, bisogna accettare di rimettere in gioco l’Io, il secondario, il testo del sogno e la superficie dell’immagine. Lyotard, invece, mette in primo piano il lavoro soggiacente all’opera contro l’opera stabilita, il lavoro del sogno contro il suo testo, pensando in questo modo di essere fedele a Freud, che commenta largamente: il lavoro onirico è “l’essenziale del sogno” (p. 272); “il lavoro onirico non è un linguaggio: è invece l’effetto sul linguaggio della forza esercitata dal figurale (come immagine e forma)” (p. 301). La fenomenologia dell’opera regredisce in secondo piano, mentre ciò che si presume agisca nel profondo dell’inconscio viene in primo piano. La scommessa è rischiosa. D’altronde, si esprime paradossalmente nella metafora, come se il discorso concettuale non avesse altri mezzi al di fuori dell’immagine per far capire questo fatto esorbitante del recesso mosso dal desiderio; come per Platone e Bergson, la filosofia deve ricorrere all’espediente dell’immagine per introdurre nel tessuto concettuale quello che è molto al di qua, al di qua non soltanto del concetto, ma dell’immagine stessa, certamente a essa più vicino, ma ancora troppo simbolicamente approssimativo: “La verità che si affaccia nelle opere viene dal di sotto: il desiderio è suo padre. È una verità che non insegna nulla, non è edificante. Non ci riguarda, non ci si pone di fronte, sorge a lato del luogo atteso. L’inatteso, il rovescio, sono i suoi punti di emergenza. Il desiderio non ha labbra sulle quali leggere ciò che dice. Non ci si presenta, ci elide; conduce il nostro occhio verso il basso, rappresenta; insieme ci perdiamo dall’altro lato del vetro. A meno che, per qualche artificio, il vetro sia trattato in modo da non poterlo disconoscere e il desiderio appagato nelle sue richieste, che noi si sia ripiegati sul movimento stesso di questa spinta che in un primo momento ci gettava sulla scena, e che si abbia infine la forza di mantenerci di fronte a essa con l’occhio vigile. La funzione di verità sarebbe questo trattamento fantasmatico del vetro. Non esattamente specchio” (pp. 314-315). Parlando letteralmente, ora il film non ci offre un vetro nel quale si è invitati a perdersi. Lo schermo mostra bene ciò che vuol dire. Anche nel registro del virtuale ciò che contempliamo è una 82


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superficie su cui agisce il sensibile, opaco. Si vorrebbe passare la mano come negli specchi di Cocteau. È fatica persa. Si resta sempre da un lato del vetro. Commossi, certo, ma al riparo dalla minaccia, come notava Sartre. In queste condizioni in cui il sensibile resiste, la fenomenologia ci insegna che non si è mai realmente al di qua, mai veramente al di là, ma sempre tra i due. Se ci si sofferma sull’opacità dello schermo, non si vedranno che forme a-significanti (quello che forse cerca un certo cinema sperimentale). Se si dimentica totalmente questa opacità, si penserebbe di essere nel reale e ci si perderebbe probabilmente in una dolce follia. Ci si accorge qui della differenza con l’anamorfosi e i suoi “oggetti inquietanti” che “si iscrivono sul vetro dello specchio facendolo vedere invece di attraversarlo in direzione della scena virtuale” (p. 409). Lyotard vi pone la fluttuazione, ma si può certamente situarlo anche nell’alternanza tra l’attenzione all’anamorfosi e l’attenzione alla scena. È questa dualità che ritroviamo al cinema, senza che ci sia bisogno di cambiare posto come nel caso di un dipinto. Il grafico e il rappresentativo sono incollati l’uno all’altro, indiscernibili, ed è il nostro spirito che fluttua tra questi due schemi sovrapposti. Per questo al cinema si prova un piacere dell’inquietante estraneità propriamente filmica. Se dunque si torna alla mia ipotesi di un gusto del figurale, alcuni film usano questa vibrazione normalmente, tranquillamente – è lo “stato di doppia coscienza” di cui parla Morin: “Pur essendo intensamente stregati, posseduti, erotizzati, esaltati, spaventati, amando, soffrendo, godendo, odiando, sappiamo sempre di essere in una poltrona a contemplare uno spettacolo immaginario”11 –, mentre altri vi introducono il granello di sale critico caro a Lyotard, a cominciare dai film sperimentali il cui modo coincide strettamente con l’interpretazione del figurale che procede dal partito preso del significante, dalla sua rivolta contro lo schema della significazione che lo riduce alla trasparenza. Tuttavia, ho 11. E. Morin, “Préface” (1977), in Le cinéma ou l’homme imaginaire (1956), Minuit, Paris 1985, p. XII; trad. Il cinema o l’uomo immaginario, Feltrinelli, Milano 1982, p. 20.

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scartato questo caso per prendere in considerazione lo stadio intermedio del film che fa il gioco della significazione pur introducendovi diversi errori o casi, e dimostrando, in modo discontinuo, e per essere prudenti, l’incontro tra figura e desiderio. Annovero in questa categoria un passaggio di Big Fish di Tim Burton (2003) e un passaggio della Via lattea di Buñuel (1969). 1. Il soggetto del film di Burton è incentrato sul conflitto tra Edward Bloom (Albert Finney) e suo figlio William (Billy Crudup), incredulo del racconto che il padre gli fa sulla sua giovinezza, arricchito di storie meravigliose e di personaggi stravaganti o fantastici (gigante, stregone, lupo mannaro, sorelle siamesi…). Nella sequenza seguente, non è il padre a inventare storie, ma una donna che suo figlio incontra. Edward (Ewan McGregor) è colto da un tremendo temporale mentre è in macchina. All’improvviso, alcuni rami raschiano il parabrezza, mentre in sovrimpressione appaiono delle bolle d’aria. La macchina si ritrova quindi dentro l’acqua, circondata da pesci e una donna nuda nuota attorno a essa. Passando di fronte a un finestrino, posa la mano su quella di Edward attraverso il vetro. Nell’inquadratura successiva lo ritroviamo su un tappeto verde, filmato dal basso sotto dei rami da cui cade dell’acqua. La macchina da presa risale e si vede la macchina sulla cima di un albero. 2. Il film di Buñuel racconta la storia del viaggio di due vagabondi, Pierre e Jean, sulla strada di Santiago de Compostela, nella speranza di riscuotere dell’elemosina. Assistiamo agli strani incontri che fanno lungo il cammino e alle divagazioni teologiche che ne nascono. Giunti in un istituto religioso dove ha luogo un picnic, mentre ascoltano delle giovani ragazze che recitano una specie di catechismo, Jean (Laurent Terzieff) ha alcune visioni sull’arresto del papa, mostrate in alternanza. Il papa è fucilato. Accanto a Jean, un padre di famiglia sussulta. Gli domanda se ha sentito. Jean gli racconta che ha sognato che fucilavano il papa. Una cosa simile, ribatte l’uomo, non la vedrete mai… Quello che deduco da questi due esempi, che giocano il ruolo dell’allucinazione paradossale, è che, attraverso questo espediente, con la collaborazione del significante, ma senza abolire il 84


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significato iconico, che al contrario è molto forte, si avvera la possibilità di produrre l’allucinazione di un paradosso, nel senso di ciò che urta il senso comune, il sapere comune sul mondo. Non più un’allucinazione di un possibile diegetico che si prolunga nell’illusione di un possibile profilmico, come fanno molti film e come fanno del resto in parte i due film citati, ma, al momento, l’allucinazione di un possibile diegetico legato a dei postulati di meraviglioso, che si accompagna visivamente a un impossibile profilmico. Quello che è importante in questi due casi è che il filmico, la messa in scena e il montaggio, oltre che la combinatoria audiovisiva, hanno ciascuno un ruolo nello scarto che questo accesso dà all’impossibile. Questo genere di lavoro del significante, che realizza ironicamente il surreale, introduce nell’iconico la sincope di un’iconicità dell’inverosimile. Evidentemente, si tratta del caso in cui l’ipotesi di un sostrato inconscio al di sotto della configurazione critica non approda alla radicalità dell’eterogeneità rivendicata da Lyotard – “l’eterogeneità radicale del processo inconscio in rapporto a tutte le formazioni secondarie” (p. 394). Per il purista del figurale, ci si trova al compromesso tra l’illusione e la critica. Ma forse proprio per questo il figurale incontra il piacere estetico che, se per Freud è il godimento del gioco tra il principio di piacere e il principio di realtà, per Kant sta tra l’immaginazione e l’intelletto.

Traduzione dal francese di Cristina Baldacci, Antonio Bigini, Maria Vittoria Martini

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Il figurale e il cinema PAOLO BERTETTO

I

l concetto di figurale attraversa variamente la riflessione di Lyotard come un nodo estremamente rilevante che attesta insieme la radicalità della sua opzione antistrutturalistica e antisemiologica e la centralità dell’attenzione all’inconscio e al suo carattere energetico. 1. La figura e il figurale In Discours, figure Lyotard lega la sua teoria del figurale e la sua interpretazione delle immagini di origine inconscia alla riflessione sulla nozione di figura. Secondo Lyotard nella produzione artistica è possibile individuare tre tipi di figura: 1) La figura-immagine, quella che si vede nell’allucinazione o nel sogno, o che presentano un film o un quadro. È un oggetto posto a distanza, un tema: appartiene all’ordine del visibile, è un tracciato rivelatore. 2) La figura-forma, presente nel visibile, visibile essa stessa a rigore, ma in genere non vista. È un tracciato regolatore, la Gestalt di una configurazione, l’architettura di un quadro, lo schema. 3) La figura-matrice, è invisibile per principio. Oggetto di rimozione originaria, subito mischiata al fantasma originario. È figura, non struttura, perché è violazione dell’ordine discorsivo ed è immersa nell’inconscio. Sono concetti che non solo definiscono campi di pertinenza e di funzionamento variamente articolati, ma implicano anche mo86

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di di oggettivazione che vanno dal visibile all’invisibile, e sottolineano anzi la presenza dell’invisibile nel visibile e dell’invisibile nella figura, riprendendo passaggi della riflessione di MerleauPonty. La figura è quindi intesa da Lyotard in opposizione al figurativo e alla figurazione, perché ne costituisce non l’inveramento complesso, ma l’oltrepassamento. D’altronde l’insistenza sulla radicalità aggiuntiva e intensiva della figura è presente anche nella riflessione di Deleuze, che in Francis Bacon. Logique de la sensation oppone nettamente la figura alla figurazione e al figurativo. La figura, infatti, è segnata da una “connivenza radicale con il desiderio”. Questa connivenza ipotizzata da Freud nella Traumdeutung permette di articolare fortemente l’ordine del desiderio e l’ordine del figurale grazie alla categoria della trasgressione. Com’è noto, nel sogno “il testo del preconscio (resti diurni, ricordi) subisce delle modificazioni che lo rendono inconoscibile, illeggibile: in questa illeggibilità la matrice profonda in cui il desiderio è preso trova il suo sbocco. Si esprime in forme disordinate e in immagini allucinatorie”. Per Lyotard l’arte è in ogni modo figura, oltrepassamento della discorsività, espressione, forma, più che struttura, vibrazione del mondo dell’affettività e dell’emozionalità, espressività del profondo in quanto tale, mobilità, trasformabilità. E la figura è lavorata dal figurale, attraversata e dilatata dal figurale che insieme la rafforza e la spinge ad andare oltre. La figura è insieme configurazione formale di elementi visivi, emergenza della visibilità, evento e investimento dell’espressività soggettiva, formazione complessa legata all’antropomorfico. Ma la figura è anche defigurazione, violazione del profilo e dei contorni visibili, relazione con il desiderio e la forza, che la modificano e la alterano radicalmente. La figura è quindi connessa al figurale, è attraversata dal figurale. In Discours, figure Lyotard non dà una definizione netta di figurale, ma piuttosto articola la sua interpretazione lungo un flusso argomentativo complesso che ruota attorno ad alcuni nodi essenziali. La mancata definizione di figurale riflette un modo spe87


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cifico di Lyotard di affrontare l’analisi, la scelta per una interpretazione processuale, dinamica, non chiusa su significazioni univoche, ma aperta invece all’infinitizzazione del senso. Per Lyotard un significante determinato può essere attraversato da più forme del senso, da molteplici passaggi interpretativi. Per Lyotard il senso eccede il significato, tende a definire un meccanismo di funzionamento in cui si aprono emergenze espressive e dinamiche di forze che la significazione non potrebbe contenere. Anche nell’analisi del figurale, Lyotard sembra attenersi a questa idea di un senso processuale, dinamico, aperto. Lyotard in ogni modo oppone l’occhio al logos, l’arte al discorso, e sviluppa una ricerca sull’inconscio, il desiderio, la figura, la parola e l’arte. “La posizione dell’arte è una smentita alla posizione del discorso.” “L’arte è posta nell’alterità in quanto plasticità e desiderio, distesa curva, a fronte dell’invariabilità e della ragione, spazio diacritico. L’arte vuole la figura, la bellezza è figurale, non legata, ritmica. Il vero simbolo dà a pensare, ma innanzitutto si dà alla visione.” “L’occhio è la forza. Fare dell’inconscio un discorso è omettere l’energetica.” Lyotard approfondisce poi la riflessione sul figurale in relazione all’analisi freudiana del lavoro del sogno, e alla sua relazione costitutiva con il desiderio. Com’è noto, nella sua ricerca sul sogno Freud rileva quattro componenti del lavoro del sogno: spostamento, condensazione, considerazione della raffigurabilità e revisione secondaria. Il problema della considerazione della raffigurabilità dei contenuti del sogno è il passaggio per meditare sui modi di produzione di figure (oniriche) da parte dell’inconscio. Nell’orizzonte onirico, ma non solo, l’elaborazione di figure de-figurate invece di figure riconoscibili, di rebus invece di testi discorsivi è il prodotto della forza del desiderio. Qui la figurabilità è pensata come “l’opposto del verbale, e della motricità, del linguaggio e dell’azione”, è il modo di oggettivazione dell’inconscio in una forma che è palesemente all’opposto del linguaggio. Il concetto lyotardiano di figurale riflette un’idea dell’inconscio come macchina produttiva di figure che è ovviamente all’opposto dell’idea di Lacan dell’incon88


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scio in quanto orizzonte strutturato come un linguaggio. Nell’ottica lyotardiana l’inconscio non è strutturato come un linguaggio, ma come una forza figurale che spiazza le leggi del linguaggio. La presenza del figurale ha un carattere dinamico, non è struttura, ma forza, non è concetto, ma flusso connesso al desiderio, non è parola, ma fantasma correlato all’inconscio. Il figurale ha un carattere produttivo e distruttivo al tempo stesso e si presenta come forza dirompente, disgregazione attiva, ma anche come produzione di figure anomale. Il suo campo di azione non è limitato alla produzione del visibile ma investe anche la produzione letteraria e poetica. Tre sono i modi di connivenza della figuralità con il desiderio: trasgressione dell’oggetto, trasgressione della forma, trasgressione dello spazio. L’oggetto è radicalmente trasformato, sottratto alla logica della riproduzione, lavorato dall’inconscio. La forma è oltrepassata nelle sue componenti tradizionali di ordine, armonia, equilibrio, per diventare forza anomala e irregolare. Lo spazio è negato nella sua oggettività prossemica e correlato agli spostamenti e alle dislocazioni libere e arbitrarie dei fantasmi interiori. Così, nella teoria lyotardiana, il figurale è segnato dall’estraneità alla rappresentazione, attiva un rapporto diretto/indiretto con l’inconscio, che prevale sulla razionalità del simbolico e sull’ordine della rappresentazione. Il figurale implica un meccanismo di infinitizzazione dell’eterogeneità dell’inconscio e si configura fuori dell’ordine della rappresentazione. Il figurale è estraneo ai modi della rappresentazione quindi alla imitazione, alla riproduzione e per estensione alle strutture del realismo. Il figurale è quello che nella rappresentazione ci fa capire che c’è qualcosa che non può essere rappresentato, un altro dalla rappresentazione. Il figurale è legato all’irrappresentabile, è qualcosa di irrappresentabile. Il figurale è quindi una concrezione della forza, dell’energetico e del fantasmatico nel film (nel quadro o nel testo letterario), legata prevalentemente all’inconscio e alla sua scena, ma a volte 89


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anche all’eterogeneo. È una concrezione della forza che rende visibile, sensibile quello che altrimenti non lo sarebbe. 2. Il figurale e il cinema La realizzazione di un’immagine figurale implica in ogni modo un lavoro particolare di figurazione/de-figurazione che nella letteratura richiede un intervento nel linguaggio, e nella pittura e nel cinema deve essere realizzata innanzitutto nel visibile e quindi attraverso la configurazione/de-figurazione dell’immagine. Nel cinema questo processo diventa anche combinazione di immagini in una successione anomala di materiali visivo-dinamici dentro una o più inquadrature. Queste tecniche di oggettivazione del figurale nel cinema implicano già una mediazione simbolica o formalizzante, cioè una trasformazione dell’immediatezza del figurale in altro? Invero le molteplici procedure di oggettivazione del figurale nel film sono realizzate attraverso procedure che insieme producono il figurale nella sua visibilità dentro il testo e lo fanno essere nei modi specifici della comunicazione cinematografica. Il figurale è insomma qualcosa che virtualmente è anche prima del film, ma diventa tale dentro il film, come una forza eccedente del film. La caratteristica del figurale è che è dentro e oltre l’immagine, ma esiste come tale proprio dentro l’immagine: non c’è figurale senza immagine (o testo). L’inscrizione del figurale nel film, in ogni modo, si realizza attraverso gesti e procedure differenziate, attive insieme come concretizzazione molteplice del figurale stesso. Questa procedura non va considerata come lo sbocco di un percorso che annulla il figurale attraverso la sua mediazione nel linguaggio, ma come una delle forme attraverso cui il figurale entra nell’orizzonte dell’immagine. Le modalità di produzione del figurale nella letteratura, nelle arti e nel cinema sono in ogni caso differenti, legate alle particolarità strutturali di ogni sistema di segni. Come dice Foucault, “si vede per somiglianza, si parla attraverso la differenza”. Si vede attraverso un meccanismo di riconduzione all’immagine fantasma, formata e consolidata psichicamente. Si parla mediante una meccanismo a scacchiera di variazioni e di contrapposizioni foni90


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che. Nell’immagine il figurale è quello che va contro la rassomiglianza riproduttiva per cogliere una somiglianza con le immagini dell’inconscio, con le scene segrete e profonde. La somiglianza del figurale non è tanto con l’orizzonte fenomenico, ma con la scena inconscia e preconscia e con le immagini che crea il dinamismo del desiderio. Mentre nella letteratura il passaggio del figurale nel linguaggio implica la perdita del desiderio e del suo oggetto, che in ogni modo non erano mai stati posseduti, e si effettua o con l’inscrizione immediata del figurale nel simbolico o con l’inscrizione mediata delle fissazioni figurali nel linguaggio, nel cinema il meccanismo è più complesso e implica una triplice istanza di produzione: a) irruzione dell’immagine e/o delle immagini inconsce, come oggetto o come processo; b) rielaborazione secondaria (sceneggiatura esplicita o implicita e/o storyboard, cioè visualizzazione); c) inscrizione del figurale nella mise en scène. In questo percorso, in ogni modo, il figurale non va considerato come parola, linguaggio, ma come evento, lavoro, proprio come Freud considera non la parola o la testualità ipotetica del sogno, ma il suo lavoro, i suoi contenuti latenti e manifesti. Il fatto è che il figurale è una forza produttiva, è un modo di intervento, è un evento che può operare nel film in modo diverso. Come lavora il figurale nel cinema e quali configurazioni assume dunque? Qual è la sua produttività, e quali le sue oggettivazioni e le sue tracce? Il modo di oggettivazione del figurale è prevalentemente l’irruzione, l’emergenza forte e violenta, che può manifestarsi in modi diversi. Ma il figurale può anche operare attraverso percorsi di disgregazione o di defigurazione intenzionale del tessuto testuale. Grazie a un’analisi delle oggettivazioni del figurale nei film si possono individuare le seguenti tipologie: 1) figurale come processualità, meccanismo produttivo direttamente legato all’inconscio (automatismo scritturale, pittorico e visivo-dinamico, Le retour à la raison, Emak Bakia); 91


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2) come irruzione e fissazione dell’immagine di uno o più fantasmi inconsci (Un chien andalou); 3) come registrazione del delirio vissuto, materializzato nel profilmico o registrato nel verbale puro. È delirio, atto o gesto dissennato, incontrollato, emergenza pura del desiderio, del fantasma che si fa corpo (Flaming Creatures, The Queen of Sheba Meets the Atom Man, l’episodio di Pope Ondine in Chelsea Girls); 4) come produzione mista di immagini ibride, eterogenee, in cui si depositano fantasmi inconsci, figure e motivi di origine diversa. È la produzione di una figuralità impura, ibrida e variamente dissennata (per esempio la sequenza della droga in Easy Rider, Inauguration of the Pleasure Dome, Invocation of My Demon Brother); 5) come rielaborazione intensiva della figura nei modi dell’eccesso, dell’eterogeneità eccedente (A Clockwork Orange, Vinyl). 1. Il figurale come processo produttivo. Il figurale si presenta innanzitutto come un modo di produzione del testo e dell’immagine, caratterizzato dalla oggettivazione del modo di funzionamento della psiche, dalla sospensione delle regole narrative, configurative, spazio-temporali e sintattiche, e dall’affermazione di quell’attitudine che i surrealisti e Breton in particolare hanno definito automatismo o scrittura automatica. La processualità automatica, l’oggettivazione dell’inconscio come macchina creativa, la casualità e l’inscrizione della pulsione nel gesto creativo sono le determinazioni di questo primo modo di attivazione del figurale, che tuttavia qui non ci interessa nelle esperienze della letteratura o della pittura, ma nell’orizzonte dei film. Come rottura dell’ordine del discorso e affermazione dell’automatismo, i primi film di Man Ray sono indubbiamente esemplari. La descrizione effettuata da Man Ray in Self Portrait del loro processo di produzione e soprattutto dell’assemblaggio di Le retour à la raison, sottolinea gli elementi di improvvisazione e di casualità dell’operazione, che Man Ray stesso definisce “cinema automatico”. 92


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2. Il figurale come presentazione dell’immagine inconscia. Il figurale non è solo processo, ma anche immagine, fissazione del fantasma, oggettivazione di figure dell’inconscio. È non solo lavoro (preconscio, inconscio), ma anche prodotto del lavoro. È non solo meccanismo, ma anche immagine attivata dal meccanismo. Un film come Un chien andalou di Buñuel (scritto con Dalì) si configura come un flusso di immagini fantasmatiche di origine prevalentemente inconscia, che si dispongono come figure profonde, oniriche, allucinatorie, deliranti. È un tessuto filmico abitato dalle figure intensive del desiderio, dai modi del fantasma, disseminati come fissazioni apparentemente irrelate, ma filtrate dall’ossessione e dal metodo paranoico-critico, suggerito nella pratica compositiva e insieme teorizzato da Dalì. Il film è quindi un percorso molteplice in cui immagini dell’altro e del sé si intrecciano in una catena fantasmatica infinita: è una concrezione forte e intensiva del figurale. 3. Il figurale come registrazione del delirio vissuto. La registrazione del delirio vissuto e oggettivato in gesti e pratiche comportamentali diverse è un modo di inscrizione diretta nel film di un’alterità irrazionale concretata nel gesto. In quanto mera fotografia di un microvissuto anomalo, di comportamenti anche insensati che rompono gli equilibri quotidiani e psichici, questo modello di figurale sembra ridurre il livello di incidenza della mediazione tecnica e simbolica. Il delirio emerge, si oggettiva, esplode in comportamenti anomali, in prestazioni inattese e anche sgangherate. Il delirio si fa performance incontrollata, mobilizzazione inconsulta del corpo. In Flaming Creatures di Jack Smith e, meno radicalmente, in The Queen of Sheba Meets the Atom Man di Ron Rice, gli attanti si abbandonano all’emergenza delle pulsioni, dei gesti allucinati, si fanno delirio in atto, diventano davanti alla macchina da presa espressioni viventi del delirio. La mdp registra le performance degli attanti, a volte ne potenzia le dinamiche con improvvisi movimenti o con variazioni del modo di visualizzazione. La varietà e la potenziale arbitrarietà della ripresa costituiscono un’integrazione dinamica alla mobilità del delirio. 93


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Anche nell’episodio di Pope Ondine in The Chelsea Girls di Warhol, il delirio di Ondine causato da un’improvvisa carenza di droga, si manifesta in una dissennata performance davanti alla mdp, che riprende il soggetto senza nessuna variazione di distanza o di angolatura e senza nessun successivo intervento di montaggio. 4. Il figurale come immagine ibrida, mista, impura. In altre esperienze filmiche, gli elementi anomali si mescolano con determinazioni più normali, figure allucinatorie e fantasmatiche si intrecciano ad articolazioni micronarrative, variamente elaborate. In Easy Rider di Peter Fonda, nell’episodio dell’uso degli allucinogeni da parte dei due protagonisti con due donne, incontrate a New Orleans, le istanze si intrecciano in modi molteplici. La prevalente narratività del segmento è interrotta e variata da figure allucinatorie, da concrezioni irrazionali, da irruzione di fantasmi. La sequenza del trip in acido è segnata da un coacervo di figure, di emergenze improvvise, che visualizzano il delirio lisergico, ma insieme lo integrano nel tessuto narrativo. Le riprese a 16 mm con la macchina a mano estremamente mobile, il montaggio rapido, il passaggio improvviso da un’inquadratura a un’altra, creano una fluidità allucinata, un’alterazione dell’immagine che è direttamente collegata con il viaggio psichico prodotto dall’ingestione dell’LSD. Le immagini modificate, parzialmente alterate danno il senso dell’allargarsi e del perdersi del soggetto, dell’aprirsi della coscienza all’irruzione delle fissazioni inconsce In Inauguration of the Pleasure Dome, come in Invocation of My Demon Brother, Kenneth Anger evoca un percorso di iniziazione al demoniaco, che è insieme un itinerario rituale e un’avventura psichica. Nel primo film l’affermazione del demoniaco è legata alla realizzazione del piacere, alla costruzione di una cerimonia di trasformazione della soggettività che si conclude in un’orgia mitologica. Nel secondo l’evocazione satanica fa irrompere il figurale attraverso l’ossessività del delirio magico. 5. Il figurale come rielaborazione della figura nei modi dell’eccesso 94


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e dell’eterogeneità eccedente. Questa ulteriore accezione del figurale trova nel caso di A Clockwork Orange (Arancia meccanica) una oggettivazione di particolare rilevanza. A Clockwork Orange è un romanzo e due film. Sia il romanzo di Burgess che i due film di Warhol (Vinyl) e di Kubrick sono concepiti come differenti e convergenti progetti di presentazione dell’ultraviolenza come alterità forte, eterogeneità assoluta, che i film e il romanzo possono proporre solo attraverso l’invenzione di nuovi modi di raccontare o di produrre immagini. I modi di produzione della forza particolare della figuralità sono diversi in Warhol e Kubrick. Innanzitutto l’ibridazione verbale e l’asintattismo di Burgess non vengono minimamente ripresi da Warhol e Kubrick, che puntano all’invenzione di altri modelli di composizione filmica, segnati in ogni modo da una forte anomalia e da una frequentazione intenzionale di configurazioni segniche e formali complesse. I due film sono insiemi di immagini in cui non sembra prevalere un lavoro di trasposizione e di transcodificazione, ma una vera e propria reinvenzione di una traccia, di un suggerimento narrativo. Kubrick elabora la sceneggiatura operando sostanzialmente una subordinazione del tessuto narrativo alle macro-operazioni di rielaborazione visiva e visivocinetica. Warhol, sulla base di una sceneggiatura di Tavel, modifica radicalmente il plot, riduce il romanzo a una suggestione tematica vibrante, trasformando il romanzo nel pretesto di una doppia seduta sadomasochistica. Lo spazio del film diventa un territorio di attraversamenti di forze, di intensità impure, è il luogo del figurale, la sua profondità di superficie, il suo essere simulacro e scena inconscia, presenza e allusività infinita. Insieme, in Vinyl, la mdp e lo spettatore implicito attivano il loro sguardo come un esercizio di voyeurismo palese, in cui la perversione e il sadismo del vedere e dello scrutare si intrecciano con il sadismo speculare oggettivato nella performance del profilmico. Nel film di Warhol il voyeurismo è esaltato nella sua natura ambigua in quanto si esercita su una perversione in atto, diventa la forma di un figurale perverso. Kubrick punta a una produzione del figurale mista, complessa, in cui istanze, procedure e pertinenze diver95


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se confluiscono in un vettore visivo-dinamico del tutto particolare. La messa in scena di Kubrick non è meno debitrice dell’occhio del lavoro di Warhol, ma attiva l’occhio e il suo ruolo in maniera diversa. Il mondo che Kubrick vuole sottolineare non è soltanto una catena narrativa, ma un aggregato complesso di immagini, fantasmi, concrezioni visivo-dinamiche, e quindi di figure. Questa intenzionale volontà di restituire l’ultraviolenza dentro un universo visibile diventa progetto di inscrivere la radicalità come modo dinamico del visibile e quindi come forma figurale. C’è un surplus di forza dell’ultraviolenza che passa solo attraverso il visibile, attraverso la qualità dell’immagine prodotta. La costruzione della forza si basa su agglomerazioni di eterogeneità, intrecci di anomalie. Nulla, nell’universo di A Clockwork Orange, è banalmente rappresentativo, tutto è intensivo, figurale. Ma il figurale dell’ultraviolenza ha anche un’altra valenza, è segno dell’artificiale, moltiplicazione del doppio, oggettivazione che inscrive la contemporaneità nella figura del tempo. Così alla luce delle diverse formazioni assunte e dei diversi modi di emersione e di produzione, il figurale si attesta come un elemento produttivo di disarticolazione dell’ordine della rappresentazione, ed è quindi presente soprattutto nell’avanguardia e nella sperimentazione, ma spesso irrompe anche in testi narrativi, per inscrivervi la forza e l’eterogeneità del fantasma non mediato. In questa duplicità formale e operativa, il figurale afferma la sua natura radicalmente eterodossa, connotandosi come un modo intensivo ulteriore capace di modificarsi e di arricchirsi. E nella molteplicità delle forme assunte il figurale si dà come l’altro e il fantasma che spezzano la norma e allargano le infinite possibilità della creazione. Riferimenti bibliografici D. Andrew, Concepts in Film Theory, Oxford University Press, Oxford-New York 1984. F. Aubral, D. Chateau (a cura di), Figure, figural, L’Harmattan, Paris 2000. 96


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E. Auerbach, “Figura” (1938), in Gesammelte Aufsätze zur romanischen Philologie, Francke, Bern 1967, pp. 55-92; trad. “Figura”, in Studi di Dante, Feltrinelli, Milano 1979, pp. 174-220. G. Deleuze, Francis Bacon. Logique de la sensation, La Différence, Paris 1981; trad. Francis Bacon. La logica della sensazione, Quodlibet, Macerata 1988. C. Eizykman, La jouissance cinéma, UGE, Paris 1976. C. Eizykman, G. Fihman, L’œil de Lyotard de l’acinéma au postmoderne, in AA.VV., A partir de Jean-François Lyotard, L’Harmattan-Université Paris 8, Paris 1999. G. Fihman, En hommage à Jean-François Lyotard, in AA.VV., A partir de Jean-François Lyotard, cit. P. Klee, Form- und Gestaltungslehre, 2 voll., Schwabe, BaselStuttgart 1956, 19702; trad. Teoria della forma e della figurazione, 2 voll., Feltrinelli, Milano 1959, 19702. J.-F. Lyotard, Discours, figure, Klincksieck, Paris 1971; trad. Discorso, figura, Unicopli, Milano 1988. – L’acinéma, “Revue d’esthétique”, numero speciale a cura di D. Noguez, Cinéma: théorie, lectures, 2-4, 1973, pp. 357-369; trad. L’acinema, in questo fascicolo. – Deux métamorphoses du séduisant au cinéma, in M. Olender, J. Sojcher (a cura di), La séduction, Aubier Montaigne, Paris 1980, pp. 93-100; trad. Due metamorfosi del seduttivo al cinema, in questo fascicolo. M. Merleau-Ponty, L’œil et l’esprit, Gallimard, Paris 1964; trad, L’occhio e lo spirito, SE, Milano 1989. D. Rodowick, Reading the Figural, Duke University Press, Durham (N.C.) 2001.

