autaut343

Page 1

Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 1

343 luglio settembre 2009

Leggere Lacan oggi Pier Aldo Rovatti Leggere Lacan oggi Mario Colucci L’otto volante di Lacan Massimo Recalcati Letture di Lacan Slavoj Žižek Malgrado tutto, l’etica di Lacan Raoul Kirchmayr A cosa può servirci l’objet (petit) a Graziella Berto Sopravvivere alla religione Ilaria Papandrea Dal verbale di un’immaginaria interrogazione Antonello Sciacchitano Lacan, il soggetto, l’oggetto Annalisa Davanzo Una scrittura da ascoltare Maria Teresa Maiocchi Fräulein... Freud-line... Sergio Benvenuto La sfida romantica di Lacan Paulo Barone Lacan, i resti e noi Massimiliano Roveretto L’esempio cinese Giovanni Pilastro “Non ne so niente” MATERIALI SULL’ETICA DELLA PSICANALISI Andrea Bellavita Oltre la significazione: il non senso Graziella Berto Il rovescio del desiderio Matteo Bonazzi Abbiamo passato la linea? La Cosa e la Legge Federico Leoni Dire il vero sul vero. La cornice del filosofo e il discorso dell’analista Silvano Petrosino Aggredire, distruggere, ricominciare Daniele Tonazzo Tra Kant e Sade: l’amore del prossimo

3 9 19 30 40 50 56 64 78 91 107 116 122 133

146 164 179 192 211 223


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 2

rivista fondata da Enzo Paci nel 1951 direttore responsabile: Pier Aldo Rovatti redazione: Graziella Berto, Laura Boella, Paulo Barone, Giovanna Bettini, Deborah Borca (editing, deborahborca@libero.it), Silvana Borutti, Damiano Cantone, Mario Colucci, Alessandro Dal Lago, Rocco De Biasi, Maurizio Ferraris, Edoardo Greblo, Raoul Kirchmayr, Giovanni Leghissa, Anna Maria Morazzoni (coordinamento, tel. 02 70102683), Ilaria Papandrea, Fabio Polidori, Rosella Prezzo, Pier Aldo Rovatti, Antonello Sciacchitano, Giovanni Scibilia, Davide Zoletto direzione: via Melzo 9, 20129 Milano collaborano tra gli altri ad “aut aut”: G. Agamben, H.-D. Bahr, R. Bodei, J. Butler, M. Cacciari, G. Dorfles, U. Galimberti, P. Gambazzi, S. Givone, A. Heller, F. Jullien, J.-L. Nancy, A. Prete, M. Serres, G.C. Spivak, M. Trevi, G. Vattimo, M. Vegetti, P. Veyne, V. Vitiello, S. Žižek

il Saggiatore S.p.A. Via Melzo 9, 20129 Milano www.saggiatore.it ufficio stampa: autaut@saggiatore.it abbonamento 2009: Italia € 60,00, estero € 76,00 L’Editore ha affidato a Picomax s.r.l. la gestione degli abbonamenti della rivista “aut aut”. L’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e la possibilità di richiedere gratuitamente la rettifica o la cancellazione scrivendo a: Picomax s.r.l. responsabile dati, Via Borghetto 1, 20122 Milano (ai sensi della L. 675/96). servizio abbonamenti e fascicoli arretrati: Picomax s.r.l., Via Borghetto 1, 20122 Milano telefono: 02 77428040 fax: 02 76340836 e-mail: abbonamenti@picomax.it www.picomax.it Registrazione del Tribunale di Milano n. 2232 in data 13.1.1951 Proprietà: Francesca Romana Paci Stampa: Lego S.p.A., Lavis (TN) Spedizione in abbonamento postale 45% art. 1, comma 1, decreto legge 353/03 convertito in legge 46/04 – Filiale di Milano. Finito di stampare nel settembre 2009


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 3

Leggere Lacan oggi PIER ALDO ROVATTI

a prima parte di questo fascicolo di “aut aut” (343, 2009) vorrebbe corrispondere al titolo. Sono voci che arrivano quasi tutte dall’interno del lavoro della rivista, ampliando solo un poco il cerchio a qualche altra che supponiamo non lontana. Bene o male, da trent’anni (dal voluminoso “A partire da Lacan” del 1980) ci teniamo in casa quest’ospite esigente: far finta di scoprirlo adesso potrebbe rivelarsi un utile espediente per prestargli infine un occhio e un orecchio un po’ più spregiudicati, e ammettere che la domanda “cosa ci fa qui?” non gli è mai stata davvero rivolta, forse per il timore di una risposta deludente, cioè appunto la nostra. Le persone cui l’abbiamo rivolta, studiosi e analisti, si sono lamentate della camicia stretta, sedicimila battute per favore, e qualcuno ha sforato ma non di tanto. Il gioco è stato insomma accettato, e io dico che ne valeva la pena, difficile o incosciente che fosse. Del risultato, l’unico davvero autorizzato a giudicare è il lettore. Resta che di saggi su Lacan, anche belli, ne abbiamo, ma di prese di posizione – possibilmente senza troppi giri, stampelle testuali o note difensive a margine – pochine, specie quando non si tratti delle scomuniche di chi non ne vuole sapere. In uno scenario culturale, il presente, che definire confuso e incerto è quasi un eufemismo, era opportuno correre il rischio. Il titolo stesso merita qualche considerazione. “Lacan” è ovviamente il perno, il significante di tutta la faccenda. Restano

L

aut aut, 343, 2009, 3-8

3


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 4

due parole, “oggi” e “leggere”. Prima, però: questo titolo è un’affermazione o una domanda? Se togliamo il punto interrogativo (che inizialmente c’era) diamo perentorietà a un asserto? Come se “dovessimo” leggere Lacan soprattutto oggi? Direi, dopo tanto parlare tra noi, che l’interrogativo è implicito, insomma si sente, e che tuttavia non è esposto ai quattro venti: la domanda si situa nell’economia di un’intesa, cioè che sia profittevole tenersi vicino quest’ospite se non altro perché non ha ancora finito di parlarci, ecco il punto, e gli abbiamo messo in bocca tante parole che – ci accorgiamo oggi – quadravano poco con il suo dire e con le mire del suo discorso. Ciò non toglie che l’orecchio di ciascuno di noi ascolti con una sua particolare e individuale tonalità. Il che è già un discreto risultato. La scommessa principale consiste proprio in quell’“oggi”, che beninteso vuol dire “oggi, soprattutto”. Lungi dall’essere un cane morto, Lacan ci permette, soprattutto ora, di usarlo come bussola in un mondo notevolmente disorientato. Il “discorso dell’analista”, come lo chiama nell’ultimo suo periodo, ha certo a che fare con l’analisi, oggi in verità alquanto snobbata, nel senso che lui lo tira fuori da lì, ma riguarda in generale il saper fare, o, se preferiamo, il sapere e l’etica che ci mancano e che manchiamo, essendo il nostro deficit culturale più dolente. Dobbiamo cercare quel che di politico Lacan ha da trasmetterci, al di là del corpo a corpo ingaggiato con gli studenti del ’68, che lo sbeffeggiano perché se ne sta rintanato dentro l’aula, e che lui sbeffeggia perché non hanno la minima idea di cosa possa significare uscire, se sia davvero possibile farlo o anche solo conveniente pensarlo. Politico è invece il programma, già esplicito nei suoi Ecrits del 1966, di mettere in questione il soggetto, e – aggiungerei – di mettere in mora chiunque si illuda di farne un orto chiuso o una voce da padrone cui affidare un qualche mandato, sia pure il più radicale e rivoluzionario. Il che potrebbe bastare per far passare l’autore di un tale programma come un sospetto conservatore, se etichette come questa non mostrassero, ancor più quarant’anni dopo, la loro completa inanità. Saperci fare con il sog4


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 5

getto – ecco la politica di Lacan, sempre più lavorata da un seminario all’altro, fino alla tensione problematica (ed enigmatica) cui è riuscito ad arrivare nel corso della sua opera: con tutti i pregiudizi da affondare quanto a “essere” o a “sostanza” o a “unità”, compresi (direi) i suoi stessi. Noi non ci sappiamo fare con il soggetto, eppure ci intestardiamo, forse perché avvertiamo che la questione è ancora tutta lì, visto che ogni momento veniamo interpellati, dai cosiddetti poteri-saperi che reticolano il campo sociale, proprio come soggetti. Perciò allunghiamo l’orecchio interessati ad ascoltare uno come Lacan che barra o sbarra il nostro amato soggetto per documentarne l’essenziale fallimento, e cerca di trascinarci in un salto mortale cui siamo ancora molto riluttanti: che solo se facciamo nostra questa sbarratura ci apriremo a quel poco di alterità che ci è possibile guadagnare. Un guadagno, infatti, è quello che Lacan ci permette coinvolgendoci nel funambolico esercizio della perdita, che fa tutt’uno con il saperci fare, all’opposto di un sapere che pretende di organizzare le pratiche (e quindi il fare stesso) di un soggetto che, mentre in realtà è sottomesso, assoggettato, suppone di farla da padrone – basterebbe un’opportunità. Lacan taglia quest’illusione che ci sorregge tuttora portandoci un mare di guai: quel “padrone” e quell’“assoggettato” stanno dalla medesima parte. Un soggetto in perdita (Lacan direbbe: un soggetto che riconosce di essere un effetto di significante e dunque un significato barrato) non è ovviamente un soggetto padrone ma non è allo stesso titolo, per quanto poco ciò possa apparire ovvio, un soggetto assoggettabile e assoggettato. L’ho chiamato salto mortale perché non si tratta tanto di un aggiustamento di tiro quanto di una sovversione teorica e pratica che scombina le nostre abitudini di pensiero. Basti considerare il fatto che la padronanza non scompare, puf, con un colpo di bacchetta, ma la ritroviamo nella dimensione che le è propria, nel cuore della soggettività, se mi si passa la metafora. Un effetto con cui abbiamo a che fare a ogni istante. Pensiamo a parole come “desiderio” e “godimento”, sulla cui dissimmetria Lacan 5


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 6

ha penato fino all’ultimo. Se nel nostro saperci fare o nella nostra politica della soggettività riteniamo di non potervi rinunciare, be’ allora dovremo tentare di congedarci dai significati da supermarket che teniamo pronti in tasca o in testa. Lacan ci aiuta, senza bisogno che prendiamo per oro colato tutto quello che dice: basta camminare per un tratto assieme a lui per interrogarci su ciò che causa il desiderio e su ciò verso cui si dirige il nostro godimento. Subito risuonerà anche la parola “Altro”, che ci converrà scrivere con la maiuscola, e presto ci scopriremo in un luogo caratterizzato da un non: non prendibile, non conoscibile, infine im-possibile. Dovremo allora arrestarci? Ma se è precisamente da questo luogo che Lacan comincia a parlare la sua lingua, facendo segno alla nostra! Allora, che almeno ci si chieda cosa intendiamo normalmente per prendere o per conoscere, quanto imbroglio si concentra in queste idee cosiddette normali e quanta metafisica è al lavoro ogni volta che ci compiaciamo dicendo: “è possibile”. Per arrivare a scoprire, a nostro vantaggio, che questo non non ha niente di nichilistico. La formula di Lacan che il reale non si scrive, anzi che non cessa di non scriversi, apre molte porte verso quel saperci fare con il soggetto che è una battaglia incessante contro ogni chiusura immaginaria e per riuscire infine ad abitare il legame sociale. Certo, dovremo romperci la testa su quest’altra parola, “reale”, intraducibile con realtà, a cui l’ultimo Lacan sembra affidare tutte le sue chance. Basti ricordare qui il suo lavoro sul godimento femminile (rintracciabile soprattutto nel seminario Encore del 1972-1973) che apre un intero scenario proprio sulla base di un non-sapere e di un non-tutto. Questo scenario – va da sé – non riguarda solo il soggetto al femminile (sul quale Freud si era impantanato), ma ogni soggetto. La terza parola del nostro titolo è “leggere”, e dico subito che, nel caso di Lacan, è una parola difficile da manovrare, mentre avrebbe tutta l’aria di essere la più semplice e ovvia. Chi ha superato da un po’ la ventina ricorderà un’opera di Louis Althusser, anni sessanta, Leggere “Il Capitale” (di Marx, si intende), che 6


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 7

produsse alquanto rumore. La differenza salta agli occhi. Althusser voleva dire che lo si era letto male (fermandosi all’inizio) e che bisognava adesso leggerlo bene. Lacan non è un libro, ma se anche dicessimo “Leggere i Seminari” o “Leggere gli Ecrits”, le cose non cambierebbero, se non altro perché Lacan stesso osserva che non è possibile “leggere” i suoi testi. Che significa? Si tratta di come intendere questo “leggere”, che non è un semplice rapporto tra lettore e testo scritto. Il testo (e qui andrebbe però sviluppata la differenza tra saggi e lezioni) non è scritto – nel caso di Lacan – come un’opera conclusa da offrire a una generica lettura, bensì come un utensile o una provocazione pratica, aperta e sempre parziale, rivolta al saperci fare del lettore, che può trarne vantaggio se riesce ad allargarne la scena, la quale è certamente una scena analitica dettata dalla “logica” (diciamo così) del discorso dell’analista nel suo rapporto con gli altri discorsi. Perciò il lettore ha un posto nella scena specifica o, comunque, lo deve trovare. In nessun caso potrà identificarsi con un lettore universale o con un lettore distaccato e “filosofico”. Ogni lettore è un soggetto, però qui la sua soggettività particolare viene messa al lavoro e anche a rischio. Senza lavoro e rischio, così intesi, Lacan è illeggibile, dà ai nervi, non produce alcun godimento. Si dirà che stiamo girando attorno a uno scoglio ben noto: per leggere Lacan occorre essere dalla parte dell’analisi e dunque averla fatta o conoscerla dall’interno. È vero, ma semplicemente mancheremmo il punto: non ci spiegheremmo perché tanti leggono Lacan e ne traggono profitto senza aver fatto l’analisi, a meno che non concludiamo che siamo tutti imbecilli. In realtà, quello che prende corpo è il risultato di un esperimento che permette, da entrambe le parti, un gioco di “come se” che apre la lettura al lavoro del soggetto su se stesso, come se entrassimo in una scena analitica e ne raccogliessimo alcuni effetti e – perché no? – alcuni affetti. Il lavoro lo fa il lettore, e in realtà comincia a farlo anche se non è disposto a questo esperimento. Ma non dobbiamo dimenticare il lavoro che ci mette Lacan nella costruzione di tale oppor7


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 8

tunità. Perciò il suo testo è così strano all’apparenza e non si lascia comprimere in nessuna teoria della discorsività. Se, infatti, partissimo con questo piede ci troveremmo a un bivio: o non capirne nulla, o abbandonare la lente che avevamo frapposto tra il nostro occhio e la pagina. Ecco adombrato, solo in un breve cenno, il movimento “analitico” che la lettura di Lacan chiede a ciascuno, e soprattutto a coloro che non sono analisti, né analizzanti. E se questa “lettura” pratica (chiamiamola così), che il testo di Lacan ci chiede per non ridursi a un rebus irrisorio, riguardasse in qualche modo ogni pratica di lettura, anche quando il testo non è costruito per darcene l’occasione? Se ci incamminiamo lungo questa strada, allora l’insegnamento di Lacan non sarebbe più solo per pochi adepti, specialmente in una contingenza, quella attuale, in cui è evidente che stiamo tutti disimparando a leggere. (Forse lo stesso Althusser, quando invitava a leggere “davvero” il capolavoro di Marx, metteva in moto qualcosa di analogo, al di là delle sue intenzioni esplicite.)

8


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 9

L’otto volante di Lacan MARIO COLUCCI

incontro con l’opera di Jacques Lacan è stato per me l’incontro con la psicanalisi. O meglio, dovrei dire, il nuovo incontro con la psicanalisi. Di Sigmund Freud avevo sbirciato qualche libro, come tutti, ai tempi del liceo: il professore di filosofia, da padre gesuita qual era, liquidò il viennese in una lezione dell’ultimo anno, il tanto che bastò per farmene incuriosire. Credo che allora, diciottenne, presi l’oscura decisione che in qualche modo nella vita mi sarei occupato di questo. Come tutti gli adolescenti, ero alla ricerca di un principio primo di tutte le cose e cartesianamente pensai di averlo trovato nella res cogitans. Quale migliore strategia di padronanza del mondo potevo concepire se non quella che passava dalla conoscenza della psiche e la metteva al centro di tutto? Mi interessava la filosofia ma cercavo il suo ombelico e oscuramente intesi trovarlo nella psicanalisi. Per questo, alle prese con la scelta universitaria, ero in dubbio tra gli studi filosofici e quelli di psicologia, che grossolanamente mettevo sullo stesso piano della psicanalisi. Infine, mi risolsi per medicina, con l’obiettivo di arrivare alla psichiatria. Da giovane specializzando, in clinica universitaria, mi ritrovai un caporeparto che si diceva analista kleiniano. Amava tanto i suoi pazienti privati e ce ne parlava diffusamente, lanciandosi in dotte interpretazioni e imponendoci letture della sua scuola. Amava molto meno i pazienti pubblici, i “vecchi frequentatori di letti psichiatrici” come lui li chiamava, rispetto ai

L’

aut aut, 343, 2009, 9-18

9


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 10

quali lasciava cadere l’interesse analitico per indossare il suo camice di psichiatra vecchia maniera. Giustificava tutto, la mano pesante sulle terapie farmacologiche, gli elettroshock, le contenzioni fisiche, le porte chiuse e le altre ordinarie violenze dell’eterna freniatria. Alle reazioni di qualcuno di noi, si lanciava in nuove interpretazioni, stavolta fuori setting e dirette sulla nostra persona, in cui banalizzava le questioni etico-politiche che ponevamo, riducendole a “conflitti non elaborati con la figura paterna”. Risultato: scontata l’attrazione per le lezioni del docente di psichiatria sociale, che ci parlava di Franco Basaglia e ci faceva leggere le Conferenze brasiliane,1 scontato il disincanto verso la psicanalisi, che si presentava in questa sua farsa, amica del potere e della violenza. Quando da Bari arrivo nella magica Trieste, dei manicomi abbattuti e della libertà terapeutica, vi riconosco la mia vera formazione come psichiatra. Tutto sembra risolto in questo nuovo orizzonte, ma non è così. Finiti i miei impegni universitari “di prima necessità”, laurea in medicina e specializzazione in psichiatria, mi dirigo verso quelli “voluttuari” e mi iscrivo al corso di laurea in filosofia. Partecipo al seminario del Laboratorio di filosofia contemporanea, diretto da Pier Aldo Rovatti. Si legge Freud, quello dell’Al di là del principio di piacere. Si legge anche quel suo singolare interprete francese, di cui nulla sapevo e nulla riuscivo a capire, e che però mi attirava irresistibilmente. Jacques Lacan è stato per me il nuovo incontro con la psicanalisi, perché faceva passare nelle sue parole qualcosa che non avevo mai sentito scandire con tanta chiarezza da nessun altro analista: il desiderio, la mancanza, il soggetto, l’Altro, il godimento, il reale... Non lo capivo, ma mi parlava sotterraneamente, mi sussurrava un soffio di corroborante “tristezza freudiana”, come la definiva anni fa Sergio Benvenuto, quella che affascina i giovani che hanno bisogno di mettersi alla prova con teorie disperate per trasformare il mondo.2 Di qui alla mia analisi personale il passo non 1. F. Basaglia, Conferenze brasiliane (1979), Raffaello Cortina, Milano 2000. 2. S. Benvenuto, Lacan e il disagio della psicoanalisi, “Lettera internazionale”, 19, 1989, p. 37.

10


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 11

è stato lungo. Il corpo a corpo con il testo di Lacan, per quanto reso più morbido dalla mia esperienza sul divano, restava serrato. Quando iniziavo a leggere un seminario dal titolo accattivante, ero carico di aspettative. Ma dopo le prime pagine ero un po’ deluso, sembrava che Lacan mi parlasse d’altro, citando autori e situazioni che non conoscevo. Tenevo duro, non mi arrendevo, volevo capire ogni frase, ma la salita si faceva più ripida. Bisognava mollare oppure andare avanti, senza pretendere di capire ogni passaggio. Poi, all’improvviso, il testo si apriva e mi catturava di nuovo, una radura di luce nel fogliame fitto, e tutto sembrava tornarmi chiaro. Parlava di me, della mia vita, del mio lavoro, delle persone che amavo e di quelle che curavo. Mi sentivo soddisfatto, padrone di un “certo sapere”. A quel punto una risata mi sorprendeva: davvero pensavi di aver capito? Lacan era pronto a rovesciare quel certo sapere, quella mia sicurezza e soddisfazione, e a dimostrarmi l’esatto contrario, e poi ancora a farmi dubitare che anche questo fosse l’approdo definitivo. Non esisteva l’ultima parola. La verità che distillavo era preziosa ma volatile. Il seminario finiva, si sbriciolava fra le mani senza una conclusione. Qualcosa rimaneva, ma non sapevo bene che cosa fosse. Allora lo rileggevo e scoprivo che quasi non era lo stesso seminario, mi colpiva qualcosa che prima non avevo notato. Fate una prova anche voi, alla prima lettura di un seminario di Lacan, sottolineate con una matita blu i passaggi che vi interessano, poi lasciateli decantare. Quando fate una seconda lettura, prendete una matita rossa e vi accorgerete di voler sottolineare altro. Qualche passaggio si sovrappone, altri no. E di lettura in lettura, di colore in colore, il seminario, si apre in modo diverso: sarà la luce del mattino o del pomeriggio, il suono differente delle parole o il vostro umore che è cambiato, sarà la vostra esperienza dei testi di Lacan che cresce, ma qualcosa di nuovo sempre appare. Da allora mi domando perché leggo Lacan. Dovrebbe essere una lettura abituale per me che sono psichiatra. Ma non mi sembra che la psichiatria ami Lacan: per quanto molti colleghi ne ab11


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 12

biano letto qualcosa, a partire dalla sua tesi sulla psicosi paranoica,3 pochi possono dire di studiarlo e di conoscerlo. Non è considerato un autore di riferimento dalla psichiatria di oggi, basta scorrere la bibliografia di un manuale o di un trattato. Nel mio caso la lettura di Lacan potrebbe apparire doppiamente insolita: non solo psichiatra, ma anche basagliano. Bisognerebbe spendere qualche parola in più sui punti di prossimità che ci sono fra lo psicanalista francese e Franco Basaglia. Certo non sono mancati giudizi critici da un lato e dall’altro, spesso per bocca di allievi. La differenza di pratiche, di culture e anche di età, li ha spinti piuttosto a ignorarsi a vicenda. Tuttavia, della loro vicinanza si è parlato poco, soprattutto da parte di chi pratica la psicanalisi nel paese della legge 180. Somiglianza etica, l’avevo definita qualche anno fa,4 qualcosa che ha a che vedere con una certa posizione del “terapeuta”. Molti analisti lacaniani non sarebbero d’accordo con questo termine, né accetterebbero tout court la confusione delle loro pratiche con quelle della psichiatria. Ma si tratta di altro. Si tratta di quel passo di avvicinamento del soggetto a qualcuno che si suppone ne sappia qualcosa e dello squilibrio di potere tra chi domanda e chi ascolta, che da subito domina la scena. Sia Lacan sia Basaglia vi pongono estrema attenzione ed elaborano alla fine una risposta sorprendente: bisogna mettere in crisi la posizione di colui che non solo pretende di sapere, ma anche lascia credere di sapere. Perché chi dice “risolverò il tuo problema” incastra la relazione terapeutica in un vicolo cieco. Immobilizza il sapere in un deposito acquisito e il proprio ruolo in quello di colui che educa e insegna perché ne sa di più. Lascia immaginare che la risposta ci sia e arriverà dall’alto. Non intacca per nulla, né è interessato a farlo, il suo ruolo di padronanza. Credo che questa possa essere una delle chiavi più utili per suggerire la lettura di Lacan: lavorare sulla padronanza per met3. J. Lacan, Della psicosi paranoica nei suoi rapporti con la personalità (1975), Einaudi, Torino 1980. 4. Mi permetto di rimandare a M. Colucci, P. Di Vittorio, Franco Basaglia, Bruno Mondadori, Milano 2001, p. 292.

12


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 13

terla in crisi. Leggere Lacan non è un’esperienza facile, spesso risulta faticosa, addirittura frustrante. Ma ti confronta immediatamente col problema: il testo di Lacan non puoi padroneggiarlo, devi deporre le tue fantasie di maîtrise. È lo stesso Lacan che diffida di colui che pretende di capire con chiarezza. Qualcosa continuamente sfugge ed è bene che sfugga. C’è un lavoro rigoroso perché il testo non produca un sapere totalizzante. Il discorso del padrone, che è il discorso stesso della civiltà, e il discorso universitario, che rappresenta la moderna sofisticazione del primo, ambiscono alla costruzione di una logica forte, completa. Al contrario, Lacan lavora perché si produca un decompletamento, o meglio, come lui lo definisce, un effetto di incompletezza.5 Più che un sapere, indica un saperci fare con la perdita di sapere. Il seminario ne è uno degli strumenti. Leggerlo e perdersi fra le sue pagine ti fa sperimentare in modo diretto questa caduta delle illusioni di padronanza. Lacan rende impossibile la riduzione della sua parola a una verità tutta intera. La verità non si può dirla tutta, non ci si arriva. “Dirla tutta è impossibile, materialmente, mancano le parole”, dice Lacan.6 Se non si può cogliere tutto, bisognerà riattraversare il seminario più volte per ritrovare i passaggi sfuggiti. C’è da chiedersi, allora, perché sono sfuggiti alla nostra attenzione, perché proprio quelli e non altri. La svista di lettura ha qualcosa di sintomatico, o forse di sintomale? Accettando questa ipotesi, è evidente che l’esperienza di leggere e di rileggere Lacan implica necessariamente un lasciarsi leggere da Lacan. In altri termini, un lasciarsi sorprendere proprio su ciò che si è sottratto alla nostra attenzione, in quel punto di godimento che il buco nella lettura ha messo in luce. L’effetto di incompletezza si accompagna sempre a un godimento. “Questo modo in cui si rivela deiscente il fondamento logico come tale, a quale godimento ri5. J. Lacan, Il seminario. Libro XVII. Il rovescio della psicoanalisi. 1969-1970 (1991), Einaudi, Torino 2001, p. 79. 6. Id., Radiofonia. Televisione (1974), Einaudi, Torino 1982, p. 67.

13


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 14

sponde?” si chiede Lacan.7 In fondo, è proprio quando sentiamo che la verità non si può dirla tutta, che la scopriamo sorella del godimento. Se leggere Lacan comporta come effetto una certa perdita di padronanza, non possiamo che farne la prova, partendo da un suo testo. Proporrei un passaggio del Seminario XVII, Il rovescio della psicoanalisi, che mi sembra in linea con il discorso fin qui sviluppato: nel quarto capitolo – il cui titolo è, appunto, Verità, sorella di godimento – Lacan riprende, come è sua abitudine, uno scritto freudiano del 1919. Si tratta di “Un bambino viene picchiato”, testo in cui Freud avanza alcune ipotesi sull’origine delle perversioni sessuali, partendo dall’altalena tra fantasie di percosse che colpiscono sadicamente l’Altro e fantasie che ritornano masochisticamente sul soggetto. Lacan sorride pensando alla presunta “continuità dell’Io”,8 su cui si appuntano le pretese scientifiche del discorso universitario di certa psicologia e psicanalisi. Questo “discorso della sintesi o discorso della coscienza che padroneggia”9 non è in grado di rispondere allo scambio continuo di posizione tra parola e corpo, quale viene delineata nelle situazioni cliniche di questo scritto. Chi parla? Di chi è la proposizione “un bambino viene picchiato”? Di chi è il corpo battuto? Il soggetto che enuncia non è quello dell’enunciazione. Alla fine, il corpo del bambino risulta “senza volto”.10 Il punto, per Lacan, è già nella proposizione che fa da titolo e che costituisce tutto questo fantasma.11 Si tratta di linguaggio, di una proposizione che non ha senso definire nei termini di vera o falsa, né di chi l’abbia pronunciata, ma della quale piuttosto è “fondamentale” stabilire su quale soggetto si sostenga. È il fondamento stesso a essere in questione, di cui si può dire che può 7. Id., Il seminario. Libro XVII. Il rovescio della psicoanalisi, cit., p. 79. 8. Ivi, p. 75. 9. Ivi, p. 81. 10. Ivi, p. 76. 11. Ivi, pp. 75-76.

14


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 15

sostenere questa proposizione, solo quando lo si riconosce per quello che è: un soggetto “diviso dal godimento”.12 Da qui prende le mosse l’analisi di Lacan, consapevole di come questa definizione appena data possa irrigidirsi in una formuletta senza verità, cioè nel facile transito verso l’impostura del discorso universitario, in cui implacabilmente si rischia di rientrare. Si tratta, invece, di mostrare il soggetto in quanto diviso, nell’atto stesso in cui, pronunciando questa verità, ne gode. Lacan parte e noi lo seguiamo, poche righe, come su un otto volante, sul quale temiamo di continuo che un vagone si sganci e tutto precipiti nel vuoto. Occorre leggere in francese per cogliere meglio questo soggetto diviso: Divisé, je veux dire qu’aussi bien celui qui l’énonce, cet enfant qui wird, vertu, verdit, verdoie, d’être battu, geschlagen – jouons un peu plus –, cet enfant qui verdit, battu, il badine – vertu, ce sont les malheurs du vers-tu, soit celui qui le frappe, et qui n’est pas nommé, de quelque façon que la phrase s’énonce.13 In italiano, il traduttore deve riprendere alcuni termini della lingua originale, francese o tedesca – altrimenti si perde il ritmo delle allitterazioni, lo sferragliare stesso dei vagoni/significanti che corrono sull’abisso – e mettere tra parentesi la parola italiana: Diviso, voglio dire che colui che lo enuncia – questo bambino wird (viene), vertu (virtù), verdit (rinverdisce), verdoie (verdeggia), in quanto è picchiato, geschlagen, giochiamo ancora un po’, questo bambino che rinverdisce, picchiato – ebbene frascheggia – vertu (virtù), ovvero le disgrazie del vers-tu (verso-tu), ossia colui che lo picchia e che non è nominato, in qualsiasi modo la frase si enunci.14

12. Ivi, p. 76. 13. J. Lacan, Le séminaire. Livre XVII. L’envers de la psychanalyse. 1969-1970, Seuil, Paris 1991, p. 73. 14. Id., Il seminario. Libro XVII. Il rovescio della psicoanalisi, cit., p. 76.

15


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 16

Il traduttore è stato traditore, come si dice in una formula scontata. In questo caso, è singolare osservare come il tradimento si sia consumato a carico della punteggiatura, elemento fondamentale per Lacan. Ma quale punteggiatura è corretta per un testo che è la trascrizione di un seminario orale? Buona domanda. Resta il fatto che l’edizione italiana non riprende l’oralità del seminario, ma la sua trascrizione francese, salvo che nella punteggiatura. Mi colpisce, soprattutto, che non la riprenda in un punto che trovo centrale in questa frase, quando Lacan dice: – jouons un peu plus –, reso in italiano fra due virgole, invece che fra due trattini. Non è la stessa cosa, perché le due virgole impongono una pausa, quando invece i due trattini mettono in evidenza, fanno risaltare, nel momento stesso in cui danno un breve tempo di sosta. La frase in questione potremmo tradurla, come è stato fatto, “giochiamo ancora un po’”, oppure “divertiamoci un po’ di più”. C’è tutto il peso di quel “jouons”, che, sul piano fonetico e semantico, anche se non etimologico, rimanda a “jouissons”, godiamo, e a jouissance, godimento, ciò su cui verte tutto il capitolo del seminario: la jouissance in quanto sorella della verità. Ebbene, questo godimento incomincia a balenare nella frase, quando i vagoncini si sono precipitati giù dalla prima discesa e l’eccitazione sale con la velocità, wird, vertu, verdit, verdoie, e si alza il ritmo di “battuta”, geschlagen, ed è come se Lacan per un momento si tirasse fuori dalla corsa, che pure gli piace follemente, per dire qualcosa come: “Divertiamoci, godiamo un po’ di più, alziamo ancora il ritmo”. Esce dalla cascata dei significanti, si guarda attorno, incrocia le espressioni sorprese dei suoi uditori, ne legge la delizia e la rinforza, facendo tutti soggetti di quella corsa, in cui si gode perché si lascia correre la verità sui binari del linguaggio. “Quando dico impiego del linguaggio non voglio dire che noi lo impieghiamo. Siamo noi a essere i suoi impiegati. Il linguaggio ci impiega ed è attraverso questo che c’è godimento.”15 Lacan vede gli impiegati al luna park e, come un perfetto imboni15. Ivi, p. 77.

16


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 17

tore, li invita a fare una corsa sulle montagne russe. Ciascuno fa i conti con le proprie paure e chi accetta di salire si inganna di poter mantenere il controllo. Ma è un’illusione, perché il godimento non può che dividere il soggetto e destabilizzare la padronanza. “In questo modo, esso contesta ogni pacificazione”, dice Lacan.16 D’altra parte, è vero anche che in questo testo non si entra se non si coglie che Lacan, mentre parla del godimento, mette in scena anche il suo godimento. Come gode Lacan? Staccando il freno del convoglio e lasciandosi cadere giù per le discese dell’otto volante, dove trascina un bel numero di presenti. Ma si può dire che sia lui a condurre? Non è forse questa successione di anelli significanti “verdeggianti” una catena di linguaggio che non gli appartiene – non più di quanto appartenga ai suoi uditori? Non è la stessa cascata inconscia che scorre migliaia di volte nella nostra giornata, “questa catena bastarda di destino e inerzia, di lanci di dadi e stupore, di falsi successi e incontri misconosciuti, che costituiscono il testo abituale di una vita umana?”.17 Se c’è una forza del testo di Lacan, un motivo per leggerlo, è che spesso, a dispetto anche delle apparenze, Lacan non occupa la posizione del maître, piuttosto – lo dice più volte a proposito del suo seminario – quella dell’analizzante. Coloro che lo hanno ascoltato nel suo seminario, hanno testimoniato più volte quale straordinaria esperienza di pensiero sia stata. Secondo i loro racconti, significava immergersi in un esercizio complesso di decifrazione, ma non di attenzione. Lacan catturava comunque, attraverso un formidabile estro, coniugato a uno scavo meticoloso nel linguaggio. Non lasciava nessun significante cadere lì per caso. Contornava finemente il vuoto che si ripresentava a ogni giro del discorso. Trasmetteva il battito dell’inconscio. Come se continuasse all’infinito la propria analisi davanti ai suoi uditori. 16. Ivi, p. 82. 17. Ibidem.

17


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 18

Questa esperienza di ascolto solo in parte si trasferisce sulla pagina scritta, almeno quanto basta per rendere la lettura dei seminari di gran lunga più agevole e avvincente di quella degli Scritti.18 A noi restano le trascrizioni – colpevolmente pubblicate con troppi ritardi – che ci restituiscono, oltre all’insegnamento, il desiderio inesauribile di Lacan di non ripetersi mai. Anno dopo anno inventava un seminario ogni volta diverso. Non è poca cosa in un’epoca in cui il discorso universitario si ricicla sempre uguale a se stesso e tanti professori ripercorrono noiosamente i medesimi corsi senza trasmettere nulla. Per questo mi sembra di poter dire che, alle tre vie classiche indicate da Lacan per la trasmissione di un sapere – il cartel, la supervisione, la passe –, bisogna aggiungere il suo stesso seminario. Lacan sa diffondervi un sapere, perché si fa tramite, veicolo di qualcosa. Trasmette un oggetto che non gli appartiene e che non è mai uguale a se stesso, di cui ha solo l’usufrutto e di cui rinuncia a godere in modo assoluto per condividerlo.19 Forse questo è un buon motivo per leggere Lacan. È divertente prendere posto, accanto a lui, sui vagoncini sconnessi del suo otto volante, non solo per sentire l’ebbrezza della velocità e la vertigine del rischio, ai limiti del senso e dello sganciamento, ma anche per scoprire che, alla fine – fatto un giro e poi un altro e un altro ancora –, non si tratta mai dello stesso giro.

18. J. Lacan, Scritti (1966), 2 voll., Einaudi, Torino 1974. 19. Quest’ultimo passaggio mi è stato suggerito dalla preziosa lezione tenuta il 23 maggio 2009 dalla dottoressa Sol Aparicio, psicanalista dell’EPFCL (Ecole de Psychanalyse des Forums du Champ Lacanien), sul tema della trasmissione e del transfert, nell’ambito del corso dell’ICLeS (Istituto per la clinica dei legami sociali) di Venezia.

18


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 19

Letture di Lacan MASSIMO RECALCATI

1. In un intervento svolto in occasione di una celebrazione romana del centenario della nascita di Lacan, Stefano Agosti (rigoroso e originale lettore di Lacan) aveva avuto modo di affermare che, se negli anni settanta Lacan era stato un autore alla moda, e per questo non letto, all’inizio del nuovo secolo sarebbe stato da leggere per la sua attualità. Potremmo in effetti connotare una prima generazione di lacaniani, analisti e non, come quella dei non-lettori di Lacan. Non è un’accusa impropria ma un dato di realtà che spiega, tra l’altro, come è stato notato da più parti, una certa avversione per il sapere che circondava l’atmosfera della vecchia Ecole freudienne de Paris. I seguaci di Lacan non leggevano gli scritti del loro maestro. Non solo a Parigi ma dappertutto. Lacan stesso in fondo se ne lamentava. Non è una cosa rara. Non accade forse sempre nella trasmissione di un insegnamento, quando la fascinazione carismatica del maestro è tale da sospingere gli allievi verso una identificazione idealizzante che tende a escludere ogni mediazione simbolica, di cui lo scritto e la sua lettura sono una testimonianza? E per i lacaniani della prima ora questa pratica della non-lettura non veniva in fondo giustificata da Lacan stesso quando affermava che i suoi Ecrits erano stati scritti per non essere letti? Non era forse il testo di Lacan a essere costruito in modo tale da segnalare una incompatibilità tra lo scritto e il senso? E questa incompatibilità non autorizzava forse l’evocazione di una dimensione ineffabile, quella della realtà del soggetto delaut aut, 343, 2009, 19-29

19


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 20

l’inconscio, refrattaria a ogni forma di sapere? Non era allora più coerente constatare l’impossibilità strutturale di ogni possibile lettura? Individuare la lezione di Lacan come quella di un maestro zen che con il colpo di bastone dei suoi Scritti (illeggibili) mostra all’allievo attonito la distanza che separa irriducibilmente il carattere ineffabile e tortuoso della verità dell’inconscio da ogni forma costituita di sapere? In questo contesto la sola possibile lettura del testo di Lacan non era forse una lettura random che ne favoriva un uso visionario, teoreticamente confuso, clinicamente, nelle migliori delle ipotesi, inutile o imprudente. Prevaleva così lo scimmiottamento grottesco e infatuato (d’odio o d’amore) dello stile – inimitabile – del Maître. Nell’omaggio che Lacan riserva a Jacques-Alain Miller in apertura di Television – dove lo definisce come uno che “sa leggermi” – è esplicita la sua insoddisfazione verso i suoi primi allievi che hanno scelto, diversamente da Miller e diversamente dall’indicazione di Lacan stesso (“Fate come me, non imitatemi!”), la via ipnotica della suggestione collettiva e, di fatto, della nonlettura come ricaduta sintomatica di quella stessa idealizzazione identificatoria, “priva di mente” come direbbe opportunamente Bion. 2. Una stagione diversa è quella che si inaugura dopo la morte di Lacan avvenuta nel settembre del 1981. Tra la seconda metà degli anni settanta e la prima metà degli anni ottanta si inizia a leggere Lacan. Ma come lo si legge? La lettura prevalente è quella semiotica. Il testo di Lacan viene letto attraverso il paradigma della linguistica strutturalista. Al centro la tesi degli anni cinquanta dell’inconscio strutturato come un linguaggio, del linguaggio come struttura di separazione, del linguaggio come combinatoria anonima che determina il soggetto come un effetto di significato. Lo sfondo è quello dell’epistemologia strutturalista che si declina essenzialmente come affermazione dell’autonomia dell’ordine simbolico e del potere costituente del significante. Questa lettura prova a recidere le radici dialettiche, fenomenologiche ed esistenzialiste, kojèviane, sartriane e heideggeriane del testo di Lacan accen20


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 21

tuando la coupure aumanistica promossa dal carattere disantropico del sistema del grande Altro. Le leggi del linguaggio si impongono sulla funzione della parola che appare sempre meno parlante e sempre più parlata dall’Altro. Lacan teorizza la potenza del significante alla quale subordina strutturalisticamente l’essere del soggetto. Due limiti evidenti mi pare consegnino questa lettura agli archivi. Il primo consiste nell’amputazione dell’insegnamento di Lacan di tutta la sua produzione teorica che segue – e che anticipa – l’insegnamento di Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi e del Seminario sulla lettera rubata. In particolare la tesi dell’autonomia dell’ordine simbolico – che in quanto tale non può essere messa in discussione – occulta l’incidenza del registro del reale che dal Seminario VII in avanti occupa gli sforzi teorici e clinici di Lacan e alla cui luce lo stesso primato dell’ordine simbolico acquista necessariamente un nuovo significato. Il secondo riguarda la ricaduta squisitamente clinica di questa lettura che posso qui solo accennare: la pratica dello psicanalista viene concepita come quella del decifratore di enigmi, come una pratica che segue le contorsioni del significante e i suoi molteplici e imprevedibili effetti di senso. In sostanza una psicanalisi sarebbe niente altro che una lettura enigmistica delle formazioni dell’inconscio. Come si vede, questa prospettiva della pratica analitica è una conseguenza diretta della lettura semiotica del testo di Lacan. È ciò che ha incoraggiato anche certi abusi nell’applicazione della psicanalisi lacaniana alla critica letteraria. Ridurre la pratica clinica alla ricerca della soluzione di enigmi significanti è stata una grave deformazione dell’insegnamento di Lacan. Un esempio limpido ai miei occhi di quale impatto possa avere la lettura di Lacan nell’orientare la pratica dell’analisi per uno psicanalista che si dichiara lacaniano. Il nesso teoria-praxis mantiene nella psicanalisi un valore indissolubile. Abbiamo allora conosciuto il detestabile cliché dello psicanalista lacaniano sprofondato nella sua poltrona e nel suo silenzio che viviseziona il testo del paziente alla ricerca dei tours de force del senso imposti dalla catena significante e che impassibile attende che la lettera compia il suo percorso arrivando immancabilmente al suo destinatario. 21


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 22

3. Un’altra lettura di Lacan che segue la stagione della lettura semiotica e ne supera decisamente i limiti riduttivistici è la lettura debolista. Secondo questa lettura il testo di Lacan agisce innanzitutto come un correttivo fondamentale nei confronti di ogni tentazione sistematizzante del sapere. Ritorna in questa lettura il vecchio motivo già presente nell’Ecole freudienne ma in una versione assai più interessante. Intanto perché si danno prove significative di letture scrupolose e avvertite del testo di Lacan. In secondo luogo per ciò che questa lettura comporta, ovvero l’individuazione costante nel testo di Lacan di una dimensione aperta, insatura, antagonista allo spirito di sistema, non-tutta refrattaria a ogni ideale di padronanza. In terzo luogo per la capacità che essa dimostra di saper interrogare i punti di frattura che l’insegnamento di Lacan introduce nei confronti della ragione filosofica classica e di ogni modello antropologico retoricamente umanistico. Per esempio nella differenziazione tra io e soggetto, tra essere e pensiero, tra enunciato ed enunciazione, tra identità e identificazione, tra desiderio e padronanza, ma anche nella definizione del concetto di “discorso” come ciò che indebolisce sia la pretesa ideologica di tagliare fuori il discorso del padrone – da cui invece, secondo Lacan, ogni discorso dipende strutturalmente – sia quella di individuare in un solo discorso il discorso di Lacan che invece si mantiene esattamente come quella casella vuota che rende possibile la circolazione dinamica tra i diversi discorsi. La lettura debolista insiste sul Lacan ironico, provocatore, impertinente, capace di ribaltare continuamente gli stessi fondamenti del suo pensiero per impedire che vengano congelati in un sistema concettuale costituito una volta per tutte. La matrice teorica di questa lettura si trova nella fenomenologia come interrogazione continua dell’esperienza, come esercizio metodico che esclude le categorizzazioni definitive preservando lo scarto che intervalla il già saputo da ciò che incrina la rete costituita dei saperi. Non si deve essere ingenerosi con questa lettura che è un antidoto potente contro ogni tentazione di imbalsamare il pensiero di Lacan in un sistema compiuto. In questo senso un altro merito della lettura debolista è quello di sottrarre il testo di La22


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 23

can a ogni procedura di immunizzazione. Questo significa che nella pratica di lettura debolista la purezza del testo di Lacan viene costantemente contaminata dalla presenza di altre letture che vi si sovrappongono (Husserl, Heidegger, Merleau-Ponty, Sartre, Cartesio, Marx, Lévinas...). L’effetto è spesso quello di una circolazione di ossigeno teoretico che impedisce alla lettura del testo di ripiegarsi su se stessa in una necrofilia autoreferenziale. Piuttosto la lettura, o meglio, le letture deboliste puntano a far reagire il testo di Lacan in modi sorprendenti contaminandolo, adoperandolo, rendendolo strumento, facendolo utensile.1 In questa operazione di ibridazione dei confini tra i testi il debolismo resta una pratica di lettura che incrina ogni miraggio di autosufficienza e di consistenza ontologica del testo, miraggio che la natura stessa degli Scritti di Lacan, se non bene intesa, tende invece per altri versi ad alimentare abbondantemente. Ma soprattutto essa sa preservare in questo rifiuto di ogni interpretazione chiusa del testo, la questione del soggetto come questione decisiva dell’insegnamento di Lacan, essendo il soggetto il punto di resistenza e il resto irriducibile della violenza impositiva del potere determinante della struttura. Certamente un soggetto senza sostanza, deposto da ogni miraggio di padronanza, indebolito, sovvertito, eroso, leso, ma pur sempre soggetto, dipendente ma non riducibile alla catena significante. 4. Al lato opposto della lettura debolista collocherei la lettura genealogica-teleologica del testo di Lacan, o, se si preferisce, la lettura dell’orientamento. In questo caso un nome si impone perché è il solo a praticarla rigorosamente. Si tratta di Jacques-Alain Miller. Questa lettura ha avuto e ha straordinari e indiscutibili meriti. Ma non, come credono certi milleriani ortodossi, perché è la sola lettura possibile del testo di Lacan (anch’io, in passato, in quanto milleriano, ho abbracciato quella fede...)! Il merito in1. Un esempio tra tutti, che voglio qui rendere esplicito per omaggiarne l’autore, è il gioco di sponda tra Cartesio, Lacan e Lévinas, intorno al problema dell’identificazione, che Pier Aldo Rovatti imbastisce in pagine ricchissime di La posta in gioco. Heidegger, Husserl, il soggetto, Bompiani, Milano 1987.

23


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 24

superabile della lettura promossa da Jacques-Alain Miller consiste nel fatto che essa è stata – e continua a essere da più di quarant’anni, in uno sforzo assiduo che da solo meriterebbe un rispetto assoluto –, la prima lettura del testo di Lacan che ne ha ricostruito in modo rigoroso e sistematico la genealogia concettuale individuandone l’orientamento di fondo. Impossibile restituire sinteticamente la ricchezza di questa lettura senza essere ingiusti con Miller. In effetti il suo lavoro paziente e coraggioso ha contribuito in modo decisivo a riaprire per molti il testo di Lacan, a sottrarlo alle biblioteche impolverate, a svestirlo del suo abito esoterico, a renderlo, soprattutto per chi pratica la psicanalisi lacanianamente, un riferimento essenziale per intendere il senso dell’azione dell’analista nella cura. In questo senso Miller sta a Lacan, non come Marx sta a Hegel o come Bion sta a Klein, e nemmeno, diversamente da quello che pensano alcuni, come Lacan stesso sta a Freud – in quanto la sua lettura non è un’innovazione che scaturisce da un “ritorno” al testo del maestro –, ma come un suo commento sistematico che intende stabilire l’orientamento di fondo del testo di Lacan come se la parola del commentatore si identificasse pienamente con quella che parla nel testo. Tuttavia, proprio a causa di tale identificazione questa lettura smarrisce il senso del metodo debolista manifestando fatalmente una sua inclinazione dogmatica. In che cosa consisterebbe questa inclinazione? Nel proporre una convergenza stretta di genealogia e teleologia. In effetti Miller non pone la sua lettura come una possibile interpretazione del testo di Lacan, tra le altre possibili, ma come ciò che ha il compito di salvaguardare la sua verità più intrinseca. In altri termini, questa lettura non si limita a leggere il testo di Lacan ma ne rivendica implicitamente la proprietà. Assume l’essere almeno uno a leggere il testo del maestro – come Lacan gli riconosce apertamente – come l’Uno solo a saperlo leggere. Questo ultimo passaggio non è ovviamente mai dichiarato da Miller, ma è in realtà un effetto evidente che scaturisce dalla sua pratica di lettura. Detenere la proprietà del testo in quanto l’Uno solo a saperlo intendere, significa – ben al di là delle accuse ingiuste che 24


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 25

gli vengono mosse come quella di avere sequestrato i Seminari del maestro ritardandone la pubblicazione – escludere altre possibili letture del testo di Lacan. E questo comporta inevitabilmente il rischio di un effetto di imbalsamazione dogmatica del testo, non nel senso, come ancora alcuni suoi critici vorrebbero, di una sua semplificazione impropria – un altro indiscutibile merito di Miller è quello di non aver mimato lo stile di Lacan adottando invece uno stile di commento cartesiano, logico e coerente –, ma piuttosto quello di confondere la sua interpretazione dell’orientamento del testo come la verità assoluta di quel testo. Quello che si perde è la ricchezza degli zig e zag, degli scarti, delle contraddizioni, dei vuoti e delle lacune che abitano il testo di Lacan. Vorrei fare solo un esempio tra i tanti possibili. È quello di una pagina del Seminario VIII dedicato al problema del transfert. In un’occasione recente ho avuto modo di discuterne pubblicamente con lo stesso Miller. Riporto il frammento cruciale di questa pagina: Perché un analista, con il pretesto che è ben analizzato, dovrebbe essere insensibile al levarsi di un pensiero ostile che egli può percepire in una presenza di cui bisogna supporre, affinché si produca qualcosa di quest’ordine, che non sia lì come presenza di un malato ma come presenza di un essere che occupa del posto... Perché deve essere di per sé escluso il moto dell’amore o dell’odio? Perché squalificherebbe l’analista nella sua funzione? A questo modo di porre la questione non c’è altra risposta che la seguente: in effetti, perché mai? Più l’analista sarà analizzato, più sarà possibile che rispetto al suo partner sia francamente innamorato o francamente in uno stato di avversione, di repulsione, secondo i modi più elementari del rapporto tra i corpi. Quel che vi dico è un po’ tosto, ci turba.2

2. J. Lacan, Il seminario. Libro 2008, p. 203.

VIII.

Il transfert. 1960-1961 (1991), Einaudi, Torino

25


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 26

Qui Lacan offre veramente, a mio giudizio, una prova del suo stile di pensiero. Evitare che i propri stessi concetti – introdotti per vivificare il testo di Freud fatto appassire dalla vulgata post-freudiana – si irrigidiscano sclerotizzandosi, diventando essi stessi dei cliché, degli stereotipi morti. Se seguiamo questo esempio, si tratta di evitare che la sua tesi relativa all’affermazione della dimensione simbolico-strutturale e non psicologico-affettiva del transfert non arrivi a sopprimere i rilievi scabrosi, le difficoltà, le zone di opacità che popolano la materia di per sé incandescente del transfert analitico. In questo modo, ponendo la sua tesi dell’analista come funzione simbolica e come oggetto marcato da una disparità fondamentale rispetto alla simmetria immaginaria dell’intersoggettività – tesi cruciali del Seminario VIII –, Lacan non cancella affatto il problema spinoso dell’incarnazione soggettiva di questo oggetto nella relazione con il paziente. Egli mantiene piuttosto uno spazio insaturo dentro il quale la questione dell’amore (o dell’odio) e delle loro incarnazioni transferali non può essere risolta con una pura procedura di logificazione. L’analista bene analizzato sarà in grado di rispondere con un amore o un odio franco al suo paziente, afferma Lacan, sconcertando probabilmente il suo uditorio. Questa tesi – che a mio giudizio riprende implicitamente un articolo di Winnicott titolato L’odio nel contro-transfert3 – urta manifestamente contro la tesi dell’impassibilità apatica dell’analista e della sua funzione simbolica. Ma non è forse questa la grandezza di Lacan? Non limitarsi a ordinare il campo della pratica analitica, a ritrovare il filo dell’esperienza freudiana smarritosi nei labirinti immaginari di molto post-freudismo, ma preservare il carattere teso, scabroso, incerto e privo di garanzie del desiderio dell’analista. Affermare l’irriducibilità del transfert a un fenomeno immaginario di immedesimazione reciproca (transfert-controtransfert) e rivalutarne la sua strutturazione simbolica non si3. D.W. Winnicott, L’odio nel controtranfert (1947), in Dalla pediatria alla psicoanalisi, Martinelli, Firenze 1975, pp. 234-245.

26


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 27

gnifica affatto – così traduco l’importanza di questo passaggio – dissolvere il peso dell’incarnazione inevitabilmente soggettiva della funzione simbolica dell’analista. Anzi. Una volta Lacan ha saputo sintetizzare luminosamente questo peso dell’incarnazione come un tacere dell’analista sull’amore.4 Questa pagina per Miller è un dettaglio che non restituisce l’orientamento di fondo del pensiero di Lacan. Non è una pagina che merita di essere commentata perché non risponde alla logica teleologica dell’orientamento. Tuttavia resta il fatto che questa pagina arriva come una meteora nel cielo ordinato della lettura milleriana. Ma il testo di Lacan non è forse zeppo di queste meteore? E non si sopprime proprio l’essenziale pensando di sopprimere l’inessenziale? Non è, tra l’altro, proprio questo che ci insegna la pratica freudiana della psicanalisi? Diversamente, la lettura dell’orientamento ricupera tutto dentro la potenza di un movimento teleologico. Essa isola sì un Lacan contro Lacan, un Lacan critico di se stesso, diviso, ma solo per promuovere l’ultimo Lacan come esito (scabroso e indigesto) di un itinerario che viene restituito come una sorta di ascesi eroica verso il reale. 5. Ciò che, a mio giudizio, rende invece irresistibile il testo di Lacan è che non c’è mai in esso un avanzamento che non trattenga in qualche forma ciò che lascia anche cadere alle sue spalle. Il suo movimento non è mai progressivo ma tendenzialmente spiraliforme. È un avanzamento ramificato. Pensiamo alla questione del riconoscimento, alla figura hegelo-kojèviana del desiderio umano come desiderio di riconoscimento. Lacan non si li4. In uno dei passaggi più personali di Lacan (per me tra i più commoventi) che descrive il suo incontro con la psicanalisi e il suo lavoro di analista e che qui riporto per intero: “Chi vi parla è entrato nella psicoanalisi molto tardi [...] ma è nella psicoanalisi già da parecchio tempo per poter dire che presto avrà passato metà della sua vita ad ascoltare vite che si raccontano, che si confessano. Egli ascolta; io ascolto. Io non ho niente per poter misurare il valore delle vite che da quattro settenari ascolto confessarsi dinnanzi a me. E uno degli scopi del silenzio che costituisce la regola del mio ascolto è proprio quello di tacere l’amore”, J. Lacan, Conferenze sull’etica della psicoanalisi (1960), “La Psicoanalisi”, 16, 1994, p. 16.

27


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 28

mita a introdurre un taglio epistemologico rispetto a questa problematica – centralissima nei primi anni cinquanta – con il passaggio verso le leggi del linguaggio, l’autonomia dell’ordine simbolico ecc., ma vi ritorna incessantemente – come potrebbe, tra l’altro, il lavoro dell’analista prescindere dalla legge della parola come legge del riconoscimento? – lavorandola insistentemente, dando uno spessore continuamente rinnovato a questa figura. Si pensi a come essa intervenga obliquamente nella definizione del padre come colui che sa desiderare la propria donna, nel Seminario su Joyce – versione libidica del riconoscimento. Oppure si pensi alla questione del Padre in quanto tale. In Lacan, anche nel cosiddetto “ultimo Lacan”, non c’è solo un movimento di oltrepassamento dell’orizzonte edipico della psicanalisi che comporterebbe, nella lettura teleologica dell’orientamento, una soppressione del Padre nella sua funzione di incarnazione e di testimonianza del desiderio, ma c’è anche una riarticolazione continua dell’importanza della testimonianza paterna che tende a mio giudizio ad accentuarsi proprio là dove, almeno sul piano trascendentale della struttura, si accentua drasticamente la sua più radicale evaporazione. 6. Perché Lacan attirava e continua ad attirare a sé molte persone? Perché sapeva offriva un sapere incarnato, non un sapere morto. Perché, più precisamente, sapeva parlare dell’impossibile. E sapeva parlare dell’impossibile perché sapeva incarnarlo sottraendolo alle pure disquisizioni dei logici – che pure conosceva bene. Più precisamente ancora: egli sapeva parlare dell’impossibile incarnandolo nell’inesistenza del rapporto sessuale. Questo movimento di incarnazione del sapere investe ovviamente anche la stessa pratica della lettura. Come preservare la spaziatura necessaria per non cristallizzare l’esperienza del testo di Lacan in schemi concettuali rigidi, privi di flessibilità, in un funzionamento macchinico del suo ordinamento orientato? Come tenere insieme l’importanza dell’orientamento con quella degli scarti che la lettura orientata tende inevitabilmente a produrre? 28


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 29

La clinica, per essere praticata eticamente, esige una lettura soggettivata del testo. È il grande insegnamento di Freud al quale Lacan è sempre rimasto fedele: lo psicanalista per quanto deve avere un sapere (universale) sulla struttura deve essere in grado di ascoltare il soggetto nella sua più totale incomparabilità. Assenza, dunque, di ogni pensiero protocollare, di ogni conformismo teorico, di ogni scolastica concettuale; l’atto dell’analista non si sostiene sull’Altro – il suo sapere, la sua potenza immaginaria, la sua garanzia – perché l’Altro non esiste, ma avviene solo sull’abisso della sua assenza, della sua inconsistenza. Non è un atto di padronanza, ma un atto che sorge sullo sfondo della mancanza dell’Altro, dunque di una non-padronanza davvero radicale. Non è forse questo che insegna radicalmente il testo di Lacan, non è il suo un costeggiamento costante dell’abisso dell’inesistenza dell’Altro? Per questo, a suo modo, Freud pensava che le innovazioni concettuali fossero necessarie innanzitutto per provare a tradurre ciò che l’esperienza dell’analisi sorprendentemente insegnava. Come psicanalista non si può davvero leggere Lacan senza questo rimando continuo all’esperienza dell’analisi, dunque a come ciascuno ha potuto incontrare e soggettivare l’abisso della mancanza nell’Altro. Sul piano della lettura questo significa non accettare le scorciatoie che la lettura dell’orientamento fatalmente suggerisce – anche a dispetto delle intenzioni del suo autore –, ma rinnovare, uno per uno, lo sforzo di un accesso singolare, soggettivato, incarnato, al testo. Solo nella solitudine che comporta questo passaggio uno psicanalista può ritrovare, ripercorrendolo, quello stesso movimento etico che ha condotto Lacan stesso a ripensare il suo rapporto con la causa freudiana. Solo soggettivando l’eredità di questa solitudine si può essere adeguati al rigore etico che la lettura del testo di Lacan impone.

29


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 30

Malgrado tutto: l’etica di Lacan SLAVOJ ŽIŽEK

d è per il fatto che sappiamo, meglio di coloro che ci hanno preceduto, riconoscere la natura del desiderio che è al centro di tale esperienza, che una revisione etica è possibile, che un giudizio etico è possibile, il quale ripresenta la questione nel suo valore di Giudizio Universale – Avete agito conformemente al desiderio che vi abita?”1 Ecco la massima lacaniana dell’etica della psicanalisi: “L’unica cosa di cui si possa essere colpevoli [...] [è] di aver ceduto sul proprio desiderio”.2 Questa massima, per quanto all’apparenza semplice e chiara, risulta sfuggente quando si tenti di specificarne il significato: in che posizione si colloca rispetto alla panoplia contemporanea delle opzioni etiche? Sembra adattarsi a tre delle versioni principali: edonismo liberale tollerante, etica immorale e “buddismo occidentale”.3 Le analizzeremo una a una. Prima di tutto, va ribadito categoricamente che l’etica lacaniana non è un’etica edonistica: qualunque cosa significhi “non cedere sul tuo desiderio”, non significa certo dare libero corso a

“E

Titolo originale: Against All Odds: Lacan’s Ethics. 1. J. Lacan, Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi. 1959-1960 (1986), Einaudi, Torino 1994, p. 394. 2. Ivi, p. 401. 3. Il problema grosso è che la psicanalisi sembra potersi adattare a tutte le istanze etiche contemporanee dominanti, le tre summenzionate più altre due: l’etica della responsabilità dell’Alterità di Derrida-Lévinas e la difesa conservatrice del bisogno di riaffermare la legge simbolica (intesa come autorità paternalistica) come unico mezzo per risolvere l’impasse del permissivismo edonistico.

30

aut aut, 343, 2009, 30-39


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 31

quello che Freud chiamava “principio di piacere”, il funzionamento dell’apparato psichico che ha di mira il conseguimento del piacere. Per Lacan, l’edonismo infatti è il modello di cosa significhi posporre il desiderio in ragione di “compromessi realistici”: per ottenere il massimo del piacere, devo calcolare ed economizzare, sacrificare i piaceri a breve termine per quelli a più lungo termine. Non c’è rottura fra il principio di piacere e la sua controparte, il “principio di realtà”: il secondo (costringendoci a fare i conti con i limiti della realtà che impediscono il nostro accesso diretto al piacere) è un’emanazione interna del primo. Anche il buddismo (occidentale) non è immune da questo rischio: lo stesso Dalai Lama ha scritto che “lo scopo della vita è essere felici”.4 Ciò non è vero per la psicanalisi, bisogna aggiungere. Nel discorso kantiano, il dovere etico funziona come un elemento estraneo traumatico che dall’esterno disturba l’equilibrio omeostatico dell’individuo, che spinge in modo intollerabile il soggetto ad agire “al di là del principio di piacere”, ignorando la ricerca dei piaceri. Per Lacan, lo stesso discorso vale per il desiderio, che è il motivo per cui il godimento non è qualcosa che giunge naturalmente al soggetto come realizzazione del suo potenziale intrinseco, ma è il contenuto di un ordine traumatico del super-Io. Se l’edonismo va rifiutato, possiamo dunque affermare che l’etica lacaniana è una versione dell’eroica etica immorale, che ci ordina di rimanere fedeli a noi stessi, di insistere nella nostra scelta al di là del bene e del male? Pensiamo a Don Giovanni nell’ultimo atto dell’opera di Mozart, quando il convitato di pietra lo mette di fronte a una scelta: è vicino alla morte, ma se si pente dei suoi peccati può ancora venire redento; se, invece, non rinuncia alla sua vita peccaminosa, sarà bruciato all’inferno per sempre. Don Giovanni rifiuta eroicamente di pentirsi, pur essendo perfettamente consapevole di non avere niente da guadagnare dalla sua ostinazione, se non la sofferenza eterna. Perché lo fa? Ovviamente non per una qualche convenienza o per una promessa di beni futuri. L’unica spiegazione è la sua profonda 4. “Foreword by the Dalai Lama”, in M. Epstein, Thoughts Without a Thinker, Basic Books, New York 1996, p. XIII.

31


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 32

fedeltà alla vita dissoluta che ha scelto. È un chiaro caso di etica immorale: la vita di Don Giovanni è stata sicuramente immorale, tuttavia la sua fedeltà a se stesso dimostra che egli era immorale non per piacere o per profitto, ma per principio, che agiva come agiva per una scelta fondamentale. O, per portare un esempio al femminile, prendiamo la Carmen di Bizet. Carmen è, ovviamente, immorale (instancabilmente promiscua, rovina la vita degli uomini, distrugge le famiglie), ma ciononostante profondamente etica (fedele alla strada scelta, fino in fondo, anche quando questa significa morte certa). Friedrich Nietzsche (grande ammiratore di Carmen) fu il filosofo dell’etica immorale, e dobbiamo sempre ricordare che il titolo del capolavoro di Nietzsche è “genealogia della morale”, non “dell’etica”: non sono la stessa cosa. La moralità riguarda la simmetria delle mie relazioni con gli altri esseri umani; il suo livello zero è “non fare agli altri quello che non vuoi sia fatto a te”;5 l’etica, al contrario, ha a che fare con il rapporto con me stesso, con la fedeltà al mio desiderio. Sul risvolto di copertina dell’edizione del 1939 di Materialismo ed empiriocriticismo di Lenin, Stalin aveva scritto la seguente nota con una matita rossa: 1) Debolezza 2) Pigrizia 3) Stupidità Queste sono le uniche tre cose che possano essere definite vizi. Qualunque altra cosa, in assenza delle summenzionate, è senza dubbio virtù. NB! Se un uomo è 1) forte (spiritualmente) 2) attivo, 3) sveglio (o capace), allora è buono, senza riguardo per qualunque altro “vizio”!6 5. È il motivo per cui la migliore risposta psicanalitica a questa massima morale è immaginare che cosa avrebbe potuto significare per un masochista prometterci di seguire tale massima nei suoi rapporti con noi. 6. Pubblicato per la prima volta sulla “Pravda”, il 21 dicembre 1994. Oltre a queste note, Stalin aveva appuntato, con una matita blu: “Ahimè! Cosa facciamo vedere, cosa facciamo vedere!”, citato in D. Rayfield, Stalin e i suoi boia. Un analisi del regime e della psicologia stalinisti (2004), Garzanti, Milano 2005, p. 19.

