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347 luglio settembre 2010
Web 2.0. Un nuovo racconto e i suoi dispositivi Premessa PER UNA CRITICA DELL’IDEOLOGIA DEL WEB Carlo Formenti Il gran récit della rete Geert Lovink Tre tendenze del Web 2.0 Mathieu O’Neil L’autorità su Internet: per una teoria povera Stefano Rodotà Perché serve un Internet Bill of Rights Stefano Cristante McLuhan mistico della rete Nello Barile Network come neotot. La socialità in rete e gli avamposti di un nuovo fascismo emozionale DISPOSITIVO FACEBOOK Raoul Kirchmayr New media, dispositivi à double face Giovanni Scibilia Profilo di marca. Figure del brand tra il supermercato e Facebook Maria Maddalena Mapelli Facebook. Un dispositivo omologante e persuasivo Antonello Sciacchitano Un pensiero clique-à-porter Paulo Barone Sparizioni. I due punti della soggettività Massimiliano Nicoli Ultimo “post” a Parigi Pier Aldo Rovatti Esitare su Facebook
INTERVENTI Giacomo Marramao Hyperbolé. Politica, potere, potenza Raoul Silvestri La nozione di vita nella psiche postmoderna Gaetano Chiurazzi Mimesi ed emancipazione
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rivista fondata da Enzo Paci nel 1951 direttore responsabile: Pier Aldo Rovatti redazione: Paulo Barone, Graziella Berto, Giovanna Bettini, Laura Boella, Deborah Borca (editing, deborahborca@libero.it), Silvana Borutti, Damiano Cantone, Mario Colucci, Alessandro Dal Lago, Rocco De Biasi, Maurizio Ferraris, Edoardo Greblo, Raoul Kirchmayr, Giovanni Leghissa, Anna Maria Morazzoni (coordinamento, tel. 02 70102683), Ilaria Papandrea, Fabio Polidori, Rosella Prezzo, Pier Aldo Rovatti, Antonello Sciacchitano, Giovanni Scibilia, Davide Zoletto direzione: via Melzo 9, 20129 Milano collaborano tra gli altri ad “aut aut”: G. Agamben, H.-D. Bahr, R. Bodei, J. Butler, M. Cacciari, A. Cavarero, G. Dorfles, U. Galimberti, P. Gambazzi, S. Givone, A. Heller, F. Jullien, J.-L. Nancy, A. Prete, M. Serres, G.C. Spivak, M. Trevi, G. Vattimo, M. Vegetti, P. Veyne, V. Vitiello, S. Žižek per proposte di pubblicazione: redazioneautaut@gmail.com Si fa presente che “aut aut” non pubblica recensioni e non accetta testi di ampiezza superiore a 40.000 battute (note e spazi compresi).
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Premessa
el 1999 usciva il numero 289-290 (gennaio-aprile) di “aut aut”, dedicato a Internet e intitolato Gettare la rete. La voluta ambiguità del titolo evocava, come esplicitato nella nota introduttiva, l’opportunità di sospendere il giudizio sull’epoca inaugurata dall’avvento di Internet: tutti irretiti – nel senso letterale – dalle spire di una nuova, grande narrazione mitica sul ruolo progressivo e liberatorio della tecnologia? Tutti chiamati a sfruttare il nuovo strumento per esplorare inedite opportunità di esperienze, conoscenze, relazioni? Oppure, più realisticamente, tutti chiamati a riflettere su un inestricabile intreccio di sfide e opportunità? Pur pencolando verso l’una o l’altra di queste alternative, gli articoli raccolti nel fascicolo si adeguavano, tutto sommato, al “principio di prudenza”: sospendere l’eccesso di pretese filosofiche per cercare di descrivere “un orizzonte di esperienze che ogni giorno di più orientano i nostri modi di pensare e di agire”. Undici anni dopo, nel 2010, è possibile abbandonare il principio di prudenza? Come verificheranno i lettori di questo fascicolo, la risposta è no, o, per essere più precisi, non del tutto. In questo decennio le tecnologie e le pratiche sociali a esse associate hanno marciato a ritmi vertiginosi: non a caso il fuoco dell’attenzione oggi non è più genericamente sulla rete bensì sul Web 2.0, vale a dire su quell’inedito insieme di piattaforme (blog, social network, wiki ecc.) che hanno trasformato Internet in una gigantesca macchina (un miliardo e mezzo
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di utenti) di “autocomunicazione di massa”, come la definisce Manuel Castells, alludendo all’ibridazione di comunicazione interpersonale, comunicazione di massa, nuova industria culturale e produzione di contenuti amatoriali. Assai meno rapidamente ha marciato il lavoro di analisi sulle nostre nuove esperienze quotidiane, sul nostro modo di pensare e agire in un mondo in cui sta diventando impossibile distinguere fra socialità e rete, due termini che tendono sempre più a coincidere. Forse è anche per questo che, nella seconda parte del fascicolo, quella che ospita gli sguardi più propriamente filosofici sull’argomento in oggetto, il lettore riconoscerà lo stesso approccio “esitante”: la filosofia continua giustamente a rifiutare di inseguire le “cronache” della rete, cercando piuttosto di interrogare le lente trasformazioni del soggetto. Diverso il tenore dei testi raccolti nella prima parte, chiamati a rendere conto delle trasformazioni che la rivoluzione digitale ha generato nella struttura stessa delle relazioni di potere, e in quell’universo della comunicazione che di tali relazioni appare ormai arbitro e interprete prevalente, se non esclusivo. Da questo punto di vista, le esitazioni in merito all’equilibrio fra rischi e opportunità si sono ridotte, lasciando il campo a giudizi articolati ma convergenti su un punto: il tempo dell’utopia internettiana è tramontato e non riesce più a mascherare i dispositivi di dominio che fin dall’inizio vi erano inscritti. [C.F.]
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Per una critica dell’ideologia del Web
Con angolature diverse i testi di questa prima sezione considerano le principali trasformazioni che il Web 2.0 ha portato nell’universo della comunicazione e delle relazioni di potere a esso collegate.
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Il gran récit della rete CARLO FORMENTI
enso che lo scontro fra l’andamento volatile della borsa e la realtà, più pesante e lenta, del lavoro e dei beni, scarto misurabile in euro e percentuali, equivalga alla distanza immensa che oggi separa lo spettacolo mediatico-politico da una nuova condizione umana.” La citazione è tratta dalla prima pagina del primo capitolo di un recente pamphlet di Michel Serres, intitolato Tempo di crisi.1 Perché evocare questo breve testo di Serres, che (apparentemente) non ha molto a che vedere con Internet, per avviare un ragionamento sul Web 2.0? Lo scopo non è “nobilitare” un tema “prosaico” (commerci, chiacchiere quotidiane, sottoculture, intrattenimento ecc.) con riferimenti a un autore e a un pensiero “alti”, bensì cogliere lo “spirito del tempo” che si condensa in queste poco più di ottanta pagine e che, lo vedremo, ha molto a che fare con quel nuovo, “grande racconto” che il fulmineo diffondersi delle tecnologie di rete ha alimentato negli ultimi trent’anni. E giusto trent’anni separano la pubblicazione di questo lavoro “minore” di Serres da un’altro “scritto di occasione”: quella “condizione postmoderna” in cui Jean-François Lyotard aveva annunciato la fine dei grandi récits di legittimazione.2 Annuncio che, in un certo senso, si auto-
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1. M. Serres, Tempo di crisi (2009), Bollati Boringhieri, Torino 2010, p. 13. 2. J.-F. Lyotard, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere (1979), Feltrinelli, Milano 1981.
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smentiva già attraverso il sottotitolo, Rapporto sul sapere; infatti Lyotard, mentre decretava la fine di miti e ideologie politiche, utopie, fedi religiose, discorsi etici ecc. prendeva nel contempo atto dell’irresistibile ascesa di un sapere legittimato dalla “performatività”, vale a dire dalla produttività di un “fare” scientifico sempre più ibridato con la tecnica (informatica) e sempre meno condizionato dalla sfera dei valori. Un nuovo grande racconto, alla fin fine? La conferma arriva dal testo di Serres che, trent’anni dopo, celebra appunto l’apoteosi di questo “nuovo sapere”. Ma procediamo con ordine, a partire dai concetti chiave della citazione con cui abbiamo aperto il discorso: opposizione fra volatilità della borsa e pesantezza del lavoro, distanza immensa fra spettacolo politico e nuova condizione umana. La “distanza immensa” di cui parla Serres è, in primo luogo, temporale. Dopo aver sostenuto che la novità di un evento è commisurata alla lunghezza dell’era cui tale evento pone fine, il filosofo evoca infatti sei dimensioni che esemplificano il suo ragionamento: i diecimila anni che separano il neolitico dall’eclissi del rapporto umano con la terra (la riduzione ai minimi termini del peso delle attività agricole nei confronti delle altre attività produttive, consumatasi nella seconda metà del secolo scorso); il fulmineo incremento della mobilità di persone, merci, animali, virus e batteri (aumentata di mille volte dall’inizio dell’Ottocento); i milioni di anni che dividono la nostra era – in cui malattie, dolore fisico e morte divengono eventi relativamente rari – da tutte le ere precedenti, in cui la vita era breve e tormentata da infermità di ogni genere; l’esplosione demografica che ha accompagnato – più o meno con gli stessi tempi – questo incredibile miglioramento delle condizioni sanitarie; la trasfigurazione dello spazio, dai “vecchi” luoghi fisici, terrestri, che l’umanità ha abitato per milioni di anni, agli attuali luoghi virtuali, allo spazio dei flussi (“il connettivo sostituisce il collettivo”, scrive Serres, sulla scia di Pierre Lévy3); infine la mutazione dei conflitti, esito paradossale e controintuitivo in ragione del quale la smisu3. P. Lévy, L’intelligenza collettiva (1994), Feltrinelli, Milano 1996.
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rata potenza distruttiva evocata dalla tecnica, rendendo impossibile la guerra totale, ha ridimensionato il potere dei più forti, come gli Stati Uniti hanno dovuto imparare a loro spese, prima in Vietnam e poi nel fronteggiare la sfida del terrorismo islamico. Sono queste dimensioni a giustificare l’affermazione di Serres in merito all’avvento di una “nuova condizione umana” – avvento che le nostre istituzioni sembrano ignorare, permanendo nell’inerzia di vecchie strategie di conservazione/gestione del potere, fondate sulla elargizione di pane (economia) e giochi (spettacolo mediatico-politico). Per capire la crisi – l’opposizione fra la leggerezza della finanza e il peso di lavoro e beni –, scrive il filosofo, occorre dunque capire che la sua natura non è esclusivamente – e nemmeno prevalentemente – economica, ma rispecchia il convergere di processi che marcano una discontinuità radicale fra un prima e un dopo. I sei eventi epocali appena elencati – senza eccezione effetto della ricerca scientifica e delle sue applicazioni – convergono in un’unica, grande mutazione: le cose del mondo non ci dominano più; al contrario, oggi è la loro stessa esistenza a dipendere da noi (dalla performatività del nostro sapere tecnoscientifico, per dirla con Lyotard). Ma questo, paradossalmente, fa sì che ci ritroviamo a essere più che mai dipendenti da un mondo la cui sopravvivenza è messa a rischio dal nostro agire. Ecco perché la politica – ogni politica, di destra come di sinistra – appare irrimediabilmente vecchia, impelagata nella lotta fra soggetti umani che ignorano le cose, la pesante fragilità di un mondo ridotto alla condizione di “terzo escluso”. Ma come “dare voce” a questo terzo, muto per definizione? Come reintegrare il “diritto” delle cose del mondo, chi può parlare a loro nome? A parlare – e quindi a esercitare il potere – sono stati finora – sostiene Serres giocando con la triade mitica che Georges Dumézil pone a fondamento dell’intera storia indoeuropea – Giove, Marte e Quirino, cioè preti, guerrieri e produttori, o ancora religione, guerra ed economia. Sempre lotte fra soggetti umani dunque, lotte fra fedi religiose, fra popoli, fra classi sociali, fra ricchi e poveri. Se è invece venuto il tempo di far parlare il mondo, sostiene Ser8
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res, gli unici che possono assumere tale compito sono gli scienziati, i produttori dei saperi che generano la nuova condizione umana. Si torna, dunque, all’annuncio di Lyotard: fine del ruolo legittimante dei vecchi récits e suo trasferimento al potere performante della tecnoscienza? Ma ciò non significa benedire l’avvento di una nuova élite che, a seguire le suggestioni foucaultiane in merito al binomio sapere-potere (vedi gli interventi della seconda parte del numero, “Dispositivo Facebook”) rischia di essere ancora più autoritaria dei regni di Giove, Marte e Quirino? Lyotard – consapevole del rischio, aggravato dall’inestricabile intreccio fra efficienza tecnoscientifica ed efficienza economica – se la cava mettendo l’accento sul dissenso in quanto unico motore in grado di produrre nuovo sapere: la caduta delle vecchie narrazioni non genera solo il deserto dei valori, il pragmatismo postmoderno è anche e soprattutto sensibilità per le differenze, per il pluralismo dei linguaggi, palestra del loro libero confronto, dissenso come insostituibile carburante per la produzione del nuovo. La mossa di Serres è più ambiziosa (e pericolosa!). La performatività di Lyotard si fonda su un modello “computazionale”, rispecchia un’epoca in cui il computer è ancora strumento (quasi) riservato agli addetti ai lavori. Nel frattempo la macchina si è evoluta in mezzo di comunicazione di massa, è penetrata in ogni anfratto dell’attività produttiva, dei rapporti commerciali e della vita quotidiana, ha generato la grande rete abitata da miliardi di “netizen”, è esplosa nelle pratiche di social networking che sostanziano il Web 2.0. Un’evoluzione che offre al discorso di Serres la sponda di un immaginario ben più potente di quello che guida la riflessione di Lyotard: Internet in generale e il Web 2.0 in particolare hanno meno a che fare con la scienza dei computer – che assume il ruolo di sostrato materiale, di “reale” nascosto, celato dietro le interfacce culturali, immaginarie e simboliche, che ci permettono di dialogare gli uni con gli altri, ma anche con le macchine, quasi fossero a loro volta divenute soggetti – e assai più con la teoria della comunicazione, la scienza dei sistemi, i codici socioculturali. Siamo, 9
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dunque, sul terreno delle scienze della complessità – terreno che Serres conosce perfettamente, avendo contribuito a dissodarlo assieme ai vari Bateson, Prigogine, Stengers, Morin. Siamo, cioè, nel contesto di una tradizione epistemologica che addomestica la “durezza” delle teorie dell’informazione, integrandone i concetti nella “fluidità” della termodinamica (l’informazione come entropia negativa), per cui Serres può dichiarare che, ormai, “tutte le scienze si mettono a somigliare all’ecologia”.4 E quale sapere più adatto di quello ecologico a restituire la parola al mondo e alle cose? La legittimazione del passaggio di consegne dalla triade Giove, Marte, Quirino ai portatori di sapere scientifico è compiuta. Né si devono paventare rischi di un sapere monopolizzato dai pochi e quindi fonte di potere esclusivo: non siamo forse, grazie alla rete, nell’era dell’accessibilità universale al sapere, un accesso universale che “cambia la natura stessa del potere”?5 Non è forse vero che la democrazia è “all’inizio il risultato della rivelazione dei misteri; in seguito della divulgazione dei segreti; infine della volgarizzazione universale”?6 Due interrogativi che ne suscitano altri tre, di segno diametralmente opposto: esiste realmente un accesso universale al sapere? Ammesso che esista, è davvero in grado di cambiare la natura stessa del potere? È lecito stabilire un’equazione fra democrazia, divulgazione dei segreti e volgarizzazione universale? Per tentare di abbozzare una risposta dovremo: 1) evidenziare il rapporto di continuità/contiguità fra il récit di Serres e la grande utopia (anarchica) delle reti tecnologiche che attraversa tutta la modernità; 2) svelare il carattere ideologico della presunta vocazione democratica del Web 2.0; 3) sostenere le ragioni di una lettura conflittuale della “nuova condizione umana” annunciata da Serres. L’idea di un tempo che subisce un’accelerazione prodigiosa, trascinando l’umanità verso una fase assolutamente nuova della propria evoluzione, è tutt’altro che originale: essa accompagna l’intero sviluppo del pensiero moderno, che ha sempre esaltato 4. M. Serres, Tempo di crisi, cit., p. 74. 5. Ivi, p. 82. 6. Ibidem.
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gli elementi di discontinuità rispetto al passato, trascurando quelli di continuità. Da questo punto di vista, l’immaginario dei cantori della rivoluzione digitale non presenta sostanziali novità rispetto a quello degli autori ottocenteschi che esaltavano l’immenso potenziale di emancipazione associato allo sviluppo delle reti tecnologiche per il trasporto e la comunicazione, dai filosofi positivisti August Comte e Saint-Simon al pensatore anarchico Kropotkin.7 In queste narrazioni, il mondo appare destinato a unificarsi, superando guerre e conflitti, a diventare sempre più ricco e abitato da esseri umani sempre più sani e longevi, nonché a sviluppare istituzioni politiche più aperte e democratiche, emancipandosi dai vincoli del centralismo statalista. La grande narrazione è proseguita nel XX secolo lungo due direttrici: da un lato, quella inaugurata da Teilhard de Chardin e proseguita da McLuhan (vedi, in merito, l’articolo di Stefano Cristante, McLuhan mistico della rete), che hanno eletto l’evoluzione della mediasfera a principio unificatore del genere umano; dall’altro, quella delle scienze della complessità – di cui Serres, lo si è ricordato, è uno dei maggiori esponenti – che ha integrato gli oggetti naturali – viventi e non – nella propria visione olistica. Questo secondo filone, come ha dimostrato Philippe Breton,8 viene inaugurato negli anni cinquanta-sessanta da autori come Gregory Bateson e Norbert Wiener, fondatori di quel paradigma cibernetico che verrà ereditato da teoria dei sistemi, ecologia, teoria dell’informazione, termodinamica dei sistemi aperti, computer science ecc. I principi di fondo restano gli stessi: visione olistica, attenzione alle relazioni fra gli elementi di un sistema piuttosto che alla comprensione della sua “essenza”, democrazia intesa come trasparenza informativa e orizzontalità del rapporto fra fattori costitutivi dei sistemi (progressivamente estesa alle altre forme di vita e agli altri oggetti del mondo nella versione ecologista radicale). Il tutto a ispirare una filosofia politica in cui convergono individualismo libertario e organicismo 7. Cfr. in merito A. Mattelart, Storia dell’utopia planetaria (2000), Einaudi, Torino 2003. 8. P. Breton, L’utopia dell’informazione (1992), UTET, Milano 1996.
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sistemico (neofunzionalista): le sociologie del conflitto (Marx e Weber) cedono il passo al principio di retroazione (feedback), che legge il conflitto come sintomo di squilibri (entropia, intoppi nel flusso delle differenze/informazioni) da sanare. Se questa è la cornice filosofica, le analisi disciplinari (“specialistiche”) in merito al presunto ruolo democratizzante della rete in generale e delle piattaforme del Web 2.0 in particolare vi si inquadrano perfettamente, sia in quanto rilanciano l’idea di una svolta epocale di immensa portata, sia in quanto propongono interpretazioni non conflittuali dell’impatto delle tecnologie di rete su economia, politica e cultura. La crisi non è economica, argomenta Serres, ma nasce dall’impossibilità di risolvere nuovi problemi con vecchie istituzioni. In crisi non è l’economia in quanto tale, gli fanno eco i teorici dell’economia di rete, bensì la vecchia economia e le sue istituzioni, a partire dalla proprietà privata e dal folle progetto di estenderne l’impero sui beni comuni (commons) immateriali che i netizen vogliono scambiare liberamente. Capitalismo informazionale (Manuel Castells), economia dell’informazione in rete (Yochai Benkler), postcapitalismo (Peter Drucker), socialismo digitale (Kevin Kelly): sono solo alcuni dei concetti utilizzati dagli autori che si occupano del tema, i quali, pur nella differenza delle scelte linguistiche, concordano su quattro premesse di fondo: 1) la produzione di conoscenze e informazioni svolge ormai un ruolo egemonico ai fini della produzione di plusvalore; 2) l’intera organizzazione produttiva (imitata dalle relazioni sociali e politiche) ha ormai assunto, o sta assumendo, la forma di rete; 3) le forme di cooperazione sociale e produttiva non finalizzate alla realizzazione di obiettivi economici (peer production, economia del dono) svolgono un ruolo crescente e tendenzialmente strategico; 4) l’organizzazione produttiva e sociale sono teatro di radicali processi di de-gerarchizzazione. Vediamo quali conseguenze vengono fatte discendere da queste premesse. Se il valore si genera prevalentemente nei settori che producono conoscenze e informazioni, e se i mezzi di produzione che occorrono per operare in tali settori si riducono alla triade com12
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puter, programmi e connessioni di rete, argomenta Benkler,9 ciò significa che non servono più massicci investimenti in capitale fisso: la soglia di ingresso al mercato si abbassa drasticamente, ma soprattutto la fonte strategica del valore diventa la creatività individuale e collettiva. Ergo, il controllo dei mezzi di produzione non è più nelle mani di pochi ma si ridistribuisce fra i miliardi di produttori/consumatori che si interconnettono attraverso la rete. Al punto che Jeremy Rifkin, in un’intervista rilasciata al magazine del “Corriere della Sera”,10 arriva a proclamare che ognuno diventa un piccolo imprenditore e che, nella misura in cui condivide con altri ciò che produce, ci troviamo di fronte a una nuova forma di capitalismo distribuito o di socialismo cooperativo. Di “socialismo digitale” parla esplicitamente Kevin Kelly,11 riferendosi ai fenomeni di collaborazione spontanea e gratuita della peer production in rete (l’economia del dono esemplificata dalle comunità del software open source e dei redattori amatoriali dell’enciclopedia online Wikipedia). La possibilità, per una massa di prosumer, di usufruire liberamente del frutto del lavoro collettivo, ci obbliga a prendere atto, scrive Kelly, dell’emergere di un inedito “socialismo digitale” che differisce dal “vecchio” socialismo per l’assenza di conflitti di classe (siamo tutti lavoratori della conoscenza, per quanto grandi siano le differenze di status che ci separano), per l’accettazione del mercato, per l’ideologia individualista e meritocratica che si associa a questa peculiare forma di “cooperazione competitiva”. Sempre su queste premesse si fonda la critica liberale agli eccessi della legislazione che tutela la proprietà intellettuale condotta da autori come Lawrence Lessig:12 la “vecchia economia”, e in particolare le vecchie industrie culturali, si sforzano inutilmente – con l’appoggio dei governi – di far girare al contrario la ruota della storia, ignorando il fatto che, nell’economia dell’informa9. Y. Benkler, La ricchezza della Rete (2006), Università Bocconi Editore, Milano 2007. 10. S. Gandolfi, Rifkin: i ragazzi salvano il mondo, “Sette”, 22 aprile 2010. 11. K. Kelly, The New Socialism: Global Collectivist Society Is Coming Online, “Wired”, 22 maggio 2009. 12. L. Lessig, Cultura libera (2004), Apogeo, Milano 2005.
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zione in rete, la produttività aumenta più rapidamente se si consente a chiunque di innovare attingendo liberamente alle idee e ai prodotti culturali del passato, trattandoli come commons immateriali, invece di trasformarli in riserve “recintate” a beneficio delle major dell’industria culturale. Lo scontro fra modelli di business “chiusi” (Microsoft, Murdoch ecc.) e modelli di business “aperti” (Software Open Source, Google ecc.) è scontro fra il vecchio e il nuovo, si svolge sulla soglia del salto evolutivo verso un modo di produzione postcapitalista, in cui varranno ancora le leggi del mercato, ma verranno spazzati via i monopoli, creatori di “scarsità artificiale”. Da queste premesse, infine, viene fatto discendere il tramonto delle organizzazioni gerarchiche: l’organizzazione a rete risolve una contraddizione che ha accompagnato tutta la storia dell’impresa capitalistica, vale a dire il fatto che le grandi organizzazioni gerarchiche, superata una certa soglia di grandezza, devono fronteggiare costi di gestione tali da erodere i margini di profitto.13 La transizione dalla fabbrica al wiki permette di affidare il lavoro di coordinamento ai prosumer interconnessi in rete, dimostrando come gli utenti di un social network, ancorché debolmente coesi, possano eseguire certi compiti a costo zero e con efficacia maggiore delle vecchie strutture gerarchiche. I capi non servono più, sostiene Rifkin nella già citata intervista, e la lotta per il potere rispecchia un punto di vista ideologico superato, perché l’opposizione oggi non è più ideologica ma generazionale, fra chi pensa in modo centralizzato, patriarcale e chi pensa in modo distribuito, open source; le nuove generazioni non vogliono più leader “ma aspirano a svolgere tutti insieme il ruolo di leader”. Abbiamo così, sia pure sommariamente, completato l’elenco delle “piccole” rivoluzioni internettiane che si inseriscono nel grande affresco della mutazione epocale dipinto da Serres. Rivoluzioni che poi tanto piccole non sono, visto che accampano pretese di sovversione totale dei vecchi modi di produrre, comunicare, conoscere, governare ecc. E che non sono nemmeno rivoluzioni – perlome13. Cfr C. Shirky, Uno per uno, tutti per tutti (2008), Codice, Torino 2009.