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Estetica pulsionale. Merleau-Ponty con Lyotard RAOUL KIRCHMAYR

1. Il cinema e la cecità della fenomenologia La domanda con cui mi oriento chiama in causa la possibilità di pensare il cinema come filosofia. Proverò a rispondervi solo dopo un breve détour guidato da Merleau-Ponty e Lyotard, due grandi figure che hanno incarnato in modo diverso la funzione e il ruolo del filosofo nel corso del XX secolo pensandone gli snodi fondamentali. Non la formulo con lo stile e il tono classici di un interrogativo sulla pensabilità del cinema o, ancora peggio, sui contenuti filosofici della cosiddetta settima arte, il che ci porrebbe nelle condizioni di declinarla necessariamente nella storia del cinema, nelle tecniche, nei linguaggi ecc. in un compito che appare quanto mai lungo e arduo, e con il rischio della banalità da senso comune da una parte, o con quello di un’esplosione degli oggetti dell’analisi dall’altra. Per economia compio dunque una prima consistente epoché, e con questo svelo il passo e lo stile della domanda, che saranno pertanto fenomenologici. Questo primo passo metodologico mi è necessario per delimitare il campo e mettere in gioco la “cosa stessa” del cinema, la sua Sache, se ce n’è e se mai ce ne sia una sola. La Sache del cinema la chiamo “lo sguardo” che qui scrivo così, tra virgolette, perché non si tratta soltanto di uno sguardo che guarda e percepisce ma, piuttosto, di uno sguardo che deve poter non vedere: la Sache è dunque quella di una cecità che sembra dobbiamo ammettere per poter dire che il cinema pensa. Seguendo brevemente il percorso con cui Lyotard ha preso di98

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stanza rispetto al pensiero di Merleau-Ponty, proviamo a tracciare un percorso che permetta di rimettere in gioco sub specie phenomenologiæ la questione del cinema come esercizio di pensiero, impiegando alcuni riferimenti alle figure della “nuova ontologia” di Il visibile e l’invisibile. Partiamo da una considerazione preliminare e di ordine generale: la fenomenologia è un metodo e uno stile di pensiero che, concepito in modo rigoroso e ortodosso, risulta inadatto a pensare il cinema. Figli dello stesso tempo, hanno scontato una reciproca indifferenza o, nel migliore dei casi, un difficile dialogo. Basterebbe prendere le opere di Husserl e di Heidegger, per esempio, per notare l’illustre assenza del cinema. Troviamo incisioni (il Dürer di Husserl), tele (una Madonna del Raffaello, ancora Husserl; le scarpe di Van Gogh per Heidegger), tutt’al più una foto (ancora Heidegger, che prende bizzarramente come esempio una foto mortuaria nel Kantbuch), ma niente cinema. Occorre aspettare che la fenomenologia si sposti in Francia per incontrare il cinema, ma anche in questo caso è più di un incontro mancato che si deve parlare, quanto meno con la prima generazione: Sartre è folle per il cinema ma evita di trattarlo quando parla en phénoménologue;1 Merleau-Ponty avverte che nel cinema si gioca qualcosa di importante, ma i suoi interessi sono altrove e dunque non lo tematizza, non parla di lungometraggi, non lo descrive (come farà invece, e a lungo, anche lui, con la pittura o quando ricercherà un terreno comune con il linguaggio della letteratura). Neppure Ricœur, così attento ai problemi della transdisciplinarietà e a una certa pratica dell’ibridazione del discorso filosofico, mi risulta abbia mai veramente incontrato il cinema. Dobbiamo dunque aspettare la seconda generazione, quella post-sartriana, e anche in quest’ultima solo alcuni penseranno il cinema e tra questi (si pensi per esempio a Dufrenne) di certo Lyotard è stato il più originale, rivolgendosi al cinema come

1. Soprattutto quando Sartre studia l’immagine, dando poi luogo a una singolare cesura tematica che corrisponde a una forclusione del cinema dal discorso filosofico. Su questo punto mi permetto di rimandare al mio “La cesura dell’immagine”, introduzione a J.-P. Sartre, L’immaginario, Einaudi, Torino 2007, pp. VII-XXXVII.

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messa all’opera del pensiero, se non addirittura di una certa idea di verità. Di fronte a tutti questi autori e ad altrettanti imbarazzi si può osservare, con una certa ampiezza, che tutti questi incontri falliti o nel migliore dei casi riusciti per incomprensione rappresentano altrettante resistenze interne al discorso della filosofia, e dunque della teoria. Come se, a partire dalla fenomenologia, il fenomenocinema facesse resistenza e si sottraesse alla possibilità di essere pensato perlomeno a partire da quella filosofia che aveva fatto del ritorno alle cose stesse il suo manifesto, il suo programma e il suo senso. Come se, tra tutti gli oggetti descrivibili, il cinema di diritto (e quindi di fatto) risultasse per la fenomenologia invisibile. I fenomenologi si sono recati nelle sale cinematografiche, hanno visto i loro film e possiamo anche trovare delle tracce di questa attività, lasciate un po’ qui un po’ là. Perché, dunque, si è trattato di una visione mancata, letteralmente? Sospetto che anche per questa ragione l’unico grande teorico della generazione post-sartriana che si è confrontato con il cinema attribuendogli un’autentica dignità teorica, cioè Gilles Deleuze, scelse di prendere un’altra strada per poter pensare il cinema, risalendo fino a quel bivio filosofico che, avvicinandole, separa le strade di Bergson e di Husserl, due nomi che indicano la via di un pensiero del virtuale, la prima, e la via di un pensiero della percezione, la seconda. Di fatto questo bivio rappresenta una prima grande opzione teorica e spinge a una scelta che Deleuze volle netta: da raffinato stratega quale fu, capì che avrebbe avuto bisogno di una manovra lunga e faticosa per arrivare a correggere il difetto di vista congenito alla fenomenologia: tanto valeva partire da altri presupposti. Occorre ricordare il movimento compiuto da Deleuze perché quello di Lyotard appare simile per esecuzione, mentre sicuramente non lo è nel merito. I due sono accomunati cioè dalla ricerca di un bypass con cui evitare di fermarsi alla tappa denominata “percezione”. Si trattava pertanto di ricusare il primato della percezione sancito dalla fenomenologia, di riconoscere una dimensione dello sguardo precedente quella fenomenologica. Di conseguenza, o si rompeva con la fenomenologia (Deleuze) o si lavo100


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rava per mettere in gioco una nozione più mobile di soggetto (Lyotard). Il soggetto della fenomenologia trova infatti il suo centro nell’Ich kann cosciente e da lì si sporge verso l’opacità delle sintesi passive e dell’intenzionalità fungente, verso la ricchezza inesauribile degli oggetti che la Lebenswelt, il mondo della vita, pone sotto lo sguardo del fenomenologo. È un soggetto osservatore, in primo luogo, e dal suo occhio si dipartono i raggi intenzionali che lo collegano agli oggetti del suo mondo-ambiente. Sia in Deleuze sia in Lyotard, al contrario, la posta in gioco consiste nel cambiare scena e avviare una decostruzione del soggetto metafisico come osservatore puro e per far emergere un differente statuto della soggettività. Entrambi, cioè, hanno cercato di pensare un’altra scena rispetto a quella metafisico-gnoseologica della fenomenologia: qui dobbiamo riconoscere tutta la differenza tra l’uno e l’altro. Mentre Deleuze opera uno scarto secco rispetto alla fenomenologia ma anche rispetto alla psicanalisi, Lyotard parte dalla fenomenologia per giungere fino a uno dei suoi bordi teorici paradossali, quello designato dalla nozione già merleaupontyana di “surriflessione”. Arrivato a quel punto compie il movimento di apertura verso l’economia politica di Marx e la psicanalisi di Freud, che sono potentemente impiegate nei lavori degli anni settanta, tra Discorso, figura e La condizione postmoderna. Il momento della decisione, cioè del taglio e del cambio di scena, si consuma nella critica a Merleau-Ponty contenuta nella prima parte di Discorso, figura. Così, la parola “surriflessione”, che Merleau-Ponty impiegava per descrivere l’accesso allo strato dell’“Essere selvaggio”, viene liberata da Lyotard dalle sue cristallizzazioni riflessive, intellettualistiche e gnoseologiche mediante un’energetica del desiderio. È dunque a partire da questa liberazione che si può ritornare al chiasma merleau-pontyano tra filosofia e arte, per inscenare una surriflessione cinematografica: il pensiero come cinema, ma anche il cinema in quanto pensiero. Detto in altre parole e in un’altra lingua, si tratta di indagare il cinema come messa all’opera del processo primario, non più come ambito in cui compiere indagini sulla coscienza percettiva del movimento. 101


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2. Il contromovimento: da Lyotard a Merleau-Ponty Le piste aperte da Lyotard a partire da Discorso, figura dovrebbero dunque essere nuovamente battute per provare a rimettere in circolazione delle energie teoriche che le sue opere ancora conservano. Non c’è da rivendicare un’ortopedia dello sguardo (e dunque una normalità del vedere) di cui il pensiero di MerleauPonty sarebbe la migliore garanzia teorica. Occorre piuttosto domandarsi se il movimento di scarto compiuto da Lyotard verso il binomio Marx-Freud non abbia segnato, come pare, un arresto dovuto alla congiuntura storica e dunque abbia patito una fin troppo rapida senescenza. Insomma, quella mossa di apertura che nelle intenzioni della generazione post-Sessantotto avrebbe dato respiro al pensiero e avrebbe permesso un rilancio teorico (da giocarsi, non da ultimo, sullo statuto e sul ruolo delle arti nella società tardocapitalista, da cui l’atteggiamento polemico di Lyotard verso la critica estetica francofortese, in particolare ad Adorno, e a una concezione del negativo prigioniera della dialettica), si è chiusa fin troppo rapidamente con lo spegnersi di certe forme di pensiero critico. Di questa stagione, per esempio, certamente La condizione postmoderna rappresenta l’esito più coerente in termini di diagnosi del tardocapitalismo, ma il saggio sancisce anche e contemporaneamente la fine di una stagione. Proporre un passo indietro, dunque, non ha tanto il senso di mettere in discussione dei percorsi filosofici ormai compiuti, quanto di non lasciarsi irretire da un certo discorso giubilatorio che marca le retoriche culturali dell’attualità. In questo senso, il contromovimento verso Merleau-Ponty rappresenta un rallentamento e l’invito a un’indagine rinnovata su uno dei nodi più intricati che la fenomenologia ha lasciato in eredità, cioè quello del vedere. Il Merleau-Ponty che mi interessa non è il raffinato filosofo della Fenomenologia della percezione, ma è l’ultimo, quello imbarcatosi per il mare magnun della “nuova ontologia” alla quale stava lavorando. Il primo ci ha consegnato delle prese di posizione sul cinema che riconoscono a quest’ultimo una specificità, assieme alle altri arti, ma solo in quanto derivata rispetto al carattere fondamentale della percezione. Andiamo al cinema per vede102


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re, sembra dire Merleau-Ponty, e a ciò che vediamo attribuiamo un significato perché il cinema restituisce il senso di un gesto. A conferma di tale posizione filosofica, è sufficiente ritornare al noto saggio Il cinema e la nuova psicologia,2 oppure agli interventi radiofonici del 1947, pubblicati con il titolo Conversazioni, dove Merleau-Ponty prima nota come “il cinema non abbia ancora prodotto molti film che siano davvero opere d’arte”,3 poi riconosce lo specifico del cinema nelle scelte compiute per la realizzazione del film (quelle che Lyotard chiama “esclusioni” e che rappresentano per lui l’aspetto maggiormente critico del cinema), le quali conferiscono al cinema un “ritmo globale”.4 Quindi afferma che il cinema è arte ancora troppo giovane affinché sia possibile alla filosofia pensare al cinema. Merleau-Ponty denuncia così la necessità di un ritardo: c’è ancora troppa luce affinché la nottola filosofica spicchi il volo nella buia sala cinematografica. Con quale conseguenza? Senza dubbio un rimpatrio veloce, ad assicurare il discorso filosofico da una troppo rapida esposizione a quello spettacolo per lo sguardo che è il cinema. Perciò Merleau-Ponty non può concludere diversamente da così: “In futuro come adesso l’esperienza cinematografica non sarà che percezione”.5 Come contraddirlo? Infatti non è possibile farlo. Ma dicendo che il cinema è percezione è più quello che si perde rispetto a quello che si guadagna. Da questa forma di cecità teorica che affligge lo sguardo fenomenologico, il pensiero di Merleau-Ponty continuerà a essere affetto, e l’immagine cinematografica resterà per il suo pensiero in un cono d’ombra. Esito non casuale, ma logica conseguenza di una prudenza filosofica ammirevole che si andava compiendo mediante progressivi approfondimenti, uno scavo ripetuto costantemente secondo l’andamento dell’immer wieder husserliano, non mediante salti di cornice più o meno bruschi. 2. M. Merleau-Ponty, “Il cinema e la nuova psicologia” (1945), in Senso e non senso (1962), il Saggiatore, Milano 2002, pp. 69-83. 3. Id., Conversazioni (1947), SE, Milano 2001, p. 71. 4. Ivi, p. 72. 5. Ibidem.

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Eppure il percorso verso la tematizzazione della differenza tra sguardo e visione, il problema dell’inerenza del soggetto al mondo, il riconoscimento della dimensione della chair, della carne, come modalità della singolarizzazione del soggetto e della sua implicazione nell’Essere, l’apertura dell’ontologia fondamentale alla psicanalisi (è il tema del “narcisismo dell’Essere”) offrono altrettante linee di sviluppo di un discorso sulla natura dello sguardo e del soggetto che può delineare una base teorica consistente per un ripensamento dello sguardo e un conseguente avvicinamento al fenomeno del cinema. In che modo? Rimettendo sulla scena dell’analisi dell’immagine appunto la questione del soggetto, cioè quel problema che Deleuze, volutamente e coerentemente, aveva forcluso per costruire la sua tassonomia del cinema. Insomma, con Merleau-Ponty potremmo ritornare alla domanda “chi guarda, che cosa vede?”, che giustamente Lyotard non aveva espunto dalla proposta teorica di Derive e di Economia libidinale e che, anzi, diventava il punto d’incandescenza della decostruzione dell’immagine cinematografica sub specie economiæ. 3. La domanda – “che cosa vedi lì?” Che cosa vedo, quando guardo un film al cinema? Se seguiamo Lyotard, riferendoci per esempio a L’acinema, posso dire di vedere delle immagini, selezionate, montate, costruite a formare un tutt’uno cui attribuisco un senso. Allo stesso tempo però non vedo più in senso stretto (cioè percettivo), ma proietto sullo schermo dei flussi pulsionali captati dalle immagini in movimento. Il mio sguardo è catturato e, per mezzo della percezione, ha luogo un’operazione di legamento libidico. “La pellicola (per la pittura, la tela) si fa corpo fantasmatico”, dice Lyotard in L’acinema.6 Qui la narrazione cinematografica esprime bene il valore di vincolo performativo per lo spettatore, e in questo consiste il suo potere di seduzione (in particolare nel cinema realistico, che si fonda sulla mimesi rappresentativa e sul primato spazio-temporale 6. J.-F. Lyotard, L’acinema (1973), in questo fascicolo.

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della percezione).7 Lo sguardo percettivo viene così messo al lavoro, esso non smette di vedere, mentre è attivata la proiezione pseudo-onirica di fantasmi sulla superficie dello schermo, secondo un’idea pirotecnica del cinema, cioè come messa in scena di simulacri che contestano l’economia libidinale presupposta dal cinema-rappresentazione. Se l’inconscio è cinematografico (cioè poietico), come avrebbe potuto dire Freud nell’Interpretazione dei sogni parlando del processo primario e secondario, nulla toglie che valga anche l’opposto, e cioè che il cinema sia manifestazione dell’inconscio (cioè sintomo). A questo proposito, a seconda di come viene captato lo sguardo dello spettatore e di come vengano messi in scena i fantasmi inconsci, il cinema può assolvere a due funzioni contrapposte, che sono possibili grazie alla costitutiva ambiguità del fantasma. Si tratta di riconoscere infatti che il cinema può funzionare o come dispositivo ideologico che addomestica lo sguardo imprigionando le pulsioni o, al contrario, come dispositivo che permette di creare delle intensità energetiche e che libera le pulsioni. In breve, c’è un cinema che si inscrive da parte a parte nella logica del capitalismo supportandone la funzione ideologica fondata su un godimento promesso e sempre rinviato. Così, questo cinema, il cinema dell’industria di consumo delle immagini, impiega economicamente il legamento della pulsione scopica mediante l’immagine e dunque educa lo sguardo disciplinando il desiderio. In secondo luogo costruisce l’identità dello spettatore come soggetto passivo dipendente, per il suo impossibile godimento, dalla fruizione consumistica di immagini. In questo modo viene fatta funzionare a pieno regime la promessa di pienezza annunciata dal fantasma quale sostituto del “reale”, una promessa che deve sfociare in un godimento immaginario dell’oggetto desiderato. All’opposto c’è un cinema che si pone come contestazione di questo tipo di funzionamento, mettendo in scena non solo il suo stesso carattere proiettivo-fantasmatico ma contemporaneamente la sua decostruzione: “Il cinema smette impercettibilmente di 7. Cfr. Id., Due metamorfosi del seduttivo al cinema (1980), in questo fascicolo.

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essere una forza dell’ordine: produce dei veri – cioè vani – simulacri, delle intensità di godimento, invece che oggetti consumabili-produttivi”.8 In altre parole, il cinema, quando assolve a una funzione critica, innanzitutto decostruisce se stesso. Quando si colloca nei pressi di quel bordo da cui può distanziarsi da sé e così destituisce da sé la sua pretesa di denotare la realtà, allora il cinema pensa e, dando da vedere, fa pensare. Dalla conferma dello sguardo e dell’identità del soggetto alla loro chiamata in causa, si tratta di un passaggio cruciale verso una forma di esperienza dello sguardo con cui siamo indotti a vedere altrimenti. Ma come si vede altrimenti? Merleau-Ponty aveva riconosciuto l’esigenza filosofica di mettere fuori circuito quello che lui chiamava il soggetto kosmotheoros, cioè un osservatore disincarnato che, dall’alto del suo punto di vista privilegiato, poteva ergersi a puro sguardo teorico. “Pensiero di sorvolo”, lo aveva definito, denunciando la pervasività di un autentico pregiudizio inindagato nel discorso della filosofia. Mettendo in discussione questo soggetto-sguardo attraverso il riconoscimento dell’inerenza del soggetto al mondo oggetto dello sguardo medesimo, si apre un campo di investigazione vecchissimo eppure del tutto nuovo. L’analisi della percezione si rivela insufficiente per sondarne la profondità e l’ampiezza. Difatti, il panorama che Merleau-Ponty descrive nei suoi ultimi scritti è solo apparentemente familiare, ma risulta quanto mai problematico e spaesante. Egli vi scopre infatti che il soggetto e l’oggetto non costituiscono altro che il recto e il verso del medesimo tessuto, una volta che questo si è ripiegato, cioè dispiegato. Se c’è sguardo è perché l’Essere è piega. Fine dell’epoca della rappresentazione e inizio di un’età nuova del pensiero (aperta in anticipo dall’arte). Lo sguardo, dunque, ben lungi dal conservare l’oggetto a distanza come oggetto conosciuto, si scopre intimamente abitato dall’oggetto, captato da esso, perché in esso si riconosce nella sua alterità. L’oggetto non è un corpo opaco che spetta al mio sguardo chiarificare, riconoscendone la forma intelligibile (l’eidos fenomenologico), ma è uno 8. Id., L’acinema, cit.

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specchio nel quale il mio sguardo si riconosce colto in anticipo dallo “sguardo della cosa”. C’è uno sguardo che precede il mio, così come c’è un esistere che precede il mio dire “io”, cioè una dimensione di passività fungente (dunque, paradossalmente, una passività attiva) alla quale accedo mediante un esercizio dello sguardo. Si passa pertanto dalla contemplazione alla captazione, da uno sguardo dell’occhio della mente a uno sguardo incarnato e implicato nel mondo, dal primato della percezione e della teoria alla scoperta di un’altra scena rispetto a quella della conoscenza. Il mondo reale, così, perde la sua configurazione abituale e anche quella “fede percettiva” come Urdoxa su cui aveva insistito l’ultimo Husserl si trasforma in un panorama molto diverso, ancora più sfumato, fatto di ombreggiature, sfumature di colore, gradienti ecc. che tuttavia non è ancora quel paesaggio composto da flussi, canalizzazioni, tensioni, vettori, dinamiche, spostamenti, deviazioni, differenze ecc. che riconosce invece Lyotard. Un paesaggio statico, dominato dalle leggi della prospettiva e dal dominio del “geometrale”, conforme alla concezione cartesiana dello spazio e figlio del potere misuratore-calcolatore della ratio moderna, viene così profondamente modificato dal riconoscimento di un medesimo tessuto ontologico che è visibile/invisibile. Nella visione di Merleau-Ponty, Cézanne non poteva che assumere il ruolo del corifeo di questa rottura dell’ordine ottico-spaziale tradizionale, perché è con Cézanne che abbiamo imparato a vedere altrimenti un oggetto o un paesaggio riconoscendoci in primo luogo spettacolo noi stessi in quanto facenti parte del quadro e non più come osservatori distaccati e a distanza dell’immagine del quadro che a sua volta riproduce un oggetto reale. Le prospettive compossibili di Cézanne, così, preludono a una mobilità dello sguardo che richiede una visione laterale e che denuncia al tempo stesso l’impossibilità di ridurre all’unità della buona forma la molteplicità prospettica. In un certo senso, nelle due dimensioni e nella staticità della pittura, è come se Cézanne ci mostrasse già un pensiero in movimento, una pittura che è già per certi versi cinema, cioè essenzialmente esperienza del tempo. Lyo107


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tard dice chiaramente e giustamente che con Cézanne entriamo nell’epoca della pittura che de-rappresenta: l’oggetto presupposto reale scompare dietro alla potenza di finzione dell’immagine, la quale – a sua volta – pur promettendoci l’oggetto lascia che appaia la stessa indigenza ontologica dello sguardo, sviato, catturato, indirizzato a vedere ciò che non potrà mai più vedere, rimanendo ingannato dall’immagine stessa. Ma ciò è proprio quanto la fenomenologia, credendo di cogliere, perde. “Che la montagna Sainte Victoire cessi di essere un oggetto da vedere per divenire un evento nel campo visivo, è ciò che Cézanne desiderava, che la fenomenologia sperava di comprendere e che io credo che non possa comprendere.”9 Infatti, fuori del quadro non c’è più nessuna “realtà” cui riferirsi. Il cinema – con i suoi procedimenti di selezione, montaggio, costruzione e trattamento dell’immagine – ci permette di vedere altrimenti perché fa funzionare il fantasma producendo non una conferma ideologica della realtà, ma creando in essa “delle cose che non si possono vedere”,10 cioè dei “buchi”11 attraverso i quali si dà quello che Lyotard chiama “il figurale”, più esattamente quella “figura-matrice”12 non vista, né visibile né leggibile, che è la differenza stessa come trasgressione dello spazio figurativo.13 Per potere accedere a quella visione laterale di cui MerleauPonty parla in Il visibile e l’invisibile, e che Lyotard riprende in rapporto alla figura ancora in Discorso, figura, è necessario accecare lo sguardo del soggetto kosmotheoros: si tratta certamente di un’epoché dell’occhio della teoria che lascia emergere l’esperienza del corpo come carne dell’Essere. Così l’epoché come via d’accesso al corpo si configura fin dal principio in termini di accecamento. È in questo senso che Merleau-Ponty parla del chiasma ottico della visione e del punto cieco dato dall’intersezione dei 9. Id., Discorso, figura (1970), Unicopli, Milano 1987, p. 49. 10. Id., A partire da Marx e Freud (1973), Multhipla, Milano 1979, p. 32. 11. Ivi, p. 33. 12. Id., Discorso, figura, cit., p. 310. 13. Ivi, p. 311.

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nervi ottici.14 Dobbiamo imparare a collocarci in questo punto cieco che noi stessi siamo per poter vedere la miriade di sfaccettature dell’Essere senza fissare il movimento irrigidendolo in una rappresentazione e rientrando così nei canoni tradizionali di un sapere dell’oggetto. Non si tratta infatti di un sapere, ma di un’esperienza da compiere e che mette in discussione lo stesso soggetto. Sparendo l’oggetto a vantaggio del simulacro, si eclissa pure il soggetto auto-centratosi nell’Io. Anzi, quest’ultimo si mostra a sua volta come un’immagine, come un effetto di consistenza e di permanenza che si produce proprio a partire dall’esperienza del corpo. Questo passaggio cruciale per la fenomenologia, compiuto dall’ultimo Merleau-Ponty, è però insufficiente per Lyotard. Vi ravvisa infatti un limite intrinseco, consistente nel non avere sovvertito la nozione di soggetto, disfacendosi del soggetto della conoscenza con i suoi macchinari ottici e rappresentativi. Tutt’al più in Merleau-Ponty si assiste a un passaggio dall’Io al Si, da un soggetto personale, funzione teorica fondamentale per la metafisica moderna di cui la fenomenologia sarebbe l’ultima e più raffinata versione, a un soggetto anonimo che precede il primo e così lo fonda. Soggetto anonimo che si scopre appunto mediante l’accecamento dello sguardo cartesiano e la scoperta della dimensione del corpo vissuto, in particolare nel fenomeno della reversibilità vedente/veduto, senziente/sentito, toccante/toccato. Per Lyotard è necessario un ulteriore approfondimento, corrispondente a una radicalizzazione: si tratta di fare un passo fuori dalla fenomenologia come filosofia della coscienza e di riconoscere l’insistere di un Es come centro decentrato dello sguardo e delle pulsioni corporee. Insomma, nella prima parte di Discorso, figura Lyotard muove verso l’apertura della fenomenologia alla psicanalisi, abbandonando di fatto il terreno della coscienza, dello sguardo, della percezione, della buona forma, dell’intenzionalità ecc. per conquistare, al seguito di Freud, quello di un’energetica, 14. M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile (1961), Bompiani, Milano 1995, pp. 242, 260, 280.

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dell’inconscio, delle pulsioni, delle intensità, del corpo ecc. Ciò che Lyotard chiama “recesso” è proprio questa dimensione nascosta che struttura, in quanto campo di forze, il visibile. Il che equivale a dire: Freud prima e dietro Husserl. È in questo senso che Lyotard legittima la sua posizione come decostruzione contro la fenomenologia ma anche di seguito a essa. 4. Il cinema e lo sguardo – Merleau-Ponty con Lyotard Abbiamo visto che per Lyotard il cinema è pensiero quando svolge un’operazione di controtempo nei confronti della produzione fantasmatica e quando è esercizio decostruttivo dello sguardo. In altre parole quando mette in scena i fantasmi che ossessionano l’ideologia e contemporaneamente opera uno scarto (energetico) rispetto alla loro realizzazione onirica. In un certo senso, il cinema funziona come potenza di Eros quando porta alle estreme conseguenze Thanatos, ma facendo in modo che questo non si compia in un godimento mortifero. Ingannando lo sguardo e indirizzando il desiderio, il cinema li può dunque liberare dalla presa della pulsione di morte esercitata dalla macchina capitalistica. Abbiamo accennato alla cecità che Merleau-Ponty postula in Il visibile e l’invisibile e all’emergere di uno sguardo non più soggetto ai vincoli cartesiani della rappresentazione, sguardo senza occhio, ovvero apertura di una dimensione di visibilità che appare fenomenicamente come trama e membratura dell’Essere. Ma questa prima cecità non pare sufficiente a rendere conto dell’inconscio, e qui Lyotard ha indubbiamente buon gioco a mostrare i limiti di Merleau-Ponty. Ma possiamo anche ipotizzare un altro senso di quella cecità, intendendola proprio come apertura alla dimensione inconscia. Questa prospettiva viene elaborata da Lacan nel Seminario XI, in particolare nella sezione dedicata allo sguardo come “oggetto a”, dove ha luogo una vera e propria valorizzazione del lavoro di investigazione del visibile compiuto da Merleau-Ponty. Lacan gli riconosce il merito di avere portato la fenomenologia, come riflessione sulla percezione, alle sue estreme conseguenze. L’opera dell’ultimo Merleau-Ponty, grazie alla 110


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sua collocazione liminare, è “terminale e inaugurale”.15 Da lì Merleau-Ponty compie il passo successivo, consistente nel forzare “i limiti di questa stessa fenomenologia”.16 Non ripercorro né sintetizzo il discorso lungo e articolato che Lacan compie nel suo seminario del 1964, appoggiandosi proprio sull’ultimo MerleauPonty. Basti qui dire che l’ontologia del visibile e dell’invisibile che impegnava Merleau-Ponty prima della morte costituisce lo sfondo da cui Lacan parte per istituire prima la “schisi tra l’occhio e lo sguardo” e per assegnare poi allo sguardo come oggetto investito dalla pulsione scopica (l’objet petit a) la peculiare funzione immaginaria corrispondente alla castrazione sul piano simbolico, a sua volta legata alla freudiana coazione a ripetere (Wiederholungszwang). Lacan disegna così un quadro dove la concatenazione sguardo-castrazione-pulsione di morte, oltre a imbricare le due dimensioni, simbolica e immaginaria, permette di non abbandonare del tutto il piano fenomenologico, ma di collegarlo a quello energetico e pulsionale. In questa prospettiva, auspice Lacan, l’ontologia merleaupontyana dell’immaginario si rivela più ricca di quanto potesse apparire sotto il solo profilo fenomenologico (in chiave, dunque, di lettura ortodossa, quella rifiutata da Lyotard). Il paesaggio filosofico che Merleau-Ponty aveva individuato dovrebbe essere nuovamente attraversato, come del resto afferma Derrida quando, nel suo importante saggio sul disegno intitolato Memorie di cieco, dice che occorre rileggere Il visibile e l’invisibile e il programma filosofico che in nuce si trova in esso.17 Infatti, Derrida enfatizza proprio la funzione svolta dal punctum cæcum nell’ordinare la rappresentazione (e qui abbiamo ancora il primo senso della cecità) e, oltre a questo, lo concepisce come quel punto abissale in cui l’ordine della rappresentazione va in rovina e da cui il nostro sguardo è captato. In altre parole, Derrida mostra 15. J. Lacan, Il seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (1964), Einaudi, Torino 2005, p. 71. 16. Ibidem. 17. J. Derrida, Memorie di cieco. L’autoritratto e altre rovine (1990), Abscondita, Milano 2002, pp. 70-72.

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come l’immagine contesti la rappresentazione nel momento in cui essa mette in scena uno sguardo che mostra la deriva del nostro sguardo di spettatori, trascinato verso la sua stessa morte. In questo senso l’immagine esegue il lutto (perdita della vista, morte) ma rassicura mediante l’istituzione della figura. Secondo questa indicazione, che spinge alla costruzione di mediazioni tra la fenomenologia e la psicanalisi, le pagine di L’acinema appaiono ancora attuali e notevolmente dense. In modo particolare, possiamo individuare due luoghi importanti da far lavorare assieme alle pagine di Il visibile e l’invisibile, di L’occhio e lo spirito e alle Note di lavoro. Il primo è quando Lyotard parla della funzione critica dello schermo come specchio, in un passo che bisognerebbe leggere e mettere in relazione con la funzione del “diaframma” del visibile di cui parla Merleau-Ponty,18 con l’analogo concetto presente in Lacan e con la funzione che egli assegna allo specchio nella sua teoria.19 “Il film agisce, così, come lo specchio ortopedico di cui Lacan ha analizzato, nel 1949, la funzione costitutiva del soggetto immaginario o oggetto a; il fatto che si agisca a livello di corpo sociale non modifica nulla della sua funzione”,20 scrive Lyotard, correggendo però Lacan con un’ulteriore domanda sul problema della dinamica pulsionale, e cioè “perché le pulsioni diffuse sul corpo polimorfo abbiano bisogno di un oggetto nel quale riunirsi”.21 Lo schermo come specchio, dunque, può al contempo permettere e impedire la messa in ordine ideologica delle pulsioni. Così, prosegue Lyotard, “dovremo […] domandarci come e perché la parete speculare in generale, e lo schermo cinematografico in particolare, possa diventare un luogo privilegiato di investimento libidico, perché e come le pulsioni si posino su questa pelle così fine, la pellicola, e, per così dire, lo oppongano a se stesse come luogo della loro iscrizione, e per di più, come il supporto che l’operazione cinematografica, in tutti i suoi aspetti,

18. M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, cit., p. 167. 19. J. Lacan, Il seminario. Libro XI, cit., p. 106. 20. J.-F. Lyotard, L’acinema, cit. 21. Ibidem.