32


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 33

Questa è la formulazione più concisa possibile dell’etica immorale; di contro, una creatura debole che obbedisce alle regole morali e si preoccupa delle proprie colpe, rappresenta una moralità non etica, il bersaglio della critica nietzschiana del risentimento. C’è, tuttavia, un limite allo stalinismo: non che è troppo immorale, ma che è segretamente troppo morale, ancora legato alla figura del grande Altro. In quella che probabilmente è la più intelligente legittimazione del terrore stalinista, Umanismo e terrore di Maurice Merleau-Ponty del 1946, il terrore viene giustificato come una specie di scommessa sul futuro, simile alla teologia di Blaise Pascal che ci invita a scommettere su Dio: se alla fine l’orrore di oggi ci porterà allo splendente futuro comunista, allora questo risultato retroattivamente redimerà le terribili azioni che un rivoluzionario deve compiere oggi. Sulla stessa linea, anche qualche stalinista, se costretto (generalmente in via informale) ad ammettere che molte vittime delle purghe erano innocenti ed erano state accusate e uccise perché “il partito aveva bisogno del loro sangue per rafforzare la sua unità”, immaginava il momento futuro della vittoria finale nel quale tutte le vittime necessarie sarebbero state riabilitate, e la loro innocenza e il loro alto sacrificio per la Causa sarebbero stati riconosciuti. Questo è ciò che Lacan, nel seminario sull’etica, definisce “prospettiva del Giudizio finale”, una prospettiva ancora più evidente in uno dei termini chiave del discorso stalinista, quello della “colpa oggettiva” e del “significato oggettivo” dei tuoi atti: puoi anche essere una persona onesta che ha agito con le migliori intenzioni, ciononostante sei “oggettivamente colpevole” se i tuoi atti sono al servizio delle forze reazionarie; ovviamente, è il Partito che ha accesso diretto a quello che i tuoi atti “significano oggettivamente”. Ancora una volta, non c’è solo la prospettiva del Giudizio finale (che dà forma al “significato oggettivo” dei nostri atti), ma anche il fatto che chi agisce nel presente possiede già ora la capacità unica di giudicare gli eventi attuali, e agisce da questa prospettiva.7 7. Lo stesso succede per quell’edonista ateo radicale del marchese de Sade: i lettori più acuti dei suoi scritti (come Pierre Klossowski) avevano pensato già da tempo che la pulsione a godere che spinge il libertino sadiano implichi un riferimento surrettizio a una di-

33


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 34

Possiamo comprendere ora perché il motto lacaniano “il n’y a pas de grand Autre”, “non c’è grande Altro”, ci porti al nucleo vero e proprio della problematica etica: esso esclude proprio la “prospettiva del Giudizio Finale”, l’idea che da qualche parte – anche se solo come punto di riferimento virtuale, anche se ammettiamo che sarà sempre al di fuori della nostra portata e che non potremmo mai superare il giudizio reale – ci deve essere uno standard che ci permetta di misurare i nostri atti e mostrare il loro “vero significato”, il loro reale statuto etico. Anche la nozione di Jacques Derrida di “decostruzione come giustizia” sembra fare riferimento a una speranza utopica che nutre lo spettro della “giustizia infinita”, sempre posposta, sempre a venire, ma comunque presente come orizzonte fondamentale della nostra azione. La durezza dell’etica lacaniana consiste nel fatto che essa ci chiede di abbandonare completamente questo riferimento, e la sua scommessa ulteriore è che questa rinuncia non ci porti a un’insicurezza etica o al relativismo, o addirittura a minare le fondamenta dell’azione etica, ma che rinunciare alla garanzia di un qualche grande Altro sia la condizione di una vera etica autonoma. Ricordiamoci che il sogno dell’iniezione di Irma, che Freud utilizzò come caso esemplare per illustrare la sua procedura di analisi dei sogni, è un sogno sulla responsabilità (la responsabilità di Freud per il fallimento nel curare Irma). Questo solo fatto indica come la responsabilità sia un concetto freudiano importantissimo. Ma come dobbiamo concepirla? Come evitare il fraintendimento comune che il messaggio etico di fondo della psicanalisi sia, propriamente, quello di sollevarmi dalla mia responsabilità, di gettare il discredito sull’Altro: “Siccome l’inconscio è il discorso dell’Altro, non sono responsabile delle cose cui lui dà forma, è il grande Altro che parla attraverso di me, sono solo un suo strumento”? Lo stesso Lacan ha mostrato come uscire da questo vicolo cieco facendo riferimento alla filosofia di Kant quale antecedente cruciale dell’etica della psicanalisi. vinità nascosta, quella che Lacan chiama “l’Essere supremo del Male”, un Dio oscuro che chiede di venire nutrito con la sofferenza degli innocenti.

34


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 35

La nozione di grande Altro mancante apre una nuova strada per affrontare il tema del fantasma: il fantasma è proprio un tentativo di riempire questa mancanza dell’Altro, cioè di ridare consistenza al grande Altro. Per questo motivo, fantasma e paranoia sono strettamente collegati: la paranoia è, fondamentalmente, credere in un “Altro dell’Altro”, in un Altro che, nascosto dietro l’Altro della struttura sociale evidente, programma (quelli che ci sembrano essere) gli effetti imprevedibili della vita sociale, e in tal modo garantisce la sua consistenza: dietro il caos del mercato, la degenerazione della mora le ecc., c’è una strategia premeditata, per esempio il complotto ebraico (o, cosa che oggi affascina molto di più, il complotto dei Templari). Questa istanza paranoica ha acquisito una spinta ulteriore dalla digitalizzazione contemporanea delle nostre vite: se la nostra intera esistenza (sociale) viene progressivamente spostata fuori, materializzata nel grande Altro della rete di Internet, è facile immaginare un programmatore maligno che cancella la nostra identità digitale privandoci in tal modo della nostra esistenza sociale, trasformandoci in nonpersone. L’unico altro pensiero che accetta fino in fondo una tale incompletezza della realtà e l’inesistenza del grande Altro è il buddismo: dobbiamo pensare che la soluzione vada trovata nell’etica buddista? Ci sono alcuni argomenti a favore di questa opzione. Non ci conduce forse il buddismo a una sorta di “attraversamento del fantasma”, a superare le illusioni sulle quali si fondano i nostri desideri e a confrontarci con il vuoto che sta al di là di ogni oggetto di desiderio? Inoltre, la psicanalisi ha in comune con il buddismo il fatto di sottolineare che non c’è alcun Io inteso come agente attivo della vita psichica: non ci stupisce che Mark Epstein, nel suo libro sul buddismo e la psicanalisi, citi positivamente il breve scritto del primo Lacan sulla “fase dello specchio”, con la sua nozione di Ego come oggetto, come risultato dell’identificazione del soggetto con l’immagine fissa idealizzata 35


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 36

di se stesso:8 l’Io è un’illusione-feticcio che ci sia un nucleo sostanziale della soggettività laddove in realtà non c’è nulla. Questo è il motivo per cui, nel buddismo, la questione non è quella di trovare il “vero Se stesso”, ma di accettare il fatto che non ce n’è uno, che l’“Io” in quanto tale è un’illusione, un’impostura. Per esprimerci in termini più psicanalitici, non solo bisogna analizzare le resistenze, ma, in fin dei conti, “non c’è nient’altro da analizzare se non le resistenze: non c’è alcun io vero che aspetta di spiccare il volo”.9 L’Io è una metafora fuorviante, falsa, e quindi inutile per il processo di consapevolezza e conoscenza: quando ci destiamo alla conoscenza, comprendiamo che tutto ciò che accade in noi è un flusso di “pensieri senza pensatore”. Va da sé che è impossibile riuscire a capire chi o cosa siamo, dato che non siamo nulla “in realtà”, solo un vuoto al centro del nostro essere. Di conseguenza, nel processo dell’illuminazione buddista, non abbandoniamo questo mondo terrestre per un’altra realtà vera, ma accettiamo semplicemente il suo carattere illusorio, non sostanziale, transitorio; portiamo a termine il processo dell’“andare a pezzi senza disintegrarsi”. Come per gli gnostici, anche per il buddismo l’etica è in fin dei conti una questione di conoscenza e ignoranza: la nostra bramosia (desiderio) – il nostro attaccamento ai beni terreni – è condizionata dalla nostra ignoranza, tanto che la liberazione giunge dalla conoscenza corretta. Il significato dell’amore cristiano, al contrario, è che si tratta di una decisione non fondata sulla conoscenza (vera o falsa che sia): il cristianesimo rompe dunque con l’intera tradizione del primato della conoscenza che si estende dal buddismo, attraverso lo gnosticismo e fino a Spinoza. Fondamentale per il buddismo è lo spostamento riflessivo dall’oggetto a chi lo pensa: prima, isoliamo la cosa che ci turba, la causa della sofferenza; poi, cambiamo non l’oggetto ma noi stessi, il modo in cui ci rapportiamo a (quello che ci appare come) la causa della nostra sofferenza: “Quello che è stato distrut8. M. Epstein, Thoughts Without a Thinker, cit., p. 152. 9. Ivi, p. 121.

36


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 37

to era solo la falsa visione dell’io. Ciò che è sempre stato illusorio è stato compreso come tale. Non è cambiato nulla tranne la prospettiva dell’osservatore”.10 Questo cambiamento comporta un grande dolore, non è solo una liberazione, un passo all’interno dell’incestuosa beatitudine del tristemente famoso “sentimento oceanico”, ma anche l’esperienza violenta del sentirsi mancare il terreno sotto i piedi, dell’essere privati del livello di esistenza più famigliare. Questo è il motivo per cui il migliore punto di partenza per l’illuminazione buddista è quello di concentrarsi sul più elementare sentimento di “innocenza tradita”, quello di patire un’ingiustizia senza motivo (il tema preferito dei pensieri narcisistico-masochisti): “Come può fare questo a me? Non merito di venir trattato così”.11 Il passo successivo è di operare lo spostamento sull’Ego stesso, sul soggetto di queste emozioni dolorose, rendendo chiaro e tangibile il suo statuto flebile e irrilevante: l’aggressione contro l’oggetto che causa la sofferenza va rivolta contro lo stesso Io. Non ripariamo il danno: intuiamo la natura illusoria di ciò che dobbiamo riparare. In cosa si differenziano, allora, il buddismo e la psicanalisi? Per rispondere a questa domanda, dobbiamo affrontare l’enigma di fondo del buddismo, il suo punto cieco: come è potuto succedere che siamo caduti nel samsara, la Ruota della Vita? La domanda da porre è esattamente il contrario del tema principale del buddismo: come possiamo rompere la Ruota della Vita e raggiungere il nirvana? (Questo capovolgimento è analogo a quello, operato da Hegel, della classica questione metafisica: come possiamo attraversare le false apparenze e raggiungere la vera realtà? Per Hegel, la domanda è, al contrario, come ha fatto l’apparenza a emergere dalla realtà?) La natura e l’origine dell’impeto grazie al quale il desiderio, il suo inganno, è emerso dal Vuoto, è il grande punto di domanda al centro dell’edificio buddista: parrebbe un atto che “rompe la simmetria” all’interno del nirvana stesso e in tal modo fa apparire qualcosa dal nulla (un’altra analogia con la fisica quantisti10. Ivi, p. 83. 11. Ivi, p. 211.

37


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 38

ca, con il suo concetto di rompere la simmetria). La risposta freudiana è la pulsione: ciò che Freud chiama pulsione non è, come potrebbe sembrare, la Ruota della Vita buddista, la bramosia che ci rende schiavi di un mondo di illusioni. La pulsione, al contrario, prosegue anche quando il soggetto ha “attraversato il fantasma” e l’ha fatta finita con la brama illusoria dell’oggetto (perduto) del desiderio. Di nuovo, una sorprendente analogia con le “scienze dure” può aiutarci. Il paradosso della pulsione viene descritto perfettamente dall’ipotesi del “campo di Higgs”, ampiamente discusso nella fisica contemporanea delle particelle. Lasciati al loro corso in un ambiente al quale essi possano passare la loro energia, tutti i sistemi fisici raggiungeranno progressivamente uno stato di energia più basso; in altri termini più massa prendiamo da un sistema, più bassa sarà l’energia, finché raggiungeremo lo stato di vuoto nel quale l’energia è zero. Ci sono, tuttavia, fenomeni che ci spingono a ipotizzare che ci deve essere qualcosa (una qualche sostanza) che non possiamo sottrarre a un dato sistema senza aumentare l’energia di quel sistema. Questo “qualcosa” è chiamato il campo di Higgs: quando questo campo appare in un contenitore in cui è stato fatto il vuoto e la cui temperatura è stata abbassata il più possibile, la sua energia sarà diminuita ulteriormente. Il “qualcosa” che appare in tal modo è qualcosa che contiene meno energia del niente, un “qualcosa” che è caratterizzato da un’energia completamente negativa: in breve otteniamo la versione fisica di come “qualcosa appaia dal nulla”. Questo è quello che ha in mente Lacan quando sottolinea la differenza tra la pulsione di morte freudiana e il cosiddetto “principio del nirvana” secondo cui ogni sistema vivente tende al livello minimo di tensione, e in ultima istanza alla morte. Il “nulla” (il vuoto, l’essere privati di ogni sostanza) e il livello più basso di energia paradossalmente non coincidono più; “costa meno” (al sistema costa meno energia) rimanere nel “qualcosa” che sfociare nel “nulla”, al livello più basso della tensione o nel vuoto, nella dissoluzione di tutto il sistema. È questa la distanza che 38


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 39

sorregge la pulsione di morte (cioè la pulsione in quanto tale, siccome “ogni pulsione è virtualmente una pulsione di morte”):12 lungi dall’essere la stessa cosa del principio del nirvana (tendere alla dissoluzione di ogni tensione vitale, la volontà di ritornare al nulla originario), la pulsione di morte è la tensione che persiste e insiste al di là e contro il principio del nirvana. In altre parole, lungi dall’essere opposto al principio di piacere, il principio di nirvana è la sua espressione più alta e più radicale. In questo senso, la pulsione di morte rappresenta il suo esatto opposto, la dimensione del “non morto”, della vita spettrale che insiste al di là della morte (biologica).

Traduzione dall’inglese di Damiano Cantone

12. J. Lacan, Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi, cit., p. 317.

39


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 40

A cosa può servirci l’objet (petit) a RAOUL KIRCHMAYR

ale la pena di leggere oggi Lacan, pure con quel tanto di godimento che la pena comporta? Rispondo di sì. Per una ragione, principalmente. Perché ai miei occhi Lacan è l’artefice di una importante invenzione concettuale, quella dell’objet (petit) a, affermazione che certo non è nuova, se non altro perché, in modo autorevole, già pronunciata.1 Ma in questa occasione, ritornando sulla portata dell’objet a vorrei anzitutto sottolinearne la fecondità per i discorsi e i saperi che non sono quelli della psicanalisi. In breve, se l’invenzione concettuale di Lacan è stata un punto di svolta nel suo percorso intellettuale, e ha così generato consistenti effetti tanto sul piano teorico quanto su quello dell’indagine clinica in psicanalisi, essa si può rivelare uno straordinario descrittore per tutti coloro che non hanno smesso di considerare la psicanalisi una risorsa cui attingere, vuoi per la riflessione sul proprio specifico disciplinare, vuoi per svolgere un discorso critico sul presente che appare tanto più difficile quanto più questo presente è, oggi, a pezzi.

V

1. Attorno al soggetto, eppure dentro. Lungo il percorso che lo ha portato a dare sempre maggiore consistenza a questa sua inven1. Da J.-A. Miller, in particolare in L’Autre qui n’existe pas et ses comités d’éthique, corso dell’orientamento lacaniano tenuto all’Università di Parigi VII, 1996-1997 (del quale è stata pubblicata solo la lezione del 4 dicembre 1996, in La Cause freudienne, Navarin-Seuil, Paris 1997, pp. 3-20).

40

aut aut, 343, 2009, 40-49


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 41

zione concettuale, credo che la definizione più interessante che Lacan abbia dato all’objet a sia quella di “resto” (reste), parola che apre un intero ventaglio di possibilità teoriche e di descrizione dei fenomeni empirici;2 al tempo stesso, l’objet a come resto, scarto, residuo, può essere fatto incrociare con diverse piste filosofiche che, in diversa misura hanno segnato il pensiero contemporaneo: per esempio, la parte maledetta di Bataille, gli stracci e le rovine di Benjamin, l’impossibile di Derrida. Ma, anzitutto, la nozione di resto è una chiave importante per comprendere in che modo Lacan abbia man mano riarticolato il modo di pensare il soggetto per la psicanalisi, spostando gradualmente il fuoco teorico da una concezione prevalentemente di stampo neohegeliano e dialettico – che marca i primi scritti e i seminari degli anni cinquanta – fino all’elaborazione delle nozioni di godimento e di sembiante – che ritmano i suoi ultimi discorsi e che tengono viva l’interrogazione sul soggetto ben al di là di una sua “scomparsa” decretata in più modi, tra gli anni sessanta e settanta, da uno strutturalismo che Lacan tuttavia aveva attraversato, assunto, rielaborato. Nel progressivo farsi della teoria – con gli spostamenti, le riprese, le specificazioni che Lacan ha operato molto frequentemente – l’objet a guadagna dunque uno statuto speciale. Nato come modo per designare l’altro – nel senso dell’altro soggetto all’interno di una relazione duale3 – l’objet a si è in seguito specificato come un oggetto dotato della peculiarità di essere investito dal desiderio soggettivo in quanto sua causa (è l’agalma di cui Platone ci dice essere portatore Socrate e che Lacan, nel seminario dedicato al transfert, identifica proprio nell’objet a).4 Così, l’objet a indica, raggruppandoli, l’insieme degli oggetti pulsionali della psicanalisi freudiana – rispetto ai quali Lacan ag2. L’objet a viene formalizzato da Lacan come resto a partire dai seminari del 19621963 (Il seminario. Libro X. L’angoscia, 2004, Einaudi, Torino 2007) e del 1964 (Il seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, 1973, Einaudi, Torino 2003). 3. Cfr. lo “schema L” o lo “schema Z” che funge da matrice per la comprensione dei rapporti tra il soggetto (barrato in quanto significante), l’ordine simbolico (il grande Altro), l’altro soggetto (l’a piccolo) e l’inconscio. 4. J. Lacan, Il seminario. Libro VIII. Il transfert. 1960-1961 (1991), Einaudi, Torino 2008.

41


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 42

giunge la voce e lo sguardo – ma rispetto a essi mostra un’eccedenza che non è formalizzabile (se non tutt’al più come perturbazione): è la punta di emergenza del reale che squarcia il velo delle parole e delle immagini ed è il baricentro per la costruzione del fantasma.5 Da questa angolatura, esso è strettamente legato al sentimento dell’angoscia6 che espone il soggetto (parlante) all’apprensione del suo essere finito e mortale.7 Se consideriamo il Seminario VII come un primo importante punto di svolta nel farsi della teoria lacaniana, si può vedere che l’objet a acquisisce una sempre maggiore consistenza da quando Lacan riconosce che l’oggetto pulsionale non coincide con la sua eccedenza, che egli – con un prestito heideggeriano – chiama das Ding, la “Cosa”. La “Cosa” si colloca in uno spazio soggettivo che inizia a disegnarsi topologicamente: né dentro né fuori, ma un fuori posto nel dentro, essa costituisce una intima esteriorità, una extimità nel cuore del soggetto. Reversibilmente l’interiorità si trova esteriorizzata, ed è possibile ritrovare l’inconscio fuori dal soggetto, nelle forme della rappresentazione della “realtà”. Dall’abbozzo di tale struttura topologica fino agli ultimi seminari, dove il “nodo borromeo” concatena le tre dimensioni di reale, simbolico e immaginario, l’objet a si configura pertanto come quel pivot mediante il quale Lacan sovverte la struttura del soggetto e, di riflesso, il modo con cui la filosofia ha pensato quest’ultimo, limitandosi a conservare lo schema bipolare soggetto-oggetto quando, per contro, la psicanalisi lacaniana spinge a complicarlo riconoscendo la dipendenza del soggetto dai due processi di separazione (rispetto alla “Cosa”) e di causazione (del desiderio) che lo mettono in relazione con l’objet a. Parallelamente, la “realtà esterna” non può più essere vista come una trama coerente, ma come un tessuto che si smaglia in continuazione e che là dove si lacera lascia aperti dei vuoti. 5. Il mathèma del fantasma (S ◊ a) compare già nel seminario del 1957-1958 sulle formazioni dell’inconscio (Id., Il seminario. Libro V. Le formazioni dell’inconscio, 1998, Einaudi, Torino 2004). 6. Cfr. Id., Il seminario. Libro X. L’angoscia, cit. 7. Come accade con l’interpretazione lacaniana dell’anamorfosi dell’oggetto oblungo presente nel quadro Gli ambasciatori di Holbein il giovane, nel Seminario XI, cit.

42


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 43

2. L’objet a come risorsa per una teoria critica. Sia nella trasformazione apportata all’idea di soggetto, sia nella comprensione e interpretazione di una “realtà” curiosamente fatta di vuoti, l’invenzione di Lacan possiede un potenziale critico che mi pare, quanto meno in parte, ancora latente e per così dire tenuto in riserva. Per suscitare queste risorse di discorso, si tratterebbe di spostare i limiti imposti da Lacan alla comprensione della portata dell’objet a, per esempio quando, in un luogo noto e importante – l’intervista Radiofonia – afferma che la “a minuscola [...] è deducibile solo nella misura della psicoanalisi di ciascuno”.8 Se questa affermazione, oltre a essere un’indicazione teorica, traccia pure le linee di una clinica, occorre pure riconoscere che la psicanalisi non può limitarsi ad affrontare le debordanti esigenze della contemporanea domanda di terapia, ma deve rilanciare il proprio ruolo come sapere critico e come forza di trasformazione culturale. Le vicende della psicanalisi degli ultimi decenni, grosso modo, sono state segnate tanto dal suo riconoscimento istituzionale quanto dal depotenziamento delle sue caratteristiche più eversive. Ma una psicanalisi di retroguardia rispetto alle forme egemoniche dei saperi “psi” (o “neuro”) mi pare una contraddizione in termini, e sarebbe un errore scambiare una posizione minoritaria (anche nel senso di una “lingua minore” tra quei saperi) con una cinica dichiarazione di resa che assume la misura della perdita di senso del nostro vivere e cerca di farne qualcosa, per ciascuno, in modo più o meno consolatorio. O la psicanalisi è critica ed è un sapere di rottura – e così mette in gioco la dimensione della speranza – o è destinata a difendere il proprio ruolo secondario nelle moderne tecniche della gestione dei sintomi, divenendo essa stessa sintomo di una generale deriva culturale. In vista della ripresa di questa eredità della psicanalisi, la questione dell’objet a contiene in sé delle prospettive che Lacan si è limitato a indicare o che risultano del tutto inedite. Un sapere di rottura, dunque, e non un’ulteriore potenziamento di saperi che, conoscendo tutto ciò che gli è specifico, rivelano la loro straordinaria impotenza di presa sul reale. 8. J. Lacan, Radiofonia, in Radiofonia. Televisione (1974), Einaudi, Torino 1982, p. 15.

43


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 44

Abbiamo bisogno di nuovi descrittori, tanto più ora quanto più il “simbolico” schiaccia il “reale” e lo rigetta così che quest’ultimo riappare nelle plurime forme sintomali della lacerazione e della violenza (“tout ce qui est rejeté dans le symbolique reparaît dans le réel”, secondo la formula lacaniana della Verwerfung). Ne va del compito della critica del presente e, con ciò, della ridefinizione di quello che veniva chiamato il “ruolo dell’intellettuale”: parole all’altezza dei tempi, che del nostro tempo possano mostrare le ferite, e nominarle facendo di quest’atto di parola una pratica di ricucitura del senso con il filo del non-senso, di un sapere che accolga come propria cifra la necessità di un non sapere e, contemporaneamente, la messa in scena di un immaginario differente da quello colonizzato dal capitalismo contemporaneo. A questo compito critico associo la decostruzione come pensiero dell’evento e come rimaneggiamento delle condizioni per le quali c’è evento (per Derrida un’analisi e, al tempo stesso, un esercitarsi all’impossibile). Perciò, nonostante le differenze che separano i due – talora pure marcate – penso che una strada di ricerca che contemperi le due posizioni sia ancora tutta da percorrere.9 Se chiamiamo “metafisica” le forme della rappresentazione, non si tratta più di sostituire una rappresentazione più adeguata a una meno adeguata della “realtà”, e forse neppure più di disarticolare le giunture di quella macchina per rappresentazione che è la cultura occidentale, piuttosto di disarticolarla per riaggiustare, ricombinare, ricodificare, con pratiche culturali che siano in grado di comprendersi come tali e che riescano a produrre effetti, figlie di un’eredità stratificata e, tuttavia, portatrici di avvenire. Affermare che nell’epoca del nichilismo si dimora nella metafisica come in una casa abitata da spettri non è più sufficiente né funziona più come esercizio più o meno retorico, così come il desiderio di riconoscerci spiazzati dall’apparizione dell’unheimlich nei luoghi delle nostre abitudini rischia di rivelarsi, con l’andare del tempo, un ripetersi dell’attrazione per l’e9. È la via che ha seguito René Major in Lacan avec Derrida, Flammarion, Paris 2001.

44


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 45

sotico, un cliché che, dilettandosi con la figura dell’estraneo, perde di vista proprio ciò che l’estraneo mostra di intollerabile. Non una irenica conciliazione (infatti, se c’è una Versöhnung, essa giunge solo al termine di un processo, come aveva ben compreso Hegel), ma il soprassalto causato dall’apparizione dell’estraneo – fino alle forme senza forma del disumano e del terribile – nella trama stessa dell’ordinario, è proprio quanto oggi, mi pare, venga sottoposto a una gigantesca opera di Verdrängung. Così, la chance critica della psicanalisi mi sembra consistere nella possibilità di assumere il fantasma come forza di trasformazione, proprio perché esso prende in carico l’objet a nel suo aspetto traumatico e angosciante. Non si tratta perciò di ricorrere ancora alla psicanalisi per ripetere operazioni di preteso smascheramento o di svelamento di una “realtà” che così sarebbe pensabile, ancora una volta, solo metafisicamente, ma di modificare il nostro essere nel mondo attraverso una ritessitura dei discorsi da una parte e delle forme dell’immaginario dall’altra. O ancora, e in parole più semplici, è necessario cambiare i nostri fantasmi, come diceva Derrida. Ma, appunto, per fare in modo che i nostri fantasmi mutino, occorre prendere in carico e trattare ciò che propriamente non è trattabile e che resiste alle forme di appropriazione del sapere. Come dire che è necessario intessere un discorso e articolare un sapere tutto attorno ai noccioli di resistenza al sapere, a quelle lacerazioni del tessuto simbolico di cui è fatta la nostra esperienza. Al di là, dunque, di un impiego “tecnico” del concetto, il ricorso eterodosso all’objet petit a può aprire dei varchi nella costruzione di un sapere mobile tra le discipline. Non è difficile, infatti, riconoscere che l’objet petit a ha già cambiato in modo molto significativo le coordinate di almeno un campo, quello degli studi sull’arte e sulla letteratura, e credo possa mutare pure quelle dell’economia, là dove questa assume come proprio oggetto il desiderio.10 Nel primo caso, il nesso tra 10. Cioè quanto meno dalle teorie marginaliste e dai loro sviluppi nel pensiero economico contemporaneo.

45


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 46

lo sguardo e l’opera d’arte figurativa è stato rivisitato e, per così dire, rovesciato dalle tesi del Seminario XI, che ci offre un approccio obliquo alla considerazione del dettaglio nell’economia dell’opera d’arte, al lavoro del senso che avviene nella comprensione di questa grazie all’eccedenza dei particolari, al riconoscimento di come i codici richiedano delle zone non formalizzabili che vengono riempite mediante significanti che così hanno valore di sintomi. Tuttavia, è ancora necessario un lavoro di rilettura dei cardini teorici di un’estetica che contemperi tanto lo sfondo pulsionale quanto l’organizzazione simbolica (dunque storica e culturale) dei codici artistici, e che dunque ampli lo spettro semantico della parola sintomo ben al di là della sua accezione clinica, evitando un impiego superficiale e occasionale degli apporti lacaniani (soprattutto quando la citazione di certi passi dei Seminari o degli Scritti conferisce un’allure à la page) o l’approdo finale di quei discorsi che fanno dell’analisi delle espressioni artistiche una dimostrazione aprioristica della teoria lacaniana. Mentre il primo aspetto dipende interamente da un mercato della cultura in cui le retoriche del post richiedono riferimenti a Lacan per rendere sexy i discorsi che vi si tengono, e così legittimarli, il secondo aspetto è quello più delicato sotto l’angolatura della teoria poiché lo studio delle forme dell’arte viene in esso subordinato al discorso della psicanalisi. Dunque qui ne va dello statuto delle discipline, della definizione dei loro “oggetti”, dei saperi che vengono messi in gioco, e per questa ragione – che possiamo chiamare in senso ampio “metodologica” – non si tratta solamente di schermaglie e di tatticismi legati alle congiunture culturali. Gli effetti di scuola, di ortodossia e, pertanto, di chiusura della psicanalisi sono piuttosto temibili perché rischiano di mutare un’operazione di de-territorializzazione del sapere in una strategia di conquista di nuovi territori tale da generare ulteriori fenomeni di micro-egemonia e di padronanza da parte del discorso psicanalitico. Infine, sotto il profilo euristico la verità di tale discorso si limiterebbe alla considerazione e all’analisi dei fenomeni artistici come illustrazione di un sapere già ac46


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 47

quisito. Con il fatto che la psicanalisi si apre alla letteratura, alla pittura e, più recentemente, al cinema, si rischia di vedere sostituito un paradigma ermeneutico consunto (l’approccio ortodosso, nel freudismo, della psicobiografia) con uno già tramontato (le analisi del significante e dei codici simbolici grazie al riferimento a Lacan come strutturalista). Mentre l’arte acquista rilievo nel momento in cui non conforta ciò che la psicanalisi ha già dimostrato, ma mostra (o dice) ciò che essa non è in grado di dimostrare, sfuggendo così al gioco della riflessione che il discorso della psicanalisi mette in scena ricorrendo ad altri apporti. L’altro versante che lo stesso Lacan indica è quello dell’economia in senso stretto, di scienza che studia la produzione di ricchezza, la sua circolazione e distribuzione. Di fronte al panorama desolante lasciato da vent’anni di deregulation e di dottrine neoliberali, ciò che ancora stenta a formularsi è una decostruzione delle rappresentazioni dominanti dei fenomeni economici, cioè un lavoro di smontaggio dei presupposti metafisici dell’economia capitalistica. Oggi, questo lavoro, che è quello di una rinnovata critica dell’ideologia e dell’economia politica, mi pare tanto più necessario quanto più se ne afferma la mancanza di necessità, secondo una retorica corrente che ne denega costantemente l’esigenza con l’affermazione apodittica di verità “scientifiche”. Quando Lacan, nel Seminario XVII, rimprovera rapidamente a Marx di non aver compreso il nesso tra plus-valore e ciò che lui chiama plus-de-jouir, non segna il limite del marxismo – per cui la psicanalisi ne porterebbe alla luce la verità, pronunciando quell’ultima parola che il marxismo non ha detto: godimento, appunto –, ma, al contrario, richiede che il discorso del marxismo venga ritessuto con i fili della psicanalisi là dove essa problematizza i presupposti dell’economia. Se Lacan mostra in che modo il capitalismo opera sul desiderio, cioè imponendo una legge economica non tanto di rinuncia pulsionale (che è la diagnosi freudiana) ma di moltiplicazione e di intensificazione dell’investimento, si tratta di pensare la natura ideologica di questo comando a godere – che contiene in sé, al contempo, l’interdi47


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 48

zione del godimento, ed è ciò che gli permette di essere così efficace, poiché esso genera ripetizione – e di immaginare delle strategie che in primo luogo sospendano la forza magica della merce e quindi trasformino il senso stesso del rapporto con l’oggetto. “La società dei consumi ha senso in quanto, all’elemento cosiddetto umano tra virgolette, viene dato come equivalente omogeneo un qualsiasi più-di-godere prodotto dalla nostra industria – un più-di-godere, in realtà, fasullo.”11 Il valore dell’oggetto dipende interamente dal valore immaginario che gli viene attribuito socialmente. Non siamo più neppure al margine dell’opposizione classica tra valore d’uso e valore di scambio, poiché il valore di scambio si determina dal valore immaginario che gli oggetti assumono nella cultura del neocapitalismo occidentale, configuratosi come costruzione di una economia dell’immaginario quale condizione per l’appropriazione, l’accumulo e l’investimento delle ricchezze. Se potevamo pensare di consumare simboli prima ancora che “cose”, abbiamo scoperto di consumare simulacri e che il nutrimento cui siamo sollecitati è coattivo, mortifero e fantasmatico. Così, dal lato del soggetto, il capitalismo si è garantito ideologicamente grazie alla funzione di un plus-de-jouir ridotto all’oggetto di consumo. L’effetto prodottosi è temibile, poiché nella scena attuale della civiltà dei consumi e della tecnica non rimane che un’ultima figura dell’identificazione, con la quale si compiono al contempo lo svuotamento del soggetto e la perdita di senso dell’esperienza, ed è l’identificazione con l’oggetto di consumo. È quest’ultimo, infatti, a costituire l’autentico universale di cui possiamo ancora fare esperienza e che ci dà l’illusione della sua mobilità.12 Ersatz dell’objet a, esso promette un pieno godimento che, evanescente, rivela la 11. J. Lacan, Il seminario. Libro XVII. Il rovescio della psicoanalisi. 1969-1970 (1991), Einaudi, Torino 2001, pp. 96-97. 12. Bauman, come è noto, definisce l’orizzonte del nostro presente mediante la nozione di liquidità quando, per contro, è proprio la rigidità mortifera della fissazione sull’oggetto di consumo (nella sua splendida varietà, certo) a fornire il tratto costante della nostra esperienza. In altri termini, anche i significanti che si rifanno alla metafora della liquidità, così come alla mobilità e alla ormai cacofonica flessibilità dovrebbero essere considerati e analizzati come sintomi.

48


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 49

sua natura mortifera nell’ingiunzione superegoica all’assunzione, nella fagocitazione, in una vorace e parossistica oralità senza più legge. A questo oggetto-riempitivo delle mancanze, oggetto per eccellenza fantomale, nel Seminario XVII Lacan attribuisce lo strano nome di “latusa” (latousie):13 il capitalismo produce serialmente oggetti-latusa occultando in questo modo l’impossibilità del godimento della cosa (das Ding), dunque rispondendo alla domanda del soggetto mediante la disponibilità di sempre nuova merce. Che poi la risposta del capitalismo, mediante la produzione di oggetti sempre più rispondenti ai desideri soggettivi indotti e manipolati di ciascuno, sia apparentemente singolare, questa è una dinamica che per il capitalismo ha senso proprio perché totalmente priva di senso, eccetto quello, dominante, della circolazione infinita e dell’autoriproduzione del capitale. Se nel fallimentare e sconvolgente presente in cui viviamo la cornice ideologica della società occidentale non regge più il peso delle sue stesse rappresentazioni, allora ci si deve chiedere se abbia ancora significato pensare al compito della critica in termini di tattica, di opposizione locale nella forma di micro-resistenze ecc. – altrettanti modi escogitati nel recente passato per reggere l’urto del neocapitalismo negli anni del suo apice – o se, invece, non si tratti di immaginare nuovi scenari teorici e di mettere in gioco pratiche differenti che, strategicamente, siano alla misura del nostro tempo. Qui la psicanalisi non avrebbe certo esaurito il suo discorso.

13. Cfr. J. Lacan, Il seminario. Libro XVII. Il rovescio della psicoanalisi, cit., pp. 202-203.

49


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 50

Sopravvivere alla religione GRAZIELLA BERTO

analisi è una funzione ancora più impossibile delle altre. Non so se ne siete al corrente, ma essa si occupa in modo particolare di ciò che non funziona. E quindi si occupa di quella cosa che dobbiamo chiamare con il suo nome – devo dire che finora sono l’unico ad averla chiamata così – il reale. È la differenza tra ciò che funziona e ciò che non funziona. Ciò che funziona è il mondo. Il reale, invece, è ciò che non funziona. Il mondo va, gira bene, è la sua funzione di mondo.”1 Così Lacan caratterizza la funzione dell’analisi nella conferenza stampa tenuta a Roma nel 1974 e poi pubblicata con il titolo Il trionfo della religione. L’interesse per ciò che non funziona, attraverso cui viene specificato il ruolo dell’analisi, mi sembra essere un tratto particolarmente significativo dell’attualità dei testi di Lacan, un segnavia per una possibile lettura del suo lavoro, oggi. Non è difficile infatti accorgersi che l’emergere di qualcosa che non funziona, che non va, riguarda particolarmente da vicino il nostro presente, in cui la sconnessione, la non presenza a sé che attraversa, in fondo, ogni presente, si impone con forza all’esperienza. Non è però altrettanto scontata la capacità di pensare questo inceppo, questa difficoltà, senza guardarli dal punto

“L’

1. J. Lacan, Il trionfo della religione, in Dei Nomi-del-Padre seguito da Il trionfo della religione (2005), testi riuniti da J.-A. Miller, a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2006, pp. 96-97.

50

aut aut, 343, 2009, 50-55


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 51

di vista di una loro risoluzione. Come se l’unica preoccupazione fosse quella di eliminare al più presto ciò che, accidentalmente, viene a disturbare il funzionamento delle cose; e, qualora tale operazione non risultasse così semplice, fosse comunque inevitabile provvedere a un mascheramento o al rinnegamento di ciò che resiste alla risoluzione, di ciò a cui non è possibile attribuire un senso. Questo modo di rapportarsi alla realtà è proprio ciò che Lacan chiama, nel testo appena citato, “religione”. Il compito della religione è infatti quello di “acquietare i cuori [...], di dare un senso a qualunque cosa. Per esempio alla vita umana”.2 La convinzione che i conti debbano comunque tornare, che sia possibile separare il male dal bene, il falso dal vero, e individuare quindi una via, una ricetta o una prescrizione che, difendendoci dalla confusione e dal vuoto di ciò che sfugge al senso, ci riconduce alla trasparenza e alla pienezza della verità, appartiene propriamente alla religione. La forza della religione sta nella sua funzione terapeutica: “La religione è fatta per questo, per guarire gli uomini, vale a dire perché non si accorgano di ciò che non va”.3 In questo suo carattere terapeutico, la religione si avvicina alla medicina, la “salvezza” mostra la sua prossimità con la “salute”. Nel suo suggerirci che c’è una cura per tutto, che l’osservazione di alcune regole di carattere sanitario può garantirci (o quasi) il benessere, se non la felicità, nella sua pretesa di dirci ciò che va bene e ciò che va male, o addirittura di intervenire sui nostri corpi per liberarli dai loro difetti, la medicina ci appare sempre di più, di fatto, come un’erede moderna della religione. “Moriremo guariti”: questa formula, come ci suggerisce Andrea Zanzotto, da lettore di Lacan, potrebbe essere “l’insegna del nostro tempo”.4 Tutto si aggiusta, in fondo, anche la morte. La psicanalisi, invece, non è una terapia ma un “sintomo”: “Essa fa chiaramente parte di quel disagio della civiltà di cui ha 2. Ivi, p. 98. 3. Ivi, p. 102. 4. A. Zanzotto, In questo progresso scorsoio. Conversazione con Marzio Breda, Garzanti, Milano 2009, p. 106.

51


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 52

parlato Freud”.5 E lo stesso Freud, infatti, intendeva difenderla, insieme, dai medici e dai preti, cioè da coloro che sono responsabili dell’illusione della salvezza, o della guarigione.6 La preoccupazione fondamentale non è quella di guarire, ma di rinunciare a rimuovere i sintomi, di imparare a rapportarsi a un “disagio” che non è il perturbamento momentaneo e accidentale di uno stato di benessere ma la condizione in cui ci troviamo: “In quanto esseri viventi, siamo morsi, rosi dal sintomo. Siamo malati, tutto qui. L’essere parlante è un animale malato”.7 La psicanalisi, nel suo essere un sintomo del disagio, una malattia essa stessa, è però un sintomo particolare, che, più che tentare di curarsi, ha “cura di sé”, perché consiste in un tentativo di accogliere o di ascoltare il disagio, anziché cercare subito di respingerlo o di dissolverlo, come se fosse qualcosa di eliminabile. Bisogna fare i conti con qualcosa che non va, che “zoppica”, con qualcosa di cui non verremo mai a capo, che continuerà a inquietarci: è il rapporto con l’altro, sono le relazioni tra gli uomini, tra l’uomo e la donna, è il complicato convivere con noi stessi. Lì, i conti non torneranno mai, continueremo a star male, a perdere la bussola, a scontrarci con qualcosa a cui non possiamo dare senso. Nel “reale”, non c’è soluzione, non c’è conciliazione possibile. È questo il “lampo di verità” che balena nell’analisi.8 È chiaro che, nella sua ostinazione a trattenerci, per quanto possibile, presso ciò che non va, la psicanalisi non potrà mai trionfare sulla religione: il bisogno di una soluzione, di un senso, della salute o della salvezza trionfano sempre, magari per portarci esattamente nella direzione opposta, senza però che ce ne accorgiamo. Lacan non sembra avere molti dubbi: “La religione è inaffondabile. La psicoanalisi non trionferà, sopravviverà oppure no”.9 Non si tratta dunque di uno scontro alla pari, di una 5. J. Lacan, Il trionfo della religione, cit., p. 99. 6. Cfr. la lettera di Freud a Pfister citata in R. Major e Ch. Talagrand, Sigmund Freud (2006), Einaudi, Torino 2008, p. 194, assieme all’interpretazione che gli autori propongono del pensiero freudiano. 7. J. Lacan, Il trionfo della religione, cit., p. 105. 8. Cfr. ivi, p. 100. 9. Ivi, p. 98.

52


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 53

vera e propria alternativa: la religione è comunque più forte, e diventerà sempre più forte, paradossalmente, proprio grazie alla scienza, che “introdurrà un sacco di cose sconvolgenti nella vita di ognuno”,10 estendendo così, suo malgrado, il reale e, di pari passo, il bisogno di senso e di consolazione. Lacan confessa il suo pessimismo, la sua convinzione “che si guarirà l’umanità dalla psicoanalisi. A forza di annegarlo nel senso, nel senso religioso beninteso, si arriverà a rimuovere questo sintomo”.11 Queste parole sembrano descrivere quello che sta davvero accadendo oggi: il trionfo di un pensiero religioso, che riguarda la “vera religione”,12 quella romana, nella sua pretesa di essere detentrice del senso e del valore della vita, ma che intacca anche tutti quei discorsi “religiosi” che la imitano, preoccupati di mascherare ogni faglia di non-senso o di problematicità. Ogni traccia di sospensione, di ambivalenza, di esitazione, deve essere sopraffatta dal ritmo incalzante di una parola univoca, assertoria. Il trionfo della religione è, si potrebbe dire, oggi, il trionfo della semplificazione e, quindi, del fanatismo. La pretesa di padroneggiamento del senso si trova alleata alla logica dell’utilitarismo, e quindi dell’efficienza e del controllo, della trasparenza, che trionfano in ogni ambito: dalla medicina all’economia, dalla scienza alla politica, dall’alimentazione alla formazione...13 Lacan, tuttavia, non esclude la possibilità di sopravvivere alla religione. E tale sopravvivenza ha a che fare, a mio parere, con un discorso – di cui Lacan è continuamente impegnato a fornirci degli esempi – che segua una logica diversa da quella “religiosa”, una logica che sia capace, nelle sue contraddizioni, nelle sue irresoluzioni, di lasciar irrompere il reale, con la sua insensatezza, anziché tentare di annegare tutto nella stupidità del senso. Non si tratta di catturare la verità, per addomesticarla, renderla disponibile e accettabile, ma di lasciar balenare, nell’illusione del senso, qualche “lampo di verità”, come l’affiorare di ciò che 10. Ibidem. 11. Ivi, p. 100. 12. Cfr. ivi, p. 99. 13. Cfr., su questi temi, M. Benasayag, A. Del Rey, Elogio del conflitto (2007), trad. di F. Leoni, Feltrinelli, Milano 2008.

53


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 54

sfugge, ci sorprende, e viene così a interrompere la coerenza e la compiutezza di ogni discorso. L’incontro con il reale – con un reale che forse si avvicina più di quanto ci aspettiamo a ciò che comunemente chiamiamo “realtà” – impedisce al discorso di chiudersi su se stesso, di assestarsi in una tesi. Quello che Lacan ci insegna, il percorso a cui cerca di introdurci è, in fondo, un “metodo” di pensiero che, anziché volerci condurre a ogni costo alla certezza, si preoccupa di lasciar emergere i luoghi in cui manca una soluzione, in cui il discorso tende a scivolare nel non-senso, si ingarbuglia, talora si perde, si lascia catturare da una complessità che non può essere districata. Questo insegnamento ha a che fare non tanto con ciò che Lacan dice – e che, come è accaduto, può a sua volta essere assorbito nell’ordine del senso, della dottrina o del protocollo, può essere irrigidito e assimilato alla “religione” – ma piuttosto con il modo in cui lo dice, o meglio con la sua scrittura: “I miei Scritti, non li ho scritti perché vengano capiti, li ho scritti perché vengano letti. Che non è per niente la stessa cosa”.14 Leggerli, certo, significa cercare di capirli, senza però poter trovare in essi nessuna tesi o nessuna ricetta già pronte; questa esigenza ci porta piuttosto a essere “toccati” da qualcosa che continua a sfuggire, che ritorna a complicare le cose, a buttare all’aria o a far crollare ogni costruzione stabile e trasparente, fino a intaccare la solidità del soggetto stesso che comprende. La lettura di Lacan implica, con le parole di Foucault, “un lavoro da fare su se stessi”, un esercizio su di sé: Lacan “voleva che la lettura dei suoi testi non fosse semplicemente una ‘presa di coscienza’ delle sue idee. Voleva che il lettore si scoprisse a sua volta come soggetto di desiderio, attraverso questa lettura”.15 Quel che è messo in gioco è il presupposto stesso del pensiero come padronanza, come capacità di dare ordine e senso alla realtà. C’è sempre un resto, una perdita, che ci avverte che qualcosa non quadra, non funziona. 14. J. Lacan, Il trionfo della religione, cit., p. 101. 15. M. Foucault, Lacan, il “liberatore” della psicoanalisi (1981), in Follia e psichiatria. Detti e scritti (1957-1984), a cura di M. Bertani e P.A. Rovatti, Raffaello Cortina, Milano 2005, p. 246.

54


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 55

L’“ermetismo” dei suoi scritti non è un trucco messo in atto da Lacan ma, come egli stesso ci suggerisce, tutto questo nasce dal prendere sul serio le parole, il nostro essere parlanti, che è proprio la specificità della psicanalisi. Mentre utilizziamo la parola per dire la verità, per prescrivere il giusto, nella parola si infiltra sempre qualcosa che la scardina, che le fa dire altro, che le impedisce di ancorarsi saldamente a un significato: qualcosa dell’ordine della mancanza. Se parlare significa comunque perdere qualcosa (del reale), Lacan ci insegna a prestare attenzione a questa perdita, a ciò che resiste alla tendenza di ogni discorso a chiudersi nella sua presunta coerenza, a difendersi dall’intrusione del reale, di una verità che non è mai riducibile a una definizione univoca, capace di distinguerla chiaramente dal suo altro. Leggere Lacan, oggi, ci aiuta a resistere, mi sembra, alla tentazione diffusa della semplificazione, e quindi della faziosità, che fa tutt’uno con i miti di risoluzione, di trasparenza o di guarigione, da cui siamo assillati, da ogni parte. Senza l’illusione che sia possibile sconfiggere questo atteggiamento trionfante, forte della sua funzione consolatoria e rassicurante, Lacan ci suggerisce la possibilità di una debole resistenza, l’ostinazione di un pensiero che si trattiene proprio su ciò che gli impedisce di funzionare, che non cede, si potrebbe dire, su ciò che continua a inquietare le sue conclusioni, la sua possibilità di raccogliere il particolare nell’universale. Si tratta di una logica che non mette a tacere la singolarità e la fragilità di ciò che, con Lacan – e con Foucault –, possiamo chiamare “desiderio”, come ciò che resiste al “servizio dei beni”,16 alla logica dell’utile, che è anche quella del dominio, e del potere: “Un disordine permanente all’interno di un corpo supposto sottomesso allo statuto dell’adattamento”.17

16. Sulla “contrapposizione tra centro desiderante e servizio dei beni”, inteso come “cedere sul proprio desiderio”, cfr. J. Lacan, Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi. 1959-1960 (1986), a cura di G.B. Contri, Einaudi, Torino 1994, in particolare l’ultimo capitolo, il XXIV, p. 391 sgg. 17. Id., Il seminario. Libro VIII. Il transfert. 1960-1961 (1991), a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2008, p. 108.

55


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 56

Dal verbale di un’immaginaria interrogazione ILARIA PAPANDREA

[...] – Se ho ben compreso: primo, Lei non rinnega il suo incontro con i testi di Lacan, definisce quest’incontro come il frutto di una felice contingenza e ne attribuisce il merito – mi perdoni, se rido – a un certo Professore che si è assunto il rischio di leggerlo e farlo leggere ai suoi allievi; secondo, Lei ritiene opportuno che Lacan lo si legga e lo si pratichi ancora oggi. Ora, La prego, al di là dell’aneddoto personale, vorrebbe dire quali sono le ragioni che adduce? – Oh, non tema, non intendo addurre proprio niente. – E invece, dica, avanti, dica! – Vuole forse che Le faccia l’elenco dei concetti lacaniani, corredato del loro possibile utilizzo in campo filosofico? – Voglio, per cominciare, che Lei prenda sul serio questo colloquio. Le ricordo che le domande le faccio io. E ora proceda. – Ecco, vede, l’indice ragionato dei contributi teorici preferirei evitarlo. Finirebbe per trasformarsi in un erbario pieno di foglioline essiccate, e sa, la filosofia è una pratica, un mulino di scrittura che non lascia immutato chi finisce per passarci in mezzo. Non nego, certo, che si tratti di una pratica diversa da quella psicanalitica... – Si fermi, aspetti un poco. La psicanalisi, ha detto? Intende quella pratica obsoleta che un tale Sigmund Freud aveva inventato più di un secolo fa? – Quella pratica da sempre inattuale, per l’appunto. – Se ne è fatta di strada dai tempi del medico viennese. Esi56

aut aut, 343, 2009, 56-63


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 57

stono oggi cure più efficaci e scientificamente valide che non richiedono tanto tempo e denaro. Occorrerebbe che Lei si tenesse più aggiornato! La psicanalisi, mio caro, è roba da musei. Non creda, però, che la nostra censura sia così assoluta. Può verificarlo da solo. I manuali, compresi quelli della sua amata filosofia, ne fanno menzione. Ci piace ricordare che qualcuno abbia detto che non siamo padroni a casa nostra, ora che possiamo dimostrare l’infondatezza di questa tesi un po’ naïf. In alcuni casi, certo, occorre un intervento correttivo, alcune persone vanno riportate alla realtà, soffrono di certi deficit da curare, ma basta una pillola, una breve psicoterapia, e la cosa si rimette a funzionare. – La... cosa? – Sì, certo. Se ne meraviglia? – No, al contrario, mi pare del tutto conforme al vostro presupposto. – Lei è troppo sfrontato. Dove vuole arrivare? – Da nessuna parte, non tema, non mi muovo da qui. – La sua impudenza non ha limite. Si rende conto delle conseguenze delle sue parole e dei suoi atti? – Beh, non le posso misurare fino in fondo, ma mi assumo pienamente anche quelle di cui non posso calcolare la portata. E sussurrando: Le confesso, è quello che mi ha insegnato la psicanalisi. – Le avrebbe insegnato che non sa quello che fa e quello che dice? Che non lo pondera prima? Che le sue azioni non seguono i suoi pensieri? Che se ne va in giro per il mondo pronto ad agire contro il suo e l’altrui interesse, senza una buona e valida ragione? – Aggiungerei solo che il fatto di non sapere non mi rende meno responsabile. – Responsabile di cosa? – Degli effetti, per l’appunto. Ce n’è un certo numero che sfugge sempre a ogni più che ragionevole calcolo. Potrei, per fare solo un esempio, e seguendo quel certo Lacan, chiamare in causa l’angoscia che prenderebbe lo scienziato se poco poco se 57


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 58

ne facesse capace, ma non credo sia su questo che intendeva interrogarmi. Le domande le fa Lei, giusto? Prego, dunque, continui pure anzi, guardi, continuo io. [...] Dal verbale dell’interrogazione/interrogatorio, riportiamo quanto segue: “Per cominciare, Lacan ha preso sul serio Freud. Banale per uno psicanalista, ma assolutamente inusuale. Per farlo, occorreva leggerlo, cosa che era e continua a essere poco praticata. La lettura in genere, si potrebbe dire, è cosa poco praticata. Forse perché non si ama troppo quell’arte della lettera che rifiuta di ridurre al senso i testi che attraversa. Il signor Lacan è partito da lì, per ricordare agli psicanalisti che occorreva fossero almeno un poco avvezzi al solo strumento con cui hanno a che fare ogni giorno: la parola. Consigliava ai giovani analisti, con quel suo stile che alcuni hanno definito un po’ cialtrone, di esercitarsi facendo parole crociate. Forse questo li avrebbe abituati a pensare che esiste una combinatoria delle lettere completamente disgiunta dal senso, un cifrarsi e decifrarsi dell’inconscio, non privo di effetti sul soggetto. Si divertiva a creare ibridi che farebbero invidia ai migliori scienziati: linguistica e psicanalisi, cibernetica e psicanalisi, topologia e psicanalisi, e l’elenco potrebbe continuare, senza tralasciare, ovviamente, la filosofia, l’arte e la letteratura. Ogni innesto rappresentava un nuovo tentativo di dare conto della pratica analitica, di dimostrare gli effetti della parola sul corpo. Va detto, per un certo tempo il corpo è sembrato un poco assente dalla scena, quasi che la fascinazione per la potenza del linguaggio, nel quale abitiamo come umani, avesse assorbito interamente la sua attenzione. Ma occorreva prendersi tutto il tempo per ritornare al punto da cui Freud era partito, ricordando, a chi fa stendere gente su un lettino, che le formazioni dell’inconscio sono cifre di linguaggio. Ascoltare leggendo, ascoltare senza credere di aver compreso, esponendosi al malinteso che ogni parola comporta, non riducendo l’interpretazione a quello cui era stata ridotta: ‘Mi dice questo, ma io so che in realtà è di altro che mi sta parlando. Mi prenda come suo modello. Non c’è io migliore di quello del te58


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 59

rapeuta da imitare. Rafforziamoci, raddrizziamoci, ortopedizziamoci. Cantiamo insieme l’inno della lode alla grande macchina che per funzionare deve liberarsi dagli equivoci e dagli imbrogli della parola e del corpo’. E mentre la grande famiglia dell’IPA – Freud, si sa, aveva fatto del Padre un mito tale che si era finiti col trasformare lui stesso nel grande padre della sua Associazione –, mentre l’IPA redigeva le sue liste dei buoni terapeuti, dettava le linee guida della pratica, decretava quale fosse la tecnica standard, il signor Lacan sovvertiva le regole, per attenersi all’unica regola fondamentale: l’associazione libera. La prendeva così sul serio, questa regola, da forzare lo standard della durata della seduta. L’interpunzione del discorso, la scansione che il taglio della seduta può apportarvi, farebbe emergere quella che allora chiamava, con un linguaggio certo un po’ ieratico, la ‘parola vera’. L’analizzante – l’analizzante e non l’analizzato perché, da buon lettore di Marx, Lacan, riconosce l’importanza del lavoro e la mette, a giusto titolo, in conto al soggetto steso sul lettino – dice di più di quel che crede di comunicare. Erano anni in cui quest’eccedenza aveva, per Lacan, i tratti della rivelazione, lo schiudersi di una dimensione che brilla per tornare subito a velarsi, il luccichio di una parola, forse impossibile a dirsi, che potrebbe rivelare il vero essere del soggetto. E mentre si prestava, leggendolo, ad ascoltare il dire dell’analizzante, mentre maneggiava con le arti della parola affinché ne emergesse una verità che non aspetterebbe altro che di essere liberata, la comunicazione fra io si inabissava sempre più. Sulla scena analitica, che dopo Freud ci si era sforzati di trasformare in una sorta di versione terapeutica del metodo Stanislavskij, col paziente invitato a rivivere sulla persona dell’analista le sue avventure infantili per farsene finalmente padrone, la parola è scoperta dire niente. Niente senso, nessuna comunicazione, nessun tentativo di approssimarsi alla verità di una fattuale scena traumatica, solo puro dirsi, puro ripetersi, pura combinatoria secondo giochi di linguaggio assai prossimi a quelli che lo psicotico aveva insegnato a Lacan. La comunicazione si inabissa, la realtà si sfalda, la lettura apre su una dimen59


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 60

sione in cui ciascuno prende e spaccia per realtà il proprio mondo allucinato, unica soluzione possibile per il parlante, sembra dirci Lacan, che ripesca il Freud dimenticato del Progetto di una psicologia per indicare che non ci sono soluzioni pronte all’uso con le quali i parlanti possano sbrogliarsela con un soddisfacimento sempre mancato”. Segue, ma verrà omesso, l’elogio di un certo seminario del dottor Lacan dedicato all’Etica della psicoanalisi. A detta dell’interrogato, dietro la tragedia del testo, occorrerebbe soffermarsi su qualcosa che appare di sfuggita riguardo alla dimensione del comico. Nella lezione finale, comparirebbe un simpatico personaggino, l’eroe della commedia, che nonostante tutti gli inciampi e i pasticci della vita, resta, alla fin fine, vivo e vegeto. L’interrogato continua sostenendo che il significante [termine abusato dai lacaniani; nota del redattore del verbale] non sembra avere la meglio sulla vita pasticciata dell’ometto, qualcosa sfugge, si sottrae alla sua istanza, ne scompiglia i giochi. Riprende la trascrizione del verbale: “Nell’universo morto, automatico, ripetitivo della combinatoria significante, in ciò che Lacan si è sforzato di teorizzare prendendo a prestito dalla linguistica e dalla cibernetica, mostrando gli effetti sul soggetto di quella che chiama dimensione simbolica, dimostrando che l’inconscio non è altro che una sorta di macchina da scrivere automatica, ecco che appare un po’ di vita. Fa capolino per un momento, con i panni dell’eroe della commedia, così come anni prima l’io si era vestito dei panni di un arlecchino male assemblato. Il Seminario, certo, conserva un tono da tragedia, ma la vita comincia a palpitare. Vivo e vegeto, l’ometto della commedia sembra non farsi prendere nelle reti del significante, almeno non del tutto, sembra soddisfatto, lui, di una soddisfazione che non è dell’io, e che somiglia a quella felicità dell’inconscio di cui Lacan parlerà anni dopo. La scena comincia ora a complicarsi, l’intrico è avvincente, i personaggi ormai ci sono proprio tutti, e il corpo, che ancora sembra assente, non mancherà di fare la sua comparsa da lì a poco. Sono rari, non trova?, gli autori che non smettono di stupire e di sorprendersi essi stessi per le scoperte 60


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 61

che fanno. C’è chi ama di più la coerenza del sistema al punto da non accogliere il nuovo e il trambusto che comporta. Un po’ come la cosa che, Lei diceva, deve funzionare come un tutto ben oliato e senza intoppi. Sarà che la psicanalisi lavora proprio a partire da ciò che non funziona, ma, vede, Lacan, non ha mai smesso di segare, come dice un suo allievo, i rami su cui se ne stava appollaiato. Dicevo che sulla scena ora ci sono tutti i personaggi: la grande macchina da scrivere – se vuole, possiamo chiamarla simbolico –, l’ometto vivo e vegeto – vorrei provare a chiamarlo godimento, se non Le spiace, per sottolineare che se ne frega abbastanza di tutte le faccende del piacere e della sua omeostasi. Ah, sì, c’è anche il corpo. Forse, nella foga, avevo omesso di dire, che non era proprio del tutto assente dalla scena. C’era anche lui, all’inizio, ed era preso come una sorta di armamentario sgangherato che una certa immagine totalizzante era chiamata ad assemblare. Provi a prendere un cucciolo di uomo e a farlo stare in piedi appena nato, vedrà che la cosa non Le riesce troppo bene, si affloscia, rischia di rompersi, e non come un corpo unico che se si spacca perde la sua unità, no, no, quell’unità è tutta da costruire, a questo, dice Lacan, serve l’immaginario. Ma mi perdoni, sto divagando. Dicevo dei personaggi sulla scena, per riassumere li chiameremo, come fa Lacan, simbolico, immaginario e reale – non la realtà, ben inteso, il reale, qualcosa che sta più sul versante di ciò che non si incontra mai se non nella forma dell’incontro mancato. Ecco, con questi tre registri, così li chiama, Lacan a questo punto che cosa fa? Li annoda. Non rida, la cosa è seria. Provi a sbrogliarsela con i sintomi che qualcuno Le porta senza aver fatto pratica con i nodi. Nella migliore delle ipotesi non ottiene niente, nella peggiore toglie a qualcuno l’unica soluzione che si è inventato per non farsi parassitare troppo dal linguaggio e per ritagliarsi alcune fettine di un godimento che non ci metterebbe niente a farLa finire dritto sulla graticola. Certo, occorre essersi prestati ad ascoltare per molti anni, e con sufficiente amore, innumerevoli soggetti, per non giudicare le loro soluzioni singolari. Lacan si è spinto fino a dire che 61


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 62

quella che riteniamo ‘normale’, quella che con Freud abbiamo chiamato l’Edipo, è solo una fra le tante possibili. Non lo trova sorprendente? Non trova sorprendente che qualcuno abbia smesso a un certo punto di ascoltare il discorso di un soggetto che parla di sé come di una centrale elettrica, senza pensare di riportarlo alla realtà, magari fulminandolo con un elettroshock? Lo riconosco, non è l’unico che si è rivolto alla psicosi mostrando un volto umano. La questione, però – e su questo, mi corregga, non sono in molti a sostenerlo –, è che per Lacan anche l’Edipo e tutto il suo armamentario somigliano molto a una centrale elettrica, un po’ più comune, certo, ma pur sempre una centrale elettrica grazie alla quale illuminiamo il nostro pezzo di mondo. Non diversamente dal folle? Diversamente da lui solo perché la nostra soluzione è maggiormente condivisa e ci fa illudere che tante piccole città che brillano insieme siano la realtà di cui parliamo. Ci uccidiamo anche, in nome di questa realtà, salvo rinchiudere chi, in nome della sua, passa all’atto. La prendiamo per la realtà, cui ricondurre tutto il resto del mondo. Crediamo che con le nostre parole possiamo descriverla il più accuratamente possibile, quasi esistesse fuori di noi. Per qualcuno il black-out, per noi la luce. Ce ne stiamo, così, immersi nel nostro mondo senza tenebre, finché non arriva qualcuno che si ritiene tanto illuminato da presentarsi a noi pronto a guidarci verso una terra promessa. Il più delle volte lo seguiamo, proprio perché, a differenza dei folli che abbiamo rinchiuso, a noi piace che ci sia la Centrale delle centrali, ci rinunciamo a fatica, cerchiamo spesso qualcuno sulle cui orme mettere le nostre, perché ci indichi la strada. Sapeva che Lacan ha dedicato un anno del suo Seminario a una cosa chiamata ‘atto’? Glielo dico en passant, perché sarebbe un po’ contraddittorio che qualcuno le dicesse cosa fare perché ci sia atto. Forse, se la cosa non La confonde troppo, aggiungo solo che somiglia di più al passaggio all’atto che a quel calcolo ben ponderato che farebbe seguire un’azione a un pensiero. Ecco, anche questo Lacan si è lasciato insegnare da quell’inventore di soluzioni singolari che è lo psicotico. A uno in particolare, un certo James Joyce, ha consacrato addirittura anni di 62


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 63

studio. Quasi un secondo maestro, per lui, dopo Freud. James Joyce – lo conoscerà, ha dato da vivere a molti universitari – ha trovato una soluzione tale, con la sua scrittura, da non dover ricorrere all’analisi. E Lacan non gliene vuole per questo, tutt’altro. Forse oggi, nel tempo del mercato imperante, ci darebbe un po’ fastidio se qualcuno riuscisse a fare a meno delle cure del grande Altro benevolo, quello, per intenderci, che promuove il nostro bene subissandoci dei più svariati psicoesperti prima ancora che si sia rivolta loro una domanda. Sembra quasi non sia apprezzato che qualcuno se la cavi in modo così..., come dire?, artigianale. Ecco – e vorrei che nel verbale la cosa fosse evidenziata – Lacan teorizza l’artigianato. Entri in analisi facendo parole crociate e ne esci che, pur continuando a non capirci un tubo, te la sai però cavare come lattoniere, li riaggiusti a tuo modo i tuoi tubi, e ti va bene così. Ma parlavamo di Joyce. Cosa farebbe Joyce, a dire di Lacan? Nient’altro che condurci dove ci conduce un’analisi: all’illeggibile. Non sempre riesce di spingere il dialogo fra analizzante e analista ai confini siderali della parola, ma può accadere. Se ne esce alquanto frastornati, è vero, ma felici, felici di dire niente... comunicazione kaputt, capolinea del senso. A quel punto suoni per prenotare la fermata – perché, se non glielo avevano detto, l’analisi finisce, non è affatto interminabile –, salti giù e puoi assumerti il rischio di amare qualcuno di cui accetti di non capire quel che dice”. L’interrogato si alza, ringrazia chi lo ha ascoltato e, prima ancora che l’esito dell’interrogazione/interrogatorio gli venga comunicato, si congeda sorridendo.

63


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 64

Lacan, il soggetto, l’oggetto ANTONELLO SCIACCHITANO Je le dis sans aucune hésitation, il y a deux noms dans l’histoire de la psychanalyse: Freud et Lacan. Intervista a François Wahl, nel centenario della nascita di Jacques Lacan, 13 aprile 2001 Dove non c’è oggetto non c’è neppure soggetto. Franz Brentano, La psicologia dal punto di vista empirico, 1874

Il principio. In apertura un problema di metodo. Con quale chiave tentare di aprire lo scrigno dei seminari di Lacan? Quale Lacan estrarre dalle urne degli scritti primi e secondi? All’analista credo convenga rispondere: con il metodo psicanalitico. Cioè? Per esempio, partendo da dove ha fallito, come si fa in ogni analisi effettiva di un sintomo nevrotico. Con buona probabilità pulsa lì – nel suo fallimento – il cuore del problema-Lacan. Un problema di principio si impone, allora, che non si risolve con il ricorso ingenuo all’esperienza. Bisogna stabilire in linea di principio quale sia stato il suo effettivo fallimento. Solo dopo si potrà analizzare l’esperienza dell’insegnamento di Lacan. Infatti, siamo razionalisti.1 Per noi l’esperienza non è in principio – non l’esperienza del testo, non l’esperienza della clinica. In principio era il Verbo, cioè il principio. Il principio, che seguo da anni, in controtendenza con la maggior parte delle scuole di psicanalisi, è che la psicanalisi sia una scienza.2 Si tratta di un principio chiaramente freudiano. Tutta1. Il nostro razionalismo non si contrappone all’empirismo. È una pratica della terzietà – nel senso giuridico di estraneità alle parti in causa – in quanto tratta un oggetto che non è né puramente razionale, non essendo categorico, né puramente empirico, non essendo immediatamente sperimentabile. Intendo l’infinito. 2. Questa dichiarazione di principio non rientra in un’opzione filosofica razionalista in senso stretto (kantiano). È del tutto interna al discorso scientifico, dove si distinguono teorie di principio e teorie interpretative. Esempi delle prime sono le teorie fisiche relativiste di tipo einsteiniano e le teorie biologiche evoluzioniste di tipo darwiniano. Queste teorie incorniciano le teorie interpretative, le quali forniscono i modelli dei singoli fenomeni osservabili.

64

aut aut, 343, 2009, 64-77


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 65

via, Freud, per ragioni di formazione professionale – era medico, non filosofo –, non fu generoso di indicazioni in merito. Quale scienza sarebbe la psicanalisi? Qui bisogna congetturare, come spesso si fa in seduta di fronte al materiale offerto dal paziente – qui Freud – per ricostruire la scena scientifica che aveva in mente il creatore della psicanalisi. Procedendo per esclusione, comincio dicendo che la psicanalisi non è fisica, benché della fisica conviene che conservi e il meccanicismo e l’indeterminismo. Il primo perché introduce nel campo sperimentale simmetrie strutturali e modi per trattarle: il modo algebrico della teoria dei gruppi, per esempio, o il modo analitico degli invarianti. Il secondo perché consente di gettare uno sguardo su mondi contingenti, dove il soggetto della scienza si muove secondo logiche non apodittiche: né necessarie né impossibili. Continuando a escludere, dico che la psicanalisi non è biologia, nonostante gli estesi riferimenti di Freud alla biologia di Weismann.3 Non è biologia, benché della biologia conviene che conservi i tratti principali, in particolare quelli darwiniani: la variabilità e la funzione del tempo. La variabilità per consentire lo studio delle singolarità soggettive, che sono più profonde di quelle individuali, nel senso estensionale, oltre che intensionale. Allora, non esiste l’individuo più vicino all’altro individuo, perché tra un individuo e l’altro esistono infiniti individui intermedi.4 La funzione del tempo meno per seguire le evoluzioni ontologiche – delle essenze, per esempio – ma piuttosto per accompagnare le evoluzioni – nel senso proprio di acrobazie o di figure di danza – del sapere inconscio. La psicanalisi non è neppure scienza sociale, benché un assioma del metodo analitico – questo sì, ben esplicitato da Freud – sia l’equivalenza tra soggetto privato e pubblico. Entrambi so3. Freud non fu darwiniano. Proiettava su Darwin certe proprie mitologie, per esempio il mito dell’orda. I riferimenti biologici di Freud sono a Weismann, il darwiniano di ferro tra i biologi tedeschi, convinto assertore dell’evoluzione per selezione. 4. È la famosa gradualità darwiniana, oggi contestata dai tanti sostenitori del Progetto intelligente, benché di nobili ascendenze leibniziane. Natura non facit saltus, si diceva. È giusto ed è sbagliato. La natura fa salti, ma a livello popolazionale, non individuale. Ciò rende difficile pensare la nozione di specie.