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no non nel senso originario del termine, che allude al ritorno/reintegrazione di valori classici –, nella misura in cui ambiscono a presentarsi come eventi che marcano soglie di discontinuità temporale assoluta. Proviamo ora a osservare gli stessi fenomeni da una prospettiva completamente diversa: invece di “allontanarli”, evocando scale spazio-temporali smisurate (le migliaia o addirittura i milioni di anni), proviamo ad avvicinarli, a metterli a confronto con la storia recente, per coglierne i fattori di continuità piuttosto che di discontinuità con il passato. Transizione a una società postcapitalista? Socialismo digitale? Forse perché il capitale multinazionale abbandona l’economia “pesante” per trasmigrare nei settori che producono conoscenze e informazioni? Ma per i capitalisti è del tutto indifferente la natura dei valori d’uso che producono, la sola cosa che conta è investire nei campi che garantiscono profitti più elevati; semplicemente, oggi conviene investire nei settori dell’ICT, che offrono il rapporto più favorevole fra costi e remunerazioni. Più interessante è notare come la trasmigrazione sia stata così rapida e massiccia che, nel 2007, i primi posti della classifica mondiale erano quasi tutti occupati da produttori di hardware e software, telecom e dot.com, imprese protagoniste del più colossale processo di concentrazione produttiva e finanziaria degli ultimi secoli,14 in barba alle teorie di Benkler sulla ridistribuzione dei mezzi di produzione. Una vecchia economia che si regge solo grazie all’aiuto di una vecchia politica, cioè alle leggi sul copyright che favoriscono inedite “recinzioni” dei commons immateriali, generando scarsità artificiale in attività che, abbandonate alla cooperazione sociale spontanea e allo scambio gratuito, genererebbero più valore? Dove è la novità? Come ha dimostrato Polanyi,15 il modo di produzione capitalistico non sarebbe nemmeno nato, né tantomeno avrebbe potuto sopravvivere, senza la costante complicità di un potere politico che legittima
14. Cfr. M. Castells, Comunicazione e potere (2009), Università Bocconi Editore, Milano 2009. 15. C. Polanyi, La grande trasformazione (1944), Einaudi, Torino 1974.
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periodicamente nuove “recinzioni” (dai terreni demaniali della vecchia Inghilterra ai diritti di proprietà intellettuale sui file audio e video scambiati in rete), allo scopo di consentire al mercato di “colonizzare” nuove sfere della vita sociale. L’intera storia del capitalismo moderno può essere letta come alternanza di fasi di desocializzazione e risocializzazione (il capitale colonizza continuamente nuove sfere di vita sociale, mentre la comunità ne inventa altre che si sottraggono al mercato, per poi venire a loro volta colonizzate). I critici liberali del copyright potrebbero obiettare che, malgrado e contro i progetti di recinzione, peer production ed economia del dono conquistano sempre nuovi spazi, sottraendosi ai vincoli della vecchia economia e creando i presupposti, se non del socialismo digitale, almeno di un nuovo modo di produrre. Ma è così? Come ho ampiamente argomentato altrove16 (e come dimostra Geert Lovink nel suo articolo, Tre tendenze del Web 2.0), i modelli di business “aperti” (alla Google per intenderci) non rappresentano affatto un’alternativa strategica alla vecchia economia, un ponte verso modalità di produzione postcapitalistiche: si tratta, piuttosto, di sofisticati progetti di messa al lavoro della creatività collettiva di milioni di prosumer interconnessi in rete, di modalità capitalistiche del tutto nuove di appropriazione di un general intellect che non riesce nemmeno più a ottenere reddito in cambio della propria attività. Basta leggere quanto scrivono i teorici della “wikinomics”17 in merito a fenomeni come il crowdsourcing18 per fugare ogni dubbio: niente a che fare con presunti progetti di “socialismo digitale”, si tratta di incamerare – a costo zero – i frutti dell’attività di cooperazione spontanea mediata dalla rete, per convertirli in profitto privato. Le radici della crisi non vanno cercate nell’economia? D’accordo, ma a svelare l’arcano sono stati, assai prima di Serres, 16. C. Formenti, Cybersoviet. Utopie postdemocratiche e nuovi media, Raffaello Cortina, Milano 2008. 17. Cfr. D. Tapscott, A.D. Williams, Wikinomics 2.0 (2006), Rizzoli, Milano 2008. 18. Così viene definito lo sfruttamento organizzativo e commerciale da parte delle imprese dei prodotti della cooperazione spontanea delle reti di cooperazione sociale online.
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Marx e la critica dell’economia politica, con la differenza che, mentre spostavano l’attenzione dai mercati, non la dirottavano su presunte mutazioni millenarie, bensì sui concreti rapporti di forza fra classi sociali in conflitto. Non va dimenticato che l’avvento dell’economia di rete è stato anche e soprattutto la risposta del capitale alle lotte operaie degli anni sessanta e settanta, che avevano eroso i margini di profitto: la ristrutturazione capitalistica non fu solo effetto, ma anche concausa della crisi economica di quegli anni (crisi e ristrutturazione come momenti, strettamente integrati, del contrattacco capitalistico nei confronti della classe operaia). Allo stesso modo, le vertiginose impennate dei titoli tecnologici degli anni novanta, come il loro repentino crollo nei primi anni del XXI secolo, non sono stati solo l’esito di una “bolla speculativa”, ma anche e soprattutto effetto di un modello di accumulazione che finanziava ritmi vertiginosi di innovazione attraverso la sopravalutazione strutturale dei titoli (nel senso che i valori non rispecchiavano assets aziendali ma aspettative di profitti futuri19). Un modello nato per fare i conti con i rapporti di forza conquistati da quegli strati di classe emergenti – lavoratori della conoscenza, classe creativa o classe hacker che dir si voglia20 – che, nella misura in cui erano dotati di competenze elevate e di un alto grado di autonomia, fattori difficili da trovare e “fidelizzare”,21 costringevano il capitale a cooptarli con il miraggio di un “comunismo dei ricchi” (cioè offrendo loro di partecipare ai sovraprofitti aziendali attraverso il meccanismo delle stock options). E, di nuovo, non si afferra la logica del binomio crisi-ristrutturazione, se non la si mette in relazione alla necessità, per il capitale, di ridimensionare i rapporti di forza acquisiti dai lavoratori della conoscenza. Da questo punto di vista, esiste una continuità assoluta fra il crollo dei ti19. Cfr. C. Formenti, Mercanti di futuro, Einaudi, Torino 2002. 20. Le tre definizioni appartengono, rispettivamente, a Peter Drucker (La società postcapitalista, 1993, Sperling & Kupfer, Milano 1993), Richard Florida (L’ascesa della nuova classe creativa, 2002, Mondadori, Milano 2003) e Wark McKenzie (La classe hacker, 2004, Feltrinelli, Milano 2004). 21. In quegli anni i knowledge workers americani cambiavano lavoro in media ogni tre anni.
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toli tecnologici nel 2000-2001 e la crisi finanziaria attuale, innescata dai mutui suprime, cioè dalla vendita dei debiti “cartolarizzati” della middle class americana.22 In una prima fase, la crisi falcidia posti di lavoro e redditi dei lavoratori della conoscenza (né le retribuzioni, né i tassi di occupazione sono mai tornati ai livelli di partenza, perché, nel frattempo, milioni di posti di lavoro sono stati “esternalizzati” in Cina, in India, in Brasile e in altri paesi in via di sviluppo). Poi il processo di finanziarizzazione dell’economia in atto fin dagli anni ottanta del secolo scorso, grazie alle politiche di deregulation messe in atto dai governi liberisti, compie un duplice salto di qualità: da un lato, i consumi che rischiavano di crollare a causa della caduta di occupazione e salari vengono alimentati attraverso finanziamenti ad alto rischio al debito privato; dall’altro la speculazione finanziaria consente alle imprese hi-tech di convertire in profitti il lavoro gratuito delle comunità online che si aggregano attorno alle piattaforme tecnologiche del Web 2.0, che sostituiscono i vecchi siti del Web 1.0 allo stesso modo in cui la fabbrica toyotista aveva sostituito quella fordista. Tramonto delle organizzazioni gerarchiche? L’apologia del presunto ruolo “democratizzante” delle tecnologie di rete – con i particolari peana riservati alle piattaforme del Web 2.0 – è l’anello debole del gran récit internettiano, il punto in cui il carattere ideologico, mistificante al limite della malafede, della narrazione si fa trasparente. In barba a tutti gli eventi che, nell’ultimo decennio, hanno clamorosamente smentito la favola dell’architettura “intrinsecamente orizzontale e democratica” di Internet, gli apologeti non cessano di alimentare il mito. Si è già ricordato, seguendo l’analisi di Shirky (vedi nota 13), come la transizione dalla gerarchia della fabbrica alle strutture orizzontali dell’impresa a rete, dei network produttivi interconnessi via Internet, rispecchi le esigenze da parte delle imprese di ottenere incrementi di produttività ed efficienza a costo zero. I teorici 22. Cfr. A. Fumagalli, S. Mezzadra (a cura di), Crisi dell’economia globale, ombre corte, Verona 2009.
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della democratizzazione dell’economia obiettano che il carattere “ambiguo” (socioculturale e produttivo-commerciale a un tempo) dei network non impedisce alle nuove forme di relazione sociale mediate dal computer di favorire una reale ridistribuzione del potere: l’empowerment del cittadino/utente/consumatore si accompagna al ridimensionamento del potere delle élite tradizionali (professionali, di status, politiche ed economiche). Ebbene, come hanno dimostrato un’infinità di ricerche empiriche e teoriche, questo è assolutamente falso. Internet non è un ambiente egualitario, bensì una rete governata da leggi di potenza23 in cui il principio paretiano dell’80/20 non viene affatto sovvertito. Le élite non tramontano: cambiano, se mai, le modalità con cui esse vengono selezionate, nascono inediti meccanismi “index-carismatici” (vedi l’articolo di Mathieu O’Neil, L’autorità su Internet: per una teoria povera) che consentono a singoli leader, marchi, imprese, testate, associazioni ecc. di accumulare rapidamente enormi quote di capitale sociale e relazionale, assieme a quel reputation capital che rappresenta la risorsa fondamentale del potere online. Agenti di queste nuove forme di concentrazione del potere (e quindi della nascita di nuove gerarchie) sono dispositivi tecnosociali di cui gli algoritmi di ricerca di Google rappresentano un esempio paradigmatico. L’algoritmo indicizza le pagine calcolando quanti link hanno ricevuto e, dopo avere dato a ognuno di essi un “peso” differente in relazione all’affidabilità di chi lo attiva (affidabilità a sua volta misurata in link e in prestigio sociale, culturale ed economico: le grandi testate, i grandi marchi, le istituzioni accademiche pesano di più di un blogger e un blogger famoso pesa di più di un blogger semisconosciuto), li interpreta come voti di qualità. È tuttavia evidente che il capitale reputazionale così accumulato, come alcuni hanno già messo in evidenza,24 rispecchia, più che la qualità di una pagina, la popolarità di cui essa gode presso il “Popolo della rete” e il gradimento che ottiene dai “vecchi” po23. Cfr. A.-L. Barabási, Linked. La scienza delle reti (2002), Einaudi, Torino 2004. 24. Cfr. Ippolita, Luci e ombre di Google, Feltrinelli, Milano 2007.
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teri – un meccanismo che, sul piano politico, esalta il potenziale populista-autoritario del mezzo (vedi l’articolo di Nello Barile, Network come neotot). La volgarizzazione della conoscenza, dunque, contrariamente a quanto pensa Serres, potrebbe non essere l’ultima tappa di un processo di democratizzazione, bensì il primo passo verso nuove forme di autoritarismo. E con questo abbiamo introdotto l’ultimo interrogativo: la rete può essere davvero uno strumento in grado di “colmare la distanza immensa che oggi separa lo spettacolo mediatico politico da una nuova condizione umana”, o, dalla più modesta prospettiva che qui suggeriamo di adottare, da bisogni, desideri e speranze dei soggetti reali? A rispondere positivamente non sono solo i teorici “naif” del Popolo della rete,25 ma anche un sociologo accademico del prestigio di Manuel Castells. In Comunicazione e potere,26 Castells contrappone al potere manipolatorio dei tradizionali mezzi di comunicazione di massa il potere di emancipazione di quella che chiama “autocomunicazione di massa” – termine con cui definisce tutte le nuove forme di comunicazione mediata dal computer, in quanto esse hanno la facoltà di raggiungere un pubblico globale ma, al tempo stesso, conservano la natura di produzione di messaggi autogenerati; ma soprattutto perché si tratta di piattaforme tecnologiche in cui comunicazione interpersonale, autocomunicazione e comunicazione di massa interagiscono e si integrano vicendevolmente –, modalità che permettono agli utenti, in quanto mittenti e destinatari al tempo stesso dei messaggi, di conquistare inediti livelli di autonomia. Castells è il primo a riconoscere che questi strumenti vengono anche usati per ridimensionare i rapporti di forza conquistati dai lavoratori della conoscenza e per generare nuove disuguaglianze che colpiscono gli strati sociali esclusi dal nuovo “spazio dei flussi”; così come riconosce che è in atto un colossale progetto del capitale 25. Mi riferisco ad autori come Nicholas Negroponte, Kevin Kelly, Howard Rheingold e Henry Jenkins (per citare solo i più noti) che celebrano entusiasticamente – perlopiù con argomenti di scarso valore scientifico – il potenziale democratizzante della rete. 26. M. Castells, Comunicazione e potere, cit.
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transnazionale per “privatizzare” Internet e ricondurre l’autocomunicazione di massa nell’alveo commerciale; ciò non gli impedisce di delineare scenari politici in cui il potere di auto-organizzazione e di automobilitazione dal basso dei cittadini si rivelerebbe in grado di “riprogrammare” le reti, trasformandole in strumenti di democrazia diretta, partecipativa e deliberativa, e a sostegno di tale tesi cita la vittoriosa campagna presidenziale di Obama del 2008, che ha consentito a un outsider di trionfare scommettendo sul potenziale grassroot della politica online. È difficile negare che, in occasioni come queste – ma anche in occasioni come le mobilitazioni del “popolo viola”, o come le campagne elettorali condotte da Nichi Vendola in Puglia o il movimento dei fan di Beppe Grillo, per restare in ambito italiano –, i nuovi media abbiano dimostrato un notevole potenziale di partecipazione politica dal basso. Come ho argomentato altrove,27 tuttavia, il limite di queste esperienze si misura proprio nel momento in cui certe campagne si concludono vittoriosamente. Il vero problema, infatti, è quello di capire se e in quale misura i network partecipativi possano rivelarsi anche strumenti di governo: è possibile far sì che i cittadini non si limitino a far pesare le proprie opinioni nella definizione dei programmi politici durante una campagna elettorale, ma possano anche determinare le decisioni politiche assunte dai leader che essi hanno contribuito a eleggere nel corso del loro mandato? Finora l’esperienza ci ha detto di no: democrazia rappresentativa da un lato e democrazia diretta e partecipativa dall’altro restano antitetiche, e resteranno tali in assenza di radicali riforme – se non di vere e proprie rivoluzioni – istituzionali; la democrazia continua di cui parla Stefano Rodotà28 resterà un sogno fino a quando i movimenti sociali non saranno in grado di imporre una “costituzione della rete” (vedi l’articolo di Rodotà, Perché serve un Internet Bill of Rights). Per concludere: Giove, Marte e Quirino sembrano avere ancora molto da dire sul nostro destino e l’avvento del 27. Cfr. C. Formenti, Se questa è democrazia, Manni, Lecce 2009; vedi anche C. Formenti, P. Mele (a cura di), I politici ci mettono la faccia, Manni, Lecce 2010. 28. S. Rodotà, Tecnopolitica, Laterza, Roma-Bari 2004 (nuova edizione accresciuta).
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regno dei produttori di sapere (per fortuna o per sfortuna, a seconda dei punti di vista) appare ancora lontano, quindi, per capire come cambia il mondo nell’era di Internet, è forse meglio rinunciare ai grandi racconti sulla nuova condizione umana e affidarsi al più modesto contributo delle “vecchie” sociologie del conflitto.
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Tre tendenze del Web 2.0 GEERT LOVINK
La socialità è la capacità di essere molte cose insieme. G.H. Mead
l Web 2.0 si contraddistingue per tre caratteristiche: è facile da usare; favorisce lo sviluppo della socialità, l’attivazione di legami con gli altri; permette agli utenti di pubblicare i propri contenuti in qualsiasi forma – fotografie, video o testo. Tutto gira intorno alla pubblicazione e alla produzione. Lo sforzo di monetizzare il contenuto generato dagli utenti nasce come risposta al crollo delle dotcom. All’apice della dotcom-mania tutto l’interesse era focalizzato sull’e-commerce, gli utenti erano in primo luogo e principalmente potenziali clienti e li si doveva convincere a comprare beni e servizi online. La New Economy, teoricamente, doveva consistere in questo. Intorno al 1998 un affascinante cybermondo fatto di geek, artisti, programmatori e piccoli imprenditori è stato spazzato via, dall’oggi al domani, da manager e contabili lanciati all’inseguimento del Big Money della finanza e del venture capital. Con l’improvvisa ascesa dei modelli di business al vertice dell’egemonia globale neoliberale, la controcultura online ha subìto un duro colpo e ha perso per sempre la sua posizione di avanguardia. Durante il periodo di ricostruzione che seguì l’11 settembre, la Silicon Valley trovò nuova ispirazione in due progetti: l’energia vitale della start-up Google (che riuscì con successo a rimandare per anni il suo esordio in Borsa) e la scena dei blog, che stava rapidamente emergendo intorno a varie piattaforme di autopubblicazione, come blogger.com, Blogspot e LiveJournal. Sia
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l’algoritmo di ricerca di Google, sia l’invenzione del sistema RSS (la tecnologia che fa funzionare i blog) da parte di Dave Winer risalgono al 1997-1998, ma entrambe riuscirono a tenersi fuori dal furore delle dotcom finché uscirono allo scoperto, costituendo la duplice anima dell’imminente ondata del Web 2.0. Mentre i blog incarnavano l’aspetto non-profit ed empowering delle risposte personali raggruppate intorno a un link, Google sviluppava tecniche per parassitare il contenuto prodotto da altri, o, in parole diverse, per “organizzare l’informazione mondiale”. La killer application risultò essere la personalizzazione degli annunci pubblicitari. Ciò che viene messo in vendita non sono più i servizi diretti, ma l’informazione indiretta. Ben presto Google scoprì che poteva trarre profitto dall’informazione gratuita che fluttuava liberamente in Internet, dai video amatoriali alle news giornalistiche professionali. Lo spettacolare incremento del contenuto generato dagli utenti è stato alimentato dall’industria dell’information technology, non dal business mediatico. Il profitto non si crea più al livello della produzione, ma attraverso il controllo dei canali di distribuzione. Apple, Amazon, eBay e Google sono i maggiori vincitori in questo gioco. Su questo sfondo, analizzerò tre tendenze recenti: la colonizzazione del tempo reale, la cultura del commento, unitamente all’aumento delle opinioni estremistiche, la nascita di “Web nazionali”. Ma prima di affrontare questi argomenti, vorrei esaminare la recente “svolta neurologica” nella critica del Web 2.0. The Cult of the Amateur (2007), di Andrew Keen, è stata una delle prime critiche al sistema di credenze del Web 2.0.1 “Cosa succede,” si chiede Keen, “quando l’ignoranza incontra l’egoismo, il cattivo gusto e il potere delle masse? La scimmia trionfa.” Quando tutti trasmettono, nessuno è più in ascolto. In questa condizione di “darwinismo digitale” sopravvivono soltanto le voci più squillanti e dogmatiche. Ciò che fa il Web 2.0, dunque, è “decimare i ranghi dei nostri gatekeepers”. 1. A. Keen, Dilettanti.com. Come la rivoluzione del web 2.0 sta uccidendo la nostra cultura e distruggendo la nostra economia, De Agostini, Novara 2009.
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Se quella di Keen potrebbe essere letta ancora come una reazione gelosa e irritata da parte della classe dei vecchi media, non è questo il caso di The Big Switch (2008), in cui Nicholas Carr analizza la nascita del cloud computing.2 Per Carr, questa infrastruttura centralizzata segna la fine del PC autonomo inteso in quanto nodo all’interno di una rete distribuita. Nell’ultimo capitolo, intitolato “iGod”, si trovano indicazioni riguardo a una “svolta neurologica” nella critica di Internet. Partendo dall’osservazione che l’intenzione di Google è sempre stata quella di trasformare il proprio funzionamento in un’Intelligenza Artificiale, “un cervello artificiale più intelligente del nostro” (Sergey Brin), Carr concentra l’attenzione verso il futuro del cervello umano. “Il medium non solo è il messaggio. Il medium è la mente. Dà forma a ciò che vediamo e al modo in cui lo vediamo.” Con la velocità stressante di Internet diventiamo i neuroni del Web, “quanti più link clicchiamo, pagine visitiamo e transazioni facciamo, tanto maggiori sono l’intelligenza creata dal Web, il valore economico che accumula, il profitto che genera”. Nel suo ormai famoso saggio per la rivista “Atlantic Monthly” del luglio 2008, Does Google Make Us Stupid? What Does the Internet to Our Brains, Nicholas Carr spinge questa tesi ancora più avanti e sostiene che il continuo passaggio da una finestra all’altra e da un sito all’altro, oltre al frenetico uso dei motori di ricerca, non faranno che abbassare il nostro livello di intelligenza. Dobbiamo dedurne che, in definitiva, è responsabilità degli individui monitorare l’uso che fanno di Internet, evitando che abbia conseguenze sul proprio sistema cognitivo? In un approfondito resoconto del dibattito che ne è seguito, Wikipedia cita lo studio di Sven Birkerts del 1994, The Gutenberg Elegies: The Fate of Reading in the Electronic Age, e il lavoro di Maryanne Wolf, psicologa dello sviluppo, la quale insiste sulla perdita della capacità di “concentrazione nella lettura”. Chi usa Internet intensivamente sembra perdere la capacità di leggere e di trarre godimento dai testi lunghi, romanzi e monografie. 2. N. Carr, Il lato oscuro della rete. Libertà, sicurezza, privacy, Rizzoli, Milano 2008.
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È un elemento che anche il direttore della “Frankfurter Allgemeine Zeitung”, Frank Schirrmacher, riprende nel suo libro del 2009, Payback.3 Se la denuncia di Carr di un collasso delle capacità multitasking dell’uomo bianco aveva i toni dell’esperto informatico e dell’intellettuale della costa orientale americana, Schirrmacher trasferisce la discussione in un contesto europeo, laddove le classi medie, invecchiando, sono agite dall’ansia difensiva nei confronti del fondamentalismo islamico e dell’ipermodernità asiatica in ascesa. Proprio come Carr, Schirrmacher cerca le prove del deterioramento del cervello umano, destinato a non reggere a lungo il passo dei vari iPhone, Twitter e Facebook, che si sommano ai flussi di informazione già esistenti provenienti da televisione, radio e carta stampata. Siamo in uno stato permanente di allerta costretti a sottometterci alla logica costante della disponibilità e della velocità. Schirrmacher parla, in questo senso, di “esaurimento dell’io”. La maggior parte dei blogger tedeschi ha avuto una reazione negativa a Payback: a parte gli errori fattuali, ciò che più li irritava era il suo implicito pessimismo culturale antidigitale (ancorché smentito dall’autore) nonché i suoi conflitti d’interesse, in quanto editore del giornale, nei confronti della critica Zeitgeist. Qualunque sia l’agenda dei media culturali, l’avvertimento di Schirrmacher ci accompagnerà ancora per un po’. Che spazio vogliamo concedere ai dispositivi e alle applicazioni digitali nella nostra vita quotidiana per evitare di farci opprimere? Internet governerà e condizionerà la nostra visione del mondo e i nostri sensi oppure avremo ancora la volontà e la lucidità necessarie a padroneggiare questi strumenti? L’ultimo titolo di questa raccolta in espansione è You Are Not a Gadget (2010), di Jaron Lanier, pioniere della realtà virtuale, il quale si chiede: “Che cosa succede quando smettiamo di essere noi a plasmare la tecnologia ed è piuttosto la tecnologia che inizia a plasmare noi?”.4 Analogamente a quella di Andrew 3. F. Schirrmacher, Payback, Blessing Verlag, Munich 2009. 4. J. Lanier, You Are Not a Gadget, A.A. Knopf, New York 2010.