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cancellerà”.22 D’altronde, questo processo di iscrizione mediante l’immaginario, che il cinema compie, chiama in causa non solo l’esame delle tecniche cinematografiche ma anche, e più in generale, la logica dell’iterazione richiesta dall’iscrizione e dunque l’esigenza della ripetizione senza la quale non c’è simulacro. Il secondo luogo che meriterebbe di essere pensato è dunque quello in cui Lyotard insiste sul nesso montaggio-ripetizione in relazione alla pulsione di morte. Qui può essere fatto emergere il nesso tra la cecità dello sguardo, la ripetizione e la morte, che si profila come decisivo per comprendere la funzione critica del cinema e lo scarto da imprimere rispetto a un godimento dell’immagine quale sostituto di realtà. Proprio in conclusione di Discorso, figura Lyotard indicava la necessità di mostrare l’altro lato del rapporto tra la pulsione di morte ed Eros-logos mediante la pluralità di lavori “poetici”, ivi compreso il cinema.23 Inoltre, come dice in L’acinema, se “ogni forma cosiddetta ‘buona’ implica la riapparizione dell’identico, la riconversione della diversità nell’unità identica”,24 allora la potenza del simulacro può perturbare l’ordine dell’unità (della narrazione, del ritmo cinematografico, del significato ecc.) con una sperimentazione del montaggio che non esclude o non surdetermina le dinamiche pulsionali. Nessuna riconduzione all’unità: la ripetizione, cioè, deve poter dare luogo a differenze, non presentarsi come conferma dell’identico. Ancora una volta, dunque, sembra che – come nell’esempio lyotardiano del tableau vivant, con i suoi effetti disorganizzanti sulle pulsioni – occorra introdurre una sospensione del vedere percettivo-rappresentativo e della sua funzione di realtà per poter guadagnare un margine critico. La liberazione del soggetto non potrà che passare attraverso un processo di derealizzazione che è al contempo derappresentazione, e qui la costitutiva ambiguità dell’immaginario pare raddoppiare l’ambiguità di una ripetizione che, da forza di vincolo, può agire pure da forza di slegamento.

22. Ibidem. 23. Cfr. Id., Discorso, figura, cit., p. 396. 24. Id., L’acinema, cit.

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I paradossi della materia tra “presenza” e “immaterialità” PATRIZIA MAGLI

Materia: ciò che resta, non nel senso della sostanza, e resiste, non come l’oggettività. Paradossalmente si trova dal lato della regola […], della misura aleatoria senza di cui nulla sarebbe. Jacques Derrida1

i legge nei verbali delle sedute preparatorie alla mostra Les Immatériaux, tenutasi nel 1985 al Centre Georges Pompidou, che a Jean-François Lyotard, curatore di questa famosa esposizione, il tema inizialmente proposto avesse come oggetto la “materia”. Uno dei titoli suggeriti era: “La materia in tutti i suoi stati”. Come si è arrivati a ciò che, apparentemente, sembrerebbe il suo contrario? Cos’è l’immateriale in relazione alla materia? Se ci atteniamo alle sezioni dell’esposizione, come pure a tutte le note del verbale, alle dichiarazioni, commenti, definizioni e postille contenute nel catalogo della mostra, per “immateriale” si intende una serie di cose diverse, talvolta assai diverse tra loro, ma tutte riconducibili a un denominatore comune: non esiste un’opposizione effettiva tra materia e immateriale, a parte il fatto che uno è un sostantivo e l’altro resta un aggettivo anche se, in certe circostanze, viene sostantivato dalla presenza dell’articolo. “Immatériel”, si legge sul dizionario Petit Robert, è ciò che non è fatto di materia. È ciò che appare privo di spessore. È ciò che è dotato di impalpabilità. Come si vede da questa definizione seppure schematica, esistono due linee guida nell’intendere “immateriale”:

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1. Cfr. J. Derrida, Epreuves d’écriture, in J.-F. Lyotard (a cura di), Les Immatériaux, Centre Georges Pompidou, Paris 1985, vol. II, p. 130; poi in “Révue phénoménologique de la France et de l’étranger”, 2, 1990; trad. Prove di scrittura, “aut aut”, 289-290, 1999, p. 217.

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1) La prima sembrerebbe escludere decisamente la materia. Vedremo come, in realtà, questa accezione di immateriale alluda sia al risultato del processo tecnologico che ha portato alla creazione di nuovi materiali la cui impressione è la smaterializzazione o de-materializzazione; sia a una forma di produzione artistica dove l’immateriale è un effetto di senso, o meglio, un effetto sui sensi. Yves Klein è stato il primo che, alla fine degli anni cinquanta, ha introdotto questo termine nelle arti figurative: “Longue vie à l’immatériel”. 2) La seconda accezione riguarda invece l’esiguità del supporto. Ovvero la possibilità di stoccare il maggior numero possibile di informazioni all’interno del minor spazio possibile. Entrambe queste accezioni segnalano come l’immateriale non sia altro che uno stato della materia. Entrambe sono presenti sia nel catalogo che nei percorsi della mostra. Per quanto riguarda il titolo inizialmente proposto a Lyotard, si trattava, infatti, di una riflessione sul problema del rapporto e della sua rilevanza tra i nuovi materiali e la creazione artistica. In altre parole, si trattava di esplorare le estensioni immateriali delle tecnoscienze. Da qui l’importanza accordata ai mezzi di comunicazione e a tutte le reti di relazioni immateriali, veicoli del senso e di informazione, non ancorati a un supporto estensivamente materico. Nella cultura dell’elettronica degli anni ottanta, era ancora un fatto sconcertante che la materia si potesse condensare in uno spazio ridottissimo. L’esiguità dei supporti faceva riflettere. Ed è interessante notare come Lyotard oscillasse ancora tra una sorta di nostalgica visione di una materia intesa come permanere di una massa e di uno spessore, di una materia intesa come resistenza (sul permanere e il resistere di una materia in quanto substrato sensibile era articolata, infatti, l’esposizione i cui percorsi riflettevano i cinque sensi), e, dall’altra, invece, una rêverie contagiata dalla fascinazione per un’inusitata dimensione di leggerezza della materia, che si muoveva verso la produzione di un effetto immateriale del supporto, operandone talvolta una vera e propria eclisse. Nella mostra e nello stesso catalogo, l’arte appare come luogo privilegiato per la messa in scena di questi diversi stati 115


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della materia;2 appare come il laboratorio dove si sperimentano le infinite potenzialità della materia e dei nuovi materiali, delle loro eventuali espansioni, diramazioni, variazioni, proliferazioni. In realtà, dunque, niente di più materico dell’immateriale. Quest’ultimo altro non sarebbe che il risultato finale di un lungo processo di manipolazione sulla materia. L’immateriale altro non sarebbe che l’effetto di senso prodotto da una particolare articolazione plastica dei testi. Non esiste, infatti, l’immateriale come ontologicamente dato, ma solo l’esito di un processo generativo che si avvale di un insieme di strategie e di mezzi di produzione del testo artistico. In che modo? Innanzitutto il processo di de-materializzazione fa riscorso all’uso di alcuni materiali della trasparenza come il vetro, il plexiglas o la plastica; si avvale, inoltre, di alcuni elementi costitutivi come la luce o il colore, quest’ultimo considerato in alcuni suoi aspetti liminari, all’interno di un processo di emersione e affondamento nell’invisibile, colto nel momento di questo trasmutare. Il processo di rarefazione della materia, la sua miniaturizzazione, a poco a poco ha condotto l’opera d’arte alle soglie dell’invisibile come nelle sculture di Naum Gabo, Robert Ryman, Laszlo Moholy-Nagy, solo per citarne alcuni. Luce, trasparenza, monocromie, aria, spazio sono gli ingredienti per costruire valori di leggerezza fino alla completa sparizione non solo del supporto, ma anche dello stesso oggetto dell’arte, scomparsa manifestata, in modo emblematico, nella scultura di Giacometti, L’oggetto invisibile, che rappresenta una donna le cui mani, a forma di coppa, stringono il vuoto, il nulla. La volatilizzazione della materia3 ha avuto, come corollario, l’importanza attribuita dagli artisti, per tutto il XX secolo, alla nozione di energia.4 In questo senso l’artista è colui che lavora come “Tra-

2. Cfr. il contributo di F. de Mèredieu, in J.-F. Lyotard (a cura di), Les Immatériaux, cit., p. 575. 3. Per riprendere un’espressione di Baudrillard: “La matière s’est différenciée à l’infini, parfois volatilisée”, in J. Baudrillard, J. Nouvel, Les objets singuliers, Calmann-Lévy, Paris 2002, p. 51. 4. La “materia” intesa nel senso della fisica moderna, come fotone, energia.

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sformatore del Campo” per riprendere un’espressione di Lyotard: è un operatore magnetico, un funambolo elettrico come Duchamp che faceva circolare gas ed energia nei pistoni della sua Mariée. La materia occupa un minimo di materia e diventa materia spazio, materia energia, energia siderale. Materia, dunque, non più intesa come massa, estensione, peso, inerzia, ma come onda, energia, corpuscolo. La materia diviene materia concettuale.5 Fotografia, video art, olografia, immagine digitale, sono tutte arti (compresi i new media di cui parla Lev Manovich),6 che partecipano, ciascuna a modo suo, al processo di sublimazione della materia, in entrambe le accezioni: sia per l’esiguità o l’apparente inesistenza del supporto o canale divenuto pura energia; sia come oggetto di rappresentazione attraverso questi supporti o canali.7 In realtà, l’iniziativa di Lyotard, Les Immatériaux, sia come catalogo che come esposizione, si colloca come tappa di un lungo processo iniziato già dai primi del Novecento quando, per la prima volta, era cambiato il modo di considerare la materia, vista come passaggio dall’essere al divenire, dalla sostanza alla forza, dalla massa solida all’energia fluida. Fin dai primi del secolo scorso, infatti, la nozione di “campo” magnetico, di energia dinamica, ha soppiantato ogni concezione troppo statica della materia. Fin da allora ci si interessa alla materia non in quanto insieme di proprietà stabili, ma come insieme di mutazioni dinamiche. Come passaggio ininterrotto da uno stato all’altro.8 Tutto ciò ha comportato un effetto di sparizione del supporto o, meglio, del suo 5. La de-materializzazione dei materiali e la conseguente proliferazione di nuove materie non poteva non produrre effetti collaterali su tutte le arti. Ha contribuito a trasformare forme di concettualizzazione e di razionalizzazione di gran parte della produzione artistica, architettura inclusa. Ciò tuttavia non ha impedito ad alcune forme artistiche più materiche di svilupparsi ugualmente. 6. L. Manovich, The Language of New Media, MIT Press, Cambridge (Mass.) 2001; trad. Il linguaggio dei nuovi media, Olivares, Milano 2002. 7. Si pensi, per esempio, alla rappresentazione degli elementi naturali di Bill Viola visti come puro movimento, dinamismo, volontà. 8. Ciò comporta, dice Florence de Mèredieu, una radicale modificazione nell’ideologia dell’estetica classica. Cfr. il contributo di F. de Mèredieu, in J.-F. Lyotard (a cura di), Les Immatériaux, cit., p. 493.

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substrato materico. Il processo tecnologico ha permesso il concretizzarsi di un’estetica dell’evanescenza dove ciò che conta è l’effimero, l’invisibile, il nascosto, il vuoto, l’assente, il quasi-nulla. Dove ciò che conta è la traccia, la marca o il passaggio dell’evento, traccia che può essere essa stessa invisibile. Secondo questa prospettiva, l’immateriale non riguarda solo un problema di estensione spaziale, ma anche una diversa relazione con la temporalità. L’artista giapponese Shiraga, esponente del movimento Gutai, per esempio, prende come supporto delle sue azioni il ghiaccio, supporto così effimero da essere condannato allo scioglimento. Dell’atto realizzato sul ghiaccio non resterà nulla. Oppure è il caso di artisti come Otto Piene che lavora sul modo di emergere e affondare del “presque rien” e del “déjà-là”. Oppure Gary Hill che lavora ai margini, ai bordi del visibile; si tratta di visioni istantanee: qualcosa appare confuso, si precisa e poi si dissolve. È il “presque rien” di un’immagine liminare, fluttuante, che, nel momento in cui si coglie, è già svanita. Analogamente Klaus Rinke analizza i modi in cui l’immagine emerge alla visione e progressivamente vi si sottrae; il modo in cui ogni traccia materiale si stempera, scolorisce, si dilava, si corrode e infine si dissolve. Vorrei rappresentare, egli dice, l’esiguità di un momento. Oppure Fluxus per i quali l’opera non ha più un “qui” e un “ora”, ma è solo puro evento giocato in maniera ubiquitaria in relazione al tempo e allo spazio. Nel verbale dei lavori preparatori della mostra, si legge che Monsieur Lyotard prevedeva due tipi di catalogo: un catalogo memoria e un catalogo esperienza. Il catalogo-memoria era una sorta di schedatura in grado di rendere conto, passo per passo, del lavoro preparatorio alla manifestazione. Il catalogo-esperienza, invece, era il risultato del lavoro collettivo proposto a una trentina di autori, scrittori, scienziati, artisti, filosofi, linguisti,9 ai quali era assegnato il compito di commentare un lessico ristretto, in tutto cinquanta 9. Nanni Balestrini, Daniel Buren, Michel Butor, Jacques Derrida, Bruno Latour, François Recanati, Pierre Rosenstiehl, Dan Sperber, solo per citarne alcuni.

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parole, sugli immateriali.10 Lo scopo non era ottenere un dizionario inteso come deposito di significazione solidamente consolidata, ma la moltiplicazione dei campi semantici implicati da un termine, secondo una pluralità discordante di definizioni. Una sorta di atelier des divergences. Ciascun autore disponeva di un microcomputer attraverso il quale doveva dare una definizione in poche righe. Gli autori dovevano stare in relazione con tutti gli altri e rispondere, aggiungere, chiosare il testo altrui. Va da sé che il supporto imposto agli autori, al posto dei tradizionali mezzi di scrittura, condizionasse pesantemente il loro modo di scrivere. Lo scopo consisteva, infatti, proprio in questo: nel provare come l’introduzione di una nuova tecnologia comportasse modifiche non solo nella scrittura, ma anche nelle stesse forme del pensiero. Di questo lessico minimo, ma essenziale per delimitare semanticamente il concetto di “immateriale”, alcune voci sono particolarmente interessanti, non solo per comprendere l’allora état de l’art, ma anche le implicazioni che successivamente hanno comportato.11 Lo stesso termine Immatériaux, usato come titolo per l’esposizione, è stato scelto, si legge, perché il senso è inscindibile dal supporto materico. Erroneamente, infatti, si immagina la materia come indipendente dal messaggio che la mette in forma. Erroneamente si immagina la materia come sostanza, realtà, oggettività in sé. Voi dite materia, dice Lyotard, e pensate che questa possa persistere anche quando le si volga le spalle. Ma questa persistenza dipende da un oggetto che, a sua volta, dipende dalla relazione che instaura con un soggetto. “Materiale – egli dice – ciò su cui si inscrive il messaggio, il suo supporto. Resiste. Bisogna saperlo prendere, vincerlo.”12 10. Alcuni dei termini di questo lessico erano: artificiale, confini, corpo, de-materializzazione, desiderio, facciata, flou, immagine, interazione, interfaccia, linguaggio, luce, materia, materiale, madre, matrice, memoria, metamorfosi, naturale/artificiale, protesi, scrittura, spazio, senso, simulazione, soffio, simultaneità, tempo. Una lunga voce, naturalmente, era dedicata all’informatica in relazione alla de-materializzazione. 11. Si tratta delle voci “materia”, “materiale/immateriale”, “de-materializzazione” e “luce”. 12. Cfr. J.-F. Lyotard “Matériel”, in Id. (a cura di), Les Immatériaux, cit., p. 243 sgg.; trad. Materiale, matrice, materiale, materia, maternità, “aut aut”, 289-290, 1999, p. 211 sgg.

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Ed è all’interno di un quadro relazionale tra un soggetto e un oggetto, infatti, che devono essere considerati gli stati della materia, intesi come regimi di osservabilità cui essa è sottoposta. Di qui l’importanza data all’Indiscernibile, alle cosiddette “superfici introvabili”: la percezione della superficie come piano dipende dalla scala di osservazione in cui si colloca uno spettatore. La rappresentazione bidimensionale è dunque convenzionale. In tutte le superfici piane si nasconde il rilievo del suo materiale. L’analisi della rugosità di una superficie cosiddetta piana, il rilievo della sua testura cambia con l’osservazione attraverso un microscopio elettronico. Di qui la proposta di Lyotard (come si legge nel verbale delle riunioni preparatorie al convegno) di prevedere un settore della mostra tutto dedicato alla materia osservata secondo varie tecnologie, dalla materia visibile a occhio nudo fino alla materia in quanto infima parte del visibile, poiché, come egli dichiara, “la materia osservabile è soltanto un’infima parte del visibile”.13 Gli sforzi di de-materializzare la materia, si legge sul catalogo, si accompagnano, necessariamente, ad altre forme di ri-materializzazione: “Pas de soft sans hardware”. Esiste un antico pregiudizio che qualcosa più è immateriale e meno si corrompe, si deteriora: “La matière vivante avec ce destin de putrescibilité qui la suit comme son ombre […]. Périssabilité des choses que la matière tenue ou sophistiquée inquiète par sa fragilité”.14 In realtà niente di più erroneo, si legge sul catalogo: un oggetto di uso quotidiano più è composto di materiale esiguo o leggero, più si deteriora in fretta o passa di moda o si rompe o si corrompe. L’operazione di de-materializzazione non è recente. Già da alcuni millenni si tenta di de-materializzare, si cerca di occupare meno spazio, meno sostanza. Dal geroglifico su steli di porfido, passando per la scrittura su pergamena per giungere alla stampa

13. Ibidem. 14. Cfr. J.-C. Passeron, “Mélanges metaphorico-épistémologiques”, in J.-F. Lyotard (a cura di), Les Immatériaux, cit.

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e alla traccia magnetica, abbiamo moltiplicato i bit al centimetro quadro, ma al contempo abbiamo perduto, per quanto riguarda la durata, l’indistruttibilità del supporto. Il glifo durava millenni, il libro di carta è già più fragile della pergamena, che tuttavia ha resistito secoli, mentre il libro tascabile dura solo qualche decennio, per non parlare dei dischetti che diventano obsoleti nel giro di pochissimi anni. Per quanto concerne la scrittura, la de-materializzazione di questi ultimi decenni non si è limitata alla sostituzione di un supporto con altri meno ingombranti, ma si è spinta oltre, fino all’assenza stessa del corpo, se intendiamo questo termine nella sua accezione più vasta, ovvero come supporto materiale e come fatica fisica, come resistenza della materia alla mano dell’uomo. L’assenza di fatica, nella scrittura elettronica, ha comportato conseguenze nel trattamento degli stessi testi.15 Tuttavia, grazie alla produzione di nuovi materiali, sono cambiati i parametri tradizionali secondo i quali era definita la materia. Questa, dunque, non più vista come sostanza inerte, inintelligibile, passiva di fronte a un soggetto attivo, intenzionalmente orientato. Non più termine ai confini di un’opposizione. Di fronte a una materia-onda, materia-flusso, materia-energia, non hanno più senso opposizioni come quelle tra soggetto/oggetto, corpo/anima, forma/materia, artificiale/naturale, materiale/ spirituale. Si tratta di riposizionare il concetto “materia” all’interno

15. Riguardo la natura del supporto esiste un problema che concerne le pratiche della scrittura. La scrittura elettronica, si sa, si caratterizza proprio per l’assenza del supporto di carta. Questa assenza produce una sorta di gap tra la scrittura mentale e quella manuale su carta. Quest’ultima, infatti, costa fatica fisica nel ricopiare, trascrivere, cancellare, correggere, e poi ri-trascrivere il tutto. Per evitare tutto questo dispendio di energie, nella scrittura su carta gran parte del lavoro avviene nella mente: si riflette prima di scrivere. L’auto-censura mentale che avviene nella scrittura su carta, non si verifica in quella elettronica: si scrive di getto. Scrivendo direttamente sul computer sarà necessario soltanto premere “salva” per metterlo in circolazione e “apri” per richiamarlo alla ri-lettura e alle successive correzioni. Ma una volta premuto il tasto del “salva”, tutto il lavoro di manipolazione, sostituzione, cancellazione ecc. verrà totalmente cancellato senza lasciare traccia. Lo scrittore-artigiano lasciava, sui suoi manoscritti, tutte le tracce delle sue esitazioni, pentimenti, ripensamenti, aggiunte, inserti.

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della filosofia dove ciò che interessa non è tanto l’estensione semantica del termine “materia”, ma il dérapage da un campo all’altro grazie al quale, spirito e materia si trovano entrambi dalla stessa parte: entrambi immateriali. Ma con una differenza. Vediamo quale. La materia, dice Lyotard, non mette in questione lo spirito.16 Essa non ha bisogno di lui: la materia esiste, o meglio insiste, si pone prima della messa in questione e della risposta, “al di fuori” di tutto questo. Ma quando si interroga l’idea di una convergenza naturale tra materia e forma, la posta in gioco delle arti, soprattutto della pittura e della musica, non può essere altro che l’avvicinamento alla materia. Vale a dire l’avvicinamento alla presenza. Sfumatura e timbro sono differenze appena percepibili tra i suoni e i colori che sono d’altronde identici per la determinazione dei loro parametri. Tale differenza, dice Lyotard, può essere ottenuta secondo il modo in cui sono ottenuti – per esempio una nota, a seconda che sia emessa da un violino o da un piano o da un flauto, e lo stesso vale per il colore che sia composto da una tinta a pastello o a olio o ad acquarello. La sfumatura e il timbro sono ciò che differisce, nei due sensi del termine: ciò che fa la differenza tra la nota del piano e quella del flauto, e ciò che differisce nell’identificazione di questa stessa nota. Possiamo determinare un colore o un suono in termini di vibrazione secondo l’altezza, la durata, la frequenza. Ma il timbro e la sfumatura (e i due termini si applicano, come è noto, alla qualità dei colori e anche del suono) sono appunto ciò che si sottrae a questo tipo di determinazione. Se viene sospesa l’attività del paragonare e dell’afferrare, dell’aggressività, del possesso e del negoziato, che sono il regime dello spirito (o meglio, della forma), dice Lyotard, non è forse impossibile rendersi disponibili all’invasione delle sfumature, rendersi permeabili al timbro. Nel minuscolo spazio occupato da una nota o da un colore all’interno del continuum sonoro o cromatico, il timbro o la sfumatura introducono un che di infinito: l’indeterminazione 16. Cfr. J.-F. Lyotard, “Due tipi di astrazione”, in F. Rella (a cura di), Forme e pensiero del moderno, Feltrinelli, Milano 1989, pp. 33, 35.

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delle armonie in seno al contesto determinato da questa identità. Sfumatura e timbro sono ciò che scoraggia e rende disperato il ritaglio netto, e dunque la composizione chiara dei suoni e dei colori in scale graduate e in temperamenti armonici. Secondo questo aspetto, sembrerebbe dunque che l’immateriale di cui parla Lyotard sia assai vicino al suo concetto di figurale. E questo sembrerebbe autorizzarci ad azzardare un’ipotesi: l’immateriale starebbe alla materia così come il figurale sta al figurativo. Più che una sorta di riduzione, di semplificazione, di un processo astrattivo del supporto materico, l’immateriale apparirebbe piuttosto come un livello profondo, immanente alla manifestazione. Sarebbe indeterminato perché colto a uno stadio ancora virtuale, germinativo. In questo senso è tutto ciò che è inteso come esitazione, vibrazione, ondulazione, leggera traccia o piega o increspatura della materia che ancora non si è definita in una forma determinata. Del resto, questa visione è realizzata anche nei vari percorsi della mostra: Ombra dell’ombra, Traccia della traccia, Luce oscura, Odore dipinto, Impressione di Aromi, Profondità simulata. Questo aspetto dell’immateriale è particolarmente visibile, nel mondo dell’arte, grazie al ruolo giocato dalla luce. Si produce un effetto-immateriale quando questa investe la materia cancellandone ogni dimensione testurale; oppure quando la abita, corrodendola dall’interno, sgranandola, volatilizzandola. È questa la funzione della pittura luminescente nell’esposizione, Les Immatériaux: l’incursione di un neon che fa vacillare il minimalismo delle strutture di acciaio. Oppure la luce quando lavora sui contorni di un oggetto. Diluendo, stemperando, sfaldando i contorni, la luce annulla l’effetto di materialità delle opere. Ne attenua l’effetto di presenza fisica. In questa operazione è la forma, la dimensione eidetica dell’oggetto artistico, che si dissolve in un alone luminoso, vago, sfumato. È così che ha iniziato Dan Flavin. In un primo tempo si limitava a fissare dei tubi fluorescenti intorno alle tele che poi, poco a poco, ha abbandonato per lavorare unicamente con i neon. A partire da questo momento la luce non si 123


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limita solo a smaterializzare l’opera, non è più solo un operatore di controllo, è essa stessa oggetto dell’arte. In questa operazione accade che la materia si de-materializzi mentre la luce si sostanzi. La luce diventa il soggetto della pittura e anche il mezzo, lo strumento. Di qui la presenza di opere sul tema della luce, fatte di luce. Vertigine dell’auto-referenza: la materia, ovvero il soggetto dell’opera, è il suo stesso materiale. Di qui l’impiego non solo dei neon, ma anche delle membrane traslucide nell’esposizione. Si trattava di pannelli velati, lenzuoli, tende o superfici di vetro opacizzato che si impregnano della luce captata da una fonte di emissione, per restituirla quasi fosse un irraggiamento proveniente dalla superficie stessa. L’irraggiamento sembra dunque emanare dalla stessa materia della superficie. Tale assetto della circolazione della luce implica un potenziamento dell’illuminazione; quest’ultima, infatti, viene “messa in memoria” nella materia. Ogni figura che appare davanti o dietro questo tipo di “schermo” è ridotta all’indeterminatezza, all’anonimia. Gli schermi traslucidi funzionano come un filtro plastico e figurativo: selezionano solo alcune proprietà degli oggetti che si frappongono tra loro e gli osservatori; ne eliminano il colore, il rilievo, i modellati. Lasciano trapelare solo i contorni delle sagome come, ancora, nelle installazioni di Dan Flavin, dove i visitatori sono trasformati in silhouettes, in ombre cinesi. Si tratta di un processo di de-personalizzazione degli spettatori, ridotti al puro contorno del loro involucro, a un’impronta fugace sulla membrana traslucida. Nel lungo corridoio verso la notte di Gary Hill, su queste membrane, affiorano fugaci le impronte di persone. La capacità di questi schermi di trattenere e stoccare una luce per poi restituirla progressivamente, ci fa credere, infine, di essere di fronte a una luce incarnata, se così possiamo dire. La luce resta prigioniera nella “carne” del supporto. Questi supporti immateriali, di fatto, si costituiscono come flessibili frontiere che connettono e separano a un tempo, creando, a livello narrativo, uno stato di sospensione: né disgiunzione, né congiunzione con l’oggetto della visione. Sono schermi traslucidi che connettono per la loro trasparenza, ma disgiungono per la loro opacità. Figu124


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re ondulanti e fluide della frontiera mentale, sono, per dirla con le parole di Greimas nell’Imperfezione, una sorta di “écran du paraître dont la vertu consiste à entrouvrir, à laisser entrevoir, grâce ou à cause de son imperfection, comme une possibilité d’outresens. Les humeurs du sujet retrouvent alors l’immanence du sensible”.17 L’immateriale, in quanto “immanenza” del sensibile, può essere allora considerato come una sorta di foyer fondatore della visione stessa. Le modulazioni aspettuali che lo accompagnano come “intravedere”, “imperfezione della visione”, “sfumato”, “contorni imprecisi” designano lo spazio di un potenziale di attrazione che tiene, sotto la sua dipendenza, i sensi in divenire della visione. Concludendo potremmo quindi dire che l’immateriale è non solo un effetto di senso, o meglio, un’illusione dei sensi in quanto risultato di un sofisticato processo di manipolazione sulla materia, ma è soprattutto uno stato aurorale della visione stessa e dei suoi possibili divenire. In quanto tale, l’immateriale è forza dinamica, centro di energia, in una parola: “spirito”.

17. A.J. Greimas, De l’imperfection, Pierre Fanlac, Périgueux 1987, p. 77.

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“Questo è il mio corpo”. Operatività del segno tra Jean-François Lyotard e Louis Marin TIZIANA MIGLIORE

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el 1975, all’uscita di un grande libro di Louis Marin, La critique du discours. Sur la logique de Port-Royal et “Les Pensées” de Pascal, Lyotard scrive su “Critique” una recensione, dal titolo Que le signe est hostie, et l’inverse; et comment s’en débarrasser, che a nostro avviso apre il dibattito (1) sulla storia della filosofia del segno nel suo funzionamento e (2) sul ruolo centrale che occupa, per la sua costituzione, una critica verace perché analitica. Nella teoria portorealista, soprattutto per Antoine Arnauld e Pierre Nicole, autori della quinta edizione della Logica di Port-Royal (1683), l’Eucaristia è solo un esempio particolare, un’illustrazione, un’occorrenza tra le altre, per spiegare il modo in cui si produce il segno. In quelle date la polemica con i ministri protestanti, fondata sul sacramento eucaristico e sul mistero della transustanziazione, esigeva di affrontare il problema del segno e del linguaggio e i logici lo fanno, ma per una circostanza storica contingente – sostiene Marin (1975) – e in maniera obliqua, solo confermando, con questo esempio, l’idea della Parola in quanto rappresentazione. Con loro il segno resta il costituente minimale della frase grammaticale, della proposizione logica intesa come un rispecchiamento segnico della realtà. E non fa differenza l’enunciato Hoc est corpus meum, che i portorealisti riconducono comunque a regole di classificazione prestabilite. 126

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Sulla scia di Michel Foucault (1966),1 Marin smonta minuziosamente il modello di rappresentazione all’opera nella Logica di Port-Royal e a detta di Lyotard (1975) fa decadere un sistema fondato sulla fiducia nell’essenza delle cose. Nel prendere in causa l’enunciato cattolico, la tesi dell’opposizione tra parole e cose, l’idea che l’ordine della ragione escluda il linguaggio e i segni stessi come problema logico-filosofico diventano pane per i denti di Marin. Come ipotizzare, infatti, che possa restare ancorata alle logiche della struttura proposizionale una Parola trasformatrice? Parola che ha trasformato e trasforma ancora oggi ritualmente, nell’istituzione ecclesiastica, prodotti di consumo materiale in beni spirituali. Ma anche Parola che continua a trasformare se stessa nel soggetto della sua enunciazione, in corpo e sangue consumabili. L’enunciato sacramentale nell’Eucaristia è il momento in cui i segni cessano di essere rappresentazione per diventare forze. Qui comincia il gioco delle figure: quelle che l’esegeta interpreta, quelle di cui la retorica formula le regole: a partire dall’eloquenza, uso sacrale del linguaggio, fino alla comprensione delle Scritture, uso retorico della Parola Divina. Lyotard (1975, p. 1111) insiste nell’affermare che Marin restituisce all’enunciato eucaristico il posto centrale che gli spetta. Non si tratta di un caso particolare di applicazione, ma del luogo vero e proprio di produzione del modello del segno. “Questo è il mio corpo” lega, attorno all’asse unico del linguaggio, segno figurativo, segno verbale e simbolo consacrato, è il punto di incrocio in cui teologia e linguistica si invertono l’una nell’altra, perché lì la Parola diventa trasformatrice e creatrice dell’Essere. Nelle pagine della recensione al libro si sottolinea la maniera in cui il filosofo dell’arte porta avanti la sua critica. Marin confida –

1. “I grammatici di Port-Royal dicevano che il senso del verbo essere era di affermare […]. Ma affermare un’idea, equivale a enunciarne l’esistenza? […]. Condillac può far notare che l’esistenza può venir tolta alle cose, in quanto essa è solo un attributo, e che il verbo può affermare sia la morte sia l’esistenza” (Foucault 1966, pp. 111-112). Restano da indagare i rapporti tra le riflessioni compiute da Foucault (1966; 1969) sulla Grammatica generale e il saggio del 1973 Questo non è una pipa dedicato all’opera di René Magritte.