65


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 66

no sospinti dalla stessa energia psichica – la libido. Entrambi vivono la stessa vita psichica quando sognano la notte o quando governano lo stato di giorno. Per farla breve la psicanalisi potrebbe essere una scienza epistemica. Sarebbe la scienza di come il soggetto sa e ignora, di come vuole sapere e vuole ignorare, di come inganna sé e l’altro, elaborando l’inganno altrui, di come si destreggia con il linguaggio e l’oggetto per venire a capo del sapere soggettivo sul desiderio e sul godimento. Combinando le indicazioni precedenti, la psicanalisi apparterrebbe, allora, alla classe delle scienze del sapere. Sarebbe, cioè, una scienza del sapere meccanicistica e indeterministica, orientata allo studio della variabilità delle singolarità dei saperi e alla raccolta delle storie soggettive, individuali e collettive, in cui ciascuna singolarità si realizza; una scienza, infine, degli auto ed eteroinganni. Per tale scienza Lacan inventò e a più riprese propose anche il nome giusto, perché indica il metodo, che le scienze affini alla psicanalisi, già narcisisticamente chiamate umane, adottano: scienza congetturale.5 Se vale questo principio, possiamo affrontare il problemaLacan come uno specifico fallimento. Lacan fallì nel formulare una scienza psicanalitica, come sopra delineata, cioè come scienza congetturale.6 E lo dico senza polemica, perché si tratterebbe di un fallimento positivo e fecondo, nel senso che ha preparato il terreno dove sarà possibile realizzare il suo superamento.7 Infatti, se possiamo formulare l’ipotesi dello specifico fallimento 5. Cfr. J. Lacan, Fonction et champ de la parole et du langage en psychanalyse (1953), in Ecrits, Seuil, Paris 1966, p. 284; Id., La chose freudienne ou Sens du retour à Freud en psychanalyse (1955), in Ecrits, cit., p. 435; Id., Situation de la psychanalyse et formation du psychanalyste en 1956 (1956), in Ecrits, cit., p. 472; e Id., La science et la vérité (1965), in Ecrits, cit., p. 863. 6. Ritengo come principale fattore responsabile del fallimento di Lacan la posizione magistrale da lui tenuta all’interno dell’Ecole freudienne de Paris. Se sei un maestro devi dare certezze dottrinarie incontrovertibili. Non puoi operare con congetture scientifiche da lasciare alla verifica o alla confutazione del Denkkollectiv. 7. Del fallire bene, riferendosi al proprio discorso del 9 ottobre 1967, che istituiva il rito di passaggio della passe da analizzante ad analista, il Nostro diceva: “Ma proposition gîte à ce pointe de l’acte, par quoi s’avère qu’il ne réussit jamais si bien qu’à rater, ce qui n’implique pas que le ratage soit son équivalent” (J. Lacan, Discours à l’Ecole freudienne de Paris, 6 dicembre 1967, in Autre écrits, Seuil, Paris 2001, p. 265).

66


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 67

lacaniano è solo perché siamo andati a scuola da Lacan, dove abbiamo appreso che il soggetto in analisi inaugura la propria ricostruzione storica partendo da un autoinganno: la supposizione che il sapere sia nell’altro che lo ascolta. Il soggetto supposto sapere riconfigura in modo scientifico il transfert freudiano. Così, Lacan è arrivato molto vicino a formulare il paradigma della scienza psicanalitica, ma ha lasciato agli allievi l’onere e l’onore di farlo. Ma come sono andate effettivamente le cose, viste da questo punto di vista? Lacan e la questione del soggetto. Molto schematicamente esistono due Lacan: il Lacan degli Ecrits, scelti da François Wahl e comparsi nel 1966, e il Lacan degli Autres écrits, raccolti dal genero Jacques-Alain Miller dopo la sua morte e comparsi trentacinque anni dopo, nel 2001. Trentacinque anni sono un periodo non lungo, ma neppure breve. In trentacinque anni si possono celebrare nozze d’argento, in attesa di quelle d’oro. Nel frattempo un’interpretazione del fenomeno Lacan, scevra da fanatismi pro e contro l’autore, potrebbe aver avuto modo di maturare. Per esempio, la seguente. Allora, altrettanto schematicamente sostengo che il primo Lacan fu un filosofo, precisamente un fenomenologo, mentre il secondo fu... un fallimento. Naturalmente le mie simpatie vanno al secondo. Ma prima devo parlare del primo. Alla fine della prima fase del suo percorso intellettuale Lacan enuncia a che titolo ha operato fino ad allora. La sua è stata la ricerca di come importare praticamente in psicanalisi il soggetto cartesiano della scienza. Tutto il Seminario XI è dedicato a precisare i contorni di questa operazione. Senza passare per questo “preliminare” non si coglie il senso del secondo Lacan. Il fallimento scientifico di Lacan si comprende e si supera solo sullo sfondo del Lacan cartesiano. Ovviamente il merito di aver riconosciuto la paternità cartesiana del moderno soggetto della scienza non è di Lacan. È merito di quella variegata classe di filosofie che vanno sotto il nome 67


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 68

di fenomenologia, a cominciare da quella originaria di Husserl.8 Le diverse versioni fenomenologiche hanno tutte un tratto comune, che è appunto cartesiano: la precedenza del sapere sull’essere. Il quale, tuttavia, non va disgiunto da una sorta di tratto complementare anticartesiano di negazione-superamento di Cartesio, per quanto questo filosofo ha di caduco e di... insopportabile, proprio quel suo mettere in secondo piano l’essere, quindi il soggetto.9 Infatti, il cogito sum della meditazione cartesiana stabilisce anche per via cronologica la precedenza logica del sapere (cogito) sull’essere (sum). Prima pensi, poi sei. Il sapere, sotto forma di dubbio, genera l’essere del soggetto. Si tratta di un essere debole, non categorico, scavato dal sapere come enclave topologica al proprio interno. I modi sono diversi. C’è l’epoché husserliana, che è una messa tra parentesi del valore di verità ontologica, per consentire la sua ripresa epistemica – trascendentale in Idee I. C’è la schiarita heideggeriana, la Lichtung, dove l’essere viene al sapere nel momento in cui si dirada, cioè perde consistenza, quasi svanisce nel proprio esserci. E c’è l’operazione lacaniana. Qual è l’epoché-Lichtung di Lacan? A mio parere, diversamente dagli altri fenomenologi francesi – Sartre, Merleau-Ponty, Foucault – Lacan è l’unico e solo a essersi occupato, seppure implicitamente, del metodo fenomenologico. Credo grazie all’eredità freudiana, dove l’epoché-schiarita passa attraverso la regola analitica fondamentale: le associazioni libere dalla parte del paziente, l’attenzione egualmente sospesa (gleichschwebende) dalla parte dell’analista. Lacan dà una formulazione di principio della regola analitica, che supera il suo 8. Per la storia del passaggio dal soggetto aristotelico della conoscenza a quello galileiano della scienza il riferimento, dato da Lacan nell’ultima seduta del seminario sulla relazione d’oggetto, è a Alexandre Koyré (Galilei e la rivoluzione scientifica del XVII secolo del 1955, ristampato in A. Koyré, Etudes d’histoire de la pensée scientifique, Gallimard, Paris 1966). Cfr. J. Lacan, Le séminaire. Livre IV. La relation d’objet. 1956-1957, Seuil, Paris 1994, p. 429. 9. Freud parla di lesione (Kränkung) narcisistica che Copernico, Darwin e lui stesso avrebbero inferto all’umanità, detronizzando l’uomo dal centro delle considerazioni cosmologiche, biologiche e psicologiche. Dimentica Cartesio e la ferita più grave, quella filosofica, che strappò all’essere il primato metafisico, che godeva dai tempi antichi.

68


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 69

valore di dettato pratico-clinico. “L’inconscio è il discorso dell’Altro”, è la formula lacaniana secondo cui l’essere del soggetto è sospeso a un sapere non immediatamente a lui disponibile. Siccome l’Altro non esiste come totalità – cioè non è un insieme, che appartenga, per esempio, all’Altro dell’Altro – l’inconscio è un discorso originariamente sospeso, senza che sia necessaria nessuna epoché trascendentale.10 In questa situazione epistemica il soggetto è qualcosa “che pensa prima di fare ingresso nella propria certezza”.11 In altri termini il soggetto è eterotrasceso prima che possa autotrascendersi. Naturalmente non si parla, se non metaforicamente, di concettualizzazione del soggetto.12 Questo è il punto fermo. È un punto epistemico, che da buon fenomenologo Lacan si affretta a “superare”. Ma non bisogna lasciarsi sviare dai travestimenti logocentrici con cui Lacan maschera – larvatus prodeo – la propria posizione cartesiana: le giaculatorie post-discorso di Roma (1953), che vanno dall’“inconscio strutturato come un linguaggio” al “significante che rappresenta il soggetto per un altro significante”. Lacan è il primo che in ambito psicanalitico coraggiosamente13 riconosce che il soggetto dell’inconscio è il soggetto cartesiano della scienza.14 Questo è il suo incontestabile e duraturo merito. E ancora di più non bisogna lasciarsi sviare dalle sue dichiarazioni antiscientifiche, quasi di rito e scontate in ambito fenomenologico, dove si usa caparbiamente ridurre la scienza a fatto tecnoscientifico oggettivo, quantitativo e deterministico. Magari aggiungendo che la scienza fuorclude il soggetto dal proprio discorso.15 La dé10. Detto in termini più filosofici, la passività originaria non è istituita da nessuna attività trascendentalizzante preliminare, per quanto debole. 11. J. Lacan, Le séminaire. Livre XI. Les quatre concepts fondamentales de la psychanalyse. 1964, Seuil, Paris 1973, p. 37. 12. La metafora ontologica, madre di tutte le metafore soggettive, è la “schiarita” di Heidegger. 13. Coraggiosamente, perché è normale resistere alla scienza. La resistenza alla scienza innerva la normale resistenza all’analisi. 14. “Desidero, c’est le cogito freudien”, ivi, p. 141. 15. Per i fenomenologi il modello di tecnoscienza sarebbe la cibernetica. Non conoscono Darwin né Heisenberg. “Il risultato [del cogito] è che la scienza è un’ideologia della soppressione del soggetto”. Cfr. J. Lacan, Radiophonie (1970), in Autres écrits, cit., p. 437. C’è

69


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 70

marche de Freud est cartesienne,16 vivaddio! Resta da dimostrare che Freud è scientifico. E qui occhieggia il fallimento della démarche lacanienne. La quale resta cartesiana, nonostante le resistenze a riconoscerlo.17 Le prove non mancano e sono ragionevolmente convincenti. Si va dal sofisma del Tempo logico,18 dove l’incertezza individuale diventa fattore di certezza collettiva, alla riformulazione del cogito, ripescata in modo spericolato attraverso rischiosi passaggi attraverso le leggi di de Morgan, come “sono dove non penso, penso dove non sono”.19 La formula rende in modo icastico la divisione soggettiva tra sapere (pensare) ed essere (esserci). Lacan e la questione dell’oggetto. Nonostante le reboanti dichiarazioni programmatiche “verso le cose stesse”, catturato o respinto com’è dalla questione del soggetto – sia che lo prescriva (Husserl), sia che lo proscriva (Heidegger) –, il fenomenologo perde facilmente di vista la questione dell’oggetto.20 Ancora una volta grazie a Freud, Lacan non commette questo errore. Anzi, è pesantemente critico nei confronti della riduzione dell’oggettività a intersoggettività con la conseguente sopravvalutazione da dire, tuttavia, che la resistenza alla scienza non è un fenomeno specifico dei filosofi. Ogni uomo di scienza sviluppa una propria avversione per le scoperte scientifiche proprie e altrui. Da Newton a Einstein, da Cantor a Freud, da Darwin a... Ne parlo nel libro di prossima pubblicazione Resistere alla scienza, che tratta anche della pretesa fenomenologica di inventare una filosofia come scienza rigorosa, includente il proprio soggetto. 16. J. Lacan, Le séminaire. Livre XI. Les quatre concepts fondamentales de la psychanalyse, cit., p. 36. 17. Il punto è sviluppato da René Scheu nella Prefazione al mio libro, Scienza come isteria, Campanotto, Udine 2005, a sua volta ispirato da un motto di Lacan, contestuale a quelli che sto qui commentando: “Per quanto paradossale sia affermarlo, la scienza trae il proprio slancio dall’isteria”, J. Lacan, Radiophonie, cit., p. 436. 18. Id., Ecrits, cit., p. 197. 19. Cfr. Id., La logique du fantasme, inedito, lezione del 17 gennaio 1966, dove Lacan formula il cogito come l’alternativa: “o non penso o non sono”, per dedurne tramite la legge di de Morgan l’impossibilità della coincidenza di pensiero ed essere, che avrebbero intersezione vuota. 20. Qui mi riferisco in particolare a Husserl e soprattutto alla reinterpretazione fenomenologica della psicopatologia a opera di Minkowski e Binswanger. Heidegger ruota attorno alla funzione dell’oggetto voce, grazie all’ascolto del linguaggio. I fenomenologi francesi hanno sviluppato di più la questione dell’oggetto sguardo.

70


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 71

della dimensione affettiva o empatica dell’altro piccolo o mio simile. La questione dell’oggetto in quanto tale resta di vitale importanza per lo psicanalista. Direi addirittura che rispetto a essa la questione del soggetto diventa secondaria. Lacan lo sa bene e afferma: On pense avec son objet.21 Il punto delicato di questa analisi è il momento della propria evoluzione – diciamo intorno al 1966, anno di pubblicazione degli Ecrits –, in cui Lacan vira dalla filosofia alla scienza. Il viraggio corrisponde all’invenzione dell’oggetto a. È durante questo viraggio che la sua fantasia scientifica cede e resta impigliata nei pregiudizi fenomenologici. In una nota aggiunta nel 1966 a D’une question préliminaire à tout traitement possible de la psychose (1957-1958)22 Lacan afferma che l’oggetto a sarebbe già reperibile nel suo schema R nel “campo della realtà [...] che sbarra”. Siamo in territorio scientifico. L’accesso alla realtà è sbarrato. Il cognitivismo resta fuori dalla porta. Non male come esordio scientifico. Siamo alle soglie della distinzione tra conoscenza (prescientifica) e scienza. E nella stessa nota precisa (?) la funzione fantasmatica dell’oggetto: “In quanto rappresentante della rappresentazione nel fantasma, il soggetto originariamente rimosso S, sbarrato dal desiderio, sopporta il campo della realtà, che si sostiene attraverso l’estrazione dell’oggetto a, che ne offre la cornice”. Ma il suo esordio scientifico non va molto in là. Lacan parla da psichiatra. Propone la teoria della fuorclusione del Nome del Padre come causa della psicosi. Difficile che dalla psichiatria, che è una tecnica di contenimento della follia a servizio del potere, si possa spremere qualche goccia di scientificità. Difficile che dal discorso eziologico, che è il discorso del padrone, nel senso lacaniano del termine, si passi a un discorso scientifico. Al più, con le cause e i moventi, si fa della medicina legale. Esplicitamente l’oggetto a ricorre per la prima volta nel Remarque sur le rapport de Daniel Lagache: “Psychanalyse et struc21. J. Lacan, Le séminaire. Livre nalyse, cit., p. 60. 22. Id., Ecrits, cit., p. 553.

XI.

Les quatre concepts fondamentales de la psycha-

71


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 72

ture de la personnalité” (1958). All’interno dello schematismo del vaso di fiori rovesciato, che complica lo stadio dello specchio, l’oggetto a “fa rientrare nel rango di vanità i suoi riflessi negli oggetti a´ della concorrenza onnivalente”.23 In termini scientifici si direbbe che l’oggetto a è l’invariante – il punto fisso – delle sue innumerevoli rappresentazioni immaginarie. Ma Lacan non imbocca questa strada, che pure gli si era presentata. “Immaginare un gioco di immagini non basterebbe a descrivere la funzione che l’oggetto a riceve dal [registro] simbolico.”24 La presa fenomenologica, appena allentata, si rinserra. Lacan va alla ricerca di una psicanalisi rigorosa. Si muove come Husserl alla ricerca di una filosofia come scienza rigorosa. E dalla psicosi passa alla perversione, dove l’oggetto a si “chiarisce a partire dall’universale della propria relazione alla categoria della causalità”.25 Da allora (1963) l’oggetto a riceve il nome definitivo di oggetto-causa del desiderio. Con la convocazione del principio di causalità la virata lacaniana verso la scienza si arresta, o meglio si capovolge e regredisce alla fenomenologia da cui era partita. La nozione di causa è un principio della scienza precartesiana, che è conoscenza per cognizione di causa. Che è cognitiva, non scientifica. Il vero sapere precartesiano (aristotelico) è conoscere attraverso le cause. Il vero sapere del desiderio è conoscere l’oggetto che lo causa. Ma la maggior parte dei fenomeni che interessano alla scienza postcartesiana sono senza causa, “spontanei”: il moto inerziale, il decadimento radioattivo, la nascita e l’estinzione delle specie biologiche, i terremoti... Con l’oggetto-causa del desiderio Lacan preclude definitivamente l’accesso della psicanalisi alla scienza moderna, che pure stava aprendo. Gli sviluppi successivi lo confermano, direi a rovescio, no23. Ivi, p. 681. 24. Ivi, p. 682. 25. Id., Kant avec Sade (1963), in Ecrits, cit., p. 775. Questa è un’osservazione di contenuto. C’è anche un’osservazione di metodo, che testimonia la distanza dalla scientificità dell’operazione di Lacan. Che è dottrinaria, cioè procede per conferme dei dogmi stabiliti. Lacan non conosce la procedura di corroborazione e confutazione di congetture, come la si esercita nei collettivi di pensiero scientifico.

72


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 73

nostante i buoni successi teorici, che portano Lacan addirittura a individuare un oggetto del desiderio, che era sfuggito a Freud: la voce. Nel 1964, nel citato Seminario XI, l’oggetto a è già svanito come “oggetto eternamente mancante”26 o “originariamente perduto”.27 Direi di più. Allontanandosi da Cartesio, Lacan si allontana da Freud. Per Freud l’oggetto non è perduto, ma è da ritrovare.28 È lì davanti al soggetto – nel setting freudiano è alle sue spalle –, tuttavia il soggetto non lo riconosce. Tutto il processo analitico si svolge come lavoro riabilitativo, affinché il soggetto riapprenda a riconoscere l’oggetto rimosso. Si rilegga l’illuminante saggio sulla Verneinung del 1925. Per contro le acrobazie topologiche, toroidali e proiettive, di Lacan, dove l’oggetto a compare e scompare nelle autointersezioni di varietà bidimensionali, che tentano di presentare l’oggetto a come buco o come ciò che riempie la mancanza dell’Altro, sono solo elucubrazioni fenomenologiche prescientifiche, cioè senza oggetto.29 Peccato. Con il fallimento scientifico di Lacan viene meno anche il tanto decantato ritorno a Freud. Piaccia o non piaccia, il ritorno a Freud è il ritorno alla scienza di Freud, non a quello che la fenomenologia immagina della psicanalisi.30 Se Lacan fosse scientifico. Ma il fallimento di Lacan è prezioso. Leggere Lacan oggi può essere utile nella misura in cui l’esperi26. Id., Le séminaire. Livre XI. Les quatre concepts fondamentales de la psychanalyse, cit., p. 164. 27. Id., Ecrits, cit., p. 46. 28. “Lo scopo primo e immediato dell’esame di realtà non è di trovare nella percezione reale l’oggetto corrispondente a quello rappresentato, ma di ritrovarlo, convincendosi che è ancora presente”, S. Freud, Die Verneinung (1925), in Sigmund Freud Gesammelte Werke, Fischer, Frankfurt a.M. 1999, vol. 14, p. 14. “Trovare l’oggetto è propriamente un ritrovamento”, Id., Drei Abhandlungen zur Sexualtheorie (1905), in Sigmund Freud Gesammelte Werke, cit., vol. 5, p. 123. 29. Fino all’introduzione delle catene borromee Lacan fa un uso strumentale della topologia come riserva di metafore adatte alla trasmissione della propria dottrina nei seminari. Con l’introduzione delle catene borromee la topologia diventa un campo di ricerca. Mancando degli strumenti adatti, la ricerca si rivelerà povera di risultati interessanti. 30. A suo modo, sotto il travestimento medicale, anche quello di Freud fu un fallimento scientifico. Ma questo è un altro discorso, che ci porterebbe fuori tema.

73


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 74

mento lacaniano indica la strada giusta per non fallire la seconda volta.31 Bisogna ripensare l’oggetto, se si vuole inaugurare una psicanalisi come scienza. Questa è la lezione tuttora valida da trarre, a mio parere, dall’insegnamento di Lacan. Una possibilità di sviluppare questo insegnamento mi sembra a portata di mano, se si leggono senza prevenzioni certe Meditazioni metafisiche. La enuncio brevemente come mia via personale alla scientificità della psicanalisi, che non chiedo venga condivisa, tanto meno dogmaticamente accettata. Mi basta che convinca chi legge che l’impresa di scientifizzare la psicanalisi non è impossibile, se si mollano gli ormeggi della dottrina fallogocentrica. Nel caso si tratta – non tanto paradossalmente – di abbandonare la dottrina lacaniana, rimanendo fedeli allo spirito dell’insegnamento di Lacan. Insomma, vale la lezione nietzschiana: non bisogna avere paura di tradire i maestri per fare filosofia. Ripartiamo dal soggetto della scienza. Il soggetto è finito. Questo lo riconosce anche Lacan nel suo famoso discorso dell’ottobre 1967, dove istituisce il rito di passaggio della passe da analizzante ad analista. L’inconscio è sede di una catena finita di significanti.32 È facile dimostrarlo rigorosamente. Il soggetto è un portato del dubbio. In forma epistemica il dubbio è l’alternativa tra sapere e non sapere. La quale è valida solo in ambito finito come il principio del terzo escluso, che esemplifica. Ergo il soggetto è finito. E l’oggetto? Sull’oggetto si gioca la differenza tra scienza e filosofia. La psicanalisi sta a guardare? Speriamo di no. Le con31. Il secondo fallimento, in effetti, c’è già stato. Dopo quello del maestro, quello degli allievi, che falliscono nel far funzionare il rito di passaggio istituzionale da analizzante ad analista. Esemplare il caso italiano del mancato avviamento della “Cosa freudiana” nel 1974. Il fallimento degli allievi si legge bene come raddoppiamento del non saperci fare con la scienza, esattamente come il maestro. Perciò René Scheu può parlare di fallimento del fallimento. Cfr. R. Scheu, Das Scheitern ist gescheitert. Lacan in Italien 1953-1974 (Il fallimento è fallito. Lacan in Italia 1953-1974), in G.C. Tholen, G. Schmitz, M. Riepe (a cura di), Übertragung – Übersetzung – Überlieferung. Episteme und Sprache in der Psychoanalyse Lacans, Transcript-Verlag, Bielefeld 2001, pp. 58 sgg. 32. J. Lacan, Proposition du 9 octobre 1967 sur le psychanalyste de l’Ecole, in Autres écrits, cit., p. 243.

74


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 75

viene prendere parte al gioco, naturalmente dalla parte giusta e riconoscere, insieme alla scienza, che l’oggetto è infinito. L’oggetto della scienza moderna è infinito in matematica: in aritmetica è l’infinito numerabile, in analisi è l’infinito continuo. È infinito in fisica, dove i moti inerziali continuano all’infinito in modo rettilineo in assenza di forze. È infinito in biologia, dove si materializza nell’infinita varietà delle specie. È infinito nelle scienze sociali sotto forma della complessità delle interazioni socioeconomiche. Il moderno soggetto della scienza, pur essendo finito, sa manovrare questo oggetto singolare, che è non categorico, cioè non è rappresentabile con un unico modello, ma permette modelli diversi, tra loro non equivalenti: numerabile, continuo e oltre. Il soggetto finito della scienza inventa, allora, i metodi giusti per trattare l’infinito: l’induzione matematica in aritmetica, il calcolo infinitesimale in fisica, il calcolo delle probabilità dalla teoria dei giochi alle scienze della natura, magari con l’ausilio della statistica. Chi non ci sa fare con questo oggetto – è in assenza d’opera, direbbe Foucault33 – è il folle. La follia moderna non esisteva nell’antichità, quando neppure l’infinito esisteva, essendo stato dichiarato impensabile da Aristotele ed epigoni.34 E in psicanalisi dove si trova l’oggetto infinito? Dappertutto, là dove si espande il desiderio dell’Altro: nello spazio fonico – è la voce –, nello spazio scopico – è lo sguardo –, negli spazi oroanali – sono il seno e gli escrementi. Altro che oggetti perduti! Sono lì. Sono il luogo dove il soggetto abita, ma non ne è il padrone: lo spazio fonico, dove il soggetto è appellato all’essere; lo spazio scopico, dove il soggetto è sorpreso a godere dall’Altro; 33. La posizione di Foucault è all’epoca ancora logocentrica. Definì la follia come “linguaggio escluso”. L’assenza d’opera è assenza di significazione. Cfr. M. Foucault, La follia, l’assenza d’opera, in Storia della follia nell’età classica (1972), trad. di F. Ferrucci, Rizzoli, Milano 1994, p. 480. 34. Chi ci sa fare con l’oggetto infinito del desiderio è la nevrosi. L’isteria continua a negare gli oggetti finiti (“non è questo, non è questo... non è questo”). L’ossessione colleziona oggetti finiti all’infinito. La perversione non ci sa fare bene con l’infinito, perché lo finitizza, rendendolo infinito solo in potenza, come ai tempi degli antichi. Chi non ci sa fare assolutamente con l’infinito è il folle, che si limita a “raccontarlo” in modo stereotipato nei deliri di grandezza o di persecuzione.

75


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 76

lo spazio orale, dove il soggetto è divorato dall’Altro; lo spazio anale dove il soggetto finisce come deiezione dell’Altro. Tutti questi spazi soggettivi, fondamentalmente alienanti, sono in continuità con il soggetto, che è immerso in essi, attraverso gli sfinteri corporei. L’iride, il timpano, l’ano, la bocca sono luoghi corporei costituiti da veri e propri punti limite topologici, che ristabiliscono nel godimento la continuità soggetto-oggetto, come articolazione finito-infinito.35 Naturalmente, ammesso l’infinito oggettuale, c’è tutta la metapsicologia freudiana da riscrivere. Lacan ci ha provato, ma è rimasto prigioniero della meccanica pulsionale freudiana, che è fondamentalmente aristotelica. Ha sostituito il moto naturale dalla zona erogena alla meta della soddisfazione, come è nelle pulsioni sessuali, al moto di va e vieni, sostanzialmente circolare – perfetto secondo la fisica di Aristotele –, come è nella pulsione di morte, che oscilla dal Fort al Da. No, questi riflussi aristotelici, che hanno ingolfato la fenomenologia attraverso l’innesto della psicologia di von Brentano come teoria dell’intenzionalità, sono da dimenticare. Bisogna pensare, invece, in senso moderno. In particolare pensando come il soggetto finito riesca a pensare quell’oggetto impensabile che è l’infinito – nelle nevrosi o nelle perversioni – o come non riesca a pensarlo – nella follia e nel delirio. Come il soggetto si inganna o non si inganna nel pensare l’oggetto, come regolarmente lo allucina. Da qui la necessità di riformulare la psicanalisi come scienza epistemica. Un lavoro non da poco ma esaltante. Lacan è un fantasma. Lacan è noto, tra l’altro, per la definizione di fantasma – la Urszene di Freud – come rapporto di esclusione interna tra soggetto diviso e oggetto a, algebricamente: S a. Mi diverte concludere con leggerezza questo discorso tentando di vedere Lacan stesso come fantasma. Tuttavia, data l’enorme risonanza pubblica suscitata dal tipo, sarebbe meglio, mutuando l’espressione usata da Derrida per Marx, parlare di spet35. Detto imprecisamente, in topologia i punti limite sono punti di accumulazione: nei loro paraggi si addensa l’infinito.

76


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 77

tro. “Uno spettro si aggira per la psicanalisi.” O meglio, per le scuole di psicanalisi. Qual è il vero Lacan? Quello di Miller? Quello di Safouan? Quello di Melman? C’è uno spettro di Lacan come c’è lo spettro della radiazione luminosa. Il vero Lacan non esiste, se non come fallimento. Forse esisterà un giorno, il giorno in cui, anche per merito suo, avrà cominciato a essere praticata la scienza di Freud. Concludo con le parole con cui René Scheu introduce alla mia Unendliche Subversion: “Poiché viviamo nell’epoca della scienza, poiché il soggetto soffre del reale, portato al mondo dalla scienza, abbiamo bisogno della psicanalisi. Questo è il messaggio di Lacan”.36 Forse abbiamo ancora bisogno di Lacan...

36. Turia und Kant, Wien 2008, p. 18.

77


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 78

Una scrittura da ascoltare ANNALISA DAVANZO

La scrittura è una traccia in cui si legge un effetto di linguaggio. [...] Occorre assicurarsi della scrittura, e con essa. [...] Questo effetto resta nondimeno secondo rispetto all’Altro ove il linguaggio s’iscrive come verità. Giacché nulla di quanto potrei scrivere [...] reggerà, se non lo sostengo con un dire che è quello della lingua, e con una pratica.1

acan ha scritto poco, neanche millecinquecento pagine bastano a raccogliere nei due volumi, Ecrits e Autres écrits, tutto quello che ha pubblicato durante la sua vita; il secondo completa la serie dei testi prodotti fino al 1976, ma non è stato Lacan a occuparsi di raccoglierli. La sua prima opera di scrittore resta un unicum, a cui si riconcede scrivendo nel 1970 la prefazione al primo dei due volumi degli Ecrits ristampati in edizione livre de poche (ma il secondo apparirà solo nel 1999). Qui segnala che, nei quattro anni intercorsi, gli psicanalisti se ne sono serviti non per intendere qualcosa del loro stesso funzionamento inconscio ma, al contrario, per credere di saperlo padroneggiare, mentre tutto quello che padroneggiano sono dei termini che usano a vanvera. I sintagmi lacaniani che egli stesso ha messo in circolazione hanno fornito agli oggetti di consumo del mercato della cultura degli “imballaggi migliori”. Mea culpa. Comunque non c’è metalinguaggio, è sempre de te che la fabula narratur, e se il nuovo lettore si lascia prendere dal suo gioco, se lo prende con un pizzico di scherzo, saprà di essere “uno degli intimi, e che può venire nella mia Scuola, a far pulizia”,2 che è,

L

1. J. Lacan, Il seminario. Libro XX. Ancora. 1972-1973 (1975), Einaudi, Torino 1983, pp. 121-122. 2. Id., Préface à l’édition des Ecrits en livre de poche, in Autres écrits, Seuil, Paris 2001, p. 391.

78

aut aut, 343, 2009, 78-90


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 79

per l’appunto, ciò che ci fa tutti “uomini di fatica”,3 a condizione di voler intendere. Nel 1970, dunque, gli Ecrits aprono sulla Scuola, rinviano esplicitamente al seminario in cui da sempre Lacan sottopone i suoi percorsi all’innocenza del tout venant che incontra, qui, un lavoro paziente, attento a non saltare nessun passaggio che possa risultare utile a tradurre il linguaggio della teoria in termini correnti, in esempi immaginifici, capace di decomporre le astrazioni ripercorrendo a ritroso la via che le ha prodotte a partire dalla materialità della pratica analitica. Questo è il luogo e il tempo per quello che viene al primo posto del suo “ordine preferenziale [...]: che ci siano degli psicoanalisti”.4 Il che pone l’interrogativo su che cosa sia un insegnamento analitico, sulle modalità a cui Lacan affidava la trasmissione del suo insegnamento e, in definitiva, della psicanalisi stessa, dato che delle sue lezioni abbiamo i testi solo grazie a chi c’era e le ha stenografate prima, e registrate poi. Di sicuro non l’affidava agli Ecrits, che marchiava con un perentorio “pas à lire”. Che farne, allora? Nel 1970 la Scuola a cui invitava il lettore funzionava a pieno regime, ma la stesura degli Ecrits, pubblicati nel 1966, viene giusto dopo quel fatidico 1964 in cui si consuma la rottura con l’IPA ed egli fonda (il 21 giugno), l’Ecole freudienne de Paris, la sua Scuola. Questo viraggio viene scritto, assicurato negli Ecrits, che, come dirà nella prefazione del 1970, “furono non solo raccolti ma composti”, riscritti in parte, a titolo di “memoria di rifiuti”,5 non senza pagare il debito ai suoi antecedenti, ma rivendicando soprattutto la teoria e la pratica che gli hanno valso l’anatema, e se possono sembrare “disseminati su anni poco riempiti”, è perché ha dovuto “preparare il [suo] uditorio”.6 Ora, nel 1966, appunto, è col suo proprio desiderio che si confronta, è il suo desiderio la posta in gioco che preordina lo 3. Ivi, p. 389. 4. Id., Scritti (1966), Einaudi, Torino 1974, vol. I, p. 229. 5. Id., Préface à l’édition des Ecrits en livre de poche, cit., p. 388. 6. Id., Scritti, cit., vol. I, p. 66.

79


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 80

stile con cui vorrebbe “condurre il lettore ad una conseguenza ove egli debba mettere del suo”.7 La questione non è comunicare il sapere, bensì causare il desiderio, senza cui non c’è trasmissione, non della psicanalisi. Come dirà più tardi, la pagina stampata ha come suo destino la poubelle, la pattumiera, e con un gioco che ci consente la lingua italiana, potremmo dire che va da un pube all’altro, mettendo in gioco la libido, che evoca quel tanto di godimento che il desiderio veicola. A modo suo lo diceva anche Benedetto Croce, la creazione riproduce l’atto del creare, al punto che chi vi si accosta con la sensibilità ma non anche col cuore saldo che l’atto esige, rischia la sindrome di Stendhal, la vertigine. L’obiettivo della scrittura è cogliere la carne della parola, il corpo sottile del significante, per scrivere l’atto stesso del dire, l’epifania del corpo parlante. È questo il punto di incontro di scrittura e psicanalisi che lavora, anch’essa, per mantenere aperta l’interrogazione e l’invenzione nella scoperta dell’impossibilità, per il soggetto, a dire di sé, del perché c’è, perché così, uomo e/o donna. Come la scrittura e attraverso la scrittura, la psicanalisi ha di mira il punto insorpassabile che Freud ha chiamato Urverdrängung, la rimozione originaria, il buco nero in cui sprofonda il senso dei sogni e dei sintomi, la rimozione che comincia prima che ci sia alcunché da rimuovere perché da subito, dal principio, parlare vuol dire parlare di altro rispetto a quello che conta. Questo impossibile a dire diventa la causa di tutto quello che si dice, che si cerca di dire, che si accanisce a dirsi e per questo lo si scrive, per catturare il suono, il sapore in bocca, il tempo dell’atto di dire che inevitabilmente “resta dimenticato dietro ciò che si dice in ciò che si intende”.8 Contro questo oblio si esercita la scrittura di Lacan, ed è proprio lo sforzo di cogliere e fermare l’atto dell’enunciazione che la rende illeggibile. Nei testi ci sono sempre degli indicatori della contingenza a 7. Ivi, p. 6. 8. Id., Scilicet (1972), Feltrinelli, Milano 1977, p. 349.

80


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 81

cui si devono, dei riferimenti al qui e ora che ha fatto precipitare lo scritto, dei rinvii a fatti, persone e luoghi che ai lettori del suo giro erano riconoscibili anche dietro allusioni appena velate ma che ormai sono divenute opacamente enigmatiche. Agganci alla cronaca, quasi pettegolezzi, ironie, sarcasmi e proteste che evocano una dimensione di quotidianità, e aprono su quel confine tra pubblico e privato in cui si impigliano le reazioni vivaci del dottor Lacan. È il versante del caso, che continua nella necessità dello stile, perché le argomentazioni si sviluppano, a volte si avviluppano, nel gongorismo che Lacan rivendica per sé e in cui riversa quel materiale magmatico di cui era fatto l’uomo, prima che il suo discorso. La scrittura sola dice quel vero del vero che un allievo gli chiedeva al seminario, cioè nel posto sbagliato, il luogo in cui, per tenere un discorso, come qualunque soggetto, Lacan si presenta assoggettato al significante e, come chiunque, prende la parola dal posto del sembiante. Nell’insegnamento lacaniano il sembiante non è né finzione né convenzione, è piuttosto l’incontro dell’essere pulsante con la logica implacabile del linguaggio, che ci esclude dal reale dell’essere con lo stesso movimento con cui ce lo fa toccare; è la condizione, per il corpo, per entrare nel discorso e implicarsi nel legame sociale, e dunque si fonda su una scelta non estetica ma etica. La scrittura si esercita appunto a rompere l’involucro con cui il sembiante individua – ma anche rinchiude e nasconde – il soggetto per arrivare a nominare il buco originale in cui il reale del godimento è scomparso. “Essa non ricalca il sembiante [...], ma i suoi effetti di lingua, quella forgiata da chi la parla”,9 erodendo invece il significato, e per questo, in Lituraterre, Lacan la chiama litura, per segnalarne l’effetto di cancellazione, di erosione. “Non c’è niente di più distinto dal sembiante del vuoto scavato dalla scrittura”, vuoto che “è ciotola pronta ad accogliere il godimento.”10 La sfida del9. Id., Lituraterre (1971), in Autres écrits, cit., p. 17. 10. Ivi, p. 19.

81


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 82

la scrittura è quella di rendere reale il simbolico, mission impossible, ma quello è lo sforzo, e di farlo fissando quel dire che sostiene tutto ciò che viene detto, a partire da un voler dire che veicola il desiderio del soggetto e può causarlo, da pube a pube, come dicevo, con l’effetto di far pullulare l’equivoco. Non stupisce allora che Lacan abbia affidato l’essenza del suo insegnamento ai matemi, inequivoci e interamente trasmissibili in quanto costruiti con la lettera presa a prestito dalla scienza del reale per eccellenza: la matematica. Desertificate di ogni godimento e di ogni senso, le letterine con cui scrive le sue formule e i suoi algoritmi formalizzano il sapere in modo scientifico, vale a dire in un modo che esclude radicalmente (Lacan parla precisamente di Verwerfung, forclusione11) la verità del soggetto, del suo desiderio e del suo godimento. Resta a carico di ciascuno, di lui in primo luogo e di chiunque voglia assumersi il rischio di un insegnamento che aspiri a essere analitico, animare quelle letterine che possono sostenerlo tra sapere e verità. C’è da chiedersi quale ruolo assegnasse al suo seminario, e a tutto il lavoro che gli ha dedicato per ventisette anni, rispetto alla trasmissione della psicanalisi. Lacan ebbe a dire che Freud, dopo aver messo tutto per iscritto, aveva posto a custode della sua vita e della sua opera il più stupido dei suoi discepoli, senza offesa, quello che meno si sarebbe azzardato a metterci del suo. E Lacan? Nel corso del Seminario XX dirà: “Tra tutti i seminari che qualcun altro deve editare, [quello sull’etica della psicanalisi] è il solo che riscriverò io stesso, e di cui farò uno scritto. Bisogna pure che ne faccia uno”.12 Sta parlando del VII, che non farà, e invece quello stesso anno, nel 1973, inizia la pubblicazione dei seminari a partire dall’XI, quello tenuto nel 1964 nella nuova sede dell’Ecole normale dopo la fondazione dell’EFP, ed è subito Miller. Nel suo testamento affiderà la responsabilità della sua eredità teorica a Jacques-Alain Miller, brillante filosofo normalien a cui 11. Id., Scritti, cit., vol. II, p. 879. 12. Id., Il seminario. Libro XX. Ancora, cit., pp. 52-53.

82


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 83

nel 1966 è stato chiesto/intimato di curare l’indice analitico, che egli trasforma in Indice ragionato dei concetti principali; lo fa anche precedere da un Chiarimento in cui esprime il suo entusiasmo per l’espansione senza limiti della formalizzazione del discorso, ma prende le distanze dallo stile ellittico “necessario, dice Lacan, alla formazione degli analisti”; può farlo dato che, per parte sua, non è tenuto a preoccuparsi “dell’efficacia della teoria in questo campo”.13 Insomma, Lacan ha scelto di affidare la stesura dei suoi seminari a un non-analista; in seguito lo è diventato, ma per tutti gli anni settanta era solo (?) un frequentatore appassionato del suo corso e della sua Scuola, particolarmente dotato di esprit de géométrie. Nell’avvertenza che inserisce alla fine del Seminario XI, Miller segnala che “si è voluto non contare affatto, e procurare, dell’opera parlata [...], la trascrizione che testimonierà e varrà, in avvenire, per l’originale, che non esiste”. L’originale è perduto, col gesto e l’intonazione, l’enunciazione è perduta, ma resta la stenografia fedele, “raddrizzata, parola per parola – lo scarto non ammonta a tre pagine. Il più scabroso è inventare una punteggiatura, perché ogni scansione [...] decide del senso. Ma era il prezzo per ottenere un testo leggibile, e secondo questi principî sarà stabilito il testo di tutti gli anni del seminario”.14 Il patto è concluso. Nei testi così stabiliti, confrontati con i primi, stenografati e poi stampati a uso interno dall’ALI (Association lacanienne internationale), la differenza si riduce davvero all’eliminazione di poche parole, necessaria per chiudere e riaprire le frasi che altrimenti si inanellano l’una nell’altra, e tuttavia l’intervento ha un peso che non si lascia liquidare così semplicemente. Anche se si annuncia nel modo impersonale, si è voluto non contare, Jacques-Alain Miller c’è, eccome. Ne darò due esempi che mi riguardano personalmente e che mostrano due modi molto diversi in cui prende corpo la sua presenza. 13. Id., Scritti, cit., vol. II, p. 902. 14. J.-A. Miller, “Avvertenza”, in J. Lacan, Il seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. 1964 (1973), Einaudi, Torino 1979, p. 281.

83


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 84

L’ultimo capoverso del Seminario XI riguarda il desiderio dell’analista e, per la prima volta Lacan gli associa l’amore: il desiderio dell’analista, dice, è di ottenere la differenza assoluta che si ha quando, confrontato col significante primordiale, arriva ad assoggettarglisi. Tradotto, secondo me: il desiderio dell’analista punta a ottenere che il soggetto (l’analista stesso) accetti come nome proprio quel significante segreto che, originariamente, ha ricevuto, ovvero si è preso, dall’Altro; in altri termini, punta a che egli si assuma la responsabilità del suo fantasma. Esempio ispirato al Seminario III: qualunque cosa gli predichi l’Altro, è il soggetto, anzi è il bambino, teso com’è a capire chi è lui e che cosa vale per l’Altro, a raccoglierne i segnali e a tradurli in un enunciato della serie: Tu sei colui che mi seguirai, se vuoi, oppure che mi seguirà, così deve essere. È il soggetto che ascolta, interpreta e decide. Esempio tratto dalla clinica: il tormentone esplicito della madre, “Tu sei (sarai) il bastone della mia vecchiaia”, è diventato, per un giovane ossessivo, “Tu diventerai ricco, a costo anche di andar lontano, per assicurare la mia vecchiaia”, e adesso mette in conto alla madre l’ambizione che lo ha portato all’estero dove qualcosa non ha funzionato per cui si trova ora, rientrato, sulla stessa linea di partenza dei più giovani di vent’anni, dunque in condizione di farsi mantenere da lei. Ora, il desiderio dell’analista concerne non solo quello che farà l’analista ma anche colui che, terminata l’analisi, si fa analista della propria esperienza interminabile. Dunque, per questo giovane consisterà nel separare le speranze della madre dal desiderio del suo proprio Altro (la regina Isabella?) a cui aveva risposto: “Sì, sarò Cristoforo Colombo”, a partire da nient’altro che dal godimento senza nome che lo consumava e che ha potuto così nominare e orientare. Questa operazione è banale solo nei termini umoristici dell’osservatore, ma a lui costerà lacrime e sangue perché comporterà la consapevolezza della solitudine, incondivisibile, in cui il soggetto desidera e gode. Qual è il guadagno? Solo qui, conclude Lacan, “può sorgere la significazione di 84


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 85

un amore senza limiti, perché esso è fuori dai limiti della legge, dove soltanto può vivere”.15 Per come lo capisco io, il valore che si aggiunge al desiderio della differenza assoluta è l’accesso a un amore nuovo, fuori legge nel senso che non deve niente all’identificazione edipica e al narcisismo che la sostiene, giacché, come si legge nel Seminario VIII, Freud ha un bel distinguere tra amore enclitico e amore narcisistico, di fatto l’amore in quanto tale non può che radicarsi nel narcisismo dato che si comprende in una formula unica che suona: “Lui ha quello che manca a me”, “Io ho quello che manca a lei” e/o viceversa, con la conseguente aspirazione a fare Uno, restaurando la sfera perfetta di Aristofane. L’amore a cui aprirebbe il desiderio dell’analista sarebbe invece l’amore dell’alterità che lascerebbe sussistere l’Altro, e dunque anche il soggetto, nella sua mancanza, azzerando l’opzione “mi piace/non mi piace”, “questo sì e quello no”. Tale azzeramento mi pare il frutto più prezioso della psicanalisi in quanto è non solo la condizione per fare lo psicanalista, ma, ancora prima, la condizione per vivere da essere umano tra gli umani, che non sono sempre gradevoli, neanche come vicini in filovia, ma con cui possiamo scegliere di fare per amore quello che dovremmo comunque fare per forza: conviverci. Avendo posto in questione questa lettura (avvalorata da un passaggio del Seminario XX) a un convegno internazionale, sono stata liquidata con l’affermazione che la virgola, messa dopo legge, determina, al contrario, che è solo nella legge che l’amore può vivere. Ma la virgola sarà di Lacan o di Miller? La persona interpellata mi aveva comunque detto la sua, e io mi sono tenuta la mia. In un’altra occasione ero invece d’accordo con la stessa persona nel rifiutare la cancellazione di un termine a favore di un altro nel Seminario VII. Il 12 gennaio 1983, nell’anfiteatro “des arts et métiers”, Miller tiene il suo corso e parla, appunto, del seminario sull’etica a 15. J. Lacan, Il seminario. Libro cit., p. 280.

XI.

I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi,

85


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 86

cui sta lavorando per stabilirne il testo (che apparirà nel 1986). A proposito del rapporto di das Ding, la Cosa, col significante, dice, ci sono tre passaggi in cui Lacan cerca di definirlo. Purtroppo nella stenografia è scritto in tre modi diversi benché la locuzione sia evidentemente la stessa. Se ne era accorto molto tempo addietro, e sapendo di doverci prima o poi arrivare, aveva interrogato Lacan, il quale, come faceva spesso, lasciava capire che ormai toccava agli altri sapere, e che lui era preso dal seminario prossimo, non da quelli passati. E allora lui sceglie, senza inquietudine, una sola delle tre formule per tutti e tre i passi, motivando la scelta col criterio, perfettamente filologico, della lectio facilior: il verbo scelto compare in altri sintagmi analoghi in diversi testi, contemporanei e posteriori. Molto ragionevole, salvo il senza inquietudine, dato che l’incertezza del testo rifletteva, a suo stesso dire, una difficoltà anche di Lacan. Ma allora, perché non scegliere la lectio difficilior, altrettanto scientificamente filologica, tanto più che risultava confermata a posteriori dagli sviluppi successivi, in particolare dal seminario su Joyce. In quella circostanza non era previsto che si facessero domande, e quindi mi sono silenziosamente scelta la mia versione, quella stenografica. Qualche anno fa la persona della virgola riapre il caso: durante una lezione di RSI (1975), ha interpellato Lacan facendo riferimento alla variante in causa, senza riceverne smentita, e dunque la considera confermata e si interroga sulla scelta editorale. La questione è tutta in una lezione, quella del 27 gennaio 1960, che nell’edizione Seuil è intitolata: “Della creazione ex nihilo”. Il nihil in gioco è in realtà un pieno, così pieno che non lascerebbe posto al soggetto e al suo desiderio se il significante non vi introducesse un vuoto. Il seminario precedente, il VI, termina sul rapporto del soggetto con il tutto e, per non cadere negli archetipi junghiani della madre onnipotente, l’anno dopo Lacan ricomincia da Freud, dal Progetto di una psicologia, che descrive il costituirsi dell’essere umano nella conoscenza di sé e del mondo nei primi mesi di vita. Nel caos delle sensazioni che lo bombardano da dentro e da 86


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 87

fuori, il neonato impara a distinguere delle sequenze legate ai tempi del soddisfacimento dei suoi bisogni perché quando la carica, provocata per esempio dalla fame, viene placata dall’allattamento, la scarica, il ritorno all’omeostasi, si scrive come informazione e inaugura la serie di segni di realtà che consentiranno il passaggio dal sistema primario a quello secondario. I ritorni dell’identico godimento avvieranno il processo della conoscenza e del pensiero riproduttivo in quanto introducono ogni volta delle informazioni accessorie che consentono di prevedere l’arrivo e di accompagnarne il compimento: il rumore del passo che si avvicina, l’odore, i colori, la voce del godimento imminente. In seguito il linguaggio taglierà l’esperienza totale in due campi: da una parte, il nucleo dell’Io e le varianti apprese, dall’altra, la Cosa, das Ding, e il suo predicato, l’atto che innesta il godimento: ciucciare, piuttosto che guardare o ascoltare o evacuare, a seconda della sensibilità sensoriale di ciascuno. Il soggetto riconosce prima e registra poi l’evento del soddisfacimento che produce la scarica, ma nel godimento non c’è, se non come oggetto godente/goduto. Ciò che sa, perché si è scritto nella sua carne e nella sua memoria, sono i segni che gli consentono di riconoscere le cose, non di prenderle, perché “quelle che noi chiamiamo cose sono residui che si sottraggono al giudizio”.16 Lacan ne legge dei lunghi passi che commenta letteralmente; distingue la Vorstellung, segno che si imprime nella memoria inconscia, con tutti gli altri che girano intorno alla Cosa, la quale si presenta sempre velata da questo sciame in movimento, dal Vorstellungsrapräsentanz che rappresenta il significante come funzione di apprendimento. Dunque, c’è la Cosa, fuori da ogni contatto sensoriale che non sia il godimento nel suo precipitare, la cosa nella realtà, che entra nell’atto ma resta fuori del giudizio, la Vorstellung che la scrive, il significato al soggetto, e infine il Vorstellungsrapräsentanz,

II,

16. S. Freud, Progetto di una psicologia (1895), in Opere, Boringhieri, Torino 1968, vol. p. 237.

87


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 88

il significante che si deposita come sapere. L’una e l’altro costituiranno le coordinate di piacere che sono tutto ciò che della Cosa reale il soggetto ritrova nella realtà, a partire da quella Vorstellung in cui il Vor segnala “quel terzo che si produce a partire dalla Cosa”.17 Lasciamo pure da parte, come abusivo, il pensiero che va all’entrata a pieno titolo nell’insegnamento di Lacan (più di dieci anni dopo) del reale come ciò in cui il significante si radica e che fonda l’efficacia della scrittura, ma anche in questa ricostruzione è a partire dalla Cosa, fuori portata di mano e di discorso, che il soggetto ritrova l’oggetto mai perduto, e sono la Vorstellung e il suo rappresentante che ci mettono sulle sue tracce e aprono a quella “soddisfazione che non domanda niente a nessuno”, che è la sublimazione.18 E allora potrebbe non essere un errore stenografico se poco oltre Lacan definisce la Cosa, “quel tanto di reale primordiale che guadagniamo dal significante”.19 Infatti, continua, tra l’organizzazione nella rete significante e la costituzione nel reale dello spazio della Cosa, “non c’è niente”, e per questo possiamo cercarvi l’oggetto, perduto solo après coup.20 Senza un reale su cui sostenersi e a cui fare da velo, “nel simbolico niente spiega la creazione”,21 ma per contro l’oggetto creato può adempiere una “funzione che gli permette di non evitare la Cosa come significante, ma di rappresentarla”.22 È una tesi: “Je pose ceci”, e nella dimostrazione sostiene che “al cuore del mito della creazione [...] [la Cosa] mantiene la presenza dell’umano”.23 Qui si tratta, dice, della Cosa in quanto essa definisce l’umano che, per l’appunto, ci sfugge e che definiamo “non diversamente da come abbiamo definito poco fa la Cosa, ossia ciò 17. J. Lacan, Le séminaire. Livre VII. L’éthique de la psychanalyse. 1959-1960, Seuil, Paris 1986, p. 75. 18. Ivi, p. 137. 19. Id., Seminario VII, testo dattiloscritto, p. 126. 20. Id., Le séminaire. Livre VII. L’éthique de la psychanalyse, cit., p. 75. 21. Id., Le séminaire. Livre III. Les psychoses. 1955-1956, Seuil, Paris 1981, p. 202. 22. Id., Le séminaire. Livre VII. L’éthique de la psychanalyse, cit., p. 144. 23. Ivi, p. 150.

88


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 89

che, del reale, costruisce del significante”.24 Infatti, continua, “l’uomo forgia il significante e lo introduce nel mondo [...] forgiandolo ad immagine della Cosa, benché [...] sia impossibile immaginarla”.25 È un’illusione, niente può ridarci la Cosa, ce l’ha fatta perdere per sempre il nostro rapporto col significante, “come vi ho detto, la Cosa è ciò che, del reale, patisce [...] del significante”:26 mentre prima era l’uomo in quanto creatore a condividere la definizione con la cosa che costruisce, ora la definizione della Cosa svuotata definisce anche “il soggetto in quanto ha da patire del significante”.27 Di fatto, le tre formule non sono affatto intercambiabili, e molti insistono da tempo per un’edizione critica dei testi che riporti almeno le varianti più controverse, ma Miller ha sempre rinviato al mittente le proteste, e ne era anzi divertito: le edizioni che cura le decide lui. E ha ragione, tanto più dopo aver messo su Internet l’opera omnia, che tutti possono consultare, ma di cui solo lui stabilisce e regola la stampa. Non è questione di copyright, ma di coerenza: nello stesso seminario che ho seguito nel 1983, Miller enunciava il principio che lo guidava nel suo lavoro di rielaborazione del percorso di Lacan, ed era un principio di ripartizione in tre grandi periodi che sarebbero stati indagati e sviluppati fino a toccarne il fondo, ovvero i limiti e la frontiera di ciascuno con quello seguente: nell’ordine, l’Immaginario, il Simbolico e il Reale, e a questo principio si è sempre attenuto, a costo di oscurare, o semplicemente di non rilevare, i passaggi in cui Lacan eccedeva rispetto al sapere che stava dispiegando e che disaminava col rigore di una disciplina che a volte sembra costargli fatica, quando lascia cadere degli spunti che d’improvviso lo ispirano ma anche lo distraggono dagli approfondimenti che ha preparato. Lui è dalla parte di Miller quando scrive: “Succede che nostri allievi prendano l’abbaglio, nei nostri scritti, di 24. Id., Seminario VII, testo dattiloscritto, p. 134. 25. Id., Le séminaire. Livre VII. L’éthique de la psychanalyse, cit., p. 150. 26. Ivi, p. 161. 27. Ivi, p. 172.

89


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 90

trovare ‘già lì’ ciò cui il nostro insegnamento ci ha portato più tardi. Non basta forse che ciò che è lì non gli abbia sbarrato la strada?”.28 Per questo credo che abbiano ragione tutti: quelli che ritagliano delle prospettive strette e quelli che le allargano a tutto l’orizzonte, e sicuramente Lacan non ha smentito nessuna richiesta di conferma, secondo me non gliene importava una tripette (espressione sua), cioè un fico secco. Del resto, non sosteneva che, per lui, tenere il seminario equivaleva a passare la passe senza sosta? La passe non si sostiene per iscritto, si parla, a qualcuno che prende appunti per poi riferirla, fedelmente, al cartello, i cui componenti dovranno farsi un’idea del testo originario, attraverso le coincidenze e le differenze dei testimoni, che apposta sono due. Grazie tante, dunque, a tutti i passeurs, i registratori, le telecamere, gli stenografi, i dattilografi, JacquesAlain Miller e quanti ci portano i loro appunti, e rendono possibile anche se non semplice, a chi lo voglia, tentare di cogliere, al di là degli scritti, la voce di Lacan, per ascoltare, negli scritti, quello che Lacan (ci) voleva dire.

28. Id., Scritti, cit., vol. I, p. 63.

90


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 91

Fräulein... Freud-line... MARIA TERESA MAIOCCHI

Scommessa femminile del godimento. Il piccolo gioco di parole del mio titolo allude al posto speciale, inquietante forse, che da subito la questione femminile prende nel campo di esperienza istituito da Freud. Was will das Weib? Che cosa vuole la donna? Interrogativo localizzato (nel desiderio di Freud), ma non confinabile come locale nel dispositivo analitico. E tuttavia – senza la ripresa fattane da Jacques Lacan – la domanda aveva tutta l’aria di poter rimanere senza una vera iscrizione nel dopo-Freud. NelRiprendo molto volentieri qui il titolo di un lavoro di molti anni fa, cercando di farne un secondo giro. Nel presente lavoro, cercherò di connettere tra loro i tre passi che seguono, che mi paiono corrispondere a tre momenti decisivi, che hanno segnato il mio rapporto con l’insegnamento di Jacques Lacan. “È vero – Freud ha messo in primo piano nell’interrogazione etica il rapporto semplice dell’uomo e della donna. Cosa davvero singolare, le cose non hanno fatto altro che restare allo stesso punto. La questione di das Ding resta oggi sospesa a quel che c’è di aperto, di mancante, di spalancato, al centro del nostro desiderio. Direi, se mi permettete questo gioco di parole, che si tratta per noi di sapere che cosa possiamo farne di questo dam, di questo danno, per trasformarlo in dame, in dama, nella nostra dama” (J. Lacan, Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi. 1959-1960, 1986, Einaudi, Torino 1994, p. 106). “Noi rischiamo di dimenticare – nel campo della nostra funzione – che un’etica è al suo principio, e che di conseguenza, checché se ne possa dire sulla fine dell’uomo, e anche senza il mio assenso, il nostro principale tormento riguarda una formazione che si possa qualificare come umana” (Id., Sul bambino psicotico, ottobre 1967, “La Psicoanalisi”, 1, 1987, p. 14). “Se anche i ricordi della repressione familiare non fossero veri, bisognerebbe inventarli, e non si manca di farlo. Il mito è appunto questo, il tentativo di dare forma epica a ciò che si opera secondo struttura. L’impasse sessuale secerne le finzioni che razionalizzano l’impossibile da cui proviene. Non dico che sono immaginate, ma vi leggo come Freud l’invito a quel reale che ne risponde. L’ordine familiare non fa che tradurre che il Padre non è il genitore, e che la Madre resta a contaminare la donna per il piccolo d’uomo; il resto consegue” (Id., Televisione, in Radiofonia. Televisione, 1974, Einaudi, Torino 1982, corsivo mio).

aut aut, 343, 2009, 91-106

91


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 92

la logica del soggetto “finalmente in questione” il godimento femminile finirà invece per costituire il bordo paradosale, il limite eterogeneo – in qualche modo tuttavia percorribile – della dimensione significante, in una logica di oltrepassamento, in un’etica della singolarità. Nella ripresa lacaniana, infatti, l’enigma della femminilità – per ritornare ai termini finali di Freud, negli scritti degli anni trenta sulla femminilità – si chiarisce, col vantaggio di un ex post: linea di confine, certo, e quindi anche linea di sviluppo. Lo si coglieva anche nel cosiddetto “dopo Freud”, in una elaborazione concettuale e clinica che, dopo l’acceso – e sospeso – dibattito degli anni trenta, non se n’è più mostrata troppo sensibile. Ed è già una questione. Che cosa infatti si stava cancellando, e contro la lettera di Freud? E perché? Lo strano fascino di questa insistenza lacaniana sulla mancanza della struttura, nome di un buco, si è per me raddoppiato in virtù della doppia valenza di questo mancare: da un lato, proprietà logica dell’Altro simbolico, che fa del soggetto un manque à être (ma, tutto sommato, non è di esperienza questo manque...?), dall’altro e più intrigante lato, come eccedenza del femminile nei dintorni, sui bordi, di questa mancanza. Su entrambi i versanti, riformulazione di un’etica, adeguata – ma come? – al soggetto della nostra epoca, su cui la psicanalisi pretende di operare, il soggetto nato dall’avvento della scienza, decisivo nel “porre la questione di un’etica all’altezza di un tempo che si specifica come il nostro”, secondo un’indicazione solo di qualche mese precedente l’inizio dello stesso Seminario VII. Lacan raccoglie dunque l’ultima enigmatica parola freudiana, che lascia in un inquietante sospeso pratica e dottrina: “Rifiuto della femminilità [...] per entrambi i sessi”. Ablehnung, letteralmente, operare senza sostegno, deriva di una a-versione, via dalla donna... Ancora mi sorprende che da un lato questa paradossalità epistemica e clinica si sia potuta affrontare, ma anche, dall’altro, mi colpisce la illeggibilità di cui questa elaborazione lacaniana si avvolge, specialmente con quel provocatorio “non esiste!” – La donna non esiste... – che va a scuotere, ma anche a rinforzare, quell’“eterno femminino” – per dirla in modo tanto 92


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 93

obsoleto e tradizionale –, quella perfino folkloristica enigmaticità e sottrazione con cui le donne – quelle che invece esistono, eccome – hanno da sempre un po’ flirtato, per trovare un nome, un po’ protettivo e un po’ impronunciabile, alla loro eccezione, a loro stesse – insopportabile paradosso – inaccessibile. “La donna è mobile”, si sa... Ma da dove muove Lacan? Quale scommessa lo spinge ad affrontare il “continente nero” freudiano e le sue ignote sponde? I grattacapi del ritorno a Freud – che già lo ponevano in rottura con le derive tecnoscientifiche e psicoterapeutiche del “dopo Freud” – non gli bastavano? Perché e come affrontare le sabbie mobili di un femminile senza universale, femminile solo plurale? Quello verso cui Lacan procede non è infatti una pretesa e liquidatoria “psicologia della donna” anni quaranta, o una clinica al femminile anni settanta, ma qualcosa che finirà per ricentrare, con il rischio di una sovversione, l’intero apparecchio della sua invenzione: toccando i termini epistemici e clinici della struttura e quindi della formazione, reperendo l’analista secondo una posizione marcata dal non tutto del femminile, tale per cui non può esserci che dell’analista, riduzione partitiva, e conseguente parzializzazione. E anche: punto esplicito di congiunzione della clinica con la politica, in cui la psicanalisi deborda dal chiuso di una clinica del setting per mettersi in causa come discorso. E anche qui, un rischio assunto. Nel fragore del femminismo anni settanta, nelle sue provocazioni qualche volta retoriche, questa voce fuori dal coro viene a costituire il campo di una vera novità: la questione femminile non è riducibile in un opporsi al “maschile”, ma ridefinisce la problematica etica del soggetto, fino a segnare – come dicevo – la posizione dell’analista. Il non aver indietreggiato davanti a questa sfida e alla pregnanza dei suoi effetti, ha fatto per me dell’insegnamento di Lacan un incontro. La riformulazione della questione del padre, ossessione che al seguito di Freud percorre tutto l’insegnamento lacaniano, non troverebbe quella via d’uscita così clinicamente attuale e politicamente transitabile se non passasse per lo sconvolgimento che La donna apporta, con la 93


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 94

conseguente provocazione di un godimento ectopico, eteros inassimilabile, che perfora la struttura proprio nella sua irrinunciabile consistenza edipica. Spingendo al limite la tenuta del significante paterno, misura di normalizzazione e regolazione simbolica – ancora a fine anni sessanta – di quel “godimento, proibito a chi parla come tale”, Lacan fin da subito tende a ridefinire la problematica freudiana dell’Edipo, a cominciare dalla stessa metaforizzazione paterna del desiderio della madre, che impedisce che le fauci del divorante godimento materno si chiudano sul bambino. Lo impedisce, ma non del tutto: qualcosa resta zoppicante, non tutto quel che si agita fuori significante viene assorbito dall’apporto della Legge paterna, dubbio che già si insinua nell’efficienza del padre simbolico; ma si profila anche qualcos’altro, qualcosa che non è affatto riducibile all’articolazione edipica e al suo resto fuori significante, qualcosa che quindi va al di là del “sogno di Freud”, il sogno edipico di una efficacia totalizzante della funzione che il padre gioca. Sogno che il padre costituisca un vero limite dell’esperienza, trasgredire il quale comporti un certo inammissibile “ripudio della realtà”. Come sull’Acropoli... La questione femminile, quella di “un godimento avvolto nella sua contiguità”, si pone dunque come punto critico e poi di svolta dell’ardua dottrina del godimento, che – pur proibito al parlante – per la donna lacaniana comunque filtra, in quanto “la mediazione fallica non drena tutto” della pulsione, particolarmente “nell’istinto materno”, ci dice un Lacan di anni ancora piuttosto antichi.1 Ma che cosa lo spinge a un’operazione tanto rischiosa, disassamento delle sue stesse premesse di una fondamentale regolazione simbolico-linguistica del soggetto? Rischio per cui nello stesso tornante di fine anni cinquanta è posta la Legge, come limite al versante mortifero della pulsione, ma spunta anche il suo radicale scacco, femminile.

1. J. Lacan, Appunti direttivi per un Congresso sulla sessualità femminile (1958), in Scritti (1966), Einaudi, Torino 1974, pp. 726, 732.

94


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 95

D(e)addy-line, e oltre... Il campo lacaniano. Con “il rifiuto della femminilità, Ablehnung der Weiblichkeit”,2 il cammino freudiano è interrotto. Improvvisa sulla scena si erge, invalicabile, la “roccia della castrazione”, l’hic sunt leones dell’analisi, che vale “per entrambi i sessi”. In che modo? Penisneid, al femminile, e rifiuto della passività rispetto al padre, al maschile: un limite fallico-paterno della struttura varrebbe per entrambi i sessi, che si definiscono in una sorta di concorrenza verso il padre, come non affronto della posizione femminile. Si riaffaccia peraltro qui l’antico problema freudiano di una simmetria-dissimmetria dell’Edipo, tra maschile e femminile. La deadline dell’analisi è insomma una daddy line, o meglio d(e)addy line, per includere nel gioco di parole quel “padre morto” che Lacan indica come la perfetta efficienza simbolica del padre. Il che ci è sorprendentemente confermato dal testo che appena precede Analisi terminabile e interminabile (1937), e cioè Un disturbo di memoria sull’Acropoli (1936), cui alludevo sopra. Testo molto particolare, apparentemente d’occasione, in cui un Freud quasi trasognato ci parla del breve insorgere di un sintomo, riferito a molti anni prima, all’ingresso della sua vita di giovane adulto: il ricordo di un momento di straniamento avvenuto sull’Acropoli di Atene, mitica meta di un tormentato viaggio del giovane Freud verso il mondo della divina perfezione classica. Ormai in tarda età e malato, Freud vi riconosce il “rifiuto di un frammento di realtà”, che risponde di un certo orrore di fronte all’emergere del reale del suo fantasma: aver superato la soglia del Padre. Il sintomo quindi sorge in realtà a protezione del Padre come perimetro del desiderio e della realtà a esso connessa. Nel ricordo bizzarramente riemerso nella rielaborazione occasionata da questo scritto, Freud mostra la pregnanza del suo fantasma che poi si insinua in Analisi terminabile e interminabile: la funzione paterna, condizione e limite del soggetto. Nec plus ultra. E tuttavia: questa funzione di limite non è un segnavia che permetta il reperi2. S. Freud, Analisi terminabile e interminabile (1937), in Opere, Boringhieri, Torino 1979, vol. XI, pp. 533-535.