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Keen, la critica di Lanier si rivolge all’effetto di ottundimento della “saggezza della folla”. E non è solo il caso di Wikipedia, dal momento che ne sono vittime anche le persone creative. Lanier si domanda perché gli ultimi due decenni non hanno prodotto nuove forme musicali e nuove sottoculture, e ne attribuisce la colpa alla forte enfasi che le attuali culture del remix pongono sul passato. La cultura libera non ha solo ridotto i guadagni degli artisti dello spettacolo, ma ha anche dissuaso i musicisti dallo sperimentare suoni inediti. La democratizzazione degli strumenti digitali non ha portato alla nascita di tanti “superGershwin”. Al contrario, Lanier denuncia l’“esaurimento dei pattern”, un fenomeno per cui una cultura esaurisce le variazioni dei temi tradizionali e diventa meno creativa. “Non stiamo attraversando una tregua momentanea prima della tempesta. Siamo piuttosto entrati in uno stato di persistente sonnolenza e comincio a credere che ne verremo fuori solo sbarazzandoci della logica dello sciame.” Con i miei due saggi Blogging, the Nihilist Impulse5 (2006) e The Googlization of Everyday Life (2009) ho dato il mio contributo a questa visione critica. Ora, però, invece di ripetere ciò che dicono gli autori sopra citati, vorrei spostarmi da un dialogo potenzialmente unilaterale con i neuroscienziati e gli psicologi cognitivisti per concentrarmi su alcune tendenze socio-culturali che richiedono altrettanta attenzione. 1. La colonizzazione del tempo reale Sta avvenendo un fondamentale passaggio dall’archivio statico verso il “flusso” (flow) e il “fiume” (river). Dave Winer lo esalta su Scripting News e Nicholas Carr scrive le sue scettiche osservazioni in merito sul blog The Real Time Chronicles. Vediamo affiorare questa tendenza in metafore come quella contenuta nel titolo del servizio Google Wave. Twitter è il sintomo più evidente di questa tensione verso la transitorietà. A chi importa qual5. Disponibile online all’indirizzo: <http://www.eurozine.com/articles/2007-01-02lovink-en.html>.
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cosa delle cose di ieri? Della storia ci si vuole soltanto sbarazzare. La Silicon Valley si sta equipaggiando per la colonizzazione del tempo reale, e prende congedo dalla statica “pagina” web che ha ancora come proprio modello il giornale stampato. Gli utenti non sentono più il bisogno di immagazzinare informazioni e la “nuvola” (cloud) facilita questo movimento liberatorio. Salveremo i nostri file su Google, oppure da qualche altra parte, e potremo così sbarazzarci dei nostri scomodi PC generalisti. Via i grigi mobili da ufficio. Il Web si è trasformato in un ambiente effimero che ci portiamo dietro, sulla nostra pelle. Qualcuno ha detto addio alla stessa idea di “ricerca” perché è un’attività che porta via troppo tempo, spesso senza dare risultati soddisfacenti. Potenzialmente questo potrebbe segnare il punto di svolta a partire dal quale l’impero di Google inizia a sgretolarsi – ecco perché Google si sforza di essere in prima linea rispetto a ciò che Paul Virilio aveva già descritto anni fa. Virilio ci ricorda che non possiamo comunicare a una velocità superiore a quella della luce. Recuperare qualche file da un polveroso database potrebbe essere presto un’attività che richiede troppo tempo. Nonostante tutti i giustificati appelli per una “comunicazione lenta”, il mercato si sta muovendo nella direzione opposta. Al pari della finanza, l’industria mediatica sta esplorando le possibilità di massimizzare il valore aggiunto sfruttando i nanosecondi. Ma a differenza degli hedge fund, qui si tratta di tecnologia per tutti. I profitti crescono soltanto se la colonizzazione del tempo reale si dispiega su scala planetaria. Diamo un’occhiata a Google Wave. Unifica instant messaging, e-mail, wiki e social networking; integra i feed di Facebook, Twitter ecc. in un unico evento che accade in tempo reale sullo schermo. È un meta-strumento online per la comunicazione in tempo reale. Stando davanti alla “lavagna” di Wave, sembra di sedere in riva a un fiume, osservando la corrente che scorre. Non è più necessario rivolgere domande al PC per poi immergersi nell’archivio. Internet nella sua totalità è ora in tempo reale, nel tentativo di approssimare il disordine e la complessità del mondo sociale reale. Tuttavia, quel che è un passo avanti comporta due passi in28
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dietro in termini di design. Basta guardare il goffo design di Twitter, che ricorda le prime e-mail in codice ASCII e gli SMS su un cellulare del 2001. Fino a che punto si tratta di un effetto speciale voluto? Lo stile HTML con la sua sciatteria e i suoi refusi potrebbe non essere un’imperfezione tecnica, ma piuttosto un sintomo dell’infinitezza dell’Eterno Presente in cui siamo catturati. Semplicemente non c’è tempo per godersi i media lenti. Se torniamo in “modalità-Toscana” è bello distendersi e ascoltare il silenzio offline, ma è qualcosa che riserviamo ai momenti di qualità. Il pacemaker di Internet in tempo reale è il “microblogging”, ma possiamo anche pensare ai social network e alle loro esortazioni che mirano a estorcere dagli utenti il maggior numero possibile di informazioni in tempo reale: “Cosa stai facendo?”. Dacci un’istantanea di te stesso. “A cosa stai pensando?” Esprimi le tue voglie. I blog freneticamente aggiornati sono parte di questa propensione, al pari dei siti di news aggiornati di continuo. La tecnologia sottostante, che provoca tutto questo, è quella evoluzione costante dei feed RSS che offre la possibilità di ricevere aggiornamenti istantanei di tutto ciò che sta succedendo nel Web. La proliferazione delle connessioni mobili gioca un ruolo significativo sullo sfondo: è ciò che facilita in prima istanza la “mobilità” di computer, social network, foto e videocamere, supporti audio e tv mobili. La miniaturizzazione dell’hardware, insieme alla connessione senza fili, consente alla tecnologia di diventare parte invisibile della vita quotidiana. Le applicazioni del Web 2.0 rappresentano le risposte a questa tendenza e il tentativo di estrarre valore da ogni situazione in cui ci troviamo. La Macchina vuole sapere costantemente cosa pensiamo, che scelte facciamo, dove andiamo e con chi parliamo. Non ci sono prove che il mondo stia diventando più virtuale. I cyberprofeti si erano sbagliati in questo. Il virtuale vuole penetrare e mappare le nostre vite reali e i nostri rapporti sociali. Il virtuale sta diventando più reale. Tutti gli investimenti si concentrano lì, mentre abbandonano Second Life, la virtualizzazione e le mascherate. Non siamo più incoraggiati a fingere di essere un altro, bensì a essere noi stessi. Ci registriamo continua29
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mente, creiamo profili allo scopo di presentarci sul mercato globale del lavoro, dell’amicizia, dell’amore. Se anche possiamo moltiplicare le passioni, la nostra identità resta una. La fiducia è ciò che fa andare avanti il capitalismo globale e lo stato di sicurezza. L’idea originaria, in base alla quale il virtuale doveva aiutare a liberarci dal nostro vecchio io, è andata in pezzi. Adesso tutto gira intorno al management di sé e al techno-sculpturing: che forma diamo al nostro io nel flusso di tempo reale? Da questo punto di vista, non c’è tempo per il design, e nemmeno per i dubbi. La risposta del sistema non è in grado di gestire l’ambivalenza. L’io che viene presentato è post-cosmetico. L’ideale non è diventare l’Altro, e nemmeno il migliore degli esseri umani. Mehrmensch, non Übermensch. La personalità perfetta e patinata manca di empatia ed è subito sospetta. È solo una questione di tempo, basta attendere che le persone “eccezionali” come i VIP commettano un errore e rivelino i loro veri punti deboli. Diventare migliori implica rivelare chi si è. I media sociali invitano gli utenti ad “amministrare” i loro lati più umani, invece che nasconderli o mostrarne alcuni aspetti controversi. I nostri profili restano freddi e incompleti se non facciamo vedere almeno alcuni aspetti di vita privata. In caso contrario siamo considerati robot, membri anonimi di una cultura di massa del secolo scorso in via di estinzione. In Intimità fredde (2007) Eva Illouz dichiara: “È virtualmente impossibile distinguere la razionalizzazione e la mercificazione di sé dalla capacità dell’io di formare e aiutare se stesso e di impegnarsi nella deliberazione e nella comunicazione con gli altri”.6 Ogni minuto della nostra vita si trasforma in “lavoro”. È il trionfo delle interpretazioni biopolitiche del capitalismo informazionale. Al tempo stesso, ci sono le pratiche con cui i soggetti viventi si appropriano della tecnologia e la incorporano. Come possiamo amministrare questi due movimenti? Come misuriamo l’equilibrio di potere tra questi due flussi? L’idea di velocizzare e 6. E. Illouz, Intimità fredde. Le emozioni nella società dei consumi, Feltrinelli, Milano 2007.
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rallentare simultaneamente ha l’aria di essere un’illusione. Piuttosto, potendo permetterselo, si potrebbe esternalizzare uno dei due compiti affrontando quelli veloci o lenti a seconda del nostro carattere, delle nostre competenze e dei nostri gusti. 2. I cittadini della rete e la nascita delle opinioni estremistiche Che fine ha fatto il netizen razionale ed equilibrato, l’educato “ cittadino della rete? Internet sembra diventata una camera di riverberazione per le opinioni estremistiche. Il Web 2.0 sta andando fuori controllo? A un primo sguardo, l’idea di netizen è una risposta, risalente alla metà degli anni novanta, alla prima ondata di utenti che presero possesso della rete. Il netizen modera, smorza le discussioni troppo accese e soprattutto risponde in modo cortese, senza mai essere repressivo. Il netizen non rappresenta la Legge, non è un’autorità ma si comporta come un consigliere personale, una guida in un universo nuovo. Il ruolo di netizen è ispirato allo spirito del comportamento corretto e della cittadinanza collettiva. Gli utenti dovettero assumersi la responsabilità sociale. Non chiedevano regole governative e anzi si proponevano esplicitamente di tenere i legislatori lontani dalla rete. Fino al 1990, l’ultimo stadio accademico della rete, si dava per scontato che, nel senso letterale, ogni utente conoscesse le regole (chiamate anche netiquette) e le applicasse di conseguenza. Ovviamente ciò non accadeva sempre, perciò, quando veniva notato un comportamento riprovevole, si poteva convincere l’individuo a cessare di inondare di spam le caselle e-mail, di fare il prepotente ecc. Questo non fu più possibile dopo il 1995, quando Internet si aprì al pubblico più vasto e al World Wide Web con i suoi browser, che rendevano l’accesso molto più semplice. A causa della rapida crescita, non fu più possibile trasmettere da un utente all’altro il codice di comportamento, messo a punto dagli ingegneri e scienziati informatici nel corso del tempo. All’epoca, la rete era considerata un medium globale difficilmente controllabile dalla legislazione nazionale. E forse in questo c’era anche un elemento di verità. Il cyberspazio era fuori 31
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controllo, ma in un modo simpatico e ancora innocente. Il fatto che in una stanza attigua all’ufficio del primo ministro, a Monaco, le autorità avessero installato una task force per controllare la parte bavarese di Internet, era un’impresa divertente, ancorché disperata. A suo tempo abbiamo riso di fronte a questo prevedibile provvedimento tedesco. Dopo l’11 settembre e il crollo delle dotcom, le cose sono radicalmente cambiate. Ora, circa dieci anni dopo, ci sono montagne di legislazioni, corpi governativi e un intero arsenale di strumenti software per sorvegliare il Web nazionale, come viene chiamato oggi. In retrospettiva, si può facilmente decostruire l’approccio razionale del “cittadino della rete” riconoscendovi una Gestalt libertaria, una figura dell’era neoliberale della deregolamentazione, e tuttavia i problemi non sono scomparsi, anzi sono cresciuti a ritmo esponenziale. Oggi saremmo forse propensi a dedicarvi piuttosto una parte dei programmi di istruzione scolastica e a promuovere campagne di consapevolezza generale. Il furto di identità è una faccenda seria. Il cyberbullismo tra ragazzini è un problema reale e sia i genitori che gli insegnanti devono sapere come riconoscerlo e in che modo reagire. Proprio come a metà degli anni novanta, siamo ancora di fronte al problema della “massificazione”. L’immenso numero di utenti e l’intensità con cui la gente traffica su Internet è fenomenale. Forse ciò che è cambiato è che non sono più in molti a credere che la comunità di Internet possa risolvere da sola tali questioni. Internet è penetrata nella società a un livello tale da essere divenuta una sola e identica cosa con essa. In epoca di recessione globale, crescente nazionalismo, tensioni etniche e ossessioni collettive per la “questione islamica”, le culture del commento all’interno del Web 2.0 sembrano diventare una delle preoccupazioni maggiori per chi deve regolamentare i media e per la polizia. I blog, i forum e i siti di social network invitano gli utenti a depositare brevi messaggi. Sono soprattutto i giovani che reagiscono impulsivamente alle notizie, che spesso lanciano minacce di morte a politici e personaggi pubblici senza rendersi conto di che cosa stanno facendo. Il 32
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monitoraggio professionale dei commenti sta diventando una faccenda seria. Faccio solo due esempi relativi all’Olanda. Marokko.nl deve tenere d’occhio 50.000 post al giorno e il sito giornalistico di destra Telegraaf riceve ogni giorno 15.000 commenti alle notizie che seleziona. Blog populisti come Geen Stijl incoraggiano gli utenti a mandare giudizi estremistici – una tattica sperimentata al fine di attrarre l’attenzione. Mentre alcuni siti hanno politiche interne per rimuovere osservazioni razziste, minacce di morte e contenuti a rischio, altri incoraggiano i loro utenti a fare esattamente questo, sempre in nome della libertà di parola. Il software di uso comune permette agli utenti di lasciare brevi dichiarazioni, spesso senza che altri possano replicare. Il Web 2.0 non è stato programmato per facilitare i dibattiti. Il “terrore dell’informalità” che caratterizza i “giardini recintati” sul tipo di Facebook sta diventando sempre più un problema. Se il Web inizia a essere in tempo reale, c’è meno tempo per la riflessione, e più tecnologia che facilita il chiacchiericcio impulsivo. Questo sviluppo non mancherà di incoraggiare le autorità a interferire ulteriormente nelle conversazioni di massa online. Il design (delle interfacce) basterà a trovare soluzioni? I bots7 giocano un ruolo sempre più grande nella sorveglianza automatizzata dei grandi siti Internet. Ma i bots si limitano a lavorare sullo sfondo, e svolgono il loro compito silenzioso per conto dei poteri a venire. Come possono gli utenti riacquistare il controllo e navigare tra le complesse discussioni dei forum? Dovrebbero forse sguinzagliare i propri bots e sviluppare strumenti per riconquistare l’“autonomia informativa personale”, come tempo fa fu definita da David d’Heilly? 3. La nascita dei Web nazionali A causa dell’incremento nell’uso di Internet a livello mondiale, l’attenzione si è spostata dal suo potenziale globale verso gli 7. Gli Internet bots (abbreviazione di robots) sono programmi che eseguono semplici compiti ripetitivi con vari scopi, che vanno dal web crawling (seguono cioè i link ipertestuali delle pagine web, indicizzandole per il motore di ricerca) allo spamming, ai videogiochi (dove danno vita a personaggi controllati dal computer). [N.d.T.]
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scambi locali, regionali e nazionali. Attualmente solo il 25 per cento circa del contenuto è in inglese. La maggior parte delle conversazioni non avviene più in inglese. Molte delle nuove tecnologie sono geosensibili. Le persone si occupano in primo luogo e soprattutto di ciò che avviene nelle loro immediate vicinanze – il che non è affatto sbagliato. Lo si diceva già negli anni novanta, ma c’è voluto un po’ per metterlo in pratica. Sullo sfondo del “Web nazionale” c’è lo sviluppo di strumenti sempre più sofisticati per accertare gli indirizzi IP, assegnati a ogni paese. Queste tecnologie possono essere usate in due direzioni: per bloccare gli utenti esterni a un determinato paese, per vedere i programmi televisivi nazionali online e accedere alle biblioteche pubbliche, come avviene in Norvegia e in Australia (nel caso dei nuovi servizi online ABC), oppure per impedire ai propri cittadini di visitare siti stranieri (i cinesi residenti in madrepatria non possono visitare siti come YouTube, Facebook ecc.). La “democratizzazione” di Internet è avvenuta soltanto negli ultimi cinque-dieci anni e la campagna di Obama è stata una tappa significativa in questo processo. In tale contesto, rappresentazione e partecipazione sono concetti logori. Danno per scontato che le aziende e i politici abbiano un obiettivo e quindi invitino gli altri a contribuire alla sua realizzazione. In quest’epoca di immense corporation, grandi ONG e dipartimenti governativi, è troppo facile schierare le strategie del Web 2.0 come parte del proprio piano complessivo di comunicazione. Certo, la conoscenza-aperta-a-tutti non è ancora arrivata ovunque, per cui il consulente del Web 2.0 ha ancora un ruolo da giocare. Ma altrettanto certamente il Web 2.0 non è più un Geheimtipp. Si sa già molto sulla demografia di Internet, sui requisiti di usabilità e su quale applicazione vada usata in uno specifico contesto. Per esempio è preferibile non usare MySpace per rivolgersi ai cittadini di una certa età. Si sa anche che i giovani non usano volentieri Twitter. Semplicemente non fa per loro. Queste però sono tutte considerazioni che scendono dall’alto verso il basso. La questione diventa più interessante se si fanno domande intorno al “cittadino della rete 2.0”. Come incomincerà la gente a usare 34
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questi strumenti dal basso? Gli attivisti inizieranno a usare dei propri strumenti Web 2.0? Ricordiamo che i siti di social network non hanno avuto origine all’interno di un movimento sociale, ma sono nati come reazioni – successive all’era dotcom – alla sciocca ondata di e-commerce alla fine degli anni novanta, quando non si aveva idea di cosa gli utenti stessero cercando in Internet. Invece di considerare gli utenti soltanto come consumatori di merci e servizi, nel Web 2.0 la gente viene spinta a produrre quanti più dati possibili. I profili derivanti dal cosiddetto “contenuto generato dagli utenti” vengono resi astratti e poi venduti alle agenzie di pubblicità come dati dei consumatori per il marketing diretto. Gli utenti non fanno esperienza diretta della natura parassitaria del Web 2.0. Da una prospettiva politica, l’incremento dei Web nazionali è uno sviluppo ambivalente. In termini di design tutto gira intorno alla localizzazione di font, marchi e contesti. Se, da una parte, comunicare nella propria lingua, senza dover usare la tastiera a caratteri latini e i relativi nomi di dominio, può essere visto come una pratica liberatoria necessaria per facilitare l’accesso a quell’80 per cento della popolazione mondiale che ancora non usa Internet, dall’altra la nascita di nuove enclosures digitali rappresenta una minaccia diretta agli scambi liberi e aperti che Internet aveva facilitato. Si è dimostrato che Internet non è la causa né la soluzione per la recessione globale. In quanto spettatore indifferente non si presta facilmente a essere uno strumento rivoluzionario. È parte del Green New Deal – ma non funziona da locomotiva per questo genere di riforme. Sempre più, i regimi autoritari come l’Iran stanno facendo un uso tattico del Web allo scopo di schiacciare l’opposizione. Contro ogni previsione, il Grande firewall cinese si sta rivelando straordinariamente efficace nell’escludere i contenuti sgraditi e, al tempo stesso, nel monitorare la popolazione interna su una scala che non ha precedenti. Traduzione dall’inglese di Deborah Borca
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L’autorità su Internet: per una teoria povera MATHIEU O’NEIL
all’inizio del Duemila, con l’avvento dell’Internet partecipativa – cioè del cosiddetto Web 2.0 – il cyberspazio è diventato non soltanto uno spazio di comunicazione di massa, ma anche un luogo di produzione di beni comuni. I software liberi, le enciclopedie gratuite e i community blog fanno concorrenza alle produzioni commerciali. Questi prodotti sono il risultato di relazioni di lavoro basate non sulla gerarchia, ma sulla cooperazione di volontari non retribuiti, e per questo stesso motivo attribuiscono un ruolo essenziale all’autonomia dei partecipanti. Generalmente si pensa che lo scopo della “leadership” (o dominio legittimo) sia di risolvere le questioni legate all’azione collettiva, e in particolare di organizzare il coordinamento dei lavori. Come si manifesta questa autorità legittima in uno spazio non autoritario come l’Internet collaborativa? Il dominio è sparito, come qualcuno sostiene, o ha assunto forme nuove? Quali sono gli strumenti concettuali adeguati per descrivere questo fenomeno, che va dal software libero a Wikipedia? È buona norma oggi, per chi si ostina a descrivere il mondo a livello teorico, creare nuovi termini che, con la loro stessa esistenza, attestano che il fenomeno descritto è davvero originale. Il successo teorico si misura quindi in relazione al fatto che una terminologia venga ripresa da altri e si diffonda in modo virale, piuttosto che all’effettivo contenuto delle proposizioni. Il risultato è una ricchissima fioritura concettuale, all’interno della qua-
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le, se non stiamo attenti, rischiamo di smarrirci: per esempio, come definire il capitalismo contemporaneo? È “informazionale” (Manuel Castells)? O forse bisognerebbe qualificarlo come “vettoriale” (Wark Mackenzie), oppure “digitale” (Dan Schiller), o “comunicativo” (Jodi Dean)? A meno di non fare riferimento a termini più datati, come “spettacolare” (Guy Debord) o “post-industriale” (Daniel Bell). Personalmente ritengo che le vecchie scienze sociali rappresentino un vivaio linguistico sufficiente, di cui basta servirsi, a condizione di adattare o a volte di remixare un concetto. La maggior parte dei lettori informati si farà un’idea di quel che si cerca di esprimere, evitando così di scadere nello sgradevole spirito di parrocchia. Quindi la regola che mi do è semplice: per caratterizzare la “leadership” in Internet, nei casi in cui l’esistenza di novità appaia storicamente indubitabile, si ha diritto di creare un termine nuovo, in caso contrario tale diritto è negato. Le modalità di esercizio della produzione collaborativa a scopo non-commerciale (commons-based peer production) sono state definite da Yochai Benkler.1 Dal momento che questi progetti hanno troppi partecipanti perché ci possano essere retribuzioni monetarie, i compensi saranno affettivi o simbolici. Benkler insiste sulla necessaria modularità e granularità dei contributi: il primo termine si riferisce al fatto che i contributi devono essere facilmente articolabili tra loro; il secondo al fatto che la loro scala deve essere estremamente variabile, affinché gli investimenti in termini temporali dei partecipanti possano essere modulati. Un altro importante concetto nel mondo della peer production è la “partecipazione periferica legittima” (legitimate peripheral participation), ovvero l’idea che ai nuovi venuti venga offerta la possibilità di integrarsi progressivamente al progetto senza provocare reazioni di rigetto da parte dei primi aderenti.2
1. Y. Benkler, Coase’s Penguin, or, Linux and The Nature of the Firm, “Yale Law Review”, 3, 2002, pp. 369-446. 2. J. Lave, É. Wenger, L’apprendimento situato: dall’osservazione alla partecipazione attiva nei contesti sociali (1991), Erickson, Gardolo (Tn) 2006.