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scrive Lyotard (1975, p. 1115) – nel potere della diffidenza, diffida dei segni, dei dati prodotti dalla Logica. Un conto è la critica storica, che fornisce documenti, un conto è la critica che, a motivo dei problemi sollevati dall’erudizione, non mira più alla ricostruzione del testo, ma rileva le crepe del sistema e opera un rovesciamento dei contenuti. L’atteggiamento è forse marxista, ma non è certo, come in Barthes, votato a restituire al linguaggio una sua neutralità, una verità nuda. Per Marin opacizzazione e diafanizzazione sono effetti di senso elaborati all’interno del linguaggio per creare forme di transitività e/o di riflessività legate a un far-sapere. Ora, però, come fa lo studioso a dimostrare che la Logica ha occultato l’affermazione teologica? Innanzitutto, ed è il suo modus operandi in generale, si serve della pratica del discorso, non esce mai dal testo. Marin considera punto di partenza della sua ricerca le teorie sulla traduzione della Bibbia a Port-Royal. Si sa che i logici hanno tradotto le Scritture e la traducibilità di un testo ispirato da Dio pone non pochi problemi. Marin (1975, p. 12) intuisce che proprio le discussioni sul modello di traduzione ideale fanno emergere le diverse concezioni sulla rappresentazione. Riferendosi al lavoro dei portorealisti, il filosofo afferma che l’analisi non è mai una semplice descrizione, ma una regolazione efficace effettuata per modificare il modello. Così si accorge che se per alcuni (Arnauld) bisognava mirare alla chiarezza, per altri (Martin de Barcos, in una serie di lettere a Lemaistre de Sacy)2 occorreva preservare l’esattezza oscura, l’oscurità inerente alla Parola che si sottrae presentandosi. In secondo luogo Marin lavora sulle edizioni successive della Logica e usa Pascal come un antitesto. Le citazioni di passi tratti dai Pensieri (1670) presenti nella Logica sono per Marin come dei dettagli che provocano aperture impreviste e multiple di senso. Lo suggeriva lo stesso matematico, che con Epitteto e Montaigne condivideva la passione per “il

2. Correspondance de Martin de Barcos, abbé de Saint-Cyran, avec les abbesses de PortRoyal et les principaux personnages du groupe janséniste (1656), a cura di L. Goldmann, PUF, Paris 1956.

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modo di scrivere di Salomon de Tultie, il più proficuo, quello che si insinua meglio, che resta più impresso nella memoria e si lascia citare di più” (Pascal 1670, 18 bis). Infine, proprio perché compiuta dall’interno del discorso, e non a partire dalla concezione di una verità ontologica, la critica di Marin, come quella pascaliana, ricorre all’arma dell’astuzia, della quale sono complici l’ironia e l’humour. La prima si applica soprattutto all’ambito della Corte. Con l’ironia, infatti, il filosofo francese (Pascal 1670, 57) volge in derisione tutte le leggi e mostra che, contrariamente a quanto accade nel sistema ecclesiastico, nell’istituzione monarchica il re pronuncia parole suscettibili di produrre ricchezze materiali. C’è inoltre una reciprocità trasformatrice tra il linguaggio dell’adulazione e il denaro, i cui due poli sono la cortigiana e il re. Se l’ironia consiste in una nullificazione delle significazioni, l’humour mantiene vive le tensioni infiltrandosi dove può, anche rendendosi inappropriato.3 Per l’ironia c’è una distanza buona da mantenere, ma che va tenuta nascosta; l’humour, invece, non pensa che ci siano angolazioni migliori delle altre. Nella cornice della critica pascaliana, che consiste, come si sa, nel mettere in movimento il punto di vista fisso della rappresentazione – “una città, una campagna, da lontano, sono una città e una campagna; ma quanto più ci avviciniamo, sono case, alberi, tegole, foglie, erbe, formiche, zampe di formiche, all’infinito. Tutto questo viene compreso sotto il nome di campagna” (Pascal 1670, 155) –, l’astuzia della verità consiste forse nel fare dell’Eucaristia il momento in cui la potenza infinita della differenza trova la sua dimora. Gesù, diventando mangiabile attraverso un piccolo pezzo di pane, è un punto che si muove dappertutto a una velocità infinita. Tutto intero e in ogni luogo. La teologia eucaristica trattata nella Logica di Port-Royal costituisce un capitolo a sé nella storia della teoria semiotica. Ne abbiamo conferma, in Marin, nel saggio La parole mangée ou le corps divin saisi par les signes (1986) e quindi in una raccolta di

3. Cfr., a questo proposito, anche Lyotard (1977).

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scritti postuma curata, tra gli altri, da Daniel Arasse, Danièle Cohn e Giovanni Careri (1997). Filosofia dell’arte e semiotica si trovano insieme a ragionare su una questione fondamentale, che è: come avere l’essere? Come appropriarsene a distanza? La risposta cui tanto Marin quanto Lyotard giungono è che la sola maniera che ha l’Essere di darsi è ritirarsi. Ma cosa vuol dire che l’Essere si ritira? O come accade concretamente l’innesco di una metafisica della presenza? Lyotard si era occupato del problema già in Discorso, figura (1971), nel capitolo sul segno linguistico. Qui aveva dichiarato che il linguaggio non è fatto di segni, ma dell’uso che il soggetto fa, nell’atto di parola, di questi segni. Impossibile pensarlo come un sistema chiuso, perché vive invece nelle forme di attivazione e di dinamizzazione garantite dal parlante. Conta dunque l’atto di parola e non la corrispondenza, punto per punto, tra un segno e ciò a cui rinvia. Contro l’inscrizione di segni arbitrari in uno spazio neutralizzato – continua Lyotard – si costituisce uno spazio spesso, dove può elaborarsi il gioco tra mostrare e nascondere. È questa la metafisica della presenza, in cui la mediazione tra significante e significato è ricercata dalla parte del corpo e ottenuta dentro una ritmica. Ecco perché poi, nella recensione a La critique du discours, Lyotard definirà Marin “semiologo di gran talento” (1975, p. 1112). Marin è colui il quale, descrivendo con cura la ritmica della transustanziazione, scuote la semiotica nelle sue pretese a una scientificità sobria e mostra le sincopi, i bianchi, i momenti in cui una stessa cosa è al contempo figurante e figurata, può nascondere come cosa ciò che rivela in quanto segno e quindi essere insieme cosa e segno (doppio status). In quello che Lyotard (1975, p. 1113) chiama “l’impero del teatro semiotico sotto il nome di Cristo”, il pane e il vino, una volta consacrati, sono il corpo e il sangue senza esserlo; il corpo e il sangue, assenti, sono d’altra parte visibilmente il pane e il vino sull’altare. La forma nella sua apparenza rimane la stessa – pane e vino – ma si trasforma nella sua più intima sostanza e negli effetti simbolici e reali che produce in chi la assimila. Dentro la metafisica della visibilità si compie un destino ideo130


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logico. Ciò è possibile grazie alla struttura di un segreto, che secerne una presenza e che costituisce tutta la realtà della sua presenza. Questa struttura resta linguistica ed è legata, da un lato, a una teoria dell’enunciazione nel discorso, dall’altro, a una teoria degli effetti di senso: persuasione, credenza e istituzionalizzazione della credenza. Per Marin il discorso puntuale di Cristo diventa il rito fondatore della comunità universale e realizza un accordo perfetto tra ragione e fede. Rileggiamo il passo del Nuovo Testamento, tratto in questo caso dalla Lettera di San Paolo ai Corinzi (11, 23-26), che contiene la versione più vicina a quella adottata oggi nella Liturgia. I racconti evangelici di Matteo, di Marco e di Luca presentano in proposito alcune sottili ma interessanti differenze, di cui ci occuperemo in seguito: Nella notte in cui fu tradito, il Signore Gesù prese il pane, fece la preghiera di ringraziamento, spezzò il pane e disse: “Questo è il mio corpo che è dato per voi. Fate questo in memoria di me”. Poi, dopo aver cenato, fece lo stesso col calice. Lo prese e disse: “Questo calice è la nuova alleanza che Dio stabilisce per mezzo del mio sangue. Tutte le volte che ne berrete, fate questo in memoria di me”. Infatti, ogni volta che mangiate di questo pane e bevete da questo calice, voi annunziate la morte del Signore, fino a quando Egli ritornerà. Quello che principalmente colpisce Lyotard nella trattazione del segno eucaristico compiuta da Marin è la coalescenza, la sostituibilità tra cosa e segno. La sostituzione tra segno e referente è per Marin (1975, p. 64) non il fantasma di un’unità originale, ma la semplice forma di un’altra presenza. La scissione deve animare, con la sua differenza, la presenza. E la dinamica può essere doppia: la cosa può sostituirsi al segno che la significa o il segno può sostituirsi all’oggetto cui dà significato. Nel primo caso il segno svanisce a vantaggio dell’oggetto che permette di comunicare o di scambiare; è il segno linguistico, mai percepito in quanto tale ma attraversato, diafano, che dissipa le opacità. Inversamente ci sono casi – il trompe-l’œil, per esempio – in cui l’oggetto si svuota 131


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a profitto del segno che lo rappresenta: si gonfia nella sua sostanza, diventa un medium tra l’occhio e l’oggetto. Nell’atto eucaristico si ha opacità della cosa e materialità, sopravvenienza dell’immagine, sintomo e figura della cosa significata per metafora e per metonimia. Sussiste l’immagine del pane e la pratica della manducazione. Il confronto che Lyotard (1975, p. 1116) stabilisce con la critica marxista del capitale – la merce cessa di essere una rappresentazione per diventare forza-lavoro, il cui prodotto è il capitale – fa risaltare il doppio aspetto del segno: come oggetto e come operazione. Il segno eccita, suscita: è allo stesso tempo il prodotto di un funzionamento e ciò che lo innesca, che attiva il transfert, il trasporto. L’Eucaristia è in generale alla frontiera delle tre classi sotto cui può essere considerato un segno: come pane e vino appartiene alla natura, come corpo e sangue rileva del soprannaturale, come parola trasformante e autotrasformante rinvia al dominio dell’istituzione. È però anche il momento in cui l’opposizione categoriale si annulla. Lyotard (1975, p. 1124) sintetizza la buona analisi di Marin dell’enunciato cattolico affermando: “Si è prodotta una differenza nel giorno in cui, in stato di peccato, abbiamo mangiato l’ostia alla tavola santa. I denti masticano il metalinguaggio e il metasilenzio del cuore”. Cosa vuol dire? Il primo passo compiuto da Marin (1986) nella descrizione dell’enunciato cattolico è far vedere che sono presenti tre modalità enunciative, interrelate: la rappresentazione narrativa, il discorso assertivo e il discorso prescrittivo. L’efficacia del brano consiste cioè nel recitare un racconto, nel ripetere un discorso e nel riprodurre una legge. Marca del segreto eucaristico è l’enunciato pronunciato che ne riprende uno più antico, quello relativo al sacrificio dell’agnello. L’immolazione di Cristo è il termine ultimo di una serie temporale, ma anche e soprattutto il principio di intelligibilità della serie, il suo senso primo e originario. La causa è posteriore all’effetto che la produce analogicamente. E veniamo finalmente all’analisi dell’enunciato cattolico, Hoc est corpus meum. Marin compie una descrizione dettagliata e si sofferma su ogni singolo termine e sul rapporto che li lega. Cristo 132


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esordisce con un pronome dimostrativo e neutro, hoc, considerato dal filosofo dell’arte una parola vuota in cui avviene il senso. Questo, infatti, inaugura una possibilità di nominare che può essere effettuata diversamente. In una prosa a forte carica attrattiva, Marin afferma che i pronomi sono segni separati dalle cose di cui sono segni non in quanto semplici rimpiazzamenti, ma come furti, sottrazioni del significato sopperito. Tale aspetto trasforma la rappresentazione distinta in un sentimento confuso e apre una fessura nelle equivalenze rappresentative. La cosa, attraverso il pronome, è riempita non di materia, bensì di evanescenza. È un interdetto, non sopprime ma sottrae. Essendo poi un deittico, hoc dà luogo simultaneamente al gioco dell’intersoggettività, alla funzione gestuale della designazione e all’atto di ostensione. Risalta l’emergenza del corpo nel funzionamento del linguaggio. Anzi, afferma Marin, si crea una strana relazione tra la funzione del corpo detta oralità e i suoi organi, da un lato, e la funzione del linguaggio nelle sue due dimensioni, orale e scritta, dall’altro. Nel contesto del discorso eucaristico questo si trova tra due strati significanti: riceve le determinazioni distinte del “pane” – ciò che viene indicato – e quelle del “mio corpo” – ciò che viene significato. L’atto di parola attribuisce a un deittico, con un’affermazione ontologica, un predicato che non è altro che lo stesso soggetto di enunciazione. Lo segue est, parola troppo densa – scrive Marin – in cui la nudità dell’affermazione pura è allo stesso tempo rappresentazione e trasformazione delle cose. Est cancella l’indicale e lascia il posto a un linguaggio che rappresenta le cose. Ma le trasforma anche. Dal discorso emerge un soggetto di enunciazione che parla al presente e usa un verbo che ha una tripartizione precisa: concepire-giudicare-affermare. Da quel momento il pane diventa obiettivamente il corpo di Cristo, dato in pasto al banchetto eucaristico. Sul piano temporale, est è l’unico stato di una stessa cosa presente qui e ora. A livello dell’enunciazione, però, se hoc appartiene al passato, est costruisce, al suo posto, l’avvenire di qualcosa d’altro. L’attributo meum, infine, introduce in pieno il soggetto del discorso e marca una relazione di appartenenza, caratterizza il soggetto in quanto proprietario del corpo. 133


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Così, dal pane e vino al corpo di Gesù, il linguaggio è diventato corpo, si è iscritto invisibile sotto l’apparenza, ma come corpoaltro, come nuova sostanza che lascia inalterata l’apparenza. L’errore dei protestanti è per Marin (1975, p. 96) quello di pensare che la rappresentazione equivalga a una somiglianza rigorosa della copia con il modello, colta dalla riproduzione mimetica. Immaginano che la rotondità e la bianchezza del pane siano qualità sensibili correlate alla sostanza rotonda e bianca del pane. Ma il Mistero della transustanziazione consiste proprio in questo: non si riconoscono più qualità sensibili. Del pane resta solo la figura, in termini di estensione e di mobilità. Il pane è il tramite per cui la cosa commestibile diventa corpo di Cristo. Ha oramai in comune con il corpo di Cristo solo il limite, lo spazio neutro tra il corpo senziente e il sentito. Lyotard chiude il saggio convocando il principio di desiderio insito nella semantica di Pascal e sottolineato con forza da Marin. Sappiamo che la stessa nozione di “idea accessoria” definita dai logici si regge sul presupposto di un’energetica. “I portorealisti (Arnauld e Nicole) – ricorda Rastier (2001, p. 208) – conciliano e gerarchizzano i due principali paradigmi della significazione: quello rappresentazionale di tradizione aristotelica, da cui dipende la nuda verità; e quello intenzionalista di tradizione agostiniana, che accoglie il moto e la passione di colui che parla.” Ritroviamo il secondo paradigma nel Vangelo di Luca (22, 15-20), dove Cristo comincia a parlare agli apostoli proprio dicendo: “‘Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione, poiché vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio’”. Marin non cita il momento in cui il miracolo della transustanziazione si ripete a distanza di tempo per mettere radici nella comunità cristiana, cioè la cena di Emmaus (Luca 24, 30-32). Vale a nostro avviso la pena di considerarlo un intertesto fondamentale: “Egli entrò per rimanere con loro. Quando fu a tavola, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Ed ecco si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma lui sparì dalla loro vista”. 134


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Proferito non in forma di dialogo ma come un discorso in terza persona, il racconto mostra il senso della memoria del sacrificio di Cristo – il suo corpo e il suo sangue saranno lì ogni volta che si mangerà di “questo” pane e si berrà di “questo” vino, consacrati. È la prova della fine dei sacrifici con spargimento di sangue praticati tra gli ebrei. Ma è anche la realizzazione di un passaggio già avvenuto. Il corpo ora è nel pane e i discepoli si limitano a riconoscerlo. A quel punto Cristo in carne e ossa non è più necessario. Sfruttando la dinamica dell’opacità e della trasparenza, scompare nello stesso modo in cui è apparso. Per Lyotard (1975, p. 1126), tuttavia, la teologia cattolica resta negativa, perché Cristo invoca il desiderio lasciando aperto il sentimento della mancanza.4 Il filosofo preferisce a questa nostalgia la pratica dell’humour, che procede da Eros e che è Poros, “moyen de moyenner”, dio retore, percorso fatto di arguzie, di congetture, di stratagemmi. Riferimenti bibliografici Arasse, D., Cohn, D., Careri, G. (a cura di) (1997), Louis Marin. Pascal et Port-Royal, PUF, Paris. Arnauld, A., Nicole, P. (1683), La logique, ou l’art de penser. Contenant, outre les règles communes, plusieurs observations nouvelles propres à former le jugement, Gallimard, Paris 1992. Foucault, M. (1966), Les mots et les choses, Gallimard, Paris; trad. Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1967, 19702. – (1969), L’archéologie du savoir, Gallimard, Paris; trad. L’archeologia del sapere, Rizzoli, Milano 1971. – (1973), Ceci n’est pas une pipe, Fata Morgana, Montpellier; trad. Questo non è una pipa, SE, Milano 1988. Lyotard, J.-F. (1971), Discours, figure, Klincksieck, Paris; trad. Discorso, figura, Unicopli, Milano 1988. 4. Lo riempie Orlan, proprio in contrapposizione all’enunciato eucaristico. Nella performance-conferenza Ceci est mon corps… Ceci est mon logiciel (1996) l’artista ribalta il principio cristiano del verbo che si fa carne, a profitto di una carne che diventa linguaggio, “ready-made modificato” (Orlan 1999). Il corpo, anziché sottrarsi, aumenta le sue potenzialità, si defigura e rifigura fino a diventare autoritratto parodico e barocco, ma che non occorre più firmare.

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– (1975), Que le signe est hostie, et l’inverse; et comment s’en débarrasser. Louis Marin, La critique du discours, “Critique”, 342, pp. 1111-1126. – (1977), Humour en sémiothéologie, “Rudiments païens”, 216, pp. 32-59. Marin, L. (1975), La critique du discours. Sur la logique de PortRoyal et “Les Pensées” de Pascal, Minuit, Paris. – (1986), “La parole mangée ou le corps divin saisi par les signes”, in La parole mangée et autres essais théologico-politiques, Klincksieck, Paris. – (1989), Opacité de la peinture. Essais sur la représentation au Quattrocento, Editions de l’Ecole des hautes études en sciences sociales, Paris 2006. Orlan (1996), Ceci est mon corps… Ceci est mon logiciel, Black Dog, London. – (1999), Manifeste de l’Art Charnel, “La Voix du regard”, 12. Pascal, B. (1670), Pensieri, Einaudi, Torino 2004. Rastier, F. (2001), Arts et sciences du texte, PUF, Paris; trad. Arti e scienze del testo, Meltemi, Roma 2003.

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Un accordo nel disaccordo. Proposta per un confronto tra le estetiche di Deleuze e Lyotard DAMIANO CANTONE

vvicinare Deleuze e Lyotard non significa certamente proporre un accostamento inedito. I due filosofi si conoscevano fin dai tempi in cui entrambi frequentavano la Sorbona, poi si ritrovarono di nuovo fianco a fianco nell’esperienza di insegnamento presso il Dipartimento di filosofia di Vincennes. I loro rapporti, a quanto risulta, erano improntati all’amicizia e alla stima reciproca. Esistono le relazioni di alcuni interventi pubblici che i due portarono avanti insieme, come per esempio la polemica a colpi di articoli su “Les Temps Modernes” per la gestione del Dipartimento di psicanalisi di Vincennes,1 o la partecipazione a dibattiti culturali o a tavole rotonde, spesso all’interno del contesto universitario, le cui registrazioni e sbobinature cominciano a essere note solo in questi ultimi tempi. Ci sono anche riferimenti diretti all’interno dei reciproci testi – non numerosi, a dire la verità – a testimoniare l’esistenza di un rapporto che si è protratto nel tempo. Certo, i due percorsi filosofici sono rimasti ben distinti e indipendenti – non si è mai verificato un sodalizio paragonabile a quello che Deleuze ha avuto con Félix Guattari, per esempio –, ma presentano comunque, almeno a prima vista, numerosi tratti comuni, una certa “aria di famiglia” che spazia dalla rielaborazio-

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1. Di Lyotard si possono leggere numerosi interventi politici sulla situazione algerina pubblicati sulla rivista “Socialisme ou barbarie” fin dagli anni cinquanta.

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ne del concetto di differenza fino all’importanza attribuita alla riflessione artistica nei confronti della filosofia e che certo si può cogliere appieno in riferimento a quelli che sono gli obiettivi polemici delle due filosofie (in pratica, le pretese totalizzanti e unificanti della filosofia e delle scienze) e gli obiettivi politici dei due autori (per esempio, essi hanno partecipato costantemente e spesso in prima linea al fermento politico del Sessantotto parigino e ai suoi successivi sviluppi). Pure non si possono ignorare le differenze fra i due, determinate in gran parte da un diverso riferimento alla storia della filosofia. Gli autori “classici” con i quali Lyotard si confronta più spesso sono Kant, Marx, Freud, Wittgenstein, Heidegger laddove invece gli autori amati da Deleuze hanno il nome di Nietzsche, Bergson e Spinoza in primis, poi anche Leibniz e Hume. Un altro motivo importante per segnare la distanza tra i due autori è il rapporto – importante e per certi versi controverso – con la psicanalisi. La presenza di Freud è molto forte in Lyotard: già in Discorso, figura, del 1971,2 egli mette a punto la sua nozione di figurale proprio a partire dalla teoria della libido freudiana, intesa come ciò che lavorando il “discorso” dall’interno rinvia il problema del senso al campo del desiderio e non più a quello del linguaggio. È poi nei primi anni settanta che Lyotard sviluppa una filosofia dell’“economia libidinale”, titolo di una delle sue opere più belle e difficili, ovvero il tentativo stilistico di forzare in modo pulsionale i limiti del “discorso”, che per sua natura è unificante. Piuttosto che cogliere le regolarità e le strutture, il ricorrere alle intensità libidinali ci permette di cogliere quelle rotture imprevedibili che Lyotard chiama eventi, emergenze che possono essere interpretate in modi diversi senza che si possa arrivare a una definizione definitiva. Anche se in seguito Freud perde il suo ruolo di primo piano, rimane in ogni caso un riferimento importante per Lyotard nel corso di tutta la sua opera, mentre non si può dire lo stesso per Deleuze. Freud, infatti, è sicuramente un protagonista

2. In realtà il suo lavoro su Freud era iniziato qualche anno prima. Si veda per esempio l’articolo Le travail du rêve ne pense pas, “Revue d’esthétique”, 21, 1968, pp. 26-61, poi confluito in Discorso, figura.

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delle sue opere della fine degli anni sessanta, Differenza e ripetizione e Logica del senso,3 soprattutto attraverso la teoria del fantasma e della coazione a ripetere, ma in seguito al sodalizio con Félix Guattari, Deleuze matura il distacco dalla psicanalisi che si esplicita fin dal titolo di L’anti-Edipo. In questo testo Deleuze e Guattari rimproverano sostanzialmente a Freud due cose: di aver fatto del desiderio qualcosa di legato al negativo, alla mancanza, e – attraverso l’Edipo – di averlo imprigionato in un regime famigliare nel quale il desiderio stesso non ha alcuna possibilità di esprimersi. Chiaramente l’analisi dei rapporti dei due autori con la psicanalisi meriterebbe un approfondimento maggiore, ma già un accenno di questo tipo permette di renderci conto che, per esempio, quando Deleuze, in Francis Bacon. Logica della sensazione, dice di star riprendendo il termine “figurale” da Discorso, figura dice una cosa vera solo in parte. Se è vero, infatti, che già il figurale di Lyotard costituisce una deriva rispetto alla teoria freudiana del desiderio, quest’ultima è completamente scomparsa nell’accezione che al termine “figurale” conferisce Deleuze. Tuttavia, proprio il termine “figurale” – e il fatto che sia uno dei pochi concetti che entrambi gli autori utilizzano in rapporto allo stesso ambito, e cioè in rapporto alla pittura nelle sue relazioni con il discorso, con il narrativo – ci mette sulla buona strada per trovare una possibilità di confronto tra le teorie estetiche di Deleuze e di Lyotard. Entrambi, infatti, cercano di fare di questo concetto una sorta di grimaldello estetico, capace di scardinare le logiche del racconto, della narrazione, che inglobano la Figura, e la cancellano nella potenza normalizzante del Discorso (o figurativo). La Figura, il figurale, è una forza che lavora il discorso dall’interno, costituendo una sorta di altro del linguaggio, deformandolo e dandosi a vedere anziché lasciandosi leggere, sfuggendo così alla cattura interpretativa propria di ogni grammatica.4 3. Per quanto riguarda i rapporti fra Deleuze e Freud in quel periodo, a proposito della teoria estetica freudiana, va ricordata la riflessione su arte e masochismo presente in Il freddo e il crudele. Si veda G. Deleuze, Il freddo e il crudele (1967), SE, Milano 1996, pp. 79-84. 4. Per un approfondimento sul ruolo di questo concetto nell’estetica di Lyotard, si può vedere M. Maistrini, Il figurale in J.-F. Lyotard, Mimesis, Milano 2005.

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Se quello di figurale è un concetto sul quale è facile trovare un ponte fra i due autori, a mio vedere, per scoprire una sorta di punto genetico della riflessione estetica che sia comune a entrambi dobbiamo rivolgerci a una delle nozioni più classiche e tuttavia più ambigue della storia dell’estetica filosofica: quella di sublime. Per i nostri autori il sublime è essenzialmente il sublime kantiano, nei modi in cui viene teorizzato dal filosofo tedesco nella terza Critica: l’“Analitica del sublime” della Critica del giudizio, infatti, segna una tappa decisiva per la storica discussione intorno al sublime, dove per la prima volta tale termine acquista una valenza di vero e proprio concetto estetico, tanto che è difficile trovare, dopo Kant, una riflessione sul sublime che non sia stata influenzata da essa. L’interesse di questa operazione di ri-lettura di Kant da parte dei due filosofi francesi non risiede semplicemente nella ripresa e nella rivalutazione di un concetto che nel XX secolo era scivolato un po’ ai margini dell’estetica filosofica, ma nell’utilizzo che fanno del sublime come di un operatore teorico fondamentale della loro filosofia. Tuttavia, mentre è quasi un luogo comune sottolineare l’importanza della riflessione sul sublime per Lyotard – sia in campo estetico sia in campo politico – si può avere qualche perplessità maggiore nell’estendere tale affermazione a Deleuze, perché spesso si tende a misconoscere l’importanza dell’influenza di Kant per la filosofia di Deleuze, sottolineando invece la presenza nei suoi testi di altri pensatori come Spinoza, Nietzsche e Bergson. Proprio quest’ultimo viene generalmente – e a pieno diritto – individuato come l’autore più importante per comprendere appieno l’estetica deleuziana, in particolare per quanto riguarda la sua trattazione del cinema e del problema della temporalità a esso connesso. Eppure, è lo stesso Deleuze, proprio nella seconda delle due monografie dedicate al cinema, intitolata L’immagine-tempo, a suggerire che rispetto a tale argomento “Bergson è molto più vicino a Kant di quanto non creda egli stesso”.5 5. G. Deleuze, L’immagine-tempo (1985), Ubulibri, Milano 1989, p. 97.

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Va detto che sicuramente Deleuze, a quel punto del suo itinerario filosofico, aveva in parte cambiato opinione rispetto a quando, più di vent’anni prima, nel 1963, aveva scritto una monografia dedicata a Kant, La filosofia critica di Kant. Dottrina delle facoltà, della quale egli stesso ebbe a dire di averla scritta “come un libro su un nemico di cui cerca di mostrare il funzionamento, gli ingranaggi – tribunale della Ragione, uso misurato delle facoltà, una sottomissione tanto più ipocrita in quanto ci viene conferito il titolo di legislatori”.6 Questa affermazione ha generalmente posto una pietra tombale su tutti gli studi che volessero prendere in considerazione i rapporti fra Deleuze e Kant: il filosofo tedesco è un nemico, uno dei tanti avversari che popolano la linea che parte da Platone e arriva fino a Hegel, linea che non ha mai cessato di proporre un’“immagine del pensiero” contro la quale Deleuze polemizza lungo tutta la sua esistenza. Eppure è evidente, da parte di Deleuze, un progressivo rovesciamento del suo giudizio su Kant, legato al suo crescente interesse per l’estetica inteso come territorio in cui l’arte propone un possibile “pensiero del fuori”, un pensiero slegato dalla concettualità filosofica. Già infatti in Differenza e ripetizione, libro che sicuramente considera ancora Kant come qualcuno da combattere, Deleuze dichiara, sebbene in una nota, che “il modello del riconoscimento o la forma del senso comune si trovano in difetto nel sublime, a vantaggio di una ben diversa concezione del pensiero”.7 Il sublime, insomma, si presenta per Deleuze come una sorta di anticorpo o corpo estraneo all’interno della stessa opera di Kant, e un punto talmente fecondo che, se leggiamo la terza Critica a partire da quello che Kant dice nell’“Analitica del sublime”, ci troviamo di fronte a uno scardinamento completo del suo sistema, al germe di un pensiero che non è più riconducibile alle leggi e ai rigidi limiti entro i quali Kant stesso si era sforzato per tutta la vita di ricondurlo.

6. Il testo, del 1973, è raccolto in G. Deleuze, Pourparler (1990), Quodlibet, Macerata 2000, p. 14. 7. G. Deleuze, Differenza e ripetizione (1968), Raffaello Cortina, Milano 1997, p. 187.