95


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 96

mento dei modi singolari del suo godimento? È in ogni caso su questo sentiero che Freud viene meno, si arresta: sulla roccia dell’Acropoli, sulla tomba del padre.3 Se questo fuori parola, limite femminile del simbolico, è punto di arresto, la questione femminile risalta nella sua dinamica aporeticità. Il passo di Lacan si spinge a fare di questo limite un bordo, che pure – come dimensione fuori significante – inizialmente va a costituire il godimento, appunto come “proibito a chi parla come tale”, cui è il piacere stesso a fare da “limite” (1958); ma ecco che proprio questo limite, in cui Lacan a suo modo rigorizza e singolarizza l’Edipo freudiano, trova la via femminile per risituarsi, come “godimento Altro” (1972), eccedenza, radicale alterità, ma tuttavia posto segnato nella struttura. Questa singolarità del femminile fa uscire l’enigma freudiano dal “continente nero”, e permetterà di interrogare della donna il suo essere non tutta nel discorso, non tutta dentro la logica fallica, dentro la logica della simmetria, il suo essere La donna, che ha un rapporto fondamentale con la struttura in quanto bucata, quel matema S(A/), indice – già nel grafo del desiderio (ancora un Lacan fine anni cinquanta) – dell’orientamento della struttura e del percorso di una cura: significante della mancanza dell’Altro, che è quindi un significante singolare, in quanto svuota l’ordine significante come tale. Il godimento femminile, quello che fuoriesce dall’iscrizione edipico-fallica della donna, indica un non tutto fallico dell’esperienza, che oltrepassa la logica del misurabile, barrando un preteso universale di tutte le donne, se esse sono – ciascuna – non tutta. La singolarità del godimento femminile è dunque strategica, poiché mostra in atto la struttura come affetta da una mancanza di simbolico che il padre non satura e non sutura del tutto, ma che il soggetto non può non affrontare. Il reperimento di pas toute si mostra solidale con ciò che l’apparecchio clinico-epistemico di Lacan incontra dall’inizio, nello scorcio iniziale del secolo, e va quindi a rinnovare: la questione del padre e della sua crisi, e dei modi con i quali 3. Cfr. il mio Dal Padre al nome, “Promuovere famiglia nella comunità. Studi interdisciplinari sulla famiglia”, 22, 2007, pp. 77-109.

96


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 97

esso sussiste. Grande tema lacaniano conclusivo, quello della pluralizzazione dei Nomi del Padre: da seminario mancante, Les Noms du Père (1963-1964, interrotto) a Les non-dupes errent (intraducibile joke: i non innocenti errano), da cui – nel gioco di lalingua – consegue il sintomo, e come sinthomo, come nome soggettivato – per così dire – del Padre, della sua operatività in quanto tale. La risorsa femminile. La scoperta freudiana segnala – da cima a fondo – qualcosa di non regolabile nel rapporto tra i sessi, che non tarda a porre la questione dei due che – a dispetto di ogni ideale di complementarietà – non fanno uno, la questione dunque della dissimmetria radicale tra uomo e donna, di cui Lacan darà una formulazione provocatoria quanto rigorosa, urtante il disco-corrente, le disque-courscourant: questo rapporto “non esiste”, non esiste il rapporto sessuale. Ma come? E allora, la coppia, la genitalità, la complementarietà, il mito platonico? È che il regime di questa dissimmetria – circoscritta, mimetizzata, aggirata dai mille escamotage di cui la cultura ha saputo servirsi, particolarmente nell’artificio dell’amor cortese e nei suoi ritorni da romanzo – questo regime è dato dal sottrarsi delle posizioni femminili dell’essere all’univocità obbligante dell’imperio fallico: la donna non è tutta catturabile in un godimento in ordine al fallo, non è – appunto – tutta, è pastoute. Può dispensarsi da questo obbligo. E per questo è La donna. Al modo di Freud, il nome di questa dissimmetria è “invidia del pene”,4 al modo di Lacan, arriva a essere “godimento supplementare”.5 La sintesi – un po’ brutale – ci serve a delineare la vera posta della questione femminile che – lasciata in sospeso da Freud – Lacan fa uscire dal chiuso di una localizzazione psicologica, alla Helene Deutsch, per connetterla al suo proprio “tormento” etico-politico, in vista di “una formazione che si possa qualificare come umana”, per riprendere uno dei passi da cui il mio testo muove.6 Se la donna non esiste che nel 4. S. Freud, Analisi terminabile e interminabile, cit., p. 533. 5. J. Lacan, Il seminario. Libro XX. Ancora. 1972-1973 (1975), Einaudi, Torino 1983, specialmente il cap. VI, in particolare p. 73. 6. Cfr. la nota introduttiva.

97


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 98

suo accesso particolare alla mancanza dell’Altro, se non è tutta ricompresa nella logica imperativa del significante, di cui pure d’altra parte – intrigantemente – partecipa, se non è tutta, è non-tutta anche come madre, e occorre poterne leggere e trattare certe conseguenze, che toccano anche i modi sociali, gli aggiustamenti culturali, le eventuali innovazioni nel campo del legame tra i sessi e tra le generazioni, di una “trasmissione al livello del desiderio”. Per la psicanalisi la clinica non è che un livello della sua politica. Certo è che questa sovversione dei legami di partnership sessuale che la scoperta freudiana comporta, sempre più visibilmente in atto, “per poco la psicoanalisi non la mancava”. Questa avvertenza di lettura di Colette Soler – nel suo fondamentale Quel che Lacan diceva delle donne – pone la questione femminile, e la sua attualità postmoderna nel movimento psicanalitico, sul piano che le compete, della politica della psicanalisi. C’è qualcosa di inevitabile nell’enigma del femminile, oggi più di ieri. Nell’enigma del femminile, oggi più di ieri, c’è qualcosa di inevitabile per la psicanalisi come discorso. E – come ogni inevitabile suppone – non è detto che l’evitamento sia del tutto scongiurato. Si coglie del resto subito la portata di un disorientamento dottrinario nell’intero dibattito degli anni trenta, cui accennavo all’inizio, in cui tante sono sul proscenio: Helene, Melanie, Jeanne, Ruth, Ermine, Marie, Karen, Anna e Lou, naturalmente, ma anche altre si affollano sulla movimentata scena: Hermine, Sabine, Dorothy, Alix, Hilda, Joan, Melitta... Davvero tante le donne analiste, tante le allieve di Freud, che intravedono, sfiorano, costeggiano, ma non attraversano la soglia, la linea di questa irrimediabile, feconda, reale dissimmetria, alterità, eterità del femminile.7 L’evidenza – spesso così rumorosa nell’isteria – del riferimento fallico – ben presente in ogni soggetto femminile – finisce per coprire, subornare, eclissare la posizione di La donna e del suo 7. In Ruth Mack Brunswick troviamo, tuttavia, una posizione originale, che andrebbe interrogata più da vicino: la precocizzazione della scelta edipica della bambina pone degli interrogativi alla via fallica. Cfr., su queste tematiche, il mio Donne analiste, donne in analisi. Le migliori... le peggiori all’occasione, intervento al convegno internazionale Storie di casi, storie di pazienti, Roma, 7-9 novembre 2008, organizzato da Association internationale d’histoire de la psychanalyse.

98


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 99

non-fallico godimento, riducendola alla figlia edipica, e dunque all’attesa del dono riparativo dal padre al fallo che manca, schiacciandola insomma sulla madre – quella che ha o quella che sarà – e/o in concorrenza con essa. È questa arcaica onnipotenza della Mater come Matrix che da subito lascia in sospeso – o fa declinare in senso solo fallico – la questione “donna”. D’altra parte, Lacan – che invece in sospeso non la lascia – non segue certo un cammino lineare: passa molto tempo prima che il buco logico della struttura – significante della mancanza dell’Altro, S(A/)8 – si possa cogliere come il bordo del fuori simbolico con cui la posizione femminile ha enigmaticamente rapporto. “L’Altro non è semplicemente il luogo in cui la verità balbetta. Esso merita di rappresentare ciò cui la donna è fondamentalmente in rapporto. [...] La donna ha rapporto col significante di questo Altro, in quanto, come Altro, può restare solo e sempre Altro. [...] L’Altro, quel luogo ove viene a iscriversi tutto quel che può articolarsi del significante, è, nel suo fondamento, radicalmente l’Altro. Ecco perché questo significante [...] contrassegna l’Altro in quanto sbarrato – S(A/)”.9 Resta che Freud – dal canto suo e malgrado il permanente privilegio culturale della scelta “materna” della donna della sua epoca – ha pur intravisto qualcosa di speciale, di inquietante, nel doppio movimento edipico della bambina,10 qualcosa che gli fa comunque porre in primo piano la questione femminile come 8. Matema decisivo – come dicevo sopra – nell’insegnamento lacaniano, dai molti nomi: “significante della mancanza dell’Altro”, “significante speciale”, “per cui non c’è Altro dell’Altro, non c’è metalinguaggio”, “verità senza verità” ecc., che appare appunto nel biennio 1957-1958, nella costruzione del grafo, già nel commento ad Amleto nel Seminario VI, e resterà centrale, malgrado i vari rivolgimenti, particolarmente in questa saldatura cruciale con la questione femminile, degli anni settanta e oltre. 9. J. Lacan, Il seminario. Libro XX. Ancora, cit., pp. 79-80 (corsivo mio). 10. A differenza che per il maschio, che dovrà sostituire il primitivo oggetto d’amore, ma potendone mantenere invariate le caratteristiche strutturali, la bambina si trova precocemente davanti a una biforcazione pulsionale, tra corrente pre-edipica – che la tiene fissata al potente imperdibile oggetto materno – e un “volgersi verso il padre” non garantito nei suoi esiti, dall’incerto e plurale destino: scelta materna, identificazione omosessuale al padre, e poi la terza, misteriosa opzione, il rifiuto della sessualità. Che possiamo forse oggi intravvedere in alcune forme cliniche che privilegiano un oggetto fatto di ripiegamento narcisistico. Cfr. S. Freud, “La femminilità” (1932), in Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni) (1933), in Opere, cit., vol. XI, pp. 222-223.

99


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 100

“enigma”. Freud ci mostra così – avvolto in questo “orrore” del femminile che contraddistingue il limite dell’identificazione – quello che per lui è un punto di non chiusura, punto di fuga, perdita che filtra dalla struttura, e che la rende poco maneggiabile, poco propizia a essere definitivamente trattata dal dispiegamento simbolico-significante che pure ha aperto le porte alla scoperta dell’inconscio. Il femminile è dunque il modo di Freud di parlarci del “suo” reale. “Che vuole una donna?” resta enigma impenetrabile, su cui il segreto del legame indissolubile madre-figlia mantiene un marchio che non si lascia decifrare: grigio, remoto, inaccessibile, della consistenza dell’ombra.11 E anche “disastro”. “Non sono riuscito a penetrare perfettamente nemmeno un caso”, dice un Freud improvvisamente dimentico di tutta la schiera di Fräulein che dal suo divano hanno tessuto il lungo filo della loro storia di figlie. E la “corrente pre-edipica” (1931 e 1932) che legherebbe la bambina alla madre non è certo meno scandalosa per una dottrina che ha fatto del padre e del suo perimetro simbolico l’area stessa dell’analizzabile, nonché la prima soglia identificatoria.12 Dunque sorprende proprio la rimozione scesa su questo punto aporetico della dottrina, questo strano rifiuto della specificità edipica del femminile, pur progressivamente così evidenziata nei testi di Freud, se è Freud che ce ne annuncia tanto provocatoriamente l’impasse: è forse per questa sorpresa che permane, che è ancora per noi al lavoro. Il passo di Lacan è questa sorpresa e questo interrogativo, che scava di nuovo – della questione rimossa – il posto sulla scena attuale del legame tra i sessi, che pure la scoperta freudiana aveva messo in gioco, per quanto occultata nel dibattito pro-materno degli anni cinquanta, in cui la madre, piena, satura, della nostalgia pre-edipica non si lascia “contaminare” – ancora per stare ai termini di Lacan13 – dalla donna, 11. Id., Sessualità femminile (1931), in Opere, cit., vol. XI, pp. 64-65. 12. Con il primo tipo di identificazione per incorporazione simbolica, come indicato in Psicologia delle masse e analisi dell’Io (1921), in Opere, cit., vol. IX. Su questo nodo complesso dell’identificazione, cfr. anche l’ultima parte del Seminario VIII, specialmente la lezione del 7 giugno 1961, dedicata al tratto unario, ein einziger Zug. 13. Cfr. la nota introduttiva.

100


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 101

dal suo abissale svuotamento. In realtà, come indicavo, “una sovversione sessuale era già in corso nella civiltà. Impossibile da misconoscere in questo inizio del XXI secolo, e per poco ne psicanalisi non ne mancava la mira”.14 Edipo, non senza Antigone. Dal testo del 195815 – anno cruciale per più aspetti – all’Etica della psicoanalisi (1959-1960) e poi con le straordinarie novità di Ancora (1972-1973), che dell’Etica costituisce – a dire di Lacan – “una seconda estrazione”, la questione femminile prende un rilievo sempre più decisivo nell’insegnamento lacaniano, nella immediata suite del Seminario XVII,16 e non solo come nodo metapsicologico: essa risponde fin da subito di quell’interrogativo politico-discorsivo17 che dicevamo, ed è in questo che viene a costituire un percorso che ritengo illumini non una problematica locale della psicanalisi, aggiustamento di una corretta teoria dell’Edipo – pur di vaglia, visto il dibattito accesissimo e provocatore che apre negli anni trenta tra le allieve, e auspice Freud – quanto la psicanalisi stessa, il suo essere discorso, cioè modalità di legame sociale, in una politica della contingenza, congruente con gli elementi che la portata clinica delle sue elaborazioni ha messo in campo, pratica discorsiva che apre e riapre al soggetto il margine della scelta. La psicanalisi in quanto discorso consente di leggere – prendendo appoggio dagli stessi elementi – altre modalità discorsive in atto, farne critica e promuoverne il passaggio, piuttosto che promuoversi come pratica adattiva e riadattiva per un soggetto 14. Così nella quarta di copertina del testo di Colette Soler, Quel che Lacan diceva delle donne (2003), Franco Angeli, Milano 2005. 15. Cfr. J. Lacan, Appunti direttivi per un Congresso sulla sessualità femminile, cit. Molti dei testi decisivi del suo insegnamento, raccolti da Lacan stesso negli Scritti, sono di questo stesso anno, 1958. 16. Cfr. Id., Le séminaire. Le livre XVIII. D’un discours qui ne serait pas du semblant. 1971, Seuil, Paris 2006, e i seguenti XIX, ...ou pire, inedito, e soprattutto il XX, Ancora, ampiamente citato in questo articolo. Cfr. anche lo scritto L’étourdit (1972), ora in Autres écrits, Seuil, Paris 2001. 17. Id., Appunti direttivi per un Congresso sulla sessualità femminile, cit. Il paragrafo conclusivo si intitola: La sessualità femminile e la società e adombra che la promozione propria dei legami femminili, alludendo al movimento delle Precieuses, si possa intendere in controsenso, come “contraria all’entropia sociale” (pp. 732-733).

101


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 102

irriducibile alla civiltà che lo porta, peraltro assai poco incline a lasciare aggiustare in una “terapia” quella dimensione pulsionale oscura e intrattabile che Freud – in una rischiosa sfida al suo stesso ancora nascente movimento – ha pensato di chiamare Todestrieb, “pulsione di morte”: “muta”, cioè fuori legame. Oggi più di ieri il clinico – e il politico? – non può non esserne avvertito. Poiché la forma con cui questo intrattabile si produce oggi non è la rottura dialettica, la denuncia sovversiva, la rivolta al disagio, ma un liquido – silenzioso, appunto – assenso all’offerta mortifera di godimenti al riparo dalla perdita. L’offerta ormai così variata di dipendenze, presenta oggetti sempre più facilmente simbiotizzabili, imperdibili paguri bernardi della soggettività “nell’epoca dei traumi”18 (e quindi alla perenne ricerca di una loro protezione anestetica), oggetti che non implicano separazione, ma pura annessione, addiction appunto, malinconica. Come sappiamo dal fenomeno degli hikkomori,19 anche lo spazio domestico, la quieta stanza dei giochi appena trascorsi, da scena della esuberante conflittualità edipica, può trasformarsi essa stessa in “sostanza”, fare attaccamento senza perdita, prefigurando lo spazio ultimo e silenzioso della bara. Il problema clinico – e cioè politico – che si pone è quindi sull’effettività del margine di una scelta del soggetto. Ed è quindi qui che l’itinerario lacaniano, che reperisce La donna, mostra tutto il suo interesse. Come infatti ritagliare questo spazio logico della scelta? Ma il soggetto freudiano non era quello del determinismo psichico? Sta di fatto che il soggetto lacaniano, che di quello freudiano si reclama parente stretto, è soggetto dell’inconscio “non ontico, ma etico”,20 e seguendo Freud e il suo al di là, scava nella macchinazione significante-edipica la sua questione: non è vittima delle sue circostanze inconsce, poiché si abilita ad assumerne le conseguenze. Un soggetto “sempre responsabile”. Per situarci di nuovo nei testi: il Seminario VII è dell’anno suc18. Cfr. C. Soler, L’epoca dei traumi. L’époque des traumatismes, Biblink, Roma 2004. 19. Fenomeno clinico inquietante sorto in Giappone e ora molto più esteso. Adolescenti che si autorecludono per evitare qualunque contatto con l’esterno che non sia di tipo virtuale. 20. J. Lacan, Il seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. 1964 (1973), Einaudi, Torino 1979, p. 34.

102


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 103

cessivo al citato Appunti direttivi per un Congresso sulla sessualità femminile, primo scritto compiuto sul tema, come abbiamo visto. A proposito del Seminario VII, Lacan segnala che esso costituisce un certo gradino all’interno del suo insegnamento, un gradino che sembra portarlo a un al di là di Freud. E lo fa proprio per la via stretta dell’enigma femminile. Lacan osa leggere il Freud della prima metapsicologia, quella del Progetto.21 E che cosa trova? Trova l’enigma del Nebenmensch, del prossimo simile, e il problema della sua “prima percezione”, che non si appiattisce sull’oggetto come puro e asettico perceptum, ma solleva l’interrogativo di un riconoscimento, di un orientamento. Nell’esperienza primordiale, alla prima percezione si presenta qualcosa che è del tutto esteriore, irrappresentabile, fuori dalla presa del linguaggio, la Cosa, Altra, “primo indimenticabile Altro”. Essa è marcata da una estraneità radicale, das fremde Objekt. Perché sorga la dimensione propriamente soggettiva occorre che questa Cosa sia intaccata, smangiata, frazionata, rappresentata: in una parola catturata dal linguaggio, dalla logica significante. Già qui si insinua un soggetto della scelta, soggetto come scelta: nella Cosa di un soddisfacimento primordiale si introduce uno svuotamento, in sottrazione a una pienezza che si rivela in realtà mortifera, svuotamento che il soggetto si assume senza garanzia, nell’istante in cui si espone, si sporge a una perdita senza ritorno. L’amor cortese – cui ampiamente Lacan fa ricorso, nel Seminario VII come poi nel XX – è ciò che denuncia e insieme vela a suo modo questo vuoto della Cosa, col fare della Dama l’oggetto inaccessibile. Possiamo dire che si produce – risorsa della creazione poetica – il movimento rovescio a quello della malinconia,22 dove invece l’ombra dell’oggetto continua a proiettarsi sul soggetto, testimone di una permanenza mortifera della presenza. Il soggetto malinconico sceglie di non separarsene, non assume la perdita, per questo la perdita lo inghiotte, ne fa Tutt-uno con il suo perdersi, se così posso dire. 21. S. Freud, Progetto di una psicologia (1895), in Opere, cit., vol. II, pp. 235-236. 22. Id., “Lutto e melanconia” (1915), in Metapsicologia (1915), in Opere, cit., vol. VIII, in particolare pp. 108-109.

103


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 104

Ed è qui – nel punto più crudo della scelta – che nel seminario appare, inaspettato, il fulgore di Antigone. Nel testo di Sofocle, il suo lamento equivale alla spoliazione, alla distruzione anticipata degli oggetti a femminili, marito, figli, casa, affetti..., rinuncia a una consistenza fallica, che immediatamente precede l’incontro di Antigone con la morte, il suo andare verso la tomba. Spogliata degli ornamenti del regime edipico, la piccola Antigone si dà dunque povera,23 deserta di oggetti e per questo pronta a pagare il prezzo, a farsi radura arida nella ricca selva dei significanti familiari, lembo di scopertura e di annientamento della brillanza fallica, punto cieco – vuoto – dell’assenza di senso e di mito, S(A/),24 spazio di ricreazione ex nihilo del soggetto, di cui farsi appunto responsabile, dunque scelta di desiderio, “desiderio puro” dice gravemente Lacan, di fronte al quale Antigone dalla fredda carezza non arretra. Andare ectos atas: “al di là della Ate”, al di là del limite stabilito dalla sua appartenenza di figlia e di sposa. Antigone qui – notazione anche hegeliana – si rivendica infatti come sorella, come autadelphos. E in effetti, “la Ate che proviene dal campo dell’Altro, non appartiene a Creonte, ed è invece il luogo ove si situa Antigone”.25 La particolarità ectopica del desiderio femminile, che così si annuncia, darà avvio alla decostruzione dell’Edipo freudiano, attraverso un disvelamento 23. Cfr. le osservazioni di Lacan a proposito della “donna povera”, il romanzo di Léon Bloy citato nel Seminario VIII (J. Lacan, Il seminario. Libro VIII. Il transfert. 1960-1961, 1991, Einaudi, Torino 2008, p. 391), implicate anche dal commento alla trilogia di Claudel, ampiamente e variamente ripresa da Colette Soler, in vari scritti ora raccolti in Quel che Lacan diceva delle donne, cit. Si abbozza già in questo passaggio anche la questione del santo, che – spogliato dall’ideale – sarà preso più tardi come figura dell’analista. 24. Su questo nodo cruciale nel percorso lacaniano di identità tra la dimensione etica e quella femminile, da me a lungo lavorato, cfr., tra l’altro, Scrittura della donna, in AA.VV., Documenti di lavoro per il VI Convegno del Campo freudiano, 1993, documento a circolazione interna, pp. 69-100; “Tutt’altra cosa ancora ...”, in AA.VV., Madre Donna. Atti del VI Convegno del Campo freudiano (giugno 1993), Astrolabio, Roma 1994, pp. 27-32; Litorale femminile, in M. Mazzotti (a cura di), Sessualità femminile, Arcipelago Edizioni, Milano 1994, pp. 133-153; Etica e femminile. Questioni sull’Edipo nella donna, “Appunti”, 38, 1996, pp. 5-10; Ritorno ad Antigone. Le Antigoni e il VII seminario di Lacan, “Appunti”, 43, 1996, pp. 8-17; Ex-sistenza, destino della lettera, “La Psicoanalisi”, 20, 1996, pp. 57-59; e più recentemente, Femmes-milles, “La revue du Champ lacanien. La parenté: filiation, nomination”, 3, 2006, pp. 61-70; oltre al già indicato Fräulein, Freud-line, “L’identità freudiana della psicoanalisi e l’insegnamento di Jacques Lacan”, supplemento a “La Psicoanalisi”, 34, 1993, pp. 181-192, di cui questo lavoro è ulteriore passaggio. 25. J. Lacan, Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi, cit., p. 350.

104


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 105

progressivo di S(A/), quel significante che radicalmente manca all’Altro come al-di-là femminile del limite significante. Dirà Lacan l’anno dopo, a commento della trilogia claudeliana e della decomposizione strutturale del mito cui dà luogo: “La natura della Cosa non è così lontana da quella della donna, se non fosse che, in rapporto ai vari modi che abbiamo di accostarci alla Cosa, la donna si rivela essere sempre tutt’altra cosa ancora”.26 Clinica dei discorsi. La questione femminile quindi non metaforizza, ma è la questione dell’etica, di un’etica che sappia attraversare le condizioni post-edipiche della modernità, in cui tutti galleggiamo, ed è pertinente a quella “sovversione sessuale” che sottolineavo, come il fil rouge del testo di Soler, sovversione dei rapporti tra gli uomini e le donne, che segna il tempo del dopo Freud: ma la stessa datazione di questo “dopo” costituisce già una lettura – o una risposta – al problema. Potremmo infatti dire “dopo l’avvento della scienza moderna”, tema classico in Lacan, ma anche “dopo l’avvento del capitalismo”, o ancora “dopo la Shoah” (e ciò che dimostra, come “offerta a dei oscuri di un oggetto di sacrificio”27), o dopo che “la distruzione di un antico ordine sociale” ha mostrato a chiare lettere una radicale modificazione dello statuto del riferimento paterno della famiglia. E non è forse da lì, da questo strano melting pot viennese di forme familiari, le più diverse, che “un figlio del patriarcato ebreo” è arrivato a immaginare il complesso di Edipo, facendo nascere la psicanalisi precisamente come esito – insinua Lacan – di una crisi del padre?28 E distanziando la famiglia dalla pura realtà biologica cui sembra sovrapposta, come “sovversione da ogni fissità istintiva”.29 Preoccupazione lacaniana fin dall’inizio, dunque, che si mantiene anche nei testi sulla formazione dell’analista, sempre del 1967, additando un cedimento della psicanalisi a una ideologia familistica. 26. Id., Il seminario. Libro VIII. Il transfert, cit., p. 340 (traduzione modificata). 27. Id., Il seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. 1964 (1973), Einaudi, Torino 1979, p. 279. 28. Come “declino sociale dell’imago paterna”, in Id., I complessi familiari nella formazione dell’individuo (1938), Einaudi, Torino 2005, pp. 50-51. 29. Ivi, p. 10.

105


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 106

Per concludere, tra madre (freudiana) e figlia: donna; tra madre (del dopo Freud) e bambino: donna; tra madre e padre (della metaforizzazione lacaniana): donna; tra uomo e donna (della tradizione): donna... Questo La, questa funzione di non tutta, viene a sparigliare giochi e minuetti nelle coppie dell’universo familiare, introducendo – nell’Eros di questi legami – dell’Eteros, che fa sì che ciascuna di queste copule si decompleti, non faccia Uno, non si riduca alla malinconia dello Stesso, secondo il gioco lacaniano di Un-unien-ennui.30 Anche nell’apparecchio della famiglia post-... (post-moderna, post-freudiana, post-ideale, post-edipica, post-politica), ciascuno è comunque implicato dal suo essere nel discorso: “Non c’è – dice Lacan – la benché minima realtà pre-discorsiva, per la buona ragione che ciò che fa collettività, e che ho chiamato gli uomini le donne e i bambini, non vuol dir nulla come realtà pre-discorsiva. Gli uomini, le donne e i bambini non sono altro che significanti. Un uomo non è nient’altro che un significante. Una donna cerca un uomo a titolo di significante. Un uomo cerca una donna a titolo – ciò vi sembrerà curioso – di ciò che si pone solo via il discorso, perché, se [...] la donna n’est pas toute, c’è sempre qualcosa in lei che sfugge al discorso”.31 Occorre – da un discorso in atto, discorso “senza parole”– arrivare a interrogare le condizioni – chance, passaggi, mutamenti – dei legami sociali in essere, nei modi della regolazione operativa tra i sessi, tra i corpi, nel corpo familiare, rinnovabile forse a partire dalle novità del “campo lacaniano”.32

30. Per tradurre letteralmente: “Uno... uniano... noia”, cfr. Id., Televisione, cit., p. 84. 31. Id., Il seminario. Libro XX. Ancora, cit., p. 32. 32. Cfr. l’omonimo testo di Colette Soler, fondativo di una intera prospettiva, anche istituzionale: Campo lacaniano, “Per lettera. Materiali di lavoro FPL”, 1, 2006, pp. 89-108. In particolare: “Diciamolo dunque: non è il soggetto ad esser strutturato dal collettivo, è piuttosto il collettivo che, come il soggetto, è strutturato dal linguaggio. Da qui la pertinenza del termine di discorso per designare le modalità dei diversi legami sociali. Questa è la generalizzazione dell’ipotesi degli effetti del linguaggio: non ci sono dei legami regolati e vivibili dei corpi – poiché non si tratta più soltanto di soggetti – se non tramite l’ordine del linguaggio. Si può quindi dire, se si vuole, che il campo lacaniano non è null’altro che quello dell’efficienza del linguaggio in generale, ma a condizione di non confondere il linguaggio con il puro bla-bla e di aggiungere: del linguaggio passato nel reale, il che diventa, di colpo, tutt’altra cosa” (p. 94).

106


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 107

La sfida romantica di Lacan SERGIO BENVENUTO

Q

uando alla fine degli anni sessanta cominciai a leggere Lacan e a seguire i suoi seminari, percepii subito il suo pensiero, malgrado lo stile gongorista, come a me familiare. Da tempo coltivavo il pensiero fenomenologico nelle sue varie derive, oltre che il pensiero di Freud. Capii subito che Lacan cercava di realizzare una quadratura del cerchio che molti, allora, cercavano invano: conciliare varie passioni, in particolare la nostra ispirazione fenomenologica con la nostra attrazione per la psicanalisi. Fino ad allora i rapporti tra questi due filoni erano stati alquanto burrascosi. Binswanger aveva risolto la tensione con una sorta di schisi della propria personalità: nei suoi libri affermava una Daseinsanalyse lontana dalla psicanalisi, mentre la sua pratica clinica di fatto era psicanalitica.1 Il pensiero di Lacan ci permetteva di suturare, almeno in parte, questa schisi, rendendo compatibili nostri tropismi etici e intellettuali. Ma si dà il caso che la maggior parte degli analisti fenomenologici non riconosca Lacan come uno dei loro. E in effetti, per ricentrare tutta la psicanalisi in relazione alla soggettività trascendentale, Lacan ebbe bisogno di abbandonare un punto essenziale del trascendentalismo fenomenologico: il carattere immediato, non analizzabile, del rapporto tra il soggetto intenzionale 1. La cosa mi è stata confermata di persona da una sua paziente-allieva, Giusy Cuomo.

aut aut, 343, 2009, 107-115

107


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 108

e il suo mondo, tra il Dasein e l’altro. Lacan non può ignorare che la teoria psicanalitica è appunto analitica, che insomma Freud intende seguire l’ideale analitico della scienza: questo consiste nel riportare il complesso al semplice, nello spezzettare insomma la bella con-rispondenza tra cose e soggettività in elementi costitutivi. La fenomenologia “sconfessa la scienza” (diceva MerleauPonty2) perché per essa il senso si dà immediatamente (“siamo condananti al senso”3), mentre l’analisi scientifica decostruisce il senso, lo riporta a elementi senza senso. Tutto lo sforzo di Lacan consisterà nell’articolare una teoria-pratica che stia tra la fenomenologia (il mondo umano è irriconoscibile senza la trascendentalità) e la scienza (il mondo umano è analizzabile in parti che si intersecano). Qualcosa insomma né carne né pesce, ragion per cui egli sarà sempre attaccato sia dai fenomenologi puri sia dagli “scientifici”. Il progetto di riconsiderare il soggetto psicologico in termini trascendentalisti è illustrato in forma allegorica dalla sua ripresa del gioco ottico del mazzo di fiori e il vaso. Qui l’occh-Io (se mi si permette il bisticcio) è un punto disincarnato in rapporto a cui la scena del mondo si dispiega. Anche se, a differenza del puro occhio visivo, il soggetto lacaniano eredita il clinamen che Schopenhauer, Nietzsche e Freud hanno impresso alla soggettività: il suo essere volontà, desiderio, pulsione, libido. Il soggetto, qui indicato ancora da un puro occhio, è desiderans: non contemplazione, ma spinta. La sfida di Lacan consisterà nel mostrare come il desiderans, soggetto patetico, strutturi trascendentalmente il mondo oggettuale (non oggettivo), quel che egli desidera. In questa figura, Lacan infrange la classica distinzione tra “interno” ed “esterno” che ancora handicappa la psicanalisi dominante: il vaso, oggetto topicamente interno, accede al soggetto – come visto (leggi: suo oggetto di desiderio) – rivelandosi all’e2. M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione (1945), Bompiani, Milano 2003, p. 16: “La prima consegna che Husserl impartiva alla fenomenologia esordiente [...] è anzitutto la sconfessione [désaveu] della scienza”. 3. “Poiché siamo nel mondo, noi siamo condannati al senso”, ivi, p. 29 (corsivo dell’autore).

108


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 109

sterno, combinandosi con i fiori, ovvero con un oggetto a metà strada tra il soggetto e il mondo. (Il vaso è l’oggetto a noi celato che ritroviamo nell’altro; i fiori raffigurano l’oggetto narcisistico, sempre sospeso tra egoità e alterità.) Gli oggetti (Objekte) che per noi hanno valore, insomma, sono combinazioni inestricabili di una proiezione di oggetti soggettivi, per così dire, che appariranno nel mondo come spettacolo per noi seducente o orripilante. Ma si tratterà appunto di analizzare, ovvero di scombinare la coesione che si stende davanti ai nostri occhi come mondo (riconoscere l’eterogeneità tra vaso e fiori). Grazie a questo giochetto ottico, Lacan illustra la sua missione impossibile: fondare l’operazione analitica (scientifica) a partire dalla trascendentalità del soggetto desiderante. Questa allegoria evolve poi in un grafo noto come schema L:

a utre

(moi) a

A utre

´

(ES) S

Il puro occhio diventa qui S: alla sua trascendentalità fa eco la trascendentalità dell’Altro. Così egli trascrive il progetto della fenomenologia a cui non rinuncia: che il rapporto sé-altro non va oggettivato come relazione tra oggetti-nel-mondo, ma come relazione tra due trascendentalità complementari: S (S sbarrato) non è l’Io psichico (mondano) così come l’Altro non è la generalizzazione di qualsiasi altro empirico che incontriamo sulla nostra strada. L’uno (S) è un aldiquà radicale da ogni Sé descrivibile psicologicamente, l’altro (A) è un aldilà radicale da tutto ciò che possiamo descrivere come rapporto intersoggettivo tra io empirici. Lacan non piace a tanti fenomenologi perché denuncia la melassa intersoggettivista in cui la fenomenologia spesso cade, anche 109


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 110

se con grande successo di pubblico e di critica: il vero rapporto non è tra soggetti democraticamente validi, ma tra S e l’Altro. S e Altro sono in relazione attraverso (a´)ltro e io (a). Si tratta di due livelli intermedi, ambigui quindi (immaginari), tra soggettività e alterità trascendentali: anelli però indispensabili perché la trascendentalità del soggetto e dell’Altro non resti oziosa, vana, astratta. I due “piccoli altri” che zigzagano e rompono la bella corrispondenza tra le trascendentalità illustrano quel che pensa e dice la psicanalisi oggi dominante, chiamata non a caso object relations theory (kleiniana, bioniana ecc.) in quanto traduce la soggettività freudiana in termini di relazione tra oggetti. Attraverso questo schema, Lacan ci denuncia insomma ipso facto i limiti sia della descrizione fenomenologica, da una parte, sia della dinamica oggettuale, dall’altra: ambedue mancano l’altra dimensione, vedono solo una faccia della struttura globale. Perché in effetti queste quattro estasi disegnano un loop completo, una linea continua e discreta, che anticipa la figura così essenziale del nastro di Möbius. La psicanalisi corrente vuol vedere tutto come relazione speculare tra (a´)ltro e io (a), come rimpallo senza fine tra oggetti-sé e sé oggettivi. La fenomenologia, pro- o anti-psicanalitica che sia, vuole vedere solo la relazione reciprocamente costitutiva del Soggetto e dell’Altro, la completezza ineffabile del Mitsein. Però l’approccio freudiano di Lacan (popolare proprio perché così non-padroneggiabile) poggia sulla fenomenologia con i piedi massici dell’hegelismo. Come ha ben visto Slavoj Žižek, quello di Lacan è stato l’unico tentativo non ingenuo, serio, di ri-articolare l’intera teoria psicanalitica in termini hegeliani. Per essere più precisi: Lacan ha riletto Freud applicandogli il filtro che Alexandre Kojève gli aveva fornito attraverso i suoi famosi seminari su Hegel,4 lettura che doveva molto al primo Heidegger. 4. Kojève negli anni trenta svolse un seminario sulla Fenomenologia dello spirito che segnò una svolta per tutta la cultura francese, evento da cui essa mi pare non essersi ancora riavuta. Cfr. Matteo Vegetti, La fine della storia. Saggio sul pensiero di Alexandre Kojève, Jaca Book, Milano 1998.

110


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 111

Tutto il pensiero di Lacan fino agli anni sessanta ruota attorno a temi e nozioni che si trovano tali e quali nei seminari di Kojève: come il desiderio di riconoscimento, il desiderio dell’Altro, la dialettica del soggetto e la sua alienazione costitutiva, ecc. Insomma, per seguire Lacan occorre aver capito Hegel e Heidegger come Kojève li aveva capiti: altrimenti asserti e grafi lacaniani resteranno solo formule catechistiche per discepoli salmodianti. La teoria lacaniana è una psicanalisi fenomenologica ed hegeliana: questa è la sua forza, e anche – ai miei occhi – il suo limite. Quando si spiega l’abc di Lacan agli allievi spauriti, si comincia sempre col dire che il fulcro del pensiero del Nostro è “l’inconscio strutturato come un linguaggio”. Un apoftegma dal tenore squisitamente hegeliano. Lacan in sostanza dice: se la psicanalisi opera di fatto essenzialmente attraverso il linguaggio (ogni psicoterapia, del resto, è per definizione logoterapia) e se questo processo di parola è in grado di produrre effetti sulla vita di un analizzante,5 perché pensare che il linguaggio sia solo uno strumento per operare sull’inconscio? Non è l’inconscio, piuttosto, della stessa sostanza di quella cosa con cui operiamo su di esso, il linguaggio? Ma non bisogna prendere l’hegelismo di Lacan in senso letterale, pedantesco; non si tratta di un’applicazione del modulo triadico tesi-antitesi-sintesi. È come se Lacan interrompesse l’Aufhebung hegeliana. La dialettica lacaniana è una dialettica piuttosto della mancanza e della sua rappresentazione – ma pur sempre dialettica è. Ovvero, nel suo neohegelismo psicanalitico la mancanza originaria non viene mai superata-cancellataconservata in qualche sintesi superiore: essa produce la storia soggettiva come tentativo di superarla. Lacan è certo molto più romantico (più moderno) di Hegel: il soggetto come evento introduce nel mondo denso, senza vuoti, delle cose la mancanza – e per questa ragione il soggetto si coglierà sempre come scisso. 5. I lacaniani usano il termine analizzante al posto dei tradizionali paziente o analizzando per distinguere l’analisi da ogni atto medico e per mettere in rilievo il ruolo attivo del cliente dell’analista.

111


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 112

Quella soggettività che il positivismo mancherà sempre (perché la ridurrà sempre a oggetto da spiegare) viene descritta dal romanticismo moderno come qualcuno che mancherà sempre di qualcosa, e soprattutto di se stesso come “cosa” o rappresentazione da cogliere e possedere. Comunque, questo neoidealismo psicanalitico a un certo punto si torce e si contorce. Se, da una parte, per Lacan l’inconscio è strutturato come un linguaggio – insomma la realtà umana è strutturata a priori, ancor prima che gli esseri umani contingenti diano carne a questa struttura –, dall’altra, quel che conta per Lacan è la perdita che l’irruzione e il primato del linguaggio producono. Proprio perché l’essere umano è una creatura del linguaggio è una creatura alienata. La trascendentalità del desiderio si intrappola e si manifesta continuamente nei feticci allettanti che costituiscono la nostra vita spirituale e amorosa. Nostra madre (l’Altro) ci insegna a parlare; ovvero, se da lattanti strilliamo, la mamma ci dice “vuoi il ciucciotto!”; dà all’impulso che ci fa urlare un significante, ciucciotto. Da allora, sapremo che ciò che desideravamo era questo significante: un sapere che ci proviene dall’Altro. Ma che cosa veramente desideravamo prima che ci venisse detto che cosa desideravamo? Quale oggetto primordiale, oscuro, ci agitava? Non lo sapremo mai. Il linguaggio ci umanizza, ma a prezzo di una distorsione fondamentale che polarizzerà la nostra esistenza. Perché la vera cosa a cui miravamo sarà sempre al di qua e al di là del linguaggio che ci umanizza. Come si vede, questa psicanalisi hegeliana di fatto poggia su un’antropologia squisitamente romantica. Questo irrita tanti analisti ebrei americani, che si considerano materialisti e scientifici: “Lacan, una psicanalisi per cattolici!”. Interpretano come misticismo spiritualista la denuncia lacaniana di una mancanza originaria: quella che il logos6 (parola e pensiero) infligge al nostro essere-tra-oggetti. Il romanticismo lacaniano è in conflitto con il romanticismo 6. In greco logos significava sia pensare che dire.

112


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 113

nichilista dell’ermeneutica perché il primo tematizza una mancanza extra-soggettiva, reale, come origine e fulcro della soggettività. L’ermeneutica, invece, ha fatto proprio il motto (ironico) di Nietzsche “non ci sono fatti, solo interpretazioni” per affermare un trionfo maniacale della soggettività: la durezza del Reale e dell’Essere si scioglie nella molle dinamica storica delle interpretazioni. Questa ermeneutica nichilista influenza oggi un ampio settore della psicanalisi contemporanea, la quale è divenuta quindi “narratologica”, “relazionale”, “ermeneutica” ecc. Qui, l’inconscio si riduce a una relazione intersoggettiva, ovvero a una relazione tra discorsi: l’analista non fa che aiutare il soggetto a trovare una narrazione migliore per sé, insomma a interpretarsi in modo nuovo e più felice. Come si vede, nell’impostazione oggi alla moda è evacuata definitivamente la dimensione del Reale: l’analisi è chat interpretativo che modifica altro chat interpretativo. L’analisi non è altro che trasformazione, ovvero dare nuove forme alle proprie vite interpretanti. Per parafrasare il motto ermeneutico fondamentale, Lacan direbbe piuttosto “non esistono fatti, ma interpretazioni della Cosa”. Insomma, egli non evacua il reale, anzi, esso diventa il fulcro della soggettività. Invece la telenovela narratologica – per cui la cura consisterebbe nel sostituire un mito felice che il soggetto si racconterà al posto di un mito infelice – schiva questo fulcro di Reale con cui ogni soggettività, prima o poi, deve fare i conti. Paradossalmente, proprio la teoria dell’“inconscio strutturato come un linguaggio” si risolve in una visione “real-ista” per cui in fondo ogni soggettività ruota attorno a un Reale – un trauma costitutivo? – che non sarà mai simbolizzato né discorsivizzato. È quel che Lacan stesso chiamava il suo “misticismo”. Ma che cosa è il Reale per Lacan?7 Molti non capiscono che cosa intenda perché pensano al reale come alle cose esterne a me. Tutto ciò che costituisce il mondo domestico nel quale viviamo – ad7. Ricordiamo che il Reale è uno dei tre registri lacaniani – gli altri sono il Simbolico e l’Immaginario. Una triade di ispirazione hegeliana.

113


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 114

domesticato a oltranza dalla scienza e dalla tecnica, che hanno trasformato quasi tutte le cose in nostri strumenti – è l’Umwelt, il nostro ambiente, ovvero l’Heim, il focolare nel quale viviamo, di cui siamo parte perché esso è parte di noi. È la realtà delle cose conoscibili e prevedibili che finiscono con l’essere a nostra immagine e somiglianza. Il Reale di cui parla Lacan invece è la totale estraneità alla nostra soggettività: è impensabile, inconoscibile, qualcosa che minaccia radicalmente la nostra soggettività anche se la polarizza. È quel che qualcuno esperisce nella cosiddetta sindrome di derealizzazione: quando percepiamo finalmente la realtà come... Reale. Lacan, nel suo seminario più bello (L’etica della psicoanalisi 8), tematizza das Ding, la cosa: ognuno di noi sarebbe captato da un qualcosa di “vuoto”, unico e innominabile, che orienta la nostra vita, che ci chiama a una sorta di fedeltà incondizionata. Lacan darà più nomi a questa cosa reale attorno a cui orbitiamo: riprende il termine platonico di agalma,9 poi si focalizza sull’oggetto a piccola, comunque sempre di una cosa-mancanza oltre ogni rappresentazione linguistica si tratta. Ma questa ipostasi di una Cosa extra-soggettiva – anche se costituisce l’occhio del ciclone della soggettività – non entra in tensione con l’ottimismo hegeliano che ispira l’impresa teorica lacaniana? Se infatti il Reale è ciò che la soggettività esclude, il Reale è quel che una (ciascuna) soggettività esclude da sé, oppure è ciò che, per essenza, è escluso da tutte le soggettività? Nel primo caso, siamo sempre in una logica hegeliana: il Reale è sempre Reale-per-un-soggetto. Il Reale sarebbe un versante necessario eppure sempre specifico, che ogni soggetto implica e produce. Insomma, non è detto che il Reale mio sia anche il Reale tuo. Non a caso Lacan attribuisce al Reale la modalità dell’impossibile.10 Ora, di solito pensiamo piuttosto al Reale come al contingente, come questo tavolo su cui scrivo – “il mondo è tutto ciò che 8. J. Lacan, Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi. 1959-1960 (1986), Einaudi, Torino 1994. 9. Agalma è qualcosa di brillante dentro Socrate che capta e seduce i giovani (Simposio). Cfr. J. Lacan, Le séminaire. Livre VIII. Le transfert. 1960-1961, Seuil, Paris 1991. 10. Lacan fa uso dei quattro modi distinti dalla logica classica: il contingente, il necessario, il possibile, l’impossibile.

114


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 115

cade”.11 Il mondo reale cade dal cielo. Invece il Reale per Lacan è l’impossibile come è impossibile un quadrato rotondo, per esempio, o che due più due faccia tre. Perché Lacan pensa hegelianamente il Reale sempre a partire dalla soggettività trascendentale: Reale è ciò che per un soggetto è impossibile... eppure accade, gli cade addosso. Potremmo dire che è impossibile il contingente (non la contingenza!): ciò che gli è impossibile, appunto, integrare nel suo sistema. Ma perché una teoria in fondo così complessa – e soprattutto aperta, autoconfutabile – come quella di Lacan ha prodotto spesso, nel campo dei suoi seguaci, certi effetti di dogmatismo? E perché la stretta connessione tra la sua teoria e un certo marxismo, anche se molto di rado Lacan ha parlato di marxismo e politica? Perché sono attratti dal lacanismo, elettivamente, persone che si sentono ligie alle due chiese più importanti del Novecento, quella comunista e quella cattolica? Questa congruenza tra lacanismo e chiese consiste nell’idea – che fu già di Marx, Freud ecc. – per cui c’è una implicazione diretta tra teoria e praxis: Lacan pensava che avere la buona teoria fosse il solo modo per operare bene. Lui stesso citava la frase di Lenin “il marxismo è invincibile perché è vero”. Tra i seguaci, la lotta attorno alla verità del Maestro viene vissuta allora come lotta per l’invincibilità: la verità è potere, e il potere si regge sulla verità. Per noi, ormai, queste sono illusioni. Sappiamo oggi che teoria e pratica non sono mai l’una conseguenza lineare dell’altra, che il rapporto tra riflessione e azione è indeterminato, imprevedibile, aleatorio. Il solo modo serio di leggere oggi Lacan è quindi quello decostruttivo, che non implica la teoria con la pratica, che ne tematizza invece la tensione. L’importante non è essere lacaniani, ma fare come fece Lacan: assumere nei suoi confronti l’atteggiamento critico, insoddisfatto, che lui ebbe nei confronti della psicanalisi del suo tempo. 11. L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus (1922), Einaudi, Torino 1964, 1 (traduzione mia).

115


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 116

Lacan, i resti e noi PAULO BARONE

ra le nozioni di quella infaticabile e tortuosa officina di concetti che è il pensiero di Lacan un posto speciale va senz’altro assegnato a “oggetto a”. Si tratta di una nozione sfuggente, sottile, anonima e al tempo stesso esplosiva e dilagante, in grado di istituire particolari forme di connessione e di favorire transiti imprevedibili. All’interno dell’opera lacaniana il suo ruolo e la sua rilevanza non sono stabiliti dal principio, una volta per sempre, ma, al contrario, si definiscono e si rifiniscono gradualmente, progressivamente, per quanto, molto spesso, quasi di soppiatto e in modo non univoco. Ogni volta incidendo sul quadro complessivo, modificandone il senso quel tanto che basta da farlo sembrare anche un altro. Così, prestare attenzione alle evoluzioni dell’oggetto a finisce col coincidere con una presa d’atto dei cambiamenti e delle variazioni che hanno via via scandito il pensiero di Lacan. Forse non degli unici mutamenti che lo hanno caratterizzato, ma senz’altro di quelli che possono aiutarci per una messa a fuoco del presente in cui viviamo. Quando, allora, l’oggetto a fa la sua comparsa? Quando si fa largo l’idea che la morsa concettuale delle cose – la caduta originaria della Cosa nella logica dell’Altro – costituisce un’operazione imperfetta, non a somma zero, incompleta, e che nell’urto fondamentale con cui il linguaggio assimila l’essere, rimane piuttosto qualcosa di indigerito, un residuo, un resto. Qualcosa che condiziona l’articolazione di linguaggio e concetto. Questo “resto” è

T

116

aut aut, 343, 2009, 116-121


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 117

precisamente ciò che costituisce l’oggetto a. Non si tratta, nonostante le apparenze, di una comparsa qualunque. Non che sino ad allora non si fosse parlato di “resto”, di residuo.1 Ma in precedenza esso caratterizzava un’altra nozione, quella capitale di “desiderio”, che tuttavia – soltanto adesso è più chiaro – serviva ad animare il continuo rinvio da un significante all’altro, a lubrificare gli scambi della macchina dialettica, a sostenere le maglie legislative del Simbolico. Il resto costituito dall’oggetto a, invece, non solo non si presta a un simile utilizzo ma è anche ciò che smarcandosene, permette di osservare a distanza l’insieme di questa logica e la rete di complicità degli elementi che la compongono. È grazie all’emersione del piccolo a – e soprattutto all’incessante lavoro di sottolineatura e valorizzazione di Jacques-Alain Miller a specifico riguardo2 – che si comincia a comprendere che nel Lacan precedente ha dominato una versione simbolica del suo sistema: l’inconscio “strutturato come un linguaggio”, il soggetto svuotato e barrato dal sapere dell’Altro e divaricato tra (almeno) due significanti, il godimento sequestrato dall’istanza fallica, la sostanziale implicazione di legge e desiderio, e così via. Per quanto lacune, faglie, mancanze lo punteggino, tutto sembra convergere verso il significabile ed essere riflesso dal suo – sia pur speciale – dinamismo. Solo in virtù della comparsa dell’oggetto a, insomma, si comincia a parlare di un “altro Lacan”, di un “secondo Lacan”, di un “Lacan contro Lacan”, di un Lacan che prende a orientarsi verso il corpo pulsionale, verso il registro del Reale, verso l’Impossibile, il non-senso. Con l’oggetto a si profila “ciò che non si presta alla dialettica”, qualcosa come “una rinuncia alla via del concetto”,3 che è simultaneamente una rinuncia a una “fase” di Lacan attraverso lo stesso Lacan. Che non si tratti però di una semplice, neutrale periodizzazione ma di una torsione radicale, di un processo “autoimmunita1. J.-A. Miller, L’angoscia. Introduzione al Seminario X di Jacques Lacan (2004-2005), trad. di L. Ceccherelli, Quodlibet, Macerata 2006, p. 42. 2. Cfr. Id., Schede di lettura lacaniana (1979), in J. Lacan et al., Il mito individuale del nevrotico, a cura di A. Di Ciaccia, Astrolabio-Ubaldini, Roma 1986, pp. 73-105. 3. J.-A. Miller, L’angoscia. Introduzione al Seminario X di Jacques Lacan, cit., pp. 26-27.

117


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 118

rio”, è proprio l’inclinazione verso l’impossibile, verso il Reale a indicarlo. Un’inclinazione che giungerà negli ultimi seminari a porre il Reale in posizione dominante, dove non a caso tutto ciò che precedentemente appariva simbolicamente legato risulterà non solo rimesso in discussione, ma metodicamente disgiunto, separato: il passaggio da un significante all’altro, la penetrazione del reale da parte del sapere, la referenza o la comunicazione del linguaggio. Il reale si offrirà come “negativo del vero, in quanto non è legato a niente, è staccato da tutto e da qualsiasi cosa, non ha legge, non obbedisce ad alcun sistema e condensa il puro fatto del trauma”.4 Una volta emerso, l’oggetto a, da resto circoscritto, isolato come un’eccezione, si generalizza a tutto il corpus teorico preesistente, disfacendolo. “Lacan veramente sega il ramo su cui tutto il suo insegnamento era fondato.”5 Ebbene, questa modalità attraverso cui l’estrazione dell’oggetto a dipana e sgrana Lacan – qui succintamente riassunta – è tutt’altro che una manovra liquidatoria del suo pensiero. Al contrario, una lettura che non giustapponesse tra loro le diverse fasi di Lacan – trattandole come momenti distinti e separati –, ma vi scorresse in mezzo seguendone per intero la successione, potrebbe cogliere nella traiettoria che si viene a delineare precisamente le vicissitudini cui va incontro il simbolico via via che si confronta con ciò che gli resiste, con un “resto”. Dai primi tentativi di gestire quest’ultimo come un caso limite, alle trasformazioni che si rendono necessarie per integrarlo in una teoria complessa, qua e là forse contraddittoria ma ancora coerente, sino alle deformazioni o addirittura allo sfiguramento che essa subisce quando ogni sua procedura di “senso”, consumata ogni distanza, sembra girare a vuoto, coincidendo con “ciò che non va” e riflettendo “ciò che non funziona”, “ciò che non fa senso” suo malgrado. Questa traiet4. Id., Pezzi staccati. Introduzione al Seminario XXIII “Il sinthomo” (2004-2005), trad. di L. Ceccherelli, Astrolabio-Ubaldini, Roma 2006, p. 41. 5. Id., I paradigmi del godimento (1999), a cura di A. Di Ciaccia e S. Sabbatini, Astrolabio-Ubaldini, Roma 2001, p. 34. Il percorso di generalizzazione e di de-composizione si snoda lungo i seminari. Comincia forse nel VII, si fa chiaro nel X e nell’XI, prosegue e si generalizza nel XVII e nel XX, raggiunge il suo acme provvisorio nel XXIII, in attesa di essere definito quando saranno pubblicati tutti gli altri.

118


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 119

toria andrebbe insomma intesa nella sua positività, tanto più positivamente quanto più essa sembra perdere la linea dritta, quanto più si spezza, si attorciglia e si restringe a un punto nel tratto che va a “concluderla”. Intenderla così significherebbe valorizzare appieno il cosiddetto “ultimo insegnamento” di Lacan, che nella speranza di arrivare a toccare “un resto di reale” teneva la consueta concatenazione linguistico-concettuale immobilizzata e a gambe all’aria, pronta per un altro uso, “fuori di sé”. Un simile “obiettivo” spiega come il fallimento non sia un incidente ma “la gloria”6 dell’ultimo Lacan, così come questa impossibilità di tenere dritto, lineare, intenzionale il suo sguardo teorico rende meno casuale il fatto che abbia avuto bisogno, per delinearsi a dovere, di incrociarsi con quello di un altro, di Miller, pronto a sostenerne il rovesciamento e poi l’accecamento. L’esemplarità lacaniana di trattare il simbolico portandolo (quasi involontariamente e dunque in modo maggiormente attendibile) alle sue estreme conseguenze può contribuire a chiarire le condizioni attuali della nostra precaria scena simbolica. Nella rete ormai fitta e capillare di ossimori, paradossi, antinomie che ormai ci contraddistingue, ogni affermazione, ogni prestazione o relazione della nostra vita risulta, intimamente e inevitabilmente, contraddittoria. Concentrata nel – e consegnata al – margine esiguo e quasi invisibile che il fulmineo ribaltarsi di qualunque cosa nel suo contrario lascia ancora, per così dire, aperto. È una scena dominata – come ormai sappiamo – dal fatto che la legge è simultaneamente trasgressione, la norma allo stesso tempo eccezione, l’evanescenza stabilità, la facondia insieme mutismo, come in certe figurine dell’infanzia, che bastava inclinare appena perché un ritratto divenisse subito un altro. In questa punteggiatura contraddittoria della realtà, l’ordine simbolico è come se avesse rovesciato sul piatto tutta la sua potenziale riserva, irretendo o paralizzando così, in anticipo, anche le eventuali mosse del pensiero critico (che fare, per esempio, con la deleuziana de6. Id., Pezzi staccati. Introduzione al Seminario XXIII “Il sinthomo”, cit., p. 46. Cfr. anche Id., L’orientamento lacaniano. L’inconscio reale (2006-2007), “La Psicoanalisi”, 43-44, 2008.

119


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 120

territorializzazione qualora sia resa, insieme, una ri-territorializzazione, e che dire della “singolarità universale” di Badiou e della “parte dei senza parte” di Rancière?). Non a caso, per dare conto di questa scena, si è parlato del venir meno dell’etica del “desiderio” e dell’instaurazione al suo posto di un’etica della “pulsione”,7 del tramonto di autentici processi di soggettivazione e, invece, della trasformazione dei “soggetti” di un tempo in semplici “individui”, “consumatori”, uomini senza qualità, entità qualunque, bloom, vite amorfe “biopoliticizzate”. In termini lacaniani potremmo dire che si tratta di un soggetto che ha velocemente naturalizzato la propria barratura, che forse vive restringendosi semplicemente intorno a essa. Ma proprio la traiettoria lacaniana prima accennata indica che la costituzione di questa “nuova” etica non dipenderebbe in alcun modo da una deviazione o da una sospensione del potere simbolico, e che dunque a nulla servirebbe richiamarsi a esso, a qualche sua riserva ancora segreta, oppure a un aggiornamento, a una riforma di alcune sue prerogative per opporvisi o per contrastarla. Al contrario, pensare di ripristinare la corsa del desiderio, di lubrificare o di ritoccare lo scorrimento del concatenamento concettuale, o peggio, di riaccreditare antiche forme arrotondate di identità, significherebbe continuare a mascherare il fatto che è esattamente il pieno coinvolgimento di tutti questi elementi a produrre lo stato sfuggente, ininquadrabile, deforme e apparentemente de-simbolizzato, de-soggettivato in cui ci troviamo. Un simile stato di contraddizione, di frenetica paralisi, sarebbe insomma ancora un frutto del simbolico – benché il suo frutto più estremo – e non qualcosa da cui il simbolico si sarebbe momentaneamente ritirato, lasciandolo preda di altri poteri. Di tale stato limite, “raggiunto” dando fondo a tutte le proprie riserve, nessuna variante del patrimonio culturale saprebbe dare conto. Perché come dare conto del fatto paradossale che, proprio allorquando diventa diffusa, fibrillante e capillare, la tendenza a far-senso appaia essa 7. Cfr. S. Žižek, Il soggetto scabroso. Trattato di ontologia politica (1999), trad. di D. Cantone e L. Chiesa, Raffaello Cortina, Milano 2003.

120


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 121

stessa – non alla lunga, non in qualche angolo, non in origine, ma – contemporaneamente un non-senso? Seguendo la traiettoria di Lacan potremmo valorizzare la “gloria” di questo fallimento, la valenza positiva di un esito del genere, accettando la sfida di “ciò che non va”, di “ciò che non funziona” presente nella nostra presunta condizione di godimento e di bloom generalizzato, per quanto pericolosamente vicina alla mera distruzione. Portare il simbolico fuori di sé, riconoscere che è esso stesso a incarnare il resto, il residuo, lo scarto del reale non significherebbe affatto saltare via dal linguaggio e dal concetto, sbarazzarsene, ma destinarli, appunto, a un altro uso. Sappiamo infatti da Lacan che dal non-senso – e attraverso il simbolico – emerge, per esempio, anche “quanto vi è di singolare in ciascun individuo” (il “sinthomo”): qualcosa che Wittgenstein – con un gesto certo non identico ma analogo – chiamava “evidenze imponderabili”, come certe “finezze del tono, dello sguardo, del gesto” che presuppongono il tessuto concettuale e ne fuoriescono quali ultra-sensazioni non più ri-concettualizzabili, dunque quasi involontariamente. Attraversare il simbolico significherebbe così arrestarlo nel suo complesso: senza (pensare di) distruggerlo, prendere atto che non c’è più alcuna distanza che separi un’organizzazione simbolica e il “resto”, che essi coincidono, e dunque interrompendo il “falso movimento” con cui la coincidenza rimane celata. A vario titolo (e generalizzando un po’) quella contemporanea è un’epoca degli scarti, dei resti, delle rimanenze, delle scorie, delle evanescenze, degli stracci, della polvere (e in tal senso, potremmo dire, è l’epoca di Beckett, di Kafka, di Walser, di Benjamin, di Giacometti. Di un certo Oriente e di un certo Marx. E probabilmente di un certo Lacan: non del Lacan a proposito del “resto”, che è in grado di isolare il resto come tema, ma del Lacan che, per darne conto, finisce col disattivare il suo stesso edificio teorico, trasformandosi esso stesso per intero e senza prevederlo in un “resto”). Se questa, allora, è l’epoca degli scarti, la questione è: a quale tipo di “scarto” vorremo dare (una nuova) consistenza. Per quale opteremo. 121


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 122

L’esempio cinese MASSIMILIANO ROVERETTO

dispetto dell’apparente semplicità dell’enunciato, l’invito a “leggere Lacan oggi” reca in sé numerosi e importanti sottintesi. Come non chiedersi, per esempio, qual è il Lacan che si tratterebbe oggi di leggere? Quello degli Scritti o quello dei seminari? Il “Lacan I” – quello che “era entrato nella psicoanalisi mettendo l’accento sulla struttura di linguaggio correlativa di una parola tutta di invenzione” – oppure il “Lacan II” – quello che, “accanto all’effetto di senso, di verità o di significato”, scopre un “effetto di godimento” la cui ineludibilità lo conduce a una decisa quanto progressiva promozione del registro del reale?1 E che dire del “come leggerlo?”, o ancora delle differenti posizioni discorsive a partire dalle quali ciascuno di noi si rapporta al suo insegnamento e ai suoi scritti? Nondimeno, mi sembra che intendere queste tre parole – “leggere Lacan oggi” – nel modo più immediato, alla stregua di un’interrogazione sull’attualità e sulla valenza culturale in senso lato del suo pensiero, comporti quanto meno un vantaggio: quello di evidenziare come vi sia qui qualcosa che fa blocco e che resiste all’operazione, palesando l’impossibilità di reperire in Lacan altri elementi di attualità oltre a quello, paradossale, di una sua

A

1. Cfr. J.-A. Miller, Postfazione, in J. Lacan, Il seminario. Libro XVII. Il rovescio della psicoanalisi. 1969-1970 (1991), trad. di C. Viganò e R.E. Manzetti, Einaudi, Torino 2001, pp. 277-278.

122

aut aut, 343, 2009, 122-132


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 123

costitutiva inattualità rispetto ai modi di produzione del sapere e alle forme del legame sociale oggi dominanti. Inattualità quanto mai preziosa se commisurata all’esigenza di recuperare, in relazione a essi, non quegli spazi di autonomia e di libertà soggettiva che la psicoanalisi stessa ha contribuito a dimostrare illusori, bensì dei margini di gioco a partire da cui rimetterne in questione la chiusura. Eppure il numero dei dipartimenti di filosofia che di Lacan si occupano come di un oggetto di studio tra gli altri è in continua crescita, né mancano i tentativi di recuperarne l’opera all’edificazione di un sapere psicologico e psichiatrico di ordine generale, il cui carattere sincretico costituirebbe la migliore garanzia del suo orientamento all’efficacia terapeutica. In un suo recente intervento sulle condizioni cui starebbe avvenendo la diffusione della psicanalisi in Cina, l’analista e sinologo francese Rainier Lanselle ce ne ha offerto un campione tanto sorprendente quanto rappresentativo.2 Sorprendente in ragione dell’evidente marginalità, dal punto di vista del rinnovamento della clinica e della teoria psicanalitiche, della realtà presa in esame, al cui livello non si tratterebbe a prima vista che della divulgazione di un sapere già costituito; rappresentativo nella misura in cui gli interrogativi da essa suscitati investono di ritorno anche la situazione della psicanalisi in Occidente, con particolare riguardo al problema della trasmissione del suo sapere e quindi della sua stessa sopravvivenza. Pressoché esclusivamente radicata in ambito universitario, la psicanalisi cinese si sarebbe finora sviluppata, a cominciare dalla ricezione dei testi fondatori della disciplina, in modo essenzialmente autarchico. Lanselle si sofferma su di un caso in particolare: la pubblicazione, risalente al 2000, di un volume di Lakang xuanji (Opere scelte di Lacan), contenente diciotto dei trentaquattro testi facenti parte degli Scritti.3 Nel giudicarne la traduzione “un vasto tessuto di controsensi”, egli non solo vi ri2. Cfr. R. Lanselle, Quale posto per l’analista nella modernità cinese, “Psiche. Rivista di cultura psicoanalitica”, 1, 2008, pp. 103-116. L’originale francese si trova in “Essaim”, 19, 2007, pp. 131-146. 3. Si tratta di Chu Xiaoquan (a cura di), Lakang xuanji, Sanlian, Shanghai 2000.

123


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 124

conosce il portato dell’isolamento del suo autore – del tutto estraneo alla pratica dell’analisi e nondimeno totalmente incurante dell’esigenza di interpellare degli specialisti, giocoforza stranieri, onde riceverne le opportune rettifiche –, ma vi individua inoltre la principale ragione del suo successo editoriale, attestato dai numerosi commentari scaturitine. Commentari che, limitandosi a citarsi l’un l’altro e senza mai fare riferimento all’originale del testo di partenza né ad altre fonti esterne al dibattito, ne avrebbero dal canto loro perpetuato il rigetto; cosicché, a essere “trasmesso”, sarebbe finalmente stato meno il testo che, “impercettibilmente, il blindaggio strutturale rispetto alla [sua] lettera”,4 conformemente a una priorità del genio del commento su quello della traduzione che affonderebbe le sue radici negli strati più profondi della cultura cinese. La lingua cinese scritta, nota infatti Lanselle, disponendo non di un numero finito di lettere di per sé non significanti come al contrario le scritture alfabetiche, bensì di una serie potenzialmente illimitata di segni ciascuno dei quali autonomamente significante, non risulta fondata sul principio differenziale, senza il quale la lingua orale stessa cui essa fa da supporto non potrebbe del resto, al pari di ogni altra, sussistere. Al posto della discontinuità del significante, da Lacan notata con la scrittura S1-S2 proprio per indicare come ciascun significante sia tale unicamente in relazione a un altro, abbiamo qui l’instaurazione di un continuum analogico in virtù del quale ciascun segno, prima ancora di rimandare agli altri, rimanda al mondo.5 Come nella 4. R. Lanselle, Quale posto per l’analista nella modernità cinese, cit., p. 107. 5. Dei due sistemi di scrittura in questione, è dunque quello alfabetico soltanto a riprodurre tale e quale l’ordine strutturale evidenziato dalla linguistica saussuriana. Omologia, questa, di fondamentale importanza, se è vero che “l’ipotesi strutturalistica è analitica nel senso che ci installa, sin dall’inizio, nella frammentazione, nel senso in cui è l’opposto di ogni vitalismo, di ogni globalismo. E quindi comporta quel che Lacan ne trae: nella misura in cui il soggetto è soggetto al linguaggio, è già morto” (J.-A. Miller, S’truc dure, 1985, in A. Di Ciaccia e S. Sabbatini, a cura di, I paradigmi del godimento, Astrolabio-Ubaldini, Roma 2001, p. 46). L’esplicita indicazione di una “identità di struttura tra la lettera e il significante”, in virtù della quale “il loro essere è differenza”, si trova nell’introduzione di Moustapha Safouan al secondo volume della Lacaniana da lui stesso curata (Lacaniana. Les séminaires de Jacques Lacan 1964-1979, Fayard, Paris 2005, p. 19).