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Non appena viene il momento di evocare la questione dell’autorità in Internet, scatta immediatamente un luogo comune: avanti, circolare, non c’è niente da vedere! Sembrano tutti d’accordo nel dire che Internet rappresenta una “zona permanentemente autonoma”. Benkler la descrive come un’evoluzione dall’architettura radiale con “legami unidirezionali verso i punti lontani”, tipica dei mass media tradizionali, all’architettura “distribuita con legami multidirezionali tra tutti i nodi”, propria di Internet.3 Se tutti possono esprimersi e connettersi con ogni altro, nessuno può decidere ciò che un altro può fare o dire. Le comunità virtuali sono stereotipicamente presentate come meno inclini alla gerarchia e alla discriminazione, e più inclusive e democratiche rispetto alle comunità tradizionali, nelle quali l’uso di marcatori visivi di identità si risolve spesso in fenomeni di esclusione o di maltrattamento. Quando un gruppo di esperti di tecnologia e di marketing pubblicò un manifesto sulla maniera migliore di usare il potere di Internet per sviluppare il business, dichiarò che Internet sovvertiva il modo di considerare l’autorità centrale, che si trattasse della voce liscia e omogenea della pubblicità o della retorica melensa dei rapporti annuali aziendali.4 Il fondatore delle mailing list Nettime e Fibreculture e noto teorico di Internet Geert Lovink si mostra d’accordo nel dichiarare che “Internet ha sovvertito l’autorità – ogni forma di autorità”.5 Internet è dunque definita come ontologicamente opposta al dominio. E al di là di Internet, sembra che la stessa forma rete sia per definizione impermeabile a ogni tipo di potere legittimo. Gli esempi di questa qualità anarchica o eterarchica svariano da filosofi radicali come Gilles Deleuze e Félix Guattari (con la loro nozione di rizoma decentrato e democratico) agli economisti
3. Y. Benkler, La ricchezza della Rete (2006), Università Bocconi Editore, Milano 2007. 4. R. Levine, C. Locke, D. Searls e D. Weinberger, Cluetrain manifesto. La fine del business as usual (2000), Fazi, Roma 2001. 5. G. Lovink, The Principles of Notworking, discorso inaugurale, Hogeschool van Amsterdam, 2005, disponibile online all’indirizzo <http://www.hva.nl/lectoraten/documenten/ol09-050224-lovink.pdf>.
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più convenzionali, che sostengono che le reti non dispongono di un’autorità organizzativa legittima in grado di arbitrare e risolvere le dispute.6 Tra i sociologi, Manuel Castells sostiene analogamente che le reti comportano l’assenza di centro e quindi di autorità centrale.7 Per Luc Boltanski ed Éve Chiapello, le reti sono non-totalizzabili, cioè non regolate da un principio di equivalenza generale.8 Tuttavia, le misure coercitive sono necessarie nei progetti di collaborazione. Per esempio, gli sviluppatori di software libero devono svolgere compiti diversi, quali l’animazione (proporre, discutere, orientare il dibattito, riassumere), l’integrazione dei contributi (pubblicare, incaricare, riprendere), la valutazione (criticare le proposte) e infine la disciplina o l’amministrazione (conferire privilegi, esprimere un giudizio nelle controversie, sanzionare le infrazioni, escludere). Tutte queste pratiche si ritrovano, in misure diverse, nei progetti collaborativi di massa. Va notato, quindi, che non siamo più nell’ambito dell’accordo: quando una persona o un gruppo prende posizione e gli altri si schierano dalla sua parte o contro, vi è per forza un elemento di violenza legittima. Alcuni analizzano i fenomeni di dominio su Internet in termini di influenza, mutuando le proprie nozioni dall’analisi sociale delle reti (social networks analysis), per esempio prendendo in considerazione la posizione più o meno centrale di alcuni nodi, i quali raccolgono numerosi collegamenti da altri nodi.9 Molti ricercatori hanno invece cercato di risolvere il problema abolendo la differenza tra decisione e autoregolazione. Fin dagli anni novanta Peter Kollock e Marc Smith hanno esaminato la questione del coordinamento dell’azione nella prospettiva 6. J.E. Rauch, G.G. Hamilton, Networks and markets: Concepts for bridging disciplines, in J.E. Rauch, A. Casella (a cura di), Networks and Markets, Russell Sage Foundation, New York 2001, pp. 1-29. 7. M. Castells, L’età dell’informazione: economia, società, cultura, vol. II: Il potere delle identità (1997), Università Bocconi Editore, Milano 2002. 8. L. Boltanski, É. Chiapello, Le nouvel esprit du capitalisme, Gallimard, Paris 1999. 9. B. Wellman, An electronic group is virtually a social network, in S.B. Kiesler (a cura di), Culture of the Internet, Lawrence Erlbaum, Mahwah (N.J.) 1997, pp. 179-205.
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della collective action theory: quali sono i fattori che motivano gli individui a collaborare in Internet anche in mancanza di un profitto?10 Più recentemente altri ricercatori vicini al “management” hanno seguito questa strada, analizzando l’impatto della produzione collaborativa sull’innovazione o sulle modalità di governance, che sono caratterizzate dall’incertezza legata a ritardi, qualità dei contributi e abbandono dei ruoli – utenti e produttori, infatti, sono gli stessi.11 Infine Steven Weber, in un’opera in cui analizza alcune comunità di software libero nei termini di “economia politica”, consacra soltanto alcune pagine alla leadership, che presenta da quattro angolature diverse: il design tecnico (modularità dei componenti); i meccanismi di sanzione (come i flames); le licenze legali (che fungono da Costituzione); e le strutture di governance formali (come alcune procedure di voto).12 Come si vede, queste prospettive – analisi sociale delle reti, teoria dell’innovazione e studi di management, economia politica – funzionano molto bene finché restano esclusi gli interventi, le discussioni o le critiche di persone reali. Per dare conto della dimensione comunicativa e vissuta delle situazioni in cui il dominio si rimette in gioco, per esempio nel caso di conflitti, faccio riferimento alla nozione proposta da Luc Boltanski e Laurent Thévenot: di solito le persone si misurano tra loro mettendo a confronto diverse forme di giustificazione.13 Bisogna notare anche che il Web 2.0, contrariamente alla rete sociale degli inizi, ai forum di discussione Usenet e soprattutto ai primi mondi virtuali, i MUD (Multiple User Dungeons o Domain) e i MOO (Muds Object-Oriented), non è soltanto un luogo di comunicazione comunitaria in cui i partecipanti condividono storie ed esperienze, trovano un sostegno emotivo, o spe10. M. Smith, P. Kollock (a cura di), Communities in Cyberspace, Routledge, London 1999. 11. B. Demil, X. Lecoq, Neither Market Nor Hierarchy Nor Network: The Emergence of Bazaar Governance, “Organization Studies”, 10, 2006, pp. 1447-1466. 12. S. Weber, The Success of Open Source, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 2004. 13. L. Boltanski, L. Thévenot, De la justification, Gallimard, Paris 1991.
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rimentano le loro identità, ma un luogo di produzione, vale a dire di lavoro effettuato in un determinato lasso di tempo. Questo fatto ha un certo numero di conseguenze. Uno dei problemi frequentemente sollevati in merito alla socialità in rete durante gli anni novanta dipendeva dalla difficoltà di applicare leggi o norme a individui perennemente in transito. Oggi invece si constata che gli individui che partecipano ai progetti di collaborazione costruiscono la loro identità sulla durata, tramite pagine personali che registrano le loro realizzazioni, i loro post e link preferiti ecc. Stabilire un’identità stabile (per quanto sotto pseudonimo) è solo il primo dei tanti modi con cui i progetti collaborativi di massa come Wikipedia o i blog si ispirano ai loro precursori, i progetti di software libero. Alcuni studiosi hanno creduto di percepire nei processi decisionali in Internet un’incarnazione delle caratteristiche della comunicazione razionale teorizzata da Habermas, dove a vincere è “l’autorità dell’argomento migliore” – soprattutto nel caso delle delibere dell’Internet Engineering Task Force14 e anche più recentemente nel caso di Wikipedia.15 Questi autori mettono quindi l’accento sull’aspetto deliberativo dei procedimenti di discussione. Ma uno degli apporti più importanti del modello di Boltanski e Thévenot, a sua volta ispirato alla teoria dei regimi di giustizia di Michael Walzer,16 è che non esiste una sola dimensione giustificativa con valore normativo, ma una gamma di principi equivalenti. Analogamente, l’idea che esistano diversi regimi d’azione è stata proposta da Michèle Lamont17 e da Ann Swidler,18 la quale usa la metafora di una cassetta degli attrezzi contenente risorse. 14. M.A. Froomkin, Habermas@discourse.net: Towards a Critical Theory of Cyberspace, “Harvard Law Review”, 3, 2003, pp. 749-873. 15. H.S.N. Berente, K. Lyytinen, Wikipedia, Critical Social Theory and the Possibility of Rational Discourse, “The Information Society”, 1, 2009, pp. 38-59. 16. M. Walzer, Sfere di giustizia (1983), Feltrinelli, Milano 1987. 17. M. Lamont, Money, Morals, and Manners, University of Chicago Press, Chicago 1992. 18. A. Swidler, Talk of Love: How Culture Matters, University of Chicago Press, Chicago 2001.
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La risorsa in questione è quella che permette la legittimazione della scelta durante la disputa, ovvero la sua giustificazione. La necessità della legittimazione del potere si chiarisce se si pensa al caso dei bambini: la loro subordinazione è una condizione temporale; ci si aspetta che una volta adulti essi diventino pienamente autonomi. In altri termini, la subordinazione è vista, quasi per definizione, in maniera negativa: essa richiede una legittimazione.19 La caratteristica principale del dominio legittimo, nel Web 2.0, è di essere distribuito: questo significa che i partecipanti possono accedere molto rapidamente a funzioni di amministrazione dei progetti, e che esistono dunque molti capi, ognuno dei quali è investito di un potere giuridico e politico autonomo (mentre il legislativo è a priori l’ambito del fondatore). Nei progetti di collaborazione online, di conseguenza, ognuno può dire “lo stato sono io”. Istituzione e organizzazione si confondono in questa distribuzione, come nel rifiuto dell’expertise e dei poteri esterni. La peer production online costituisce un’astrazione delle relazioni sociali complesse, ed è mossa da una contestazione controculturale del mondo quotidiano, dell’ordine sociale in quanto dominato dal solo e unico criterio del compenso economico. Per cogliere le modulazioni del potere legittimo nei progetti collaborativi online, il pensiero sociologico ci offre un comodo supporto: i “tipi ideali” di dominio di Max Weber.20 Per Weber il mito della superiorità naturale dei capi è sostenuto da diversi tipi di autorità: l’autorità tradizionale, che si trasmette di padre in figlio, dal re al principe; il dominio razionale e legale, che si manifesta attraverso il rispetto delle regole burocratiche e la promozione meritocratica; infine il leader carismatico (il profeta o il rivoluzionario), che rifiuta tutte le regole e stabilisce con i suoi discepoli una relazione affettiva. Naturalmente Weber si guardò bene dall’affermare che questi tipi esistessero allo stato puro; esistono solo forme di combinazione tra questi modelli. 19. D. Beetham, The Legitimation of Power, Macmillan, London 1991. 20. M. Weber, Economia e società (1922), Edizioni di comunità, Milano 1968.
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Come caratterizzare le forme di autorità nelle comunità di peer production online? Queste comunità si costituiscono per opposizione alle condizioni di esistenza nelle società sviluppate, in cui mancano spazi aperti dove la gente possa discutere in maniera libera e critica allo scopo di scambiarsi opinioni e influire sulla politica.21 Nella misura in cui Internet si è sviluppata nello stesso momento in cui la crisi della legittimità colpiva le società occidentali, numerosi commentatori hanno collegato questi due fenomeni in una visione ottimistica.22 Non è affatto chiaro se Internet permetta di rimediare al “deficit democratico”, ma è vero in ogni caso che questo deficit motiva una delle forme di legittimità online: chiameremo autorità sovrana quella risorsa che è un condensato di elementi democratici (democrazia diretta, procedure deliberative) e burocratici. L’uso del termine “burocrazia” può apparire problematico. Ricorda le dichiarazioni dei membri dell’Internet Engineering Task Force: lo IETF assomigliava a un “happening”, senza manager (suits) o autorità.23 Allo stesso modo oggi Wikipedia afferma molto nettamente che “non è una burocrazia”.24 Eppure questi progetti – software liberi ed enciclopedie gratuite – poggiano su elementi tipicamente burocratici, come la conservazione degli archivi di tutte le delibere e le decisioni, l’esistenza di regole e la separazione di ruoli e persone (poco importa chi sia il programmatore che si presenta all’elezione di project manager del free software Debian, che si tiene ogni anno; non importa chi sia il redattore di Wikipedia che accede al rango di amministratore, di assistente, di burocrate ed esercita così un grado crescente di autorità sugli altri partecipanti). 21. S. Coleman, E-Democracy: The history and future of an idea, in R. Mansell, C. Avgerou, D. Quah e R. Silverstone (a cura di), Oxford Handbook of Information and Communication Technologies, Oxford University Press, Oxford 2007, p. 370. 22. P. Dahlgren, Civic identity and Net activism, in L. Dahlberg, E. Siapera (a cura di), Radical Democracy and the Internet: Interrogating Theory and Practice, Palgrave, New York 2007, pp. 55-72. 23. P. Hoffman, S. Harris, The Tao of the IETF: A Novice’s Guide to the Internet Engineering Task Force, RFC 4677, 30 novembre 2009. 24. Wikipedia, What Wikipedia Is Not, 2009.
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La sociologia delle organizzazioni non è molto interessata a questo tipo di raggruppamenti, ma alcune analisi esistono comunque: negli anni sessanta si parlava di volunteer associations25 e negli anni settanta, con il rinnovato interesse per le comuni, di organizzazioni collettivistiche.26 Nel quadro dei progetti online, Debian, in quanto dotato di una costituzione e per il fatto che elegge annualmente un project manager, è stato oggetto di studi sull’impatto delle reti personali nell’accesso ai posti importanti27 o delle procedure di pacificazione nelle tensioni generate dalla distribuzione dell’autorità.28 Per quanto pertinenti, queste analisi non bastano a rendere conto delle risorse giustificative messe in gioco dagli attori dei progetti collaborativi online. David Beetham suggerisce che le forme democratiche e meritocratiche di legittimazione sono le più giuste in assoluto.29 Questi tipi corrispondono a una giustizia collettiva (esigenza di democrazia) e individuale (esigenza di merito), due dimensioni fondamentali dell’organizzazione del pensiero e della classificazione degli esseri che potrebbero anche costituire delle “costanti antropologiche”.30 In realtà, nei progetti collaborativi online, la giustificazione collettiva e sovrana si contrappone a una giustificazione individuale e carismatica. Fin dalla formalizzazione operata da Weber, la nozione di dominio carismatico è stata usata in tutte le salse; in seguito ha incontrato un particolare successo nella letteratura sul management, che cerca di spiegare in particolare come un capo possa 25. P.M. Harrison, Weber’s Categories of Authority and Voluntary Associations, “American Sociological Review”, 2, 1960, p. 236. 26. J. Rothschild-Whitt, The Collectivist Organisation: An Alternative to Rational-Bureaucratic Models, “American Sociological Review”, 4, 1979, p. 509. 27. S. O’Mahony, F. Ferraro, The Emergence of Governance in an Open Source Community, “Academy of Management Journal”, 5, 2007, pp. 1079-1106. 28. N. Auray, Le sens du juste dans un noyau d’experts: Debian et le puritanisme civique, in B. Conein, F. Massit-Folléa e S. Proulx (a cura di), Internet, une utopie limitée. Nouvelles régulations, nouvelles solidarités, Presses de l’Université Laval, Laval-Quebec 2005. 29. D. Beetham, The Legitimation of Power, cit. 30. M. Douglas, S. Ney, Missing Persons: A Critique of Personhood in the Social Sciences, University of California Press, Berkeley 1998.
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condurre il suo gregge comunicandogli un certo entusiasmo.31 Uno studioso dei movimenti sociali ha scoperto un’energia carismatica in alcuni leader rivoluzionari,32 mentre un altro percepisce un’“energia carismatica” in alcuni simboli del movimento no-global – per esempio nelle tuniche delle Tute Bianche e negli abiti neri dei Black Blocks, che investono di una particolare risonanza lo spazio e le relazioni sociali, invece degli individui.33 Per quanto interessanti siano, queste analisi tralasciano un elemento decisivo del dominio carismatico: la connessione con una trascendenza. Alle brillanti competenze esoteriche, coloro che “dirigeranno” lo IETF dovranno aggiungere eccezionali qualità umane. Un’agiografia degli hacker spiega che si tratta di individui fuori dal comune: “Erano persone così affascinanti [...] sotto il loro aspetto spesso banale si celavano avventurieri, visionari, temerari, artisti, tutti ben consapevoli che i computer fossero strumenti rivoluzionari”.34 Potrebbe sembrare paradossale, e persino contraddittorio, mescolare carisma e meritocrazia. In Weber, infatti, la promozione per merito è proprio ciò che distingue i regimi legali dai sistemi patrimoniali o carismatici.35 Ma nell’universo hacker, e per estensione nei progetti collaborativi di massa, se lavorare al progetto costituisce effettivamente la base del riconoscimento, questo riconoscimento è “pagato” soprattutto in termini di affetto, attraverso il rispetto accordato dagli altri partecipanti, e non nella forma ufficiale di una promozione, di un complimento o di un premio salariale conferiti da una gerarchia. Questa de-burocratizzazione o carismatizzazione del merito presuppone che gli in31. J.A. Conger, R.N. Kanungo, Charismatic Leadership in Organisations, Sage, Thousand Oaks (Cal.) 1998. 32. J.V. Downton, Rebel Leadership: Committment and Charisma in the Revolutionary Process, Free Press, New York 1974. 33. S. Shukaitis, Space. Imagination // Rupture: The Cognitive Architecture of Utopian Political Thought in the Global Justice Movement, “University of Sussex Journal of Contemporary History”, 8, 2005. 34. S. Levy, Hackers. Gli eroi della rivoluzione informatica (1984), Shake, Milano 1994. 35. M. Weber, Economia e società, cit.
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dividui diano prova delle loro competenze, in una sorta di performance pubblica dell’eccellenza, che era (in un primo tempo) impenetrabile per i comuni mortali: infatti, come giustamente faceva notare Manuel Castells, “soltanto degli hacker possono giudicare altri hacker”.36 Ma non è solo la presenza di un riconoscimento affettivo a indicare che abbiamo a che fare con una giustificazione carismatica. Questa giustificazione, infatti, deriva in origine da una fonte quasi magica: il suo fondatore. Cosa sarebbe GNU senza Richard Stallman, Linux senza Linus Torvalds, il community blog Daily Kos senza Markos Moulitsas, Wikipedia senza Jimbo Wales? In generale, l’autorità scientifica degli esperti è distinta dall’autorità amministrativa dei capi – tuttavia, quando i computer iniziarono a essere messi in rete, soltanto gli hacker sapevano come amministrare i sistemi: furono quindi investiti del potere di controllare le condizioni di accesso e i privilegi degli utenti. Si osservò uno slittamento da questa capacità tecnica verso una forma di potere sociale con i primi mondi virtuali, i MUD e i MOO, che erano puramente testuali e in cui tutto il potere era nelle mani degli amministratori, chiamati appunto “maghi” (wizards). Hakkon, wizard di LambdaMOO, racconta che spesso veniva trattato con un rispetto esagerato: “Spesso mi chiamano ‘signore’ e si scusano di farmi ‘perdere’ tempo [...] sono percepito in generale come una persona mitica, un mago misterioso dentro la sua torre”.37 Questa credenza era in fondo giustificata, visto che i wizards potevano infliggere castighi quasi medievali a coloro che non rispettavano le regole, modificando il loro aspetto (toading) o sopprimendoli del tutto (recycling).38 Analogamente, in alcuni dei maggiori progetti collaborativi di massa del Web 2.0, le risorse di cui dispongono i “cybercapi”
36. M. Castells, Galassia Internet (2001), Feltrinelli, Milano 2002. 37. P. Curtis, Mudding: social phenomena in text-based virtual realities, in AA.VV., Proceedings of the Conference on Directions and Implications of Advanced Computing, Berkeley (Cal.), 5-7 maggio 1992. 38. E.S. Reid, Hierarchy and power: social control in cyberspace, in M. Smith, P. Kollock (a cura di), Communities in Cyberspace, Routledge, London 1999.
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sono paragonabili a quelle di un “dittatore benevolo”. Per esempio, Jimbo Wales, fondatore di Wikipedia, può benissimo intervenire nei conflitti in maniera non democratica (ancorché legittima). Su Daily Kos, l’autorità del fondatore è assoluta: basta che Markos Moulitsas si manifesti in un conflitto sorto tra i commenti a un articolo perché i protagonisti cessino immediatamente le ostilità. Nei primi progetti collaborativi di software libero l’autorità del fondatore (e dei luogotenenti di cui deve necessariamente circondarsi quando il progetto si sviluppa) era attenuata dalla possibilità del fork, vale a dire della pratica per cui alcuni partecipanti abbandonavano il progetto per crearne un altro, sottraendogli forze ed energie. Questa soluzione non è più possibile con i progetti del Web 2.0, che dipendono dalla presenza di una folla di partecipanti: anche se dal punto di vista tecnico è sempre possibile creare nuovi siti, risulta impossibile ai nuovi arrivati attirare un simile numero di persone e fare quindi concorrenza (per esempio) a Wikipedia o a Daily Kos. Il rispetto accordato a un individuo carismatico non deriva soltanto dai suoi atti di creazione. L’energia carismatica ha una seconda dimensione in Internet: proviene dalla posizione su una rete e si applica non solo alle persone ma anche agli esseri non viventi, come i siti Web. Chiameremo “indice di carisma” questa nuova forma di autorità perché la sua più chiara espressione è la classificazione nell’indice di un motore di ricerca.39 Dipende da scelte autonome di numerose persone: nel caso di Google, per esempio, a determinare la posizione di un sito sono i link attivati da altri siti e i clic dei navigatori. Si tratta quindi di operazioni esterne all’individuo, in cui la trascendenza è mediatizzata da un’operazione o da una macchina, il che le conferisce una dimensione misteriosa (l’algoritmo di Google è segreto) e quasi magica. Coloro che sono eletti da questa “saggezza della folla” (il fatto che essa sia manipolata non cambia la questione) sono 39. R. Ackland, M. O’Neil, Online Collective Identity: The Case of the Environmental Movement, Australian National University, ADSRI Working Paper 4, 2008.
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investiti dal potere esorbitante di far esistere la realtà, dal momento che esistere su Internet “significa essere indicizzati su un motore di ricerca”.40 Una spiegazione elegante dell’esistenza di questo tipo di autorità (che è possibile assimilare alla posizione dominante dei nodi centrali su una rete, per cui tutti gli altri nodi vogliono stabilire delle connessioni verso di essi) è stata proposta dal ricercatore di fisica Albert-László Barabási, che ha suggerito la nozione di “collegamento preferenziale” (preferential attachment)41 per spiegare perché una piccolissima minoranza di nodi acquisisce la maggioranza dei collegamenti, mentre la maggioranza dei nodi ne acquisisce una proporzione del tutto esigua (questo tipo di distribuzione dei link costituisce una rete che segue leggi di potenza, o “rete fuori scala” – scale free network – perché non esiste una misura comune tra le qualità dei nodi). Per Barabási i nuovi partecipanti compiono sistematicamente la scelta di connettersi ai primi arrivati, facendo in modo che i primi accumulino sempre più connessioni, mentre i nuovi partecipanti non potranno mai raggiungerli: chi è ricco di collegamenti si arricchisce, chi è povero di collegamenti si impoverisce e lo scarto aumenta progressivamente, via via che nuovi nodi entrano nella rete. Secondo Barabási, alcuni ricercatori hanno individuato distribuzioni governate da leggi di potenza in tutta Internet, e nella blogosfera in particolare, dove una microscopica minoranza di siti concentra su di sé la maggioranza dei link (assieme all’influenza che a ciò si accompagna, perché si ritiene che i siti più linkati attirino più visitatori) e una schiacciante maggioranza si divide le briciole. Il solo mezzo che ha un nuovo blog di esistere, allora, è attirare l’attenzione di un blog già affermato (per esempio comunicandogli un’informazione originale) e sperare di ricevere un link in cambio. L’autorità carismatica nei progetti collaborativi su Internet si caratterizza allora 40. L.D. Introna, H. Nissenbaum, Shaping the Web: Why the Politics of Search Engines Matter, “The Information Society”, 3, 2000, pp. 169-185. 41. A.-L. Barabási, Linked. La scienza delle reti (2002), Einaudi, Torino 2004.