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Si può subito notare, incidentalmente, che non siamo distanti da quanto dirà poi Lyotard nelle sue Leçons sur l’analitique du sublime, dove il sublime viene considerato una meteora capace di distruggere il ponte fra natura e libertà costituito dal giudizio di gusto. Deleuze comincia tuttavia a mettere a tema il sublime e a conferirgli un profondo significato teorico solo sul finire degli anni settanta, durante gli anni del suo insegnamento a Vincennes, alcuni dei quali dedicati proprio a Kant. Va considerato inoltre che questi sono gli anni che precedono la cosiddetta svolta estetica di Deleuze, ovvero la pubblicazione del libro dedicato alla pittura Francis Bacon. Logica della sensazione, del 1981, e delle due monografie sul cinema che sono del 1983 e del 1985. In poche parole, cosa pensa Deleuze del sublime kantiano? Pensa che tutto il raffinato sistema della conoscenza kantiana venga minato dallo stesso Kant all’interno della Critica del giudizio. Innanzitutto, nota Deleuze, nella teoria kantiana della percezione si tratta sempre di trovare un’unità di misura successiva che si adatti all’oggetto, che perciò è variabile a seconda di quello che percepisco (per esempio, posso determinare l’altezza di un albero come pari a due uomini, o di una torre come pari a tre alberi). È la comprensione estetica, ovvero il procedimento dell’immaginazione attraverso il quale essa adotta intuitivamente una quantità per servirsene nella valutazione delle grandezze (il che fa sì che essa sia distinta dalla valutazione logica, in cui la misura viene espressa attraverso numeri). Se, tuttavia, la capacità di apprensione dell’immaginazione è infinita, la capacità di comprensione, di stabilire un ritmo nella successione delle parti, è limitata e quando mi imbatto in una grandezza che è “assolutamente grande”, quindi incommensurabile, accade la catastrofe: la mia capacità percettiva viene meno. Ma ovviamente, in modo analogo a quanto già visto, una grandezza può essere “assolutamente grande” sia dal punto di vista estensivo che da quello intensivo. In questo secondo caso non riesco a far fronte all’infinita forza della natura, quale ci viene presentata dal mare in tempesta, da un temporale o in altri fenomeni che “riducono a una piccolezza insigni142


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ficante il nostro potere di resistenza, paragonato con la loro potenza”.8 Si tratta chiaramente delle esperienze che mi portano a provare il sentimento del sublime, da una parte come dispiacere per il fallimento dell’immaginazione nella valutazione estetica delle grandezze, dall’altra come stima – e dunque come piacere – per la nostra destinazione soprasensibile. Deleuze si concentra principalmente su questo primo aspetto di rottura della sintesi percettiva, per il quale: “In luogo di avere un ritmo, mi ritrovo nel caos”.9 Questo perché l’immaginazione subisce una forte violenza da parte della Ragione che la spinge fino al limite estremo delle sue possibilità, per poi farla fallire. È una sorta di schematismo fallito, che fa sì che si disgreghino tutte le possibili sintesi dei fenomeni della natura. Appare qualcosa di nuovo che non è riconducibile alle unità spazio-temporali dei fenomeni, qualcosa di non ingentilito, non armonizzato rispetto all’interesse speculativo che era determinato, all’interno dell’Estetica trascendentale, dal ruolo egemone dell’intelletto. In pratica, come osserva Deleuze, “l’immaginazione sta immaginando ciò che non può essere immaginato”.10 C’è in questo come una ferita della soggettività. Viene meno il primato del soggetto trascendentale kantiano, che non è più in grado di guidare e determinare l’esperienza del soggetto empirico. Si apre una dimensione propriamente mostruosa, ovvero irrappresentabile, irriducibile alle categorie dell’intelletto e di conseguenza, seguendo il ragionamento di Deleuze, preindividuale. Kant certamente arretra davanti a questo abisso, e si rifugia nell’armonia soprasensibile garantita dalle idee della ragione, che ci permette di provare un sentimento di stima per la natura anche se questo va contro il nostro interesse sensibile. Egli avrebbe dunque scoperto, ma tentando subito di richiuderla, la “ferita del sensibile”, il suo pathos, che si dispiega in modo informe e

8. I. Kant, Critica del giudizio, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 195. 9. G. Deleuze, Fuori dai cardini del tempo (1978), Mimesis, Milano 2004, p. 111. 10. Ivi, p. 112.

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alogico. È da qui che invece parte Deleuze per tentare la fondazione della sua estetica, che si configura come una sorta di ribaltamento di quella kantiana. Per Deleuze infatti il guadagno, l’apprendimento del sublime non è ascrivibile a un piano individuale trascendentale, il senso di questa rottura è immanente alla rottura stessa: la catastrofe della rappresentazione è in realtà l’affermazione di una forza diversa, di un’altra natura, rispetto alla quale non solo non funzionano le categorie concettuali precedenti, ma nemmeno le relazioni che ne regolavano i rapporti. È noto come Kant definisca “altra natura” quella prodotta dal genio, ovvero l’arte, ed è proprio all’arte, e cioè alla filosofia estetica che dunque Deleuze si rivolge come al campo privilegiato in cui ne va di un’esperienza del sublime. Possiamo considerare il sublime come una sorta di “principio genetico” per l’articolazione di quella “logica della sensazione” che costituisce lo sforzo principale dell’ultima fase del pensiero di Deleuze. Partendo da Francis Bacon. Logica della sensazione, del 1981, passando per le due monografie dedicate al cinema e approdando alle conclusioni di Che cos’è la filosofia?, del 1993, Deleuze propone la propria concezione di “pensiero sensibile”, un tipo di pensiero che si rivolge “direttamente al sistema nervoso” del soggetto, e non più alla sua capacità di concettualizzazione. In tal senso, l’arte è pensiero nella misura in cui è capace di produrre da se stessa e con i propri mezzi la riflessione di cui ha bisogno. Una riflessione ben diversa da quella filosofica, che infatti rimane eminentemente concettuale: il pensiero dell’arte si muove invece a livello dell’intensità sensibile, sottraendosi alla rappresentazione e realizzando l’“unione di senziente e sentito”.11 Ciò significa semplicemente che non c’è uno spettatorefruitore che attraverso i sensi coglie l’opera d’arte. La catastrofe della rappresentazione che si realizza attraverso la logica della sensazione comporta necessariamente una catastrofe dell’orga11. Si veda G. Deleuze, Francis Bacon. Logica della sensazione (1981), Quodlibet, Macerata 1995.

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nizzazione sensoriale. Bisogna proprio che venga meno l’organizzazione del corpo, che gli organi si liberino dalla loro funzione e che la “carne coli dalle ossa”, secondo un’immagine ricorrente nei quadri Bacon, che cioè la sensazione, come nel sublime, si smarchi in un certo modo dal concetto, per rivolgersi direttamente al sistema nervoso di chi ne fa esperienza (Deleuze parla a questo proposito di isteria della pittura). Questa funzione, o meglio, questo funzionamento del sublime viene messo in gioco da Deleuze in modo determinante rispetto al cinema, una delle forme di arte più moderne e legate alla marca tecnologica che caratterizza la nostra epoca. Esiste un vero e proprio sublime cinematografico attraverso il quale il cinema si propone di veicolare, grazie al suo rapporto del tutto nuovo e diretto con il movimento, un’esperienza del tempo priva di qualunque mediazione. È l’immagine-tempo, concettocardine dell’estetica deleuziana, l’irruzione sullo schermo di “un po’ di tempo allo stato puro”, secondo l’espressione che il filosofo francese riprende da Proust: il sublime cinematografico è dunque la capacità che ha il cinema dell’immagine-tempo di rompere con tutte le “immagini del pensiero” che caratterizzano il cinema dell’immagine-movimento, ovvero con tutto quel cinema narrativo che fa del montaggio il proprio stile e la propria grammatica. Tale passaggio viene addirittura storicizzato da Deleuze, che individua nella Seconda guerra mondiale – intesa come momento limite della storia dell’umanità, nel quale crolla ogni possibilità di farsi un’immagine credibile del mondo – lo spartiacque fra due modi di fare cinema che corrispondono a due opposti approcci al problema della temporalità. Se Bergson è dunque l’autore che grazie alla sua particolare concezione dell’immagine, così vicina a quella cinematografica, propone in Materia e memoria una teoria del tempo del tutto originale (la celebre distinzione fra attuale e virtuale), Kant è colui che – teorizzando l’esperienza del sentimento del sublime a livello estetico – ha scardinato le teorie classiche sul tempo rendendo possibile una “diversa concezione del pensiero” e “un nuovo rapporto tra l’immagine e il pensiero, che 145


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si può definire pre-cinematografico”.12 L’indicazione di Differenza e ripetizione trova una sua traduzione letterale nel pensiero del cinema: il cinema, per Deleuze, produce la teoria di cui ha bisogno attraverso la propria pratica, crea autonomamente i concetti – le immagini – a partire dai problemi che deve fronteggiare. Il primo di essi è come rendere il movimento, problema per il quale il cinema trova una soluzione che lo spinge ben al di là della concezione classica della filosofia. Ma presto esso si trova a fronteggiare un problema ancora più fondamentale, per quanto legato al primo: la creazione di un’immagine-tempo. L’immagine-movimento, infatti, subordina ancora il tempo al movimento – esattamente come avveniva nella soluzione della filosofia classica fino a Kant –, mentre il cinema si trova di fronte all’esigenza di produrre un’immagine-tempo diretta, in cui il tempo si dia immediatamente alla percezione. Non si tratta, dunque, di un’evoluzione storica che riguarda il cinema nel suo sviluppo tecnico (come per esempio il passaggio dal muto al sonoro, o dal bianco e nero al colore, con tutte le conseguenze espressive che questi cambiamenti hanno portato), ma l’invenzione, la creazione di una temporalità propriamente cinematografica, con la quale la filosofia deve confrontarsi. Il tema della rottura con il movimento organico del cinema percorre anche il testo di Lyotard intitolato L’acinema, datato 1973 e quindi precedente di dieci anni rispetto sia ai testi di Deleuze sia allo sviluppo dell’interesse di Lyotard per il tema del sublime. Eppure questo testo contiene delle anticipazioni importanti sia rispetto all’impostazione generale del testo sull’immagine-movimento di Deleuze, sia rispetto alla stretta parentela tra il sublime e le avanguardie artistiche che costituisce la cifra dell’estetica di Lyotard. La premessa di fondo da cui partono i due autori per leggere il cinema è, infatti, grosso modo la stessa: il cinema ha a che fare con il movimento, con la resa diretta del movimento attraverso le immagini, e con la sua normalizzazione, con

12. G. Deleuze, lezione tenuta a Vincennes il 10 novembre 1981, inedita, traduzione mia.

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la sua iscrizione dentro una grammatica organizzatrice e un tutto organico. Il montaggio diventa proprio questa scrittura del cinema, il modo in cui il movimento viene subordinato a un’idea, o meglio a un’ideologia, a un “rapporto di produzione” per usare le parole di Lyotard: “Nessun movimento, indipendentemente dalla sua provenienza, è dato all’occhio-orecchio dello spettatore per quel che è: una semplice differenza sterile in un campo visivosonoro. Al contrario, ogni movimento proposto rinvia ad altro, si iscrive come un più o un meno sul libro dei conti che è il film, ha valore perché in relazione ad altro, perché è dunque una risorsa potenziale e vantaggiosa”.13 Eppure il cinema non si limita a questo: accanto a un’economia del movimento c’è una pirotecnica cinematografica, una sorta di gratuità dell’immagine che costituisce un inciampo nel circolo del reddito del movimento. Celebre è l’esempio del fiammifero che brucia, che può essere preso all’interno di un circuito di scambio con l’ambiente (può essere utilizzato per accendere il gas) o può smarcarsene, bruciando semplicemente per il godimento estatico di un bambino innamorato dei suoi colori e del suo sfrigolio. “Quando il fiammifero prende fuoco, al bambino piace questo dirottamento […] dispendioso di energia”.14 Si tratta di un movimento intensivo che avviene sul posto, una specie di movimento immobile (e-motivo, “una mozione che [perviene] all’esaurimento di se stessa”,15 lo definisce Lyotard), che però rimane funzionale alla logica organica e organizzativa del film. Ciò per cui Deleuze e Lyotard differiscono è l’individuazione di una possibile uscita dall’organico, una rottura con questo schema senso-motorio. Per Deleuze, come accennato prima, il cinema perviene alla creazione autonoma di un’immagine-tempo che sottrae la temporalità al suo destino di “numero del movimento” per restituirla alla sua potenza creatrice della realtà. Il montaggio perde il suo ruolo di organizzazione della materia per

13. J.-F. Lyotard, L’acinema (1973), in questo fascicolo. 14. Ibidem. 15. Ibidem.

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trasformarsi in una semplice operazione di “mostraggio” di qualcosa che eccede la rappresentazione. Per Lyotard, invece, tale processo di uscita non può avvenire all’interno del cinema stesso, che per sua natura è incapace di smarcarsi dal movimento. Piuttosto, suggerisce Lyotard al termine del suo saggio, bisognerebbe pensare a una mobilità del supporto tecnico che sia l’opposto del movimento cinematografico, che spiazzi tutti i processi identificativi del cinema nei suoi rapporti con lo spettatore e rompa con il modello della rappresentazione e del riconoscimento. Tale mobilità “è l’opposto del movimento cinematografico: essa sorge da qualsiasi procedimento che disfi le belle forme suggerite da quest’ultimo”. Questa affermazione si inserisce perfettamente nel quadro della ricerca che Lyotard sta sviluppando intorno al problema dell’arte negli anni settanta. Fin dall’inizio, infatti, tutta la filosofia di Lyotard è animata da un’esigenza di extrametodicità, di rottura dei canoni del pensiero comune, i cui riflessi più evidenti si riscontrano nella costruzione, soprattutto formale, delle sue opere. Si può dunque sostenere che solo dopo aver scoperto e analizzato il carattere emancipatorio, di liberazione del desiderio, proprio dell’arte, egli si rivolga, come risultato della sua ricerca, al problema del sublime in senso filosofico, inteso proprio nel suo carattere di rottura, di effrazione di un sistema. L’assunto di fondo da cui parte Lyotard nelle sue analisi del sublime kantiano è che da oltre un secolo l’arte non ha più come scopo il bello, ma qualcosa che a che fare con il sublime. L’emergere di un nuovo tipo di pubblico, più ampio e più ignorante delle regole formali del bello del gusto, ha costretto l’arte ad assumere una nuova funzione, di provocazione e shock, come già aveva teorizzato Benjamin nel suo saggio sull’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Per Lyotard, dunque, sono proprio le avanguardie artistiche di Malevicˇ e Duchamp a raccogliere l’eredità del sublime: esse infatti tentano di realizzare attraverso la rottura delle forme e dei modi della rappresentazione classica una sorta di “presentazione per via negativa” di un’idea che rimane in ogni caso al di là del visibile. 148


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Nel tentativo di ripercorrere in modo cursorio questo cammino, possiamo partire dal testo di una conferenza del 1983, tenuta alla Kunsthochschule di Berlino,16 in cui, partendo dall’analisi di alcune opere e di un saggio teorico di Newman che hanno per argomento proprio il sublime, Lyotard fa una critica specifica alla metafisica della presenza e della coscienza. Il sublime si configura, cioè, per Lyotard, come rottura del paradigma che cerca di costruire la temporalità a partire dalla coscienza (e qui l’obiettivo polemico è sicuramente Husserl), ribaltando i rapporti fra temporalità e coscienza che subordinano il tempo al movimento (un problema analogo a quello affrontato da Deleuze nei suoi testi sul cinema). Il sublime, per Lyotard, testimonia semplicemente di un Accade, anzi di un Accade? con il punto interrogativo, perché questo accadere rimane indeterminato, comporta un misto di piacere e pena, di gioia e angoscia, di speranza e paura. In tal senso, ha a che fare con la logica dell’evento che sottende la produzione delle avanguardie artistiche. Come afferma Lyotard, con l’estetica del sublime la posta in gioco delle arti del XX secolo è quella di “farsi testimone di ciò che esiste di indeterminato”. Il pubblico non giudica più in base ai criteri di un gusto garantito dalla tradizione e condiviso: degli individui anonimi fruiscono dell’arte in modo imprevedibile, sono preda di sentimenti contrastanti, ammirati o indifferenti: scompare il continuum temporale in cui si trasmette l’esperienza delle generazioni. Già in un libro di poco successivo (che però raccoglie testi a partire dal 1982), Il postmoderno spiegato ai bambini, il discorso sulle avanguardie si lega più da vicino a quello di Kant sul sublime, secondo due linee di sviluppo. Da una parte, c’è l’aspetto politico della produzione artistica delle avanguardie, che, mettendo in discussione tutti i criteri estetici della produzione artistica, si sottraggono e sfuggono alle logiche del mercato, e soprattutto alla legge dell’utile che permette di misurare il valore delle opere,

16. Cfr. J.-F. Lyotard, Le sublime, à présent, in “Po&sie”, 34, 1985.

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in assenza di qualunque altro criterio, sulla base dei profitti che consentono. In questo senso Lyotard dirà che in campo artistico “un’opera può diventare moderna solo se prima è postmoderna”,17 poiché un’opera prima crea una rottura nel discorso dell’arte, poi ne viene inevitabilmente fagocitata, resa organica alle regole della “politica culturale”. In questo meccanismo non è difficile riscontrare quella che è la matrice teorica di un’opera successiva di Lyotard, ovvero L’entusiasmo. La critica kantiana della storia.18 In essa Lyotard connette la nozione di entusiasmo di fronte ai grandi avvenimenti della storia al sentimento del sublime, inteso come intuizione di un incondizionato, di un fuori rispetto alla storia. Così, il forte sentimento di verità e il senso di un evento quale la Rivoluzione francese, secondo le osservazioni dello stesso Kant, non risiede tanto nel clamore e nell’incertezza dei fatti, né nel successivo avvento di Napoleone, ma nel sentimento di libertà che si sprigiona in chi si trova di fronte a tali eventi, nella sua fede in un futuro migliore. Pur nella sua episodicità, l’accadimento, l’evento mantiene un segno energetico di desiderio collettivo, quasi di utopia, capace di mettere in moto una risposta politica diversa: è un’anticipazione immediata e singolare di una repubblica sentimentale, per usare le parole di Lyotard, un appello non-concettuale a una comunità a venire.19 D’altra parte c’è l’aspetto più strettamente estetico, non certamente slegato dal primo. Le avanguardie artistiche raccolgono l’eredità del sublime kantiano nel senso che tentano di realizzare, attraverso la rottura delle forme e dei modi della rappresentazione classica, una sorta di kantiana “presentazione 17. J.-F. Lyotard, Il postmoderno spiegato ai bambini (1986), Feltrinelli, Milano 1987, p. 21. 18. In particolare viene preso in considerazione da Lyotard, fin dalle quattro “notizie” su Kant presenti in Il dissidio (1983, Feltrinelli, Milano 1985), il concetto di entusiasmo, strettamente legato a quello di sublime. Gli eventi sublimi, caratterizzati da disordine e potenza, generano un “entusiasmo politico” in coloro che vi assistono. “Se l’entusiasmo è una Begebenheit probante per la frase secondo cui l’umanità è in costante progresso verso il meglio, ciò è dovuto al fatto che, come sentimento esteticamente puro, esso richiede un senso comune, fa appello a un consenso che non è più soltanto un sensus indeterminato ma di diritto; è un’anticipazione sentimentale della repubblica” (ivi, p. 211). 19. Si veda J.-F. Lyotard, L’entusiasmo. La critica kantiana della storia (1986), Guerini, Milano 1989, p. 50 sgg.

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per via negativa” di un’idea che rimane in ogni caso al di là del visibile. L’opera cerca, cioè, di far vedere che c’è dell’invisibile. Sicuramente questa era già un’idea moderna, solo che l’arte moderna – l’arte romantica – presenta un sublime nostalgico, l’impresentabile viene messo in campo solo come contenuto assente, ma la forma continua a essere bella, a seguire cioè le regole del gusto. La tensione fra piacere e dolore tipica del sublime è ridotta a conflitto tra l’impresentabilità dolorosa di un contenuto che eccede qualunque forma e le forme piacevoli della rappresentazione che possono solo rinviare a un al di là ineffabile. Kant invece aveva intuito che il sublime è informe, mostruoso, si sottrae radicalmente al bello, di cui non è la negazione dialettica. Usando le parole di Lyotard, “un artista, uno scrittore postmoderno è nella situazione di un filosofo: il testo che egli scrive, l’opera che porta a compimento non sono in linea di massima retti da regole prestabilite e non possono essere giudicati attraverso un giudizio determinante, attraverso l’applicazione di categorie comuni”.20 Partendo da questa considerazione, Lyotard pensa dunque che per comprendere l’arte contemporanea bisogna sì ritornare all’estetica kantiana, ma per invertirne il segno. Se lo stesso Kant attribuiva infatti il primato all’estetica del bello all’interno della Critica del giudizio, ora invece bisogna porre l’accento sull’estetica del sublime: l’arte contemporanea ha perduto la natura, il suo rapporto di analogia con le forme belle della natura, e allora solo nell’arte stessa e nel suo rapporto di radicale alterità con la materia, anche con quella attraverso cui l’arte opera, possiamo ritrovare i lineamenti per pensare un’estetica. Non bisogna chiedersi cosa ci sia di sublime nell’arte, ma solo quale arte sia possibile sotto la categoria di sublime, dato che quest’ultima è rimasta la categoria che egemonizza l’estetica dopo la scomparsa del bello. Non sarà quindi la libera sintesi dell’immaginazione a fondare la possibilità di un’estetica, ma anzi il fallimento di tutte le sintesi: “La

20. Id., Il postmoderno spiegato ai bambini, cit., p. 24.

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forma cessa di essere la questione principale in materia di sentimento estetico”.21 Lyotard, dunque, dedicò numerosi corsi universitari durante il suo insegnamento all’Università di Parigi-VIII e all’Università della California all’analisi approfondita dell’“Analitica del sublime”, che sfociano nel suo importante saggio Leçons sur l’analytique du sublime, del 1991. In questo testo, il confronto con Kant si fa più serrato: il sublime è il punto in cui Kant aveva intuito l’esistenza di un’altra estetica, in cui il libero gioco fra immaginazione e intelletto lascia il posto al rapporto che Kant definisce “serio” (Ernst) fra l’immaginazione e le idee della ragione. Se l’estetica del bello aveva il compito dichiarato di armonizzare il dominio della conoscenza, oggetto della Critica della ragion pura, e della libertà, oggetto della Critica della ragion pratica, e di aspirare a una fondazione del soggetto come unità di tutte le facoltà, il sublime pone fine a queste speranze in modo violento, come una “meteora precipitata nell’opera dedicata a questa doppia edificazione”.22 L’immaginazione è infatti oggetto di una doppia violenza, violenza di un sensibile troppo grande e troppo intenso per essere sintetizzato e violenza da parte della ragione che esige da lei la presentazione di qualcosa che in sé è impresentabile. Questo fallimento nella sua funzione empirica desta l’immaginazione alla sua attività trascendentale, che per Kant è la felicità, il piacere che deriva dalla propria destinazione soprasensibile, e per Lyotard è invece qualcosa di diverso. Il sublime “è il figlio di un incontro infelice, quello tra l’idea e la forma”,23 che genera nel soggetto il dolore per il proprio insanabile dissidio in-

21. Id., Peregrinazioni (1988), il Mulino, Bologna 1992, p. 67. In questo testo, che è una sorta di biografia per concetti del proprio percorso filosofico, Lyotard descrive così la nascita del suo interesse per il sublime: “Ho potuto convincermi, a forza di scrutare questa materia, che la questione del sublime orienta profondamente la problematica delle arti contemporanee. Ma soprattutto […] il sublime scopre un’altra maniera di venire in contatto con i pensieri, una maniera di lasciarsi toccare dall’essere come ciò che si dà sempre senza mai darsi” (ivi, p. 66). 22. Id., Anima minima, Pratiche, Parma 1995, p. 49. Questo testo è una traduzione parziale delle Leçons sur l’analitique du sublime, Galilée, Paris 1991. 23. Id., Anima minima, cit., p. 71.

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terno, quello tra la spinta a una presentazione dell’idea e l’impresentabilità dell’idea stessa. Non è legittimo, dunque, secondo Lyotard, parlare di un’estetica del sublime in senso stretto (come invece era legittimo parlarne in relazione al bello), perché in un certo modo il sublime comporta “un’estetica senza natura”, visto che innanzitutto la natura è solo l’occasione del sublime, che è un sentimento dell’animo, e soprattutto viene presa nel suo aspetto informe e intollerabile. Tale occasione del sublime anzi scompare, annullato nel sentimento stesso del sublime, o per usare le parole di Kant “la natura è qualcosa che scompare di fronte alle idee della ragione”.24 Il fatto che non si dia propriamente un’estetica del sublime comporta un’ulteriore conseguenza: un’opera d’arte che voglia presentarsi come sublime, cadrà nel ridicolo, poiché vuole dare una forma compiuta a qualcosa che eccede la forma in grandezza e in intensità. Se infatti l’estetica del bello è caratterizzata dall’estrema ricchezza e varietà delle sue forme, il sublime può dare origine al massimo a un’estetica che Lyotard chiama del “quasi nulla”,25 che presenta la sproporzione fra l’estrema povertà di ciò che può essere presentato rispetto all’impresentabile dell’idea della ragione. Eppure il sentimento del sublime stesso, dopo il tramonto delle possibilità di una qualsivoglia arte formale, suggerisce proprio il modo in cui l’arte può corrispondere al sublime: “L’immaginazione fa violenza a se stessa per presentare almeno il fatto che non può presentare”.26 L’arte può testimoniare del sublime, ovvero che al sensibile manca qualcosa o qualcosa lo eccede. Un’opera d’arte che risponde al sublime risponde, per usare i termini di Lyotard, “all’aporia di una ‘presenza’ immateriale suggerita dalla sua materia”.27 Ecco, dunque, in quali termini si può parlare di un’estetica del sublime: proprio nel senso di un’aisthesis, di una 24. I. Kant, Critica del giudizio, cit., p. 209. 25. J.-F. Lyotard, Anima minima, cit., p. 115. 26. Ivi, p. 91 (corsivo mio). 27. Ivi, p. 122.

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sensazione che fa nascere un’anima – un soggetto – o che più propriamente anima un’esistenza inerte e passiva. È proprio il contrario del presupposto filosofico classico per il quale esiste un’anima intesa come sostanza che possiede la caratteristica di poter essere affetta da una sensazione esterna. Ed è questo, a mio parere, un buon punto di partenza per cominciare un confronto tra le estetiche di Deleuze e di Lyotard: ripensare la sensazione a partire dall’opera d’arte anziché dal soggetto. La sensazione conserva un potere di commozione, di muovere l’anima, “annuncia all’anima che essa non esisterebbe affatto se non fosse affetta da nulla”.28 Il sublime fonda un’anima minima, fa effrazione su un’esistenza inerte, la fa nascere sullo sfondo della sua sparizione sempre possibile, dell’annullamento di ogni esperienza. Da qui il senso del rapporto dell’arte con il sublime: “L’arte grazia l’anima condannata alla pena di morte, ma a condizione che essa non lo dimentichi”.29

28. Ivi, p. 123. 29. Ivi, p. 125.

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Oltre la fenomenologia DIDIER FRANCK

he cosa significa “oltre la fenomenologia”? E innanzitutto, che cos’è la fenomenologia o cosa si intende con tale titolo la cui formazione è così tardiva? Attraverso quale movimento, secondo quale logica, in virtù di quale necessità la fenomenologia dovrebbe essere condotta al di là di se stessa e, inoltre, quale potrebbe essere il termine o la destinazione di un simile movimento visto che la fenomenologia afferma e ribadisce che non c’è nulla da cercare al di là dei fenomeni? Questo divieto non è tuttavia che il rovescio di un obbligo. Se non è possibile oltrepassare i fenomeni, è opportuno invece interrogarsi su quali sono e cosa sono. Tale è, nella sua accezione più generale, il compito che la filosofia si assegna dacché si designa con il nome di fenomenologia; un compito che Husserl, tra gli altri, ha cercato di assolvere. Vi è riuscito? E, soprattutto, in quale misura? Finché questa domanda resterà senza risposta, fintanto che ignoreremo ancora i limiti della fenomenologia trascendentale e costituente, ogni tentativo di oltrepassarla non darà luogo che a degli sbocchi illusori. Introducendo alla fenomenologia pura in quanto “scienza fondamentale della filosofia” e per metterne in luce tanto la novità quanto lo statuto d’eccezione, Husserl comincia con l’osser-

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D. Franck, “Au-delà de la phénoménologie” (1998), in Dramatique des phénomènes, PUF, Paris 2001, pp. 105-123.

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vare che il titolo di “scienza dei fenomeni” si applica a tutte le scienze della realtà. Secondo questa prospettiva la psicologia si occupa dei fenomeni psichici, la fisica prende come oggetto i fenomeni naturali e la storia i fenomeni storici. Husserl precisa di seguito: “Per quanto diverse possano essere qui le accezioni del termine ‘fenomeno’ e per quanti altri ne possa acquistare, è certo che anche la fenomenologia comprende tutti questi ‘fenomeni’ e secondo tutti i significati del termine ‘fenomeno’. Ma lo fa in un atteggiamento così profondamente diverso che ogni significato del termine ‘fenomeno’ subisce una certa modificazione rispetto alle scienze ormai familiari”.1 In che cosa l’atteggiamento fenomenologico differisce dall’atteggiamento scientifico? Attraverso quale modificazione il fenomeno, nella sua accezione scientifica, può ricevere un senso propriamente fenomenologico? E, soprattutto, qual è la natura del rapporto tra soggettività e fenomenicità se il senso di quest’ultima varia in funzione degli atteggiamenti assunti dalla prima? Cominciamo con il caratterizzare l’atteggiamento scientifico, dal quale la fenomenologia cerca di svincolarsi, prendendo come esempio la psicologia. La psicologia è una scienza sperimentale che si occupa di fatti o di eventi reali. Il che non significa altro che i “fenomeni” di cui tratta si inscrivono nel mondo spazio-temporale retto dalla causalità. La psicologia suppone dunque l’esistenza reale del mondo a cui appartiene la totalità dei fenomeni dei quali ha conoscenza o che potrà conoscere. Qualunque possa esserne il rigore, e lo stesso vale in definitiva per tutti i saperi regionali, la psicologia presuppone il mondo come il campo stesso della sua attività. Cosa si intende qui per presupporre? Presupporre il mondo non significa solamente considerarlo reale ma, ancora di più e soprattutto, considerare chiaro e distinto il senso di questa realtà; in poche parole, e per dirla con Descartes, inscrivere l’esistenza e la realtà nel novero “delle nozioni di per se stesse così chiare, che le si oscura volen1. E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica (1913), a cura di V. Costa, Einaudi, Torino 2002, 2 voll., vol. I, Libro I, p. 3.

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dole definire”.2 Perciò e fintanto che il senso dell’essere del mondo a cui, in una maniera o nell’altra, si rapportano tutte le conoscenze scientifiche resterà oscuro, la filosofia che ne è il fondamento ultimo, resterà l’ombra proiettata dallo scetticismo. La presupposizione del mondo è dunque un riposo della ragione, e se l’Europa è il nome geografico della razionalità filosofica, ossia di una fondazione assoluta di ogni conoscenza possibile, allora è vero che “il maggior pericolo dell’Europa è la stanchezza”.3 Come superare questa fatica che anche Husserl, dopo Nietzsche, qualifica come “il pericolo dei pericoli”? Visto che il pericolo concerne l’idea stessa di scienza, solo una sua riaffermazione potrà salvarci. Ma cosa significa questo se non che la scienza deve ritornare su se stessa e a se stessa, ritornare a ciò che le è più proprio? Se ciò che è proprio a ogni scienza, cominciando dalla filosofia, è di essere metodica, se solo il metodo è in fin dei conti garante della scientificità, non sarà allora attraverso “il metodo originario di tutti i metodi filosofici”4 che la ragione potrà ritrovare la sua forma pura e vincere la sua stanchezza? Il metodo dei metodi non darebbe forse una risposta al “pericolo dei pericoli” visto che “la vera filosofia coincide con il vero metodo”?5 La riduzione fenomenologica è questo “vero metodo” che solo può mettere in cammino verso la vera filosofia, vale a dire verso una filosofia che ha infine riconosciuto nella fenomenologia la sua scienza fondamentale, la scienza del suo fondamento. Su ciò dobbiamo insistere sin d’ora: oltre la fenomenologia deve per forza significare oltre la filosofia quale è stata e, se quest’ultima si confonde con la metafisica, oltrepassare la fenomenologia significa sormontare la metafisica che la fenomenologia si prefigge di rifondare nella verità della sua origine.6 2. Cartesio, I principi della filosofia, in Opere filosofiche, a cura di E. Garin, Laterza, Roma-Bari 1986, 4 voll., vol. IV, § 10, p. 25. 3. E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale. Introduzione alla filosofia fenomenologica (1936), trad. di E. Filippini, il Saggiatore, Milano 1961, p. 358. 4. Id., manoscritto C 2 II, p. 7. 5. Id., La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, cit., “Appendice XIII”, p. 467 (traduzione modificata). 6. Id., Meditazioni cartesiane (1950), trad. di F. Costa, Bompiani, Milano 1989, § 60.