124


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 125

paranoia, in essa tutto fa senso,6 senza che nella catena si produca mai la beanza necessaria affinché il soggetto possa rappresentarvisi nella forma dell’S. Richiamandosi all’idea di Fethi Benslama secondo cui la traduzione consisterebbe in una sorta di “messa a morte”, in virtù della quale “il corpo di lettere della lingua di partenza” scomparirebbe per ricomparire poi “nel corpo di lettere della lingua di arrivo”,7 Lanselle conclude così che proprio questo ripetersi di quanto è oggetto di traduzione in corpi fonematici differenti sarebbe, nella lingua cinese scritta, a priori interdetto, in ragione della sua natura ideografica costitutivamente impossibilitata a recepire l’istanza della lettera.8 Da cui l’inevitabilità del blindaggio di cui sopra nonché l’ingiunzione, a esso correlativa, a interpretare senza fine e senza resti. Intimamente vocato al monolinguismo, il sistema di scrittura adottato in Cina non avrebbe insomma potuto evitare di svolgere la funzione “colonizzante” da esso finora effettivamente esercitata, volta a elidere la persistenza in seno alla lingua, alla cultura e alla tradizione cinese di qualsivoglia apporto esogeno, e della quale la psicanalisi altro non sarebbe che l’ultima vittima.9 6. A proposito di questa analogia, la cui discussione ci porterebbe, sebbene nel medesimo senso in cui stiamo procedendo, lontano, cfr. J.-A. Miller, Della natura dei sembianti (corso tenuto presso l’Università di Parigi VIII, lezione del 4 dicembre 1991), trad. di R.A. Gentile, “La Psicoanalisi”, 13, 1993, pp. 175-180. 7. F. Benslama, La psychanalyse à l’épreuve de l’islam, Flammarion, Paris 2002, pp. 124128 (citato da R. Lanselle, Quale posto per l’analista nella modernità cinese, cit., pp. 105106). 8. Si veda, a questo riguardo, la seguente affermazione di Lacan: “Credo bene che Joyce non sia leggibile – certamente non è traducibile in cinese. Che cosa succede in Joyce? Il significante arriva a infarcire il significato. È per il fatto che i significanti si incastrano, si compongono, si sovrappongono – leggete Finnegan’s Wake – che si produce qualcosa che, come significato, può apparire enigmatico, ma che è appunto quanto c’è di più vicino a quel che ci tocca di leggere a noialtri analisti, grazie al discorso analitico – il lapsus. È in qualità di lapsus che ciò significa qualcosa, cioè che può leggersi in una infinità di modi diversi. Ma è appunto perciò che ciò si legge male, o si legge di traverso, o non si legge affatto” (Il seminario. Libro XX. Ancora. 1972-1973, 1975, trad. di S. Benvenuto e M. Contri, Einaudi, Torino 1983, p. 36). 9. Occorre peraltro precisare che la nozione di lettera cui si fa qui riferimento non è quella da Lacan per la prima volta formulata in Lituraterra, testo in cui la materialità del supporto linguistico è descritta, con particolare riferimento all’arte orientale della calligrafia, nei termini di un litorale, ovverosia della “cancellatura di nessuna traccia che sia stata da prima”, la cui produzione equivale alla riproduzione di “quella metà senza paio con

125


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 126

Vale a dire che ciò di cui Lanselle denuncia l’elisione a opera della koiné psicanalitica stabilitasi in Cina è, attraverso la lettera, quel buco che, sebbene reperibile unicamente a partire dall’ordine simbolico, lo decompleta e ne interdice la totalizzazione, precludendo in tal modo al soggetto ogni possibilità di rappresentarvisi come indiviso nonché, sul piano della cura, quella di intenderne il compimento come “l’avvento di un soggetto che si è liberato dall’inconscio, assimilabile alla figura tradizionale del saggio” – o, come potremmo anche dire, di un maître. Quasi che, “ad aver operato una scissione su una indivisione soggettiva perduta” e ad averla di conseguenza “collocata dalla parte di un passato idealizzato”, fosse stata la modernità, conformemente a una concezione che accomuna la posizione di alcuni settori della psichiatria cinese a quella di chi, in Occidente, propone come soluzione dei problemi della postmodernità l’opzione “di un pensiero altro”, “miracolosamente ritrovato” magari “proprio sul versante della ‘tradizione cinese’”. Ma non è questo – si chiede Lanselle – quanto di più contrario all’esperienza dell’analisi, se è vero che “l’obiezione di un particolarismo culturale che costituirebbe un’eccezione” appare ogni volta secondo la forma del “sì/ma” (“Sì, ma in Cina...”) e che tale forma è quella con cui si fa ordinariamente obiezione alla castrazione strutturalmente intesa quale separazione del soggetto dal significante che lo rappresenta?10 Eccoci dunque al punto: elidendo la dimensione della lettera, il soggetto invoca l’eccezione alla regola della divisione che gli consentirebbe di immaginarsi intero, disconoscendo nell’Altro, cui il soggetto sussiste” (J. Lacan, Lituraterra, 1971, trad. di M. Mazzotti e E. Perella rivista da A. Di Ciaccia e C. Mangiarotti, “La Psicoanalisi”, 20, 1996, p. 15). Non si tratta cioè qui ancora di far positivamente apparire ciò che di reale insiste nel soggetto o, come Lacan altrove si esprime, “ciò che cessa di non scriversi”, bensì soltanto di accentuare, della lettera, quel carattere che solo le consente di fungere da supporto di un’articolazione significante. Il che non significa tuttavia farne il luogo del dispiegamento di un senso passibile di divenire pieno, bensì, all’inverso, rimarcare come proprio attraverso la dimensione della letteralità si renda presente l’insuperabilità della condizione di scissione con la quale l’identificazione soggettiva stessa, a partire dal riconoscimento della barratura del grande Altro, viene per Lacan a coincidere. 10. R. Lanselle, Quale posto per l’analista nella modernità cinese, cit., pp. 108-109.

126


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 127

in relazione al quale tale miraggio di pienezza si produce, il marchio di un’incompletezza e di un’inconsistenza che è anche la propria. Da cui la perfetta identità riscontrabile tra la formula linguistica isolata da Lanselle e quella da Octave Mannoni indicata per la Verleugnung feticistica: “Sì, lo so, ma comunque...”.11 Stando infatti al Freud del 1927, il feticcio altro non è che “il sostituto del fallo della donna (della madre)”, la credenza nella cui esistenza diviene per il bambino irrinunciabile proprio a partire dal momento in cui essa è scossa da una percezione di segno opposto, che gli appare inverare la minaccia della castrazione. In relazione a essa, la Verleugnung, ovverosia il disconoscimento del dato percettivo, costituirebbe peraltro una risposta del tutto normale e quindi un momento obbligato del processo di soggettivazione, a condizione tuttavia che essa si risolva con la rinuncia alla fede nell’effettiva esistenza di un siffatto pegno di completezza. Nella maggior parte dei casi la castrazione finirebbe cioè per essere accettata dal soggetto per il tramite dell’Edipo, laddove il feticista ne farebbe economia ipostatizzando l’oggetto della sua credenza, con una manovra a riprova della cui efficacia starebbe il fatto che “solo in rari casi esso [il feticcio] è vissuto come un fattore di sofferenza”, né “occorre aspettarsi” che le persone la cui scelta oggettuale ne è dominata “si rivolgano all’analisi”.12 Viene allora da chiedersi se non sia lecito parlare, a proposito della situazione cinese, di una feticizzazione del sapere analitico, da intendersi come sua conversione forzosa in una dottrina che si sosterrebbe autonomamente, ovverosia come “presenza di un discorso sulla psicoanalisi, ma senza il discorso dell’analista”, di cui si tratterebbe all’opposto di scongiurare l’instaurazione.13 Indifferente al fatto che gli stessi testi freudiani siano

11. Cfr. O. Mannoni, Sì lo so, ma comunque... (1964), in La funzione dell’immaginario. Letteratura e psicoanalisi (1969), trad. di P. Musarra e L.M. Cesaretti, Laterza, Bari 1972, pp. 5-29. 12. S. Freud, Feticismo (1927), in Opere, a cura di C.L. Musatti, Boringhieri, Torino 1967-1980, vol. X, pp. 491-492. 13. R. Lanselle, Quale posto per l’analista nella modernità cinese, cit., p. 104.

127


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 128

stati tradotti dall’inglese, nutrita di antologie e compendi invariabilmente miranti all’essenziale della dottrina, ostinatamente sorda alle istanze della dimensione clinica, la psicanalisi cinese si sarebbe insomma finora limitata a tenere una variante di quello che per Lacan è il discorso universitario, il cui matema egli ottiene nel Seminario XVII facendo compiere al tetrapode del discorso del padrone un quarto di giro in senso inverso rispetto a quello che conduce alla produzione degli altri discorsi. Non fosse che, nella misura in cui l’S1 del significante padrone viene a occuparvi il posto della verità e l’S2 del sapere quello della dominante o dell’agente, il matema del discorso universitario mostra chiaramente di costituirne al contempo la trasformazione e, per certi versi, l’ulteriore chiusura:14 l’oggetto a, che nel discorso dell’analista causa il desiderio, vi è letteralmente messo a lavoro e conseguentemente reintegrato al funzionamento dell’istituzione; mentre l’S vi è di converso relegato nel posto della produzione ma pure dello scarto, ove non potrà che vedersi convertito in una pienezza tanto falsa quanto irrisoria. Ciò che in Cina si rivelerebbe nella forma di “una oscillazione storica: dall’epoca maoista, tempo di eccezionalità del capo, a quella dei piccoli maestri [maîtres], l’epoca dei riformatori e della cosiddetta politica ‘d’apertura’, in cui ci troviamo ancora oggi, a partire da Deng Xiaoping”.15 Ma è evidente che questa demoltiplicazione della padronanza attraverso il discorso universitario, i cui eventuali effetti di indebolimento sono ampiamenti compensati dalla pervasività che esso le attribuisce, “certamente ha degli equivalenti altrove”.16 Tanto più che il feticismo propriamente detto non costituisce af14. Cfr. J. Lacan, Il seminario. Libro XVII. Il rovescio della psicoanalisi, cit., p. 210: “Passiamo ora alla domanda di sapere in che modo questa società, cosiddetta capitalistica, possa permettersi il lusso di concedersi un allentamento del discorso universitario. Eppure questo discorso non è che una di quelle trasformazioni che cerco di esporvi per filo e per segno. È il quarto di giro in rapporto al discorso del padrone. Da ciò deriva un problema che vale la pena di essere esaminato – esagerando in questo allentamento che è, diciamolo pure, offerto, non si cade forse in una trappola?”. 15. R. Lanselle, Quale posto per l’analista nella modernità cinese, cit., p. 108. 16. Ivi, p. 104.

128


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 129

fatto l’unica forma di fissazione della Verleugnung al di là della soglia che l’Edipo dovrebbe rappresentare per l’accettazione della castrazione. Anche qualora il soggetto ne sopporti la prova – osserva Mannoni – ciò non va infatti mai senza il prodursi di un sentimento di perdita irredimibile, ad assicurare la cui compensazione provvederebbero apposite forme di credenza, in cui ad aver conservato l’illusione di pienezza sarebbe non il soggetto, bensì un altro mistificato e in quanto tale oggetto di un’identificazione surrettizia. Facendo credere all’altro – per esempio al bambino che aspetta la venuta di Babbo Natale – ci risparmieremmo insomma “il panico”, a detta di Freud foriero di “conseguenze illogiche non dissimili” da quelle in cui per un attimo si perde il soggetto alle prese con la castrazione, che sperimentiamo “quando qualcuno grida ai quattro venti che il trono e l’altare sono in pericolo”.17 Poco importa insomma se l’agalma, l’oggetto prezioso, non è nelle nostre mani; ciò che in fondo conta è che vi sia qualcuno cui possa esserne supposto il possesso. La posta in gioco è la medesima che si trova per esempio nella passione degli occidentali per il Tibet, da Slavoj Žižek identificato con ciò che per noi rappresenta l’oggetto inaccessibile, la Cosa la cui comprensione sarebbe del resto negata, per colmo di paradosso, proprio ai tibetani, i quali non avvertono affatto nel proprio paese quel fascino di cui gli occidentali, con un gesto la cui forma stessa è eurocentrica, quanto più cercano di cogliere l’essenza tanto più perdono le tracce, e questo inevitabilmente, nella misura in cui il suo oggetto altro non è che lo schermo delle nostre proiezioni ideologiche.18 Ponendo nell’alterità della Cina o di un qualunque altro luogo la soluzione della condizione di scissione soggettiva che è la nostra, e alla cui riduzione ci adoperiamo peraltro alacremente perseguendo il possesso di quella moltitudine degli oggetti a alla cui produzione la nostra società con dovizia provvede, non

17. Si vedano i testi citati di Mannoni e Freud, alle pp. 14 e 492 rispettivamente. 18. Cfr. S. Žižek, Credere (2001), trad. di M. Senaldi, Meltemi, Roma 2005, pp. 123130.

129


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 130

facciamo che perseguire un fantasma: lo stesso che i cinesi vedono a loro volta incarnato dalla psicanalisi, in quanto la suppongono in grado di restaurare la pienezza di una condizione originaria ugualmente perduta, con la sola differenza che essi la collocano in un altrove di preferenza temporale. E poco importa se nello schermo da esso fornito vi sono, come per esempio nello spazio bianco che separa i piccoli caratteri a stampa di uno scritto venuto da fuori, degli strappi: questi saranno sempre passibili di sutura, tanto attraverso un’operazione di tipo preventivo come quella messa in campo dalla scrittura cinese quanto mediante la costruzione di un orizzonte di sapere la cui promessa di organicità è declinata al futuro come nel discorso universitario. Alla fine, per sostituire all’angoscia che promana dagli squarci, o più semplicemente dalle intermittenze che si producono nel tessuto del sapere, la presenza di un senso pieno, garantito magari dall’autorità dell’interprete o del commentatore, è sufficiente aprire la bocca e parlare. Con l’aggravante che, come Lacan stesso ricordava agli studenti di Vincennes chiedendo loro se non fossero per caso afasici, non se ne può fare a meno.19 Vale a dire che non esiste alcun fuori, e che in nessun caso ci è dato sottrarci all’onnipresenza dell’istituzione? Che, in un’epoca segnata dal dilagare del discorso del padrone e dei suoi avatar siamo più che mai condannati a essere attuali, al passo coi tempi? Sì e no, ed è Lacan stesso – credo – a essere lì per dimostracelo. È infatti indubbio che, nel momento stesso in cui, oggi, lo leggiamo, non possiamo evitare di ricavarne un sapere passibile di entrare come gli altri in un ciclo di produzione e consumo mai prima d’ora così esteso – alle tesi, alle pubblicazioni e alle lezioni di ieri essendosi ormai aggiunti festival sedicenti filosofici e non, convegni per addetti ai lavori e appassionati, video, siti Internet ecc. Ma è altrettanto indubbio che, nel farlo, ci rendiamo conto che la cosa non funziona, che rimane sempre un resto, un residuo che non si lascia sciogliere in senso per il sempli19. J. Lacan, Analyticon, allegato a Il seminario. Libro XVII. Il rovescio della psicoanalisi, cit., p. 257.

130


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 131

ce fatto che non c’è forse nulla da sciogliere. Ci accorgiamo, anche, di come quella degli Scritti approntati per essere “letti” ma non per essere “capiti”, “che non è per niente la stessa cosa”,20 non fosse affatto una boutade, bensì l’istruzione fondamentale per farne buon uso: tenere presente che quanto essi sono deputati a trasmettere è ciò che sta tra le righe, e che se quanto sta tra le righe è il più delle volte quel sottinteso la cui comprensione ci assicura di essere – come diceva Freud a proposito del motto di spirito – della parrocchia, non è tuttavia escluso che tra le righe passi talora tutt’altro. Penso qui a un passo del Seminario XVIII in cui Lacan lamenta il fatto che nei suoi grafi si fosse voluto scorgere delle formule perfettamente autosufficienti e funzionali piuttosto che le spoglie di un detto di cui stavano viceversa a testimoniare l’insopprimibile inadeguatezza.21 Ma penso anche e soprattutto all’avvertimento di Jacques-Alain Miller su come, dall’impossibilità da Lacan asserita di dire il vero sul vero, non sia affatto da trarre la conclusione, accomodante quanto consolatoria, che la cattiva moneta scaccia sempre la buona e che tra le due non c’è quindi differenza; bensì quella secondo cui, nella situazione analitica, non si fa esperienza del dire quel che si vuole se non per sperimentare da ultimo un limite, una condizione di aporeticità che sola ci permette di avvertire la presenza del reale, consegnandola all’anfibologia di una formula di impasse – la famigerata passe.22 La scommessa è insomma quella che l’opera di Lacan costituisca, prima ancora che la teorizzazione di un evento che si produrrebbe unicamente all’interno della situazione analitica, il luo20. Id., Il trionfo della religione (conferenza del 29 ottobre 1975 al Centre culturel français di Roma), in Dei Nomi-del-Padre, seguito da Il trionfo della religione (2005), a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2006, pp. 101-102. Cfr. anche Id., Il seminario. Libro XX. Ancora, cit., p. 26: “È abbastanza noto che, questi Scritti, non li si legge facilmente. Posso farvi una piccola confessione autobiografica – è precisamente quel che pensavo. Pensavo, forse è fin qui che arrivavo, pensavo che non erano da leggere”. 21. Cfr. Id., Le séminaire. Livre XVIII. D’un discours qui ne serait pas du semblant. 1971, Seuil, Paris 2006, p. 62. 22. Cfr. J.-A. Miller, Della natura dei sembianti (corso tenuto presso l’Università di Parigi VIII, lezione del 22 gennaio 1992), trad. di R.A. Gentile, “La Psicoanalisi”, 14, 1993, p. 118.

131


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 132

go di un’esperienza di lettura il cui esito dovrebbe configurarsi in analogia a essa: come una raggiunta capacità di rapportarsi al sapere non come alla promessa di un senso che pure non tarderà a venire, e che è anzi già da sempre a disposizione, ma come alla chance di un colpo a vuoto o di un tempo perduto. Ciò che, bisogna pur dirlo, non è certo all’ordine del giorno.

132


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 133

“Non ne so niente” GIOVANNI PILASTRO

I do not know all my knowledge and I know this is my strength. Leonard Cohen Le non-savoir est fin et le savoir moyen. Georges Bataille

Q

ual è il sapere della psicanalisi? Con che tipo di sapere si ha a che fare in analisi? Chi è il soggetto tenutario, o supposto tale, di questo sapere? Insomma, cosa si intende quando si parla della psicanalisi come di una pratica di sapere? Domande, queste, che ci rinviano direttamente allo statuto stesso della psicanalisi e alla natura di quanto le è più proprio, ovvero ciò che Freud ha chiamato inconscio. Quello della psicanalisi è infatti un sapere che ha a che fare con l’inconscio. Ma cos’è un sapere inconscio? O sarebbe più giusto dire un “sapere” dell’inconscio o sull’inconscio? A livello intuitivo la nozione di inconscio come non conscio sembra in quanto tale contraddire e smentire di fatto l’ipotesi di un sapere in quanto non saputo. Che cos’è infatti un sapere che non si sa? Non si tratta semplicemente della consapevole ignoranza di sapere di non sapere, quanto piuttosto di un sapere che non si sa di sapere,1 o meglio un non-sapere di sapere. In tal senso esiste uno iato tra il sapere, in quanto inconscio, e la conoscenza, in quanto cosciente. Come infatti ricorda Lacan, “l’inconscio tanto meno sovverte la teoria della conoscenza in quanto con essa non ha niente a che fare”.2 Ora, un sapere che non si 1. Lacan parla di un “savoir qu’on sait sans le savoir” (J. Lacan, Le séminaire. Livre L’insu que sait de l’une-bévue s’aile à mourre.1976-1977, lezione del 21 dicembre 1976, inedito). 2. Id., Radiofonia (1970), in Radiofonia. Televisione. L’itinerario di una ricerca (1974), Einaudi, Torino 1982, p. 36. XXIV.

aut aut, 343, 2009, 133-144

133


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 134

sa rinvia per l’appunto a un sapere che, pur restando tale, non si conosce, si ignora. Si tratta di un sapere di cui, come dice Freud, “dobbiamo supporre l’esistenza – per esempio perché la deduciamo dai suoi effetti – ma del quale non sappiamo nulla”.3 Una supposizione, dunque, e un non-sapere. È nell’oscillazione fra queste due modalità interne al sapere stesso – quella che Lacan definisce come “l’ambiguità del termine sapere”4 –, tra l’inconscio (sostantivo) come sapere e un sapere inconscio (aggettivo), che deve cogliersi lo statuto più proprio del sapere implicato nella psicanalisi, come un sapere che non si sa: l’ambiguità del termine inconscio che, in quanto sapere,5 è un sapere inconscio cioè non saputo. Ora, si può non sapere cosa voglia dire una certa cosa e però sapere che questa vuole dire qualcosa, o meglio supporre che voglia dire, che significhi qualcosa: si suppone cioè che a un nonsapere corrisponda un sapere. Di fronte a un sogno, per esempio, non si sa quale sia il suo significato ma si sa che qualcosa significa, o almeno lo si crede. E chi crede in questo sapere? Si potrebbe rispondere: coloro i quali, decidendo di intraprendere un’analisi, domandano di sapere, avanzano un desiderio di sapere, di sapere qualcosa sul proprio sapere inconscio. Questo è di fatto, come dice Lacan, “ciò che ci si aspetta da uno psicoanalista”,6 ovvero che sappia “far funzionare il proprio sapere in termini di verità”,7 nei termini cioè di un saper dire il vero sul sapere dell’inconscio, dal momento che, come scrive lo stesso Lacan, “la verità non serve a niente se non a fare il posto in cui si denuncia questo sapere”.8 È questa la “fiducia” che gli viene 3. S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni) (1932), in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 2003, vol. XI, p. 182 (corsivi miei). 4. J. Lacan, Il seminario. Libro VIII. Il transfert. 1960-1961 (1991), Einaudi, Torino 2008, p. 421. 5. Per Lacan, infatti, “l’inconscient ne se conçoit d’abord que de ceci: que c’est un savoir” (Le séminaire. Livre XXI. Les non-dupes errent. 1973-1974, lezione del 23 aprile 1974, inedito). 6. Id., Il seminario. Libro XVII. Il rovescio della psicoanalisi. 1969-1970 (1991), Einaudi, Torino 2001, p. 60. 7. Ibidem. 8. Id., Nota italiana (1973), “La Psicoanalisi”, 29, 2001, p. 13.

134


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 135

accordata nei termini di “soggetto supposto sapere”, di soggetto cioè supposto detenere il sapere sull’inconscio: come ricorda infatti Lacan, “noi [analisti] siamo interrogati in quanto sappiamo”,9 ovvero in quanto si suppone – Lacan dice “c’è una supposizione”10 – che l’analista sappia qualcosa circa il “segreto unico” di chi domanda l’analisi. Una “posizione”, questa, destinata però a cadere in quanto appunto solamente supposta al momento di cominciare l’analisi. Di fatto si prospetta invece una separazione sostanziale tra “quel che [...] c’è da sapere”11 e “quel che sa”12 effettivamente l’analista, il cui sapere operativo assume piuttosto i caratteri socratici di un sapere di non sapere, o meglio di un saper fare a meno del sapere. Se infatti la psicanalisi ha a che fare con l’inconscio come un non-sapere di sapere, l’analista dovrà in qualche modo saper non-sapere. Ciò comporta che il luogo occupato dall’analista – che Lacan chiama “posizione dell’analista” – non coincide con il luogo del sapere supposto: ne consegue perciò che quello che viene a occupare l’analista è ciò che Lacan chiama il “posto del non-sapere”.13 Da un lato un sapere supposto, dall’altro un non-sapere. Quella che si delinea è dunque un’oscillazione fra un “+” di sapere (un plus-de-savoir su cui si investe e si scommette nella pratica analitica al momento di istituire la relazione transferale) e un “-” di sapere (una manque-à-savoir come quella pratica di riduzione e sottrazione del “sapere” che si “desuppone”14 nella destituzione del “soggetto supposto sapere”). Ora, è con queste due polarità del sapere che l’analista deve, in qualche modo, saperci-fare, servirsene, come dice Lacan, nel modo giusto. Si tratta dunque di un ulteriore statuto del sapere analitico che è più un saper-fare che un sapere in senso proprio, un’etica più che una teoretica, l’etica appunto della psicanalisi – per come è venuto declinan9. Id., Il seminario. Libro VIII. Il transfert, cit., p. 291. 10. Ivi, p. 292 (corsivo mio). 11. Id., Proposta del 9 ottobre 1967 (prima versione) (1967), “La Psicoanalisi”, 15, 1994, p. 16. 12. Ivi, p. 17. 13. Ivi, p. 16 (corsivo mio). 14. M. Focchi, Il setting, “La Psicoanalisi”, 35, 2004, p. 118.

135


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 136

dola Lacan nel suo celebre seminario omonimo –, un’etica alla quale ogni analista, affinché “operi in modo corretto”,15 deve attenersi “non cedendo sul proprio desiderio” ovvero non cedendo sul proprio “desiderio dell’analista”. In tal senso il “desiderio dell’analista” corrisponde a questo saperci-fare dell’analista con il sapere della psicanalisi o con la psicanalisi in quanto sapere solamente supposto. Per Lacan infatti il “sapere in gioco”16 nella psicanalisi è un sapere supposto che implica un modo giusto di servirsene, quello cioè che co-risponde al “desiderio dell’analista”. Questo modo giusto di saper-fare con il sapere pone, come detto, l’analista nel “posto del non-sapere” – quello che lo stesso Lacan aveva definito come il “vuoto al centro del sapere”17 –, che di fatto è quello da cui si enuncia il “desiderio dell’analista”. Ciò che muove infatti l’analista non è, come invece è per l’analizzante, un desiderio di sapere (un “+” di sapere), quanto piuttosto un desiderio, il “desiderio dell’analista” appunto, che per certi versi è al contrario un desiderio di non-sapere (un “-” di sapere). È questo infatti il senso della dichiarazione programmatica che apre il Seminario XX, nella quale Lacan afferma provocatoriamente di essere mosso, nell’avanzamento “faticoso” del suo insegnamento, da qualcosa “dell’ordine del non ne voglio sapere”.18 Quello che Lacan esprime è di fatto un desiderio di non-sapere, un voler non-sapere che mira quindi a un saper non-sapere, dal momento che, come ricorda lo stesso Lacan, “tutto ciò che si opera nel campo dell’azione analitica è anteriore alla costituzione del sapere”.19 In tal senso, il “desiderio dell’analista” è anteriore al sapere in quanto “è il desiderio dell’analista alla fin fine ad operare nella psicoanalisi”.20 Per tale mo15. J. Lacan, Il seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. 1964 (1973), Einaudi, Torino 2003, p. 11 (corsivo mio). 16. Id., Nota italiana, cit., p. 12. 17. Id., Il seminario. Libro VIII. Il transfert, cit., p. 171. 18. Id., Il seminario. Libro XX. Ancora. 1972-1973 (1975), Einaudi, Torino 1983, p. 3. 19. Id., Il seminario. Libro II. L’io nella teoria di Freud e nella tecnica della psicoanalisi. 1954-1955 (1978), Einaudi, Torino 1991, p. 24 (corsivo mio). 20. Id., Del Trieb di Freud e del desiderio dello psicoanalista (1964), in Scritti, Einaudi, Torino 2002, vol. II, p. 858 (corsivo mio).

136


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 137

tivo Lacan è indotto a parlarne sempre nei termini, più che di una “nozione”, di una “questione” che non è in quanto tale riducibile a un “concetto” e non può perciò essere annoverata fra quei “concetti fondamentali della psicoanalisi” di cui Lacan parla nel Seminario XI. Il “desiderio dell’analista” sfugge, infatti, quale questione essenziale, alla possibilità di una sua “concettualizzazione” e rinvia perciò, più che a un sapere, a un saper-fare: un saperci-fare con il “sapere”. E in quale modo l’analista ci sa fare con il proprio sapere? O meglio, che effetti produce la tensione interpolare fra il plus-de-savoir e la manque-à-savoir su cui si sintonizza il “desiderio dell’analista”? Si potrebbe dire che per Lacan questi effetti rimandano sostanzialmente a due dimensioni della pratica analitica: da un lato la finzione implicata nel transfert, dall’altro l’invenzione a livello dell’atto analitico. Entrambi questi aspetti introducono una “scena” che è quella dell’esperienza analitica, come a Lacan piace chiamarla, della “cura”. Si tratta perciò, nella psicanalisi, di un sapere che è orientato dalla “direzione della cura”: un sapere dunque orientato a una “cura”. A questo punto ci si potrebbe chiedere, ed è lo stesso Lacan a farlo alla fine del suo insegnamento, com’è che opera questo sapere in direzione della “cura”. La risposta di Lacan, apparentemente furba ed evasiva, è invece sorprendente: “Malgrado tutto quello che ho detto un tempo – dice Lacan –, io non ne so niente. È una questione di truccheria”.21 Due gli elementi di rilievo in questa affermazione di Lacan: da un lato una esplicita dichiarazione di non-sapere, dall’altro l’introduzione di un elemento di finzione relativamente alla presunta efficacia terapeutica della psicanalisi. Il fatto di riferirsi alla pratica analitica nei termini di una “truccheria” rimanda immediatamente a quella nozione di finzione che Lacan aveva introdotto, già a partire dal Seminario VIII, relativamente al transfert pensato “come una fonte di finzione”.22 Si tratta della “finta” di quel “soggetto suppo-

21. Id., Sulla trasmissione della psicoanalisi (1978), “La Psicoanalisi”, 38, 2005, p. 15 (corsivi miei). 22. Id., Il seminario. Libro VIII. Il transfert, cit., p. 191 (corsivo mio).

137


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 138

sto sapere” che, come dice Lacan, “è qualcuno che sa [...] il trucco”,23 che sa cioè che il suo sapere è una “finta”, un sapere supposto, cioè una “truccheria” alla quale il “desiderio dell’analista” porta nel transfert a “fare finta” (faire semblant) di credervi: un sapere che è dunque un saper-fare (savoir-faire), un sapere (savoir) “fare finta” (faire semblant), un saper bluffare e truccare sul proprio sapere. Non si tratta, come specifica Lacan, di una “simulazione”, di un fingere “per davvero” (pour du vrai), quanto piuttosto di un “far finta” (faire semblant) “per finta” (pour du semblant), un “fingere di obliare”24 ciò che ogni analista, nella sua esperienza di psicanalizzante, ha sperimentato come la finzione della funzione del “soggetto supposto sapere”. Il rischio, del quale sovente secondo Lacan l’analista non si avvede, è quello di “prendersi troppo sul serio”, di credere e “cedere” cioè alla propria finzione che, come paventa Lacan, “diventa grave se diviene oblio”25 effettivo, oblio cioè di “fingere di obliare”: “La noia – dice Lacan – è che [l’analista] finisce per crederci, e questo lo blocca del tutto, vale a dire diviene imbecille”.26 L’analista dunque, affinché non finisca per credere nel proprio sapere, deve assecondare il proprio “desiderio dell’analista” che, in quanto desiderio di non-sapere, non ne vuole sapere del sapere. A questo punto, il non ne so niente, con il quale Lacan nel suo ultimo insegnamento faceva ammissione di ignoranza sul proprio sapere, assume così tutta la sua valenza operativa, quella cioè della messa in atto della “funzione-finzione” del transfert nei termini di un saper-fare, o meglio di un saper-agire che è quello proprio dell’atto analitico, il quale “non è reperibile fuori dalle coordinate transferali che organizzano la relazione analitica”.27 L’atto analitico – che, come dice Lacan, non può di 23. Id., Sulla trasmissione della psicoanalisi, cit., p. 15 (corsivi miei). 24. Id., Le séminaire. Livre XV. L’acte psychanalytique. 1967-1968, inedito, lezione del 29 novembre 1967. 25. Ibidem. 26. Id., Del discorso psicoanalitico (1972), in G.B. Contri (a cura di), Lacan in Italia. 1953-1978. En Italie Lacan, La Salamandra, Milano 1978, p. 192. 27. D. Cosenza, Jacques Lacan e il problema della tecnica in psicoanalisi, AstrolabioUbaldini, Roma 2003, p. 151.

138


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 139

fatto darsi “fuori dal maneggiamento del transfert”28 – viene a “supportare il transfert”29 nei termini di un saper-fare, di un savoir faire semblant che altro non è se non un “fare a meno” del “sapere”, “a condizione di servirsene”, di un sapersene servire facendo, come dice Miller, “sembiante di sapere”30 (semblant du savoir), ovvero accettando di divenire “lo zimbello del sembiante di sapere”.31 È a questo livello che si può intravedere la stretta relazione che intercorre tra la nozione di “desiderio dell’analista” e quella, introdotta da Lacan negli anni sessanta, di “atto analitico” nella prospettiva di un’etica dell’analista, un’etica in cui, come scrive Lacan, “lo psicoanalista si autorizza soltanto da sé”,32 rispondendo esclusivamente, potremmo aggiungere, al proprio “desiderio di analista”. Non a caso Lacan parla della nozione di “atto” proprio nei termini di un “non essere garantito” che implica un “autorizzarsi da sé da parte di colui che lo compie”.33 In tal senso l’“atto analitico” diventa per l’analista l’arte di un arrangiarsi durante l’analisi con il proprio desiderio: in un certo senso per l’analista si tratta dunque di saperci-fare con la vertigine senza garanzie del proprio “desiderio dell’analista”. L’autorizzarsi da sé comporta infatti la responsabilità di un agire non tutelato o garantito da alcuna forma di sapere procedurale: il saperci-fare con il proprio desiderio implica per ogni analista un sapersela cavare, un arrangiarsi caso per caso con il proprio sapere, dal momento che la psicanalisi in quanto sapere, come sostiene Lacan, “va rimessa in questione nell’analisi di ogni caso”.34 Si tratta perciò di una messa in questione, in ogni analisi, della psicanalisi stessa e del suo sapere 28. J. Lacan, Le séminaire. Livre XV. L’acte psychanalytique, cit., lezione del 29 novembre 1967. 29. Ivi, lezione del 17 gennaio 1968. 30. J.-A. Miller, Della natura dei sembianti (corso tenuto presso il Dipartimento di psicoanalisi dell’Università di Parigi VIII, lezione dell’8 gennaio 1992), “La Psicoanalisi”, 14, 1993, p. 104. 31. Ivi, p. 105. 32. J. Lacan, Proposta del 9 ottobre 1967 intorno allo psicoanalista della Scuola (1967), in Scilicet 1/4, Feltrinelli, Milano 1977, p. 19. 33. D. Cosenza, Jacques Lacan e il problema della tecnica in psicoanalisi, cit., p. 145. 34. J. Lacan, Variazioni della cura-tipo (1955), in Scritti, Einaudi, Torino 2002, vol. I, p. 352.

139


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 140

supposto: l’analista è chiamato di conseguenza, come dice Miller, “a disincantare i concetti fondamentali della psicoanalisi”,35 ovvero la psicanalisi stessa in quanto sapere. È il “desiderio dell’analista”, come modo giusto di saper-fare con il sapere, a operare questa pratica di “disincanto” che altro non è se non una pratica di supposizione e sospensione del sapere, così come è stato “ipotizzato” e “inventato” da Freud. Proprio per questo motivo Lacan ritiene che il sapere della psicanalisi sia “intrasmissibile”,36 cosa che rende necessario per ogni singolo analista, in ogni singola analisi, rieditare, come fosse sempre la prima volta, il gesto aurorale e solitario di Freud: “È una seccatura – dice Lacan – che ogni psicoanalista sia costretto – poiché bisogna che vi sia costretto – a reinventare la psicoanalisi”.37 Si tratta perciò di una invenzione di sapere nei termini di un saper-fare con il sapere di cui bisogna, per l’analista, imparare a “farne a meno a condizione di servirsene”,38 ovvero farci qualcosa, inventandolo. Scrive infatti Lacan: “Questo sapere non è già bell’e fatto. Occorre inventarlo”.39 È infatti lo stesso Lacan a sottolineare, nel suo ultimo insegnamento, il carattere di “ipotesi” e “invenzione” proprio dell’inconscio freudiano: “Freud, dunque, ha inventato – scrive appunto Lacan – questa storia, dobbiamo pur dire un po’ bislacca, che si chiama inconscio. L’inconscio è forse un delirio freudiano”.40 Se nel Seminario XVII (1969-1970) Lacan, parlando del mito edipico come di un “sogno di Freud”, di fatto introduce la psicanalisi in un orizzonte “al di là dell’Edipo”, alla fine degli anni settanta arriva persino a prospettare un “al di là dell’inconscio”, parlando appunto dell’inconscio come di un “delirio di Freud”, quello che Miller definisce “un’elucubrazione di sapere”.41 35. J.-A. Miller, L’insegnamento di Jacques Lacan (2001), “La Psicoanalisi”, 30-31, 20012002, p. 114. 36. J. Lacan, Sulla trasmissione della psicoanalisi, cit., p. 14. 37. Ibidem (corsivo mio). 38. Id., Il seminario. Libro XXIII. Il sinthomo. 1975-1976 (2005), Astrolabio-Ubaldini, Roma 2006, p. 133. 39. Id., Nota italiana, cit., p. 13. 40. Id., Sulla trasmissione della psicoanalisi, cit., p. 13 (corsivo mio). 41. J.-A. Miller, L’insegnamento di Jacques Lacan, cit., p. 114.

140


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 141

In questa prospettiva, come dice Miller, “il termine invenzione s’impone”42 come una produzione ex nihilo in quanto “s’inventa quello che non c’è”:43 a differenza infatti della scoperta, che trova quello che c’era già, l’invenzione invece crea qualcosa che non c’era prima. Dalla scoperta dell’inconscio all’invenzione dell’inconscio, si passa quindi – con un movimento analogo a quanto avviene di fatto durante l’analisi – dalla pre-supposizione di un sapere nell’inconscio alla sua de-supposizione che apre la possibilità della sua stessa invenzione. Ne consegue un rovesciamento di prospettiva nella “direzione della cura”: si passa infatti da una clinica garantita dalla pre-supposizione di un sapere, a una invece non-garantita in cui il sapere, in quanto non c’è, è un’invenzione. Si tratta dunque per l’analista di saper inventare il sapere, ovvero di “farne a meno” nella teoria “a condizione di servirsene” in qualche modo nella pratica. Un saperservirsene nei termini cioè di un saperci-fare: è in tal senso che è possibile parlare, come ci suggerisce di fare Miller, di un sapere pragmatico più che epistemico. Il sapere analitico di fatto è dell’ordine di un saper-fare, dell’ordine cioè, come detto, di un’etica più che di una teoretica, dal momento che per Lacan esiste un’“opposizione tra il saperfare e ciò che è epistéme”,44 in quanto “non si tratta dello stesso sapere”.45 È infatti a partire da questa opposizione che Lacan, nelle pagine del Seminario XVII, rilegge la “dialettica servo-padrone” alla base dell’affermazione storica, nella tradizione occidentale, del “discorso del padrone”, quello cioè responsabile della sottrazione al servo del suo sapere che è, ci ricorda Lacan, “prima di sapere”,46 antecedente cioè alla sua presa e alla sua articolazione all’interno del “discorso del padrone”, del “sapere da padrone”. Per Lacan infatti esistono “due facce del sapere”: da un lato il saper-fare proprio del “sapere del servo”, dall’altro 42. J.-A. Miller, L’invenzione psicotica (1999), “La Psicoanalisi”, 36, 2004, p. 24 (corsivo mio). 43. Ivi, p. 12. 44. J. Lacan, Il seminario. Libro XVII. Il rovescio della psicoanalisi, cit., p. 184. 45. Ivi, p. 35. 46. Ivi, p. 16.

141


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 142

la “faccia articolata” dell’epistéme, ovvero il sapere teorico proprio del “sapere del padrone” che presuppone un’“epurazione” del saper-fare del servo, affinché questo possa divenire “sapere da padrone”: si tratta infatti di “far passare il sapere dal servo al padrone”.47 In questo passaggio però c’è una perdita, in quanto, come segnala Lacan, “non appena qualcosa giunge al sapere, vi è qualcosa di perduto”.48 Questa perdita ha a che fare con il godimento, o meglio con il saperci-fare con il godimento, quella che si potrebbe definire come l’“etica del godimento” propria del “sapere del servo”, di quel sapere che, in quanto saper-fare, è il solo a detenere “i mezzi di godimento”, e che Lacan non a caso definisce come “mezzo di godimento”. Il “sapere del servo” è dunque un sapere pratico, o forse meglio pragmatico, il saper-fare cioè di chi detiene i mezzi, gli strumenti, gli arnesi per “arrangiarsi” con il godimento. Questo non vuol dire che il servo sia depositario di una tecnica, di un sapere tecnico applicativo: si tratta piuttosto di un “impratichirsi con”,49 come dice Lacan, ovvero di un “saper-fare con”. Dall’altra parte c’è il “sapere del padrone” che, invece, non ne sa niente di come si fa con il godimento e per di più, come dice Lacan, non ne vuole sapere niente del “sapere del servo”, anzi, ricorda ancora Lacan, “il padrone può dominarlo solo escludendo quel godimento”50 di cui il servo, come si è detto, possiede i mezzi per saperci-fare. In questi termini dunque, la “lotta”, come la chiama Hegel, tra servo e padrone, è di fatto una spoliazione e una sottrazione al servo del suo sapere da parte del padrone. Per Lacan la “scena” di questo furto è una “scena filosofica”, ovvero quella del Menone di Platone in cui “si tratta unicamente di carpire al servo la sua funzione rispetto al sapere”.51 Questa operazione del padrone è la “funzione della filosofia” come “funzione dell’epistéme” ovvero come “l’innesto del significante del padrone su questo sa47. Ivi, p. 19. 48. Id., Il seminario. Libro X. L’angoscia. 1962-1963 (2004), Einaudi, Torino 2007, p. 145. 49. Id., Il seminario. Libro XXIII. Il sinthomo, cit., p. 35. 50. Id., Il seminario. Libro XVII. Il rovescio della psicoanalisi, cit., p. 116. 51. Ivi, p. 17.

142


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 143

pere”,52 che è il saper-fare del servo, dal quale si ricava un sapere “alterato” che è il sapere asservito al “sapere del padrone”. In tal senso si potrebbe dire che il “desiderio dell’analista” non è il “desiderio del filosofo”: se infatti il “discorso filosofico”, come dice Lacan, “è l’estrazione, direi quasi il tradimento, del sapere del servo per ottenere la trasmutazione in sapere da padrone”,53 un sapere cioè che può essere “trasmesso”, ovvero che “passa dalla tasca del servo a quella del padrone”,54 il “discorso dell’analista” invece svuota le tasche del proprio sapere solo supposto, rigettando in questo modo ogni pretesa di padronanza. Come ricorda infatti lo stesso Lacan, “dovremo dirigere il nostro sguardo verso il servo, quando si tratterà di reperire che cos’è il desiderio dell’analista”.55 La valenza etica della pratica psicanalitica va quindi in un certo qual modo misurata in relazione al grado di indebolimento del sapere, messo in gioco e fatto giocare durante l’analisi, a cui mira il “desiderio dell’analista” come pratica di sottrazione e di supposizione di sapere. Fin dagli anni cinquanta era infatti chiaro a Lacan che l’analista nella sua pratica deve fare epoché relativamente al suo sapere, una messa tra parentesi e una sospensione della posizione di chi detiene il sapere suppostogli dall’analizzante. Come infatti scrive Miller: “Nella pratica analitica, quando si è analisti, bisogna saper sospendere quel che si sa”,56 è necessario cioè un “saper-fare a meno”, un indebolimento del proprio sapere. Ciò implica di fatto un sapere pas-tout, un sapere cioè che non fa totalità e nel nome del quale dunque “nessuno psicoanalista può pretendere di rappresentare un sapere assoluto”57 in quanto egli “non-sa-del-tutto”.58 Questa convinzio52. Ivi, p. 191. 53. Ivi, p. 18. 54. Ivi, p. 17. 55. Id., Il seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, cit., p. 251. 56. J.-A. Miller, L’inconscio nel momento dell’apertura (1987), in M. Focchi (a cura di), Pensare il presente. La psicoanalisi al tempo della crisi, Franco Angeli, Milano 2006, p. 26. 57. J. Lacan, Il seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, cit., p. 228. 58. Id., Il seminario. Libro XX. Ancora, cit., p. 98.

143


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 144

ne però non sottintende affatto che l’analista possa, come dice lo stesso Lacan, “accontentarsi di sapere che non sa niente, poiché si tratta proprio di quello che deve sapere”,59 ovvero saper “ignorare ciò che sa”,60 saper non-sapere. Ora, è su questo “fondo d’ignoranza” che deve prendere posto l’analista il cui sapere è un non-sapere che però, come ricorda Lacan, “non è una negazione del sapere, ma la sua forma più elaborata”.61 In questo senso la formazione dell’analista deve essere per Lacan una formazione “a questo non-sapere: senza di che non sarà mai altro che un robot di analista”.62 Questa “passione” per l’ignoranza, per il non-sapere, come direbbe Bataille, segna di fatto il passaggio da un sapere epistemico padronale a quello pragmatico del saper-fare del servo, proprio anche dell’analista. Come dice Lacan, “il non-sapere non è per modestia [...] è precisamente la produzione ‘in riserva’ della struttura del solo sapere opportuno”.63 Un “desiderio avveduto” – come Lacan definisce il “desiderio dell’analista, – in vista dunque di un “sapere opportuno”: una “dotta ignoranza”64 come “forma più elaborata” del sapere, o forse sarebbe meglio dire meno elaborata, nei termini cioè di una pragmatica, ovvero di quello che Lacan definisce come il “saper-fare analitico”.65

59. Id., Proposta del 9 ottobre 1967 intorno allo psicoanalista della Scuola, cit., p. 24. 60. Id., Varianti della cura-tipo, cit., p. 343. 61. Ivi, p. 353. 62. Ibidem (corsivo mio). 63. Id., Proposta del 9 ottobre 1967 (prima versione), cit., p. 18 (corsivo mio). 64. Id., Nota italiana, cit., p. 11. 65. Id., Il seminario. Libro XVII. Il rovescio della psicoanalisi, cit., p. 35.

144


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 145

Materiali Sull’etica della psicanalisi

I materiali qui pubblicati documentano la giornata di lavoro che si è tenuta a Milano nel marzo 2008 (L’etica della psicanalisi. Giornata di studi sul Seminario VII di Jacques Lacan), per iniziativa del Centro studi Palea e con il coordinamento di Massimo Recalcati.

145


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 146

Oltre la significazione: il non senso ANDREA BELLAVITA

1. Gesù Cristo e Harpo Marx: humour, joke Jacques Lacan non si occupa diffusamente di non senso, di pas de sens in Seminario VII: lo ha fatto qualche anno prima, in Seminario V, quando sceglie il concetto freudiano di witz, di motto di spirito, per introdurre la trattazione dell’inconscio,1 e soprattutto lo farà dieci anni dopo, in Seminario XVII, in particolare nella seduta del 21 gennaio 1970.2 È un momento importante dell’insegnamento sul rovescio della psicanalisi, che stringe in un legame profondo i due seminari, perché vi ritroviamo una serie di riferimenti a temi, e a personaggi, centrali già nel 1960: la riflessione sulla verità e la sua relazione con il godimento, Sade, Antigone. Di non senso in Seminario VII si parla soltanto due volte, e quasi di sfuggita: eppure, come spesso capita nella lettura dei seminari di Lacan (soprattutto quando è lettura eccentrica, polarizzata, più simile a una ricerca, a una caccia, che a un raccolto), è proprio nelle pieghe del testo, nelle eccentricità, nel desiderio di stupire spostando il filo dell’insegnamento verso l’eccezionalità di una performance, che si trovano alcuni tratti di folgorante interesse. Ed è proprio attraverso divagazioni, distorsioni rispetto al te1. J. Lacan, Il seminario. Libro V. Le formazioni dell’inconscio. 1957-1958 (1998), Einaudi, Torino 2004; si veda in particolare pp. 81-100. 2. Id., Il seminario. Libro XVII. Il rovescio della psicoanalisi. 1969-1970 (1991), Einaudi, Torino 2001, pp. 61-79.

146

aut aut, 343, 2009, 146-163


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 147

ma del seminario, che Lacan parla di non senso a proposito di due personaggi che ci serviranno (insieme a un terzo) come guide nel nostro percorso. E che sono personaggi di tutto rispetto: il primo è Gesù Cristo, il secondo è Harpo Marx. Sul non senso, straordinario, produttivo e fecondo, di Gesù Cristo, Lacan è molto esplicito. Sta affrontando la questione del Sommo Bene,3 e della problematicità del comandamento Amerai il prossimo tuo come te stesso, del suo senso paradossale, e dice: Non sarà certo troppo insistente la mia esortazione a scorgere, se ci riuscite, quello che nella risposta del Cristo da troppo tempo ormai sfugge a ogni appercezione auricolare, salvo a qualche orecchio accorto – se hanno orecchi per non intendere, il Vangelo ne è un esempio. Provate un po’ a leggere le parole di colui di cui si dice che non abbia mai riso – a leggerle per quello che sono. Non potrà non colpirvi, di quando in quando, un certo humour che supera tutto.4 Il riferimento agli “orecchi per non intendere” funziona qui non solo come un’evidente citazione evangelica (Marco, 4, 9), ma anche come il nodo di un percorso lacaniano, poiché lo ritroviamo in Seminario III, a proposito della psicosi, ma anche in Funzione e campo della parola e del linguaggio, in un momento di dialogo con Heidegger e con la sua teoria del linguaggio: Il solo oggetto che sia a portata dell’analista è la relazione immaginaria che lo lega al soggetto in quanto io [moi] e, non potendola eliminare, può servirsene per regolare il flusso delle sue orecchie, secondo l’uso che la fisiologia, d’accordo col Vangelo, dimostra esser normale farne: orecchi per non in3. Id., Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi. 1959-1960 (1986), Einaudi, Torino 1994, p. 120: “Freud ci dice la stessa cosa di san Paolo, ossia che non è nessun Sommo Bene a governarci sulla strada del nostro piacere, e che al di là di un certo limite siamo, rispetto a ciò che si cela in das Ding, in una posizione del tutto enigmatica, poiché non c’è nessuna regola etica che faccia da mediazione tra il nostro piacere e la sua regola reale”. 4. Ibidem.

147


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 148

tendere, in altri termini per fare la detection di ciò che deve essere inteso.5 Quello che Lacan fa qui al Vangelo, e al senso del Vangelo, è un omaggio: un omaggio, potremmo dire, al suo humour. Tra le applicazioni “umoristiche” della parola evangelica include la parabola del fattore infedele, ma si sofferma in particolar modo sulla massima di Matteo, 22, 21: ...senza contare quel formidabile joke, Date a Cesare quel che è di Cesare, e ora arrangiatevi. Uno stile paradossale, che all’occorrenza si abbandona a tutte le evasioni, a tutte le rotture, a tutte le beanze del non-senso – dei dialoghi insidiosi in cui l’interlocutore sa sempre scivolar fuori magistralmente dalle trappole che gli vengono tese.6 Proseguendo nel nostro pedinamento delle parole di Lacan, restituendogli una vita per certi versi quasi romanzesca (la stessa che Lacan spesso restituisce alla lettura di Freud), ci accorgiamo che si tratta di poco più di un lampo: con una torsione improvvisa, la traccia viene abbandonata “per tornare a quello che è per il momento il nostro tema”. Il secondo riferimento è lessicalmente meno esplicito, ma forse ancora più forte: nella seduta del 9 dicembre 1959 Lacan ha già introdotto il tema della Cosa, e sottolinea: “Per oggi voglio insistere soltanto su questo, la Cosa non ci si presenta solo in quanto fa parola, come si dice fare centro”.7 Al contrario, anzi, sembra suggerirci che la Cosa (“le cose di cui si tratta qui”) non perde la sua incandescenza quando è una cosa muta: Basta evocare una faccia che chiunque di voi avrà presente, quella del terribile muto dei quattro Marx Brothers, Harpo. C’è for5. Id., Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi (1953), in Scritti, Einaudi, Torino 1974, vol. I, p. 247. 6. Id., Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi, cit., p. 121. 7. Ivi, p. 68

148


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 149

se qualcosa che possa porre una questione in un modo più presente, più pressante, più coinvolgente, più sconvolgente, più nauseante, più fatto per gettare nell’abisso e nel nulla tutto ciò che gli succede davanti, di quanto possa farlo la faccia segnata da un sorriso, di cui non si sa se sia quello della più estrema perversità o della stupidità più completa, di Harpo Marx? Questo muto basta da solo a reggere quel clima di messa in questione e di annientamento radicale, che costituisce la trama della formidabile farsa dei Marx e del gioco di jokes senza soluzione di continuità che fa tutto il valore del loro numero.8 Di Harpo, al pari di Gesù Cristo, si potrebbe parlare come di “colui che si dice che non abbia mai riso”: “terribile muto”, è il punto pivot attorno al quale ruotano i jokes, l’humour, le “beanze del non-senso” della farsa dei fratelli Marx. 2. Fuori dal significato: das Ding ed extimité Eppure non è di non senso che si parla in Seminario VII, ma piuttosto di das Ding, del suo carattere di extimité, e della sua relazione con la sublimazione. Su questo punto, anzi, Lacan è molto chiaro: “L’impresa sublimatoria, con tutte le sue forme, non è puramente e semplicemente insensata”.9 Cercando di articolare, di far ruotare su se stessi e tra di loro questi tre termini (pas de sens, das Ding, extimité), vorremmo fare uscire le parole di Lacan dal suo testo, e usarle come chiave per interrogare il mondo esterno. Che, ancora con le sue parole, può essere descritto secondo una caratteristica particolare: un mondo in cui das Ding è “dalla parte del soggetto”. Per una volta Lacan si lascia andare a quella che lui stesso chiama una “drammatizzazione”, e spinge il suo uditorio a concentrarsi su quello che sta succedendo intorno a loro: Concentratevi su questa cosa, forse un po’ più presentificata per noi grazie al progresso del sapere di quanto lo sia mai sta8. Ivi, pp. 68-69. 9. Ivi, p. 171.

149


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 150

ta nell’immaginazione degli uomini, che non ha tuttavia perso l’occasione di scherzarci sopra – concentratevi su questo confronto col momento in cui un uomo, o un gruppo di uomini, può far sì che la questione dell’esistenza venga tenuta in sospeso per la totalità della specie umana, e vedrete allora, all’interno di voi stessi, come das Ding in quel momento si trovi dalla parte del soggetto.10 La cosa su cui chiede di concentrarsi è la minaccia nucleare (siamo nei primi mesi del 1960), ma questo statuto sembra ancora tremendamente funzionale a descrivere il nostro presente. E non soltanto il nostro presente sociale, o socio-politico: il mondo verso il quale vorremmo provare a traghettare la parola di Lacan è il mondo dell’arte contemporanea, dal momento che Seminario VII è il seminario dell’etica della psicanalisi, ma anche quello dell’estetica della psicanalisi. Das Ding è al centro della riflessione di Lacan e la sua introduzione, e formulazione teorica, partecipa in maniera centrale alla svolta epistemologica di Seminario VII, e precisamente alla definizione del rapporto che il reale intesse con il simbolico e il linguaggio. La sua caratteristica fondamentale è infatti quella di essere “fuori di significato”, irriducibile tanto all’ordine simbolico quanto a quello immaginario: la Cosa è, in quanto tale, irrappresentabile, e attraverso di essa il registro del reale iscrive la sua centralità rispetto al registro del simbolico e dell’immaginario. La Cosa è eccentrica ed eccessiva rispetto ai due registri: è la via attraverso la quale il reale mette in scena, esprime, il suo statuto di eccedenza, e di frattura delle pratiche (immaginarie o linguistiche) di rappresentazione. Per questa ragione, trattando di un oggetto “fuori significato”, Lacan riconosce quale definizione fondamentale per la Cosa di “patire del significante”:

10. Ivi, p. 132.

150


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 151

Se la Cosa non fosse fondamentalmente velata, non saremmo con essa in una modalità di rapporto che ci obbliga – come tutto lo psichismo vi è obbligato – a circoscriverla, e addirittura a farne il giro, per concepirla. Laddove si afferma, lo fa in campi addomesticati. È proprio per questo che i campi sono definiti tali – essa si presenta sempre come unità velata. Diciamo oggi che se essa occupa questo posto nella costituzione psichica che Freud ha definito sulla base della tematica del principio di piacere, il fatto è che questa Cosa è quel che del reale – intendete qui un reale tale che non abbiamo ancora da limitarlo, il reale nella sua totalità, tanto il reale che è del soggetto che il reale con cui egli ha a che fare come esterno a sé – è quel che, del reale primordiale, diciamo, patisce del significante.11 È a partire da questo complesso rapporto tra il significante, l’ordine simbolico, e la Cosa come reale primordiale, che si costruisce la natura di extimité della Cosa, e che prende origine, in un certo senso, la ricerca teorica di Lacan che affronta il rapporto tra il reale e il simbolico. Se proviamo a esprimere questo rapporto, abbiamo che la Cosa “patisce del significante” nel senso che l’azione del significante, intaccando continuamente, e da sempre, il reale primordiale, lo rende un oggetto perduto, un vuoto. È la definizione di das Ding come vuoto che Lacan eredita da Heidegger. Da questo rapporto paradossale e incessante tra simbolico e reale che si sviluppa sulla Cosa, a spese della Cosa, si origina la sua natura di extimité: da una parte, infatti, è completamente estranea al campo del linguaggio (è “fuori significato”), ma dall’altra, come vuoto e oggetto perduto, non potrebbe essere concepibile se non a partire dal linguaggio stesso e dalla sua azione di “intaccamento” del reale primordiale (“patisce del significante”). 11. Ivi, pp. 150-151.

151


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 152

In questa oscillazione tra essere “fuori significato” e “patire del significante” la Cosa si definisce come extime: Forse ciò che descriviamo come quel luogo centrale, quell’esteriorità intima, quell’estimità che è la Cosa, ci chiarirà quel che resta ancora una questione, e persino un mistero, per coloro che si interessano all’arte preistorica – ossia appunto il suo sito.12 E ancora: Das Ding è proprio al centro nel senso che è escluso. Vale a dire che in realtà deve essere posto come esterno, questo das Ding, questo Altro preistorico impossibile da dimenticare, di cui Freud afferma la necessità della posizione originaria, sotto forma di qualcosa di entfremdet, di estraneo a me pur stando al centro di me, qualcosa che a livello dell’inconscio, soltanto una rappresentazione rappresenta.13 D’altra parte è lo stesso Miller che, nel suo Extimité, centra intorno alla cosa la sua riflessione sul concetto formulato da Lacan e da essa prende avvio per approfondire e sviluppare questo percorso di ricerca: Premier extime que Lacan ait ponté, et c’est à cette occasion qu’il a tiré le mot, c’est ce qu’il a appelé d’un terme allemand où se trouvaient se croiser Freud et Heidegger: das Ding, “la chose”. Et le plus proche, le prochain même, se trouve nommé par Freud dans son esquisse du terme de Nebenmensch (neben = à coté, près; mensch = l’homme, l’être humain), prochain. Et ces deux termes allemands, disons de ce vocable extime, Lacan les montre coïncider.14 12. Ivi, p. 177. 13. Ivi, p. 89. 14. J.-A. Miller, Extimité (1985-1986), seminario inedito, lezione inaugurale del 13 novembre 1985, esemplare dattiloscritto, p. 5.

152


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 153

C’est là situer, sous le nom de das Ding, l’extimité primordiale, le premier extérieur à l’intérieur du champ des représentations. La Chose y reste étrangère; il y a gravitation des représentations, des signifiants autour de la Chose; au sens spatial: position centrale de la Chose par rapport aux signifiants qui circuitent autour.15 Dopo averci fornito in vario modo il carattere di “imprendibilità”, di irriducibilità della Cosa, Lacan ci suggerisce però anche delle possibili modalità di trattamento. 3. Gesù Cristo, Harpo Marx e Arnaut Daniel: intorno al vuoto della Cosa Se ritorniamo ai nostri “personaggi del non senso”, le nostre guide, Harpo Marx e Gesù Cristo, ci rendiamo conto che proprio questi due momenti di pas de sens rimandano ai tre discorsi che si relazionano con la Cosa: l’arte (Harpo), la religione (Gesù Cristo) e la scienza, che si dice nella sua assenza, nel suo non poter essere citata a proposito del non senso, proprio perché la scienza, come la paranoia, non presuppone il non senso, ma esige di trovare sempre e ovunque il senso. Massimo Recalcati ha organizzato e descritto in modo straordinariamente chiaro questa relazione, riprendendo le tre declinazioni del vuoto della Cosa da parte dei tre discorsi: l’evitamento della sublimazione religiosa, la saldatura del vuoto della sublimazione scientifica e l’organizzazione del vuoto del lavoro artistico.16 15. Ivi, p. 32. 16. M. Recalcati, Il miracolo della forma. Per un’estetica psicoanalitica, Bruno Mondadori, Milano 2007, pp. 32-33: “Organizzazione, esitamento e saldatura del vuoto definiscono dunque, per Lacan, lo specifico della sublimazione artistica, della sublimazione religiosa e della sublimazione scientifica. L’evitamento è la strategia ossessiva che contraddistingue la sublimazione religiosa: il luogo terrificante e senza senso della Cosa è aggirato perché incomparabile con l’idea teologica che l’essere coincida con il Bene. La saldatura del vuoto della Cosa definisce invece la sublimazione scientifica: l’ideale del sapere si esprime come tendenza a suturare la crepa del non senso in una rete significante che sappia ricoprire in modo integrale il reale. [...] L’organizzazione del vuoto definisce invece il tratto specifico del lavoro artistico. [...] Organizzare il vuoto intreccia il simbolico e l’immagina-

153


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 154

Potremmo dire allora che il senso della “presenza” dei nostri due personaggi a questo punto del discorso lacaniano sia in un certo modo quello di aprire verso qualcosa d’altro, di contenere già in nuce la possibilità di un superamento del modello della declinazione del vuoto. Non di un suo ribaltamento, ma semplicemente dell’esistenza di un’altra possibile descrizione. In Harpo, che rappresenta il pas de sens artistico, abbiamo già una tragicizzazione della funzione dell’arte: il suo sorriso è muto e immobile, e per questo doloroso. Lacan tornerà di lì a poco sulla relazione tra dolore e immobilità ricordando che “dovremmo forse concepire il dolore come un campo che, nell’ordine dell’esistenza, si apre precisamente dal limite in cui non c’è possibilità per l’essere di muoversi”:17 davanti al sorriso muto di Harpo rimaniamo pietrificati, non possiamo muoverci, e soffriamo. Non ci si dischiude forse qualcosa, attraverso una specie di intuizione dei poeti, nel mito di Dafne che si trasforma in albero sotto la pressione di un dolore a cui non può più sfuggire? Non è forse vero che l’essere vivente che non ha la possibilità di muoversi ci suggerisce fin nella sua forma la presenza di ciò che potremmo chiamare un dolore pietrificato?18 Siamo congelati come di fronte a uno specchio: lo “specchio umano” è uno dei jokes più famosi del gruppo, che Groucho interpreta in La guerra lampo dei fratelli Marx. Questa tragicizzazione dello specchio anticipa già il Lacan di rio con il reale, in quanto indica un processo di organizzazione che allude alla dimensione dell’articolazione significante e alla funzione dell’immagine, mentre il vuoto è quella dimensione extrasignificante ed extraimmaginaria – il reale di das Ding – che resta al centro di quest’articolazione. Dunque l’arte s’impegna nell’articolazione dell’inarticolabile e non nel culto mistico dell’inarticolabile in quanto tale. L’operazione significante che presiede alla creazione artistica si misura con ciò che eccede il significante (il reale del vuoto della Cosa), senza però restarne irretita in una fascinazione silenziosa”. Si veda anche F. Regnault, “L’art selon Lacan”, in Conférences d’esthétique lacanienne, Agalma, Paris 1997, pp. 29-32. 17. J. Lacan, Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi, cit., p. 74. 18. Ivi, pp. 74-75.

154


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 155

Seminario X, e innesca una dimensione critica dell’arte, una lettura problematica. Prima di arrivare al modello estetico di Seminario XI, quello dell’arte come funzione quadro, come trompel’œil e dompte-regard, c’è il passaggio, fondamentale, di Seminario X, quello dello sguardo d’angoscia medusizzante dello specchio. È uno sguardo mortifero, che Lacan enuncia a proposito della funzione del fantasma e della natura unheimliche dello specchio. Quando l’angoscia emerge oltre il quadro dalla sua “finestra”, spossessa il soggetto della sua autonomia e ne uccide, cioè ne dissolve, lo statuto stesso di soggetto, rivelandone la natura di oggetto (di visione e di desiderio dell’Altro). È la posizione del soggetto di fronte alla “mantide religiosa”,19 che Lacan introduce per fondare la sua riflessione sulla natura dell’angoscia e sulla sua relazione con il Reale. Nel joke di Harpo, nel suo sorriso muto del pas de sens, c’è già in qualche modo un superamento e una diffrazione della funzione organizzatrice dell’arte intorno al vuoto della Cosa: mentre Lacan ci conduce a quella che rimane la sua più straordinaria intuizione sul ruolo dell’arte, semina la traccia, nascosta, “di sfuggita”, anche del suo contrario e della sua messa in crisi. La possibilità cioè che il Reale non si faccia facilmente organizzare, che la Cosa rimanga totalmente fuori dal significato, che il suo carattere di extimité si sbilanci dalla parte del non senso. La “presenza” di Gesù Cristo introduce poi un secondo passo di criticità, fondato sulla differenza tra il discorso di (dell’arte, della scienza, qui della religione) e l’eccedenza del discorso, nei termini in cui Gesù Cristo non è la religione, ma la eccede. È, letteralmente, l’oggetto causa del desiderio della religione: Gesù Cristo è l’oggetto piccolo a della religione. 19. “Mi ero immaginato, in vostra presenza, di trovarmi di fronte a un altro animale, vero però, supposto per l’occasione di dimensioni gigantesche: una mantide religiosa. Dato che non sapevo quale fosse la maschera che portavo, potete facilmente immaginare che non mi sentivo affatto rassicurato di fronte all’evenienza che la mia maschera si prestasse a trarre in inganno la mia partner circa la mia identità. La cosa era accentuata dal fatto, che avevo aggiunto, che non vedevo la mia immagine nello specchio enigmatico del globo oculare dell’insetto”, Id., Il seminario. Libro X. L’angoscia. 1962-1963 (2004), Einaudi, Torino 2007, p. 8.

155


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 156

Lacan, più o meno esplicitamente, incomincia qui a far emergere la differenza tra il discorso e qualche cosa che può solo essere descritto utilizzando un’equazione di significato, cioè come “la relazione che si stabilisce tra Gesù Cristo e la religione”. Non è semplicemente la relazione tra “l’arte e l’artista”, tra lo “scienziato e la scienza”, ma è la relazione che (altrove in Lacan) sta tra Joyce e la letteratura: non c’è rischio di blasfemia, né di rendere poco omaggio a Joyce, nell’affermare che Gesù Cristo sta alla religione come Joyce sta alla letteratura. Come afferma Lacan in Seminario XXII a proposito di Joyce, anche Gesù Cristo non parla per essere compreso (“chi ha orecchi per non intendere il Vangelo”), ma per poi essere studiato. Studiato dal discorso: non dell’università, ma della religione. Insomma, Harpo e Gesù Cristo, dall’interno del Seminario VII, connotati dalla loro capacità di agire un pas de sens, agiscono come elementi di critica, e di crisi, dei modelli di trattamento del vuoto della Cosa: uno perché cambia il segno dell’arte in tragico, l’altro perché eccede il discorso. Accanto a loro potremmo collocare adesso un terzo personaggio, forse il più importante al fine della nostra riflessione: Arnaut Daniel. Di certo meno famoso di Gesù Cristo, e con ogni probabilità anche di Harpo Marx, Arnaut Daniel è poeta trovatore provenzale di carattere arguto e vita avventurosa, inventore della sestina lirica, gran giocatore d’azzardo, di forti appetiti sessuali, che, dopo aver avuto la protezione di Riccardo Cuor di Leone, terminò la sua vita in povertà o forse monaco, ammirato da Dante e amato da Ezra Pound. Il modo in cui Lacan presenta Arnaut Daniel è, come spesso accade, affascinante: anche nel testo stabilito, si presenta nella forma di un “complemento. Una curiosità della sublimazione”, a margine della seduta del 2 marzo 1960: “Vi ho portato oggi una curiosità, un passatempo quasi. Ma tali tipi di curiosità, credo che siamo forse i soli, noi analisti, a essere in grado di situarli”.20 20. Id., Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi, cit., p. 203 (traduzione leggermente modificata).