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per l’assenza di una misura comune, per la dismisura, per cui l’autorità viene monopolizzata da un sito o da un individuo che prevale sugli altri. La blogosfera è per eccellenza il dominio dell’indice di carisma: i “grandi” nodi sono quelli che ricevono informazioni rare dai più piccoli, le valorizzano e funzionano da cinghie di trasmissione tra la blogosfera e i media tradizionali. Per contro, l’autorità dell’indice di carisma è fonte di tensione nei progetti che si ritengono fondati unicamente sul merito hacker-carismatico e sulla decisione democratica, come i progetti di software libero. Un buon esempio di ciò è costituito dal progetto Debian: la necessità di esercitare un maggiore controllo sulla qualità dei nuovi partecipanti, insieme alla pratica di certificare l’identità dei partecipanti assegnandogli una chiave digitale (key signing) che gli permetta in seguito di autentificare le loro comunicazioni e soprattutto i loro contributi al progetto, ha condotto all’accumulazione delle connessioni e del relativo indice di carisma da parte di alcuni programmatori, in contraddizione formale con i principi del progetto.42 Alcuni autori hanno creduto di scoprire, nei meccanismi analoghi al “collegamento preferenziale”, la prova che le diseguaglianze nella capacità di concentrare le risorse insieme simboliche e pratiche che costituiscono i link ipertestuali derivano da fattori in qualche modo socialmente neutri, in quanto dipendono esclusivamente dalla dinamica degli effetti di rete, che ignorano in toto gli attributi dei nodi.43 Tuttavia, l’esame dell’identità dei grandi nodi della blogosfera nordamericana rileva che le persone in questione sono non soltanto bianche, di sesso maschile e appartenenti alla classe media o superiore, ma in gran parte hanno titoli universitari di un livello molto più elevato rispetto a quegli stessi giornalisti mainstream di cui si sostiene 42. S. O’Mahony, F. Ferraro, The Emergence of Governance in an Open Source Community, cit. 43. C. Shirky, Power laws, weblogs, and inequality, in J. Dean, J.W. Anderson e G. Lovink (a cura di), Reformatting Politics: Information Technology and Global Civil Society, Routledge, New York-London 2006.
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che abbiano rimesso in questione il potere.44 Parlare di preferential attachment in questo ambito equivale quindi a corredare di qualità naturali un fenomeno di dominio sociale storicamente costituito, e cioè a compiere un lavoro ideologico per eccellenza. Si è poi indotti a constatare che l’autorità legittima nei progetti collaborativi su Internet poggia su presupposti fortemente sessuati. Questi presupposti si riferiscono alle forme della comunicazione stessa, all’organizzazione delle aree, alla definizione delle pratiche che vengono considerate “abiette”. La diminuzione delle sanzioni sociali dovuta all’assenza di sguardi, caratteristica dell’epoca di Usenet, ha favorito la bellicosità degli scambi, di qui la necessità di avere l’ultima parola e di non perdere la faccia. Il modo di formulare le critiche nella tradizione hacker e per estensione in Wikipedia ammette che le opinioni si possano esprimere in maniera molto netta, fino a quando non riguardano le “caratteristiche personali” di chi interviene. Per esempio si è liberi di usare termini ingiuriosi per sanzionare coloro che contravvengono allo spirito hacker. Ai “neofiti” (newbies) che pongono questioni già discusse verrà consigliato, per esempio, di “RTFM!” (Read The Fucking Manual). Il senso dell’onore, fondamento del dominio maschile, si esprime in condotte agonistiche in cui gli scontri (flamewars) possono durare a lungo. Susan Herring ha mostrato molto bene come i discorsi fossero sessuati, con una netta opposizione tra discorsi dimostrativi e aggressivi da una parte, e discorsi concilianti e rispettosi dell’altra.45 Ogni tentativo di mettere in discussione questi schemi archetipici è immediatamente squalificato come un’intollerabile censura della “libertà di espressione”. 44. M. Hindman, “Open-source politics” reconsidered, in V. Mayer-Schoenberger, D. Lazer (a cura di), Governance and Information Technology: From Electronic Government to Information Government, MIT Press, Cambridge (Mass.) 2007, pp. 183-207. 45. S.C. Herring, Two variants of an electronic message schema, in Id. (a cura di), Computer-Mediated Communication: Linguistic, Social and Cross-Cultural Perspectives, John Benjamins, Amsterdam 1996, p. 104; cfr. anche S.C. Herring, Gender and power in online communication, in J. Holmes, M. Meyerhoff (a cura di), The Handbook of Language and Gender, Blackwell, Oxford 2003, pp. 202-228.
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D’altra parte è sorprendente constatare fino a che punto la blogosfera fosse strutturata da un’opposizione sessuata, prima dell’ascesa delle “reti sociali” come Facebook e delle relative rappresentazioni pubbliche dell’intimità e della popolarità mediatizzata attraverso varie applicazioni: da una parte c’erano i weblogs, che trattavano argomenti seri come la tecnologia, le relazioni internazionali, la politica, in altri termini l’esteriorità e l’agorà; dall’altra, indegni del nome di weblogs, c’erano i journals, consacrati agli argomenti frivoli ed effimeri, come la vita quotidiana, gli umori, i sentimenti, il fatto di conferire o meno lo statuto di “amico” a una persona fastidiosa o invadente. In termini di definizione dei limiti, del non umano, dell’abiezione, quindi, non è sorprendente che i termini per designare pratiche infamanti come, sul weblog hacker Slashdot, il fatto di pubblicare un’informazione con lo scopo di generare commenti elogiativi e, nella blogosfera in generale, il fatto di cercare di attirare link da siti prestigiosi (cioè condotte che contravvengono all’ideale di nobile disinteresse della produzione autonoma cooperativa) siano rispettivamente karma whore e linkslutting. A essere qui stigmatizzata è proprio l’abiezione fatta donna, la prostituta. Mentre l’oggetto del desiderio assoluto è l’adolescente, la “teenage girl”, tecnicamente incolta e quindi “superficiale”. Rappresentazioni così estreme possono emergere soltanto in un ambiente fortemente sbilanciato sul piano sessuale. Il sito più popolare tra i journals, LiveJournal, era composto per il 75 per cento da donne. Secondo un sondaggio della United Nations University, soltanto il 31 per cento dei lettori di Wikipedia sono donne; e per quanto riguarda i redattori dell’enciclopedia partecipativa, la proporzione di donne è del 13 per cento. La principale priorità di ogni teoria che pretenda di spiegare il dominio su Internet deve essere, di conseguenza, quella di rendere conto di questa dimensione. Anche qui gli strumenti concettuali non mancano. Non c’è nessun bisogno di eccedere nei nuovi mezzi o nelle costruzioni audaci: un approccio teorico parco e frugale, oltre che attento al riciclaggio, sarà più che sufficiente. Traduzione dal francese di Deborah Borca
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Perché serve un Internet Bill of Rights STEFANO RODOTÀ
1. Internet, il più grande spazio pubblico che l’umanità abbia conosciuto, la rete che avvolge l’intero pianeta, non ha sovrano. Nel 1996, John Perry Barlow apriva così la sua Dichiarazione d’indipendenza del cyberspazio: “Governi del mondo industriale, stanchi giganti di carne e di sangue, io vengo dal Cyberspazio, la nuova dimora della mente. In nome del futuro, invito voi, che venite dal passato, a lasciarci in pace. Non siete benvenuti tra noi. Non avete sovranità sui luoghi dove ci incontriamo”. Questa affermazione orgogliosa riflette il sentire di un mondo, di una sterminata platea in continua crescita fino agli attuali due miliardi di persone, che si identifica con una invincibile natura di Internet, libertaria fino all’anarchia, coerente con il progetto di dar vita a una rete di comunicazione che nessuno potesse bloccare o controllare. Ma è pure un’affermazione che ha dovuto subire le dure repliche da una storia in continua accelerazione, da una cronaca che consuma. Più Internet cresceva, e così acquistava una rilevanza sociale e politica sempre maggiore, più si è fatta aggressiva la pretesa degli stati di far valere le loro antiche prerogative, di continuare a considerare la rete come l’oggetto del desiderio delle sovranità esistenti. Ma nel mondo sconfinato questa pretesa è indebolita dalla “fine del territorio giacobino”, circondato da sicuri confini, governato da un unico centro. Sicché gli stati nazionali cercano di far valere il potere, tutt’altro che residuale, di 52
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cui ancora dispongono, ma non possono stabilire una sovranità sul cyberspazio. Questa distinzione tra una sovranità improponibile e un potere invadente mette in discussione una delle conseguenze che si ritenevano implicite nella negazione della sovranità – quella che potrebbe essere sintetizzata nell’affermazione dell’impossibilità, inutilità, illegittimità di qualsiasi regolazione di Internet. Un’impostazione, questa, che non conduce soltanto a un’assoluta autoreferenzialità della rete, anzi alla conclusione, implicita ma evidente, che la rete non ha bisogno di stabilire relazioni perché essa comprende già tutte le relazioni possibili. Porta con sé un’impostazione, più che ideologica, mitologica, richiama appunto la lancia di Achille e quella di Parsifal (tecnologie, dunque...), armi capaci di offendere e guarire, depositarie della virtù di rimarginare le ferite che esse stesse potevano aver inferto. Ma è proprio questa mitologia a essere smentita da una realtà nella quale non solo Internet è variamente oggetto di regolazione, ma soprattutto conosce violazioni continue di quello statuto di libertà che si riteneva poter essere affidato alla propria, esclusiva virtù salvifica. Benvenuti o no che siano, gli stati impongono la loro presenza, esercitano i loro poteri come testimonia da ultimo il conflitto tra Google e la Repubblica della Cina, che ha determinato un intervento ufficiale dell’amministrazione americana che, al di là delle specifiche e importanti affermazioni di Hillary Clinton, ha reso evidente come il vero terreno del conflitto sia quello di trovare le forme adeguate per garantire i diritti in rete. Questa vicenda, peraltro, mostra non solo che gli “stanchi giganti di carne e di sangue” sono ancora lì e tendono a “legificare” il mondo di Internet dove più forti sono gli interessi tradizionali (esemplari il caso Hadopi in Francia e il controverso Digital Economic Bill inglese), ma che nuovi e vitalissimi giganti di silicio, i grandi soggetti economici che si identificano con la rete, esercitano estesi e incontrollati poteri di governo, si coalizzano per chiedere regole alla loro misura, mettendo per esempio in discussione le garanzie attualmente previste per la privacy delle 53
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persone. Al tempo stesso, però, comincia a delinearsi il quadro “costituzionale” che dovrebbe consentire una nuova “narrazione” dei diritti nel tempo di Internet, partendo da questioni chiave come quelle dell’accesso come diritto fondamentale e della neutralità della rete. Si riflette sul senso e sui limiti dell’autoregolamentazione, sul significato che qui assume il ricorso al soft law, in una dimensione nella quale l’autoreferenzialità cede ormai alla consapevolezza istituzionale. La dimensione è quella planetaria, dove diritti senza terra vagano alla ricerca di un costituzionalismo globale che dia loro ancoraggio e garanzia. Diversi modelli sono di fronte a noi. Muovendo da vicende concrete, di cui la più nota è stata la “delazione” di Yahoo! che ha consentito al governo cinese di arrestare e condannare un giornalista, colpevole di aver inviato via Internet una notizia negli Stati Uniti, i giornalisti americani hanno chiesto la universalizzazione del Free Speech, sul modello del Primo emendamento del loro Bill of Rights, proprio per evitare situazioni come quella che ha portato all’arresto di Shi Tao; e alcuni membri democratici e repubblicani della Camera hanno presentato una proposta di legge chiamata Global Online Freedom Act, che prevede, tra l’altro, l’obbligo per le società operanti su Internet di portare a conoscenza di una speciale commissione presso il Dipartimento di stato tutti i casi in cui hanno filtrato o eliminato contenuti su richiesta di un paese straniero. Siamo di fronte a tentativi di ampliare l’area dei diritti fondamentali e di accompagnare gli sviluppi di Internet con istituzioni adeguate, costruite tuttavia con modalità irriducibili alle procedure e agli schemi abituali. Le novità più rilevanti, infatti, si ritrovano in iniziative che riflettono più direttamente le trasformazioni della società. Vi è un forte attivismo del mondo economico, che vede la sua legittimazione incrinata, non solo sul piano dell’immagine, ma della sua stessa capacità di influire sulle dinamiche mondiali quando si fa troppo evidente il contrasto tra la loro azione e il rispetto di diritti fondamentali. Così Google ha proposto di istituire presso l’Onu un Global Privacy Counsel; le grandi impre54
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se del settore si erano associate in una Global Network Initiative per promuovere appunto una tutela dei diritti in rete; ancora Google presenta il progetto Data Liberation Front per rafforzare le garanzie in rete della privacy. Ma non è possibile lasciare questa tutela soltanto all’iniziativa di soggetti privati, che tendenzialmente offriranno solo le garanzie compatibili con i loro interessi e che, in assenza di altre iniziative, appariranno come le uniche “istituzioni” capaci di intervenire. Non si può accettare una privatizzazione del governo di Internet ed è indispensabile far sì che una pluralità di attori, ai livelli più diversi, possa dialogare e mettere a punto regole comuni. Di nuovo la vicenda Google-Cina, quali che possano essere state le motivazioni che hanno spinto la società americana, è istruttiva, rivelatrice delle variegate strategie politiche e istituzionali che stanno emergendo, al di là del caso specifico. Di colpo, sulla scena del mondo, i diritti fondamentali, sempre sacrificati agli imperativi della geopolitica e delle relazioni economiche, si presentano come un riferimento che non può essere spazzato via dal prevalere del realismo politico o dalle spocchiose dichiarazioni dei tecnologi. E tutto questo avviene non solo per un sussulto di consapevolezza del significato profondo dei diritti, ma per ragioni legate proprio alla specificità di Internet. Hillary Clinton era ben consapevole di che cosa significhi oggi incontrare il popolo della rete, disteso sull’intero pianeta, diffuso al di là di ogni confine. A questa opinione pubblica mondiale, gelosa delle opportunità che la tecnologia continuamente le offre, ha presentato gli Stati Uniti come il campione di una libertà non più soltanto “americana” o “occidentale” (e per ciò sempre accompagnata dal sospetto di una pretesa egemonica di una cultura sulle altre), ma che è percepita come universale per il solo fatto che così la vivono ormai due miliardi di persone. Nel tempo della (presunta) fine delle ideologie e del tramonto di ogni grande “narrazione”, proprio i diritti fondamentali si palesano come una narrazione capace di unificare, di rivelare la radice comune della protesta degli studenti iraniani, del rifiuto della censura degli utenti cinesi di Internet, della lotta delle donne afri55
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cane contro sopraffazioni che si manifestano nell’imposizione di mutilazioni sessuali o nel divieto di indossare alcuni indumenti. Ma, con il suo intervento, Hillary Clinton ha messo a nudo anche i reali rapporti di potere che innervano il mondo di oggi. Google non è soltanto una delle strapotenti società multinazionali. È un potere a sé, superiore a quello di un’infinità di stati nazionali, con i quali negozia appunto da potenza a potenza. È interlocutore quotidiano di centinaia di milioni di persone alle quali offre la possibilità di entrare e muoversi nell’universo digitale. Governa corpi, conoscenza, relazioni sociali. Per ciò ha bisogno di una legittimazione forte, sostanzialmente politica, che ha cercato e ottenuto proprio con il colpo di teatro del conflitto con la Cina, che la presenta al mondo come il campione dei diritti civili nei territori ai quali appartiene il futuro. Ma questa legittimazione forte non può essere lasciata a un soggetto economico, non può essere “privatizzata”. Ecco, allora, che la parola del segretario di stato americano suona anche come la rivendicazione pubblica di un ruolo che la politica non può dismettere, non può dare in appalto ad altre potenze. Nella natura di Google, infatti, non vi è soltanto l’elemento libertario. Google è anche componente essenziale di quello che è stato giustamente definito “Big Data”, con un palese richiamo a quel “Big Pharma” con il quale si è voluto descrivere lo strapotere delle società farmaceutiche. Possono questi poteri rimanere del tutto fuori da ogni controllo? 2. Diverse risposte cominciano ad affacciarsi. Sono i governi nazionali che insidiano Internet e la sua libertà, e dunque è venuto il tempo non di regole costrittive, ma dell’opposto, di garanzie costituzionali per le libertà in rete, di un Internet Bill of Rights. Hillary Clinton ha annunciato un’iniziativa all’Onu proprio sulla libertà in Internet. Questa libertà, tuttavia, non vale solo contro l’invadenza degli stati, ma si proietta anche verso i nuovi “signori dell’informazione” che, attraverso le gigantesche raccolte di dati, governano le nostre vite. Di fronte a tutto questo la parola “privacy” evoca non solo un bisogno di intimità, ma sinte56
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tizza le libertà che ci appartengono nel mondo nuovo dove ormai viviamo. E Google ci racconta proprio questa compresenza di opportunità per la libertà e la democrazia e di potere sovrano esercitato senza controllo sulle vite di tutti. Non un Giano bifronte, ma un intreccio che può essere sciolto solo da un’iniziativa “costituzionale” anch’essa nuova, che trovi proprio nella rete le sue modalità di costruzione. L’alternativa, allora, non può essere cercata nelle direzioni tradizionali. Già la stesura della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea era stata affidata a una procedura che abbandonava il metodo intergovernativo, sostituito da una convenzione rappresentativa del Parlamento e della Commissione europea, dei parlamenti e dei governi nazionali, che lavorava in piena trasparenza e dunque risultava in qualche modo continuamente controllabile. Ma nel momento in cui si entra in una dimensione completamente diversa, come quella di Internet, anche queste aperture si rivelano del tutto insufficienti. Nascono così altre iniziative che, appunto, vedono una partecipazione di una molteplicità di soggetti, si svolgono a livelli diversi, conoscono una bassa formalizzazione che tuttavia non porta inevitabilmente con sé una minore efficacia. È indispensabile far sì che una pluralità di attori, ai livelli più diversi, possa dialogare e mettere a punto regole comuni, secondo un modello definito appunto multistakeholder e multilevel. Soggetti diversi, a livelli diversi, con strumenti diversi negoziano e si legano con impegni reciproci per istituire strumenti e autorità per individuare e rendere effettivo un patrimonio comune di diritti. Un esempio significativo può essere ritrovato nella vicenda dell’Internet Bill of Rights, una proposta maturata all’interno delle iniziative dell’Onu sulla società dell’informazione e che si è venuta consolidando attraverso il lavoro di diversi gruppi, dynamic coalitions spontanee e informali che hanno poi trovato forme di unificazione e metodi comuni. Ma l’Internet Bill of Rights non è concepito da chi lo ha immaginato e lo promuove come una trasposizione nella sfera di Internet delle tradizionali logiche delle convenzioni internazionali e degli stessi percorsi di 57
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costituzionalizzazione finora conosciuti. La scelta dell’antica formula del Bill of Rights ha forza simbolica, mette in evidenza che non si vuole limitare la libertà in rete ma, al contrario, mantenere le condizioni perché possa continuare a fiorire. Per questo servono garanzie “costituzionali”. Tuttavia, conformemente alla natura di Internet, il riconoscimento di principi e diritti non può essere calato dall’alto. Deve essere il risultato di un processo, di una partecipazione larga di una molteplicità di soggetti che possono intervenire in modo attivo, grazie soprattutto a una tecnologia che mette tutti e ciascuno in grado di formulare progetti, di metterli a confronto, di modificarli, in definitiva di sottoporli a un controllo e a una elaborazione comuni, di trasferire nel settore della regolazione giuridica forme e procedure tipiche del “metodo wiki”, dunque con progressive modifiche e messe a punto dei testi proposti. Siamo così oltre un altro schema tradizionale, che contrappone percorsi bottom-up a quelli top-down. Nel corso di questo processo si potrà approdare a risultati parziali, all’integrazione tra codici di autoregolamentazione e altre forme di disciplina, a normative comuni per singole aree del mondo, come di nuovo dimostra l’Unione europea, la regione del pianeta dove più intensa è la tutela dei diritti. Le obiezioni tradizionali – chi è il legislatore? quale giudice renderà applicabili i diritti proclamati? – appartengono al passato, non si rendono conto che “la valanga dei diritti umani sta travolgendo le ultime trincee della sovranità statale”, come ha scritto Antonio Cassese commentando il voto dell’Onu sulla moratoria riguardante la pena di morte. Un’affermazione così netta può essere considerata eccessivamente ottimistica, ma coglie il senso e la forza delle cose, un movimento che deve sempre essere tenuto presente quando si elaborano strategie di politica dei diritti. Nel momento stesso in cui il cammino dell’Internet Bill of Rights diverrà più spedito, già vi sarà stato un cambiamento. Comincerà a essere visibile un diverso modello culturale, nato proprio dalla consapevolezza che Internet è un mondo senza confini. Un modello che potrà favorire la circolazione delle idee e potrà subito costituire un riferimento per quella folla di giudi58
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ci che, nei più diversi sistemi, affrontano ormai gli stessi problemi posti dall’innovazione scientifica e tecnologica, dando voce a quei diritti fondamentali che rappresentano oggi l’unico potere opponibile alla forza degli interessi economici. Tutto questo accade in un contesto in cui le istituzioni tradizionali non vengono tagliate fuori, ma contribuiscono a un’impresa di rinnovamento che, al tempo stesso, può mutare e rafforzare il loro ruolo. L’Onu si presenta come punto di riferimento per un mondo che si struttura proprio per cogliere un’occasione da essa offerta. Il Parlamento europeo prende atto di un’iniziativa non istituzionalizzata, e fa esplicito riferimento all’Internet Bill of Rights in una risoluzione di quest’anno. Questa è una vicenda che non deve essere enfatizzata, ma neppure trascurata o ritenuta eccezionale o isolata, visto che su Internet è tutto un fiorire di “dichiarazioni dei diritti”. Deve essere presa sul serio per diverse ragioni. Perché mostra una sensibilità costituzionale diffusa, e sappiamo che un’età dei diritti è sempre un’età del costituzionalismo. Perché individua soggetti e procedure diversi da quelli tradizionalmente presenti nelle fasi di istituzionalizzazione dei diritti. Perché rivela opportunità inedite di rapporti tra iniziative sociali e istituzioni. Perché il mondo si va organizzando proprio attraverso “assemblaggi di un’era digitale globale”.1 Perché, al tempo stesso, rivela fenomeni di frammentazione che possono incidere fortemente sull’effettiva possibilità di costruire una nuova trama dei diritti. Considerata da quest’ultimo punto di vista, proprio l’ipotesi di una “costituzione per Internet” sembrerebbe confermare la tesi di Gunther Teubner che vede il nostro tempo segnato dall’emergere di costituzioni “settoriali”,2 molteplici “costituzioni civili” legate alle dinamiche sociali ed economiche piuttosto che all’esercizio di poteri politico-costituzionali. Il costituzionalismo 1. S. Sassen, Territorio, autorità, diritti. Assemblaggi dal Medioevo all’età globale (2006), Bruno Mondadori, Milano 2008. 2. G. Teubner, La cultura del diritto nell’epoca della globalizzazione. L’emergere delle costituzioni civili, Armando, Roma 2005. Sul tema delle “Costituzioni infinite”, M.R. Ferrarese, Diritto sconfinato. Inventiva giuridica e spazi nel mondo globale, Laterza, Roma-Bari 2006.