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Che cos’è dunque la riduzione fenomenologica? Porre tra parentesi, mettere “fuori azione” la tesi del mondo. Come bisogna comprenderla, in che termini una tale sospensione è possibile e a quale determinazione del fenomeno conduce? Presupporre il mondo significa innanzitutto porlo come reale: Io trovo costantemente alla mano, di fronte a me, l’unica realtà spazio-temporale, a cui appartengo io stesso e appartengono tutti gli altri uomini, che si trovano in essa e a essa si riferiscono nel mio medesimo modo. Io trovo la “realtà” (Wirklichkeit), e la parola stessa lo dice, come esistente e la assumo come esistente, così come essa mi si offre in quanto io desto all’interno di un’esperienza concordante e mai divergente. Qualunque nostro dubbio o ripudio di dati del mondo naturale non modifica affatto la tesi generale dell’atteggiamento naturale. Il mondo è sempre presente come realtà; può rivelarsi qua o là “diverso” da come lo intendevo, questo o quell’elemento va per così dire cancellato da esso a titolo di “parvenza”, “allucinazione” e simili; ma, nel senso della tesi generale, esso è sempre mondo esistente.7 La tesi del mondo non è evidentemente un atto di giudizio sulla realtà della sua esistenza ma il carattere più generale della coscienza e della datità empirica del mondo. Non è dunque una tesi tra le altre ma la tesi delle tesi perché la coscienza vi fonda ogni giudizio e ogni enunciato apofantico. Questa tesi è tuttavia opera della sola coscienza? E se così fosse, come comprendere allora che la realtà del mondo, che significa la sua indipendenza ontologica rispetto alla coscienza, non sarebbe che la produzione intenzionale di una coscienza che trascende il mondo? Se comprese pienamente, queste domande convergono sul problema della fenomenicità poiché, se la realtà del mondo dovesse essere considerata come un prodotto della coscienza, il mondo, ossia la tota7. Id., Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, cit., vol. I, Libro I, § 30, p. 67.

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lità dell’ente, non sarebbe per contro che il fenomeno globale di questa coscienza. Poiché si tratta di chiarire l’esistenza reale come carattere proprio del mondo per la coscienza e, di conseguenza, di ricercare il senso di ciò che da sempre è stato trovato nella e per l’esperienza di questa coscienza, non ci sono altri percorsi o metodi da seguire se non quello che consiste anzitutto nel ripiegarsi sulla sola coscienza mettendo fuori gioco il carattere di realtà trascendente con il quale il mondo le è naturalmente presente, per esaminare in seguito se e come la coscienza a cui siamo così pervenuti è suscettibile di conferire al mondo che le appare questo senso di realtà con cui le si manifesta. È possibile? Il dubbio cartesiano è un precedente che permette di rispondere affermativamente. Nondimeno, se dubitare significa considerare incerto, il dubbio implica due momenti distinti: il mettere in dubbio, che è una sospensione del giudizio, e negare la negazione della certezza che presuppone l’antitesi del mondo sotto forma del suo non-essere. Nel tentativo di dubbio, che è connesso con una tesi e, come noi presupponiamo, con una tesi certa e duratura, la “messa fuori circuito” si realizza in e con una modificazione dell’antitesi, e precisamente nella “supposizione” del non-essere, che forma quindi la base complementare del tentativo di dubbio. In Descartes ciò prevale al punto che il suo tentativo di dubbio universale può dirsi propriamente un tentativo di negazione universale.8 E, a proposito di questa supposizione del non-essere, Husserl aggiunge di seguito: “Noi prescindiamo da ciò”. Il motivo per il quale Husserl riprende, del dubbio cartesiano, solo il momento della messa fuori gioco, consiste nel fatto che supponendo il nonessere o la non-realtà del mondo, Descartes continua a considerare intelligibile, chiaro e distinto, il senso dell’essere e della realtà del mondo, per non parlare di quello della negazione, quando si 8. Ivi, § 31, pp. 69-70 (traduzione modificata).

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tratterebbe precisamente di metterlo in discussione per chiarirlo. Sotto alcuni punti di vista e già per Husserl, Descartes non ha esplicitato il senso della realtà, ossia dell’essere del mondo. La riduzione fenomenologica è dunque il punto di partenza per una chiarificazione del senso dell’essere in quanto coscienza e realtà. Cosa accade una volta compiuta questa messa fuori circuito della tesi naturale del mondo? Non comparendo più che a titolo di correlato intenzionale della coscienza, il mondo diventa puro fenomeno e, nella sua accezione fenomenologica modificata, deve dunque essere definito come il prodotto del sistema globale dei vissuti intenzionali di una coscienza trascendentale. Ma questa è una determinazione sufficiente anche qualora il vissuto intenzionale possieda una struttura originaria complessa? In altri termini, la fenomenicità spetta a tutte le componenti del vissuto? Come rispondere a questa domanda senza procedere a una descrizione capace di far risaltare i diversi momenti del vissuto? “Noi vediamo un albero che non cambia colore (il suo colore, quello dell’albero) mentre la posizione degli occhi e la relativa orientazione variano in molti modi e lo sguardo non cessa di muoversi sul tronco e sui rami, e mentre noi intanto ci avviciniamo e facciamo fluire in diverse maniere il vissuto percettivo”.9 Che cosa rivela questa descrizione? Mostra innanzitutto che lo stesso e unico albero si dà in una molteplicità di adombramenti che sono altrettanti contenuti di sensazione. Mostra poi che la molteplicità di questi dati sensibili o di questi data iletici nel cui novero non bisogna inscrivere solamente i dati visivi, tattili ecc., ma anche “le sensazioni sensoriali del piacere e del dolore, del solletico, ecc., come pure i momenti sensoriali della sfera degli ‘impulsi’”,10 mostra che questa molteplicità dipende da una dimensione totalmente diversa da quella dell’unità della cosa. Infatti, se gli adombramenti o i contenuti di sensazione sono vissuti e appartengono realmente al vissuto, questo non è evidentemente il caso dell’albero stesso. In altri termini, i contenuti sensibili (o 9. Ivi, § 97, p. 248. 10. Ivi, § 85, p. 213.

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primari, per dirla con la terminologia delle Ricerche logiche) non sono fenomeni – a meno che non vengano a loro volta presi a oggetto – poiché se vedo l’albero nel giardino, non vedo tuttavia le mie sensazioni. Dal momento che il contenuto vissuto non è l’oggetto percepito, la fenomenicità non dipende dallo strato iletico del vissuto. A quale altro momento del vissuto bisogna allora attribuirla? Torniamo alla descrizione. Pur vivendo in un flusso continuo di data iletici, io ho coscienza dello stesso albero e anche questa coscienza d’identità è a sua volta vissuta. Oltre al momento sensibile che, per natura, non ha senso, fa dunque parte del vissuto stesso un momento costitutivo di unità, portatore e donatore di senso, un momento in virtù del quale la molteplicità sensibile è appresa secondo lo stesso senso, un momento propriamente intenzionale senza il quale non potrei aver coscienza dell’albero. Se la presenza dell’oggetto dipende da una tale donazione di senso, la fenomenicità è dovuta unicamente a quest’atto senza il quale, a rigore, niente appare. L’apparire dell’oggetto risiede perciò esclusivamente nel carattere fenomenologico di una apprensione che anima o interpreta delle sensazioni, e solamente i vissuti portatori di intenzionalità sono fattori di fenomenicità. Husserl chiama morphé il momento intenzionale del vissuto concreto responsabile della fenomenicità. L’insieme dei rapporti diversamente stratificati tra hyle e morphé determina allora la sfera della costituzione delle oggettività, campo coestensivo alla stessa fenomenologia, visto che Husserl afferma che “ogni essente è costituito nella soggettività di coscienza”.11 Alla domanda “che cosa intendere per fenomeno?”, Husserl risponde dunque in definitiva che essere fenomeno significa essere costituito da una soggettività ai cui vissuti appartengono la hyle sensibile e la morphé intenzionale. Questa determinazione husserliana della fenomenicità solleva tuttavia un grave problema che Husserl evidentemente non ha mancato di riconoscere. Lo schema generale della costituzione 11. Id., Logica formale e trascendentale (1928), a cura di G.D. Neri, Laterza, Roma-Bari 1966, § 94, p. 287.

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che abbiamo appena descritto può definire infatti la fenomenicità fintanto che rimane il solo. Se i fenomeni sono molteplici, la fenomenicità è unica. Ora, ogni costituzione non obbedisce alla relazione apprensione-contenuto d’apprensione, alla relazione ilomorfica. Fin dal paragrafo di Idee I dedicato alla hyle sensibile e alla morphé intenzionale, Husserl indica che questa distinzione perde di pertinenza quando si tratta di descrivere “le oscure profondità della coscienza ultima che costituisce ogni temporalità di vissuti”12 quando si tratta della coscienza del tempo che “a sua volta si costituisce in un certo senso profondo e del tutto caratteristico, avendo la sua sorgente originaria in un ultimo e vero assoluto”,13 insomma quando si tratta dell’assoluto fenomenologico. Ma ciò non significa contemporaneamente sottrarre la fenomenicità alla costituzione? Husserl non l’ha mai pensato e si è sforzato senza sosta di descrivere l’autocostituzione della coscienza, dell’ego e del tempo. Qual è la differenza essenziale a cui è esposta l’analisi dell’autocostituzione della coscienza interna del tempo? Se la costituzione deve definire in modo assoluto la fenomenicità, ogni cosa, fino alla hyle temporale compresa, deve essere costituita. Ora, in termini generali, possiamo dire che la morphé intenzionale si applica a una hyle che è in se stessa privata di senso, di conseguenza quest’ultima deve precedere l’altra. Quando si tratta di descrivere la costituzione della morphé temporale, ossia della morphé assoluta, quando si tratta di cogliere l’intenzionalità originaria e l’origine ultima dell’intenzionalità, non c’è di conseguenza altro punto di partenza possibile che la hyle temporale assoluta. In altri termini, ricercando l’origine costituente della coscienza del tempo nella hyle, Husserl ambisce necessariamente a risolvere l’opposizione tra la hyle e la morphé costituite all’interno di una hyle originaria, tenta di derivare la morphé dalla hyle originaria. Ma si trova allora di fronte a un’esigenza doppia e contraddittoria perché deve si-

12. Id., Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, cit., vol. I, Libro I, § 85, p. 213. 13. Ivi, § 81, p. 203.

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multaneamente descrivere la costituzione della morphé a partire dalla hyle e quella della hyle originaria stessa, deve insomma ridurre il ritardo essenziale della morphé sulla hyle. Pensa di riuscirci riconoscendo nell’impressione originaria “l’assolutamente immodificato, la fonte originaria per ogni ulteriore coscienza ed essere”.14 È sostenibile? Da qui derivano diverse domande: 1) È possibile uscire dal circolo di cui Husserl stesso ha dato la formula precisando nel manoscritto del 1932: “Ho bisogno di due cose, da una parte, del flusso dei vissuti al cui interno c’è costantemente un campo di impressioni originarie che sfumano nella ritenzione e prima nella protensione e, dall’altra parte, dell’ego che ne è colpito e motivato all’azione. Ma l’impressione originaria non è forse già una unità appercettiva, un qualche cosa di noematico [ossia di costituito] proveniente dall’ego? E il problema che ne deriva non riconduce forse sempre a un’unità appercettiva?”.15 2) Visto che ogni impressione ha, per essenza, una grandezza intensiva, la forza non deve appartenere all’intenzionalità e alla fenomenicità stesse? Infatti, se la morphé intenzionale sorge dall’hyle originaria, non è più possibile affermare su questa base – come faceva Husserl nelle Ricerche logiche, dopo aver attribuito le differenze di intensità alle sole sensazioni fondative – che “le intenzioni d’atto, quei momenti non-indipendenti che sono i soli che conferiscono agli atti il loro essere peculiare ed essenziale in quanto atti […] sarebbero in se stessi privi di intensità”.16 Poiché la morphé intenzionale proviene da un flusso iletico la cui intensità è per essenza differenziata, è necessario o attribuire un’intensità all’intenzionalità o, al contrario, spiegare come l’intenzionalità livella e uguaglia le differenze di intensità. Ma in quest’ultimo caso e tenuto conto del fatto che tutta l’analisi costitutiva parte dal costituito, l’accesso alle differenze di intensità, proprie delle sensazio14. Id., Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo (1928), a cura di A. Marini, Franco Angeli, Milano 1981, § 31, p. 96. 15. Id., manoscritto C 7 I, p. 18. 16. Id., Ricerche logiche (1900-01), a cura di G. Piana, il Saggiatore, Milano 2005, 2 voll., vol. II, V, p. 185.

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ni, diventerebbe impossibile. Non resta allora che rendere costitutivamente intelligibile l’intensità dell’intenzionalità, cosa che Husserl non ha, sembra, mai fatto. 3) Possiamo infine assimilare la fenomenicità alla sola sensazione originaria se la sensazione in quanto tale è assolutamente inseparabile dal corpo (Leib), se cioè, in altri termini, la corporeità si pone all’origine della sensazione come il suo stesso evento?17 Esaminiamo ciascuna di queste domande. Sforzandosi di derivare la forma dalla materia, il senso dal sensibile, i modi di significare dai modi di sentire, l’analisi della costituzione originaria si trova presa in un circolo. Tuttavia, la circolarità dipende qui dalla comprensione del dato sensibile che fluisce come materia e diversità pure e dalla sensazione considerata come essenzialmente priva di pensiero. Questa determinazione si fonda su una descrizione sufficiente? Dire che la sensazione possiede una grandezza intensiva, un grado, significa dire che la nostra sensibilità funziona all’interno di un quantum determinato. Da dove questo quantum trae la sua determinazione se non dalle nostre condizioni di esistenza, visto che sensi più o meno affinati metterebbero probabilmente la nostra esistenza in pericolo? In altri termini, se l’intensità delle nostre sensazioni è prescritta dalle nostre condizioni di esistenza e se queste condizioni prescrivono a loro volta le leggi generali all’interno delle quali possiamo vedere e toccare ciò che vediamo e tocchiamo così come lo vediamo e lo tocchiamo, ciò si verifica perché è più conveniente, per la nostra conservazione, avere un certo grado di sensibilità piuttosto che un altro. Le nostre sensazioni sono dunque rette da giudizi di valore che le impregnano da cima a fondo, e non c’è nulla di meno cieco di una sensazione. Osservando infatti che “in tutte le sensazioni risiedono determinate valutazioni”,18 Nietzsche non contraddice sola17. Cfr. Id., Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, cit., vol. Libro II, § 39, pp. 154-155 ed E. Lévinas, “Intenzionalità e sensazione”, in Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger (1967), trad. di F. Sossi, Raffaello Cortina, Milano 1998, p. 186. 18. F. Nietzsche, Frammenti postumi 1884, trad. di M. Montinari, in Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1964 sgg., vol. VII, tomo II, 27 [63], p. 269 (traduzione modificata). II,

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mente Kant, per il quale solo la quantità intensiva della sensazione può essere conosciuta a priori, ma anche Husserl. Contraddice Kant perché se il valore, o in altri termini la qualità della sensazione, è riducibile a differenze di quantità,19 la qualità della sensazione diventa, in questa prospettiva, conoscibile a priori; e contraddice Husserl perché, in quanto indissociabile da una valutazione, la sensazione diventa un fenomeno “morale”, intellettuale. In questi termini la risposta alla prima domanda permette di rispondere anche alla seconda. Se infatti la sensazione è, in quanto grandezza intensiva, sempre già pensiero, se in altre parole nella sensazione la forza si accompagna sempre a un pensiero, ossia a una forma, che la ordina determinando a priori il campo e i limiti delle sue variazioni graduali possibili, è necessario ammettere di conseguenza che questa intensità è inseparabile dal pensiero e che non potrebbe darsi intenzionalità senza intensità. Una volta abbandonato il concetto di pura materia sensibile, una volta tolta la limitazione del concetto di sensibilità dalla datità e dalla ricettività, non ci sono più ostacoli al riconoscimento dell’intensità della intenzionalità, intensità senza la quale sarebbe per esempio assurdo parlare di una fatica della ragione, ragione che è, ricordiamolo, “una universale forma strutturale essenziale della soggettività trascendentale in generale”.20 Ma prendere in considerazione l’intensità dell’intenzionalità non modifica forse la natura stessa della soggettività? Possiamo continuare a parlare di intenzionalità? L’intenzionalità è coscienza di… e ciò che le è essenziale è la transitività del rapporto a… Inoltre, per spiegare l’intensità dell’intenzionalità e risolvere il problema della costituzione originaria senza rinunciare alla costituzione stessa a beneficio di una datità in linea di principio incostituibile a cui il soggetto e il pensiero sarebbero, propriamente parlando, completamente assoggettati, senza rinunciare di 19. Cfr. Id., Frammenti postumi 1885-1887, trad. di S. Giametta, in Opere, cit., vol. VIII, tomo I, 6 [14], pp. 225-226 e Id., Frammenti postumi 1888-1889, trad. di S. Giametta, in Opere, cit., vol. VIII, tomo III, 14 [105], pp. 72-73, nonché D. Franck, Nietzsche e l’ombra di Dio (1998), a cura di P. D’Oriano, Lithos, Roma 2002, p. 146 sgg. 20. E. Husserl, Meditazioni cartesiane, cit., § 23, p. 84.

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conseguenza al principio stesso della conoscenza fenomenologica – il che non implica evidentemente che la fenomenologia sia l’ultima parola di ogni filosofia e di ogni conoscenza –, bisogna anche: a) concepire questa transitività a partire dalle sole intensità e b) ricondurre a essa la coscienza. Ma ciò è possibile? E come? Ritorniamo più in dettaglio sull’analisi husserliana della temporalità, la quale non è altro che un chiarimento dell’essere dell’intenzionalità stessa. Husserl dichiara che “la sensazione è ciò che noi consideriamo come la coscienza originaria del tempo”.21 Cosa significa se non che la sensazione è il modo di darsi dell’ora presente? “L’impressione originaria ha per contenuto ciò che la parola ‘ora’ significa, presa nel suo senso più rigoroso.”22 Ma la sensazione, o puro ora, non può dare accesso al tempo altrimenti che dando lei stessa accesso a un’altra sensazione, ossia – il che è lo stesso – a un altro ora. Com’è possibile? In base a cosa la sensazione in quanto tale si rapporta ad altre sensazioni? O, in altri termini, da dove viene il fatto che la sensazione possa alterarsi? “La sensazione è coscienza presentativa di tempo.” 23 Qualificare temporalmente la coscienza originaria del tempo, formula che racchiude tutta la difficoltà, significa innanzitutto che la sensazione originaria non potrebbe essere sensazione di sé attraverso se stessa senza presentarsi a sé; o anche che la sensazione non potrebbe essere coscienza originaria del tempo senza presentarsi a se stessa. Ma permette poi di rispondere alla questione dell’alterazione della sensazione. In che modo la sensazione potrebbe infatti presentarsi a se stessa senza intenzionarsi, senza insomma una certa lussazione del sentito rispetto al sentire, senza una pausa del sentire che indugia su ciò che sente, senza una minima sfasatura, che è del resto un’altra sensazione, e lo scarto in cui risiedono insieme l’origine del tempo e l’intenzionalità? Certo, questa analisi contraddice la possibi21. Id., Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, cit., “Appendice III”, p. 131. 22. Ivi, § 31, p. 96. 23. Ivi, “Appendice III”, p. 131.

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lità stessa di un’impressione originaria, se intendiamo con ciò la simultaneità assoluta del sentito e del sentire. Ma l’impressione originaria, compresa in questi termini, non potrebbe forse essere una datità fenomenologica, se per vederla e intenzionarla bisogna prima dissociarla da sé? Per quanto richiesta dalla descrizione della costituzione temporale del dato di sensazione, l’impressione originaria – “l’apparizione senza apprensione”,24 ossia apparizione senza alcun oggetto cha appare – resta non di meno, proprio per mancanza di percezione, tanto fenomenologicamente inaccessibile quanto indescrivibile. Husserl ha chiamato ritenzione la modalità in cui un sentire e un sentito si disarticolano. La intentio [visée] della sensazione si discosta dalla sensazione intenzionata e la trattiene, di modo che la sensazione intenzionata possa presentarsi alla intentio della sensazione – “il presente è sempre nato dal passato”, 25 osserva Husserl – e questa infima differenziazione – in cui, per dirla con Lévinas, “intentio ed evento coincidono”26 – è il tempo e la coscienza del tempo, la fonte comune del tempo e dell’intenzionalità, insomma la fenomenicità. Ma questo disaccoppiamento, senza il quale la fenomenologia non avrebbe semplicemente luogo, presuppone il passaggio, la transizione da un’impressione a un’altra, giacché la ritenzione di una sensazione appena passata è essa stessa, astrazione fatta da ciò che ritiene, una nuova sensazione o impressione. “Se però la coscienza dell’‘ora’-di-suono, l’impressione originaria, trapassa in ritenzione”, dice Husserl, “questa stessa ritenzione è a sua volta un ‘ora’, qualcosa che c’è attualmente.”27 In altri termini, la ritenzione – senza la quale la coscienza non potrebbe essere presa a oggetto, senza la quale non ci sarebbe tempo – presuppone la transitività della sensazione. Come comprendere allora questa transitività della sensazione dalla quale la fenomenologia intera dipende? 24. Ivi, “Appendice VI”, p. 135. 25. Ivi, “Appendice III”, p. 130. 26. E. Lévinas, “Intenzionalità e sensazione”, cit., p. 174 (traduzione modificata). 27. E. Husserl, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, cit., § 11, p. 65.

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L’analisi della coscienza del tempo si svolge nello spazio della vita trascendentale: La coscienza desta, la vita desta, è un vivere andando incontro, un vivere che, dall’“ora”, va incontro al nuovo “ora”. […] Lo sguardo dell’“ora” sul nuovo “ora”, questo trapasso, è però qualcosa di originario ed è esso che spiana la via a future intenzioni empiriche. Ho detto che ciò appartiene all’essenza della percezione; dirò meglio ora, che ciò appartiene all’essenza dell’impressione. Vale già per ogni “contenuto primario”, per ogni sensazione.28 In altri termini, la transitività della sensazione risiede nella sua vivacità. Ma di quale vita si tratta e, soprattutto, come è possibile descriverla? A questo punto infatti, a proposito dell’origine dell’intenzionalità e del tempo fenomenologico, non è evidentemente più possibile considerare il modo della datità come punto di partenza della descrizione, poiché parlare di “modo della datità” significa presupporre già una intentio e di conseguenza l’intenzionalità stessa. A livello dell’assoluto fenomenologico che rende possibile ogni descrizione, è impossibile fare appello alle risorse della descrizione intenzionale e metterne in opera il principio fondamentale secondo cui il modo della datità rivela l’essere del dato. Bisogna dunque cercare di spiegare la vivacità transitiva della sensazione, in altri termini il tempo fenomenologico a partire dalla sensazione stessa. Per farlo, partiamo da una nota di Husserl. Dopo aver affermato che tutte le impressioni, siano esse contenuti primari o vissuti portatori di intenzionalità, si costituiscono nella coscienza originaria, Husserl ricorda che ci sono due classi fondamentali di vissuti: “Gli uni sono atti, sono ‘coscienza di…’, sono vissuti che hanno ‘relazione a qualcosa’; gli altri no. Il colore sentito non ha alcuna relazione a qualcosa”.29 E alla fine di questa frase, Husserl 28. Ivi, “Appendice III”, p. 131. 29. Ivi, § 42, p. 114.

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aggiunge la nota seguente: “Nella misura in cui è lecito indicare la coscienza originaria, il flusso stesso costitutivo del tempo immanente e dei relativi vissuti, come un atto, cioè suddividerlo in unità e in atti, si potrebbe e si dovrebbe pur dire che un atto originario o un originario contesto d’atto costituisce unità che a loro volta sono o non sono atti. Il che però solleva delle difficoltà”. Cosa significa questa nota e, soprattutto, quali sono le difficoltà che solleva? Riguardano il concetto di atto. Fin dalle Ricerche logiche, a proposito del termine di atto, che designa i vissuti della significazione, i vissuti propriamente intenzionali,30 Husserl ha infatti tenuto a sottolineare che “non si deve naturalmente più pensare al senso originario della parola actus: l’idea dell’attività deve assolutamente restare esclusa”.31 Ma se questa accezione e questa esclusione valgono per i vissuti intenzionali costituiti, la cui costituzione è indagata nelle Lezioni sul tempo, non potrebbero valere al contrario per il flusso della coscienza originaria, per il flusso dei vissuti in cui precisamente si costituiscono queste unità che sono gli atti intenzionali. Qual è allora il senso del concetto di atto quando designa i vissuti costitutivi del tempo immanente stesso, quando designa i vissuti iletici originari che hanno per correlati diretti i vissuti intenzionali e per correlati indiretti le unità oggettive costituite in e da questi vissuti intenzionali? Per cercare di rispondere a questa domanda, prestiamo attenzione al modo in cui Husserl caratterizza, più di quanto in effetti non descriva, il flusso delle impressioni originarie, il flusso della coscienza originaria. Per esempio, egli scrive che l’impressione originaria è l’assoluto inizio di questa generazione, la fonte originaria, quella da cui tutto il resto costantemente si genera. Essa non viene però prodotta a sua volta, non nasce come qualcosa di generato, ma per genesis spontanea: è genesi originaria. Non cresce (non ha alcun seme): è creazione originaria. Quando diciamo: all’“ora” che si modifica in “non30. Id., Ricerche logiche, cit., II, V, p. 136. 31. Ivi, § 13, p. 169; cfr. § 30, p. 239.

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ora” si aggiunge continuamente un nuovo “ora”, oppure: una fonte produce, scaturisce in un originario improvviso; tutte queste sono solo immagini.32 O ancora: Non possiamo dire altro che: questo flusso è qualcosa che noi chiamiamo così in base al costituito, ma che non è nulla di temporalmente “obbiettivo”. È l’assoluta soggettività ed ha le proprietà assolute di qualcosa che si può indicare, con un’immagine, come flusso, di qualcosa che scaturisce in un punto d’attualità, in un punto che è fonte originaria, in un “ora”, ecc. […] Per tutto questo ci mancano i nomi.33 Non solamente nulla vieta di accordare alla coscienza o all’impressione originarie una dimensione di attività la cui esclusione concerne le sole unità costituite, ma al contrario, e a questo punto, tutto lo esige. Husserl insiste infatti sulla spontaneità e dunque sull’attività, dell’impressione originaria, sottolinea l’instancabile attività, la transitività incessante del flusso iletico, della vita immanente assoluta. E del resto, in che modo la coscienza originaria potrebbe spostarsi “da un ‘ora’ a un altro” e “spianare il cammino alle intenzioni d’esperienza”, ossia all’intenzionalità oggettivante, se fosse essenzialmente inattiva e incapace di dispiegare una forza? O, in altri termini ancora, dal momento che “tutti i vissuti sono impressi, ne abbiamo coscienza mediante impressioni”34 e che ogni impressione o ogni ora è “vivo punto d’origine dell’essere”,35 il flusso costituente originario è l’incessante rinnovarsi di una sorgente, la sua attività. In poche parole, gli atti intenzionali e l’intenzionalità della coscienza devono la loro costituzione all’attività, alla forza, all’intensità dell’impressione originaria, insomma all’energia della vita trascendentale assoluta. 32. Id., Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, cit., “Appendice I”, p. 124. 33. Ivi, § 36, p. 102. 34. Ivi, § 42, p. 113. 35. Ivi, § 31, p. 97.

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Possiamo oramai dare per acquisito che la transitività della sensazione è funzione della sua vivacità e che l’intenzionalità trae la sua origine costituente dall’intensività della sensazione transitiva. Tuttavia, qualificando l’impressione originaria come fonte e creazione all’origine e la soggettività assoluta come flusso, Husserl ha precisato che parlava per immagini. È dunque legittimo pronunciarsi sull’intenzionalità a partire da immagini? Husserl stesso spiega la natura del suo discorso, quando ammette di essere stato obbligato a designare il flusso soggettivo costituente a partire da ciò che vi è costituito. Ma cosa significa questo obbligo se non esiste né nome né concetto propriamente fenomenologici per l’assoluto fenomenologico e, in definitiva, per la fenomenologia stessa? E riconoscere che, per dire la soggettività assoluta, mancano i nomi, non significa necessariamente aprire la fenomenologia trascendentale al suo “oltre”? È allora possibile, e a quali condizioni, concepire ciò che Husserl designava attraverso immagini? Se la distinzione tra immagine e concetto appartiene a tutta la filosofia in quanto tale, la linea di tale partizione non è fissata una volta per tutte, e ogni filosofia è condotta a tracciarla in maniera diversa. In linea di principio non è dunque impossibile concepire ciò che è fenomenologicamente inconcepibile. Eppure, rispetto alla fenomenologia, una tale impresa non avrebbe alcun senso, se quest’ultima non ne avesse suggerita, e in certo qual modo dischiusa, la possibilità. Certo, nulla può saltare oltre la propria ombra se non saltando nel sole, come Hegel secondo Heidegger, o meglio nel proprio sole, come il pensatore dell’eterno ritorno,36 ma è sempre possibile riconoscerne pazientemente i margini. E Husserl ha spesso potuto e saputo lasciar emergere delle possibilità che, in linea di principio, non potevano non sfuggirgli. È questo il caso? E ha indicato la dimensione a partire dalla quale può essere pensato ciò per cui gli mancavano i nomi?

36. Cfr. M. Heidegger, La questione della cosa. La dottrina kantiana dei principi trascendentali (1962), a cura di V. Vitiello, Guida, Napoli 1989, p. 173 e F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, trad. di M. Montinari, in Opere, cit., vol. VI, tomo I, Libro II, “Dei sublimi”.

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È possibile. Nel 1933, ritornando sulla questione della temporalità, Husserl dichiarava infatti quanto segue: Nella mia vecchia dottrina della coscienza interna del tempo, mi sono occupato dell’intenzionalità e l’ho presentata precisamente come un’intenzionalità che si predispone in quanto protensione, che si modifica in quanto ritenzione e che conserva l’unità, ma non ho parlato dell’io né ho caratterizzato una tale intenzionalità come egoica (intenzionalità del volere in senso esteso). Ho introdotto successivamente l’intenzionalità egoica in quanto fondata su una intenzionalità senza ego (“passività”). Ma l’ego degli atti e degli habitus d’atti che ne derivano, non si ritrova forse in un costante sviluppo? Non siamo autorizzati, o addirittura obbligati a presupporre una intenzionalità pulsionale universale che costituisce in maniera unitaria ogni presente originario in quanto temporalizzazione che si conserva e che concretamente si muove da presente a presente, di modo che ogni contenuto sia il contenuto di riempimento della pulsione e sia intenzionato prima del termine […]?37 Husserl ha dunque ricondotto la transitività della sensazione originaria a una intenzionalità pulsionale universale. Tuttavia, se concepiamo il tempo come un passaggio da un ora all’altro, questa intenzionalità pulsionale non è propriamente temporale perché assicura precisamente la transizione da un presente all’altro, transizione senza la quale non c’è tempo. In altri termini, non bisogna comprendere qui per “intenzionalità pulsionale” una intenzionalità che sarebbe per di più pulsionale ma, all’inverso, una pulsionalità a partire dalla quale si costituisce l’intenzionalità stessa. Husserl, ricordiamolo ancora, ha sempre ricercato l’origine della coscienza del tempo e del tempo della coscienza, l’origine dell’intenzionalità, nei dati iletici a cui appartengono an37. E. Husserl, “Universale Teleologie”, in Zur Phänomenologie der Intersubjektivität, Husserliana, Nijhoff, Den Haag 1973, vol. XV, pp. 594-595.