156


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 157

Lacan ha descritto molto bene le caratteristiche dell’amor cortese e, di volta in volta, descrivendolo, ha continuato a stupirsene,21 ammirato, quasi perplesso, della possibilità che un tale sistema potesse darsi. Ma, continua, “di poemi come questo, non ce ne sono due, nella storia della poesia cortese. È un hapax”.22 La caratteristica saliente di questo poema è che la Dama in questione dà l’ordine al suo cavaliere di “imboccare la sua tromba”. Dice lo stesso Lacan che l’espressione non ha nel testo un senso ambiguo, e che lascia intendere chiaramente come la Dama chiede al suo cavaliere di praticarle un anulingus. Non è un caso, d’altra parte, che Dante lo collochi nel XXVI canto del Purgatorio (e non nel XIV come riporta erroneamente Lacan) a espiare il suo peccato di lussuria, nella schiera dei sodomiti.23 21. Ivi, p. 187: “Con l’amor cortese, le cose sono tanto più sorprendenti in quanto emergono in un’epoca le cui coordinate storiche ci mostrano che nulla sembra corrispondervi a quel che si potrebbe chiamare una promozione, o addirittura una liberazione della donna”. 22. Ivi, p. 204; riportiamo il testo del poema, nella traduzione italiana di Roberto Cavasola: “Visto che signor Raimon – insieme a signor Truc Malec – difende donna Ena e i suoi ordini, sarò vecchio e incanutito prima di acconsentire a simili richieste. Poiché per ‘imboccare questa tromba’ avrebbe bisogno di un becco con cui tirar fuori i chicchi dal ‘tubo’. Eppoi potrebbe uscirne anche cieco, poiché è forte il fumo che esce da quelle pieghe. Avrebbe bisogno di un becco, che fosse lungo e puntuto, dato che la tromba è rugosa, brutta e pelosa, e non c’è giorno che sia asciutta, e dentro la palude è profonda: per cui la pece che continuamente spurgata ne esce, fermenta verso l’alto. Ed è sconveniente che sia un favorito colui che accosta la sua bocca al tubo. Ci saranno tante altre prove, più belle e di maggior valore, e se Bernart si è sottratto a questa, per Cristo, non si è comportato da vigliacco neanche per un istante, se è stato preso dalla paura e dallo sgomento. Poiché se il getto d’acqua fosse venuto dall’alto su di lui, gli avrebbe scottato completamente il collo e la guancia, ed è sconveniente poi che una donna baci colui che ha strombettato in una tromba puzzolente. Bernart, io non sono d’accordo con quel che dice Raimon de Dufort in proposito – che voi qui abbiate un qualche torto; poiché se aveste strombettato per il piacere, avreste trovato un rude ostacolo, e vi avrebbe ben presto ucciso il fetore, che puzza peggio del concime in giardino. Voi, chiunque cerchi di dissuadervi, lodate Dio che ve ne ha scampato. Sì, è proprio scampato a un gran periglio, che sarebbe poi stato rimproverato a suo figlio e a tutti quelli di Cornil. Sarebbe stato meglio andarsene in esilio, piuttosto che ‘strombettarla’ nell’imbuto tra la schiena e il pettignone, dove si susseguono le materie color ruggine. Non sarebbe mai riuscito a ripararsi abbastanza da evitare che quella le scompisciasse il muso e il sopracciglio. Donna, che Bernart non si appresti affatto a strombettare la tromba senza un grande ‘zipolo’ con cui chiuderà il buco del pettignone, e allora potrà strombettare senza periglio”. 23. Ma indicato dal Guinizzelli come il migliore dei poeti che abbiano scritto in volgare: “O frate, – disse, – questi ch’io ti cerno / col dito, – e additò un spirto innanzi, – / fu miglior fabbro del parlar materno. / Versi d’amore e prose di romanzi / soverchiò tutti: e

157


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 158

E nemmeno è un caso che Ezra Pound, che ama, studia e traduce Arnaut Daniel, lo collochi tra i poeti maggiori di tutti i tempi nei suoi Literary Essays of Ezra Pound, ma che poi scriva (si pensi alla delusione!): “Non do la tenzone con Trucs Malecs per motivi ben chiari a tutti coloro che l’hanno letta”. E che invece sono i motivi per cui la dà Lacan: che il poema di Arnaut Daniel mette in crisi il principio stesso della sublimazione della Cosa. La sublimazione, che offre al Trieb una soddisfazione diversa dalla sua meta – sempre definita come meta naturale –, è per l’appunto ciò che rivela la natura propria del Trieb in quanto non è semplicemente l’istinto, ma ha rapporto con das Ding come tale, con la Cosa in quanto distinta dall’oggetto. [...] E la formula più generale che vi do della sublimazione è questa – essa eleva un oggetto – e qui non mi sottrarrò al tono di calembour che può esserci nell’uso del termine che prendo – alla dignità della Cosa.24 Lacan lo dice esplicitamente: Il carattere inumano dell’oggetto dell’amor cortese in effetti salta agli occhi. Questo amore che ha potuto spingere alcuni ad atti che sono molto vicini alla follia si rivolgeva ad esseri viventi, con un nome, ma che non erano lì nella loro realtà carnale e storica – è forse già qualcosa da distinguere –, che erano lì in ogni caso nel loro essere di ragione, di significante. È del resto quello che dà senso alla straordinaria serie di strofe di dieci versi del poeta Arnaut Daniel di cui vi ho dato lettura. Vi si trova la risposta della pastorella al pastore, poiché la donna, dal suo posto, risponde, per una volta, e invece di lascia dir li stolti / che quel di Lemosì credon ch’avanzi” (Purgatorio, canto XXVI, vv. 115120). Si veda a questo proposito anche Richard Halpern, Shakespeare’s Perfume: Sodomy and Sublimity in the Sonnets, Wilde, Freud and Lacan, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 2002. 24. J. Lacan, Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi, cit., p. 141.

158


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 159

stare al gioco, avverte il poeta, al grado estremo della sua invocazione al significante, della forma che essa può assumere in quanto significante. Non sono altro, gli dice, che il vuoto che c’è nella mia cloaca, per non usare altri termini. Soffiateci dentro un po’ per vedere – per vedere se la vostra sublimazione regge ancora.25 Dunque è questo il punto: la vostra sublimazione regge ancora? Regge ancora la funzione organizzatrice dell’arte? La domanda chiaramente è questa. A questa domanda Lacan dà sicuramente una risposta, è il filone che prende il via dall’Essere-supremo-in-malvagità di Sade,26 ma vorremmo provare qui a spostarci in un’altra direzione e riflettere su alcuni elementi. A partire dal valore di “prova” che il componimento di Arnaut Daniel ha nei confronti del modello della sublimazione dell’arte, che intendiamo nel senso che Lacan attribuisce alle pitture rupestri nelle cavità sotterranee: da una parte, di prova come messa in discussione, come performance di sperimentazione, dall’altra, di prova come testimonianza, traccia del reale. 4. Arnaut Daniel, Jake e Dinos Chapman: essere all’altezza del “pas de sens” Per arrivare alla straordinaria relazione che si può stabilire tra il sistema dell’amor cortese e il sistema dell’arte contemporanea: in un certo senso Lacan continua a stupirsi dell’amor cortese, “soltanto” perché non ha avuto modo di conoscere in modo approfondito il sistema dell’arte contemporanea. Un momento culminante, che va pressappoco dall’inizio dell’XI secolo al primo terzo del XIII secolo, vede la tecnica tutta 25. Ivi, p. 273. 26. “Il che non vuol dire che non ci sia altra soluzione alla prospettiva del campo della Cosa. Un’altra soluzione – storicamente datata essa stessa, e, cosa curiosa, di un’epoca che non è poi così distinta da quella cui ho appena fatto allusione – è forse un po’ più seria. Si chiama in Sade l’Essere-supremo-in-malvagità”, ibidem.

159


Aut Aut 343

22-09-2009

15:35

Pagina 160

particolare dei poeti dell’amor cortese giocare un ruolo di cui non possiamo, al punto in cui siamo, valutare assolutamente la portata, ma da cui alcune cerchie, nel senso dell’amor cortese, cerchie di corte, cerchie nobili, occupanti una posizione elevata nella società, indubbiamente sono state molto sensibilmente prese.27 Il “sistema” dell’amor cortese ha molti tratti in comune con quello dell’arte contemporanea: l’arte contemporanea è tautologica, secondo una nozione assimilabile a quella che Barthes attribuiva al sistema della moda28 (in questo senso l’arte contemporanea “è moda” e “non è una moda”). Da qui si produce il “problema fondamentale” della critica d’arte (non si dà attribuzione dello statuto di opera d’arte al di fuori del circuito stesso: la presenza nella rivista o nello spazio espositivo o nella galleria “certifica” e non “ratifica” che un oggetto è arte). Con un ardito volo estetico-teorico, proviamo dunque ad affiancare al poema di Arnaut Daniel due opere dei fratelli Jake e Dinos Chapman: Zygotic Acceleration Biogenetic Desublimated Libidinal Model (Enlarged X 1000), del 1995, e Tinkerbellend, del 2002. I due lavori in questione sono esemplari di un sistema (quello dell’arte contemporanea) che mette in crisi la sublimazione, tanto quanto il poema di Arnaut Daniel faceva nei confronti dell’amor cortese, e contemporaneamente stabiliscono con la tenzone maledetta del nostro trovatore un rapporto di descrizione e “traduzione” quasi letterale. Zygotic Acceleration, una delle opere più famose ed esemplari dei fratelli Chapman, è un gruppo scultoreo composto da bambini di entrambi i sessi, completamente nudi al di fuori di un paio di scarpe da ginnastiche (tutte uguali), riuniti in cerchio e rivolti verso l’esterno. Accomunati da alcuni tratti somatici (i capelli alle spalle con un taglio a caschetto da paggio), gli occhi e le espres27. Ivi, p. 185. 28. R. Barthes, Sistema della Moda (1967), Einaudi, Torino 1970.

160


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 161

sioni serene, sognanti o assorte, lontane e assenti, i lineamenti delicati, in cui il realismo della rappresentazione e dei materiali agisce in termini dialettici con l’orrore della situazione. Perché i bambini dei Chapman non sono semplicemente stretti gli uni agli altri, ma collegati fra loro da una mostruosa prossimità di legame siamese: i torsi sono uniti in perfetta continuità, la pelle liscia e uniforme, una surreale e disturbante palizzata di corpi infantili, un piccolo fortino, chiuso a difendere (e a nascondere) qualcosa che non si offre alla vista, dal quale spuntano braccia, gambe, teste, o ulteriori mostruose aberrazioni, deformità combinatorie che evocano fantasmi mitologici (una sorta di chimera, in cui un nuovo busto spunta all’altezza del bacino) e giochi infantili (uno dei bambini è capovolto rispetto agli altri, e sembra sospeso, trattenuto in un ludico esercizio di ginnastica). Tutto il gruppo è circonfuso di un’aura di serenità e di orrore, che produce una sensazione che non può che essere descritta che con il concetto freudiano di unheimlich, di perturbante. Ma ciò che rende più prossimo questo monstrum collettivo alle immagini di Arnaut è rappresentato dal fatto che alcuni dei soggetti sono dotati di nasi fallici e di orifizi spalancati al posto della bocca. L’ordine della Dama viene dunque grottescamente ubbidito dai bambini di Zygotic Acceleration: sul loro viso è cresciuto uno “zipolo”, un “becco” adatto a “suonare la tromba” ed è loro concesso contemporaneamente di annusare e di dare piacere. La natura perversa e feticistica dell’ordine della Dama viene contemporaneamente ridimensionato (c’è, effettivamente, un pene al posto del naso, e l’atto di piacere viene normalizzato) ed eletto a modello identitario (c’è, effettivamente, un pene al posto del naso, e l’integrità somatica viene oltraggiata), la traslazione simbolica (il valore metaforico del naso per il pene, come ci ricorda bene il Kubrick di Arancia meccanica, in cui Alex e i suoi drughi indossano una maschera fallica per compiere le loro violenze) viene superata e reificata. Non c’è più l’annusare per il possedere, ma l’annusare (o il leccare) è il possedere. Congelato nella sua debolezza il regime del simbolico, i fratelli Chapman ci costringono a fare i conti con il buco della Co161


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 162

sa. Che è anche il buco della bocca, e l’imbarazzo sconveniente a cui si trovava sottoposta la donna costretta a baciare “colui che ha strombettato in una tromba puzzolente” scompare: la bocca e la tromba sono tutt’uno. Cosicché ognuno dei bambini così deformati potrebbe essere messo nelle condizioni di ubbidire da solo all’ordine (avendo su di sé tanto la “tromba” quanto il “becco”) o di ricomporlo con i compagni in qualche ulteriore oscena combinazione. Tinkerbellend è invece un’opera più recente e di dimensioni molto ridotte, che ritrae un soggetto di sesso femminile in tutto analogo ai precedenti, collocato sotto una piccola campana di vetro: miniatura, figurina, boule à neige senza neve, Damina protetta e venerata, perfetto oggetto di amor cortese. Come “reagire” a questa prova, cioè come sperimentare se ancora, davvero, nell’arte contemporanea come forma non degenerativa ma evolutiva dell’amor cortese, sia possibile “tenere”, “reggere” il lavoro della sublimazione come strumento per separare il Soggetto da un oggetto di godimento fusionale, mortifero, spostandolo verso l’oggetto di godimento più prossimo? Lacan, articola due possibili barriere: quella del bene e del bello. Ci interessa in particolare la seconda, quella del bello, che condivide con la Cosa uno stato intermedio tra simbolico e immaginario, declinato secondo un cambiamento di segno euforico, e non più disforico: così come la Cosa è l’irriducibile al simbolico e all’immaginario, nello stesso modo il bello (il bello delle scarpe di Van Gogh) è posto in una posizione intermedia: “[Le scarpe] nella loro incommensurabile qualità di bello. Sono lì, ci fanno un segno d’intesa, situato per l’appunto a uguale distanza dalla potenza dell’immaginazione e da quella del significante”.29 Cosa accade quando anche questa barriera salta, come nell’opera perturbante dei Chapman, e il soggetto si trova di fronte all’incandescenza del desiderio? Due sono le possibilità: cadere nel vuoto della Cosa, sprofondare nel godimento, secondo un principio per cui l’uscita dal senso coincide con un’entrata nel 29. J. Lacan, Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi, cit., p. 372.

162


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 163

godimento. Oppure sperimentare l’essere all’altezza del non senso, come Lacan lo descrive in Seminario XVII: Il senso, se posso dire così, ha l’onere di essere. Anzi, non ha nessun altro senso. Solo che ci siamo accorti a un certo punto che questo non basta a fare in modo che sia all’altezza, all’altezza, appunto, dell’esistenza. Cosa curiosa, il non-senso, invece, è all’altezza. Prende allo stomaco. Ed è questo il passo fatto da Freud, quello di aver mostrato che è ciò che ha di esemplare il motto di spirito, una parola senza capo né coda.30 È naturalmente il non senso di Seminario V, il pas de sens, cioè il passo di senso, secondo l’equivoque strutturale del pas come non e del pas come passo al di là, sul quale Lacan costruisce la forza propositiva del pas de sens, che non è, naturalmente, assenza, ma costruzione di un senso ulteriore. Per questa ragione la formula del pas de sens si dimostra uno strumento eccezionale per descrivere non solo l’opera dei fratelli Chapman, ma buona parte dell’arte contemporanea, quella che mette in crisi la sublimazione dell’arte, ma che non la contraddice, semplicemente la costringe a un più di lavoro. Da Harpo Marx a Jake e Dinos Chapman.

30. Id., Il seminario. Libro XVII. Il rovescio della psicoanalisi, cit., p. 64.

163


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 164

Il rovescio del desiderio GRAZIELLA BERTO

In balia dell’altro “E infatti, quando siamo in balia di un altro, siamo in grande periglio.”1 Così afferma Lacan alla conclusione del primo gruppo di lezioni del seminario sull’etica della psicanalisi, in cui introduce i suoi uditori alla questione di das Ding. Nel congedarli, prima della pausa natalizia, così aggiunge: “Perciò, l’anno prossimo, cercheremo di avanzare in queste zone incontestabilmente perigliose” (p. 106). Si potrebbe riconoscere in queste brevi affermazioni, pronunciate quasi di sfuggita, alla fine, una traccia di lettura per l’intero seminario. Esso intende spingersi e condurci, infatti, in territori la cui pericolosità deriva dal fatto che lì siamo in potere di un altro, dipendiamo dall’altro. Ma perché esplorare queste zone, anziché cercare di sfuggirvi, come potrebbe sembrare più sensato? Forse perché il problema è proprio quello di trasformare il dam in dame, ci suggerisce Lacan nelle righe immediatamente precedenti, con un gioco di parole che, sulle prime, sembrerebbe semplicemente far sorridere, ma che potrebbe invece meritare maggiore attenzione. Il “danno”, o la “dannazione” a cui sia1. J. Lacan, Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi. 1959-1960 (1986), a cura di G.B. Contri, Einaudi, Torino 1994, p. 106. D’ora in poi, quando mi riferirò a questo seminario, indicherò la pagina direttamente nel testo, tra parentesi, dopo la citazione.

164

aut aut, 343, 2009, 164-178


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 165

mo condannati, è propriamente la nostra dipendenza dall’altro, l’impossibilità dell’autosufficienza, della pienezza. Il pericolo viene dalla condizione di non padronanza, che ci pone in balia dell’altro. Ed è ancora la lingua, con i suoi giochi, a guidarci: la parola danger, che in francese dice il “pericolo”, ci riporta al latino dominarium, “dominazione”, in cui si fa di nuovo sentire la presenza della domina, della dame. Non si sfugge al dominio dell’altro. Ma è forse possibile trovare in questa condizione qualcosa che non sia solamente un danno, una condanna, o una perdita della propria libertà, una sottomissione o un annientamento di sé. Forse il dominio può essere qualcosa di diverso dalla schiavitù, può essere trasformato “in dama, nella nostra dama”, in un rapporto da cui non siamo semplicemente schiacciati o annientati, ma che, in qualche modo, ci dà anche piacere, addirittura ci eleva, in un certo senso, ci permette di ritrovare, stranamente, noi stessi, o almeno qualcosa di “nostro”, di singolare: qualcosa che ha a che fare con quella “verità particolare” che è la “verità liberatrice” del desiderio, in cui incontriamo, sorprendentemente, la felicità che ci ostiniamo a cercare (p. 29). Sempre, certo, in una condizione di pericolo, di instabilità, di precarietà, in cui anche ciò che è nostro non è davvero posseduto, in cui la nostra identità è ben lontana dal potersi rassicurare in se stessa. Le zone pericolose che Lacan intende esplorare, per “sapere che cosa possiamo farne di questo dam, di questo danno, per trasformarlo in dame, in dama, nella nostra dama”, costituiscono l’oggetto di un sapere che egli ci propone di chiamare, “al di sopra della morale, un’erotica”, in quanto si rivolge “a quel che c’è di aperto, di mancante, di spalancato, al centro del nostro desiderio” (pp. 105-106). La situazione di pericolo in cui ci troviamo è inscindibile dalla condizione del desiderio: siamo sempre in balia dell’altro, potremmo dire, ogni volta comunque che desideriamo. È il desiderio ciò che ci espone al dominio dell’altro, e ci sottrae, fin dall’inizio, alla padronanza su noi stessi. C’è, “al centro del nostro desiderio”, qualcosa di imprendibile, di indefinibile, o meglio la spinta stessa a rompere ogni definizione, a oltrepassare ogni confine, a trasgredire i limiti della Legge. Il de165


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 166

siderio è – come nella figura platonica di Eros – ciò che ci impedisce di acquietarci, è un “sentire la mancanza”. L’avventura che Lacan ci propone è quella di addentrarci nel luogo della mancanza, che rischia altrimenti di apparire come una generica incompiutezza, come la perenne insoddisfazione comunemente collegata al desiderio, al suo “cattivo infinito”. Per questo egli cerca innanzitutto di dare un nome all’apertura che si spalanca al centro del nostro desiderio; anche se un nome paradossale, poiché nomina qualcosa di refrattario al linguaggio: das Ding, la Cosa. Proprio in queste pagine, la Cosa viene introdotta in riferimento all’uso specifico che Freud fa del termine das Ding nel Progetto di una psicologia.2 Qui, come ci ricorda Lacan, “il Ding è l’elemento che originariamente il soggetto isola, nella sua esperienza del Nebenmensch, come per sua natura estraneo, Fremde” (p. 64). L’apertura che sta al centro del desiderio ha a che fare con un’estraneità che il soggetto incontra nell’altro uomo, nel “prossimo”, e il più delle volte nel più prossimo, nella madre stessa. La Cosa è il lato inassimilabile, non paragonabile a sé, e quindi assolutamente incomprensibile e incontrollabile dell’altro, e più specificamente di quell’altro a cui è sospesa la soddisfazione del desiderio. L’estraneità di das Ding è innanzitutto esteriorità al linguaggio, a differenza di quella “cosa” che il tedesco nomina come Sache, e che si articola immediatamente nella parola. Das Ding è dunque il luogo di un “segreto” (p. 56): di un’opacità assoluta e indecifrabile, che accompagna l’incontro con l’altro, nella sua prossimità. Capiamo meglio in cosa consista il “danno” a cui siamo condannati: una separazione irrimediabile da chi ci sta più vicino, e da cui, allo stesso tempo, non possiamo svincolarci. Siamo in balia di un’estraneità che ci tiene in suo potere proprio perché risulta del tutto inaccessibile. Ed è proprio la condizione del desiderio che ci espone a tale inaccessibilità. 2. Cfr. S. Freud, Progetto di una psicologia (1895), in Opere, a cura di C.L. Musatti, Bollati Boringhieri, Torino 1989, vol. II, pp. 235-236.

166


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 167

Mancanza di aiuto Nell’Interpretazione dei sogni, Freud, anche se solo verso la fine, ci offre una definizione di quello che è in fondo il protagonista di questo libro: ciò che viene chiamato “desiderio” è “un moto psichico” che tende a o che vuole “ricostruire la situazione del primo soddisfacimento”.3 Ma non dobbiamo farci ingannare dall’idea che tale situazione corrisponda a un momento di pienezza, e che quindi il desiderio sia fondamentalmente la spinta a ritornare a una compiutezza perduta, a uno stato di pacificazione, come lo stesso termine Befriedigung sembrerebbe suggerirci. L’esperienza di soddisfacimento – ci dice Freud – comporta una trasformazione che può avvenire, nel bambino, solo “per l’aiuto di altre persone [durch fremde Hilfeleistung]”.4 Riemerge qui quell’estraneità che, già nel Progetto, si era affacciata come l’elemento fondamentale dell’esperienza di soddisfacimento. Tale esperienza, infatti, ben lontana dall’essere una situazione originaria di pienezza e di sicurezza, chiama in causa, fin dall’inizio, assieme alla percezione dell’oggetto capace di produrre il soddisfacimento, la necessità di qualcuno che se ne faccia latore: un aiuto esterno, un atto di soccorso, l’intervento di un altro che rimane, nel suo rapporto con questo gesto, del tutto indecifrabile, sconosciuto, imprevedibile. L’altro può rispondere oppure no, può darci il suo amore oppure no, senza che questo dipenda da noi, da un fattore che possiamo ricondurre a conoscenza. Il desiderio ci pone dunque in balia dell’altro, e ci fa sentire allo stesso tempo la nostra condizione di dipendenza, di non autonomia, di precarietà. La mancanza che si spalanca al centro del desiderio ha a che fare con un’incompletezza che riguarda il nostro stesso modo di essere: non bastiamo a noi stessi, non possiamo darci quella sicurezza e quella stabilità che cerchiamo, ma, nella nostra inevitabile dipendenza dall’altro, dal suo aiuto, siamo esposti permanentemente all’incertezza, al pericolo. Non 3. Id., L’interpretazione dei sogni (1899), in Opere, cit., vol. III, p. 516. 4. Ivi, p. 515.

167


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 168

possiamo sostenerci da noi stessi, e l’altro di cui abbiamo bisogno è segnato dall’estraneità, non ci dà nessuna garanzia per il suo sostegno. Freud dà un nome a questa condizione, ricorrendo a un termine particolarmente espressivo, difficile da tradurre: Hilflosigkeit. È una parola che compare per la prima volta proprio nel Progetto,5 per poi sparire, quasi dimenticata, fino a riemergere con un peso decisivo nella seconda metà degli anni venti, in modo particolare in Inibizione, sintomo e angoscia. La Hilflosigkeit indica la condizione specifica dell’essere umano che, nella sua infanzia, non è in grado di badare a se stesso, è “privo di aiuto”, “abbandonato”, ha bisogno di qualcuno che lo soccorra. Il bambino è, per la stessa condizione fisica del suo organismo, lasciato in balia di un eccesso incontrollabile di stimoli che provengono dal suo corpo: egli non è in grado di compiere l’“azione specifica” che, attraverso un’alterazione del mondo esterno, come il rifornimento di cibo, può sospendere tali stimoli e l’esperienza di dispiacere o di dolore da essi prodotta, sostituendovi un’esperienza di soddisfacimento. È necessario che qualcuno, “un soggetto maturo”, presti attenzione al disagio manifestato dal bambino attraverso forme di scarica incapaci da sole di cancellare il bisogno, come il pianto o le grida, per trasformarle in una domanda, per rispondere, grazie alla sua esperienza, a un’esigenza che il soggetto stesso che la vive non comprende ancora. Lo stato di “pericolo” – specificherà più tardi Freud – in cui il bambino si trova è dato dunque da un’incapacità di padroneggiare i propri stimoli e, allo stesso tempo, dall’impossibilità di controllare l’altro che può aiutarlo in questa impresa.6 L’“impotenza biologica” diviene “impotenza psichica”:7 esigenza di protezione, bisogno di essere amati, da un altro che però, in ogni momento, può mancare, può non rispondere. In ogni istante si può ripetere quella separazione dalla madre che 5. Cfr. Id., Progetto di una psicologia, cit., cap. XI, pp. 222-224. 6. Cfr. Id., Inibizione, sintomo e angoscia (1925), in Opere, cit., vol. X, in particolare cap. VIII, pp. 280-290. 7. Ivi, p. 286.

168


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 169

abbiamo sperimentato al momento della nascita, abbandonati a un’assoluta non padronanza di noi stessi, sopraffatti dai nostri stessi stimoli. La Hilflosigkeit non riguarda allora soltanto la fase dell’infanzia ma diviene un tratto costitutivo che accompagna tutta la vita di un essere umano: è la condizione di pericolo che deriva dal nostro essere irrimediabilmente in balia di un altro che, lui soltanto, può liberarci dal nostro essere in balia di noi stessi, di un eccesso incontrollabile di stimoli, ma che, da parte sua, può sottrarsi in qualsiasi momento. L’amore dell’altro, la sua “cura”, possono sempre venir meno, abbandonandoci a noi stessi, alla nostra incapacità di reggerci da soli, di tenerci insieme. L’altro è, in fondo, un “oggetto”: si identifica con la percezione dell’oggetto che sospende lo stimolo. Ma la semplice presenza di tale oggetto non è sufficiente; esso deve essere portatore di una particolare disposizione, quella dell’amore. E proprio la differenza sottile tra “perdita dell’oggetto” e “perdita dell’amore da parte di questo”8 lascia scorgere l’idea che questo oggetto, capace di portare aiuto, potrebbe non essere davvero tale: esso non è controllabile da parte del soggetto, mostra un’arbitrarietà che ne fa qualcosa di diverso da un’alterità disponibile ogni volta che ne è avvertito il bisogno. Il campanello d’allarme che segnala questo pericolo è – ci dice Freud – l’angoscia: un campanello, si potrebbe dire, sempre acceso, che suona sempre in sottofondo e che, ogni tanto, comincia a squillare. L’angoscia si mostra, in fondo, come ciò che potremmo chiamare “il rovescio del desiderio”. Nel nostro tendere al “soddisfacimento”, a un piacere o a una quiete, a una stabilità che ci permette di riconoscerci, di identificarci, non facciamo che riattualizzare la nostra insufficienza e, con essa, quell’esposizione all’altro, al suo aiuto, al suo amore, che possono sempre venir meno, per consegnarci al disordine e allo smarrimento assoluto. Sembra di poter così specificare, almeno un poco, la mancanza che si spalanca al centro del nostro desiderio, il segreto installato al cuore della nostra esperienza, che Lacan nomina attraver8. Ivi, p. 287.

169


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 170

so das Ding. Non ci reggiamo su noi stessi: ciò che ci tiene insieme è un “aiuto”, una “cura” che non dipende da noi, da cui al contrario dipendiamo, e che è sempre sul punto di sottrarsi, di andare perduta. Non sappiamo se l’altro vorrà o potrà aiutarci. Così come, d’altra parte, non sappiamo nemmeno se noi saremo capaci di aiutare l’altro che chiede il nostro soccorso. I due sogni centrali che Freud analizza nell’Interpretazione dei sogni sono, in fondo, casi di un soccorso mancato: da parte di Freud stesso, nei confronti della sua paziente Irma, e da parte di un padre, nei confronti del suo bambino malato.9 Se il desiderio nascosto nella trama di questi sogni è quello di non avere alcuna colpa per non aver trovato una soluzione alla malattia della paziente o, nel secondo caso, quello di rivedere il figlio ancora vivo, c’è comunque un rovescio di questi desideri: la sensazione di non aver saputo rispondere all’altro, alla sua richiesta di aiuto. Ciò che emerge è comunque un senso di “impotenza”, di inadeguatezza, e dunque di angoscia: la perdita dell’altro è data non solo dal suo sottrarsi alla nostra domanda di aiuto, ma anche dalla nostra incapacità a portargli il nostro aiuto, ad appagare il suo desiderio. Lungo tutta l’Interpretazione dei sogni, del resto, Freud, per difendere la sua tesi che vede il sogno come appagamento di desiderio, si ostina a lottare contro il riemergere dell’angoscia, che, fino alla fine, egli attribuisce a una difesa, a una deformazione dell’affetto autentico, dovuta alla vergogna, a una conflittualità del desiderio, senza ammettere che, in fondo, la stessa analisi che egli sta conducendo ci fa vedere l’angoscia come intessuta nel desiderio, come un rovescio che non è un opposto: i due affetti mostrano tra di loro un rapporto che non risponde al principio di non contraddizione. Il desiderio si spalanca su un’alterità da cui dipendiamo – nel senso che essa ci sostiene ma anche nel senso che di essa siamo responsabili – ma che irrimediabilmente ci sfugge, non si lascia comprendere, riportandoci così a un’incompletezza o a una non padronanza di cui l’angoscia è il segnale. 9. Cfr. Id., L’interpretazione dei sogni, cit., pp. 107-120, 465-467.

170


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 171

Il “Tu”, che così spesso pronunciamo, ogni volta che ci rivolgiamo all’altro, nasconde in sé, nella sua familiarità e ovvietà, questo complesso intrico di relazioni. Questa parolina apparentemente così innocente porta con sé – ci avverte Lacan – “la tentazione di addomesticare l’Altro”, il tentativo, del tutto inutile, di difendersene: di scongiurare, “in un momento di smarrimento, di sconforto, di sorpresa”, la perdita dell’amore dell’altro, il sottrarsi del suo aiuto. Ma Lacan ci suggerisce qualcosa di più, ci fa spostare lo sguardo: ciò che si tratta di scongiurare è piuttosto la presenza incombente dell’altro, “l’Altro preistorico, l’Altro indimenticabile che rischia tutt’a un tratto di sorprenderci e di precipitarci dall’alto della sua apparizione” (p. 69). Questo Altro con la A maiuscola è una “realtà muta [...] che comanda, che ordina” (p. 68), nella sua assenza di parola: l’altro che pensiamo di invocare come colui che ci può portare aiuto, come se temessimo la sua perdita, si dà in realtà come una presenza incombente, che ci impone la sua volontà incomprensibile, ci sottomette, ci schiaccia fino ad annientarci, come fa la morte, che è in fondo la figura privilegiata di questa alterità, di das Ding, del “fuori significato” (p. 67). Il nostro Io non è che l’effetto – ci dice Lacan – di questo inutile tentativo di difesa: “Un Io di scusa, un Io di rigetto” (p. 69), sempre all’accusativo, che mentre cerca di sottrarsi al controllo dell’altro è già schiacciato dalla colpa di cui è chiamato a rispondere. Potremmo intravedere nell’invito cristiano ad amare il prossimo, su cui Lacan si sofferma alcune lezioni più avanti, il tentativo estremo e più potente di aggrapparsi all’immagine illusoria, rassicurante, del “Tu”, di occultare in esso i tratti della Cosa, di “addomesticare l’Altro” e, insieme, di difendere l’Io. Un tentativo inutile, del resto, che, se preso sul serio, non può che portare all’esito opposto. Il comandamento che mi ordina di amare il prossimo come me stesso presuppone innanzitutto che io sia in grado di fare il suo bene, poiché esso coinciderebbe con il mio, o meglio sarebbe a immagine del mio: gli altri sono i miei simili, “io immagino i loro dolori e le loro difficoltà nello specchio dei miei” (p. 237), mentre interpreto il bene semplicemente come 171


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 172

l’utile, e quindi come qualcosa di calcolabile e di universalizzabile. In questo modo cerco di cancellare, nella figura del simile, ricondotto alla familiarità del “tu”, il lato opaco della prossimità, quella “Cosa” assolutamente non paragonabile, che, come ci dice Freud, ciascuno di noi incontra nel Nebenmensch, il cui bene è invece del tutto singolare, e quindi rimane incomprensibile, ignoto, assolutamente distante dal mio. Ponendomi nella prospettiva di colui che ama il prossimo, di un amore inteso come capacità di portare aiuto, di dare all’altro ciò che gli manca, nego radicalmente, per di più, la mia esperienza originaria dell’altro, come colui che, in primo luogo, può rifiutarmi il suo aiuto, in ogni momento, senza una ragione prevedibile. L’idea della fratellanza, del bene comune, e quindi dell’universalità dei diritti, viene a offuscare la distanza che mi separa non da un altro generico, ma proprio da colui che mi è più prossimo, rispetto a cui, se davvero mi avvicino, se davvero gli offro il mio “amore”, scopro una sfasatura irricomponibile: non so cosa davvero lui voglia da me, allo stesso modo in cui, se sono io a chiedere il suo “amore”, egli non può sapere cosa io voglia. Ma è proprio da lui che dipendo, è su di lui che mi reggo: la sua estraneità viene a porsi, in questo modo, al centro di me stesso, contamina irrimediabilmente la mia identità. È questa – ci dirà Lacan qualche anno dopo – la chiave dell’angoscia, così come si mostra nell’Unheimlichkeit, nell’apparire, nella nostra stessa casa, di un “ospite sconosciuto”, che occupa il luogo della mancanza, il centro del nostro desiderio.10 Lo sconforto Siamo avanzati forse un poco, in questo modo, nella condizione di pericolo in cui ci pone il nostro essere “in balia di un altro”. Questo percorso, in cui Lacan ci guida, sempre un po’ a tentoni, nel seminario sull’etica, sembra del resto coincidere con il percorso stesso dell’analisi: “La terminazione dell’analisi, la ve10. Cfr. J. Lacan, Il seminario. Libro X. L’angoscia. 1962-1963 (2004), a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2007, in particolare p. 82.

172


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 173

ra, intendo quella che prepara a diventare analista, non deve al suo termine metter colui che la subisce di fronte alla realtà della condizione umana?”. Mentre pone questa domanda, ormai verso la fine del suo seminario, Lacan specifica tale condizione proprio attraverso la Hilflosigkeit freudiana, intesa come “sconforto [détresse]”, “esperienza dello smarrimento [désarroi] assoluto”, sullo sfondo del quale emerge l’angoscia come segnale di pericolo (p. 381). Entrare in rapporto con il proprio desiderio, “al di là del servizio dei beni” (p. 382), significa innanzitutto prendere atto dell’impossibilità di padroneggiare se stessi, di risolvere la questione del proprio desiderio sul piano di un progetto governabile. Il desiderio chiama sempre in gioco una pericolosa dipendenza dall’altro. Ma qui Lacan ci spinge a fare un passo oltre. La Hilflosigkeit è quella condizione “in cui l’uomo in quel rapporto con se stesso che è la sua propria morte [...] non deve aspettarsi aiuto da nessuno”. Persino il pericolo viene meno a questo livello. Come se, nell’“esperienza ultima della Hilflosigkeit”, l’angoscia, come protezione estrema dal pericolo, venisse sospesa. Dipendiamo dall’altro, abbiamo bisogno del suo aiuto per reggerci in piedi, anche quando fisicamente ci sosteniamo da soli. Ciò non significa però che dobbiamo continuamente temere la perdita dell’altro, il venir meno del suo amore, il sottrarsi della sua risposta: è questo il pericolo che l’angoscia ci segnala, indicandoci il carattere particolarmente esposto del terreno su cui procediamo, sempre sul punto di precipitare nella non padronanza di noi stessi, non appena il sostegno dell’altro venisse a mancare. La scoperta più sconvolgente è che l’altro, di cui avvertiamo il bisogno, in realtà non ci può davvero aiutare. La “mancanza di aiuto” in cui ci troviamo è talmente radicale che nessuno può colmarla. Non c’è pericolo che l’altro si sottragga, perché, comunque, non può fare nulla, non può alleviare il nostro “sconforto”. L’altro non può fare nulla per aiutarci nel rapporto con la nostra propria morte: che, come precisa Lacan, non è tanto la morte fisica, “quella che consiste semplicemente nel crepare di fame”, e che cerchiamo di evitare con un’accurata condotta di vita, ma è piut173


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 174

tosto la “vera morte, [...] una maledizione accettata, di quel vero e proprio sussistere dell’essere umano, sussistere nella sottrazione di se stesso all’ordine del mondo” (p. 384). Tale modo di sussistere coincide con il seguire il proprio desiderio: “La funzione del desiderio deve trovarsi in un rapporto fondamentale con la morte” (p. 381). Lo “smarrimento assoluto” proprio della condizione umana viene dal fatto che il desiderio che ci abita si sottrae completamente alla logica del mondo, che è quella dell’utile, dei beni, della sopravvivenza. Nel rapporto con il nostro desiderio non vale nessun criterio riconosciuto – logico, morale, opportunistico –, poiché si tratta di un’esposizione a qualcosa che sfugge a ogni sapere e a ogni ragione: un’esposizione a ciò che possiamo chiamare appunto “morte”, o das Ding, il “fuori significato”, il “segreto”. L’altro di cui siamo in balia, allora, non ci può aiutare, non può riempire il nostro vuoto, perché, se non è mascherato nella figura del simile, se si fa davvero prossimo, viene a coincidere con la mancanza stessa, con ciò che apre in noi un cedimento strutturale, una vulnerabilità costitutiva. Il “Tu” con cui ci rivolgiamo all’altro, per chiedergli aiuto, “in un momento di smarrimento, di sconforto, di sorpresa”, non può che evocare, paradossalmente, la stessa estraneità da cui siamo imbarazzati, sconvolti, e che ci impedisce di identificarci con quell’immagine ortopedica di noi stessi in cui siamo stati educati a rispecchiarci. La perdita dell’altro non viene dal suo allontanarsi ma dal suo approssimarsi, come una distanza incolmabile che presentifica la mancanza: nell’Unheimlichkeit – dirà Lacan nel suo seminario sull’angoscia – “viene a mancare la mancanza”,11 nel senso che si mostra, si fa sentire in quanto tale, senza alcun dubbio. Unheimlichkeit e Hilflosigkeit tendono, in un certo senso, ad avvicinarsi. E un altro avvicinamento nel frattempo si è profilato. L’unica indicazione che Lacan, nell’ultima lezione del seminario, lascia affiorare all’orizzonte di un’etica della psicanalisi, l’invito a 11. Ivi, p. 47.

174


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 175

non cedere sul proprio desiderio, sembra lasciarsi comprendere, attraverso il percorso che abbiamo seguito, come un atteggiamento che ha molto a che fare con l’assunzione piena di quella condizione umana che coincide con lo smarrimento assoluto, con uno “sconforto” senza uscita, senza consolazione. Non rinunciare al proprio desiderio, in nome dell’ordine del mondo, significa in fondo anche non nascondere il proprio sconforto: l’impossibilità di una soluzione, di un senso, e soprattutto di una padronanza su se stessi, sulla propria vita. Essere in balia dell’altro significa non poter dare una forma alla propria vita, consegnarsi a una precarietà e a una fragilità, a un “disagio” insuperabili. Non nascondere l’umanità Ma che fine ha fatto, allora, la dame? Niente di buono sembra poter scaturire dal dam, dalla condizione di dipendenza dall’altro a cui siamo condannati. In parte, è forse proprio così: Lacan non lascia aperto nessuno spiraglio per un’illusione di senso, inteso come un ordine di cui ciascuno fa parte, in cui ciascuno può riconoscere il proprio ruolo. Eppure, anche alla fine, non sembra aver rinunciato a dirci che, dal non cedere sul proprio desiderio, forse qualcosa di buono può profilarsi. L’analisi rimane una domanda di felicità; e la sua risposta, in fondo, non è negativa in termini assoluti; non è però semplice, diretta, e tanto meno universale. Fin dalla prima lezione di questo seminario, Lacan ci ricorda come “per questa felicità, ci dice Freud, non c’è assolutamente niente di pronto, né nel macrocosmo, né nel microcosmo” (p. 18). Effettivamente, non c’è soluzione: non è possibile liberarsi dall’altro, raggiungere una piena autonomia, una padronanza di sé, e a partire da qui un’armonia con ciò che ci circonda, ma solo illudersi di farlo, magari ponendosi nel ruolo di soccorritori, di coloro che trovano il loro Bene facendo il bene dell’altro, amando colui che chiamano il loro prossimo. Il primo passo sembra essere proprio quello di riconoscere e di accettare la nostra “incompletezza”, di non “nascondere l’u175


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 176

manità”, con le parole di Martha Nussbaum:12 un’umanità che è spesso oggetto di vergogna, proprio perché è l’opposto dell’autosufficienza, è innanzitutto bisogno e quindi “vulnerabilità”, esposizione continua all’essere feriti, in tanti modi, dall’altro da cui dipendiamo, e, più radicalmente, rapporto con una “ferita” che coincide con la mancanza stessa. L’etica nasce proprio, se seguiamo Nussbaum, dalla rinuncia all’onnipotenza, dall’accettazione dell’imperfezione, della non purezza, del bisogno di aiuto, di rassicurazione, di amore, con tutte le emozioni che tale condizione porta con sé.13 È lo stesso Freud, del resto, nel Progetto, a scorgere le origini dell’etica nella condizione della Hilflosigkeit: “L’impotenza iniziale degli esseri umani è la fonte originaria di tutte le motivazioni morali”.14 La non autosufficienza del bambino richiama infatti l’attenzione dell’adulto, lo spinge a soccorrerlo, a portargli quell’“aiuto esterno” di cui ha bisogno, risveglia in lui, si potrebbe dire, un senso di responsabilità. Nasce qui un “intendersi” che non ha niente di empatico o di fusionale, ma che si produce proprio nella sfasatura che separa il rapporto tra due esseri umani, tra un individuo “impotente” (hilflos) e un individuo “soccorritore” (hilfreich): il rapporto è del tutto asimmetrico, non garantito, poiché non risponde a uno stimolo meccanico, ma anche perché la distanza tra i due individui non è affatto cancellata. L’intesa si intreccia nella distanza, in una reciproca ma asimmetrica estraneità, che toglie ogni rassicurazione alla dimensione morale: non è lo spazio di un dialogo, di un accordo che nasce dalla comprensione vicendevole, ma nemmeno la cer12. M.C. Nussbaum, Nascondere l’umanità (2004), trad. di C. Corradi, Carocci, Roma 2005. Sulla “vulnerabilità”, anche in riferimento alla Hilflosigkeit freudiana, cfr. anche Id., L’intelligenza delle emozioni (2001), trad. di R. Scognamiglio, il Mulino, Bologna 2004. Sempre sul tema della vulnerabilità, particolarmente interessante risulta il recente lavoro di Adriana Cavarero, Orrorismo, Feltrinelli, Milano 2007. Cfr. anche l’interessante articolo di Luisa Accati, Vittime e carnefici fra giustizia e impunità, “Edizione”, 2007, pp. 33-58, in particolare pp. 57-58: “Alla fine di questo lavoro la mia impressione è che il nucleo profondo del perturbante in cui ciò che ci è familiare (heimlich) diventa uguale a ciò che ci è ostile (unheimlich), è il rifiuto della condizione umana”. 13. Cfr. M.C. Nussbaum, L’intelligenza delle emozioni, cit., p. 268 sgg. 14. S. Freud, Progetto di una psicologia, cit., p. 223.

176


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 177

tezza di un altro che sa qual è il nostro bene, a cui basta affidarsi e ubbidire per raggiungerlo; è piuttosto il luogo di uno strano vincolo, tra mancanza e dono di aiuto, che non garantisce mai la corrispondenza tra domanda e risposta, tra bisogno di protezione e capacità di prendersi cura dell’altro. Non basta, dunque, accettare la nostra dipendenza dall’altro. Si tratta anche di comprendere come l’altro non sia, in primo luogo, colui che è funzionale ai nostri bisogni: l’altro è innanzitutto l’estraneo, il “fuori significato”, che ci schiaccia o comunque ci ignora, non si inserisce nel nostro discorso, nei nostri progetti. È una realtà assolutamente opaca. Se c’è un’intesa, è fortuita, incerta, momentanea, e si traccia debolmente nella sfasatura che accompagna ogni rapporto, senza togliere la solitudine e l’abbandono a cui siamo consegnati. L’etica della psicanalisi sembra consistere in un difficile esercizio di convivenza con questo “smarrimento assoluto”, che via via ci strappa all’“ordine del mondo”, e che comporta innanzitutto l’accettazione dell’estraneità dell’altro. Il rovescio del desiderio è la scoperta di un’alterità irriducibile: l’altro non colma la “mancanza di aiuto” in cui ci troviamo, ma la rivela in quanto tale, come qualcosa che non può essere riempito. Forse, in questo riconoscimento, l’altro che non corrisponde ai nostri bisogni, che si affaccia nella sua opacità, può smettere di apparire come qualcosa di maligno, come qualcuno che vuole il nostro male – secondo la descrizione che ne fa Freud stesso –, e che per questo siamo spinti ad allontanare, a distruggere o ad assimilare. L’altro continuerà a mancare, è perduto fin dall’inizio. Solo su questo sfondo di sconforto può profilarsi, forse, casualmente, un “incontro”, che è il modo in cui si presenta la felicità, come tyche, ci dice Lacan (p. 18): una felicità fragile, effimera, sempre particolare e irripetibile, in cui, per un attimo, ci sembra che il segreto dell’altro possa svelarsi, che la nostra condizione di abbandono possa sospendersi, trovare un conforto. Come se quello che desideriamo si fosse realizzato. Potrebbe essere questa la dame, la “nostra dama”, nel suo carattere sfuggente, e soprattutto indefinibile, particolare, nella 177


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 178

sua unicità, capace di trasformare inspiegabilmente il “dominio” dell’altro in un’apertura, o in un rapporto di “cura”. Ma per permettere a questa “dama” di venirci incontro, forse, e comunque per poco, non dobbiamo cedere sul nostro desiderio: non possiamo accettare nessun ordine e nessun senso che ci risarciscano, a priori, della nostra debolezza, della fragilità che ci costituisce. Non possiamo che addentrarci nella condizione di pericolo e di insicurezza in cui ci troviamo, rinunciando a ogni tentativo di rassicurazione e di consolazione, a tutti i richiami che, da direzioni diverse, ci spingono a neutralizzare l’altro, a dargli un nome e una collocazione, ad “addomesticarlo”, pensando di poterlo controllare e di poter quindi padroneggiare noi stessi. Il desiderio fa emergere, nel suo rovescio, la mancanza costitutiva dell’altro, la sua separazione irricomponibile, che comunque ci rende vulnerabili e, anzi, si apre in noi come una ferita inevitabile. La psicanalisi – ci avverte Lacan – è un sintomo:15 il sintomo di un disagio, di qualcosa che non si lascia assorbire nel senso, che non ci fa sentire bene. Il problema è far parlare questo disagio, anziché cercare di dare comunque un senso a qualunque cosa, come ogni volta siamo tentati di fare, come ogni religione ci spinge a fare.

15. Cfr. J. Lacan, Il trionfo della religione (1974), in Dei Nomi-del-Padre seguito da Il trionfo della religione (2005), a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2006, p. 99.

178


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 179

Abbiamo passato la linea? La Cosa e la Legge MATTEO BONAZZI

Mi è sembrato questa mattina che non fosse eccessivo incominciare il seminario facendo questa domanda – abbiamo passato la linea?1

iamo nel 1960, Lacan apre la diciottesima lezione del Seminario VII, dedicata alla “funzione del bello”,2 con la frase che ho posto in esergo e da cui vorrei prendere le mosse, provando a interrogare la linea che appunto Lacan evoca in questa sua domanda: “Abbiamo passato la linea?”. Interrogarla a partire da quello che mi sembra possa dire a noi oggi. In particolare, provando a chiederci: quale figura del soggetto è posta di fronte all’interrogazione etica dalla psicanalisi a partire dalla linea che qui Lacan interroga? Intanto e prima di tutto, di che linea si tratta? Una prima risposta plausibile, secondo la lettura che vorrei qui proporre, è che si tratti della linea che separa e al contempo unisce la Legge e la Cosa. Dunque, da un lato, la Legge del significante, la Legge del simbolico o anche, in qualche modo, la Legge edipica. E, dall’altro, la Cosa (das Ding): la Cosa che intendiamo, secondo l’indicazione di Freud, nel senso della pulsione di morte, come resistenza interna all’inconscio stesso nei confronti della vita, della parola e della cura. Ma questa linea è una linea paradossale, in qualche modo è un para-dosso che difficilmente possiamo afferrare se restiamo

S

1. J. Lacan, Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi. 1959-1960 (1986), a cura di G.B. Contri, trad. di M.D. Contri, revisione e note di R. Cavasola, sotto la direzione di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 1994, p. 293, d’ora in poi citato come SVII. 2. SVII, pp. 293-305.

aut aut, 343, 2009, 179-191

179


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 180

all’interno della mera opinione, della chiacchiera o della doxa, perché sconfina da sempre un poco al di là della presa di cui la doxa risulta essere in ultima istanza capace. Penso sia utile, allora, prendere le mosse da due indicazioni precise che Lacan propone in questo Seminario rispetto al rapporto tra la Legge e la Cosa, tra la Legge significante, dunque la castrazione simbolica che orienta il desiderio, e la Cosa nella sua muta pulsionalità autistica, ossia dedicata a un godimento mortifero, solitario e separato rispetto all’Altro. 1. La legge e la Cosa Prendiamo le due citazioni da pagina 105 e 151 del Seminario VII. Si tratta di due luoghi in cui Lacan affronta, rispettivamente, la funzione della Legge in quanto legge morale e in quanto legge significante. Nel primo caso, emerge la problematica questione del rapporto tra il Sommo Bene e la Cosa;3 nel secondo caso, si affronta la creazione ex nihilo del significante,4 attraverso un denso commento del saggio di Heidegger Das Ding.5 In entrambe le occorrenze, è la linea che separa e unisce la Legge e la Cosa a essere in ultima istanza interrogata. Ma vediamo le due citazioni di Lacan: 1. “La Cosa senza la Legge è morta”;6 2. “La Cosa è quel che, del reale primordiale, patisce del significante”.7 Lacan dice che la Legge è ciò che dà vita alla Cosa: “Non ho 3. “Ebbene, il passo fatto, a livello del principio di piacere, da Freud, è di mostrarci che non c’è Sommo Bene – che il Sommo Bene, che è das Ding, che è la madre, l’oggetto dell’incesto, è un bene interdetto, e che non c’è altro bene. Questo è il fondamento, rovesciato in Freud, della legge morale”, SVII, p. 87. 4. “Con l’introduzione di questo significante plasmato che è il vaso, si ha già tutta la nozione di creazione ex nihilo. E la nozione di creazione ex nihilo è coestensiva all’esatta situazione della Cosa come tale”, SVII, p. 156. 5. M. Heidegger, “La cosa” (1950), in Saggi e discorsi (1954), a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano 1991. Per un commento puntuale e teoreticamente orientato di questo saggio heideggeriano, rimandiamo a M. Vegetti, “La brocca di Heidegger. Il saggio Das Ding e la questione della svolta”, in appendice a C. Sini, La materia delle cose. Filosofia e scienza dei materiali, CUEM, Milano 2004, pp. 193-236. 6. Cfr. SVII, p. 105. 7. Cfr. SVII, pp. 151-152.

180


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 181

potuto prendere conoscenza della Cosa se non attraverso la Legge. Non avrei infatti avuto l’idea di bramarla se la Legge non avesse detto – Non la bramerai”.8 Il riferimento, come Lacan chiarisce subito, è a san Paolo e al rapporto tra la legge e il peccato.9 Nella seconda citazione che ho scelto di commentare si dice nondimeno che il reale della Cosa è ciò che patisce del significante. Cosa significa? Lacan sostiene – prima citazione – che al di là della Legge, al di là della Legge del simbolico, al di là dell’Altro, non c’è che la Cosa in quanto morta, la Cosa nel senso dell’assenza di vita, dell’implosione regressiva verso l’indistinto originario, la condizione non ancora separata della vita rispetto alla sua stessa insorgenza. Sicché la Cosa è qui presentata da Lacan nella maniera più rigorosa possibile, al di qua di ogni supposta priorità rispetto alla Legge. Non vi sarebbe dunque una Cosa che poi la Legge verrebbe a cancellare, in quanto la Cosa si costituisce soltanto a partire da quella cancellatura che è la Legge stessa. Al contempo – seconda citazione – Lacan sostiene che il reale della Cosa è ciò che patisce del significante. Dunque, nella stessa operazione con la quale il simbolico viene a recidere l’indistinto della Cosa, e così anche lo produce, s’inaugura un patimento fondamentale, residuale: uno scarto, un resto che è dell’ordine del sentire. Di questo scarto resta traccia nel significante, attraverso quella che Lacan chiama la lettera, la lettera en souffrance, che resta sotto il significante e patisce – soffre – passando di significante in significante. Dunque non tutto è dell’ordine del significante, potremmo dire. Non tutto della vita stessa, diciamo così, appartiene alla Legge simbolica. Vi è qualcosa nella vita che si sottrae al registro del significante e della Legge, e questo qualcosa è il luogo del patimento, 8. SVII, p. 105. 9. “Cosa dunque diremo? La legge [è] peccato? Non sia! Ma il peccato non conobbi se non attraverso [la] legge; il [...] desiderio non avrei conosciuto se non la legge diceva: Non desiderare!”, Paolo, Lettera ai Romani, 7-10, trad. curata e rivista da G. Agamben, in appendice al suo Il tempo che resta. Un commento alla Lettera ai romani, Bollati Boringhieri, Torino 2000, p. 143.

181


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 182

del patire. La psicanalisi si radica sull’etica di questa patetica fondamentale.10 2. Patimento, praxis, etica Dunque di che cosa si tratta in questo scarto, in questa lettera che patisce sotto alla presa significante? Qualcosa nella vita rema contro e così anche la rende possibile: una sorta di freno interiore, d’inibizione fondamentale, come la Hemmung di cui parla Hegel nella Fenomenologia dello spirito11 a indicare la radice ultima dello speculativo – che poi per Hegel è la Vita stessa. L’inconscio è questa linea del patimento che, come un ostacolo, inibisce, frena e al contempo favorisce l’andamento della stessa vita. Proviamo a dire meglio prendendo altri due passi tratti da Seminari di poco successivi al settimo: l’undicesimo, dedicato ai concetti fondamentali della psicanalisi, e il decimo, dedicato all’affetto d’angoscia. Intanto, l’inconscio per Lacan non ha uno statuto ontologico, va situato al di qua o al di là dell’essere e del non-essere, proprio perché è una linea, una faglia, una fenditura. Leggiamo dal Seminario XI: La faglia dell’inconscio, potremmo dirla pre-ontologica. Ho insistito su questo carattere troppo dimenticato – dimenticato in un modo non privo di significato – della prima emergenza dell’inconscio, che consiste nel non dar adito all’ontologia. Infatti, quello che anzitutto si è mostrato a Freud, agli scopritori, a coloro che hanno fatto i primi passi, quello che si mostra ancora a chiunque nell’analisi adatti per un momento il proprio sguardo a ciò che è proprio dell’ordine dell’inconscio, è che non è né essere né non-essere, ma è del non-realizzato.12 10. A questo riguardo, si veda la riflessione sviluppata da Jean-Luc Nancy nel suo Il “c’è” del rapporto sessuale (2001), trad. di G. Berto, SE, Milano 2002. 11. “Come proposizione lo speculativo è solamente il freno interiore [die innerliche Hemmung]”, G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito (1807), trad. di E. De Negri, La Nuova Italia, Firenze 1973, p. 54. 12. J. Lacan, Il seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. 1964 (1973), nuova edizione a cura di A. Di Ciaccia, trad. di A. Succetti, Einaudi, Torino 2003, p. 30.

182


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 183

L’inconscio di Lacan è la linea, la fenditura, la faglia tra la Legge e la Cosa. Per cui la psicanalisi non è una psico-logia proprio perché non ha a che fare – come Lacan dirà nel Seminario X – con quella “realtà irreale che si chiama psiche, ma [piuttosto va intesa come] una prassi che merita un nome: erotologia”.13 La psicanalisi è una pratica che ha a che fare prima di tutto col nodo che si produce di continuo tra eros e parola; è la pratica che traccia di continuo la linea che unisce e separa la Legge e la Cosa. La linea dell’inconscio risulta allora essere il passo falso, imprevisto, inatteso, contingente. Qualcosa che porta il soggetto a inciampare: nell’atto mancato, nel lapsus o nello stesso sintomo. Laddove si dimostra che qualcosa non va, non funziona, che non tutto fila liscio. In questo senso l’inconscio lacaniano ha a che fare col residuo patologico che risuona o pulsa sotto la Legge significante, ciò che in qualche maniera non è mai venuto alla luce: l’inatteso, la lettera en souffrance, il non-nato. “L’inconscio, innanzitutto, ci si manifesta come qualcosa che resta in attesa nell’area, direi, del non-nato. [...] Questa dimensione è sicuramente da evocare in un registro che non è nulla di irreale né di de-reale, ma piuttosto, di non-realizzato.”14 3. L’inconscio oggi: dal nulla al non nato Torniamo a noi. Che cosa ci dice, oggi, questa posizione dell’inconscio e dell’etica della psicanalisi di Lacan? Qual è per noi, oggi, in altri termini, lo scandalo e la provocazione dell’inconscio di Lacan rispetto alla filosofia e alla questione del soggetto? Innanzitutto direi così: per l’etica della psicanalisi non si tratta tanto di attraversare questa linea, ma piuttosto di imparare a sostarci. Perché è sulla linea che ha luogo il soggetto dell’inconscio, è nel punto in cui il soggetto incontra la linea della propria divisione soggettiva, la Spaltung, che si apre la faglia dell’inconscio, la contingenza, l’imprevisto e dunque anche lo statuto di un soggetto che

13. Il seminario. Libro X. L’angoscia. 1962-1963 (2004), trad. di A. Di Ciaccia e A. Succetti, Einaudi, Torino 2007, p. 82. 14. Id., Il seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, cit., p. 24.

183


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 184

non può essere più inteso né dalla fenomenologia né dall’analitica del Dasein. Proprio perché è un soggetto che si trasforma in una faglia, in un battimento, in un’occasione d’incontro. La torsione che bisogna compiere per attraversare la linea restandoci sopra riguarda propriamente il superamento della spazialità strutturata secondo superficie e profondità, esterno e interno. Detto altrimenti, l’uomo non ha di fronte a sé la linea che dovrebbe attraversare. L’uomo è questa linea. Una linea che produce una superficie autopenetrantesi,15 in cui l’esterno si fa interno e l’interno si fa esterno. Non a caso un grande filosofo, potremmo dire contemporaneo di Lacan, ha riconosciuto proprio nella strettura della doppia banda (“stricture de la double bande”16) il luogo, la linea e il nodo dell’inconscio, e nell’insegnamento di Lacan una della provocazione più feconde che il Novecento filosofico ha avuto modo d’incontrare. Scrive Jacques Derrida: Che si tratti di filosofia, di psicoanalisi o di teoria in generale, ciò che la piatta restaurazione in corso tenta di coprire, di denegare o di censurare, è che niente di quello che ha potuto trasformare lo spazio del pensiero nel corso degli ultimi decenni sarebbe stato possibile senza qualche spiegazione con Lacan, senza la provocazione lacaniana, in qualunque modo la si riceva o la si discuta, e aggiungerei senza una qualche spiegazione con Lacan nel suo piegarsi con i filosofi.17 Eppure oggi, come nel 1960, non ne vogliamo sapere nulla di questa linea. Ma cosa non vogliamo sapere? Lacan lo dice a più riprese: se la linea è la linea dell’inconscio, essa è esattamente la “memoria di quel che egli [l’uomo] dimentica”.18 L’inconscio ha

15. A questo proposito si veda Jorge Alemán e Sergio Larriera, Lacan: Heidegger. El psicoanálisis en la tarea del pensar, Miguel Gòmez, Madrid 1989. In particolare il capitolo “Arte y pensamiento”. 16. J. Derrida, Résistances de la psychanalyse, Galilée, Paris 1996, p. 44. 17. Id., Per l’amore di Lacan (1991), “aut aut”, 260-261, 1994, p. 155. 18. SVII, p. 294.

184


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 185

a che fare con questo oblio fondamentale. In fondo si dimentica ciò di cui non si vuole sapere nulla, come Lacan dirà del proprio percorso di insegnamento ripensando al Seminario VII dodici anni dopo.19 Non si vuole sapere nulla di ciò che si annuncia su quel crinale, su quella linea che è l’inconscio: ciò a dire, con le parole di Lacan, che “la vita è la putrefazione”,20 che la vita corre verso la sua inevitabile dissoluzione, che la vita è un processo di progressiva e incessante degradazione entropica. Questo ci porta oggi a dover ripensare la posizione che occupa la pulsione di morte, cioè la Cosa rispetto alla Legge significante. Come dicevo all’inizio, per Lacan non c’è un terreno originario sul quale, in un secondo momento, la Legge imporrebbe la propria norma attraverso la castrazione simbolica. La Cosa si produce après coup a partire dalla castrazione e non vi è Cosa al di fuori della Legge. Questo perché l’evento foto-grafico che dà origine al soggetto – la nascita, la presa di parola che inscrive il soggetto, che lo scrittura, all’interno del campo dell’Altro – produce automaticamente una resistenza interna alla parola e al linguaggio, la resistenza della Cosa come scarto. Sicché dovremmo forse dire, seguendo in questo credo Lacan, che la pulsione di morte è un modo di nominare la Cosa, un nome tra gli altri della Cosa, laddove das Ding non è semplicemente la pulsione di morte. La Cosa è per Lacan sostanzialmente lo stacco del significante, l’ex nihilo del significante, il fatto che il significante non ha fondamento ma proviene dal nulla di continuo, all’improvviso, per creazione e annientamento. In questo senso il significante è la nostra salvezza e la nostra

19. “Mi è capitato di non pubblicare l’Etica della psicoanalisi. A quel tempo era per me una forma di cortesia [...] Col tempo ho imparato che potevo dirne un po’ di più. E poi mi sono accorto che quel che costituiva la mia avanzata faticosa era dell’ordine del non ne voglio sapere. Indubbiamente è quel che, col tempo, fa sì che io ancora stia qui, e che voi anche ci stiate. Me ne stupisco sempre... ancora”, J. Lacan, Il seminario. Libro XX. Ancora. 1972-1973 (1975), trad. di S. Benvenuto e M. Contri, a cura di G. Contri, Einaudi, Torino 1983, p. 3. 20. “Il temibile ignoto al di là della linea è quel che nell’uomo chiamiamo inconscio, ossia la memoria di quel che egli dimentica. E quel che egli dimentica [...] è ciò rispetto a cui si fa tutto perché non pensi [...] poiché la vita è la putrefazione”, SVII, p. 294.

185


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 186

rovina. Dipende dal modo in cui il significante testimonia dello stacco da cui proviene, della lettera che lo accompagna a ogni passo. Pas de sens, come dice Lacan: il passo del senso, ma anche il continuo precipitare del senso nella sua catastrofe, nel non senso, nella rovina. Il rischio consiste allora nel dimenticare lo stacco da cui il significante proviene, cioè nel concentrarsi su cosa il significante dice dimenticando che dice. Oblio dell’oblio, oblio dell’inconscio, oblio della vitale rovina. 4. La rovina e il non senso La rovina è ciò che resta dell’oggetto dopo la distruzione operata dal desiderio del suo carattere illusorio e immaginario, al di là del senso, dell’orizzonte valoriale dei beni e della bellezza immaginaria. Si tratta, com’è evidente, di una figura dello scarto, ma di uno scarto particolare. Dobbiamo pensare la rovina come un oggetto parlante: qualcosa che si smarca tanto dall’immaginario quanto dal simbolico, ma che, ciononostante, in qualche modo parla. Non è un oggetto del campo immaginario, né un significante del campo simbolico. È uno scarto, un rifiuto che, come dice Lacan, “per muto che sia, parla”. Il soggetto dell’inconscio, nella sua radice minimale, cioè al suo primo apparire, sorge proprio sul limite di questa rovina che fa nodo tra il desiderio e la bellezza reale. Qui la linea dell’inconscio indica l’estremo del desiderio radicale in quanto “campo della distruzione assoluta, della distruzione al di là della putrefazione”.21 Una putrefazione, però, che – come Lacan dirà in seguito22 – porta in sé la radice ultima, eterna e permanente dell’interrogazione analitica, a partire dall’effetto del bello reale sul desiderio: “È nella traversata di questa zona che il raggio del desiderio si riflette e allo stesso tempo si ritrae, arrivando a darci la

21. SVII, p. 275. 22. In apertura della sua conferenza del 16 giugno 1975 dedicata a Joyce, Lacan sottolinea questa coimplicazione tra ciò che entra in putrefazione e la radice etica della speranza: “Putrespera – suona come ‘putrire sperando’”, J. Lacan, “Joyce il sintomo”, in Il seminario. Libro XXIII. Il sinthomo. 1975-1976 (2005), trad. e cura di A. Di Ciaccia, AstrolabioUbaldini, Roma 2006, p. 157.

186


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 187

cosa più profonda di quest’effetto così particolare, cioè l’effetto del bello sul desiderio”.23 Al di là del senso, della garanzia dell’Altro, della Legge, il desiderio della differenza assoluta che s’incontra nella rovina è questo limite, questa soglia, questo battimento: là dove ci si espone al limite estremo del desiderio, nel punto del suo non senso e del suo abbandono, il soggetto infine nasce come soggetto al linguaggio e non più o non solo come soggetto del linguaggio. Questo istante, punto di rovesciamento topologico che permette al soggetto di fare qualcosa di ciò che l’Altro ha fatto di lui, Lacan lo chiama battimento: “‘Io’, soggetto dell’asserzione conclusiva, si isola grazie a un battimento di tempo logico dall’altro, cioè dalla relazione di reciprocità. Questo movimento di genesi logica dell’‘io’ ad opera di una decantazione del tempo logico che gli è proprio, è abbastanza parallelo alla sua nascita psicologica”.24 Se la relazione di reciprocità si costituisce durante il tempo per comprendere, l’asserzione di certezza conclusiva necessita invece di un “tempo di ritardo”: il battimento. Battimento, in musica, è ciò che si ottiene facendo suonare contemporaneamente due note simili ma con una leggera differenza: gli armonici entrano così in risonanza tra loro producendo una distanza che tende ad ampliarsi sempre più. Così, nel tempo per comprendere, laddove si dà la piena reciprocità tra sé e altro, nella successione temporale del prima e del poi, d’un tratto si produce una sovrapposizione, un battimento di un suono sull’altro che apre una distanza quasi impercettibile e produce la faglia che dà avvio alla separazione.25 Il soggetto nasce dall’incontro con la propria rovina che gli permette di operare la separazione, contro tempo, rispetto all’altro. Ma qual è lo statuto di una rovina? Prendiamo il passo in 23. SVII, p. 316. 24. J. Lacan, Il tempo logico e l’asserzione di certezza anticipata. Un nuovo sofisma (1945), in Scritti, trad. e cura di G.B. Contri, Einaudi, Torino 2002, vol. I, p. 202. 25. A questo proposito, si veda J.-A. Miller, Introduzione all’erotica del tempo (2004), “La Psicoanalisi”, 37, 2005, pp. 15-46.