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perderebbe così il suo valore universale e unificante, e rischierebbe di imboccare la strada ambigua già battuta dalla molteplicità delle nuove forme di normazione – lex mercatoria, lex constructionis, lex digitalis, lex labori internationalis, lex sportiva internationalis – che non solo riflettono interessi settoriali, ma sono prodotte dagli stessi portatori di tali interessi. In questo modo, la logica economica tornerebbe in primo piano e i diritti riconosciuti sarebbero soltanto quelli compatibili con essa. Non inganni, allora, l’insistito richiamo alla vicenda storica della lex mercatoria, che a un’analisi appena attenta si rivela come un calco linguistico attraverso il quale si cerca una legittimazione di pratiche assai lontane da una produzione di norme guidata da un diffuso e, all’origine almeno, spontaneo intrecciarsi di pratiche messe a punto da una platea assai larga di soggetti. Il contesto attuale, invece, è quello di una realtà nella quale la comunità degli affari sta producendo un suo diritto comune, sbrigativamente identificato appunto come nuova lex mercatoria, commissionata ai professionisti della tecnica giuridica, con riduzione della regola a una delle tante merci acquistabili sul mercato. E questo modo di produzione mostra come i grandi interessi economici non cerchino più la mediazione delle istituzioni politiche, ma agiscano ormai in presa diretta anche sul terreno della produzione delle regole. Le metafore della globalizzazione e della lex mercatoria sono state, e continuano a essere, utilizzate per affrancarsi da principi regolativi che incorporino valori diversi da quelli del mercato. Per sfuggire a questo rischio, si cerca di trovare un raccordo tra le nuove dichiarazioni dei diritti e i documenti internazionali che hanno seguito una via diversa dal riduzionismo economico, come la Dichiarazione dell’Onu del 1948 e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 2000. Scegliendo questa impostazione, anche quando si interviene in una specifica materia, si eviterebbe la caduta nella logica settoriale, perché la specifica “costituzione” si presenterebbe piuttosto come lo sviluppo o l’attuazione dei principi contenuti in quei documenti generali. Ma il semplice rinvio da un documento all’altro è in sé 60
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debole, può degradarsi a espediente formalistico, mentre si presentano come più incisive, anche se meno istituzionalizzate, altre forme di costruzione dei diritti nella dimensione globale. 3. Si possono, a questo punto, indicare tre possibili linee di analisi, alle quali corrispondono altrettante strategie. In primo luogo, non si può postulare un’indifferenza del quadro tradizionale dei diritti al nuovo ambiente, tenendo fermi criteri ermeneutici pretecnologici e ritenendo che l’innovazione possa essere conosciuta, e assumere rilevanza, solo quando si incarna in apposite e diverse situazioni giuridiche. Scolora così la contrapposizione tra “vecchi” e “nuovi” diritti. Si può dire, anzi, che il riferimento a diritti e libertà fondamentali, nel nuovo contesto identificato dalla rete, esige una rilettura proprio dell’insieme dei diritti elaborato dall’intera modernità costituzionale. Se guardiamo, per esempio, alla nostra Costituzione, non si può sfuggire ad alcune domande: le “formazioni sociali” (art. 2 Costituzione) possono essere anche le comunità virtuali create nel ciberspazio? Le garanzie della libertà personale (art. 13) devono essere estese anche al corpo “elettronico”, seguendo la traiettoria della rilettura dell’habeas corpus come habeas data? Regge la distinzione tra dati “esterni” e “interni” delle comunicazioni quando queste si svolgono su Internet, modificando i termini in cui deve parlarsi della loro libertà e segretezza (art. 15), come ha fatto la Corte costituzionale tedesca con una sentenza del 2 marzo 2010? Come si atteggia in rete la libertà di associazione (art. 18)? Il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero (art. 21) deve essere messo in rapporto con il diritto all’anonimato nelle comunicazioni elettroniche? L’accessibilità alla proprietà (art. 42.2) deve tradursi nella libera appropriabilità di determinati beni per via elettronica, secondo una logica dei commons che tende a escludere l’identificazione personale dei soggetti che accedono? Questi interrogativi ci rimandano a un intreccio tra continuità e discontinuità, peraltro rinvenibile in tutte le complesse vicende che accompagnano il tumultuoso succedersi delle tec61
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nologie, e ci portano verso la seconda questione da analizzare. Si potrebbero trovare echi e rispecchiamenti tra le riflessioni di Teubner sulle costituzioni settoriali e le teorizzazioni di Manuel Castells sul mondo senza centro, sul neomedievalismo istituzionale che precluderebbe la possibilità di un ordine globale, dove vengono riprese riflessioni già note, che ora si saldano con l’insistenza sulle ascendenze identificate nella lex mercatoria e con le più accorte analisi di Saskia Sassen sui reticoli territoriali nel Medioevo. Ma queste analisi devono sempre essere valutate considerando l’esistenza di tendenze unificatrici. Una volta chiarito che, così parlando, non si fa riferimento alla creazione di un governo globale, alla dilatazione su scala planetaria della categoria della sovranità nazionale, l’analisi dovrebbe riguardare piuttosto le diverse manifestazioni concrete dell’esercizio di un potere centralizzato in un mondo articolato, non frammentato, con ricorrenze di poteri identici in aree e settori diversi, con l’emersione di forme astratte di autorità che possono condizionare i processi in corso. In un saggio di Jeffrey Rosen, per esempio, il potere di Google viene analizzato come quello di un “decisore finale”, sciolto da ogni vincolo o controllo, in materie di rilevanza planetaria.3 Vicende analoghe possono essere ritrovate in molte altre materie e settori, e tuttavia i tentativi di accompagnare la dimensione planetaria dei diritti fondamentali con istituzioni adeguate continuano a incontrare non solo la critica di chi descrive un mondo senza centro dov’è preclusa la possibilità di garanzie comuni, ma pure lo scetticismo di una cultura giuridica che non trova nella dimensione globale una concreta possibilità di rendere effettivi i diritti. Tuttavia questa tesi è almeno parzialmente smentita dal progressivo costituirsi di una “Global community of courts”, legata proprio alla tutela dei diritti; e dalla constatazione che l’effettiva tutela dei diritti non è più necessariamente affidata ai tradizionali procedimenti giudiziari, ma può essere resa possibile da iniziative che, partendo dalla società civile e avendo come riferimento documenti inter3. J. Rosen, Google’s Gatekeepers, “New York Times Magazine”, 28 novembre 2008.
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nazionali, riescono a rendere concrete le garanzie. Quando si ebbe notizia che alcune società transnazionali facevano cucire scarpe e palloni da calcio da bambini indiani e pakistani, si mobilitarono associazioni per i diritti civili minacciando un boicottaggio se quelle società non avessero abbandonato il lavoro minorile. L’azione ha avuto successo per motivi diversi, ma qui vale la pena di sottolineare come l’effettività dei diritti dei bambini sia stata garantita con modalità diverse da quelle affidate ai meccanismi giuridici tradizionali, in particolare alla possibilità di ricorrere in giudizio. Si giunge così alla terza questione, che riguarda non più la sola forma o procedura di una costituzione per Internet, ma pure i suoi contenuti. Qui si intrecciano finalità di ordine generale, veri e propri principi direttivi, con la loro traduzione in specifici diritti. Se, per esempio, si muove dalla constatazione che Internet rappresenti il più largo spazio pubblico che l’umanità abbia conosciuto, la salvaguardia di questa sua “natura” implica l’irriducibilità alla dimensione sempre più assorbente del mercato, che vuol dire non solo un generico riconoscimento della libertà in rete, ma la concreta possibilità di esercitare “virtù civiche”, dunque di dar corpo a una cittadinanza attiva, di far sì che Internet rimanga una risorsa per la democrazia e non la forma congeniale ai nuovi populismi, di praticare forme economiche riconducibili alla logica del dono. Da qui la necessità di salvaguardare la neutralità della rete, anche come antidoto a ogni forma di censura (e questo esige comportamenti attivi per reagire, per esempio, a decisioni giudiziarie come quella milanese sulla responsabilità del provider o quella che, negli Stati Uniti, ha limitato i poteri regolativi della Federal Communication Commission), e il suo potenziale “generativo”,4 dunque l’effettiva sua capacità di produrre innovazione. Da qui la necessità di considerare l’accesso a Internet come un diritto fondamentale della persona, secondo una linea costituzionale che si ritrova in dichiarazioni del Parlamento europeo e del Consiglio d’Europa, 4. J. Zittrain, The Future of the Internet and How to Stop it, Allen Lane, London 2008.
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in iniziative di stati come la Finlandia, nel piano del presidente Obama sul servizio universale. Ma il riconoscimento dell’accesso non può divenire una chiave che apre una stanza vuota: da qui la necessità di considerare la conoscenza come bene pubblico globale, non solo rivedendo categorie tradizionali come quelle del brevetto e del diritto d’autore, ma evitando fenomeni di “chiusura” rispetto a questo common, che caratterizza appunto la nostra società come quella “della conoscenza”, trasformando in risorsa scarsa un bene comune suscettibile della più larga utilizzabilità. Da qui la necessità di una tutela dinamica dei dati personali, nel senso che la garanzia non può essere soltanto quella tradizionale e statica relativa alla riservatezza, ma deve divenire componente essenziale della cittadinanza digitale e della libera costruzione dell’identità (considerando, per esempio, il diritto di anonimato, particolarmente rilevante nel caso del dissidente politico, e il diritto all’oblio), passando così dal riconoscimento dell’autodeterminazione informativa a un’effettiva redistribuzione del potere in rete. Tutto questo, ovviamente, deve essere considerato nella prospettiva della destrutturazione/ricostruzione del rapporto tra sfera pubblica e sfera privata. E proprio riflettendo su Internet possono essere individuate le vie di un costituzionalismo globale possibile, non affidato a una vertical domestication, con norme sovrastatuali incorporate nei diritti statuali, né semplicemente translocale. Dunque una costruzione del diritto per espansione, orizzontale, un insieme di ordini giuridici correlati, quasi una costituzione infinita.
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McLuhan mistico della rete STEFANO CRISTANTE
Eric Norden:“Sta parlando di telepatia globale?”. Marshall McLuhan: “Precisamente”.
intento di questo scritto non è di ipotizzare “cosa avrebbe detto McLuhan su Internet se oggi fosse vivo”, quanto di verificare, all’interno della non vastissima produzione del massmediologo canadese, se ci siano elementi tali, pur restando nell’estetica prevalentemente suggestionante della sua scrittura e delle sue dichiarazioni, da poter prefigurare un discorso sull’autocomunicazione di massa. La modalità con cui intendo provare a verificare questa ipotesi tiene conto del suo stile narrativo, cercando di restituire al lettore fonti dirette di McLuhan organizzate per frammenti commentati. Comincerei da un brano poco noto, che entra direttamente nel merito di questa impostazione:
L’
I computer permettono già la trasmissione istantanea di qualsiasi codice o di qualsiasi linguaggio. [...] Il computer possiede in sé la potenzialità tecnologica di una comprensione universale, in una unità totale, per assorbimento nel logos che potrebbe unire l’umanità in una sola famiglia e assicurarne così in perpetuità l’armonia e la pace collettive. Ecco il vero uso del computer, non quello di facilitare il marketing o risolvere problemi tecnici, ma di accelerare il processo della scoperta, di orchestrare l’ambiente, le energie terrestri, e infine quelle galattiche. L’integrazione psichica collettiva, resa possibile finalmente dai media elettronici, potrebbe creare aut aut, 347, 2010, 65-76
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l’universalità della coscienza prevista da Dante quando profetizzò che gli uomini continueranno a essere dei frammenti spezzati finché non saranno unificati in una coscienza inclusiva. Nel senso cristiano, questo è semplicemente una nuova interpretazione del corpo mistico di Cristo. E Cristo, in fin dei conti, è l’estensione ultima dell’uomo.1 In questo frammento i materiali al lavoro sono già molteplici – ancorché in forma rapsodica, vero logotipo dell’autore –, e li utilizzeremo con pazienza nel corso di questo scritto. Innanzitutto si comincia dal computer. Questo medium non viene affrontato da McLuhan come un corpus del tutto nuovo. Il computer è solo l’ultimo nato dalla madre elettrica. È l’elettricità che consente al computer di vivere. A questo riguardo McLuhan è molto esplicito. Il suo testo più noto su questo tema è l’ultimo capitolo di Understanding Media,2 il suo libro più conosciuto. Il capitolo si intitola “Automazione. Imparare un modo di vivere”. Visitiamone alcuni brani. L’automazione non è un’estensione dei principi meccanici di frammentazione e separazione delle operazioni, ma è l’invasione del mondo meccanico da parte dell’istantaneità elettrica. Per questo coloro che se ne occupano direttamente insistono nel dire che non è solo un modo di fare ma un modo di pensare. La sincronizzazione istantanea di numerose operazioni ha posto fine al vecchio schema meccanico di disporre le operazioni in una sequenza lineare. La catena di montaggio è scomparsa come la fila degli uomini soli alle feste.3 Qui emerge con la consueta e brusca dinamicità uno dei luoghi classici di McLuhan: la frattura tra Galassia Gutenberg (modo 1. Cfr. McLuhan sommo sacerdote del culto “pop” e metafisico dei media (1969), intervista di Eric Norden, in M. McLuhan, Dall’occhio all’orecchio, Armando, Roma 1982, pp. 61-62. 2. M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare (1964), il Saggiatore, Milano 1999. 3. Ivi, p. 372.
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meccanico) e Costellazione Marconi (modo elettrico). La proposizione principale implicita è naturalmente “the medium is the message”, dove per medium si deve intendere ogni tecnologia in grado di estendere l’essere umano (dall’invenzione delle parole a quella del computer). La tecnologia meccanica, rappresentata al massimo grado dalla stampa a caratteri mobili di Gutenberg, estende e rafforza il senso della vista, vero e proprio timone della razionalità. Forzando la scrittura al massimo grado e unificandola attraverso il meccanismo della stampa, la razionalità umana si specializza e si industrializza. Attraverso l’accelerazione della scrittura meccanica, l’uomo medievale scopre una nuova dimensione extrafeudale. Le pagine dei nuovi media – gli incunaboli e poi i libri veri e propri – si mettono al servizio dei lettori e ne plasmano il linguaggio, a cominciare dall’istigazione all’uso delle lingue popolari, in una rapida sequenza che prevede l’allontanamento del latino come veicolo principale di comunicazione e la diffusione dei vernacoli, grazie alla stampa assurti al ruolo di nuove “lingue nazionali”. Un secondo effetto epocale della macchina gutenberghiana è l’invenzione del modo di produrre serialmente scrittura, che fa da apripista al modo di produrre serialmente merci, megafonato dalla rivoluzione industriale. L’elettricità entra a questo punto nelle vicende umane, provocando effetti sconvolgenti. Perché? Essenzialmente perché i media pre-elettrici avevano lavorato (cioè avevano prodotto un “messaggio”) sulla specializzazione di singoli armamentari percettivi: dall’udito (nell’oralità primaria) alla vista (nella scrittura alfabetica), dallo spostamento nello spazio (ruota) al controllo del tempo (orologio). Con l’invasione elettrica non è più in discussione un componente specializzato della percezione: è l’intero sistema nervoso centrale degli individui che viene chiamato in causa, provocando una dilatazione percettiva velocizzante, che richiede un trattamento rivoluzionario di tutte le sensazioni umane. Laddove la meccanizzazione segmenta le azioni in una serie di parti “uniformi, mobili e ripetibili”, l’automazione considera “il problema della produzione un sistema integrato per il trattamento dell’informazione”. 67
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È per il fatto stesso che permettono un’azione reciproca che i media elettrici ci costringono oggi a reagire al mondo nella sua totalità. Ma è soprattutto la velocità del coinvolgimento elettrico a creare l’unità integrale della consapevolezza pubblica e privata. Noi viviamo oggi nell’era dell’informazione e della comunicazione perché i media elettrici creano istantaneamente e costantemente un campo totale di eventi interdipendenti ai quali partecipano tutti gli uomini. Ora questo mondo di azioni reciproche pubbliche ha la stessa interdipendenza onnicomprensiva e integrale che aveva sinora caratterizzato soltanto i nostri sistemi nervosi individuali.4 Sulla questione della velocità elettrica McLuhan è ancora più esplicito: Certo l’automazione presuppone il servomeccanismo e il calcolatore, cioè l’elettricità come magazzino e acceleratore d’informazione. Queste caratteristiche di magazzino, o “memoria”, e di acceleratore sono fondamentali per qualsiasi medium di comunicazione. Con l’elettricità non è una sostanza corporea a essere immagazzinata o spostata, ma la percezione in sé è l’informazione. Quanto all’accelerazione tecnologica, essa sta quasi raggiungendo la velocità della luce. Tutti i media non elettrici si sono accontentati di affrettare un poco le cose. Ma manca alla ruota, alla strada, alla nave, all’aeroplano e persino al razzo spaziale, la caratteristica del movimento istantaneo. Dobbiamo allora stupirci che l’elettricità conferisca a tutte le organizzazioni umane preesistenti caratteristiche completamente nuove?5 La lotta per la conquista del “movimento istantaneo” comporta ingenti conseguenze. Prima di inoltrarci in questa nuova foresta psicosociale, occorre però sottolineare fino in fondo il background comune a tutti i media elettrici che caratterizza anche 4. Ivi, p. 263. 5. Ivi, p. 375.
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l’avvento dell’automazione. Sono fondati sull’elettricità media assai diversi come il telegrafo, la radio, il cinema e la televisione. McLuhan distingue attraverso la metafora della temperatura – media caldi e media freddi – la possibilità di percepire gli strumenti di comunicazione, pur appartenenti al campo elettrico, come esclusivi o inclusivi. I media caldi specializzano in sostanza l’istanza percettiva del consumatore, presentandosi come artefatti ad alta definizione: così, per esempio, la radio è il messaggio di una specializzazione dell’udire, che penetra nel tessuto mentale attraverso una forma compiuta, e lo stesso fa il cinema attraverso un’alta definizione della vista. La televisione, al contrario, è un mezzo freddo, perché mette a disposizione dello spettatore un caos percettivo che va riorganizzato dal singolo: lo schermo televisivo non è mai “ad alta definizione”, perché “il televisore scaglia sullo spettatore tantissimi piccoli frammenti, milioni di impulsi”. La televisione è completamente diversa dal cinema, dove non c’è da mettere insieme nulla, c’è solo da vedere un film, una successione di suoni e rumori che scorrono su una cinghia di celluloide. La televisione invece stanca molto, e la gente si addormenta facilmente davanti al televisore a causa di tutto il lavoro che deve fare per guardarla.6 La conclusione di McLuhan è che lo spettatore televisivo compie un “viaggio interno”, dove il tubo catodico lavora dentro di lui come un raggio X. La densità elettrica del medium intensifica il lavoro creativo necessario, per esempio, per rendere comprensibile un fumetto (altro medium freddo): nelle tavole dei comics il passaggio dall’azione a all’azione b non avviene per accostamento di immagini progressive, ma attraverso vuoti che debbono essere riempiti dal consumatore. In una vignetta Tex Willer mette mano al calcio della pistola e nella vignetta successiva 6. Cfr. E. Maffìa, Incontro con Marshall McLuhan, in G. Gamaleri (a cura di), Il villaggio elettronico di McLuhan, Capone Editore, Lecce 1985, p. 56.
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si vede l’avversario di Tex a terra esanime, mentre il ranger ripone la pistola fumante nella fondina. Il vuoto tra le due vignette (l’estrazione della pistola e lo sparo) coincide con la creazione diretta della scena assente nella mente del lettore. La tv esaspera questo dispositivo perché a ogni istante impiega il sistema percettivo umano in modo sinestetico (McLuhan preferisce l’espressione “immagine tattile”) raffreddando (cioè espandendo) le pulsioni ricostruttive delle immagini e dei suoni televisivi. Allo stesso tempo la televisione si inserisce nell’indagine di McLuhan con un ruolo centrale perché essa avvia a compiutezza il movimento universale verso la compartecipazione di eventi interdipendenti, trattati alla velocità elettrica, riconoscendo nell’istante l’unità di misura degli eventi stessi. Ci ritroviamo, in questo modo, alle soglie di un mondo in cui le istanze elettriche rivelano nuovi punti di rottura. Sta tutto smembrandosi, e questo non è marxismo. Il vecchio Marx pensò che questa forma industriale, con le attuali strutture e gerarchie, sarebbe durata per sempre, e che si dovesse solo trasferirne la direzione e il controllo nelle mani del proletariato. E invece la novità è che la stessa struttura si sta distruggendo con l’elettricità. Marx non ha mai previsto questi immensi cambiamenti nel mondo del lavoro. Non avrebbe mai potuto prevedere l’era elettrica. I criteri della catena di montaggio, figli del secolo scorso e della vecchia scienza, dominano ancora un mondo che ha sostituito questa catena di montaggio con operazioni elettroniche. Oggi viviamo in un teatro globale, in cui ognuno non vuole più un lavoro, ma cerca di scegliersi un ruolo. Chi vive in questo teatro globale non si accontenta più di essere spettatore: vuole diventare attore, vuole partecipare. E oggi questa partecipazione è per la prima volta a portata di mano per chi dispone delle informazioni, di cui tutti possono impossessarsi con i mezzi di comunicazione.7 7. Ivi, p. 62.
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In questo passaggio McLuhan è già dentro l’autocomunicazione di massa, oppure, se si preferisce, già oltre l’orizzonte televisivo. L’idea di un teatro globale rinvia a evocazioni più simili a un social network che a un programma televisivo e, soprattutto, la suggestione della ricerca di informazioni rinvia a una compiutezza elettrica che solo il mondo digitale condiviso (i motori di ricerca) sarà in grado di esplicitare. McLuhan presupponeva questo processo già all’interno dei media broadcast, mentre la grande maggioranza degli studiosi degli anni sessanta e settanta del Novecento non vedevano nella tv che un deserto cognitivo, affettivo, esistenziale. McLuhan non prende in considerazione questi argomenti: per lui i nuovi e giovani fruitori dei media elettrici si trovano coinvolti in una contemporaneità onnicomprensiva di cui l’immagine tattile della tv, attraverso la sua disposizione a mosaico, è l’emblema. In questo senso il “rifiuto del lavoro” cui si arriva non per ideologia ma per condizione elettrica evidenzia la nuova centralità di un movimento di assorbimento e di creazione che anticipa la definizione di prosumer emersa nelle scienze sociali degli anni novanta. Il produttore-consumatore toffleriano è già la precondizione mcluhaniana per essere nel mondo elettrico. La realizzazione dell’automazione spinge a spostare più in là l’asticella della condivisione: Il lavoro futuro sarà quello di imparare a vivere nell’era dell’automazione. È una caratteristica comune a tutta la tecnologia elettrica, che pone fine alle antiche dicotomie tra tecnologia e cultura, tra arte e commercio e tra lavoro e tempo libero. Mentre nell’era meccanica della frammentazione il tempo libero era assenza di lavoro, o puro ozio, nell’era elettrica è vero il contrario. Ora che l’età dell’informazione richiede l’uso simultaneo di tutte le nostre facoltà, ci accorgiamo di riposare soprattutto quando siamo intensamente coinvolti, come del resto accadde sempre agli artisti, in tutti i tempi.8
8. M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, cit., p. 369.
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Questa percezione di McLuhan immerge dunque l’umanità elettrificata in una zona di sparizione dei confini e delle classificazioni, a cominciare dall’eclissi dei confini tra lavoro e tempo libero. La fusione tra le due zone produce ibridi di attività che forse solo oggi, collegandoci a Internet con i più vari scopi, siamo in grado di testare sulla nostra pelle. Insieme a questo movimento riordinativo delle sfere dell’impegno umano, McLuhan mette d’altronde in evidenza il nuovo carattere “processuale” dell’azione elettrica: la punteggiatura degli eventi è secondaria rispetto alla costruzione dei legami tra i diversi eventi, che rappresenta la vera essenza del modo di funzionare dell’era dell’informazione. Potremmo anche dire: il processo è l’evento. Il mondo intero, passato e presente, ci si rivela come una pianta che cresce in un film enormemente accelerato. Velocità elettrica è sinonimo di luce e di comprensione delle cause. [...] L’automazione è stata applicata per la prima volta su vasta scala nelle industrie chimiche del gas, del petrolio, del carbone e dei minerali metallici. Gli enormi progressi in queste operazioni, resi possibili dall’energia elettrica, hanno ora cominciato a estendersi, grazie al calcolatore, a tutti i settori del lavoro d’ufficio e della direzione. Molte persone di conseguenza hanno preso a considerare l’intera società come un’unica macchina unificata per produrre ricchezza. Tale è la prospettiva normale dell’agente di cambio, che manipola azioni e informazioni con l’aiuto dei media elettrici del giornale, della radio, del telefono e della telescrivente. Ma la manipolazione astratta dell’informazione come mezzo per produrre ricchezza non è più un suo monopolio; è ora applicata anche da tutti gli ingegneri e da tutte le industrie della comunicazione. Se è l’elettricità a dare energia e sincronizzazione, tutti gli aspetti della produzione, del consumo e dell’organizzazione diventano accidentali rispetto alla comunicazione. L’idea stessa della comunicazione come azione reciproca è insita nell’elettricità, la quale nella sua molteplicità intensiva associa all’informazione l’energia.9 9. Ivi, pp. 375-378.