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che i momenti sensibili della sfera delle pulsioni. Ma se Husserl si è trovato obbligato a presupporre una pulsionalità preintenzionale e pretemporale, non ha mai proceduto a un’analisi della pulsione né a fortiori ha spiegato la maniera in cui poteva dare luogo all’intenzionalità, come insomma il senso e la fenomenicità provengono dalla forza. Cos’è dunque una pulsione? In generale, ogni pulsione è un impulso verso qualche cosa, una forza ordinata e subordinata a un termine o a una meta a cui mira, verso il quale tende con intensità. In questo senso, non c’è pulsione senza intenzione, o meglio, l’intenzione è un momento della pulsione. Certo Husserl ha neutralizzato in qualche modo il significato intensivo del tendere verso…, ma ciò è dovuto al fatto di aver inizialmente concepito ogni intenzione a partire dall’intenzionalità oggettivante, teorica, e ora che si tratta di riprendere la costituzione di quest’ultima, possiamo sbarazzarci di questa neutralizzazione dell’intensità dell’intenzione. L’intenzione che è alla base dell’intenzionalità si lascia dunque ricondurre alla pulsione quale sua origine. Tuttavia questo non è sufficiente per ricondurvi l’intenzionalità stessa. Per farlo, bisogna ancora dimostrare che anche la sensazione e il senso appartengono alla pulsione. La sensazione, perché è nella sensazione che Husserl vede l’origine del tempo e dell’intenzionalità; il senso, perché ogni intenzionalità ne è portatrice. Se ogni pulsione è un tendere verso…, ciò verso cui la pulsione si muove, la sua meta, deve esserle dischiusa e deve appartenerle a priori, altrimenti non potrebbe precisamente tendervi; e tale tensione verso… non è altro che la pulsione nel suo stesso esercitarsi. Ora, se sentire significa essere aperti a ciò che può propriamente affettare e, in tale affezione, aprirsi a se stesso, allora la sensazione è un momento della pulsione perché questa, che non è mai uno stato ma sempre un evento, viene a sé nel tendere alla propria meta. La pulsione non è dunque pulsione verso qualche cosa di assolutamente indeterminato e indifferente, ma verso qualche cosa di buono. Lo afferma Nietzsche: “Ogni ‘pulsione’ è pulsione verso ‘qualcosa di buono’, considerato da un qualsiasi punto di vista; in essa è valutazione: solo per 173


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questo si è incorporata”.38 Una valutazione, ossia un pensiero e dunque una significazione. Il pensiero, il senso, sono inoltre momenti di ogni pulsione. E di questi tre momenti – l’intenzione, la sensazione e il senso – quest’ultimo è di diritto il primo perché nessuna pulsione potrebbe tendere a una meta senza tendere alla propria meta, né tendere alla propria meta senza tendere a ciò che è buono per lei, a ciò che per lei e per lei solamente vale e che, in quanto valutazione, è quel senso a cui deve il fatto d’essere l’esercizio che è. Per misurare le conseguenze di questa riconduzione dell’intenzionalità alla pulsionalità, non è certo inutile tornare indietro. Se essere fenomeno significa essere costituito dalla soggettività trascendentale, questa, che è in sé e per sé il proprio fenomeno, deve necessariamente autocostituirsi, e potrebbe farlo soltanto partendo dalla vita iletica. Ora, in che modo la hyle, apparizione senza apprensione in cui nulla appare, può dare luogo a una apprensione originaria, a una prima apparizione di qualche cosa? Per tentare di risolvere questa difficoltà davvero fondamentale, e per rendere conto della transitività della sensazione senza la cui ritenzione non c’è né intenzionalità né temporalità, Husserl finisce per ricorrere alla pulsionalità della vita assoluta. Cosa ne è allora della soggettività stessa? Non si deve costituire in quanto pulsionale, ossia come quel corpo di cui la sensazione transitiva è l’evento? Senza dubbio. La soggettività può dunque essere effettivamente costituente a condizione di essere corpo pulsionale, ed è di conseguenza in tale corpo che bisogna andare a cercare la sorgente ultima della fenomenicità. Non è quindi assurdo ricondurre la soggettività intenzionale donatrice di senso al corpo pulsionale, poiché non c’è sensazione o pulsione senza una preliminare valutazione o, in altri termini, poiché ogni estetica trascendentale, che si tratti di quella di Kant o, in maniera più estesa, di quella di Husserl, presuppone un sistema di giudizio di valore, una “morale”. Di passaggio, possiamo osservare che questa affer38. F. Nietzsche, Frammenti postumi 1884, trad. di M. Montinari, in Opere, cit., vol. VII, tomo II, 26 [72], p. 152 (traduzione modificata).

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mazione non implica alcuna dissoluzione dell’estetica trascendentale nella logica trascendentale, dato che i giudizi di valore non formano una classe di giudizi apofantici ma, all’inverso, significa che l’estetica e la logica trascendentali si fondano sugli stessi giudizi di valore, sulla stessa “morale” che non è, necessariamente, l’unica possibile.39 Seguendo il movimento e la logica interni all’analisi costitutiva, siamo stati così condotti oltre la fenomenologia. Al di là e non al di qua, perché il progetto di costituzione può mantenervi un senso. Infatti, ricondurre la sensazione alla pulsione e la pulsione a un valore o pensiero senza di cui la pulsione non è nulla, significa in fin dei conti rendere ragione della dimensione “intellettuale” – che non vuol necessariamente dire teorica – dell’intenzionalità e, allo stesso tempo, mantenere aperta la possibilità di una ricerca costitutiva. Probabilmente quest’ultima si ritrova a esserne radicalmente modificata o piuttosto dislocata. Affermando, contro quell’empirismo di cui Husserl resta per certi aspetti tributario, che “a quanto pare l’intelletto è più antico della sensazione”,40 Nietzsche formula il principio di questa dislocazione. Cos’altro significa, infatti, quella precedenza dell’intelletto sulla sensazione, se non che i modi di sentire dipendono dai modi di significare o di pensare? Cos’altro significa, se non che il corpo è una “grande ragione” di cui la “piccola ragione”, la ragione soggettiva, è lo “strumento”?41 Cos’altro significa, per concludere, se non che il corpo può essere costituente in maniera più potente del flusso che costituisce la soggettività assoluta?

Traduzione dal francese di Sara D’Andrea

39. Sul rapporto tra giudizio di valore e giudizio predicativo, sensazione e valutazione, cfr. D. Franck, Nietzsche e l’ombra di Dio, cit., p. 219 sgg. e p. 243 sgg. 40. F. Nietzsche, Frammenti postumi 1876-1878, trad. di M. Montinari, in Opere, cit., vol. IV, tomo II, 23 [19], p. 404. 41. Id., Così parlò Zarathustra, cit., Libro I, “Dei dispregiatori del corpo”.

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Archivio Enzo Paci A oltre trent’anni dalla morte di Enzo Paci, con il moltiplicarsi degli studi e delle iniziative legate alla sua opera, l’Archivio chiede a chi ha scritto e scriva su Enzo Paci di voler gentilmente inviare copia del proprio lavoro all’Archivio stesso. Lo scopo evidente è quello di riunire e fare conoscere lavori e ricerche, e i loro autori, per favorire altri studi. Nello stesso ternpo si intende garantire la presenza di una collezione completa di scritti di e su Enzo Paci nel luogo che ne conserva manoscritti e biblioteca. L’invito si rivolge anche a chi abbia scritto una tesi di laurea o una dissertazione di dottorato su Enzo Paci e/o sul contesto culturale in cui si è mossa la sua attività. Al momento la collezione è parziale e sembra utile completarla. Si potrà in questo modo compilare anche un elenco degli studiosi interessati. Inoltre si è avviata l’acquisizione e la catalogazione dell’epistolario. Chiediamo pertanto a chi sia in possesso di lettere di Enzo Paci di collaborare, inviandoci fotocopia delle lettere; se ne ha tenuto copia e non ha nulla in contrario, sono benvenute anche fotocopie delle lettere del corrispondente. L’indirizzo al quale inviare il materiale è: Archivio Enzo Paci via Beato Angelico 5 20133 Milano Ringraziamo tutti anticipatamente e raccomandiamo di accludere al materiale anche il proprio recapito.


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vicino/lontano

La conversazione tra Carlo Ginzburg e Arnold Davidson, moderatore Pier Aldo Rovatti, si è svolta durante le giornate di “vicino/lontano” e precisamente a Udine il 13 maggio 2007 nella chiesa di San Francesco. Il testo che segue è la trascrizione (a cura di Deborah Borca) dell’evento, compreso il dibattito con il pubblico, e ne mantiene fedelmente il carattere orale.


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Il mestiere dello storico e la filosofia CARLO GINZBURG ARNOLD I. DAVIDSON

Pier Aldo Rovatti. Il lavoro di Carlo Ginzburg ha influito molto su tutta la mia generazione e anche oltre. C’è un testo che per me è stato un testo di passaggio, ed è Spie. Radici di un paradigma indiziario, contenuto inizialmente nella Crisi della ragione, curato da Gargani nel 1979. È l’epoca in cui si lanciano molti dibattiti, tra cui anche quello sul pensiero debole. Arnold Davidson l’ho incrociato più recentemente attraverso Foucault (non che Foucault sia lontano dagli interessi di Carlo Ginzburg, anzi in un certo senso potrebbe essere un tramite). Davidson è colui che ha rilanciato la tematica della cura di sé, dell’ultimo Foucault, che è innanzitutto da capire, perché non tutto di questa tematica è trasparente. Il mio compito, qui, è quello di fare delle domande – che saranno generali –, a cui Ginzburg e Davidson risponderanno come vogliono, anche al limite non tenendone conto. La prima è relativa alle pratiche: le pratiche dello storico e le pratiche del filosofo, l’esercizio di questo “mestiere” o di questi due “mestieri”. Abbiamo uno storico che è anche un filosofo – per quanto non so se Carlo Ginzburg ami essere chiamato così – e abbiamo un filosofo che ha una sua curvatura storica. Per esempio, in un colloquio con Pierre Hadot, con cui ha avuto uno scambio molto profondo, Davidson a un certo punto dice: “Lo scopo di un sistema moderno è di fornire una spiegazione del mondo, dell’uomo, e […] invece lo scopo principale di un testo filosofico antico è di trasformare chi lo ascolta”.1 Così 1. P. Hadot, La filosofia come modo di vivere. Conversazioni con Jeannie Carlier e Arnold I. Davidson (2001), trad. di A.C. Peduzzi e L. Cremonesi, Einaudi, Torino 2008, p. 124.

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il gioco tra presente e passato, tra vicino e lontano, è che questo rimandare al testo antico ci riporta a un “invece”, forse a un programma che si rivolge al futuro. Chi sa che il “mestiere” del filosofo, di colui il quale legge i testi ripiegandosi anche, come fa Davidson, verso i testi dell’antichità, dello stoicismo, della cultura filosofica ellenistica, non sia, come pare, un programma per il nostro lavoro filosofico? Dall’altra parte, ricordo che c’è una lettura specifica dei testi. Ginzburg è uno storico particolare; di solito si usa la parola micro davanti alla parola storia per indicare lo scavo, il lavoro nel dettaglio. E tra le molte cose che Ginzburg mi ha insegnato – mi piace dirlo pubblicamente –, è stata quella di diventare un appassionato lettore di Aby Warburg. E in fondo non ho smesso di praticare questo lavoro di lettore, di appassionato di Aby Warburg, che per quanto non sia un filosofo, ha dato un contributo decisivo alla filosofia. Dice Ginzburg che bisogna scavare dentro i testi, e penso che tutti e due siano d’accordo su questo punto. Mi piacerebbe sentire cosa ne pensano. Ginzburg dice anche qualcos’altro nel suo ultimo libro, Il filo e le tracce,2 e cioè che per leggere un testo bisogna sì scavare, senza pretendere però di esaurire il testo; si tratta di andare a scoprire qualcosa come “le voci incontrollate” che stanno dietro il testo. È un altro scenario che sarebbe interessante aprire nel dibattito. Finisco dicendo che forse un elemento tra i tanti che vi accomunano, al di là dell’amicizia personale, è il fatto di riconoscere un pregio particolare alla parola filologia – che spesso è allontanante –, e darle invece una carica di notevole significatività. In questo caso voi avvicinate questa parola e date un valore aggiunto alla lentezza della filologia, un valore che ha a che fare proprio con l’esercizio delle pratiche che vi interessano. Arnold I. Davidson. Prima di tutto vorrei dire qualche parola sul mio rapporto con i libri di Carlo Ginzburg, un piccolo prologo per una maggiore comprensione. 2. C. Ginzburg, Il filo e le tracce. Vero falso finto, Feltrinelli, Milano 2006.

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Conosco Carlo Ginzburg da tanto tempo, e quando ci siamo visti, prima delle giornate di “vicino/lontano”, Carlo mi ha detto: non dobbiamo discutere prima del nostro incontro, è meglio conservare la spontaneità, l’importante è trovare i punti di dissenso. Non è sempre facile, tuttavia, trovare punti di dissenso. Carlo Ginzburg e io abbiamo tante prospettive in comune, e penso che condividiamo soprattutto un certo atteggiamento. Io ho una stima sterminata per il suo lavoro, ma questa stima non impedisce la possibilità di un vero dibattito, anzi in questo contesto discutere diventa una maniera di mostrare stima. Nella conclusione della sua discussione sul recente libro di Ariel Toaff, Ginzburg dice: “Qualche volta la sordità morale e quella intellettuale si intrecciano, rafforzandosi a vicenda”.3 Fortunatamente possiamo anche rovesciare la frase di Ginzburg e dire: qualche volta la lucidità morale e quella intellettuale si intrecciano, rafforzandosi a vicenda. Come professore americano (sei mesi all’anno, infatti, insegno all’Università di Chicago) volevo dirvi che ci sono almeno due nomi italiani del Novecento che rappresentano per me l’intreccio costante di lucidità morale e lucidità intellettuale. Il primo, noto a tutti, è Primo Levi. Se questo è un uomo e I sommersi e i salvati manifestano in ogni pagina una lucidità morale e una lucidità intellettuale che si rafforzano a vicenda. Il secondo nome è noto a voi italiani (sebbene sia molto meno letto e presente di Primo Levi) e ignoto negli Stati Uniti; è un nome che ho comunque pronunciato tante volte e lo farò anche qui, davanti a Carlo, per quanto non sia facile: è il nome di Leone Ginzburg. Anche Leone Ginzburg sapeva mantenere assieme la lucidità morale e quella intellettuale, e penso innanzitutto alla sua ultima lettera, la cui lettura dovrebbe essere obbligatoria per tutti, e mi dispiace davvero che non lo sia neanche in Italia. Se volete veramente capire che cosa vuol dire mettere insieme la lucidità morale e quella intellettuale, vi consiglio la lettura di questa lettera, che troverete nelle Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana.4 3. L’articolo di Ginzburg è uscito sul “Corriere della Sera” il 23 febbraio 2007. 4. L. Ginzburg, Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana (8 settembre 1943-25 aprile 1945), a cura di P. Malvezzi e G. Pirelli, Einaudi, Torino 1961, p. 148.

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La pratica e l’esercizio, dunque. Il problema è che Carlo Ginzburg non è uno storico che si occupa di qualsiasi cosa, ha una pratica molto particolare che va al di là della microstoria. Leggere un testo di Carlo Ginzburg richiede un certo esercizio, una certa pratica di sé, come risulta subito chiaro. Il tema dello straniamento, per esempio, che Ginzburg ha sviluppato nel primo capitolo di Occhiacci di legno,5 mostra molto bene il ruolo di un certo tipo di pratica all’interno della storia, ma secondo me anche all’interno della filosofia. Il problema della filosofia è che abbiamo perso l’abitudine di fare esercizi, non soltanto esercizi intellettuali ma anche morali e politici. La filosofia, per come viene fatta oggi, è un tipo di teoria che spiega il mondo e l’uomo, come ha detto Pier Aldo Rovatti sulla scia di Hadot. Non è ovvio, perciò, come possiamo reintegrare l’esercizio all’interno della filosofia. Per esempio, nel saggio di Ginzburg sullo straniamento – in cui cita, non a caso, anche un autore centrale del lavoro di Pierre Hadot, Marco Aurelio – mi sembra ci sia un certo tipo di esercizio valido anche per noi oggi. Qual è la posta in gioco dello straniamento? Ce ne sono tante, ma lo straniamento come esperienza non è per nulla facile: ci vuole tempo, pazienza, sforzo intellettuale e morale. Direi, comunque, che ci sono almeno due poste in gioco principali. La prima è di far emergere la propria prospettiva, il proprio punto di vista, da dove cominciamo, i presupposti della prospettiva che abbiamo un po’ in ombra. Lo straniamento ci consente di vedere, di mettere in risalto la nostra prospettiva, e poi – ed è questo, secondo me, il suo compito filosofico – di esaminare, di discutere e di accettare in modo più conscio, oppure di rifiutare, la prospettiva. Carlo Ginzburg ha insistito tantissimo sull’aspetto cognitivo della prospettiva. Il fatto che abbiamo tutti una prospettiva, che c’è sempre una prospettiva particolare, locale, non esclude che possiamo discutere le nostre prospettive, dibattere filosoficamente. Non si va dalla prospettiva particolare al re5. C. Ginzburg, “Straniamento. Preistoria di un procedimento letterario”, in Occhiacci di legno. Nove riflessioni sulla distanza, Feltrinelli, Milano 1998.

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lativismo assoluto: certo, c’è una prospettiva, ma si può fare un’argomentazione intorno alla prospettiva per valutare qualcosa che di solito non vediamo. Quindi la prospettiva ha questo aspetto conoscitivo, che non è e non dovrebbe essere identificato con il relativismo assoluto. E si può dire che quasi tutto il lavoro di Carlo Ginzburg negli anni recenti ruoti intorno all’idea dell’aspetto cognitivo della prospettiva. Ma lo straniamento, vale a dire entrare in un’altra prospettiva per riesaminare la nostra e capirne i presupposti epistemologici, non è la sola posta in gioco, perché c’è anche una posta in gioco morale ed etica. Io penso sinceramente che lo storico non possa e non debba – ma soprattutto non possa – evitare nella sua scrittura, sempre, una prospettiva di valutazione; non soltanto di cognizione, ma di valutazione. Ogni frase scritta da uno storico interessante implica una prospettiva di valutazione, per cui il problema è come mettere insieme il lavoro storico e la necessità di una prospettiva di valutazione. L’idea che il sapere sia sempre prospettico è un’idea fondamentale che si trova in Foucault, e su cui forse Carlo Ginzburg sarà d’accordo. Tuttavia, il problema per Ginzburg è che la prospettiva non si riduce a un rapporto di forza, non è soltanto politica: c’è un aspetto cognitivo, conoscitivo, ma c’è anche, ecco il problema, un altro aspetto che riguarda la prospettiva di valutazione. Vi do un esempio del modo in cui ogni frase di uno storico implica una prospettiva di valutazione. È qualcosa che, secondo me, riguarda ogni descrizione storica e quindi anche e soprattutto una descrizione storica vera. Non c’è un problema di verità. Anche una descrizione vera rivela una prospettiva di valutazione. L’esempio più eclatante si trova citato da un altro storico e amico comune, Pierre Vidal-Naquet, in un libro appena uscito, L’histoire est mon combat, la storia è il mio combattimento.6 Vidal-Naquet lo qualifica come esempio straordinario di due narrazioni, di due récits dello stesso fatto, provienienti da un libro (che non 6. P. Vidal-Naquet, L’histoire est mon combat. Entretiens avec Dominique Bourel et Hélène Monsacré, Albin Michel, Paris 2006.

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ho mai letto) di Shlomo Sand, Les mots et la terre.7 È interessante che anche Pier Aldo Rovatti abbia parlato di filologia, perché il problema qui è che non c’è nessun modo di tradurre, è una singola frase scritta due volte, in cui non c’è un problema di verità, ma che implica una prospettiva di valutazione diversa. In italiano si perde qualcosa, un certo tipo di parallelismo, quindi preferisco citare il francese. La citazione dice: “Haim Naham Bialik a quitté l’Exil et est monté vers la Terre d’Israël quelques années avant le Pogrom de l’an 5689”. Oppure, lo stesso fatto: “Bialik a quitté son pays natal [l’Ukraine] et a immigré en Palestine mandataire avant 1929, année durant laquelle éclata une vague d’émeutes et d’opposition violente à la poursuite de la colonisation sioniste”. L’opposizione tra “a quitté l’Exil” e “a quitté son pays natal”, fra “monter”, cioè salire, un atto quasi sacro (“est monté vers la Terre d’Israël”), e “a immigré en Palestine mandataire”, nonché la differenza di data – il 5689, secondo il calendario ebraico, e il 1929 –, ci mostra una scelta di valutazione che dipende da una prospettiva particolare. Dobbiamo dire che nella scelta tra “a quitté l’Exil” e “a quitté son pays natal” c’è una valutazione molto diversa contenuta in poche parole. È questo il problema della prospettiva di valutazione: ogni scelta di una parola da parte di uno storico implica non soltanto una prospettiva, diciamo conoscitiva, ma una prospettiva di valutazione, come si vede chiaramente nei libri di Carlo Ginzburg stesso. Il secondo esempio che ho scelto può sembrare molto polemico, ma secondo me non lo è. È una verità, ma una verità che implica così chiaramente una prospettiva di valutazione, che si dimentica che sia una verità pura. Proviene dall’ultimo capoverso del libro di Ginzburg Il giudice e lo storico, in cui egli parla della decisione della Corte d’appello di Milano, la quale nota l’assenza di qualsiasi segnale di resipiscenza, di rimorso, di confessione da parte degli imputati. La conclusione di Ginzburg è una descrizio-

7. S. Sand, Les mots et la terre. Les intellectuels en Israël, trad. fr. di L. Frenk, M. Bilis e J.-L. Gavard, Fayard, Paris 2006, citato in P. Vidal-Naquet, L’histoire est mon combat, cit., p. 190.

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ne assolutamente vera, che nello stesso tempo manifesta una valutazione etica e politica chiara. Ginzburg dice: “Questa richiesta lede un diritto umano elementare: quello di difendere la propria innocenza. Sofri, Pietrostefani e Bompressi hanno continuato a dichiararsi innocenti. La giustizia umana è fallibile: perché chiedere a un condannato di provare rimorso per un delitto che potrebbe non aver commesso?”. E poi la frase: “Ma la richiesta di pentimento, di rimorso, di confessione, di abiura viene da un’altra specie di tribunali: quelli dell’Inquisizione”.8 L’ultima frase, cioè che questa richiesta fa capo al tribunale dell’Inquisizione, è una semplice verità, una verità punto e basta. Ma è una verità intrecciata inequivocabilmente con una conclusione di valutazione, perché Ginzburg ha scelto il paragone per rafforzare la conclusione etica. Il problema sta qui. La prospettiva di valutazione ha un ruolo nella storia – quando è fatta bene –, che è molto diverso da quello che assume in un trattato di filosofia morale, dove troviamo i concetti classici di bene, male, giustizia, ingiustizia ecc. Si tratta sempre di un giudizio, per così dire, che viene pronunciato dalla cattedra – questo è il bene, questo è il male, questo è giusto, questo no – e implica il tentativo di giustificare con l’argomentazione filosofica il giudizio morale. Ma chi esprime un giudizio morale di questo tipo in un libro di storia perde un certo compito della storia, che non è quello di emettere giudizi morali di genere filosofico, anche se il giudizio morale non si può evitare. Come districarsi, allora? Questo è per me il vero problema, perché si deve intrecciare la normatività con la verità, come avviene nell’ultima frase di Ginzburg, che pone per forza una prospettiva di valutazione. E ci sono pochi storici che sono riusciti a farlo. Cito altri due esempi, e poi passo la parola a Carlo, con una domanda che spero la più difficile possibile. Il primo lo prendo ancora da Ginzburg, dalla nuova prefazione all’edizione tascabile di Il giudice e lo storico, precisamente dall’ultimo capoverso, che è centrale e privo di sentimenti retori8. C. Ginzburg, Il giudice e lo storico (1991), nuova ed., Feltrinelli, Milano 2006, p. 145.

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ci. Ginzburg scrive: “Altri forse dissentiranno dalle mie conclusioni: non importa. Mi preme fornire a chi legge gli elementi che consentano di formulare un giudizio autonomo su una vicenda che nel corso di trent’anni ha provocato lutti e sofferenze gravissime. E qui si innesta una questione più generale. Troppo spesso, anche nei paesi democratici, la giustizia sembra configurarsi come una sfera remota, sottratta al controllo del cittadino. Attraverso questo caso […] i cittadini potranno farsi un’idea del funzionamento concreto della giustizia. La democrazia, se non sbaglio, si esercita anche così”.9 La frase in questione è: “Mi preme fornire a chi legge gli elementi che consentano di formulare un giudizio autonomo”. È, secondo me (ma vediamo se Carlo è d’accordo), un’eco di un testo molto noto di Primo Levi, un’eco, quindi, che si trova sempre nel contesto della storia, ma in un altro ambito. Esiste un atteggiamento di Primo Levi – che è anche il potere della sua scrittura –, che viene sempre citato, ma in un modo molto approssimativo, perché si cita soltanto l’inizio della frase in merito. Nell’appendice a Se questo è un uomo Levi dice, con una frase che è diventata molto famosa: “Pensavo che la mia parola sarebbe stata tanto più credibile ed utile quanto più apparisse obiettiva e quanto meno suonasse appassionata; solo così il testimone in giudizio adempie alla sua funzione, che è quella di preparare il terreno al giudice. I giudici siete voi”.10 Da una parte, Ginzburg: “Mi preme fornire a chi legge gli elementi che consentano di formulare un giudizio autonomo”, dall’altra, Levi: “I giudici siete voi”. Tuttavia nessuno può leggere Se questo è un uomo senza arrivare a un giudizio morale, a una conclusione etica – è inevitabile. Il paradosso della scrittura di Levi è che il suo linguaggio pacato e sobrio, per citare le sue parole, rafforza la conclusione morale. Non c’è la predica, c’è la descrizione oggettiva, che rafforza paradossalmente la conclusione etica. Perché? Perché anche in Levi, quando dice “i giudici siete

9. Ivi, p. 9. 10. P. Levi, “Appendice a Se questo è un uomo” (1976), in Se questo è un uomo. La tregua, Einaudi, Torino 1989, p. 331.

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voi”, c’è sempre una prospettiva di valutazione, così come nel Giudice e lo storico. Levi stesso ha capito meglio il suo atteggiamento in una conversazione con Ferdinando Camon, in cui descrive in un modo un po’ diverso, e secondo me più giusto, il suo atteggiamento: “È vero che mi sono astenuto dal formulare giudizi in Se questo è un uomo. L’ho fatto deliberatamente perché mi sembrava inopportuno, anzi importuno, da parte del testimone che sono io, sostituirsi ai giudici, quindi ho sospeso ogni giudizio esplicito mentre sono presenti chiaramente i giudizi impliciti”.11 Da tanti anni non leggo un libro di Carlo Ginzburg in cui il mio compito come lettore non sia quello di ritrovare i giudizi impliciti, proprio come in Levi, perché il problema è che questa prospettiva di valutazione, che è sempre presente, non ha l’aspetto di un giudizio morale pronunciato da una cattedra, ma è sempre intrecciata con la verità oggettiva, la verità storica, l’indagine storica. E Ginzburg ci ha mostrato molto bene come dibattere la prospettiva implicita conoscitiva. Pongo ora il problema della prospettiva di valutazione, che è sempre legata alla filosofia, almeno secondo la mia interpretazione, diciamo in modo vago alla filosofia morale e politica. Il problema allora è questo: cosa fa uno storico, che non può evitare giudizi impliciti etici, morali, quando questi giudizi sono al centro di un dibattito? Come può giustificare, non l’indagine storica in quanto tale, cioè i fatti, la descrizione degli eventi – perché per la prospettiva cognitiva c’è un legame con la verità che in un certo senso controlla e regola la prospettiva, che dice questo è vero, questo non lo è. C’è, insomma, un modello di verità che regola la prospettiva. Ma nel caso della moralità, qual è il quadro di regolazione, come mai lo storico può giustificare la prospettiva di valutazione? E infine, qual è il rapporto tra la prospettiva conoscitiva, al centro del lavoro di Ginzburg, e la prospettiva di valutazione? Lo storico, infatti, usa sempre un tipo di implicita filosofia politica e morale: io posso insegnare Il giudice e lo storico anche negli Stati Uniti, in un corso di filosofia politica, senza nessuna diffi11. F. Camon, Conversazione con Primo Levi, Garzanti, Milano 1991, p. 20.