187


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 188

cui Lacan commenta il celebre quadro di Van Gogh già analizzato da Heidegger in L’origine dell’opera d’arte.26 Dice Lacan: Dovete immaginare le scarpone [...] ohne Begriff [...] per incominciare a vivere le scarpone di Van Gogh nella loro incommensurabile qualità di bello. Sono lì, ci fanno un segno d’intesa, situato per l’appunto a uguale distanza dalla potenza dell’immaginazione e da quella del significante. Questo significante non è neppure più il significante del cammino, della fatica, di tutto quel che vorrete, della passione, del calore umano, è soltanto significante di quel che significa un paio di scarpone abbandonate, ossia nello stesso tempo di una presenza e di un’assenza pura – cosa, potremo dire, inerte, fatta per tutti, ma cosa che, per certi versi, per muta che sia, parla –, impronta che assurge alla funzione dell’organico e, in definitiva, del rifiuto, evocando l’inizio di una generazione spontanea.27 Nel punto di non senso del rifiuto, che cosa perdiamo della bellezza immaginaria, del bene immaginario, e cosa incontriamo invece nella rovina? Perdiamo di mano l’oggetto, l’oggetto immaginario che è afferrato (begriffen) attraverso il significante. La mano, il gesto che afferra l’oggetto, ha una duplice valenza: nel prendere l’oggetto perde la Cosa, das Ding. Nell’afferrare l’oggetto in quanto utilizzabile, perde la sua semplice presenza. Lacan riconosce, in questo gesto apparentemente semplice della mano che afferra, la struttura stessa del tratto unario – il freudiano einziger Zug –, di quella barra significante che, come egli dice, fa buco nel reale. Perciò, potremmo dire, il gesto è un atto di scrittura che fa buco nel reale. E questo rilancerebbe ulteriormente la questione, se pensiamo che, in ultima analisi, la linea che qui stiamo interrogando è prima di tutto una traccia

26. M. Heidegger, “L’origine dell’opera d’arte” (1935-36), in Sentieri interrotti (1950), trad. di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1997, pp. 3-69. 27. SVII, pp. 372-373.

188


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 189

scritta, Niederschrift, come Freud scriveva a Fliess e come Lacan riprende nel suo Seminario VII: Nella lettera 52, la Wahrnehmung, ossia l’impressione del mondo esterno come grezza, originaria, primitiva, sta fuori dal campo corrispondente a un’esperienza degna di nota ed è quindi effettivamente iscritta in qualcosa che è stupefacente che sia espressa da Freud, sin dall’inizio del suo pensiero, come una Niederschrift e quindi come qualcosa che si presenta, non semplicemente in termini di Prägung e di impressione, ma proprio nel senso di qualcosa che fa segno e che è dell’ordine della scrittura.28 Perciò, ricollocando nella giusta successione i termini della questione, potremmo dire così: la Cosa viene recisa dal tratto unario (il taglio della scrittura come gesto primordiale dell’incisione), elevata alla luce dell’Altro e destinata all’infinito gioco dell’oscillazione tra pieno e vuoto che caratterizza l’andamento del significante. Come Lacan sottolinea, sempre commentando il saggio Das Ding di Heidegger: “Il vuoto e il pieno vengono introdotti dal vaso in un mondo che, di per sé, non conosce niente di simile. È a partire da questo significante plasmato che è il vaso, che il vuoto e il pieno entrano come tali nel mondo, né più né meno, e con lo stesso senso. [...] C’è identità tra il modellamento del significante e l’introduzione nel reale di uno iato, di un buco”.29 Sicché, potremmo dire, l’incontro con la rovina ripete l’inscrizione significante: perdendo l’oggetto immaginario si ripassa la Cosa dal significante. Perdendo di mano la Cosa come oggetto, perdendola cioè come cosa alla mano (zuhanden), incontriamo il resto, lo scarto abbandonato, come queste scarpone di Van Gogh rigettate, nel doppio senso: buttate via ma anche gettate nuovamente. È la chance di una seconda volta, di una possibilità 28. SVII, p. 62. 29. SVII, pp. 153-155.

189


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 190

non ancora incontrata, che qui si dischiude per il soggetto: il miracolo, potremmo dire, di una “generazione spontanea”. L’inconscio liminare di Lacan è scritto sul punto di questo rovesciamento: là dove si perde di mano, il soggetto incontra la tuvch, la contingenza del buon incontro, della buona fortuna, al di là di ogni anticipazione possibile. Miracolo che indica il punto nel quale la morte trapassa nella vita, perché, come diceva Goethe e come Lacan amava citare, quando “ciò che è senza vita è vivente, può anche produrre la vita”. 5. Di un amore senza limite Ma cosa diventa allora qui, infine, il soggetto per l’etica della psicanalisi di Lacan? La rovina, come dicevo, è il luogo del patimento, della lettera en souffrance, della lettera che patisce, giace sotto, ma anche, per usare le parole di Joyce care a Lacan, è a letter/a litter, una lettera e un’ordura,30 un rifiuto, qualcosa che si dà nella putrefazione, nella sparizione dell’oggetto e che però anche testimonia di una bellezza residuale, che appunto accompagna il desiderio radicale, immotivato, nella sua contingenza al di là di ogni presa significante, di ogni senso: l’amore, come dice Lacan, l’amore al di là di ogni legge significante. Questo è lo statuto della rovina e del soggetto dell’etica di Lacan: là dove il soggetto, al di là del senso, incontra “un desiderio di ottenere la differenza assoluta, quella che interviene quando, confrontato con il significante primordiale, il soggetto giunge per la prima volta in posizione di assoggettarvisi. Solo qui può sorgere la significazione di un amore senza limiti, perché è fuori dai limiti della Legge, dove soltanto può vivere”.31 Al di là di ogni ricerca del bene o di promessa di felicità, l’etica della psicanalisi “apre l’interrogazione che consente la speranza”. Come Lacan dirà l’anno successivo, durante il suo semi30. In uno scritto del 1971, Lituraterre, Lacan sottolinea “l’equivoco con cui Joyce [...] scivola da a letter a a litter, da una lettera [...] a un’ordura”, J. Lacan, Lituraterra, revisione della trad. originaria di M. Mazzotti ed E. Perrella, a cura di A. Di Ciaccia e C. Mangiarotti, “La Psicoanalisi”, 20, 1996, p. 9. 31. Id., Il seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, cit., p. 280.

190


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 191

nario dedicato al transfert e al Simposio di Platone: “In fin dei conti io non sono lì per il suo [del paziente] bene, ma perché egli ami”.32 Perciò questa è, infine, la linea sulla quale Lacan pone il soggetto inconscio e la riflessione etica ancora oggi per noi. La faglia dell’inconscio non riguarda più un soggetto che ha un mondo di fronte a sé, che pone il mondo a distanza, né colui che abita il mondo nel modo del Dasein, ma colui che si espone e così anche si perde, ma perché nel perdersi si dà il caso che possa incontrare qualcosa di imprevedibile, di inanticipabile, al di là di ogni orizzonte di senso e di pre-comprensione. Come dice Lacan, il soggetto della psicanalisi non è né il soggetto della fenomenologia che ha l’oggetto davanti a sé – ché l’oggetto della psicanalisi è sempre alle nostre spalle33–, né il Dasein heideggeriano, perché non “c’è Dasein con il fort”34 e perché c’è una profonda differenza tra il soggetto dell’enunciazione che dice “ti amo” e quello che dice “sono qui”.35 Il soggetto che Lacan lascia alla riflessione etica non è colui che è qui, ma che è sempre là, non colui che è ma colui che avrà amato, colui che è sempre sul punto di passare la linea, e sempre e soltanto après coup, cioè in ritardo su se stesso e sull’altro. “Eccoci sulla frontiera. Che cosa ci permetterà di varcarla?”36 32. Id., Il seminario. Libro VIII. Il Tranfert. 1960-1961 (1991), Einaudi, Torino 2008, p. 19. 33. A questo proposito, si veda l’illuminante passaggio che Lacan dedica alla differenza che intercorre tra l’intenzionalità fenomenologica e la causa del desiderio inconscio: “Questa linea d’elaborazione, che la tradizione filosofica moderna ha portato al suo punto più estremo, nella cerchia di Husserl, sviluppando la funzione dell’intenzionalità, ci rende prigionieri di un malinteso a proposito di quello che è il caso di chiamare oggetto del desiderio. […] Per fissare la nostra prospettiva, dirò che l’oggetto a non è da situare in nulla di analogo all’intenzionalità di una noesi. Nell’intenzionalità del desiderio – da distinguere precisamente da quella della noesi – tale oggetto deve esser concepito come la causa del desiderio. Per riprendere la mia metafora di prima, l’oggetto è dietro il desiderio”, Id., Il seminario. Libro X. L’angoscia., cit., pp. 109-110. 34. Id., Il seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, cit., pp. 234-235. 35. Come Lacan ribadisce nel suo Seminario VI dedicato al desiderio e all’interpretazione: c’è una “differenza tra lo je di ‘je vous aime’ o di ‘je t’aime’, e lo je di ‘je suis là’”, Id., Le séminaire. Livre VI. Le désir et son interpretation.1958-1959, inedito, lezione del 19 novembre 1958. 36. SVII, p. 301.

191


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 192

Dire il vero sul vero. La cornice del filosofo e il discorso dell’analista FEDERICO LEONI

1. Un aneddoto Iniziamo richiamando un passo del Seminario VII, lezione XIV su “L’amore del prossimo”, sottosezione “Il vero sul vero”. Dice Lacan: “Un mio amico e paziente ha fatto un giorno un sogno che portava tracce di non so che sete lasciata in lui dalle formulazioni del seminario, e in cui qualcuno parlando di me esclamava – Ma perché non dice il vero sul vero?”.1 Sottolineiamo anzitutto il fatto che Lacan citi questo amico che un giorno ha fatto un sogno. Non è un caso unico, anzi. In molte altre occasioni ricorda allievi, pazienti, amici, interlocutori di vario genere. Il seminario di Lacan è segnato in mille modi dall’evento comunicativo in cui accade, dall’intreccio delle voci che lo accompagnano e lo sorreggono. Ma è rilevante che per introdurre una questione chiave come questa, una questione che avrebbe potuto introdurre direttamente, Lacan si serva invece di una via obliqua e aneddotica, di una sorta di messa in scena, di cornice. È rilevante insomma il meccanismo del discorso che riporta un discorso, del racconto che mette in scena un altro racconto. Confrontarsi con la questione che Lacan pone in questo passaggio (“dire il vero sul vero”) e confrontarsi con questo dettaglio sono una cosa sola. Quando qui si dice cornice, meccanismo del discorso che in1. J. Lacan, Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi. 1959-1960 (1986), a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 1994, p. 233

192

aut aut, 343, 2009, 192-210


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 193

cornicia un altro discorso, lo si dice in senso molto classico. Tutti sanno che il Decameron, per esempio, è costruito sullo schema della novella-cornice in cui sono inscritte molte altre novelle. C’è la peste, e un gruppo di persone si rinchiudono in una villa lontana dalla città, dove si intrattengono per giorni (di qui il titolo) narrando. La storia della peste racchiude la storia di Ser Ciappelletto, di Andreuccio da Perugia, di Calandrino e così via. Origine orientale della macchina teatrale di Boccaccio, si potrebbe annotare. Si pensi alle Mille e una notte, e allo schema del tutto analogo che ne governa il percorso. Ancora a monte, il dispositivo della cornice risale alla novellistica indiana. Ci torneremo. Chi abbia qualche familiarità con la storia della filosofia, sa che le cose non vanno diversamente all’origine della filosofia stessa, in Platone. Si sa che anche gli inizi della filosofia occidentale sono profondamente indebitati con l’Oriente, e questo è forse uno degli indizi più curiosi e inavvertiti di quel debito. Nei dialoghi platonici c’è sempre, o c’è molto spesso, qualcuno che entra in scena e che racconta di essere stato a un banchetto, dove qualcun altro ha detto questo e quello, oppure di essersi imbattuto in un amico che ha ascoltato il giorno prima il discorso di un altro amico, e così via. Anche su questo torneremo. Basti per ora aver tracciato, a nostra volta, una sorta di succinta cornice, e aver saldato il nostro debito con la tradizione. Saldato o ripetuto? Che nesso c’è tra la cornice e il debito, tra il debito e la ripetizione, tra la ripetizione e la verità sulla verità? 2. I metafisici Rileggiamo intanto, e prolunghiamo, il passo del Seminario VII che qui ci interessa: “Un mio amico e paziente ha fatto un giorno un sogno che portava tracce di non so che sete lasciata in lui dalle formulazioni del seminario, e in cui qualcuno parlando di me esclamava – Ma perché non dice il vero sul vero? Lo cito, perché è un’impazienza che ho sentito esprimersi in più d’uno, in ben altri modi che nei sogni. Questa formula è vera fino a un certo punto – io non dico forse il vero sul vero. Ma non avete 193


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 194

notato che a volerlo dire, il che è l’occupazione principale di coloro che vengono chiamati metafisici, succede che del vero non ne resti più gran che? È appunto quel che c’è di scabroso in una tale pretesa”. Accostiamo poi a questo passo un paio di altre citazioni da Lacan, per precisare i contorni del problema e per richiamare qualche altro punto del testo lacaniano in cui il problema ritorna, in modi peraltro letteralmente identici a quelli che abbiamo appena incontrato. Dagli Scritti: “Mancanza del vero sul vero, necessitante tutte le cadute costituite dal metalinguaggio in quel che ha di falso-sembiante, e di logico: ecco propriamente il posto della Urverdrängung, della rimozione originaria [...]. Ciò vuol semplicemente dire tutto quel che c’è da dire della verità, la sola, e cioè che non c’è metalinguaggio (affermazione fatta per situare tutto il positivismo logico)”.2 Abbiamo qui gli stessi temi e motivi già incontrati, e qualcosa in più: il problema del metalinguaggio, della logica, del positivismo logico. Sembrerebbe che “la metafisica” di cui parlava il Seminario VII trovi in questo frangente una precisazione, una specificazione: la metafisica è la strategia del metalinguaggio inaugurata dal positivismo logico. E abbiamo poi questo riferimento alla Urverdrängung, che sembra stare in qualche rapporto con la questione della verità, della logica, del metalinguaggio. Che rapporto, però? E che rapporto con la cornice? Citiamo, infine, da un testo apparso su “Scilicet”: “Ciò che devo sottolineare, è che a furia di prestarsi all’insegnamento, il discorso psicanalitico porta lo psicanalista alla posizione dell’analizzante, cioè a non produrre niente di maîtrisable, nonostante l’apparenza, di non maîtrisable se non a titolo di sintomo”.3 Troviamo lo stesso problema, anche se in un orizzonte in parte diverso. Il problema che pone qui Lacan è quello del rapporto

2. J. Lacan, La scienza e la verità (1965), in Scritti, a cura di G.B. Contri, Einaudi, Torino 2002, vol. II, p. 872. 3. “Scilicet”, 2-3, 1970, p. 399.

194


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 195

tra il discorso dello psicanalista e il discorso dell’analizzante, e quello della loro diversa “consistenza”: quando il discorso dello psicanalista sale in cattedra produce comunque qualcosa di nonmaîtrisable, non padroneggiabile, non tesaurizzabile, non cumulabile; produce qualcosa che è dell’ordine del sintomo, o che si produce nella forma del sintomo. Il discorso che produce qualcosa di maîtrisable sarebbe allora quello del metalinguaggio del positivismo logico, sarebbe il discorso dei “metafisici”? “Dire il vero sul vero”, sarebbe questa malattia della padronanza il loro stigma? 3. La rimozione originaria Potremmo riassumere, a nostro uso, quel che abbiamo raccolto fin qui. C’è un discorso che è quello della metafisica. Discorso che dice il vero sul vero. Discorso che guarda da fuori il suo oggetto (questione del metalinguaggio). Discorso che sorvola l’oggetto e lo padroneggia in verità (e che, dunque, non conosce nulla di non-maîtrisable). Discorso che esaurisce la verità della cosa, o che esaurisce la cosa nella sua verità (in ogni modo, discorso che non lascia “sete” di altro, che esaurisce e si esaurisce in una sazietà che non manca di un che di sinistro). Potremmo poi leggere tutto questo a rovescio. C’è invece un discorso che funziona diversamente dal discorso della metafisica. Non dice il vero sul vero. Non guarda da fuori il suo oggetto. Non lo padroneggia dall’alto. Non esaurisce la verità. Non placa la sete. Non si placa. È il discorso che Lacan vuole condurre, o che scopre di non potere non condurre. È il discorso dell’analista, o il discorso psicanalitico, come lo chiama nell’ultimo passo che abbiamo letto. C’è allora un’etica di questo discorso che è interessante mettere a fuoco. Un’etica della verità che è un’etica della psicanalisi come discorso di verità, un’etica che ha a che fare con la consistenza “sintomatica” del discorso stesso, o della verità stessa che quel discorso promuove. La cosa che resta da chiarire, a questo punto, è tutta confidata all’ultima tessera del mosaico, al tassello che resta ancora da collocare. Dove dobbiamo posizionare la Urverdrängung di cui 195


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 196

parla Lacan a proposito del discorso, del linguaggio di chi vuole dire il vero sul vero, della lingua della metafisica? Potremmo provare a dire così: il discorso della metafisica fa tutto quel che fa (dice il vero sul vero, guarda da fuori e padroneggia, toglie la sete e si toglie come sete) perché ha rimosso qualcosa, perché ha dimenticato qualcosa (e dunque, si dovrà aggiungere, perché ha alimentato, con ciò, una sete più profonda, un’inquietudine di cui non ha saputo farsi carico). Rileggiamo, infatti: “Mancanza del vero sul vero, necessitante tutte le cadute costituite dal metalinguaggio in quel che ha di falso-sembiante, e di logico: ecco propriamente il posto della Urverdrängung, della rimozione originaria”. Che cos’è questa rimozione originaria a cui soggiace un certo discorso, per cui esso si costituisce come discorso metafisico, discorso di sorvolo, discorso esaustivo, discorso vero sul vero? Rimozione di che cosa? In che misura esisterebbe un discorso diverso da quello affetto dalla Urverdrängung, un discorso non più “metafisico”, un discorso programmaticamente “sintomatico” (forse si dovrebbe invece dire sintomaticamente sintomatico)? Un ultimo passo di Lacan, questa volta dal Seminario XVII: “Non c’è meta-linguaggio. Ogni volta che c’è meta-linguaggio, c’è sotto una canaillerie, una canagliata, una fregatura, un raggiro. [...] Questa operazione cosiddetta wittgensteiniana è una straordinaria rassegna, una straordinaria indagine della disonestà filosofica. Non c’è senso che del desiderio. Ecco quello che si deve dire dopo avere letto Wittgenstein. Non c’è verità, se non di ciò che il desiderio nasconde della sua mancanza, per far finta di nulla di fronte a ciò che di volta in volta trova”.4 Siamo di nuovo nei dintorni del neopositivismo logico: dintorni dove si gioca tutto il problema del metalinguaggio, della sua possibilità o impossibilità, della “sete” che serpeggia tra i lettori e negli scrittori di queste cose. Wittgenstein segna forse uno di quei punti in cui il discorso della filosofia si divide in se 4. J. Lacan, Le séminaire. Livre XVII. L’envers de la psychanalyse. 1969-1970, Seuil, Paris 1991, pp. 68-69.

196


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 197

stesso, prendendo le due vie che potremmo chiamare del metalinguaggio e dell’etica della verità. Ne nasce un’intera solida tradizione che vorrebbe dire il vero sul vero, ma ne nasce anche un cammino obliquo, che indovina o denuncia in quell’ambizione una “canagliata”. Impossibile escludere che anche “questa operazione cosiddetta wittgensteiniana” sia, per Lacan, parte della canagliata stessa. Impossibile escludere che “questa operazione cosiddetta wittgensteiniana”, in quanto indagine filosofica sulla canaglieria dei filosofi, sia un’indagine doppiamente canagliesca e proprio perciò obliquamente onesta, per dir così. È un caso che Wittgenstein sembri annodare i due cammini in uno stesso punto? Come pensare questo nodo di cammini, questo loro incorniciarsi reciproco dell’etica e del raggiro? 4. Wittgenstein Non dimentichiamo che il punto, per noi, è capire dove si colloca e cosa comporta la Urverdrängung del discorso dei metafisici. Rimozione di cosa? In forza di che cosa? Con quali conseguenze? Rileggiamo allora un passo celeberrimo del Tractatus logicophilosophicus. Proposizione 5.633, dove Wittgenstein riflette sul rapporto tra l’occhio e il campo visivo che esso dischiude. L’occhio, che tutto vede nel campo visivo, non fa parte del campo visivo: questo il perno intorno a cui ruota tutta la meditazione di questa pagina. Scrive appunto Wittgenstein: “Ma l’occhio, in realtà, tu non lo vedi. E nulla nel campo visivo fa concludere che esso sia visto da un occhio”.5 È uno dei punti del discorso di Wittgenstein in cui la canaglieria si intreccia a qualcosa come un’etica, dicevamo. In cui si mostra, in sostanza, che c’è un sapere sulle cose di questo paesaggio che si apre di fronte ai miei occhi, e che questo sapere sussiste grazie a un non sapere che deve restare non saputo perché si dia quel sapere. In cui si mostra che l’occhio porta alla vi5. L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus (1921), a cura di G.A. Conte, Einaudi, Torino 1998.

197


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 198

sibilità in quanto precipita nell’invisibile, disvela il paesaggio in quanto resta velato in ciò che disvela. I beni che l’occhio scopre nel mondo possono forse dissetarci, alimentando però una sete originaria e implacabile che riguarda l’occhio stesso. Urverdrängung dell’occhio nel campo della visione, che Wittgenstein tenta di riportare alla luce. Urverdrängung della condizione di possibilità del discorso vero e della verità, che Wittgenstein tenta di riportare nel quadro del discorso vero e della verità. Curiosa torsione del suo discorso, in effetti. C’è di che slogarsi la lingua, nel dire questa cosa che Wittgenstein dice dicendo che non la può dire, o di che cavarsi gli occhi, tentando di avvistare questa soglia del campo visivo che non può ricadere nel campo visivo e che non fa parte di ciò che vi si mostra. Non c’è bisogno, d’altra parte, di ricordare che ciò che qui stiamo facendo dire a Wittgenstein o stiamo mostrando che Lacan intuisce in Wittgenstein, perché ci serve un accesso al problema del metalinguaggio e dell’etica della verità nell’orizzonte del seminario sull’etica, Lacan stesso lo dice, giusto a proposito dell’occhio e dello sguardo, nelle celebri pagine centrali del Seminario XI. Se anziché un’etica della verità avessimo voluto tratteggiare un’etica dell’aisthesis, come l’ha giustamente definita Matteo Bonazzi,6 avremmo certo dovuto guardare in questa direzione. Potremmo invece fissare il risultato di questa nostra rapidissima incursione nel Tractatus, nel testo insomma che apre e chiude l’avventura del neopositivismo logico, e che mentre mostra il lato “canagliesco” del neopositivismo inizia ad apparire esso stesso al neopositivismo come una canagliata, dicendo che la scoperta di Wittgenstein riguarda il fatto che alla verità manca qualcosa, e che alla verità manca quel qualcosa appunto perché essa possa essere “la verità”. Sicché alla verità manca qualcosa che non si tratta affatto di aggiungere e di riconquistare, perché il fatto stesso di aggiungerlo replicherebbe la mancanza stessa. Se vedo l’occhio che dischiude il campo visivo, è solo grazie a un 6. M. Bonazzi, Etica dell’aisthesis. Lacan con Merleau-Ponty, “Chiasmi International”, 8, 2006.

198


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 199

altro occhio che ho introdotto di soppiatto sulla scena, e che resta in debito di un altro occhio. Siamo di fronte a un buco che, più lo si colma, più si scava. L’etica che ci interessa ha a che fare con questo rapporto paradossale tra il vuoto e quel tentativo di riempirlo che lo scava ulteriormente. O, se si preferisce, con una doppia domanda che qui si apre e che chiede in fondo il medesimo. Che fare del debito? Che fare della cornice? 5. Platone Torniamo a Platone, comparso per un istante all’inizio del nostro discorso, come di sfuggita, quasi per caso. Perché i dialoghi platonici sono sempre, o quasi sempre, inscritti in questa strana cornice narrativa? Perché c’è sempre questo amico così simile a quello di Lacan, che in sogno o al banchetto ha ascoltato i discorsi di qualcun altro di cui ora riferisce a noi che leggiamo? Perché non è mai Platone a parlare, ma Socrate, o qualcuno di cui Socrate riferisce, o qualcuno la cui parola attraversa prestiti e passaggi e sviamenti ancora più avventurosi? Solo due esempi fra i tanti. Dal Simposio: “Penso di non essere impreparato per le cose che mi chiedete, perché proprio l’altro giorno mi trovavo ad andare da casa mia, a Falero, verso la città, e uno dei miei conoscenti, scortomi alle spalle, mi chiamò da lontano scherzosamente: ‘Oh là, Falarese!’, disse, ‘Apollodoro, non aspetti?’ [...]. E poi riprese: ‘Apollodoro, proprio poco fa ti stavo cercando per domandarti di quel convegno di Agatone, Socrate, Alcibiade e di quegli altri ancora, che quel giorno si trovavano al simposio...”.7 E dal Teeteto: “Stavo scendendo al porto, quando mi imbattei in Teeteto, che veniva trasportato ad Atene dal campo di battaglia di Corinto”. “Era vivo o morto?” “Vivo, ma appena appena. È grave per colpa di alcune ferite, ma ancor più perché è stato contagiato dalla malattia che si è diffusa nell’esercito.”8 7. Platone, Simposio, 172a-b. 8. Id., Teeteto, 142a.

199


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 200

C’è forse, in questa circostanza, un indizio, un sintomo decisivo, rispetto al nostro problema del dire il vero sul vero, e della strategia del discorso che vuole preservare il vero dal rischio di azzerarlo per eccesso di veridicità. Il nostro problema potrebbe d’altra parte essere ritradotto in questi altri termini, così da riannodarlo a un altro dei passi lacaniani che stiamo commentando: Platone è un “metafisico”? Dove si situa Platone rispetto a quei metafisici “di professione”, che a forza di dire il vero sul vero non lasciano sul campo “granché” della verità? E dove si situa Lacan rispetto a Platone e alla “professione” della verità? Per un verso, si è soliti ascrivere questa strategia platonica del prologo, del preludio narrativo, della cornice, al gusto “mitologizzante” di un autore ancora in bilico tra la retorica e la metafisica. Ci troveremmo di fronte a un autore che si vorrebbe più compiutamente metafisico ovvero più compiutamente scientifico. Là dove era l’Es, deve giungere l’Io. Là dove Platone si divertiva con la sua persistente inclinazione alla drammatizzazione e “personificazione” della filosofia, deve subentrare Aristotele con la sua compiuta scrittura trattatistica e la sua definitiva risoluzione del gesto della filosofia nel sistema del pensiero. Allora sì, si direbbe la verità sulla verità, senza tante tele di fondo e senza tanti doppi fondi, senza tante introduzioni figurate e misteriosi riassunti che aprono il dialogo offrendone una sorta di preliminare e superfluo geroglifico aneddotico. Tesi che si prolungano variamente nella storia sterminata dell’esegesi platonica, e che qui non potremo non congedare, dopo questo cenno purtroppo rapidissimo.9 Per altro verso, si è soliti ascrivere questa inclinazione al gioco delle cornici e degli incastri, ancor più prosaicamente, alla vecchiaia dell’autore. Si sa che i prologhi platonici si complicano con i dialoghi più tardi, e qualcuno si spinge a vedere in questo “un sintomo di senescenza”,10 un’inclinazione ormai irrefre9. Si esprime così già Proclo, nei Commentari al Parmenide, in particolare IV, 53, col. 658, e IV, 54, col. 659, citati in J.-F. Mattéi, L’étranger et le simulacre, PUF, Paris 1983, p. 51. 10. Così Theodor Gomperz citato da J.-F. Mattéi in L’étranger et le simulacre, cit., p. 49, con riferimento a Gomperz, Les penseurs de la Grèce (1893-1909), Alcan, Paris 1940,

200


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 201

nabile a perdersi in dettagli inutili, in percorsi sempre più incerti e farraginosi anche sul semplice piano della coerenza o verosimiglianza narrativa.11 Personaggi che compaiono e scompaiono senza spiegazioni, incongruenze quanto alla collocazione temporale dell’azione descritta, ampi passaggi dedicati a circostanze che si direbbero del tutto estrinseche rispetto alla cosa stessa. Conserviamo nello sguardo, se non altro, la questione del “sintomo”, che Gomperz ha il merito, suo malgrado, di suggerire. E veniamo a quello che è forse un terzo modo possibile di fare i conti con la questione platonica della cornice, della “novella” dentro a cui si colloca il dialogo. Potremmo dire che in questi luoghi marginali del dialogo, in queste soglie del suo teatro filosofico, Platone non fa altro che mostrare la cornice, non fa altro che indicare l’occhio wittgensteiniano. Operazione altamente paradossale, che richiederebbe una lunga meditazione. Operazione paradossale anche in Wittgenstein, appunto. L’occhio non lo vedi, eppure se Wittgenstein dice così, è perché in qualche modo lo sta anche mostrando e vedendo, e intanto che invita al silenzio anche si trattiene in un esercizio di parola. Proviamo allora a riflettere sulle implicazioni di questo bizzarro esercizio platonico: vedere l’occhio, esibire la cornice della verità, dire appunto la verità sulla verità esponendola proprio perciò alla sua catastrofe. “Dire il vero sul vero”, la formula arguta di Lacan inizia a mostrare un curioso rovescio. Dire la verità della verità non significa sigillare il cerchio, si potrebbe azzardare, ma mostrare il punto in cui il cerchio non tiene, o non tiene proprio perché tiene o vorrebbe tenere. p. 606. La traduzione francese cui si riferisce Mattéi forza lievemente il testo, che parla piuttosto di “un segno di quella crescente indifferenza per quel che concerne la composizione letteraria, così caratteristica di quest’ultima fase creativa platonica”; indifferenza che altrove spiega anche con l’ipotesi di “un graduale indebolirsi della creatività artistica dell’autore” (più fedele al tedesco è appunto la traduzione italiana corrente del testo di Gomperz, Pensatori greci, La Nuova Italia, Firenze 1934, pp. 502 e 484). 11. Per una panoramica su queste diverse opzioni, rinvio di nuovo a J.-F. Mattéi, L’étranger et le simulacre, cit., p. 49 sgg. Per un’interpretazione teoreticamente stringente delle (apparenti) incongruenze del prologo del Timeo rispetto alla Repubblica, cfr. C. Sini, Raccontare il mondo. Filosofia e cosmologia (Figure dell’enciclopedia filosofica, V), Jaca Book, Milano 2004.

201


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 202

6. La cornice e l’uno Se dovessimo immaginare una storia della metafisica “secondo Lacan”, dovremmo immaginarla ispirata a quel passaggio del Seminario XI in cui Lacan vede nella vicenda della filosofia “una tradizione che inizia da Platone, con la promozione dell’idea, della quale si può dire che, dopo aver preso avvio in un mondo estetico, essa si determina nell’assegnare all’essere il fine di sommo bene, raggiungendo così una bellezza che è anche il suo limite”; una tradizione di cui “non per niente Maurice MerleauPonty” individua “il vettore essenziale nell’occhio”.12 La storia della filosofia sarebbe insomma la storia di quest’occhio che tutto vede e che dunque deve vedere anche se stesso. Ininterrotto tentativo di vedersi vedere, un’immensa fatica di Sisifo che il sapere compie nella speranza di sapersi. Ideale coincidenza dell’occhio e dello sguardo, della cornice della verità e della verità della cornice. Storia dell’occhio nel suo diventare “uno”. Vedere la cornice della visione, dire la verità sulla soglia della verità, dire il vero sul vero, non è appunto ciò che sembra voler fare Platone coi suoi prologhi, se è giusta l’ipotesi che facevamo circa la loro natura di messa in scena, di esibizione a suo modo angosciosa del sipario del teatro filosofico? Come intendere quel “diventare uno”? Notiamo intanto che Lacan vede in Merleau-Ponty l’erede e il risultato più avanzato di questa storia, ma l’erede ancora tutto interno a essa, l’erede di Platone che non esce, in ultima analisi, dal cerchio incantato di Platone. Lacan invece ne esce? E se ne esce, non dovremmo dire piuttosto che ne esce soltanto perché è assolutamente fedele, magari inconsapevolmente fedele, a un gesto di “uscita” che Platone stesso inscrive alle fondamenta della storia della metafisica come storia di un discorso che vuole dire il vero sul vero? Domandiamoci infatti dove si gioca tutta questa lettura della storia della filosofia come storia del tentativo di 12. J. Lacan, Il seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. 1964 (1973), a cura di G.B. Contri, Einaudi, Torino 1979, p. 73.

202


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 203

vedersi vedere. Domandiamoci dove si gioca, per esempio, una simile lettura o una simile denuncia, nel momento in cui si applica a Platone, come appunto nel Seminario XI. Potremmo rispondere semplicemente che essa si gioca tutta all’interno della cornice, e che proprio perciò ignora non tanto l’esterno della cornice stessa, che sarebbe in fondo un altro interno, ma la cornice stessa, la sua pura e insituabile incisione. Essa si gioca all’interno della cornice, ovvero gioca “con” i significati, le verità, gli oggetti che in essa Platone ha inscritto e messo in scena. E dunque si gioca sul versante dell’idea, della dottrina delle idee, della visione delle idee che guidano l’occhio del buon dialettico e la parola del buon politico, e così via. E dunque intrattenendosi docilmente entro il perimetro o la cornice che Platone ha predisposto, legge Platone rimuovendo quel perimetro o quella cornice che pure Platone ha lasciato bene in vista, quasi in forma di sintomo, di fugace immagine anamorfica posta sulla soglia dei suoi dialoghi, come il teschio che divide e affratella i celebri ambasciatori di Holbein disegnandosi in margine alla scena. Tutta questa lettura platonizzante di Platone dimentica insomma qualcosa che non va dimenticato, e che Platone si era sforzato di ricordare a margine della sua cosiddetta “dottrina”. Questione appunto della Urverdrängung di cui sarebbe responsabile, o vittima, la theoria. Questione della Urverdrängung di cui sono responsabili i platonici, allora, molto più che Platone. Di cui sono responsabili i “metafisici”, ma non, forse, il sommo burattinaio della metafisica. Platone avrebbe lasciato “bene in vista” la cornice, si diceva. Modo di dire più che mai sintomatico, in effetti. Platone avrebbe lasciato bene in vista qualcosa che non si può vedere, se non in forza di qualcos’altro che resta celato alla vista, e che si tratterebbe dunque di andare a vedere. Platone mostra una cornice che è fittizia, come è fittizia ogni cornice mostrata. È chiaro che la cornice “vera” è per definizione indimostrabile, impossibile a mostrarsi o dimostrarsi “in verità”. È il problema che Lacan ritrova in una serie di luoghi o figure che andrebbero lette insieme a questo passo sul “dire il vero sul vero”: anamorfosi 203


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 204

(Seminario XI), schisi tra enunciato ed enunciazione, enigma come enunciazione di cui non si trova l’enunciato (Seminario XXIII), funzione-quadro (Seminario X), e così via. Potremmo dire d’altra parte che in altri luoghi Lacan non ritrova o non riconosce, stranamente, questo problema, nonostante gli si presenti nei modi più vistosi. E che proprio in quei luoghi sembra scivolare nel rischio che altrove sa denunciare con tanta lucidità. Si pensi alla teoria dei generi di discorso: il discorso dell’analista, del capitalista, dello scienziato, della religione: da che luogo discorsivo può classificare quei discorsi, Lacan? Ce n’è un quinto che fa da metadiscorso? Ma il metadiscorso non è appunto una canaillerie, come Lacan insegna? Notiamo di passaggio che proprio qui si dà a vedere appieno la differenza radicale che sussiste tra due “strategie” solo apparentemente simili, la strategia del metalinguaggio e la strategia della novella-cornice. La novella-cornice, potremmo dire, non è affatto una meta-novella. L’esibizione platonica della cornice non è affatto la cattura di un fondamento, ma, potremmo dire, l’occasione di un esercizio; non è il completamento di una scrittura logica, ma il decompletamento di ogni logica in un abito di lettura. Il testo platonico va letto in bilico sulla cornice, senza dimenticarne la soglia, senza prenderlo alla lettera. Non è di questo che si tratta, sembra dire Platone mettendo in tensione la figura con il suo bordo. Sto dicendo la verità, e sto dicendo che la sto dicendo. E se fai un passo in più, vedrai che sei tu, lettore, che stai dicendo tutto questo. Verità è questa fuga che non si può dire in verità. Meglio, verità è questa fuga che non si tratta di dire in verità. La fuga è già sempre finita, finita proprio qui, davanti a te, in te, ed è questa fine della fuga che è a suo modo “vera”. In termini lacaniani, la cornice è un’incisione della contingenza; proprio questo amico ha sognato la sete, proprio io sto raccontando dell’amico assetato; la sete è sempre sul punto di questa cornice in atto, di questo evento dell’enunciazione integralmente contingente e perciò strutturalmente enigmatico (enigma è un’enunciazione di cui non si trova l’enunciato) o se si vuole sintomatico (sintomatica è la coincidenza tra la cornice 204


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 205

della verità e il campo della verità, e la non-coincidenza che quella coincidenza sconta e produce, soffre e festeggia). Notiamo infine che tutto questo, che si verifica sulla cornice dell’opera platonica, si rispecchia e si ripete anche all’interno della cornice platonica, nella questione dell’Uno, dell’idea delle idee, del bene. L’uno, l’idea delle idee, il punto iperuranio a cui tutta l’architettura si aggrappa o da cui discende, è il sole del bene. Un grande occhio, non avrebbe mancato di notare Bataille. Dunque un’immagine fallocentrica, sarebbe autorizzato a notare Derrida? Forse no. Il sole platonico e l’occhio wittgensteiniano sono figure non di padronanza ma di sovranità. Di sovranità come punto di sfuggimento e di arresto della padronanza. L’uno non sarebbe allora pienezza, ma ciò che decompleta; ciò che non è in effetti né uno né molti; che non è dicibile e non è da dire. Ciò a partire da cui tutto si dice o si vede, compreso questo dire che dice che a partire da lì tutto si dice e si vede. Uno come perno di un esercizio del sapere sul sapere. Uno come cornice, dunque, e cornice come uno: uno come cornice, se si guarda la cosa dall’interno del sapere, se si guarda l’uno come una figura del sapere stesso; cornice come uno, in quanto infigurabile bordo del sapere di quelle figure che appaiono, incluso l’uno. Uno inscritto come significato all’interno di un uno circoscritto come cornice del significato. In altri termini, questa impossibilità di dire il vero circa la cornice del vero delinea un problema che non è, filosoficamente parlando, tale. Della cornice non si predicano il vero né il falso, che sono suoi interni effetti di significato. Non ha senso voler dire in verità la cornice della verità. Quella che Lacan denuncia come una canaglieria (sul piano etico) è un segno di stupidità sul piano logico, o di incomprensione della cosa stessa della logica. Per questo le cornici platoniche si dimenticano così facilmente. Sono in bella vista appunto perché devono svanire, e svaniscono appunto per tornare a galla sintomaticamente, enigmaticamente, anamorficamente. Non è il movimento stesso dell’occhio di Wittgenstein? L’occhio non lo vedi, e nulla nel campo visivo lascia sospettare che esso sia visto da un occhio; la potenza speci205


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 206

fica dell’occhio sta appunto in questo rendere visibile cancellandosi nel risultato di quella visibilità; e nel suo riapparirvi marginalmente, occasionalmente, quando passo davanti a uno specchio, quando mi scopro d’un tratto spiato mentre credevo di essere la spia. Il che significa che non si tratta tanto di sciogliere il paradosso sul piano di un nuovo enunciato, che non si tratta di dire in verità la cornice della verità, né di obiettare a Platone che le sue astuzie si risolvono nel mostrare una cornice necessariamente falsa, perché giocata alle spalle da una cornice ulteriore. Si tratta piuttosto di abitare il paradosso sul piano della sua enunciazione, ovvero si tratta di “leggere” il dialogo platonico non in funzione di una logica della verità, ma di un’etica della verità.13 Il dialogo sarebbe allora un dispositivo teatrale, una macchina di scrittura congegnata per produrre effetti di cornice, un testo la cui lettura coincide con l’avvio di una scrittura ulteriore; scrittura di quella verità che ciascuno deve incidere a proprie spese e “nella propria anima” (così nel Fedro) nel momento in cui, da lettore, si scopre consegnato all’oscillazione che sussiste tra quanto Platone scrive e la soglia che in quella scrittura Platone inscrive come istanza indescrivibile della scrittura stessa. “Guarda bene dunque, Protarco, quale discorso tu stai ora per accogliere da Filebo facendolo tuo e con quale discorso nostro tu stai per entrare in discussione, qualora non sia aderente al tuo intendimento. Vuoi che riassumiamo l’uno e l’altro?” Così suona l’esordio del Filebo,14 e così dovrebbe forse essere letto ogni prologo platonico, come un’apostrofe che inscrive ciò che si dice nel punto di enunciazione di chi dice e di chi legge quel dire, riscrivendolo per se stesso o in se stesso. Le celebri dottrine “non 13. Sulla dialettica platonica come dispositivo “congegnato” in modo tale da produrre nel suo destinatario uno specifico esercizio, una specifica esperienza di verità come askesis, M. Foucault, Le gouvernement de soi et des autres, Gallimard-Seuil, Paris 2008, in particolare la lezione del 16 febbraio 1983, seconda ora; e la lezione del 2 marzo 1983, seconda ora. Una seconda lettura (anti-derridiana) di Platone è quella sviluppata da R. Ronchi, Teoria critica della comunicazione, Bruno Mondadori, Milano 2004, p. 149 sgg., che fa del dialogo un dispositivo teatrale la cui performatività produce un effetto di verità che è tale in quanto coincide con un’auto-decostruzione della verità. 14. Platone, Filebo, 11a.

206


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 207

scritte” non sono forse, solo per questo, dottrine “orali”, quanto dottrine che non cessano di scriversi nel movimento stesso in cui non possono scriversi. Dottrine che occupano il posto dello stilo che scrive, che come l’occhio di Wittgenstein non ricade all’interno del campo che dischiude pur senza essere mai altrove che al margine nebbioso di quel campo. Dottrine che non si tratta di “sapere”, ma di usare come una traccia enigmatica e immaîtrisable, appunto. Chi legge è chiamato, qui, non tanto a sapere ciò che legge, ma a fare qualcosa della traccia di quel sapere che in lui, “nella sua anima”, si scrive e si produce. 7. La cornice e la morte Dunque, tutta la storia della filosofia anela a vedersi vedere, a sapersi sapere, a dire il vero sul vero. Movimento di raddoppio, struttura autoaffettiva della filosofia. Ma che cosa significa propriamente raddoppio? Potremmo dire che questo raddoppio, questa autoaffezione ha l’unico scopo o l’unico effetto di fallire ogni volta. Oppure, e sarebbe lo stesso, che esso incontra nel fallimento il suo unico successo possibile e sperabile. Struttura eteroaffettiva dell’autoaffezione. Movimento dissipativo della coincidenza. L’esercizio della coincidenza, l’evento dell’uno, non ha altro effetto che la produzione della non-coincidenza. Coincidenza della noncoincidenza e non-coincidenza della coincidenza, come aveva ben visto Merleau-Ponty facendo di questo nodo il perno di tutta la sua ultima riflessione. Forse tutta la filosofia, in quella sua struttura di raddoppio, trova, insieme al compimento del proprio destino metafisico (sul versante del desiderio di coincidenza, del sogno di vedersi vedere, della totalizzazione di cui sensatamente diffida Lacan), l’apertura del proprio destino anti-metafisico (sul versante della non-coincidenza del vedersi vedere, sul versante del desiderio di realizzare la non-coincidenza attraverso l’esercizio estremo della coincidenza). Se questo è vero, ogni espressione della metafisica, a partire da Platone, si rivela attraversata da una sorta di divisione interna, che in ogni punto si ripete e si approfondisce, intanto che in 207


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 208

ogni punto si annoda e anzi si cancella. Ogni metafisica è di più e di meno di quel che dice. Esibisce un detto, e un luogo a partire da cui è detto il detto. Esibisce una verità, e una cornice né vera né falsa della propria verità. La storia della metafisica è la storia di un sapere che si accumula, di un thesaurus veritatis che si cristallizza, ma è anche la storia della dissipazione incessante di quella verità, dello sperpero di quel tesoro in nome della verità stessa, in nome del tesoro stesso. In questo senso, il discorso di Lacan, il discorso dell’analista, il discorso della psicanalisi che “sale in cattedra” e che tuttavia non può parlare se non “sintomaticamente”, non è qualcosa d’altro dalla metafisica, ma è la metafisica stessa nella sua intenzione inaugurale. L’ultimo Heidegger, quello della Fine della filosofia e il compito del pensiero, avrebbe avuto buon gioco a osservare che la Überwindung della metafisica è un gesto che non oltrepassa la metafisica stessa ma insiste sulla soglia che la metafisica abita da sempre, e che se possiamo porci l’obiettivo della Überwindung è solo perché da sempre la metafisica frequenta quel gesto o si risolve in quel gesto. Se si dà una fine della filosofia e un inizio del pensiero, è perché da sempre la filosofia “finisce” nei suoi enunciati e da sempre comincia o ricomincia in essi, smarcandosi enigmaticamente come il punto di enunciazione di quegli enunciati e in quegli enunciati. D’altra parte, si potrebbe dire che ogni volta che si mette in scena la cornice, o che si attraversa la cornice, si attraversa anche una prova che ha a che fare con la vita e la morte. La cornice, la vita, la morte sono legate da un filo sottile e tenace, esile e necessario. Se nel Decameron è la peste a fare da cornice, con la sua incombente minaccia di dolore e distruzione, potremmo osservare che sempre e in generale l’esibizione della cornice porta la morte o la peste all’interno della scena che incornicia (benché la porti nell’esatta misura in cui anche la tiene a distanza e la oltrepassa). La spensieratezza dei racconti della villa tradisce in ogni momento la minaccia della malattia che è rimasta fuori dalle mura, ma che ciascuno ha portato nel chiuso della villa e delle proprie segrete paure. Analogamente, le Mille e una notte so208


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 209

no incorniciate da una novella che prevede che i racconti via via inanellati dalla narratrice non ad altro mirino che a differire una condanna a morte, in qualche modo tenendola viva e facendola balenare a ogni nuova sillaba. Come nota Viktor Sklovskij in una pagina folgorante di Una teoria della prosa, la cornice narrativa non manca mai di situare la narrazione in uno spazio teso tra “terribili sofferenze o addirittura tra la vita e la morte”.15 Non è in fondo una definizione universale e irrevocabile della finitezza e della tyche di ogni enunciazione e di ogni gesto umano, questa che Sklovskij formula a proposito della cornice novellistica? “Tra terribili sofferenze o addirittura tra la vita e la morte”, questo frammezzo non è forse lo spazio d’eccezione dell’esistenza stessa nel suo sapere e sapersi precipitare verso una fine già sempre presente? La famigerata dichiarazione di Hegel, che pieno di superbia rivendicava alle proprie labbra mortali la voce del sapere assoluto, va forse decifrata, in questa prospettiva, come una dichiarazione di assoluta finitezza. 8. La cornice e il debito La cornice racchiude e fonda la verità intanto che espone e consegna la verità al rischio strutturale della peste: della finitezza della sua istanza di enunciazione, della corrosione che l’istanza dell’enunciazione introduce nello spazio altrimenti trasparente dei suoi enunciati. Se, dunque, si dà un’etica (della psicanalisi come pratica autobiografica, del discorso psicanalitico come discorso non immune dalla necessità della propria autobiografia teorica, della metafisica come esercizio coincidente con l’impossibile compito di un’autobiografica esibizione “in verità” della cornice della verità) allora quest’etica ha a che fare con qualcosa che potremmo chiamare debito. Debito, cioè, della verità nei confronti della sua cornice. Debito di ogni cornice “mostrata in verità” nei confronti di una 15. V. Sklovskij, Una teoria della prosa (1929), trad. di M. Olsoufieva, Garzanti, Milano 1974, p. 72.

209


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 210

cornice “reale” non mostrata se non anamorficamente. Debito di ogni consistenza (verità, valori, desideri, oggetti, identità, immagini) nei confronti di un’inconsistenza più reale della realtà. Debito di ogni visione nei confronti di un occhio che è sempre un altro occhio, di un sole che brilla sempre altrove. Che fare di questo debito? Ciò che ogni volta Lacan o Platone (o Hegel o Wittgenstein) sembrano suggerire o sembrano fare è, per dirla con una celebre espressione lacaniana del Seminario VII, “non cedere”. Non cedere sul debito vuole forse dire questo, si può forse leggere così: non tentare di saldare il debito (saldarlo significa semplicemente morire), non rimuovere il debito (rimuoverlo significa subirlo più profondamente), non impedire che si trasferisca (trasferirlo significa, in questo senso, semplicemente vivere).

210


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 211

Aggredire, distruggere, ricominciare SILVANO PETROSINO

copo di questo breve intervento è quello di segnalare il legame che si stabilisce all’interno dell’opera di Lacan tra le tre azioni che formano il titolo su menzionato. A me sembra che questo legame, al di là della stessa interrogazione lacaniana, sia di un estremo interesse speculativo, soprattutto in merito al grande tema – sempre attuale ma anche, in un certo senso, irriducibilmente sfuggente – dell’etica e in particolare a quel suo capitolo centrale in cui ci si interroga sull’esperienza del male. Senza poter affrontare in questa sede questioni così complesse, ma anche senza pretendere in alcun modo di cogliere il senso profondo dell’ampia riflessione che Lacan articola attorno a esse, mi limiterò a ripercorrere poche pagine dell’opera dello psicanalista francese sottolineando quelli che mi sembrano essere alcuni degli snodi concettuali più fecondi. Nel 1948, all’XI Congresso degli psicanalisti di lingua francese riunito a Bruxelles, Lacan tiene una conferenza dal titolo L’aggressività in psicoanalisi.1 Il testo è organizzato in cinque tesi, la prima delle quali è la seguente: “L’aggressività si manifesta in un’esperienza, che è soggettiva per costituzione”.2 Lacan si preoccupa di precisare fin dalle primissime righe

S

1. Il testo di questa conferenza è ora raccolto in J. Lacan, Scritti (1966), trad. di G.B. Contri, Einaudi, Torino 1974, vol. I, pp. 95-118. 2. Ivi, p. 96.

aut aut, 343, 2009, 211-222

211


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 212

l’oggetto del suo intervento: l’aggressività che la psicanalisi incontra sulla propria strada è quella che abita l’esperienza stessa del soggetto e pertanto essa non deve essere in alcun modo confusa con quel tipo di aggressività e violenza che possono essere dette “naturali”. Per tentare di comprendere una tale aggressività è necessario dunque non abbandonare mai la scena dell’esperienza all’interno della quale il soggetto vive la propria “vita di soggetto” obbedendo a leggi che eccedono quelle studiate dalle scienze biologico-naturali. Di conseguenza un primo corollario della tesi ricordata può essere così formulato: il soggetto, all’interno della cui esperienza l’aggressività si impone come tratto essenziale, non può essere compreso tra gli oggetti propri delle scienze naturali. L’“ovvietà” espressa da Lacan è fondamentale, e in verità per nulla scontata; essa può essere così formulata: l’aggressività propria del soggetto è soggettiva “per costituzione”. In tal senso si deve affermare che questa aggressività è da intendere sempre come una “risposta” del soggetto, tenendo ben presente che “una reazione non è una risposta. Se premo un pulsante elettrico ed ecco la luce, c’è risposta solo per il mio desiderio”.3 All’interno di tale prospettiva, quella aperta da un soggetto che da nessun punto di vista e sotto alcun aspetto può e deve essere inteso come un oggetto o come un mero vivente, Lacan non esita a parlare di “pressione intenzionale”4 e di “aggressività intenzionale”.5 “Intenzionalità”, come è ovvio, significa “soggettività”, laddove tuttavia, se da una parte quest’ultima sfugge al campo d’azione delle scienze biologico-naturali, dall’altra, ad avviso di Lacan, essa sfugge anche al campo d’azione delle scienze filosofiche, dato che il soggetto che si manifesta nell’aggressività che gli è propria non è mai quello che si esaurisce, per quanto attiene all’essenziale, nel cogito, non è mai il soggetto cartesiano. Lacan può così precisare la propria analisi: 3. Id., Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi (1953), in Scritti, cit., p. 293. 4. Id., L’aggressività in psicoanalisi, cit., p. 97. 5. Ivi, p. 98.

212


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 213

L’esperienza analitica ci permette di far prova della pressione intenzionale. La leggiamo nel senso simbolico dei sintomi, non appena il soggetto mette a nudo le difese con cui li sconnette dalle loro relazioni con la sua vita quotidiana e con la sua storia, – nella finalità implicita delle sue condotte e dei suoi rifiuti, – nelle occasioni mancate della sua azione, – nella confessione dei suoi fantasmi privilegiati, – nei rebus della sua vita onirica. Possiamo quasi misurarla nella modulazione rivendicatrice che talvolta sostiene tutto il discorso, nelle sue sospensioni, esitazioni, inflessioni e lapsus.6 È bene evidenziare due aspetti di questo passaggio: (a) la “pressione intenzionale” del soggetto deve essere letta “nel senso simbolico dei sintomi”; tale aggressività – quella che si manifesta in un’esperienza che è soggettiva per costituzione – “corrode, mina, disgrega, castra, porta alla morte”7 ed è definita da una “Gestalt propria all’aggressione nell’uomo, e legata al carattere simbolico”.8 Come è evidente, si insiste sempre sullo stesso punto: qui non si tratta dell’aggressività naturale, dell’istinto naturale di aggredire il più delle volte per difendersi, o anche: l’aggressività propria del soggetto (quella relativa a un male non come limite o sofferenza, ma come espressione di una volontà che mira a distruggere, castrare e a portare alla morte) è del tutto diversa da quella studiata dalle scienze naturali;9 (b) la pressione intenzionale che si esprime in questa aggressività accade secondo una “modulazione rivendicatrice”. 6. Ivi, p. 97. 7. Ivi, p. 98. 8. Ivi, p. 99. 9. Può essere utile a tale riguardo ricordare quest’altro passaggio di Lacan: “Il prestigio dell’idea di lotta per la vita, se non è superfluo dimostrarlo, è attestato a sufficienza dal successo di una teoria che ha potuto far accettare al nostro pensiero l’idea di una selezione fondata sulla sola conquista dello spazio da parte dell’animale come una spiegazione valida degli sviluppi della vita. E il successo di Darwin sembra derivare dal fatto di proiettare i depredamenti della società vittoriana e l’euforia economica sanzionante agli occhi di questa la devastazione sociale ch’essa inaugurava su scala planetaria, e dal fatto di giustificare tutto questo con l’immagine di un laissez faire dei divoratori più grossi in concorrenza per la loro preda naturale” (ivi, p. 115).

213


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 214

Ora, che cosa lega, secondo Lacan, l’ordine simbolico dei sintomi alla modulazione rivendicatrice? In termini più radicali ci si potrebbe anche chiedere: perché “rivendicatrice”? E nei confronti di che cosa o di chi? Per rispondere a tali interrogativi bisogna passare da ciò che Lacan ha chiamato “lo stadio dello specchio”;10 in estrema sintesi: il soggetto si identifica come unità/identità a partire dall’altro, o meglio a partire da “un’immagine [di sé: per l’appunto l’immagine di sé allo specchio] che l’aliena a se stesso”.11 È come se il soggetto per giungere a sé – più correttamente si deve dire: per giungere a quell’immagine di sé che egli identifica e chiama “io” – dovesse sempre passare da altro da sé, da ciò che Lacan chiama una “imago” di sé; in tal senso: Lo stadio dello specchio è un dramma la cui spinta interna si precipita dall’insufficienza all’anticipazione – e che per il soggetto, preso nell’inganno dell’identificazione spaziale, macchina fantasmi che si succedono da un’immagine frammentata del corpo ad una forma, che chiameremo ortopedica, della sua totalità, – ed infine all’assunzione dell’armatura di un’identità alienante che ne segnerà con la sua rigida struttura tutto lo sviluppo mentale. Così la rottura del cerchio tra l’Innenwelt e l’Umwelt genera l’inestinguibile quadratura degli inventari dell’io.12 A parziale chiarimento di un simile “dramma” e “crocevia strutturale” mi limito a sottolineare alcuni passaggi dell’importante pagina 107 degli Scritti: È questa captazione da parte dell’imago della forma umana [...] a dominare tra i sei mesi e i due anni e mezzo tutta la dialettica del comportamento del bambino in presenza del simi10. J. Lacan, Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io (1949), in Scritti, cit., pp. 87-94. 11. Id., L’aggressività in psicoanalisi, cit., p. 107. 12. Id., Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io, cit., p. 91.

214


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 215

le. Durante tutto questo periodo si registreranno le reazioni emotive e le testimonianze articolate di un transitivismo normale. Il bambino che picchia dice di essere stato picchiato, quello che vede cadere piange. Allo stesso modo, è in un’identificazione all’altro che egli vive tutta la gamma delle reazioni di prestanza e di parata, di cui le sue condotte rivelano in modo evidente l’ambivalenza strutturale, schiavo identificato al despota, attore allo spettatore, sedotto al seduttore. Abbiamo qui una sorta di crocevia strutturale, su cui dobbiamo adattare il nostro pensiero per capire la natura dell’aggressività nell’uomo e la sua relazione col formalismo del suo io e dei suoi oggetti. Rapporto erotico in cui l’individuo umano si fissa a un’immagine che l’aliena a se stesso, ecco l’energia ed ecco la forma in cui ha origine quell’organizzazione passionale che egli chiamerà il suo io. Questa forma si cristallizzerà infatti nella tensione conflittuale interna al soggetto che determina il risveglio del suo desiderio per l’oggetto del desiderio dell’altro: il concorso primordiale precipita come concorrenza aggressiva, ed è da tale forma che nasce la triade dell’altro, dell’io e dell’oggetto.13 All’interno di una simile interpretazione si comprende con chiarezza come il passaggio da altro da sé per raggiungere sé, per raggiungere quell’immagine di sé che è l’“io”, sia per il soggetto un processo (avventura che è anche disavventura) a un tempo di identificazione e di alienazione, luogo di un assoluto attaccamento (si tratta di un’autentica “fissazione”) e, proprio per questo, di una decisa aggressione: infatti “il concorso primordiale precipita come concorrenza aggressiva”. Lacan può così affermare: “Io sono un uomo”, che nel suo pieno valore non può voler dire altro che: “Io sono simile a colui che, per il fatto di riconoscerlo come uomo, fondo a riconoscermi come tale”. Que13. Id., L’aggressività in psicoanalisi, cit., pp. 107-108 (corsivi miei).

215


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 216

ste diverse formule non si capiscono in ultima analisi che in riferimento alla verità “Io è un altro”, meno folgorante per l’intuizione del poeta che evidente per lo sguardo dello psicoanalista.14 Il motivo per il quale l’aggressività si manifesta in un’esperienza che è soggettiva per costituzione è dunque da ricercare proprio nel fatto che il soggetto si identifica e si riconosce come “io” solo all’interno dell’alienazione da sé. Il perché della “modulazione rivendicatrice” dovrebbe essere a questo punto evidente: se il momento in cui il soggetto si riconosce (si identifica) come identità coincide con quello nel quale egli riconosce (identifica) l’altro come colui che lo riconosce (identifica) come identità, allora il rapporto con l’altro si trova caratterizzato da un tale investimento affettivo (è, per l’appunto, un “assoluto concorso”) che subito “precipita come concorrenza aggressiva”. È precisamente qui, nel cuore del “dramma” che accompagna quella “organizzazione passionale” che il soggetto chiama “io” (che non coincide mai con la sua verità, con quella che si potrebbe anche definire la sua più intima soggettività, la sua singolarità o, meglio ancora, la sua stessa unicità), è proprio qui che emerge ciò che Lacan definisce anche “aggressività originale”:15 L’io appare fin dall’origine segnato da questa relatività [si tratta sempre del concorso, del nesso soggettività/intersoggettività] aggressiva [...]. L’esperienza soggettiva va abilitata con pieno diritto a riconoscere il nodo centrale dell’aggressività ambivalente, che il nostro momento culturale ci propone nella forma dominante del risentimento, fin nei suoi aspetti più arcaici nel bambino.16 Di conseguenza, vi è una “evidente relazione tra la libido narcisistica e la funzione alienante dell’io, e l’aggressività che se ne 14. Ivi, p. 112. Si vedano anche le pp. 65, 110, 292 degli Scritti. 15. Id., L’aggressività in psicoanalisi, cit., p. 109. 16. Ivi, p. 108.

216


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 217

sviluppa in ogni relazione con l’altro, foss’anche quella dell’aiuto più samaritano”.17 In conclusione, se il costituirsi dell’identità dell’io in quanto “io” è inscindibile dal riconoscimento dell’altro, allora si stabilisce quasi inevitabilmente un nesso d’essenza tra la dimensione narcisistica e un’alienazione (dipendenza affettiva dall’identificazione dell’altro) che non per caso sfocia nell’aggressività più decisa.18 La definizione lacaniana è così stabilita: “L’aggressività è la tendenza correlativa a un modo di identificazione che chiamiamo narcisistico e che determina la struttura formale dell’io dell’uomo e del registro di entità caratteristico del suo mondo”.19 Passiamo ora a un secondo testo lacaniano. Lo psicanalista francese ha affermato che l’aggressività del soggetto è retta da una “modulazione rivendicatrice”; bisogna ora precisare che tale rivendicazione non si ferma mai alle parole, e per una ragione essenziale. Emerge a questo livello quello che è uno dei tratti più stabili della riflessione tradizionale sul male, presente, per esempio, in modo del tutto esplicito nel grande trattato sui Nomi divini di Dionigi Areopagita:

17. Id., Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io, cit., pp. 92-93. 18. Una logica simile, pur tra essenziali differenze, è individuata da René Girard a proposito del nesso che lega tra loro ciò che lo studioso definisce “mimesi d’apprendimento” e “mimesi di rivalità”: il soggetto apprende a desiderare attraverso quel desiderio dell’altro che in tal modo è via d’accesso ma anche ostacolo alla sua realizzazione. Che l’oggetto del desiderio sia per definizione l’oggetto proibito significa per Girard che l’altro che lo designa come desiderabile è lo stesso che, desiderandolo lui stesso, non lo rende più disponibile. In altri termini: il modello si trasforma inevitabilmente, proprio perché modello, in avversario. La porta verso l’aggressione è così aperta. 19. J. Lacan, L’aggressività in psicoanalisi, cit., p. 104. “Si può così seriare in modo continuo la reazione aggressiva: dall’esplosione brutale quanto immotivata dell’atto, attraverso tutta la gamma delle forme di belligeranza, fino alla guerra fredda delle dimostrazioni interpretative, parallelamente alle imputazioni di nocività che, senza parlare dell’oscuro kakon cui il paranoide riferisce la propria discordanza da ogni contatto vitale, vanno dalla motivazione, ricavata dal registro di un organicismo assai primitivo, del veleno, a quella magica del maleficio, telepatica, dell’influenza, lesionale, dell’intrusione fisica, abusiva, della deviazione dall’intenzione, spossessante, del furto del segreto, profanatoria, della violazione dell’intimità, giuridica, del pregiudizio, persecutoria, dello spionaggio e dell’intimidazione, prestigiosa, della diffamazione e dell’attentato all’onore, rivendicativa, del danno e dello sfruttamento” (ivi, pp. 104-105).

217


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 218

Seguendo il vero ragionamento, si risponderà che il male, in quanto male, non produce alcuna sostanza o generazione, ma soltanto rovina e distrugge, per quel che può, la sostanza degli esseri. Se poi qualcuno sostiene che esso è atto a generare per il fatto che con la distruzione di una cosa se ne fa nascere un’altra, bisogna rispondere in piena verità che non in quanto distruzione dà la nascita, ma in quanto distruzione e male distrugge e danneggia, mentre la generazione e la sostanza si producono a causa del bene. Così il male per conto proprio è distruzione e conduce all’essere, però ad opera del bene. Così il male di per se stesso è distruzione, ma genera altri esseri ad opera del bene.20 Si tratta dunque del grande tema della “distruzione”, della determinazione della natura del male morale come “volontà di distruggere”: la modulazione rivendicatrice che assume l’aggressività del soggetto nei confronti dell’altro si dispiega soprattutto ed essenzialmente come desiderio della sua distruzione. Da questo punto di vista, cioè da quello che si sforza di restare all’interno dell’esperienza del soggetto, il male è sempre distruzione di un bene, e in modo specifico è volontà di distruzione dell’altro. Eppure, se ci si fermasse a una tale conclusione, si perderebbe quello che è forse il vero motore di questo terribile momento dell’esperienza soggettiva. Infatti, perché il soggetto desidera distruggere? Si potrebbe rispondere: egli tenta di ristabilire un ordine e riparare un torto, cerca di mettere fine a ciò che, narcisisticamente, percepisce come un’ingiustizia: se la colpa è ultimamente dell’altro, allora questo deve essere distrutto, perché è solo in tal modo che il soggetto può sperare (delirare) di mettere fine alla propria sofferenza. L’altro “deve” essere tolto di mezzo, deve “scomparire dalla mia vista”21 poiché egli viene identifica20. Dionigi Areopagita, Nomi divini, in Tutte le opere, trad. di P. Scazzoso, Rusconi, Milano 1981, IV, 19-20, 717 B-717 C. 21. È a questo livello che si ritrova quell’esperienza universale che è il “malocchio”: desiderio e speranza di distruggere il bene dell’altro, e più radicalmente ancora quel bene che è l’altro stesso, con il proprio sguardo: “È in quanto ogni desiderio umano è basato sul-

218


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 219

to come l’ostacolo che sempre si frappone (questo, per l’appunto, sarebbe il suo luogo per eccellenza: la topologia dell’altro è il più delle volte la descrizione di un ostacolo) sulla via di quella realizzazione che il soggetto non rinuncia a considerare come dovuta. Il tema del male si trova così vertiginosamente intrecciato con quello della giustizia. Ma questa giusta risposta – che è tale proprio perché non indietreggia di fronte all’evidenza che la porta a riconoscere nella trama del male il nodo della giustizia – è tuttavia ancora parziale. In effetti il distruggere è solo un momento di un gesto di cui non bisogna lasciarsi sfuggire la vera posta in gioco. Accenno brevemente, a questo riguardo, al secondo testo di Lacan di cui parlavo poc’anzi.22 Lo psicanalista francese, dopo aver precisato che il concetto freudiano di pulsione di morte deve essere ricondotto a quello di volontà di distruzione, e aver intimato: “Non mettete assolutamente l’accento sul termine volontà”,23 afferma: Volontà di distruzione. Volontà di ricominciare da zero. Volontà di qualcosa d’Altro, nella misura in cui tutto può essere chiamato in causa a partire dalla funzione del significante [...]. È in effetti esigibile in questo punto del pensiero di Freud che ciò di cui si tratta sia articolato come pulsione di distruzione, in quanto essa mette in causa tutto ciò che esiste. Ma essa è pure volontà di creazione a partire da niente, volontà la castrazione che l’occhio assume la sua funzione virulenta, aggressiva, e non semplicemente ingannatrice come nella natura [si tratta sempre di quell’aggressività che ‘si manifesta in un’esperienza, che è soggettiva per costituzione’] [...]. Mi dicevo, per esempio, che nella Bibbia dovevano pur esserci dei passi in cui l’occhio conferisse la baraka, la buona sorte. C’è qualche punto minore in cui ho esitato – ma decisamente no. L’occhio può essere profilattico, ma in ogni caso non è benefico, è malefico. Nella Bibbia, e anche nel Nuovo Testamento, di buon occhio non ce n’è, di cattivo ce n’è ad ogni cantone” (J. Lacan, Il seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. 1964, 1973, trad. di S. Loaldi e I. Molina, Einaudi, Torino 1979, p. 120). Per un’analisi più approfondita dell’esperienza dell’invidia, strettamente connessa con quella del malocchio, rinvio a S. Petrosino, Visione e desiderio, Jaca Book, Milano 1992. 22. J. Lacan, Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi. 1959-1960 (1986), trad. di G.B. Contri, Einaudi, Torino 1994, mi riferirò alle pagine dedicate all’analisi della pulsione di morte (pp. 261-276). 23. Ivi, p. 269.