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McLuhan analizza gli effetti dell’energia applicata al calcolatore ai suoi esordi, ma sembra parlare al nostro oggi. Il destino comunicativo della postmodernità sembra così vincolato all’esplorazione percettiva della modernità. I media elettrici appaiono qualcosa di più di un’approssimazione dei media digitali: piuttosto una prefigurazione. Lo stesso accade alla percezione del tempo e dello spazio: sfuggendo agli eventi grazie al processo, McLuhan si accorge della rivoluzione cognitiva che ora è necessaria. Gli uomini erano in grado di vivere l’intera loro vita basandosi su un unico assorbimento di capacità. Con l’accelerazione elettrica questo non è più possibile. Il fatto che alti dirigenti di mezza età debbano acquisire conoscenze e capacità nuove è una delle esigenze più comuni e dei fatti più impressionanti della nuova tecnologia.10 Anche questa intuizione di McLuhan sembra più adatta alla nostra epoca che alla sua. Tuttavia i segni della proliferazione di nuove percezioni appartenevano alla vita di McLuhan non meno che alla nostra. I segni dell’era dell’informazione erano, per lo studioso canadese, già a completa disposizione della dimensione umana creata dai media che oggi percepiamo come tradizionali. Chi lavora può raggiungere questa nuova dimensione grazie alla massa di informazioni che oggi sono diventate ambientali, disponibili a tutti. Non esistono più informazioni esclusive. È possibile trovare tutti i dati di cui si ha bisogno per partecipare allo spettacolo del teatro globale.11 Di grande interesse sono le conseguenze formative di questa necessità di vivere nell’informazione: McLuhan ha dedicato diversi scritti successivi a Understanding Media alle nuove finalità dell’educazione permanente e alla necessità di trasformare l’inse10. Ivi, p. 378. 11. Cfr. E. Maffìa, Incontro con Marshall McLuhan, cit., pp. 62-63.
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gnamento nelle scuole di ogni ordine e grado. Secondo McLuhan si tratta di mettere in soffitta un modo di insegnare e di apprendere ancorato all’antica dinamica meccanica e frammentaria, e accettare le conseguenze della rivoluzione elettrica. Ciò che sta volgendo al suo termine è l’istruzione che risulta in un apprendimento già fatto e imballato. Le cognizioni “a pacchi” stanno cedendo il passo alla conoscenza dei processi, per cui lo studio dei processi ha sostituito l’ingurgitamento di cognizioni impacchettate. Nei tempi andati c’era nel nostro paese un tipo di fabbricato noto col nome di “scuoletta rossa”. All’interno, tutti stavano seduti in un’unica stanza, e tutte le classi coesistevano in un unico ambiente. Perciò nella classe ottava sentivano quello che si insegnava nella prima e nella prima quello che si insegnava nell’ottava. Nella “scuoletta rossa” tutti imparavano nello stesso tempo tutto. E adesso, la Terra è diventata una “scuoletta rossa”. Tutti gli abitanti di questo nostro pianeta sanno quello che tutti stanno imparando. Partecipiamo tutti allo stesso corso, in tutto il mondo. È semplicissimo. L’informazione è l’ambiente che respiriamo. E quindi io direi che in un ambiente d’informazione il significato di commercio, il significato di educazione, è cambiato. Assolutamente.12 In termini assoluti – cioè di percezione assoluta – giunge anche un’altra considerazione centrale, che possiamo accostare alle riflessioni sulla formazione/istruzione. Questa considerazione muove dal percetto che entri in gioco, con la tecnologia elettrica, una sorta di “unità organica e interdipendente” del mondo. È nota l’impressione che suscitò in McLuhan la definizione di noosfera elaborata da Teilhard de Chardin in base alla “Legge di complessità e coscienza” che descrive la natura dell’evoluzione dell’universo.13 12. Ivi, p. 70. 13. P. Teilhard de Chardin, Il fenomeno umano (1955), Queriniana, Brescia 1995.
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McLuhan fu affascinato dal tentativo del gesuita francese di dare forma filosofica a una coscienza collettiva individuata sulla scorta di una messa in relazione delle menti umane. McLuhan vi legge un concetto che può essere piegato al percetto di un’unità organica che scaturisce dall’invenzione e dalla pratica mediatica, fino a giungere a una contaminazione che mette al centro della scena l’ambiente tecnologico esploso solo di recente, e riconoscibile dalle molteplici acquisizioni dell’idea di globalizzazione e soprattutto dalla centralità complessiva dell’idea di rete, che McLuhan rende protagonista di una similitudine sensitiva allargata, viatico per passare a una fase di consapevolezza umana integrale, cioè fondata sulla comunicazione. Uno dei fenomeni più significativi dell’era elettrica consiste nel creare una rete globale che ha molte delle caratteristiche del nostro sistema nervoso centrale, il quale non è soltanto una rete elettrica ma un campo unificato di esperienze.14 Quindi è la rete globale il processo/evento che determina l’insieme di nuove sensibilità che compongono il background della sostanza comunicativa della società esplorata da McLuhan. La rete globale è la metafora attiva che pulsa all’interno del messaggio mediatico investito di mutazioni. Per questo il lapidario avverbio che McLuhan usa per rispondere alla domanda che apre questo scritto (“Sta parlando di telepatia globale?” “Precisamente”) flirta con quelle che lo studioso canadese percepisce come radici profonde della fede che aveva abbracciato ormai adulto. Il cattolicesimo, per McLuhan, assume caratteri insieme mistici e organici. Il corpo di Cristo diventa, secondo le sue stesse parole, “coscienza inclusiva dell’umanità”. Eccone un’ulteriore ramificazione. È possibile che le nuove tecnologie oltrepassino la verbalizzazione. Non c’è niente di impossibile per il computer – o per 14. M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, cit., p. 371.
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quel tipo di tecnologia – che estende la coscienza stessa, come un ambiente universale. In un senso, l’immersione nell’informazione che oggi stiamo sperimentando elettronicamente è un’estensione della coscienza medesima. Quali effetti possa avere sull’individuo nella società è pura speculazione. Ma è accaduto: non è qualcosa che sta per accadere. Molte persone ritornano all’occulto, alla percezione extrasensoriale, e a ogni forma di consapevolezza misteriosa, in risposta a questo nuovo accerchiamento dell’informazione elettronica. E così viviamo, in senso volgare, un’era estremamente religiosa. Penso che i tempi che ci accingiamo a vivere sembreranno probabilmente i più religiosi di sempre. Noi siamo già lì.15 D’altronde alla domanda: “Questa proiezione d’una coscienza mondiale suscitata dall’elettronica non è più mistica che tecnologica?”, McLuhan rispondeva con un aforisma diventato celebre. Sì. Tanto mistica quanto lo sono le teorie più avanzate della moderna fisica nucleare. Il misticismo non è altro che la scienza di domani sognata oggi.16
15. Id., La luce e il mezzo. Riflessioni sulla religione (1970), Armando Editore, Roma 2002, pp. 103-104. 16. Cfr. McLuhan sommo sacerdote del culto “pop” e metafisico dei media, cit., p. 62.
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Network come neotot. La socialità in rete e gli avamposti di un nuovo fascismo emozionale NELLO BARILE
on è facile mettere in discussione le implicazioni culturali dei cosiddetti social media nel momento in cui, specialmente in Italia, questi subiscono un attacco tanto goffo quanto veemente da parte di un potere centrale che, per sua genesi ed evoluzione, è stato ed è eminentemente tvcentrico. D’altro canto il compito di una critica che vuole prescindere dalla logica degli schieramenti è esattamente quello di sviscerare le contraddizioni del suo oggetto, prescindendo dall’uso improprio che altri soggetti (la politica come gli stessi media) potrebbero farne. Siamo dunque di fronte a un grande paradosso posto in essere dalla cosiddetta “rivoluzione digitale”: da un lato essa “sovverte di colpo l’equilibrio” tra produttori e consumatori tanto che la “proliferazione dei soggetti produttivi è effettivamente possibile solo a condizione che la materia prima resti liberamente utilizzabile da tutti”;1 dall’altro assistiamo invece alla reazione dell’industria culturale che teme di perdere il suo privilegio monopolistico e tenta di “blindare l’intero catalogo delle idee e delle conoscenze umane”.2 Tra le posizioni antinomiche della libertà e del controllo si dipanano soluzioni intermedie in cui i dispositivi tecnici vanno a ricombinarsi con gli aspetti portanti della nostra identità personale e con la nostra esperienza situata.
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1. C. Formenti, Cybersoviet. Utopie postdemocratiche e nuovi media, Raffaello Cortina, Milano 2008, p. 29. 2. Ibidem.
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L’espressione Web 2.0 suole comunemente nominare un insieme di tecnologie “morbide” che sfruttano una serie di avanzamenti tecnologici “duri” (la maggiore potenza dei server, le fibre ottiche, la banda larga ecc.) per ridurre la distanza tra i processi di virtualizzazione tipici della rete e la nostra vita quotidiana. In tal senso la retorica dei cosiddetti “contenuti generati dagli utenti” (UGC) non ripristina solo l’ideale dell’uomo artigiano com’è quel soggetto che mette “un impegno personale nelle cose che si fanno”,3 ma produce anche la sua stessa nemesi: una nuova forma di totalitarismo in cui la tecnica interviene non come mero strumento ma come ambiente o come sistema di ridefinizione delle identità sociali attraverso nuovi stili di vita. Potremmo dire che il Web 2.0 è neotot perché genera un territorio in cui si confrontano due movimenti opposti ma complementari: quello delle grandi corporation che utilizzano i brand per intercettare e valorizzare la vita quotidiana dei loro consumatori; quello della gente che adotta tali mezzi per spostarsi dal piano locale a quello globale come recita il celebre pay-off di YouTube “Broadcast yourself”. Si tratta di una duplice oscillazione dallo strategico al tattico e viceversa. Ovunque si celebra la centralità del relazionale, del comunitario, dell’esperienziale ecc. come segni tangibili di una svolta culturale irrimediabile. Oggi è altrettanto evidente che il sistema tecno-comunicativo promosso dal Web 2.0 non reprime in alcun modo l’unicità, anzi la moltiplica, la riproduce e la enfatizza in ogni suo aspetto. Si può parlare addirittura di punk-capitalismo4 per indicare quel sistema economico che coltiva un legame strettissimo con la dispersione, la trasgressione, la stessa devianza, divenute strumento indispensabile per suggerire l’innovazione creativa nell’economia materiale e in quella finanziaria.
3. R. Sennett, L’uomo artigiano (2008), Feltrinelli, Milano 2008, p. 28, come ha anche precisato Giovanni Boccia Artieri parlando di design delle esperienze in chiave social, cfr. G. Boccia Artieri, De-sign (e da-sein) the future, “Mediamondo.wordpress.com”, 4 luglio 2010. 4. Cfr. M. Mason, Punk capitalismo (2008), Feltrinelli, Milano 2009.
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Pertanto parlare oggi di “fascismo emozionale”5 può essere fuorviante almeno per due motivi: in primo luogo perché si tratta di un’espressione obsoleta che rimanda alla fase espansiva della società di massa e di rispettiva repressione degli istinti da parte degli apparati di potere; in secondo luogo essa suona come una tautologia, nel senso che, secondo alcune rinomate posizioni, lo strato più profondo del nostro mondo emozionale sarebbe caratterizzato da una sorta di grado zero del fascismo. In esso l’irrazionalismo vitale diventa il presupposto stesso per un governo autoritario delle emozioni. Wilhelm Reich definisce il fascismo come un prodotto di scarto della meccanizzazione delle masse per poi dimostrare come esso – sebbene sia un’invenzione tipicamente moderna – si sposi con quel substrato emotivo arcaico che è reso funzionale alle esigenze del dominio. Contrariamente a tutto ciò, le mie esperienze mediche fatte con molte persone appartenenti ai più disparati strati sociali, razze, nazioni, religioni ecc. mi avevano insegnato che il “fascismo” non è altro che l’espressione politicamente organizzata della struttura caratteriale umana media, di una struttura che non è vincolata né a determinate razze o nazioni né a determinati partiti, ma che è generale ed internazionale. Secondo il significato caratteriale “il fascismo” è l’atteggiamento emozionale fondamentale dell’uomo autoritariamente represso dalla civiltà delle macchine e dalla sua concezione meccanicistico-mistica della vita [...]. Il carattere meccanicisticomistico degli uomini del nostro tempo crea i partiti fascisti e non viceversa.6 5. Con tale espressione negli anni settanta Elvis Costello voleva intitolare l’album Armed Forces. Più recentemente la stessa è stata utilizzata da un certo tipo di stampa per ricostruire una sorta di nuovo trend di consumo alimentato principalmente dall’invenzione di alcune applicazioni per i-Pod. Veneziani, per esempio, parla di “fascismo emozionale e surreale” per indicare il culto estetico per alcuni gadget del ventennio, cfr. M. Veneziani, Mussolini spopola sull’iPhone. Chi teme il fascismo-gadget? L’antologia dei discorsi del Duce è il servizio più gettonato sul telefonino. E così da ideologia diventa ricreazione. Ma è emozione, non politica, “Il Giornale”, 31 gennaio 2010. 6. W. Reich, Psicologia di massa del fascismo (1933), Mondadori, Milano 1976, p. 11.
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Il ragionamento che sviluppa il celebre psichiatra austriaco gioca sulla complementarità paradossale tra lo sfondo irrazionale dei soggetti e la razionalità stringente delle macchine ed è in tal senso difettivo e compensativo. La società delle macchine rappresenta l’apogeo di affermazione della razionalità tecnica ma non può sopravvivere senza nutrirsi di ciò che è più ancestrale. Dunque la tecnica e il dominio sono esterni ma si nutrono della linfa irrazionale e anarcoide che irrora l’inconscio. Certamente diverso, ma tutto sommato affine, è il punto di vista di Hannah Arendt che, per definire le modalità di funzionamento del totalitarismo, deve recuperare la distinzione di Montesquieu tra individuo e cittadino, tra spazio pubblico e spazio privato, al fine di mostrare come il sistema totalitario vada a innestarsi tra questi due domini sgretolando il confine che li separa.7 Per Arendt questo “doppio standard di moralità” è fondamentale e costitutivo della democrazia in quanto assegna alla legge il compito di proibire e sanzionare ciò che non deve essere assolutamente fatto pubblicamente, ma lascia alla sfera individuale il compito di scegliere ciò che è opportuno fare privatamente. Al contrario i regimi totalitari “atrofizzano” la sfera privata e a loro modo annientano la linea di demarcazione tra privato e pubblico in un modo molto diverso, ma speculare a quello che avviene oggi con l’avanzamento delle nuove pratiche di consumo. Alla dicotomia individuo/cittadino si aggiunge il soggetto consumatore che è problematico dal punto di vista della politica contemporanea, proprio perché si colloca al crocevia tra individuo/cittadino e spazio privato / spazio pubblico, ma soprattutto perché tende a sgretolare tali demarcazioni per favorire una dimensione publivate. Anche la visione francofortese si sofferma sui modi in cui la società dei consumi colonizza la sfera più interna dell’individuo e tenta di depistare la vocazione libertaria, alla base del principio di piacere, verso un principio di realtà regolato da istanze utilitaristiche. Come in Herbert Marcuse,8 il consumo traduce 7. H. Arendt, Antologia, Feltrinelli, Milano 2006. 8. H. Marcuse, Eros e civiltà (1955), Einaudi, Torino 1964.
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pulsioni ed emozioni che si generano nella sfera intima per trasformarle, attraverso le forme della pubblicità e della merce, in pezzi d’arredo dell’immaginario collettivo. Così anche la “desublimazione repressiva” – che indica la deviazione del desiderio verso i canali del consumo – appartiene a una concezione difettiva. Come se ci fosse un assalto all’interiorità da parte di un sistema che appronta svariati espedienti – tecnici, sensoriali, narrativi – per violare lo spazio incontaminato dell’interiorità umana e deviarne lo sviluppo “naturale”. Per questo motivo forse il miglior Michel Foucault, quello della Storia della sessualità,9 è tenuto a scardinare l’impianto delle teorie della repressione che secondo l’autore sarebbero null’altro che un’inconsapevole sottomissione alla stessa logica di dominio che provano a combattere. La dimostrazione di tale ribaltamento fa perno sul cosiddetto “dispositivo della confessione” che da mero strumento di estrazione della colpa nel regime teocratico si trasformerebbe, nell’era democratica, in un meccanismo di produzione della verità del piacere. Secondo Foucault l’uomo moderno sarebbe diventato una “bestia da confessione”: La confessione è un rituale discorsivo in cui il soggetto che parla coincide con il soggetto dell’enunciato; è anche un rituale che si dispiega in un rapporto di potere, poiché non si confessa senza la presenza almeno virtuale di un partner che non è semplicemente l’interlocutore, ma l’istanza che richiede la confessione, l’impone, l’apprezza, e interviene per giudicare, punire, perdonare, riconciliare; un rituale in cui la verità mostra la sua autenticità grazie all’ostacolo e alle resistenze che deve eliminare per formularsi; un rituale, infine, in cui la sola enunciazione, indipendentemente dalle sue conseguenze esterne, produce in colui che l’articola delle modificazioni intrinseche: lo rende innocente, lo riscatta, lo purifica, lo sgrava dalle sue colpe, lo libera, gli promette la salvezza [...]. L’istanza di dominazione non è dalla parte di colui 9. M. Foucault, La volontà di sapere (1976), Feltrinelli, Milano 1978.
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che parla (poiché è obbligato) ma da quella di colui che ascolta e tace; non dalla parte di chi sa e risponde, ma da quella di chi interroga e si suppone che non sappia. E questo discorso di verità produce infine il suo effetto non in chi lo riceve, ma in colui al quale lo si strappa.10 In questo passo illuminante sono individuati e descritti con attenzione i tratti fondamentali di un modello comunicativo-terapeutico che ha attraversato il crepuscolo della tv e dei media generalisti per poi spostarsi in maniera preponderante nella dimensione del Web; specialmente in quella del cosiddetto 2.0 in cui giunge a manifestarsi in modo compiuto e sistematico.11 A tale proposito l’indagine di Eva Illouz opera sul confine che separa gli ultimi bagliori dell’impero televisivo, il mito dell’Oprah Winfrey Show12 e le nuove pratiche di autopromozione dei social media: da YouTube a Twitter, dai protagonisti della blogosfera alle personal web-tv. In quella che l’autrice definisce come “ontologia emozionale”, sono rinvenibili processi di lungo termine che hanno avuto luogo principalmente nello sviluppo delle pratiche organizzative delle aziende americane, passando per i grandi movimenti collettivi come il femminismo e il self-help, sino alla spettacolarizzazione della politica anni ottanta. Ma il mezzo di totale attuazione dell’ontologia emozionale – ovvero della capacità di dare consistenza pubblica alle emozioni per coinvolgere vaste schiere di persone nella realtà del proprio sé (sofferente) – sono i media digitali e nella fattispecie i social media. Il tema della sofferenza è utilizzato da Illouz come grimaldello per scardinare, senza troppa efficacia, la concezione che Foucault espone nel testo sopra citato. Secondo l’autrice, il rapporto potere/piacere sarebbe concepito dal filosofo come un tratto dominante dell’attività umana laddove tale termine – che 10. Ivi, pp. 57-58. 11. In Italia Alberto Abruzzese è tra i principali sostenitori dell’idea che il reality show sia un anello di congiunzione tra i vecchi media generalisti e le nuove forme espressive che si sviluppano con il digitale. 12. E. Illouz, Intimità fredde. Le emozioni nella società dei consumi (2007), Feltrinelli, Milano 2007
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a ben vedere Foucault adotta come sinonimo di sessualità o libido e con dovuto distacco da una banale lettura edonistica – non si contrappone al dolore, bensì può sussumerlo. Del resto le pratiche non ortodosse o devianti a cui il filosofo allude (come il masochismo, il sadismo o la sodomia) si pongono proprio al confine tra l’esperienza del piacere e quella del dolore. Mentre il dolore per Illouz è piuttosto un sinonimo di “esperienza autentica” che si contrappone al paesaggio desertificato dalla spettacolarizzazione anni ottanta, basata sulla Santa alleanza tra artificialità e edonismo. Nell’epoca inaugurata dagli anni novanta – che in altri luoghi ho definito come Diluizione13 – si moltiplicano le strategie di esplicitazione della verità e della realtà del sé. Dall’abbattimento politico dei confini tra scena e retroscena a una nuova stagione di impegno civile dei giovani, dalla riscoperta delle radici e dell’appartenenza in perfetto stile glocal alla valorizzazione dell’intelligenza emotiva sul lavoro e nelle relazioni sociali. Pertanto sono spuntate le armi della vecchia critica, in particolare di quelle che polemizzano contro i dispositivi della confessione che secondo Giorgio Agamben muovono dalla “soggettivizzazione” alla “desoggettivizzazione” di coloro che ne fanno uso.14 La nuova tecnologia, va ripetuto, non è lo strumento di attuazione di tali strategie ma ne è la precondizione; essa palesa e amplifica un discorso che potrebbe svolgersi anche in sua assenza. Nell’epoca che più di ogni altra ha esaltato il potere del cambiamento tecnologico, viviamo Il tempo delle vittime,15 in cui la sofferenza subita o autoinflitta dei protagonisti della vita pubblica, ma anche da coloro che si collocano ai suoi margini, diventa il fulcro di un’efficace strategia di autopromozione. Quella della vittima è la figura vincente in un mondo a forte intensità emozionale che può utilizzare una nuova forma di capitale per acquisire 13. N. Barile, Brand new world. Il consumo delle marche come forma di rappresentazione del mondo, Lupetti, Milano 2009. 14. G. Agamben, Che cos’è un dispositivo?, nottetempo, Roma 2006. 15. C. Eliacheff, D. Soulez Lariviere, Il tempo delle vittime (2007), Ponte alle Grazie, Milano 2008.
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vantaggi sociali di vario genere. Si può parlare addirittura di una strategia che tenta di fissare un preciso posizionamento esistenziale in un mondo sempre più “fluido” e sfuggente. Fin quando il vittimismo rimane limitato a fasce marginali di popolazione, esso custodisce un certo valore escatologico. Quando la vittima è invece un personaggio pubblico o il potente di turno, tale concezione acquisisce il senso di un’identità supplementare che si aggiunge a quella di partenza senza sopprimerne il vantaggio iniziale. Il vittimismo come scudo e come fonte di legittimazione appartiene alla storia dell’uomo, ma il vittimismo neotot mira ad abbattere qualsiasi barriera di separazione tra i protagonisti e gli spettatori, nello spettacolo del potere. In tal senso occorre sottolineare ancora una volta la netta discontinuità rispetto alle concezioni passate. Anche il recente lavoro di Viktor Mayer-Schönberger16 raffigura la tecnologia come un’esternalità rispetto al valore sentimentale della memoria, per riferire di un processo che giunge oggi al suo apogeo: la perdita vitale dell’oblio. Al contrario dell’orizzonte della scomparsa17 di eco baudrillardiana, siamo oggi nella condizione opposta di una sfacciata impossibilità dell’oblio. Se tale processo è iniziato con la stessa storia dei mezzi di comunicazione, con il Web e con i sistemi di geolocalizzazione esso raggiunge un livello inaudito nella capacità di registrare e di tracciare ogni nostra minima attività quotidiana. Cosicché una sorta di “impronta elettronica” degli utenti permane per lunghi periodi nella memoria “perfetta” delle macchine. Tali considerazioni, che rievocano uno spettro ben conosciuto almeno dalle riflessioni sulla società del controllo,18 oggi devono spostare la nostra attenzione verso la sfera culturale. Ancora una volta il problema non è tanto il modo in cui i nuovi mezzi si sovrappongono 16. V. Mayer-Schönberger, Delete. Il diritto all’oblio nell’era digitale (2009), Egea, Milano 2010. 17. Commentando la massima di Kamper “quando l’orizzonte scompare, allora spunta l’orizzonte della scomparsa”, Baudrillard prova a rivendicare uno spazio di resistenza della memoria contro l’insolazione del senso perpetrata dal simulacro digitale e del Tempo reale (ovvero l’idea che tutto possa significare allo stesso tempo). Cfr. J. Baudrillard, Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà? (1995), Raffaello Cortina, Milano 1996. 18. D. Lyon, La società dell’informazione (1987), il Mulino, Bologna 1991.