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coltà, e non soltanto perché è un caso molto importante, ma perché contiene, anche se talvolta molto implicito, il giudizio politico e morale. Quale è il rapporto fra lo storico e la prospettiva non di cognizione ma di valutazione, dove c’entra la filosofia morale e la politica? Carlo Ginzburg. Ringrazio molto Pier Aldo Rovatti per la sua introduzione e Arnold Davidson per questo intervento estremamente denso e provocatorio nel senso più alto del termine. Non avevo idea di ciò che Arnold Davidson avrebbe detto – questo faceva parte delle regole del gioco che ci eravamo dati – e quindi ora mi trovo nella situazione di dover rispondere a caldo, e forse in una maniera non abbastanza approfondita, a un discorso che è tutto fuorché superficiale. Ma prima vorrei fare una premessa. Arnold Davidson e io facciamo un mestiere molto simile: non credo nelle divisioni disciplinari in quanto tali. Entrambi lavoriamo su testi, talora molto diversi, che richiedono ogni volta una preparazione specifica; ma c’è un atteggiamento nei confronti dei testi che rinvia a un mestiere condiviso, e forse anche a regole condivise. Naturalmente questo non impedisce il dissenso. Qualcuno però potrebbe dire: certo, voi leggete dei testi, ma che rapporto c’è tra la lettura dei testi e i problemi più generali, che investono la vita di tutti i giorni? Qual è il rapporto tra il vicino/lontano evocato in questo convegno e il rapporto con i testi? Una prima risposta, quasi ovvia, è stata evocata da Arnold Davidson e l’ho evocata anch’io, involontariamente, nel sottotitolo di un libro che è stato citato: Occhiacci di legno. Nove riflessioni sulla distanza. La distanza, il vicino/lontano, è una metafora che può valere sia per il rapporto fra uno studioso e un testo sia per la distanza tra noi e un’altra persona: in entrambi i casi la distanza può essere non solo temporale o spaziale ma anche culturale, come capita sempre più spesso nella vita di tutti. Poco fa, prima che cominciasse questa discussione, Gian Paolo Gri mi parlava del Friuli colorato e non più bianco. Continuamente, nella vita di tutti i giorni, ci scontriamo e ci incontriamo: entrambe le cose. Non si tratta di edulcorare questi rapporti: 187


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spesso sono rapporti difficili, ci scontriamo con la diversità culturale, con la vicinanza e la lontananza. Bisogna superare l’idea illusoria che il rapporto con i testi o il rapporto con le persone sia facile: la trasparenza è un inganno. Il primo aiuto forse ci viene dalla nozione di straniamento, che è stata evocata prima: un atteggiamento che ci fa guardare a un testo come a qualcosa di opaco. È un atteggiamento che può essere spontaneo; più spesso, è il frutto di una tecnica deliberata. Non capire un testo come premessa per capirlo meglio, non capire una persona come premessa per capirla meglio. Questo mi pare un punto assolutamente cruciale. Diffido profondamente delle metodologie che trapassano i testi come un coltello taglia il burro. L’apparente potenza di queste metodologie è illusoria. In realtà l’interprete trova solo se stesso – qui potrebbe esserci un elemento di dissenso con Arnold Davidson, non riguardo al principio generale (su cui siamo d’accordo), ma forse di fronte ad alcuni esempi specifici. Ma andiamo avanti. Ora, la stessa cosa naturalmente succede con le persone. L’idea che tutti si capiscano è illusoria. Al contrario, il fraintendimento, la difficoltà di comprensione fa parte dei rapporti normali, anche fra persone che apparentemente appartengono alla stessa cultura – per non parlare di persone che vengono da culture diverse. Questo sforzo, quindi, è necessario e passa attraverso il riconoscimento dell’opacità. Cosa dice questo testo? Cosa mi dice questa persona? Perché fa così? Io credo che domande di questo tipo debbano essere continuamente poste; bisogna farsi moltissime domande perché la tendenza di tutti, me compreso, è invece di non farsene abbastanza. Quindi bisogna autoeducarsi a farsi domande: nei confronti dei testi, per chi fa questo mestiere; nei confronti delle persone, per chiunque – perché questo fa parte del mestiere di vivere. Ora cerco di rispondere alla domanda che mi ha posto Arnold Davidson. Direi – in via di ipotesi – che anche se ammettiamo che prospettiva cognitiva e giudizio morale siano intrecciati, credo che, nel momento in cui si fa il mestiere di storico, meno si parla di morale meglio è. L’idea del giudizio implicito mi pare 188


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molto potente e naturalmente mi colpisce il rinvio a Primo Levi: in quel momento, mentre scrivevo, si trattava certamente di un rinvio non implicito, ma inconsapevole. Se questo è un uomo è un libro che ho letto tantissime volte, ma in quel momento non ci pensavo: i libri che non si citano possono essere i libri più importanti. Nel momento in cui dico questa frase emerge la forza dell’implicito. Che cosa c’è dietro un’idea dello scrivere che costringa il lettore a leggere tra le righe? Mentre ascoltavo Davidson, pensavo che una prima risposta potrebbe essere Tolstoj: ma sarebbe una risposta paradossale, perché c’è anche il Tolstoj predicatorio, il Tolstoj che rende tutto esplicito, i propri valori ecc. Ma il Tolstoj più potente è quello che descrive e che lascia il giudizio – spesso si tratta di un giudizio tremendamente settario – implicito. Penso a un punto preciso di Guerra e pace, al momento in cui Natasˇa, tutta presa dalla sua infatuazione per Anatole Kuraghin, va a teatro a vedere un balletto. La descrizione del balletto è un esempio straordinario di straniamento. Il giudizio morale, anzi diciamo pure il giudizio moralistico, è implicito nella descrizione del balletto e nella descrizione della gente che guarda il balletto. Anche chi non condivida il giudizio di Tolstoj è afferrato dalla straordinaria potenza attraverso cui quello che non è detto lavora: lavora nel testo e lavora sul lettore, che è costretto a leggere fra le righe. E chi ha insegnato tutto questo a Tolstoj? Direi che è stato uno dei suoi grandi maestri, Voltaire, il maestro dello scrivere breve, dello scrivere conciso: uno scrittore che sa far passare un messaggio ferocemente polemico attraverso quello che non dice. Ma qual è l’altra fonte? Io credo che Tolstoj sia diventato se stesso facendo dialogare due insiemi testuali che hanno in comune, curiosamente, l’estrema concisione, nonché l’enigmaticità della chiarezza. Uno è Voltaire, l’altro sono i Vangeli. Tolstoj ha fatto dialogare nella sua testa questi due insiemi testuali, in maniera conflittuale. Torniamo a quello che dicevo prima, alla potenza del non detto. Credo che nell’idea di prospettiva ci sia anche la prospettiva morale. Un libro che ho letto per la prima volta moltissimi anni fa, e che è stato e continua a essere decisivo per me, può fornire 189


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uno spunto di discussione. Mi riferisco al libro del grande storico dell’arte Ernst Gombrich, Arte e illusione. Gombrich evoca un aneddoto abbastanza noto della letteratura artistica: all’inizio dell’Ottocento un gruppo di pittori va nella campagna romana a dipingere lo stesso paesaggio, lo stesso luogo; ne vengono fuori molti quadri diversi.12 Come mai lo stesso luogo, in questo caso Tivoli, è stato dipinto da questi pittori, nello stesso momento, in maniera tanto diversa? Ognuno di loro si accostava allo stesso paesaggio non solo con un bagaglio tecnico ma con qualcosa che era legato alla propria formazione. In questa specie di griglia, che Gombrich chiama mental set, in questo filtro mentale entrano, io credo, anche i valori morali. Bisogna sottolineare da un lato la diversità, perché quando c’è non si può negare che esista; dall’altro, la traducibilità. Quello che mi colpiva nell’esempio molto bello e molto eloquente di Vidal-Naquet è il fatto che le due frasi – cariche di significati diversi, che rinviano a due differenti mental sets, in cui non c’è solo un elemento cognitivo ma anche una prospettiva religiosa e politica diversa – siano al tempo stesso traducibili. Non si finisce mai di riflettere sulla traduzione, non solo quando lavoriamo sui testi ma anche quando abbiamo a che fare con le persone – anche con persone che parlano la nostra stessa lingua. Un elemento di traduzione c’è anche quando due persone si dicono buongiorno. Magari è nel tono: perché quello lì mi parla in tono ironico? A questo punto sto già traducendo, non è vero? Ora, nessuna lingua è traducibile in maniera perfetta – c’è sempre qualche cosa che non funziona, è venuto fuori anche nella citazione di Arnold Davidson. Ogni traduzione è imperfetta, ma una traduzione è sempre possibile. In latino chi traduce è l’interpres: interpretare vuol dire tradurre. Il lavoro che facciamo di fronte a un testo è di interpretarlo, e cioè, anzitutto, di tradurlo. Possiamo dire allora che c’è un conflitto fra giudizio morale e prospettiva cognitiva? Io credo di 12. E.H. Gombrich, Arte e illusione (1959), trad. di R. Federici, Leonardo Arte, Milano 2003, cap. II, pp. 73-74.

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no, a patto di ammettere che la prospettiva cognitiva non è mai neutra, sebbene sia traducibile. Molti elementi entrano nella prospettiva cognitiva, inclusi gli elementi morali, politici ecc. Tutti questi elementi devono, per quanto è possibile, entrare a far parte della consapevolezza: sia nell’interpretazione di un testo, sia nella vita di tutti i giorni. Dobbiamo diventare consapevoli dei nostri pre-giudizi. Stacco pre-giudizi, perché siamo abituati a dare alla parola pregiudizio una connotazione negativa: mentre qualche forma di pre-giudizio, cioè di giudizio anticipato, è auspicabile, come sa bene chi per mestiere studia testi. Se non si parte da un’ipotesi non si capisce nulla. Se una persona che ne incontra un’altra resta atona, dal loro incontro non scaturirà niente. Certo, dobbiamo evitare di imporre il nostro pre-giudizio al testo, di imporre il nostro pre-giudizio alla persona. Dobbiamo essere disposti (anche se la disposizione non basta: è un elemento necessario ma non sufficiente) a imparare dal testo, a imparare da una persona. Bisognerebbe scendere nei particolari, perché altrimenti il discorso rimane troppo generale, per mostrare come, di fronte a un testo, possa succedere di partire da un’ipotesi e di trovare qualcos’altro – qualcosa che abbiamo imparato dal testo. Trovare non è scontato: è questo il senso del discorso. Imparare il mestiere – sia quello dell’interprete, sia il mestiere di vivere in generale – vuol dire allora imparare a imparare. Rovatti. Le cose che ha detto Carlo Ginzburg sono, per me, molto stimolanti, e mi sembra che il discorso sulla traduzione ci trovi completamente d’accordo (da poco è uscito un fascicolo di “aut aut” proprio su questa questione). Prima di ridare la parola a Davidson, aggiungo una scena alle altre già comparse e che ci hanno fatto vedere, in qualche misura, come lavora da storico Carlo Ginzburg. La scena che vorrei aggiungere è la scena Proust, che ho ritrovato negli ultimi due libri di Ginzburg: nel capitolo iniziale di Occhiacci di legno e in uno dei capitoli a mio parere più interessanti del Filo e le tracce, dedicato alle ultime considerazioni di Sigfried Kracauer, relative al discorso di Benjamin. Tutti ci ricordiamo il famoso episodio della 191


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nonna che sta per morire, in cui c’è davvero una questione di vicino/lontano. Il narratore è lontano, sente al telefono – e già questo ha una funzione di straniamento – la voce della nonna, corre da lei e quindi si avvicina, si avvicina alla nonna, arriva vicinissimo a lei e la vede con un atteggiamento di grande straniamento, cioè con un allontanamento. Cito il passo ritradotto da Ginzburg: “Di me […] c’era soltanto il testimone, l’osservatore, col cappello e il soprabito da viaggio, l’estraneo che non appartiene alla famiglia, il fotografo che viene a prendere un’istantanea di luoghi che non si rivedranno più. Ciò che, meccanicamente, registrarono i miei occhi quando scorsi mia nonna, fu proprio una fotografia […]. Per la prima volta e solo per un attimo, perché scomparve subito, scorsi sul divano, sotto la lampada, rossa, pesante e volgare, malata, persa nelle sue fantasticherie, scorrendo un libro con due occhi un po’ folli, una vecchia sfinita che non conoscevo”.13 Credo che Carlo Ginzburg qui intensifichi proprio la sua tecnica di straniamento o di auto-spaesamento. L’inizio di Occhiacci di legno, proprio le prime righe, sono di un Ginzburg che si trova sbalzato in una situazione culturale diversa, comincia a insegnare a Los Angeles, e si trova di fronte ad “altri” e tutto sommato questo straniamento, questo spaesamento che avverte, è il modo in cui comincia un suo lavoro positivo. Ma aggiungo un altro elemento della scena Proust, per far vedere in che modo un autore come Proust serva al mestiere di storico in maniera assolutamente eccezionale, e mi rifaccio, per quanto riguarda lo straniamento, a Elstir, quel pittore che compare nella Recherche e attraverso il quale noi scopriamo quelli che secondo Ginzburg sono i due lati: il lato Tolstoj, che è stato appena ricordato, e il lato Dostoevskij. Elstir introduce la questione dell’illusione, per complicare ulteriormente le cose. L’ultimo libro di Ginzburg è dedicato al vero, al falso, al finto. Perché, dunque, la questione dell’illusione? Perché in fondo Elstir è quel pittore che dipinge le cose non come sapeva che sono, ma alla rove13. M. Proust, I Guermantes, in Alla ricerca del tempo perduto, Mondadori, Milano 1986, vol. II, pp. 166-168, citato in C. Ginzburg, Il filo e le tracce, cit., p. 229.

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scia: dipinge il mare alla rovescia, dipinge prima ciò che l’illusione percettiva ci presenta, e successivamente le sue eventuali conseguenze. Non come facciamo di solito: prima la struttura logica, legata a delle cause che sono il pregiudizio al massimo livello, in sostanza legata al giudizio che abbiamo già dato. L’effetto Elstir, allora, che poi viene anche avvicinato da Ginzburg al tema della guerra presente nell’ultimo volume della Recherche, è un elemento che introduce a una sorta di illusione necessaria, e che forse è in qualche modo collegato con quelle voci incontrollate che parlano dietro il testo, cui accennavo prima. Davidson. Vorrei ritornare ancora un momento sullo straniamento, perché il problema principale sta nel fatto che è difficile da attuare. È un esercizio, una pratica, una tecnica difficile, dato che non si può stare sempre nell’atteggiamento dello straniamento. Non è soltanto un esercizio intellettuale, sebbene l’intelletto abbia la sua parte. È anche un esercizio dell’immaginazione e della volontà. Non basta, per esempio, venire a un convegno, fare “un po’ di straniamento”, poi tornare a casa e sentirsi a posto. È un esercizio continuo. Foucault ha scritto un saggio intitolato “Per una morale dell’inquietudine”,14 e cioè l’inquietudine come concetto morale. C’è la rassicurazione ma c’è anche l’inquietudine. L’inquietudine non è certo piacevole, ma è eticamente molto importante, secondo me. I filosofi – mi spiace dirlo – non sono affatto degli esperti dello straniamento, gli scrittori un po’ di più. C’è in particolare uno scrittore del Novecento che mette in atto, in maniera straordinaria e costante, lo straniamento: si tratta dello scrittore francese Georges Perec. Perec aveva la capacità di entrare fino in fondo nello straniamento e ha capito bene che è un esercizio. Vi indico un esercizio – praticabile forse anche qui a Udine – che Perec descrive con l’intento di capire Parigi. Perec ha vissuto

14. M. Foucault, Pour une morale de l’inconfort (1979), in Dits et écrits, Gallimard, Paris 2001, vol. II, pp. 783-787 (si tratta di una recensione al libro di Jean Daniel, L’ère des ruptures, Grasset, Paris 1979, apparsa sul “Nouvel Observateur”).

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a Parigi quasi tutta la sua vita, condizione per cui la città diventa invisibile, perciò ci consiglia di iniziare da qualunque strada che cominci con la lettera A a Parigi, poi di trovare una seconda strada che cominci con la lettera B, poi con la C, poi con la D, e fare un itinerario seguendo l’alfabeto. Alla fine eccoci in un’altra città, sconosciuta. C’è uno straniamento imposto dall’itinerario. È un’idea molto banale, ma anche molto interessante. Ho provato a farlo, a Parigi, anche se non è stato facile: ho impiegato ore per trovare una strada dalla H alla I. Si capisce molto bene cosa sia una città, sebbene sia anche una pratica dolorosa. In un altro testo, Perec si siede in un caffè di Parigi e descrive tutto: ogni evento, ogni attività, l’autobus, un vicino…15 È un testo allucinante perché si capisce che quasi tutta la vita è invisibile e ci vuole uno sforzo di straniamento per vedere le possibilità nascoste. Forse, allora, il contesto accademico non è il luogo più adatto per trovare il momento in cui poter praticare lo straniamento, ma alla fine è questo che dobbiamo cercare: le condizioni per praticare lo straniamento. Infine, ancora due parole sulla storia e il giudizio implicito. Sono consapevole della potenza del giudizio implicito soprattutto leggendo Primo Levi, tuttavia mi sembra che ci sia anche il compito di rendere esplicito il giudizio (morale) implicito. Si tratta, forse, di un compito propriamente filosofico, perché il giudizio implicito non è mai sufficiente, dato che c’è sempre la possibilità di un’altra prospettiva etica, e soltanto rendendo esplicito il giudizio implicito si può cominciare il dibattito filosofico. Allora il compito, almeno uno dei miei compiti filosofici, è di rendere esplicito un giudizio implicito che non sembra neanche un giudizio. Quando ho scritto il libro sulla storia della sessualità,16 ho letto i Tre saggi di Freud, in cui si dice qualcosa di molto comune, che la sessualità non è il luogo del giudizio morale. Bisogna capire

15. G. Perec, Tentativo di esaurire un luogo parigino (1975), Baskerville, Bologna 1989. 16. Cfr. A.I. Davidson, The Emergence of Sexuality, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 2004.

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la sessualità, insiste Freud, ma ci sono dei giudizi impliciti così difficili da cogliere che il compito filosofico, e anche storico, è di far emergere il giudizio implicito allo scopo di avviare un dibattito filosofico. Dal momento in cui si rende esplicito il giudizio implicito, infatti, avviene un cambiamento di prospettiva. C’è però una cosa più profonda, su cui anche Carlo Ginzburg si è mostrato d’accordo: la prospettiva cognitiva è anche una prospettiva di valutazione, che in un certo senso è inevitabile per qualunque storico. A questo proposito, leggendo un testo del grande storico italiano Arnaldo Momigliano, mi ha colpito il suo atteggiamento opposto, che vuole invece separare nettamente la storia e il giudizio. Momigliano dice: “O possediamo una fede religiosa o morale, indipendente dalla storia, che ci permette di emettere giudizi sugli avvenimenti storici, oppure dobbiamo lasciare perdere il giudizio morale. Proprio perché la storia ci insegna quanti codici morali ha avuto l’umanità, non possiamo derivare il giudizio morale dalla storia”.17 Su quest’ultima affermazione sono d’accordo: non possiamo derivare il giudizio morale dalla storia. Tuttavia l’atteggiamento di Momigliano in un altro testo (che non vi leggo per mancanza di tempo) è che c’è un’opposizione fra la prospettiva morale, che per Momigliano è astorica, e la storia in quanto tale. Se rifiutiamo una divisione così netta e questo presunto punto di vista, per così dire, dell’eternità, fuori della storia, bisogna trovare un giudizio morale all’interno della storia, che non si può derivare dalla storia, ma che è comunque immanente alla storia, nel senso che non c’è un luogo fuori della storia, un luogo eterno in cui si trova il giudizio morale: è all’interno della storia. Qui, però, c’è un problema, perché Carlo rifiuta implicitamente, e penso anche esplicitamente, l’idea che il giudizio morale sia soltanto un giudizio che viene da un rapporto di forza. Il giudizio morale è un giudizio che si può difendere, non è soltanto un giudizio ideologico, del tipo: c’è questo rapporto di forza e quindi giudico così. Se il giudizio morale è immanente alla 17. A. Momigliano, “Storicismo rivisitato” (1974), in Sui fondamenti della storia antica, Einaudi, Torino 1984, p. 461.

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storia, qual è la base, il fondamento del giudizio morale che non si riduce alla storia, ma che è immanente alla storia? Dove si trova il punto di appoggio per quel difficile tipo di giudizio? Ginzburg. Mi fa molto piacere che Arnold abbia citato questo passo di Momigliano. Momigliano è stata una delle persone che hanno contato di più nella mia formazione, forse soprattutto dopo la sua morte. Ho avuto la fortuna di frequentarlo, ma per capire certe cose che ha scritto ci ho messo degli anni. Ora, provo a immaginare di proseguire una delle discussioni che ho avuto con lui. Che cosa direi? Direi che a mio parere la frase che è stata citata da Arnold Davidson forse non tiene abbastanza conto del punto di vista dell’osservatore – del punto di vista del pittore, per rifarsi all’esempio di prima. Se ci accostiamo alla varietà di comportamenti morali partendo dall’osservatore, troviamo, paradossalmente, una via che ci può portare verso l’oggettività. In che senso? Dobbiamo distinguere – come gli antropologi, in particolare, ci hanno insegnato a fare – tra il linguaggio dell’attore e il linguaggio dell’osservatore, tra il livello emic e il livello etic, come si dice in gergo. Tener presente questa distinzione è utile, perché troppo spesso gli storici si comportano come ventriloqui, facendo parlare (senza rendersene conto) gli attori con la propria voce. Ma non credo che si debba scegliere tra i due livelli di analisi: entrambi sono necessari, perché uno condiziona l’altro. Domande formulate in un idioma etic permettono di far emergere risposte formulate in un idioma emic. È una distinzione artificiale, così come è artificiale qualunque esperimento scientifico. Dobbiamo cercare di ascoltare i valori degli altri, anche quelli che ci appaiono dei disvalori; ma non possiamo non partire dai valori nostri, nei cui confronti un atteggiamento di assoluto distacco è impossibile, perché questo c’impedirebbe di vivere. L’osservatore è legato a una prospettiva locale: è un uomo o una donna, appartiene a un ambiente sociale, a una comunità linguistica. Ma obiettività e investimento emotivo, politico, morale non sono incompatibili: si tratta di stabilire un rapporto tra loro. L’oggettività può emergere solo da quest’intreccio di domande e risposte. 196


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Domanda dal pubblico. L’osservatore, per riprendere Ginzburg, ha la sua prospettiva, i suoi valori, e guarda l’altro, che può proporre dei disvalori, può proporre qualcosa di diverso dai nostri valori. Abbiamo visto bene che ogni uomo ha la sua prospettiva propria, da cui non può prescindere, ma allora che cosa può succedere nel confronto? Secondo alcuni questo potrebbe dare il via a una guerra: se due persone hanno punti di vista diversi, ci può essere uno scontro tra i due punti di vista. Come si reagisce a questa diversità? Cosa succede quando c’è l’incontro nel diverso? La risposta potrebbe essere il dialogo, ma forse da un punto di vista ancora più filosofico ci si potrebbe chiedere: esiste una parola come oggettività? Si può parlare di verità? Perché se ognuno porta la sua prospettiva, se ognuno ha il suo punto di vista, e parte dalla sua prospettiva, con i suoi valori, ho difficoltà a immaginare un dialogo fra le persone, soprattutto di culture diverse, di mondi diversi e di tempi diversi. Ginzburg. Premetto che non sono un pacifista assoluto, e cioè credo che in certe circostanze la guerra vada fatta: per esempio, era giusto combattere contro Hitler. Tuttavia, fare in certi casi la guerra non vuol dire fare sempre la guerra. Ma arriviamo a un esempio contemporaneo. Probabilmente molti avranno sentito parlare del libro di Samuel Huntington, in cui si parla di scontro di civiltà.18 Che cosa non funziona, a mio parere, nel discorso di Huntington? In primo luogo, direi che non è chiaro dove finisce la descrizione e dove comincia il programma, ossia l’invito a guardare al mondo in cui viviamo, prima dell’11 settembre, e a maggior ragione dopo, come un mondo imperniato sullo scontro di civiltà. Ma oltre alla confusione fra piano descrittivo e programma politico, la descrizione appare estremamente superficiale, grossolana: queste civiltà sono degli scatoloni in cui ognuno può mettere quello che vuole. In generale credo che sia importante prima di tutto cercare di capire; poi si potrà anche combattere, se necessario. 18. S.P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale (1996), trad. di S. Minucci, Garzanti, Milano 1997.

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Davidson. Volevo aggiungere soltanto una parola filosofica, e quindi molto astratta. Il problema è che pensiamo che o ci sia l’oggettività assoluta o che l’oggettività non sia possibile. Trovo che questo sia un atteggiamento sbagliato. C’è un’oggettività che è una vera e propria oggettività, ma relativa, non assoluta – perché c’è sempre una prospettiva. Tuttavia, una discussione che si ponga il compito di capire può raggiungere un’oggettività più oggettiva, per così dire. Mai assoluta e sempre da rimettere in discussione. Ma se cominciamo con il contrasto fra l’oggettività – il punto di vista di nessuno – e la soggettività, perdiamo il livello dell’oggettività relativa, che è comunque un’oggettività che va al di là della prospettiva soggettiva individuale. Domanda dal pubblico. Secondo voi il “testo” è veramente qualcosa di sostanzialmente diverso dall’“ipertesto”, di cui oggi si parla tanto? Ginzburg. Io credo che l’ipertesto, anche se oggi se ne parla molto, non sia stato inventato oggi. Il primo esempio di ipertesto è probabilmente il Dictionnaire di Bayle: un bestseller europeo tra gli ultimissimi anni del Seicento e gli inizi del Settecento. Bayle ha costruito da solo, in quattro grandi volumi in folio, un dizionario che era nato modestamente per correggere gli errori di un dizionario precedente, e che poi è diventato un’impresa gigantesca: un insieme di voci, talvolta brevi talvolta lunghe o lunghissime, dedicate a personaggi storici scelti in maniera più o meno arbitraria. Bayle vuole che il lettore capisca immediatamente che ogni affermazione contenuta nel Dictionnaire è stata controllata. Ci sono delle righe di testo, poi c’è un primo sistema di note, abc, in lettere minuscole, poi un secondo sistema di note, a corolla, intorno alla pagina, ABC, in lettere maiuscole, con rinvii a un terzo sistema di note, in numeri arabi. Bayle ha dato corpo a qualcosa che in fondo faceva già parte dell’attività di un certo tipo di lettori professionisti. Il controllo di una determinata affermazione rinvia a un altro testo, le cui affermazioni, per essere controllate, rinviano a un terzo testo, e 198


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così via. Leggere vuol dire costruire un ipertesto, anche solo attraverso una serie di associazioni. Un libro isolato sarebbe incomprensibile. C’è una frase bellissima del grande storico dell’arte Roberto Longhi: un’opera d’arte isolata sarebbe incomprensibile, sarebbe oggetto di idolatria, di stupore. Così un libro isolato. Nessun libro è isolato. Domanda dal pubblico. Vorrei tornare al giudizio morale implicito nel lavoro dello storico. Primo Levi come esempio: Se questo è un uomo possiamo considerarlo una fonte o un lavoro storico? Diverso è il caso di I sommersi e i salvati, dove c’è più rielaborazione, e che potrebbe essere un lavoro di tipo propriamente storico rispetto a Se questo è un uomo. In secondo luogo, Momigliano: un discorso di questo genere, fatto da uno storico dell’antichità, del suo tempo, è un riferimento a quella che era forse una tendenza della condanna morale nell’antichità, perché non era moralmente disdicevole passare a fil di spada gli abitanti di una città conquistata – nessuno a quel tempo protestava molto al riguardo –, oppure che l’Atene della grande cultura vivesse su una società schiavista ben definita. Un altro aspetto presente in questo tipo di valutazione e ricerca del giudizio morale implicito è che qualche tendenza filosofica – non quelle presenti oggi – trasferisce completamente sulla narrazione anche il lavoro dello storico. L’unico elemento di giudizio è così la narrazione: smantellando la narrazione si relativizza tutto. È una tendenza sempre presente nel conflitto tra filosofi e storici. Riprendendo i discorsi di alcuni miei illustri colleghi, direi che in fondo, a differenza del filosofo, forse, il lavoro dello storico si basa su scelte e omissioni: si sceglie un problema, un percorso con una determinata ipotesi di lavoro, per cui necessariamente molte cose devono essere trascurate. Si può poi discutere sul fatto che il progetto di lavoro abbia un aspetto etico, se ci siano dei valori morali o meno, sul rischio di sfociare nel negazionismo. Concludo, a questo proposito, con un altro esempio: l’impostazione dei negazionisti riguardo all’Olocausto si basa sul fatto che nella famosa conferenza di Wannsee del dicembre 1941 non si fosse mai parlato di eliminazione fisica. Eppure chiunque 199


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può leggere su Internet il testo dei verbali della conferenza, vedere l’immagine del verbale originale tedesco, numerato, con la traduzione a fianco.19 Indubbiamente questa parola non compare mai, e tuttavia si capisce benissimo, se si vuole capire, che l’avevano programmato, lo stavano programmando e in alcune zone avevano già cominciato a metterlo in pratica. Non si trova scritto, però salta all’occhio. Ma allora è moralmente lecito dire che in quell’occasione avevano programmato lo sterminio, anche se non c’è scritto? Ginzburg. Proverò a rispondere in maniera concisa. Lei dice che Primo Levi sarebbe un testimone in Se questo è un uomo, mentre in I sommersi e i salvati sarebbe uno storico, o forse un filosofo, e comunque emetterebbe un giudizio. Riguardo a Se questo è un uomo vorrei ricordare il giudizio che è stato dato da Lévi-Strauss: questo è un libro di antropologia, un libro scritto da un osservatore partecipante. Questa espressione tecnica suona derisoria se pensiamo alla posizione di vittima che Primo Levi aveva nel lager; e tuttavia è meno derisoria se pensiamo allo sforzo di lucidità che Primo Levi ha fatto a partire da quella prima testimonianza. Vorrei ricordare che prima di Se questo è un uomo Primo Levi aveva pubblicato un testo completamente asettico, tecnico,20 per arrivare poi a una descrizione in cui l’io e l’esperienza dell’io vengono in primo piano. A proposito di Momigliano e della pluralità di valori nell’antichità, lei ha ricordato come si usasse passare gli abitanti a fil di spada e come questo facesse parte, potremmo dire, di un comportamento accettato. Vorrei ricordare, però, un testo che lei conoscerà benissimo, cioè il Dialogo dei Melii di Tucidide, che mostra come in realtà, di fronte a un comportamento del genere, potesse emergere, almeno da parte di Tucidide, un atteggiamento 19. Cfr. <http://www.olokaustos.org/archivio/documenti/wannsee>. 20. Cfr. L. De Benedetti, P. Levi, Rapporto sulla organizzazione igienico-sanitaria del campo di concentramento per ebrei di Monowitz (Auschwitz – Alta Slesia), “Minerva Medica”, XXXVII, 1946, pp. 535-544; ora in P. Levi, Opere, a cura di M. Belpoliti, Einaudi, Torino 1997, vol. I, pp. 1339-1360.

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dilemmatico. Naturalmente si tratta poi – come lei ha detto e io sono d’accordo con lei – di saper leggere: quindi si tratta anche di saper leggere quel dialogo, che è estremamente complesso. Ma mi guarderei dall’affermare che passare a fil di spada gli abitanti di una città fosse allora un comportamento accettato, esente da riprovazione morale. Alla riprovazione si poteva dar voce, come mostra, mi pare, il Dialogo dei Melii. Riguardo alle omissioni vorrei sentire Arnold Davidson, perché lei ha contrapposto l’atteggiamento dello storico, che forzatamente omette – perché omette una parte di documentazione, perché segue un’ipotesi di lavoro, ecc. – all’atteggiamento del filosofo che, anche quando fa storia della filosofia, se capisco bene, non lavorerebbe in questo modo. Questo mi pare dubbio, perché credo che la decisione di omettere o meno possa essere presa in maniera consapevole. Naturalmente c’è pure l’omissione inconsapevole, ma questo vale anche per lo storico. Il problema di Wannsee è complesso. Io forse dissento dal modo in cui lei ha formulato il problema. I negazionisti sono quelli che negano lo sterminio: dicono che il numero degli ebrei morti nei lager è minore di quanto si dice, che quelli che sono morti sono morti di malattia, che non c’era l’intenzione di ucciderli, che non sono stati uccisi. Di qui anche la controversia sulle camere a gas. Invece ciò che lei ha ricordato a proposito di Wannsee è un problema diverso. Da un lato abbiamo i cosiddetti intenzionalisti, che sostengono che i nazisti avessero già allora l’intenzione di sterminare gli ebrei europei – la “soluzione finale”. Dall’altro abbiamo storici che rifiutano questa ipotesi, ritenendola insufficientemente documentata: lo sterminio sarebbe stata una macchina che a un certo punto si è auto-alimentata, anche se all’inizio non aveva il carattere globale che assunse successivamente. Io credo che gli intenzionalisti abbiano accumulato documenti importanti; ma la posizione contraria mi pare assolutamente legittima. Quella dei negazionisti è una tesi priva di valore scientifico – a parte il giudizio morale e politico, su cui non c’è bisogno di spendere parole.

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Davidson. Vorrei aggiungere un ultimo commento su Primo Levi. Anche in Se questo è un uomo c’è un capitolo che secondo me è di filosofia morale, diciamo così, in cui emerge il paradosso – insisto – della scrittura di Primo Levi. Che lui abbia trovato questo sobrio linguaggio antropologico, che rafforza l’atteggiamento etico, non è una singolarità ma è abbastanza raro. Nel capitolo Al di qua del bene e del male, che è ovviamente un accenno a Nietzsche, c’è un’indagine concettuale – io leggo così il testo – rispetto ai concetti di bene e male, dove Levi ci mostra che l’applicazione del concetto di bene e del concetto di male richiede un certo contesto, che non esiste sempre. In un altro contesto, quello del lager, noi non capiamo come applicare i concetti di bene e di male. È una cosa che non si trova nella filosofia morale, per la quale il concetto si applica in qualunque contesto. L’indagine sul contesto ci mostra che i concetti, anche i concetti morali, non funzionano così. È una lezione per me, come professore di filosofia, molto importante ed è significativo che per capire questa lezione devo leggere Levi e non un trattato di filosofia morale. Infine, un’osservazione di Pierre Vidal-Naquet a proposito dei negazionisti che mi sembra ancora oggi assolutamente importante, soprattutto in questo momento in Italia, visto l’invito fatto a Robert Faurisson dall’Università di Teramo. Vidal-Naquet ha detto: se un dipartimento di astrofisica invita a fare una conferenza qualcuno che sostiene la tesi che la luna è fatta di formaggio, che cosa ne pensiamo? Che è una scena ridicola, sbagliata, che non ha nessun valore. Se qualcuno vuol dire che la luna è fatta di formaggio, ne ha il diritto, ma non nel contesto dell’università. Invitare Faurisson, a dirci che l’Olocausto non c’è mai stato, è l’equivalente dal punto di vista epistemologico. È un altro tipo di problema, e allora perché dobbiamo rifiutare l’invito a chi sostiene la tesi del formaggio, ma non a Faurisson?

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Eugen Fink

Oasi del gioco Il gioco come oasi nella nostra inquietudine

Bernhard Waldenfels

Fenomenologia dell’estraneo L’indagine di un autorevole filosofo sul tema affascinante dell’estraneità

Henri Bergson

L’energia spirituale Un classico del Novecento filosofico

Erving Goffman

Relazioni in pubblico Una delle opere fondamentali di Erving Goffman

Jonathan Simon

Il governo della paura Guerra alla criminalità e democrazia in America


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