219


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 220

di ricominciare [...] Come in Sade, la nozione della pulsione di morte è una sublimazione creazionista.24 Qui la pulsione di distruzione avvolge ed esaspera il tema dell’aggressione affrontato da Lacan nel 1948: non ci si rivolge più soltanto all’altro, ma a “tutto ciò che esiste” come altro. Tale dilatazione, questa estrema accentuazione svela, lacanianamente, il movente che governa il gesto del soggetto: quest’ultimo, proprio in quanto soggetto, non distrugge mai per distruggere (l’idea di un “istinto distruttivo” è da questo punto di vista del tutto fuori luogo, è un’idea ingenua), ma per ricominciare, per poter ricominciare “tutto da capo”; in tal senso, conviene ripeterlo: “Freud vi dispiega la sua sublimazione riguardante l’istinto di morte, in quanto tale sublimazione è fondamentalmente creazionista”.25 È precisamente a questo punto, quasi impercettibile eppure tragico, che il distruggere, e più precisamente il male in quanto distruzione, si configura come una promessa “per il soggetto”. All’interno della sua esperienza, soggettiva per costituzione, il distruggere si configura come un’opportunità per il soggetto, come una strada che gli sta sempre e insistentemente dinnanzi: egli, infatti, può sempre credere, immaginare, fantasticare, delirare e infine decidere che per mettere fine alla propria sofferenza e ricominciare finalmente tutto da capo deve distruggere l’altro. Tuttavia – dovendo ora chiudere il presente intervento mi limito solo ad accennare a questo aspetto della questione che invece meriterebbe ben altra attenzione –, questa strada sempre aperta è anche una strada sempre chiusa, fin dal principio sbarrata e destinata al fallimento. In effetti per ricominciare davvero, per potersi dare una chance autenticamente nuova, il soggetto non può mai limitarsi a distruggere l’altro, ma dovrebbe anche poterlo annullare, dovrebbe poterlo annichilire (per esempio: dovrebbe riuscire a cancellare del tutto dalla propria me24. Ivi, p. 270. 25. Ivi, p. 271.

220


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 221

moria l’“è stato” dell’altro, e in questo senso dovrebbe riuscire addirittura a non saperne più nulla, dimenticandosi perfino di aver distrutto ciò che ha distrutto, dovrebbe così riuscire a impedirsi – ma come obbedire a un simile imperativo? – ogni memoria dell’altro e ogni rimorso), ma è proprio questo ciò che il soggetto ultimamente non è mai in grado di potere: egli, certo, ogni volta e in ogni circostanza, può distruggere, in mancanza di “meglio” può sempre distruggere, ma distruggere non è annichilire; il niente non è il nulla e in tal senso il soggetto, distruggendo, può sempre e “solo” distruggere. Così intesa, la volontà di ricominciare attraverso la distruzione, “la volontà di creazione a partire da niente”, si rivela essere essa stessa un niente, è per sua natura una volontà votata alla frustrazione. Lacan, come si è notato, ricorda in proposito Sade e in particolare la sua riflessione sul concetto di Natura: Sade anima davanti a noi la teoria che attraverso il crimine l’uomo si trova a collaborare a nuove creazioni della natura. L’idea è che il puro slancio della natura è ostruito dalle sue proprie forme [...]. Parimenti la cura più profonda di cui si possa imputare quel soggetto psichico, nel senso del termine che significa il più profondamente nascosto, che sarebbe la Natura, sarebbe di far piazza pulita, per permetterle di ricominciare il proprio tentativo, di ripartire in uno slancio nuovo.26 Ma questo tragico “far piazza pulita” è tragico, oltre che per i suoi effetti su ciò e/o su colui che viene tolto di mezzo, anche perché non è mai all’altezza del desiderio che lo anima, perché non risponde mai al desiderio del soggetto, perché in verità non è mai “per il soggetto”. La via del male e del distruggere, della scelta per il male come libero sfogo alla pulsione di distruzione, è un inganno, è sempre l’effetto di un’allucinazione; da questo punto di vista, forse, l’unico vero male per il soggetto è proprio 26. Ivi, p. 267 (corsivi miei).

221


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 222

quello di credere che il male possa essere in qualche modo “per” lui. Al riguardo Lacan lascia la parola a Sade: Per servirla [la natura], ci vorrebbero distruzioni molto più totali [...] molto più complete di quelle che possiamo operare [...]. Bisognerebbe, per servirla ancor meglio, che si potesse opporsi alla rigenerazione risultante dal cadavere che sotterriamo. L’assassinio toglie soltanto la prima vita all’individuo che colpiamo; bisognerebbe potergli strappare la seconda, per essere ancora più utili alla natura; infatti è l’annullamento che essa vuole: non è alla nostra portata mettere nei nostri assassinî tutta l’estensione che essa vi desidera.27

27. Sade, Juliette, citato in J. Lacan, Il seminario. Libro cit., p. 268.

222

VII.

L’etica della psicoanalisi,


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 223

Tra Kant e Sade: l’amore del prossimo DANIELE TONAZZO

1. La breccia kantiana È molto noto il fatto che l’analisi kantiana del dovere e la conseguente distinzione tra l’imperativo categorico e gli imperativi ipotetici è apparsa a Freud come l’espressione della forma particolare di masochismo che egli chiama morale.1 Meno noto è il fatto che per Lacan l’analisi kantiana del dovere non sia semplicemente ricompresa nella teoria psicanalitica come una sua anticipazione, ma rappresenti una delle condizioni storiche indispensabili che hanno reso possibile l’evento Freud. E questo non solo perché, nella cornice generale dell’utilitarismo, che rappresenta per lo psicanalista francese lo status quo dell’etica moderna in contrapposizione all’etica antica, Kant fa vedere che l’uomo non è riducibile a un automa governato dalla fuga dal dolore e dalla ricerca del piacere, ma anche perché Kant, passando oltre, avvia quella tradizione che mostra come l’uomo possa ricercare la felicità nel male,2 contraddicendo gli assiomi di qualsiasi principio “ragionevole” di calcolo della felicità. Di questa tradizione, che per Lacan inizia per l’appunto con Kant, Sade rappresenta l’espressione più compiuta. Solo a partire da questa ascesi della felicità nel male Freud può dichiarare che l’uomo è abitato da un desiderio di morte e che “perfino l’auto1. Cfr. S. Freud, Il problema economico del masochismo (1924), in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1989, vol. X, p. 13. 2. J. Lacan, Kant con Sade (1963), in Scritti, Einaudi, Torino 1974, vol. II, p. 764.

aut aut, 343, 2009, 223-247

223


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 224

distruzione della persona non può compiersi senza soddisfazione”.3 Frase che troviamo ripetutamente, appunto, nelle dissertazioni di Sade. Ma si avrebbe torto a credere che, avendo riconosciuto nell’uomo la speciale insistenza che lo porta a ricercare la felicità oltre la soglia del benessere che può condividere con il suo simile, l’etica della psicanalisi si limiti a ricondurvelo, come è chiamato a fare il legislatore benthamiano. Al contrario, l’etica della psicanalisi dota questa ricerca di un oggetto specifico, in quanto lo nomina,4 e rovescia l’inclinazione a considerarla come una colpa, un difetto o, peggio ancora, come vanità. Nell’insistenza che Freud chiama Wiederholungszwang occorre piuttosto leggere la chance di raggiungere un Reale che, per essere stato contrapposto da Jeremy Bentham alle finzioni attraverso cui il legislatore promuoverà il principio della massima felicità nella comunità moderna, non è stato affatto avvicinato, ma è stato rinviato, al contrario, come la meta di una riforma potenzialmente infinita.5 Qui è ancora Kant a supplire alla carenza del suo con-

3. S. Freud, Il problema economico del masochismo, cit., p. 16. 4. La strategia del primo trimestre del seminario sull’etica di Lacan oscilla tra la frase “abbiamo bisogno di riferimenti” (cfr. J. Lacan, Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi. 1959-1960, 1986, Einaudi, Torino 1994, p. 44), che indica la volontà dello psicanalista francese di mettere Freud alla prova della tradizione etica, e la frase “ci vuole qui un significante concreto, positivo, particolare” (ivi, p. 53), che invece indica la volontà di concentrare tutti gli aspetti eticamente più innovativi del discorso di Freud attorno a un significante emblematico, das Ding. 5. Lacan insiste costantemente sul fatto che non c’è utilitarismo senza una teoria (ontologica) delle finzioni. Senza entrare troppo nel merito si può osservare che la distinzione tra Reale e fittizio, che Lacan dietro suggerimento di Roman Jakobson introduce a partire dal cosiddetto Fragment of Ontology (1813-1821) di Jeremy Bentham, è concepita dal filosofo inglese sia come una teoria ontologica, sia come uno strumento di riforma al servizio del legislatore. Il legislatore apprenderà a enunciare la legge di una comunità quanto più ampia possibile (in contrapposizione alla polis aristotelica) riducendo sempre di più i nomi di entità fittizie che si riferiscono ai piaceri dei singoli corpi e tenderà a servirsi di nomi di entità reali che tengono conto dello stato del corpo sociale secondo il principio della massima felicità. In altri termini, intendiamo dire che dal punto di vista sia etico che giuridico per Bentham il termine Reale indica il punto limite di una riforma piuttosto che un certo stato da opporre definitivamente al fittizio. Cfr. J. Bentham, Teoria delle finzioni (1824), a cura di R. Petrillo, Cronopio, Napoli 2000, passim. Sulla lettura lacaniana del Fragment la curatrice è tornata in R. Petrillo, B. Moroncini, L’etica del desiderio. Un commentario al seminario sull’etica della psicoanalisi, Cronopio, Napoli 2007, pp. 56-57.

224


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 225

temporaneo, a condizione, però, che dopo avere distillato la legge morale mediante un’analisi del dovere dell’uomo comune, egli non si limiti a dirmi che la Legge che porta oltre la finzione ha un oggetto, chiamandolo tradizionalmente “Sommo bene”, ma mi ricordi anche che quest’oggetto può essere detto il mio prossimo. Il che è precisamente, come vedremo, quello che il filosofo di Königsberg non manca di fare. Detto questo a guisa di premessa, occorrerà dunque mostrare come l’insistente ricerca del prossimo che viene a coincidere con la legge stessa, non in quanto il soggetto se la darebbe in modo spontaneo, ma in quanto la patisce, si riveli il punto medio tra Kant e il suo contemporaneo Sade, e come l’inversione (reciproca) dell’uno nell’altro permetta di intuire il rovescio positivo di una tensione che può apparire come morte e autodistruzione solo perché si è appreso a scambiare la permanenza con un nome della vita e il divenire, compreso quello di cui qui specificamente si tratta, con un nome, appunto, della morte. Questo rovesciamento della morte nella vita è ciò di cui l’etica della psicanalisi a nostro avviso è in cerca. Torniamo a Kant, dunque, per poi metterlo alla prova con Sade. 2. Le condizioni di (im)possibilità dell’atto Nella Critica della ragion pratica Kant non si limita a riproporre l’analisi del concetto di dovere che nella Fondazione della metafisica dei costumi pretendeva di trovare nell’esperienza immediata dell’uomo comune, ma si domanda in quale caso l’atto comandato dal dovere può essere realizzato. La legge morale, infatti, sarebbe una “chimera” se l’oggetto della facoltà di desiderare che essa determina fosse impossibile.6 Kant riconosce che per agire secondo la legge, rinunciando al piacere sensibile, devo potermi rappresentare la mia felicità come congiunta alla mia moralità nel concetto di un bene “perfetto” che sia necessaria6. Cfr. I. Kant, Critica della ragion pratica (1788), trad. di A.M. Marietti, Rizzoli, Milano 1994, p. 383: “Dunque, se il sommo bene secondo regole pratiche è impossibile [unmöglich] anche la legge morale, che comanda di promuoverlo, deve essere fantastica e indirizzata verso scopi vuoti e immaginari, quindi intrinsecamente falsa”.

225


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 226

mente possibile.7 Tuttavia, siccome è un fatto che la mia intenzione morale non è affatto la causa della natura,8 Kant ritiene che della congiunzione della mia intenzione con la mia felicità non possa esservi conoscenza, ma solo fede pratica. In altri termini, se posso sacrificare tutto il peso delle inclinazioni patologiche che mi avvincono agli oggetti sensibili solamente sotto la condizione di rappresentarmi la congiunzione tra il mio sacrificio e la sua giusta ricompensa, che chiamo felicità,9 questa rappresentazione non è una conoscenza, ma una specie di sogno diurno, che Kant chiama illusione.10 In questo sogno diurno, che mi è indispensabile, mi rappresento come condizione pratica del sacrificio la sopravvivenza del corpo alla sua distruzione fisica e, correlativamente, rappresento la potenza assoluta di Dio come causa del dominio che esercito sulla (mia) natura. Poiché infatti 7. Cfr. ivi, p. 411: “Noi abbiamo il dovere di cercare di promuovere il sommo bene (il quale dunque deve necessariamente essere possibile)”. La definizione kantiana di necessario è ciò il cui opposto è impossibile. 8. Kant definisce il soggetto della legge come “un ente che proprio per questo non può, con la sua volontà, essere causa di questa natura”: cfr. ivi, p. 411. Il concetto di natura di Kant si identifica con quello di natura conosciuta, vale a dire ordinata secondo leggi della meccanica di Newton; pertanto natura è l’esperienza possibile stessa, che rispetta le categorie dell’intelletto umano. Dell’incapacità di rovesciare l’esperienza possibile a cui può chiamarmi la legge morale faccio esperienza secondo Kant nella colpa: si rilegga nella Delucidazione critica dell’analitica della ragione pura pratica il celebre esempio dell’uomo che ha commesso un furto in perfetta conformità all’esperienza possibile (o al meccanismo della natura) e nondimeno avverte dentro di sé il lancinante dovere di non commetterlo che invertirebbe, esigendo l’impossibile, la trama spazio-temporale del già conosciuto. Cfr. ivi, pp. 333-353. 9. Ivi, p. 409: “Felicità è lo stato di un essere razionale nel mondo al quale, nella sua esistenza intera, tutto vada secondo il suo desiderio e volere, e dunque essa si basa sull’accordo della natura con il suo scopo intero, e insieme con il motivo determinante essenziale della sua volontà”. 10. Sull’uso kantiano del termine illusione, cfr. I. Kant, Critica della ragion pura (1781), a cura di A.M. Marietti, Rizzoli, Milano 1998, vol. I, p. 411, dove, introducendo il lettore alla Dialettica trascendentale, Kant definisce l’idea come un’apparenza trascendentale o, appunto, come un’illusione naturale che non può essere corretta semplicemente come un errore: “Dunque la Dialettica trascendentale si accontenterà di scoprire l’apparenza di giudizi trascendentali e insieme impedire che inganni; ma non può mai ottenere che essa (come l’apparenza logica) persino scompaia e cessi di essere un’apparenza. Infatti abbiamo a che fare con un’illusione naturale e inevitabile”. Sulla dialettica trascendentale come logica dell’illusione, riletta in una chiave lacaniana come una logica del fantasma, insiste A. Zupancic, Ethics of the Real. Lacan, Kant, Verso, London-New York 2000, pp. 64-69. Sullo stesso argomento, cfr. M. Bonazzi, Lacan e la logica del fantasma, “OT/Orbis Tertius”, 1, 2008, pp. 65-73.

226


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 227

ho un corpo che mi vincola alle inclinazioni sensibili, al piacere e al dolore, non posso conformarmi alla legge morale che in una successione infinita di istanti, e questo mi costringe a rappresentare una durata in cui avrò il tempo, dopo la morte, per coincidere con la legge. Come ha notato Alenka Zupancic, il postulato kantiano dell’immortalità dell’anima può essere inteso come il sogno della sopravvivenza infinita del corpo al dolore e alla morte, dal momento che non si vedrebbe come possa avere luogo un progresso infinito verso l’adeguazione perfetta alla legge morale dove non vi fosse più il corpo come elemento che oppone resistenza, mediante le inclinazioni sensibili, al potere della ragione pratica.11 Scrive infatti Kant: Ma la piena adeguazione della volontà alla legge morale è la santità, una perfezione di cui non è capace nessun ente razionale del mondo sensibile in nessun momento della sua esistenza. Poiché tuttavia è richiesta come praticamente necessaria, può essere trovata solo in un progresso all’infinito verso quella piena adeguatezza […]. Ma tale progresso all’infinito è possibile solo col presupposto di una sopravvivenza infinita dell’esistenza e personalità dello stesso ente razionale (che si chiama immortalità dell’anima).12 D’altra parte è la mia impotenza sulla natura, già ricordata, a spingermi a sognare che un Dio, vale a dire un ente onnipotente che è causa della natura ed è al tempo stesso titolare della mia ragione, faccia coincidere infine lo stato del mio corpo governato dalle inclinazioni sensibili con la legge morale. Riunisca, in altre parole, la mia divisione tra un desiderio inferiore, che oscilla costantemente tra il piacere e il dolore, e un desiderio superiore, che è determinato dalla legge ed è sicuramente identico, per Kant, a quello di Dio. In conformità a un gesto che si contrappone frontalmente all’agostinismo, allo scotismo e alla conce11. Cfr. A. Zupancic, Ethics of the Real. Lacan, Kant, cit., pp. 80-83. 12. I. Kant, Critica della ragion pratica, cit., pp. 403-405 (corsivi miei).

227


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 228

zione pascaliana del Dio nascosto, Kant non presuppone Dio come autore della natura e dell’uomo, ma al contrario produce l’idea di Dio a partire dall’onnipotenza della razionalità umana; la definizione che il filosofo di Königsberg dà di Dio, infatti, comporta che esso si identifichi con una causalità non impotente sulla natura e conforme alla convinzione morale dell’uomo: Dunque il sommo bene nel mondo è possibile solo in quanto si assuma una causa suprema della natura che abbia una causalità conforme alla convinzione morale. Ora un ente che sia capace di azioni conformi alla rappresentazione di leggi è un’intelligenza (ente razionale) e la causalità di tale ente secondo siffatta rappresentazione delle leggi è la sua volontà. Dunque la causa suprema della natura, in quanto debba essere presupposta per il sommo bene, è un ente che, con l’intelletto e la volontà, è la causa (quindi l’autore) della natura, ossia Dio.13 Dio non è semplicemente onnipotente, ma è onnipotente sotto la clausola di essere razionale: infatti se Dio potesse qualsiasi cosa, non potrebbe essere la garanzia che la realtà dell’oggetto con cui devo essere congiunto nell’atto è necessariamente possibile.14 Così, sognando la sopravvivenza del mio corpo a ogni sofferenza e la congiunzione del mio corpo con l’oggetto che l’Altro saprà causare precisamente perché io non so farlo, posso esercitare la disciplina del dovere e identificarmi con l’agente di una potenza razionale. Infatti quando il bene sarà stato reale, allora sarà stata fatta la volontà di Dio e non più la mia, e sarà stata fatta per mezzo mio: in altre parole più mi avvicino, illudendomi, al limite ipotetico che Kant appone all’esercizio della mia facoltà di desiderare superiore, più questa vira dall’impotenza all’onnipotenza, eclissando la responsabilità dei miei atti. Senza richia13. Ivi, p. 411. 14. Pertanto l’Altro per Kant si profila anzitutto come il garante della possibilità dell’oggetto della legge. Questa possibilità sarebbe resa necessaria dall’addizione del postulato alla legge, che definisce il meccanismo della garanzia.

228


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 229

mare i verbali dei processi nazisti, come la lettura di un lavoro di Hannah Arendt permetterebbe di fare,15 si può osservare che ciò di cui godo, mentre l’illusione trascendentale ricopre e allo stesso tempo conferma il mio isolamento, è uno stato speciale che Kant designa come Selbstzufriedenheit, che si avvicina (come vedremo) al cinismo o all’apatia del personaggio sadiano: Ma non c’è un termine che non indichi un godimento come quello della felicità, bensì un compiacimento per la propria esistenza, un analogo della felicità che debba necessariamente accompagnare la coscienza della propria virtù? Sì! È la parola Selbstzufriedenheit, ossia “soddisfazione, contentezza di sé”, che, nel suo significato proprio, indica sempre soltanto un compiacimento negativo per la propria esistenza, per cui si è consapevoli di non abbisognare di nulla.16 Godimento di superare il piacere e il dolore e la loro instabilità, certo, ma segretamente anche godimento legato al dolore di quell’umiliazione patologica del proprio corpo che Kant descrive altrove,17 lo stato di Selbstzufriedenheit è lo stato di un essere isolato, che si appaga di se stesso e non manca di nulla. Sopprimendo la mancanza, questo essere esegue i comandi della ragione come se fosse l’agente di una potenza superiore e assapora nel fantasma la persistenza della propria ascesi vittoriosa sul corpo. La Dialettica della ragione pratica comincia allora ad apparire 15. Cfr. H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme (1963), Feltrinelli, Milano 1992, pp. 142-145. 16. I. Kant, Critica della ragion pratica, cit., p. 393 (corsivo mio). 17. Cfr. ivi, pp. 273-317: nel capitolo dedicato ai moventi (Triebfedern) della ragione pratica Kant indica nel sentimento del rispetto (Achtung) la traduzione del principio della ragione pratica sul piano della sensibilità. Il rispetto è un sentimento ambiguo perché comporta da un lato l’umiliazione patologica di me stesso, dall’altro la rimozione dell’ostacolo che tutto il “patologico” oppone alla mia dignità di essere superiore alla natura. È difficile non sospettare che nell’esperienza sensibile della legge che è data nel rispetto l’uomo di Kant percepisca se stesso come un oggetto sublime. Vero questo, nella terminologia di Kant si potrebbe osservare che egli gode di se stesso provando quella forma di piacere superiore che il filosofo analizza nella Critica del giudizio. Sulla delicata relazione tra il rispetto e il sublime nella filosofia pratica di Kant, riletta in relazione alle aperture di senso di Lacan, cfr. ancora A. Zupancic, Ethics of the Real, cit., cap. VII, pp. 140-167.

229


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 230

come l’anticamera del boudoir sadiano, in cui l’agente, vale a dire il personaggio sadiano, sotto la condizione preliminare di avere garantito la razionalità del suo agire, immagina la congiunzione del suo corpo con quello della vittima. Prima di occuparci di Sade, però, occorre ricordare che nel capitolo della Critica della ragion pratica in cui fa discendere la legge morale dall’astrattezza di un principio in un movente della sensibilità, Kant riconosce nell’amore del prossimo un comandamento conforme alla ragione, in quanto non si limita a indicare l’altro come l’oggetto dell’inclinazione sensibile, ma lo eleva a oggetto di un dovere. Se Kant si scandalizza, subito dopo, di un comando che ordina l’amore, poiché, scrive, “nessun uomo ha la facoltà di amare qualcuno meramente su comando”18 e precisa che quest’amore va inteso solo come l’inclinazione a praticare volentieri i doveri verso l’altro, che si aggiunge alla loro purezza come una mera raccomandazione, non per questo è meno vero che egli, non diversamente da Freud, indica il sommo bene a cui tende la legge come una figura del prossimo. Rileggiamo questo passo della Critica della ragion pratica, che a nostro avviso è fondamentale: Noi sottostiamo ad una disciplina della ragione e in tutte le nostre massime non dobbiamo dimenticare la subordinazione ad essa [...]. Ma con ciò concorda benissimo la possibilità di un comando come: Ama Dio al di sopra di tutto e il tuo prossimo come te stesso. Infatti questo comando esige pure rispetto per una legge che ordina l’amore e non lascia al capriccio la scelta di farsene il principio. Ma l’amore per Dio come inclinazione (amore patologico) è impossibile; infatti Egli non è oggetto dei sensi. Verso gli uomini è bensì possibile, ma non può venire comandato; infatti nessun uomo ha la facoltà di amare qualcuno meramente su comando.19 18. I. Kant, Critica della ragion pratica, cit., p. 303. Esattamente l’opposto sostiene Lacan in Il seminario. Libro X. L’angoscia. 1962-1963 (2004), Einaudi, Torino 2007, p. 116: “Il rapporto della legge con il desiderio è così stretto che solo la funzione della legge traccia il cammino del desiderio. Il desiderio, in quanto desiderio per la madre, è identico alla funzione della legge. […] Per dirla tutta, si desidera a comando” (corsivo mio). 19. I. Kant, Critica della ragion pratica, cit., p. 301 (traduzione leggermente modificata).

230


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 231

Se Kant si ritrae di fronte all’ordine di amare il prossimo è perché non lo concepisce, come Freud, come una passione causata dal ricordo della prima Befriedigungserlebnis,20 ma come un’espressione della spontaneità della ragione. La facoltà di desiderare superiore, infatti, non è una passione determinata dal carattere non mondano del suo oggetto, ma l’innesto della ragione sulla facoltà di desiderare; vero questo, dire che il prossimo causa la legge significherebbe per Kant abbassare la ragione al livello della sensibilità oppure attribuire a una causalità noumenica un oggetto fenomenico. Insomma, per Kant il prossimo può essere solo fenomeno, come dimostra la tendenza del filosofo ad abbassare ogni esempio di rispetto della legge egli proponga nei suoi scritti. Ma per Freud le cose stanno esattamente nel modo opposto: posto infatti che per entrambi la legge determini il desiderio alla ricerca di un oggetto che può essere chiamato prossimo, per Freud non è dalla legge che il prossimo trae il suo significato, ma al contrario è dal prossimo che la legge trae la sua efficacia. Infatti per Freud la legge che trascina il soggetto patologico al di là del limite del piacere ha la sua origine nella prima Befriedigungserlebnis, in cui si fissa l’esperienza di un incontrato primo che avrebbe procurato al soggetto una soddisfazione totale del suo desiderio; esperienza mitica, senza dubbio, ma che non cessa di travagliare il soggetto per tutto il tempo della sua esistenza. Di conseguenza Lacan, che legge Kant con Freud, può sostenere che la legge non è causa noumenon, vale a dire l’espressione della spontaneità della ragione, ma è causa pathomenon, vale a dire l’espressione di un legame interpassivo che vincola il soggetto al prossimo come puntolimite del suo desiderio.21 Questo rovesciamento della spontaneità nella passività e del20. Cfr. S. Freud, Progetto di una psicologia (1895), in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1999, vol. II, pp. 222-223, dove Freud descrive il primo incontro con il Nebenmensch o, potremmo anche dire, con il prossimo, essendo quest’ultimo nel Progetto di una psicologia un sinonimo di das Ding. 21. Cfr. J. Lacan, Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi, cit., p. 121: “Volendo inventare un termine di cui vi prego di perdonare la grecità approssimativa, è la causa pathomenon, la causa più fondamentale della passione umana”.

231


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 232

la causa noumenon nella causa pathomenon si riflette nel modo in cui Lacan rilegge il doppio apologo comparato con cui Kant, nell’Analitica della ragione pratica, intende mostrare la superiorità della legge morale su tutte le inclinazioni sensibili del soggetto e sul suo stesso attaccamento alla vita.22 Se Lacan può opporre al filosofo che l’amore della Dama può occupare, messo a paragone con l’amore della vita, la stessa posizione che Kant assegna alla legge morale, e nella fattispecie al dovere di non dire falsa testimonianza contro un amico, è perché la Dama è, sia nel seminario sull’etica (1959-1960) che, più tardi, in Kant con Sade (1963),23 una figura del prossimo, il quale secondo Freud è l’origine passiva della legge morale. E se si obietta che così facendo Lacan pecca di anacronismo, perché distorce Kant mettendo in valore l’esperienza della psicanalisi, potremmo osservare che non si tratta tanto di accusare Kant di non avere un’esperienza sufficiente dell’amore, come pure ricordava Ernst Cassirer,24 ma di non avere risentito storicamente di un fenomeno che inscrive i suoi effetti in profondità nella vita moderna, vale a dire del fenomeno cortese. Non è infatti l’ignoranza personale di Kant sull’amore che depone a favore dell’obiezione di Lacan, ma il fatto che l’amore cortese sia l’antecedente storico che permette a Freud di pensare la legge come la nostalgia insistente di un prossimo che è distaccato in una regione indipendente, in posizione di indifferenza rispetto al mondo e alla vita. O per lo meno di ciò che abbiamo l’abitudine di chiamare così. L’amore cortese, come sostiene Denis de Rougemont,25 è il rovescio di una gnosi 22. Cfr. I. Kant, Critica della ragione pratica, cit., pp. 161-163. 23. Cfr. la rielaborazione lacaniana del doppio apologo comparato di Kant, che mette implicitamente in valore la funzione della Dama nell’amore cortese, rispettivamente in J. Lacan, Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi, cit., pp. 238-241 e in Id., Kant con Sade, cit., pp. 781-782. 24. Cfr. E. Cassirer, Vita e dottrina di Kant (1918), La Nuova Italia, Firenze 1984, p. 491: “Di Kant Charlotte von Schiller ha detto che sarebbe stato uno dei più grandi fenomeni dell’umanità in generale, se fosse stato capace di provare amore, ma che, siccome non lo sarebbe stato, nella sua natura sarebbe rimasto qualcosa di incompleto”. 25. Denis de Rougemont, avvicinando l’amore cortese al catarismo, lo concepisce sostanzialmente come una teologia manichea mascherata: cfr. D. de Rougemont, L’amore e l’Occidente (1939), Rizzoli, Milano 1977, p. 162, dove la cortesia è definita come una “reli-

232


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 233

manichea (o catara) che spiegherebbe a Kant, se lo sentisse, perché si può sacrificare la vita per la Dama; questo amore fa ritorno nella nostalgia della Cosa freudiana. Nondimeno, se questo è il motivo per cui Lacan non pecca a nostro avviso di anacronismo nell’opporre a Kant le ragioni della sublimazione cortese, non è meno vero che la sublimazione lascia essere il prossimo in una regione separata, mentre la legge trascina insistentemente il soggetto verso di esso, facendo sorgere, appunto, l’esigenza kantiana che la Cosa sia necessariamente possibile. Questa esigenza che, come abbiamo detto, Kant asseconda nel fantasma della sopravvivenza del corpo e nella correlativa fede pratica nell’onnipotenza di Dio trova secondo Lacan il suo prolungamento nella speculazione del marchese de Sade, il quale spinge fino alle sue estreme conseguenze sia la nostalgia freudiana di das Ding, sia la legge morale kantiana, perché, come Lacan dice indirettamente di lui commentando il Simposio platonico, egli “vuole la cosa”.26 3. Dalla ragione kantiana alla dissertazione sadiana Se si distinguono nel testo di Sade, come insegna Roland Barthes, le dissertazioni e le scene,27 si può sostenere che nella dissertazione Sade cerca fondamentalmente di dimostrare la necessità del crimine o dell’atto criminale. gione letteraria”. È molto interessante osservare che la stessa struttura manichea è stata ipotizzata da Pierre Klossowski nella sua prima lettura (poi sconfessata) come una chiave di lettura anagogica per l’intera opera di Sade: “Tutta l’opera di Sade sembra non essere altro che un grido disperato, lanciato verso l’immagine della verginità inaccessibile, un grido avvolto e come incastonato in un cantico di bestemmie. Io sono escluso dalla purezza perché voglio possedere chi è pura. Io non posso non desiderare la purezza, ma nello stesso tempo io sono impuro perché voglio godere della purezza che non può essere goduta”, citato in G. Lely, Vita del marchese de Sade (1952), Feltrinelli, Milano 1983, p. 385. Cfr. P. Klossowski, “Sotto la maschera dell’ateismo”, in Sade prossimo mio (1947), SE, Milano 2003, pp. 117-120. 26. Cfr. J. Lacan, Le séminaire. Livre VIII. Le transfert. 1960-1961, Seuil, Paris 2001, p. 106 : “Platone è un maestro, uno vero, un maestro del tempo in cui la città si decompone, trascinata dalla raffica democratica, che prelude alle grandi confluenze imperiali – una specie di Sade in più buffo [une sorte de Sade en plus drôle]. […] Quello che vuole in tutti i casi, lui Platone, è tuttavia la Cosa, to pragma”. 27. Cfr. R. Barthes, Sade II, in Sade, Fourier, Loyola (1971), Einaudi, Torino 2001, “La dissertazione e la scena”, pp. 133-134.

233


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 234

Questa dimostrazione si serve di una serie di argomenti caratteristici, che Pierre Klossowski ha ricompreso nella formula dell’ateismo integrale:28 la negazione dell’esistenza di Dio e dell’immortalità dell’anima occupano tra questi argomenti una posizione di primo piano, ma rappresentano unicamente la punta di un iceberg che si compone della variopinta giustificazione di qualsiasi crimine risulti alla portata dell’immaginazione sadiana. Se Klossowski intende il complesso delle dissertazioni sadiane come l’espressione dell’ateismo integrale di Sade, Horkheimer e Adorno interpretano la dissertazione sadiana, in un contesto più ampio, come l’espressione della capacità della ragione illuminista di dissolvere la religione e il mito, e di imporre un regime di assoluto dominio sulla natura.29 L’interpretazione della dissertazione sadiana di Horkheimer e Adorno trova a nostro avviso la sua perfetta illustrazione nella presentazione di Clairwil, maestra di libertinaggio di Juliette, che si trova nella seconda parte di Juliette: l’eroina sadiana è “nemica giurata della religione”, dotata di un’intelligenza superiore e assai esperta nelle scienze, perfino nella chimica, spregiatrice degli uomini e soprattutto orribilmente cinica.30 Seguendo l’interpretazione di Horkheimer e Adorno si può osservare allora che il cinismo, a cui Sade mostra di preferire il termine teorico apatia, costituisce il rovescio della crescita smisurata della capacità organizzativa della ragione illuminista; e si comprende bene il perché: se infatti la ragione dell’eroe sadiano dimostra di poter dominare non solo la natura inorganica che lo circonda, ma anche la natura che lo costituisce, essa non può non esprimersi alla perfezione nell’autodomi28. Cfr. P. Klossowski, “Abbozzo del sistema di Sade”, in Sade prossimo mio, cit., pp. 77-113. 29. Cfr. M. Horkheimer, T. Adorno, Dialettica dell’illuminismo (1947), Einaudi, Torino 1997, p. 102, dove gli autori enunciano quello che si può considerare il principio della loro lettura di Juliette, vale a dire il fatto che “Juliette ha per credo la scienza”, da intendersi baconianamente come dominio della natura. Sull’interpretazione di Sade proposta da Horkheimer e Adorno e sui rapporti possibili con le letture di Lacan e Klossowski si sofferma F. Carmagnola, Il desiderio non è una cosa semplice, Mimesis, Milano 2007, pp. 151-164. 30. D.A.F. de Sade, Juliette (1801), Newton Compton, Roma 1993, vol. I, parte II, pp. 216-232.

234


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 235

nio e nel self-control.31 Il pudore, la pietà e il rimorso, i principali nemici del libertinaggio indicati da Sade, rappresentano il contrario dell’apatia, del self-control e dell’efficienza del soggetto, il cui valore si misura solamente sul suo coefficiente di fungibilità sociale.32 Questa ci appare la condizione negativa dell’esercizio del libertinaggio. Non è tuttavia l’unica dimensione di questo esercizio, anche se è quella che Horkheimer e Adorno accentuano maggiormente: infatti il libertinaggio è un esercizio positivo, che si prefigge uno scopo. Questo scopo è l’accrescimento della sensazione voluttuosa del soggetto, che diventa una misura della sua stessa esistenza; solamente il godimento assicura al personaggio sadiano di esistere, e questo principio del sadismo trova la sua espressione nella difesa della superiorità del piacere sensibile contro ogni forma di sensazione “morale”: l’eroe sadiano sa che esiste perché gode di uno stato intensivo che è suscettibile di accrescersi in ragione dei crimini che commette e sa inoltre che il più piccolo piacere del suo corpo conta infinitamente di più di qualsiasi sensazione “morale” o spirituale.33 Posto dunque che l’eroe sadiano sia un buon esempio di una soggettività asservita alla formalizzazione totale della ragione, egli si distingue non soltanto per il suo cinismo o per la sua apatia, ma anche per la ricerca di un’ebbrezza in cui può trovare la prova di esistere e per il fatto che questa ebbrezza diventa il metro di giudizio di ogni sua possibile esperienza.

31. Cfr. M. Horkheimer, T. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, cit., p. 100: “[Juliette] ama il sistema e la coerenza, e adopera egregiamente l’organo del pensiero razionale. Per ciò che attiene al dominio di sé, le sue prescrizioni stanno, a volte, a quelle di Kant come l’applicazione particolare all’assioma”, e p. 101: “‘L’apatia (intesa come forza) è un presupposto indispensabile della virtù’, dice Kant, distinguendo, non molto diversamente da Sade, questa ‘apatia morale’ dall’insensibilità come indifferenza agli stimoli fisici. L’entusiasmo è riprovevole; tranquillità e risolutezza sono il nerbo della virtù”. 32. Ivi, p. 113. 33. Cfr. paradigmaticamente la nota “pragmatica” al testo della IV parte di Juliette, in D.A.F. de Sade, Juliette, cit., vol. II, p. 31, in cui Sade spiega che, una volta compresa la superiorità del piacere fisico sui piaceri spirituali o “morali”, “non si dovrebbe esitare, perfino tra un confetto e l’intero universo”.

235


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 236

4. La struttura della scena sadiana Se questi due aspetti del libertinaggio si desumono dallo studio delle dissertazioni, l’aspetto di gran lunga più serio della costruzione del personaggio sadiano va però ricercato nella scena, che fa da complemento alla dissertazione. L’allestimento della scena del libertinaggio suggerisce un aspetto della soggettività libertina che la dissertazione non basta a illuminare, a condizione tuttavia che sia letta come il pendant di quest’ultima. Qual è il contenuto della scena, della posizione, del quadro, del gruppo o della rappresentazione che insiste in tutta la produzione letteraria di Sade? Avviciniamo il problema partendo da una distinzione che ci sembra di poter introdurre: la scena sadiana, sosteniamo, è composta di elementi strutturali ripetibili, che si avvicendano con un ritmo altrettanto prevedibile. Questi elementi, che indichiamo con termini impiegati dallo stesso Sade, ci sembrano essere la dichiarazione dell’atto (1), la descrizione dell’oggetto dell’atto (2), l’esecuzione dell’atto (3) e lo sconfinamento nell’irrealtà o nell’impossibilità dell’atto (4). Ammesso che sia possibile ricostruire, in parte seguendo l’esempio di Barthes,34 la scena tipo del romanzo sadiano, ci sembra che essa cominci sempre con una dichiarazione del tipo di congiunzione dei corpi che vi avrà luogo: non c’è infatti una congiunzione che non sia preceduta dal suo annuncio, il che ha ispirato ad Alberto Moravia l’osservazione secondo cui l’anomalia di Sade consisterebbe nel fatto che in lui il sesso comunica immediatamente con la ragione e non sa esercitarsi senza una giustificazione preliminare;35 a nostro avviso l’osservazione è illu34. Ci riferiamo in particolare alla tendenza sincronica di Barthes a estrarre degli elementi di struttura dalla lettura dell’opera di Sade, che contrapponiamo alla tendenza di Klossowski, altrettanto importante, a studiarne l’evoluzione diacronica intendendola come un dramma dialettico. 35. A. Moravia, “Prefazione”, in D.A.F. de Sade, Opere, Mondadori, Milano 1997, p. XI: “La indolore, totale assenza di rispetto umano, provoca nell’organismo della psicologia sadiana una strana saldatura di parti per il solito lontane l’una dall’altra, un po’ come un sistema digerente nel quale lo stomaco sia stato amputato e l’intestino collegato direttamente con l’esofago. La ragione, cioè, è saldata al sesso, senza alcuna soluzione di continuità

236


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 237

minante perché suggerisce che la dichiarazione sia il momento immediatamente successivo alla dissertazione, in cui la congiunzione corporea è annunciata come la conseguenza logica dei principi enunciati nella prima, e d’altra parte che, per una ragione di struttura afferente al sadismo, le cose non potrebbero andare diversamente. Della dichiarazione fa parte un elemento che è Lacan a distinguere e a mettere in speciale rilievo, che consiste nella descrizione della vittima: poiché la congiunzione interessa sempre il corpo dell’agente e quello della vittima, la descrizione ha la funzione di presentare l’oggetto nella condizione preliminare di desiderabilità; per questo motivo la descrizione è sempre retoricamente infarcita di superlativi: la vittima ha sempre gli occhi, i capelli, la bocca, il viso, il seno, le natiche, il corpo più belli del mondo… Oppure di paragoni mitologici: la vittima è sempre bella come Venere, seducente come Flora, alta come Minerva… Il fatto che la descrizione della vittima sia sostanzialmente uno stereotipo, come nota Barthes,36 va commisurato strettamente al fatto che la presentazione dell’agente, al contrario, è perfettamente caratterizzata e ammette sovente un excursus relativo alle vicende personali più remote, come dimostrano le biografie del monaco Jérôme e della mendicante Séraphine inserite tardivamente da Sade nel testo di Nouvelle Justine. Alla descrizione della vittima segue il formulario che annuncia l’esecuzione della scena: queste “pause rituali” o “scansioni sacre”, come le battezza Lacan,37 sono situate all’apertura della congiunzione, alla sua conclusione, o, talvolta, in esergo a un suo momento saliente; Sade chiosa di volta in volta i tempi della rappresentazione intercalando: “si esegue”, “le posizioni si sciolgono” oppure “il sangue cola”. […]. Da questa saldatura, da questa assenza di rispetto, deriva a Sade l’abito della razionalizzazione cioè della giustificazione sistematica, di specie intellettuale e ideologica, della propria sessualità” (corsivo mio). 36. Cfr. R. Barthes, Sade I, in Sade, Fourier, Loyola, cit., p. 11: “Via via che si passa dai libertini […] alle loro vittime, i ritratti si fanno più irreali; si arriva così al secondo ritratto sadiano […]; questo ritratto è puramente retorico, è un topos”. 37. Cfr. J. Lacan, Kant con Sade, cit., p. 780.

237


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 238

Ma se l’esecuzione è segnalata nel testo da una frase che separa la dichiarazione prolettica dalla messa in scena vera e propria, tale messa in scena tende asintoticamente, come hanno sostenuto in diverso modo Klossowski e Barthes, a raggiungere un punto di massima concentrazione che va contrassegnato teoreticamente come un punto di irrealtà o di impossibilità. Riprendiamo a questo proposito le preziose indicazioni dei due autori osservando in primo luogo, con Barthes, che la congiunzione corporea immaginata da Sade non è la descrizione di qualcosa che è avvenuto e non può essere intesa come la prescrizione di qualcosa che può avvenire: il fatto è che, come sostiene il semiologo francese, l’enunciato della perversione non è una mimesis del reale, ma una pratica del linguaggio orientata da un fantasma dominante che si avvicina di più a un referto o a un protocollo.38 Tutto ciò è dimostrato a nostro avviso nel migliore dei modi dalla svista con cui Sade, in un momento concitato della scrittura di Juliette, dota un agente della congiunzione di tre mani anziché due.39 Barthes dunque ha ragione a sostenere che nessun corpo fisico si addice all’agente o alla vittima della rappresentazione sadiana.40 D’altra parte Klossowski nella sua seconda lettura di Sade (Il filosofo scellerato) lascia intendere che la rappresentazione sadiana, nella sua insistenza ripetitiva, può essere concepita come il tentativo di circoscrivere un punto cieco la cui descrizione non si presenta mai nel testo, ma continua a bussare alla porta dell’autore in attesa di essere scritta e, prima ancora, immaginata; Klossowski designa questo punto cieco come un atto da compiere e orienta la sua lettura considerandolo come un fuori testo permanente, che sarebbe segnalato, peraltro, dalle celebri note pragmatiche apposte a piè di pagina del testo di Juliette.41 Riprendendo questi due rilievi sull’impossibilità in cui sfocia 38. Cfr. R. Barthes, Sade II, cit., p. 142: “Dire funziona, non è più descrivere, è riferire”. 39. Cfr. D.A.F. de Sade, Juliette, cit., vol. II, parte VI, p. 332. La svista di Sade è sottolineata da Gianni Nicoletti, traduttore italiano di Juliette. 40. Cfr. R. Barthes, Sade II, cit., pp. 118 e 123-124. 41. Cfr. P. Klossowski, Sade prossimo mio, cit., pp. 44-48.

238


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 239

la congiunzione corporea sadiana e sul fuori testo della sua descrizione notiamo che non è affatto difficile imbattersi, durante la scena sadiana, nell’imminenza del supplizio della vittima, nel contrassegno tipico dello sconfinamento della rappresentazione in un irreale che si rifiuta semplicemente alla confessione letteraria. Se infatti dal punto di vista retorico la descrizione stereotipa della vittima è segnalata dal superlativo (Che belle queste chiappe!, esclama il ministro Saint-Fond) e dal paragone mitico (Una Venere! Una Diana!), l’irreale a cui tende oppure, al rovescio, quello a partire da cui si organizza l’intera rappresentazione è sovente segnalato da una rinuncia a dire di più e quindi da una preterizione: è l’impossibilità di dire quali fossero le sofferenze della vittima, che tipicamente precede la sua radiazione dal testo del racconto e la sua sostituzione con un’altra vittima. La seconda versione di Justine ce ne offre un esempio.42 5. La sutura dell’Altro e la catalisi del corpo Se questa è la struttura della scena tipo o del movie sadiano, occorre chiedersi allora che cosa essa permetta di arguire intorno alla soggettività libertina. Se l’apatia (o il cinismo) del personaggio sadiano rappresenta la traduzione letteraria del dominio della ragione sulla propria natura che si ottiene attraverso l’esercizio di una disciplina, nella scena siamo di fronte a una volontà di godimento che prolun42. Cfr. D.A.F. de Sade, Justine, in Opere, cit., p. 711: “Non capii l’espressione: la crudele esperienza presto me ne avrebbe illuminato il senso. La Rose mi afferra e mi colloca le reni su uno sgabello di neppure un piede di diametro; non ho altro appoggio, le gambe cadono da una parte, la testa e le braccia dall’altra; i miei quattro arti sono divaricati al massimo e fissati a terra; il carnefice che deve restringere le vie si arma di un lungo ago a capo del quale è un filo cerato; senza preoccuparsi né del sangue che sta per spargere né dei dolori che provocherà, il mostro chiude con una cucitura l’ingresso del tempio dell’amore […]: non vi parlo dei miei dolori, signora: potete immaginarli: ero prossima a svenire” (corsivo mio). Lo stesso supplizio, su cui si è soffermato Barthes (Sade II, cit., “Sutura”, pp. 155-156), si ritrova, come è noto, nella scena finale di La filosofia nel boudoir: a nostro avviso non è tanto il tipo di supplizio inferto alla vittima che deve attrarre l’attenzione, quanto piuttosto il fatto che la parola di Sade, il quale altrove dichiara di essere intenzionato come filosofo a “dire tutto”, venga sistematicamente meno proprio quando si suppone che la crudeltà raggiunga il suo apice. In una prospettiva lacaniana si potrebbe dire che la confessione del fantasma risulta difficile per Sade quanto lo è per il nevrotico.

239


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 240

ga questo esercizio dotandosi di quell’oggetto speciale che è la vittima. Ispirato dalle argomentazioni enunciate nelle dissertazioni il personaggio sadiano si presenta sulla scena come lo strumento di una ragione che esprime semplicemente lo “stato delle cose” e questo gli permette di scatenare la sua passione nella congiunzione del suo corpo con il corpo della vittima. Si avrebbe torto però a pensare che questa congiunzione sia reale: come mostra l’aspetto irreale o impossibile della scena tipo che abbiamo cercato di isolare, ciò che appare reale a partire dalla descrizione dell’esperienza di Sade non è la vittima, ma è l’agente, il quale gode della rappresentazione del supplizio come conseguenza logica del suo ragionamento. L’agente è solo e il suo godimento non deriva dalla congiunzione con il corpo dell’altro, ma dalla costruzione di un sapere di questa congiunzione, da cui la rappresentazione è dedotta. Se questa ci appare come la condizione generale del personaggio sadiano non è difficile allora pensare che essa corrisponda alla descrizione che interpreta (Klossowski) l’esperienza di Sade: isolato nelle carceri di Vincennes e della Bastiglia e poi nel manicomio di Charenton, Sade si delizia della sua immaginazione e ne concepisce l’esercizio come il prolungamento di quello della ragione illuminista del suo tempo, che aspira a dire semplicemente “come stanno le cose” per quanto riguarda la natura umana. Come ha sottolineato Gilbert Lely commentando le lettere scritte da Sade a Vincennes, il marchese è perfettamente consapevole che le sue descrizioni non corrispondono a una realtà passata o futura della congiunzione corporea, ma esibiscono la potenza della sua facoltà immaginativa; esse obbediscono, come dice Barthes riprendendo la lettura di Lacan, a una dettatura implicita del fantasma.43 Lely ci informa che, nel 1781, Sade in una letterona alla marchesa ricapitola le accuse calunniose che vogliono farlo passare per criminale e ne fa la confutazione che si conclude con un’autoapologia: “Ebbene 43. R. Barthes, Sade II, cit., “Il dettato”, p. 151.

240


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 241

sì, sono un libertino, lo ammetto. In questo genere di cose ho immaginato tutto quanto si può immaginare, ma non ho certo fatto né farò mai ciò che ho concepito. Sono un libertino, non un criminale né un assassino”.44 D’altra parte Sade afferma altrove che non gli sarebbe possibile sopportare la condizione di isolamento in cui si è venuto a trovare se non si dedicasse alla composizione dei suoi quadri viventi: “Questo modo di pensare che voi riprovate, è l’unica consolazione della mia vita, che allevia le mie pene di prigioniero, e rappresenta il solo piacere che ho al mondo, cosicché ci tengo più che alla vita stessa”.45 Da queste preziose testimonianze si può desumere che, perduta la libertà, Sade ha trovato rifugio in una pratica di scrittura che si esercita sotto la dettatura del fantasma (Lacan, Barthes) e che di questa pratica, che fa a meno dell’altro, egli gode. Nella solitudine delle carceri in cui è costretta, la soggettività di Sade inclina dunque a chiudersi e a godere di se stessa nel duplice esercizio di un’immaginazione sfrenata e di una ragione che stermina ogni illusione e fissa questa condizione in una forma perpetua: si può osservare che in questo modo Sade si indurisce, si pietrifica oppure si eternizza. È vero, d’altra parte, che il marchese continua ad attendere le visite della moglie, che la desidera e che, in un certo frangente, ne è geloso fino al delirio;46 questo ci sembra il segno del fatto che in rari momenti la soggettività di Sade si riapre, rivelando nell’attesa la dimensione dell’assenza come forma non necessaria, ma ambigua e indecidibile del male. Ma se è a partire da questa forma del male che può esservi ap-

44. G. Lely, Vita del marchese de Sade, cit., p. 222 (corsivo mio). Lely si riferisce al testo della cosiddetta “grande lettera” inviata da Sade alla moglie dopo tre anni di detenzione a Vincennes, nel febbraio 1781: cfr. D.A.F. de Sade, Lettere da Vincennes e dalla Bastiglia (1966), a cura di L. Bàccolo, Mondadori, Milano 1976, lettera 26, pp. 123-137. 45. G. Lely, Vita del marchese de Sade, cit., p. 241 (corsivo mio): Lely si riferisce al celebre testo di una lettera inviata da Sade alla moglie dopo cinque anni di detenzione a Vincennes, nel novembre 1783. Cfr. D.A.F. de Sade, Lettere da Vincennes e dalla Bastiglia, cit., lettera 42, pp. 178-183. 46. Sulla crisi di gelosia di Sade cfr. G. Lely, Vita del marchese de Sade, cit., pp. 224-225.

241


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 242

pello o invocazione all’Altro è altrettanto vero che, quando Sade comincia a scivolare verso un isolamento di lunga durata, quello che avrebbe potuto essere un appello si trasforma in maledizione, l’Altro vira prima verso una figura del sapere e poi verso l’artefice della malvagità eterna e necessaria di tutto l’essere, e correlativamente Sade comincia a secernere godimento attraverso la variazione forestale del suo fantasma.47 La soggettività di Sade evolve così dall’appello all’Altro verso la sutura dell’Altro, a cui corrisponde la messinscena razionale di un fantasma della copula (e quindi dell’essere), ma questo percorso continua a essere smascherato dal carattere ironico della rappresentazione, che fa segno a un fuori e sembra articolarsi interamente a partire da un punto cieco. Se il fuori della rappresentazione sadiana secondo Klossowski è “precisamente ciò che di per sé fa a meno di commento”,48 in una prospettiva lacaniana esso non può che apparire come il Reale che la messinscena razionale ha cominciato a ricoprire sotto il peso dell’isolamento. Ma non si potrebbe davvero fare un torto a Sade giudicando questa decisione di congedarsi dal desiderio,49 viste le condizioni di vita in cui si trovò: la sutura dell’Altro a cui tende la sua speculazione, che Barthes fissa significativamente nell’immagine della catalisi di ogni fessura possa aprirsi sulla superficie del corpo dei suoi personaggi, 50 ci appare ingiudicabile; piuttosto, se Sade decide di essere chez soi in un deserto di pietra, in cui gli esseri lanciati dalla natura coesistono ma non si desiderano per l’eternità, l’emblematicità che Horkheimer e Adorno riconoscono a Juliette ci fa pensare che l’abbassamento del desiderio a favore del godimento che la sua opera riflette possa non essere interpretato solamente come la cifra del suo destino personale.

47. J. Lacan, Kant con Sade, cit., p. 775. 48. Cfr. P. Klossowski, Sade prossimo mio, cit., p. 47. 49. Nella parte finale di Kant con Sade Lacan giudica Sade: “Proprio qui però c’è qualcosa che va giudicato” (p. 786). Ma in base a che cosa? In base al fatto che egli “non è abbastanza vicino alla sua cattiveria per incontrarvi il suo prossimo”. Cfr. ivi, p. 790. 50. R. Barthes, Sade II, cit., “L’inondazione”, p. 117.

242


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 243

Resta a questo punto la possibilità di interrogare questo godimento per leggervi un’apertura difficile, attraverso cui sia tradita, suo malgrado, la sua più intima aspirazione. 6. La seconda morte Prima di interrogare l’esperienza di Sade sulle sue contraddizioni cercando di fare emergere una breccia che perfori dall’interno l’isolamento del soggetto libertino, ritorniamo sul sadismo cercando di illustrarne le caratteristiche. Il sadismo, inteso come la descrizione che interpreta (Klossowski) l’esperienza di Sade, ci è sembrato consistere nella messinscena razionale di un fantasma in cui è anticipata la congiunzione del corpo del soggetto con quello della vittima. Questa messinscena ripetitiva è il rovescio di un’impossibilità (Klossowski, Lacan, Barthes): essa non descrive mai una congiunzione reale, ma si produce come sostegno del godimento di un soggetto isolato. Da questo punto di vista solo l’agente è reale, mentre la vittima ne è l’emanazione, che conserva lo status quo: come dice Lacan forse riprendendo un’osservazione di Lely, solo Juliette è reale, mentre Justine non è che un fantasma, fatto di carta.51 Questa caratterizzazione del sadismo diventa ancora più chiara se la confrontiamo con la descrizione fenomenologica del sadismo di Jean-Paul Sartre.52 Dal nostro punto di vista si osserverà che l’analisi sartriana rimane al di qua dell’esperienza di Sade, pretendendo piuttosto di configurarsi come un’analisi del fenomeno del sadismo: essa intende il fenomeno sadico come un fenomeno binario, mentre esso si offre nella sua descrizione let51. Cfr. G. Lely, Vita del marchese de Sade, cit., p. 64: “Giustina […] è un’entità, una costruzione astratta e sembra che sia stata immaginata dall’autore solo per dimostrare la tesi pessimistica sulle conseguenze della virtù”. E di seguito l’autore aggiunge: “Juliette non è affatto concepita in questa specie di asfissia psicologica che fa della sua giovane sorella un vero e proprio automa, gettato dall’autore nella folla degli esseri viventi”. Il giudizio è ripreso in J. Lacan, Le séminaire. Le livre VIII. Le transfert, cit., p. 460: “Ma la verità è che Justine non è che un’ombra. Juliette è la sola che esiste” (corsivo mio). 52. J.-P. Sartre, L’essere e il nulla. Saggio di ontologia fenomenologica (1943), il Saggiatore, Milano 1997, pp. 451-456; i presupposti ontologici dell’analisi sartriana del sadismo vengono “tradotti” nello studio ravvicinato del “caso” Sade da Simone de Beauvoir in Dobbiamo bruciare Sade? (1972), Iota, Milano 1973, pp. 17-93.

243


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 244

teraria come un fenomeno ternario, in cui il rapporto tra l’agente e la vittima è costantemente mediato dalla presenza dell’Altro, da intendere come un sapere della congiunzione. Così se Sartre interpreta il desiderio sadico come la negazione della trascendenza dell’altro53 si può osservare che in questo modo egli allontana il sadismo dalla cosiddetta normalità, anziché avvicinarvelo per permettere l’intuizione della sua continuità: infatti comprenderò meno il fatto che il sadico neghi la realtà dell’altro quando non so ancora cos’è questa realtà piuttosto che il fatto che il sadico evolva dall’invocazione di un sapere dell’Altro sulla realtà della vittima che non sa costituire alla falsa certezza di un fantasma che non gli restituisce altro che il suo godimento di essere isolato. Se l’esperienza di Sade come emerge dalla sua descrizione è ternaria e non binaria è perché, da un lato, non si vede come possa essere presupposta la realtà dell’altro quando essa non è riducibile a una trascendenza ek-statica (Sartre), ma deve essere pensata come il Reale di una congiunzione erotica o di un corpo che “prendo tra le mie mani”,54 e, dall’altro, perché il profondo sconforto (Hilflosigkeit)55 in cui il soggetto versa in assenza di qualsiasi preformazione della sua realtà sessuale lo conduce a un appello all’Altro, ben rappresentato per Lacan dal ruolo della vecchia nella leggenda di Dafne e Cloe,56 a partire 53. Cfr. J.-P. Sartre, L’essere e il nulla, cit., p. 456, dove Sartre, concludendo la sua analisi, scrive: “E lo spettacolo che si offre al sadico è quello di una libertà che lotta contro la carne e che, finalmente, sceglie liberamente di farsi sommergere dalla carne. Nel momento in cui rinnega, il risultato è raggiunto”. Per il filosofo francese lo scopo del sadico è dunque quello di fare in modo che la vittima rinunci liberamente alla propria trascendenza a favore della sua, secondo un’oscillazione che Lacan ascriverebbe all’intersoggettività immaginaria. 54. J. Lacan, Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi, cit., p. 251. 55. Nella lezione sull’angoscia del seminario sul transfert, Lacan traduce il termine freudiano Hilflosigkeit con détresse, che ci sembra di potere rendere con sconforto, e aggiunge che “nell’Hilflosigkeit, lo sconforto, il soggetto è puramente e semplicemente sconvolto, sopraffatto da una situazione dirompente [irruptive] alla quale non può far fronte in alcuna maniera”, cfr. J. Lacan, Le séminaire. Le livre VIII. Le transfert, cit., p. 428. 56. Cfr. Id., Il seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. 1964 (1973), Einaudi, Torino 2003, p. 202: “Per il resto, la relazione sessuale è lasciata alle alee del campo dell’Altro. È lasciata alle spiegazioni che le si dànno. È lasciata alla vecchia da cui – e non è una favola vana – bisogna che Dafne impari come bisogna fare per fare all’amore”.

244


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 245

dalla quale il sadico può evolvere attraverso un progressivo ottundimento verso la costituzione di un sapere della congiunzione e correlativamente vincolarsi a un fantasma di cui egli gode solo. Si potrebbe dire allora che il sadico non fa variare l’intersoggettività immaginaria fino a raggiungere il paradosso strutturale secondo cui non posso essere in sé e per sé che negando l’essere per sé dell’altro, ma partendo dall’indecidibile realtà dell’altro allestisce una terribile macchina per immaginarlo, che si rivela allo stesso tempo una macchina per tenersene lontano. Così facendo egli non perde il contatto con l’altro, come sostiene Sartre, ma perde prima di tutto il contatto con se stesso, vale a dire con il prossimo che nega dalla sua parte con lo stesso gesto insistente con cui lo mette in scena necessariamente (e illusoriamente) dalla parte dell’altro, facendoselo raccomandare da un Dio oscuro. Se per ipotesi non ci fosse più Dio (o la natura come suo sostituto), da questa parte il sadico si scoprirebbe come prossimo a se stesso, cioè estimo, e dall’altra, sul bordo del fantasma, farebbe l’esperienza di un amore reale che è oltre la legge. Ci sembra che a questa possibilità Sade abbia accennato, se non altro giungendo al limite delle sue insistenti elucubrazioni. Infatti, se Sade può descrivere così bene il proprio fantasma, secondo Lacan è perché il rigore del suo pensiero trapassa nella logica della sua vita;57 ma se questo sembra voglia dire che Sade può avere accesso a un amore parziale dell’oggetto e anticipare così storicamente quello che lo psicanalista francese ha espresso concettualmente rileggendo le teorie di Abraham sullo sviluppo del corpo erotico,58 ci si può chiedere comunque se questo oltrepassamento trovi un posto all’interno dell’opera del marchese. Questo posto non è difficile da indicare. Infatti, come hanno 57. Id., Kant con Sade, cit., p. 778. 58. Cfr. Id., Le séminaire. Le livre VIII. Le transfert, cit., parte IV, passim. Ci riserviamo di approfondire altrove questa importante rilettura di Abraham svolta da Lacan in relazione al problema del corpo erotico sadiano.

245


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 246

notato Klossowski e Blanchot, la speculazione di Sade sulla natura raggiunge vertici in cui il marchese si contraddice perseguendo lo stesso gesto del pensiero che ha prodotto questa entità e se ne è servito: in un’ascesi che Blanchot caratterizza come negazione della negazione, Sade si spinge fino a maledire la natura, facendo emergere la nozione di un movimento che la oltrepassi.59 Questo movimento corrisponde per Lacan alla ricerca di una seconda morte, vale a dire non più dell’annientamento fisico dell’organismo umano, ma della dissoluzione delle particelle elementari di cui è composto: l’idea è articolata da Sade, in Juliette, sia per bocca del ministro Saint-Fond sia nel cosiddetto “sistema” di papa Braschi (Pio VI)60 e ci sembra alludere, in modo certamente problematico, a un impulso che prefigura una rinascita del soggetto.61 Questo impulso risulta incomprensibile dal punto di vista a cui alludevamo all’inizio di questo articolo, secondo cui la ripetizione freudiana, riletta a partire da Kant e da Sade, costituirebbe dal punto di vista etico una mera tendenza all’autodistruzione della persona. Si potrebbe dire ora al contrario che portando al limite la legge come insistente ricerca del prossimo si vede virare ciò che appariva come morte in una ricerca della vita, ma non della vita come permanenza, bensì della vita come divenire: in altre parole, se Sade, messo in valore da Lacan più come strumento per pensare che come pensatore, 62 oltrepassa la soglia del ricorso sistematico alla natura come causa della messinscena necessaria di un fantasma del prossimo (o dell’oggetto necessariamente possibile della facoltà di desiderare superiore, come diceva Kant), egli fa segno in que59. Cfr. M. Blanchot, Lautréamont e Sade (1949), SE, Milano 2003, pp. 46-49. 60. Cfr. rispettivamente D.A.F. de Sade, Juliette, cit., vol. I, parte II, pp. 279-301 e vol. II, parte IV, pp. 112-134. 61. È forse a questo che allude Lacan quando paragona la speculazione di Sade sulla seconda morte a “uno di quei sogni da cui il sognatore resta sconvolto, per il fatto di essersi trovato, nella condizione avvertita di una inesauribile rinascita [intarissable renaissance], al fondo del dolore di esistere”: cfr. J. Lacan, Kant con Sade, cit., p. 777. 62. Cfr. ivi, p. 775: “Così Kant, messo alla questione ‘con Sade’, cioè un Sade che ha la funzione, per il nostro pensiero così come nel suo sadismo, di strumento, confessa ciò che cade sotto il senso del ‘Che vuole?’, che ormai non difetta a nessuno” (corsivo mio).

246


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 247

sto modo a un divenire a se stesso prossimo (o estimo), a cui può corrispondere solo l’invenzione di un amore reale del prossimo. Questo amore, come dirà Lacan riprendendo il problema posto da Kant con Sade nel seminario Ancora (1972-1973), è passato oltre la legge.63

63. Cfr. Id., Il seminario. Libro XX. Ancora. 1972-1973 (1975), Einaudi, Torino 1983, p. 86: “A furia di dire del bene si finisce a Kant, dove la moralità confessa che cosa è. È quanto ho creduto di dover affermare in un articolo, Kant con Sade – confessa che è Sade, la moralità. Scrivete Sade come volete – sia con la maiuscola […] – sia con la minuscola […] – o, meglio ancora, çade, per dire che, quanto alla moralità, ça se termine au niveau du ça, la cosa finisce a livello della cosa stessa, e non va lontano. In altri termini, quel che è in gioco è che l’amore sia impossibile [corsivo mio], e che il rapporto sessuale sprofondi nel nonsenso, il che non diminuisce in nulla l’interesse che dobbiamo avere per l’Altro”. E alla fine del seminario, a p. 147, si legge che: “L’approccio all’essere, non è forse qui che risiede l’estremo dell’amore, il vero amore? […] Il vero amore sfocia nell’odio”. Intendiamo così accennare, al termine di questo breve lavoro, al fatto che l’essere, il Reale e l’amore del prossimo nominano a nostro avviso nell’insegnamento di Lacan lo stesso punto di impossibilità a partire dal quale abbiamo cercato di rileggere l’opera di Sade e di metterla alla prova con Kant.

247


Aut Aut 343

22-09-2009

15:36

Pagina 248

Come ci si abbona ad “aut aut” per posta: compilando e spedendo il coupon all’indirizzo aut aut c/o Picomax s.r.l. via Borghetto 1 - 20122 Milano con allegato bollettino di conto corrente postale (ccp n. 42128207 intestato a Picomax srl indicando come causale “abbonamento aut aut”) via fax: inviano il coupon al numero 02 76340836 (allegando la copia del bollettino di conto corrente postale si velocizza l’attivazione dell’abbonamento) via e-mail: abbonamenti@picomax.it via internet: www.picomax.it Per qualsiasi richiesta o chiarimento: Picomax srl - Ufficio abbonamenti via Borghetto 1 - 20122 Milano (dal lunedì al venerdì ore 9-13 14-18) telefono 02 77428040 fax 02 76340836 abbonamenti@picomax.it

Desidero sottoscrivere un abbonamento ad “aut aut”. Scelgo la seguente offerta: អ Abbonamento annuale

€ 76,00

€ 60,00

អ Abbonamento annuale estero អ Abbonamento annuale libreria

€ 76,00 incluse spese di spedizione € 76,00

€ 55,00

អ Abbonamento annuale libreria estero

€ 70,00 incluse spese di spedizione

អ Pagherò con bollettino postale (ccp n. 42128207 intestato a Picomax - servizio abbonamenti) អ Pagherò con bonifico bancario su Cassa Lombarda sede di Milano via Manzoni 14 c/c n. 17277 intestato a Picomax srl ABI: 03488 CAB: 01601 CIN: S អ Pago con la mia carta di credito

អ visa

អ mastercard

អ diners

titolare numero nome

scadenza cognome

via

n.

città

cap

e-mail

telefono

firma

provincia

data


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.