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quasi completamente alla nostra vita quotidiana, protocollando sentimenti, stati d’animo e reti di relazione. È ancora più preoccupante il modo paranoico con cui le persone reagiscono alla totale soppressione dei confini dell’intimità, nel tentativo di ripristinare un ordine sentimentale oramai impossibile. In questa intercapedine trova spazio d’azione e di legittimazione la cosiddetta gossip society che diverge dalle precedenti dimensioni inautentiche della chiacchiera e del pettegolezzo a causa di una duplice impossibilità: quella di rinunciare all’uso di queste tecnologie culturali; quella dell’adeguamento cognitivo19 che vorrebbe normalizzare la reazione morale nei confronti della scomparsa dell’intimità o della privacy. Non a caso una delle ossessioni più diffuse nei social network alla moda è la fatidica applicazione che ci consentirebbe di monitorare le persone che visitano il nostro profilo. Come dire che alla diffusione incondizionata del dispositivo della confessione – che obbliga vaste schiere di utenti ad allestire il proprio sé digitale con contenuti ad alta intensità esperienziale (foto di viaggi, pezzi d’intimità, relazioni sentimentali, gusti e inclinazioni personali ecc.) – corrisponde la volontà implicita di monitorare ed eventualmente sanzionare coloro che vanno a fruire liberamente e legittimamente di quei contenuti offerti alla collettività. La confessione innesca il vouyerismo e conseguentemente lo sanziona, come effetto di nuove ondate di panico morale. Dunque il problema risiede nell’uso sociale di una “tecnologia culturale”20 che impone una radicale promiscuità tra il mezzo e il suo utente. Non è un caso che il saggista Lee Siegel commenti una variante del famoso “the medium is the message” di McLuhan – ovvero “the user is the content” (l’utente è il contenuto) – nel tentativo di demolire i miti combinati dell’autoespressione e del “confezionamento del sé” (“packaged selves”).21 Soprattutto la prima parte del testo interviene sulla stret19. V. Mayer-Schönberger, Delete, cit. 20. A. Abruzzese, D. Borrelli, L’industria culturale. Tracce e immagini di un privilegio, Carocci, Roma 2001. 21. L. Siegel, Against the Machine. How the Web Is Reshaping Culture and Commerce – And Why It Matters, Spiegel & Grau, New York 2008.
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ta relazione tra l’uso del Web 2.0, le nuove strategie di posizionamento esistenziale e l’etica o lo stile di vita della nuova borghesia creativa travestita da bohème (i famosi bobo in paradiso di David Brooks22). Ma anche Siegel rientra nel vecchio schema critico quando riflette sulle parole-chiave di “scelta e accesso” che estendono le capacità di azione dei soggetti, abbattono le barriere dello spazio-tempo e determinano contemporaneamente una nuova forma di omogeneizzazione.23 Il dispositivo della confessione, le nuove forme di vittimismo e i “packaged selves” sono tre modelli di ricostruzione dell’identità in chiave neotot che non nascono nella rete e non si esauriscono nell’uso dei social media ma in questi trovano un valido strumento di attuazione e di potenziamento. La rete consente di dare forma e visibilità globale a un dato profilo identitario e al contempo di far penetrare negli interstizi più reconditi dei mondi di vita la logica valorizzante delle marche globali. Tuttavia sarebbe assolutamente errato considerare i nuovi media come la variabile indipendente nella diffusione di questa tendenza culturale. Essi sono in alcuni casi l’ambiente, in altri il mezzo, in altri ancora il contenuto di uno stile di vita più complesso, con cui la tecnologia dialoga in maniera estremamente dinamica. Oggi dobbiamo confrontarci con una nuova egemonia che parte dal basso e che passa per un set di valori definibili a partire dalle tre categorie di esperienza, emozione e relazione. La potenza che si sprigiona dall’uso combinato di queste categorie mina alle fondamenta lo schema universale dei diritti dell’uomo e impone una nuova forma di discriminazione fondata su un nuovo tipo di capitale. Se quello “culturale” alla Bourdieu era ancora governato dalla struttura ordinatrice dell’habitus24 che ne re22. D. Brooks, Bobos in Paradise. The New Upper Class and How They Got There, Simon & Schuster, New York 2000. 23. L. Siegel, Against the Machine, cit., pp. 66-67. 24. “L’habitus è infatti contemporaneamente principio generatore di pratiche oggettivamente classificabili e sistema di classificazione (principium divisionis) di queste pratiche. È proprio nel rapporto tra queste due capacità che definiscono l’habitus [...] che si costituisce l’immagine dello mondo sociale, cioè lo spazio degli stili di vita” (P. Bourdieu, La distinzione. Critica sociale del gusto, 1979, il Mulino, Bologna 1983, p. 173).
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golava la coerenza interna, gli stili di vita che dominano il presente sono invece ponderati per amministrare e valorizzare la contraddizione. Possiamo dunque ragionare nei termini di un posizionamento esistenziale che sfrutta gli assets del capitalismo emozionale, esperienziale e relazionale per costruire nuovi profili identitari. Sullo sfondo delle forme di consumo contemporaneo non ritroviamo più la tanto avversata “razionalità strumentale” semmai una nuova forma di emozionalità strumentale. Per questo motivo, forse, le più recenti teorie del marketing postkotleriano sono giunte a recuperare i concetti portanti di alcuni orientamenti filosofici del Novecento. Nella fondazione teorica di Bernd Schmitt, padre del marketing esperienziale,25 si fa difatti esplicito riferimento all’Erlebnis e alla sua traduzione nella filosofia di Merleau-Ponty e di Husserl. Dal primo Schmitt ricava la concezione che il mondo non è un oggetto esterno al soggetto ma il campo all’interno del quale si producono pensieri e percezioni,26 mentre con il riferimento a Husserl sull’intenzionalità dell’esperire egli vorrebbe sostenere che l’esperienza è sempre indotta e mai autoprodotta (self-generated). Lo stesso Schmitt evidenzia la stretta relazione tra sfera emozionale e sfera esperienziale, tanto che ogni esperienza è collegata a un’emozione e nella maggior parte dei casi il nome di quell’emozione (come odio, amore, attrazione ecc.) è usato per descrivere l’esperienza che la produce. La categoria di esperienza si impone pertanto come dimensione totalizzante, onnipresente, imprescindibile, capace di tagliare trasversalmente lo spazio virtuale e quello della realtà effettuale. Per questo la sua traduzione nei termini del nuovo marketing gli assegna un valore indiscutibilmente positivo. Che siano esse materiali, cognitive, affettive, sessuali, ludiche, sensoriali ecc. ogni gruppo sociale persegue l’obiettivo di cumulare un numero significativo di esperienze. Si passa pertanto dalla marca come definitore di identità (Brand id.) attraverso naming, logo, slogan, awareness e image, alla mar25. B.H. Schmitt, Experiential Marketing. How to Get Customers to Sense, Feel, Think, Act, and Relate to Your Company and Brands, Free Press, New York 1999. 26. Ivi, p. 60.
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ca intesa come experience provider attraverso la sensorialità, l’affettività, la relazione creativa e i vari lifestyles. Non a caso il concetto eminentemente comunicativo di format ha subito una molteplice estensione a tutto ciò che fornisce senso attraverso una certa esperienza, dalle fiction televisive agli espositori nei supermarket. Ma come si relazionano le categorie di esperienza ed emozione alla socialità gestita via social network? Se doveste decidere di abbandonare Facebook scoprireste che, per impedire un gesto tanto sconclusionato, il network allestisce una galleria dell’orrore fatta da tutti i profili degli “amici” che sfilano sullo schermo e si “strappano” i capelli pregandovi di non andare via: “resta con noi”, “era così bello stare insieme”, “potremmo divertirci ancora” ecc. sono solo alcune formule riferite a persone del tutto inconsapevoli dell’utilizzo coatto delle loro identità virtuali per dire cose che probabilmente non pensano. Certo, si tratta solo di un gioco ma anche della dimostrazione pratica di come il network – entità imponderabile e intangibile – utilizzi spregiudicatamente il nostro sistema di relazioni per rinforzare la nostra fidelizzazione alla sua causa. Tale premessa ci ricondurrebbe sulla via di una visione apocalittica ed eterodiretta se non fosse per il fatto che quelle relazioni che il network gestisce sono esse stesse il vincolo di appartenenza al network stesso. Ovvero noi apparteniamo al network perché esso è la rappresentazione formale del sistema delle nostre relazioni e se dovessimo rinunciare alla piattaforma tecnologica che ci permette di gestirle non potremmo mai rinunciare alle relazioni stesse, anche se queste sono alimentate dal network. Nella fase più avanzata di espansione delle tecnologie digitali, il social network dimostra come il vero contenuto delle sue attività è il suo utente e la rete di contatti che esso coltiva nel corso del tempo ovvero la relazione stessa. Oltre lo spettro anaffettivo di uno schema universale dei diritti che può rispettare l’altro solo se lo considera come unità omogenea e intercambiabile, il fascismo emozionale predica ovunque la preminenza dell’esperienza singolare, irripetibile, profonda, a cui si accede anche tramite la tecnologia. Ho già par88
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lato altrove dello slittamento dall’idea di soggetto come fonte astratta del diritto a quella di soggetto come contenitore di esperienze.27 Nella nuova economia delle esperienze non importa se l’autenticità culturale sia un traguardo – come nel caso dei nuovi marketing che tentano di dare un’anima a prodotti, campagne di comunicazione, punti vendita ecc. – oppure un punto di partenza – come accade nelle attività di autopromozione o di selfmarketing sviluppate dalle persone nei social network, nel sistema post-spettacolare o nell’industria turistica. In un modo o nell’altro disporre di una nuova esperienza può garantirci una posizione di vantaggio, per competere nell’immenso mercato delle identità.
27. N. Barile, La mentalità neototalitaria, Apogeo, Milano 2008.
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Archivio Enzo Paci A oltre trent’anni dalla morte di Enzo Paci, con il moltiplicarsi degli studi e delle iniziative legate alla sua opera, l’Archivio chiede a chi ha scritto e scriva su Enzo Paci di voler gentilmente inviare copia del proprio lavoro all’Archivio stesso. Lo scopo evidente è quello di riunire e fare conoscere lavori e ricerche, e i loro autori, per favorire altri studi. Nello stesso ternpo si intende garantire la presenza di una collezione completa di scritti di e su Enzo Paci nel luogo che ne conserva manoscritti e biblioteca. L’invito si rivolge anche a chi abbia scritto una tesi di laurea o una dissertazione di dottorato su Enzo Paci e/o sul contesto culturale in cui si è mossa la sua attività. Al momento la collezione è parziale e sembra utile completarla. Si potrà in questo modo compilare anche un elenco degli studiosi interessati. Inoltre si è avviata l’acquisizione e la catalogazione dell’epistolario. Chiediamo pertanto a chi sia in possesso di lettere di Enzo Paci di collaborare, inviandoci fotocopia delle lettere; se ne ha tenuto copia e non ha nulla in contrario, sono benvenute anche fotocopie delle lettere del corrispondente. L’indirizzo al quale inviare il materiale è: Archivio Enzo Paci via Beato Angelico 5 20133 Milano Ringraziamo tutti anticipatamente e raccomandiamo di accludere al materiale anche il proprio recapito.
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Dispositivo Facebook
Facebook è un dispositivo di potere o anche un’occasione per guadagnare spazi sociali di libertà? Bisogna stare fuori, ed è davvero possibile e opportuno farlo? A queste domande rispondono gli interventi raccolti nella seconda sezione del fascicolo.
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New media, dispositivi à double face RAOUL KIRCHMAYR
a tele-tecnica ha suscitato una preoccupazione meditata tra i più sensibili autori del XX secolo, quando essa è comparsa sotto forma di invenzioni che hanno trasformato lo scenario del nostro quotidiano: dal telegrafo fino ai più sofisticati e attuali sistemi di monitoraggio satellitare. Sul motivo della preoccupazione per la presenza inquietante della tele-tecnica si potrebbe costruire una genealogia, più o meno filosofica, più o meno critica, dei gesti della mano: alzata come a opporre un ostacolo, e dunque come a impedire un passaggio, oppure tesa come ad accompagnare – dentro o fuori dallo spazio domestico – o ancora, più semplicemente, aperta per afferrare e dunque fare uso delle protesi tele-tecniche. Da qui le note diffidenze filosofiche, sulle quali Derrida ha scritto pagine molto significative, riflettendo per esempio sulle idiosincrasie di Heidegger e riconoscendo nel rapporto tra pensiero e Gestell una posta in gioco filosofica importante.
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1. La mano La filosofia è forse il rovescio dell’abitudine. O quanto meno lo è quel pensiero che, aderendo al quotidiano, lo fa diventare oggetto di stupore e di domanda. Nel regime delle nostre abitudini, sono stati ripetuti gesti della mano, ciò che ha instaurato un regime di familiarità con la tele-tecnica, attribuendole perfino una seconda natura. Non è così che, tra i nostri oggetti, proprio 92
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quelle protesi hanno acquisito rapidamente irrevocabili diritti di cittadinanza? Le nostre mani hanno appreso ora a far ruotare con abilità un selettore a disco o a digitare dei tasti, per “cambiare canale” o per comporre numeri, ora a selezionarli da memorie miniaturizzate, o a esercitare pressioni sempre più dolci su una tastiera di computer portatile collegato wi-fi con la rete mondiale. Il gesto della mano ha così prodotto una compressione dello spazio, fino quasi all’annullamento, e ad amplificare gli effetti di prossimità sonora o visiva. Il gesto della mano, preordinato e reso docile dalla tele-tecnica, ha richiesto movimenti sempre più complessi, per quanto ogni volta scomponibili in unità semplici e, come tali, in grado di essere ripetuti, appresi ed eseguiti. Ogni sequenza di movimenti, mediante le protesi teletecniche, comprime lo spazio e il tempo. Siamo addestrati quotidianamente alla velocità, e non smettiamo di esserlo. Mediante la tele-tecnica la trasmissione avviene istantaneamente, la rete mondiale permette la presenza virtuale ovunque. L’addestramento coinvolge la mano e l’occhio, al contempo. O la mano e la voce. Il senso delle protesi tele-tecniche si disegna in negativo, in relazione alla mano e ai gesti che essa compie. Cosa faceva una mano che per esempio operava sul tasto di un telegrafo, ottant’anni or sono? Oltre a trasformare un movimento meccanico in impulsi elettrici codificati, il gesto intermittente sul tasto comprimeva lo spazio del cielo, svuotandolo della presenza degli dei. Viaggiando in un cielo progressivamente disabitato dal numinoso, per Warburg il messaggio del telegrafo aveva il potere di sottrarre all’uomo parti della sua anima. Ora, se i media, come ogni dispositivo tele-tecnico, sottraggono anima, essi la restituiscono pure nella forma di supplementi. 2. Books Secondo la versione ufficiale, di cui non importa affatto stabilire la veridicità, l’inventore dell’interfaccia Facebook fu mosso da un impulso nostalgico: ritrovare vecchi legami e poter condividere parti di “vita” con gli amici ritrovati: foto, impressioni, parole ecc. Da cui l’idea: un’agenda (book) elettronica – infini93
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tamente espandibile, secondo una logica di rete – in cui ciascuno potesse avere una voce e così una identità virtuale, potenzialmente sempre connessa con tutti gli altri utilizzatori disposti a condividere legami. Facebook, così, è diventato il modo di “essere connessi”. Alla rete, certo, ma soprattutto a molti altri utilizzatori. Con la comparsa delle interfacce dei social network, è tutta una semantica della pagina (page) e del libro (book) che è al lavoro. Pagine e libri digitali, virtuali, le interfacce come Facebook mettono in scena una rappresentazione del mondo virtuale come libro digitale che ci permette di comprendere alcune implicazioni della recente trasformazione nel panorama dei new media. Infatti, dalle forme cartacee di reperibilità, come la guida telefonica (telephone book) a quelle digitali, come Facebook, si gioca una parte importante dell’odierna configurazione mediatica. La promessa della rivoluzione pare consistere nella salvaguardia del nome proprio: in tempo di anonimato, l’uomo della folla ha, finalmente, la possibilità di conservare il suo nome su un supporto digitale e, con esso, una “vita” intera. Come si vede, siamo ben al di là dei warholiani quindici secondi di celebrità televisiva. Come digital book, l’interfaccia di Facebook segue il principio di un album fotografico (ancora book) infinitamente espandibile,1 al quale cioè possono essere aggiunte n pagine, corrispondenti ad altrettanti “contatti”. Espandibile all’esterno, la pagina di Facebook è pure infinitamente espandibile al suo interno, per moltiplicazione di elementi contenibili. Monade in relazione con altre n monadi, ogni pagina di Facebook è unica in virtù del suo essere designata dal nome proprio, che è il significante di ancoraggio alla ragnatela delle relazioni virtuali. Il gesto della mano, virtualizzato, sfoglia le pagine del book memoriale, vi imprime delle tracce. Ogni monade diventa così un archivio virtuale che cresce su se stesso, per accumulo e per con1. Naturalmente c’è un limite materiale dell’espansione, corrispondente alla quantità di memoria disponibile.
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divisione, aprendosi al contempo ad altre monadi con porte e finestre. C’è qui in gioco una trasformazione del regime di visibilità. Ancora una volta, questa trasformazione avviene tra l’occhio e la mano. Ma c’è pure il volto (face), la faccia di ogni monade virtuale. Ovvero un volto il cui profilo si definisce man mano che l’archivio delle tracce lasciate cresce. Eppure come prodotto della tarda modernità liquida, Facebook racconta pure una storia di volti che scompaiono a ritmo crescente, rimpiazzati dai loro sostituti virtuali. “Nell’epoca della massima estraneazione degli uomini fra loro, dei rapporti infinitamente mediati che sono ormai i loro soli – sono stati inventati il film e il grammofono. Nel film l’uomo non riconosce la propria andatura, nel grammofono non riconosce la propria voce.”2 La lista può essere ulteriormente ampliata, e oggi possiamo dire che Internet vi ha pure aggiunto il volto. Dell’odierna scomparsa del volto, sostituito con il prodotto di tele-tecnologie (dalla fotografia, ciò va da sé, alla webcam), vi sono indizi significativi. Supplemento d’anima per l’avvenuta scomparsa del volto, Facebook, il libro delle facce, è il sintomo del presente abisso dell’anonimato. 3. Presenze (spettrali) Le tele-tecnologie comportano un potere di cancellazione della presenza (corporea, del gesto dunque) la quale viene sostituita da simulacri in un potente sistema di mediazione virtuale. I media infatti erodono la presenza e la ricostruiscono virtualmente in un registro mitico. La spirale mito-tecnica, infatti, non cessa di autoalimentarsi. La “logica spettrale” che presiede all’autoalimentazione del mito intacca il presente. Una parte importante del dibattito filosofico contemporaneo ha discusso la nozione di presente, da intendere non come pienezza autosufficiente, come per esempio il “presente vivente” della fenomenologia, ma come un presente strutturalmente fes2. W. Benjamin, Franz Kafka (1934), in Angelus Novus. Saggi e frammenti, Einaudi, Torino 1995, p. 302.
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surato e parassitato da dispositivi tecnici, in primis il linguaggio. C’è una de-presentazione che lavora il presente, e senza di essa non potrebbe esserci alcun dispositivo. Tale de-presentazione ci porta a pensare una “virtuattualità” che prende il posto del “presente vivente”. I dispositivi descritti da Foucault lavorano grazie alla forza di sostituzione della “presenza vivente” con simulacri: rappresentazioni, immagini, mappe, diagrammi, reti. In ogni istante e in ogni luogo in cui c’è un tele-dispositivo all’opera, esso disancora il presente vivente e lo restituisce mediato, cioè attraverso l’ausilio strumentale di un medium tecnico. Con una duplice conseguenza: non solo il presente restituito virtualmente è spettrale, ma non si può più pensare che vi sia un “presente vivente” come origine, fondamento e vita in quanto tali, che possa essere riguadagnato. Il ritorno al mondo della vita non può più essere visto come alternativo o, peggio, prioritario rispetto al mondo della tecnica e della virtualità. Ecco perché qualsiasi ricorso filosofico al fondamento risulta criticamente inefficace nella descrizione del nostro presente. Siamo in una condizione di s-fondamento del presente: la “realtà” tele-tecnica scava nell’assenza di fondamento. La conseguenza più evidente di questa tendenza è che la presenza diventa interamente soggetta all’ordine dominante di un sistema di costruzione dell’immaginario sociale e collettivo. La cancellazione della presenza è la condizione necessaria e sufficiente per la sua virtualizzazione. È l’effetto più massiccio della “logica spettrale” che opera nei media. I media, letteralmente, sono mezzi, dispositivi il cui potere si amplifica a misura della loro forza di messa in scena spettrale. Sono mezzi che contengono in sé i loro stessi fini. I media sono dunque auto-teleologici, in essi mezzi e fini coincidono, per quanto si può continuare a credere che i mezzi siano neutri, “puri mezzi” dipendenti da fini imposti loro dagli uomini. Il primato dell’autòs, che presiede al loro funzionamento, ne fa delle straordinarie macchine omeostatiche. “Macchine da guerra” che prendono di mira l’eteron e lo assimilano. Il principio regolatore della sfera dei media è infatti l’omologazione del96
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l’altro da sé attraverso la sua riduzione a rappresentazione. Fornendo continue rappresentazioni dell’altro da sé, i media assimilano la “vita”. Rappresentandola, essa viene restituita spettralmente, tanto che risulta difficile pensare alla “vita” (quella che, con un’espressione un po’ antiquata, potremmo chiamare “vera” o “autentica”) senza dover avere a che fare, costantemente, con l’ospite di una “vita” diafana che ne prende massicciamente il posto. Rispetto a questa “vita” diafana e spettrale – che si presenta come “vera vita”, secondo la logica di una erosione fantasmagorica dell’ordine della “realtà” – l’esperienza “in prima persona” perde peso e senso. Perde peso perché viene alleggerita del suo carico umano, troppo umano, di angoscia e di corporeità, perde senso perché della possibilità di fare esperienza non rimangono che alcuni intermittenti bagliori. In questo quadro la “nostra” “vita” non si reperisce più nemmeno rispetto all’illusione. 4. Anestesia I media sono anestetici nel doppio senso della parola. Nel senso più banale, i dispositivi digitali fungono da placebo per l’angoscia, la sofferenza, il “peso” del “vivere”. Nel senso meno banale, essi implicano la cancellazione della dimensione aisthetica – dunque l’ancoraggio al “mondo-della-vita” – che al tempo stesso viene garantita tele-tecnicamente. Sono come una sottile lamella che si inserisce nella carne delle cose e così diventa indispensabile affinché vi sia con-tatto (tactum, tangere); contemporaneamente la lamella impedisce che vi sia con-tatto nel senso del “faccia-a-faccia”: non c’è più faccia, cioè volto, con la sua unicità, perché il corpo è lo s-radicato, nel senso che esso è il rimosso per eccellenza (parzialmente o totalmente), fino al punto che non solo il tangere è chiamato in causa, ma pure il cum viene a sua volta spettralizzato. È tutta la questione della comunità (communitas) – “reale” o “virtuale” (virtual community) – a concentrarsi nel con-tatto, nell’essere-(in-)(con-)tatto ridisegnato dai new media. Il compito nuovo consiste nello scrivere tutta una grammatica di un essere-(in-)(con-)tatto come grammatica 97
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del communis. La valenza politica dei new media, dunque, trova la sua radice nella semantica dell’essere(in-)(con-)tatto e della communitas. Questa grammatica, inoltre, dovrebbe poter offrire una sintassi per descrivere e articolare i massicci fenomeni di ritorno del rimosso, in primo luogo del corpo. Se il corpo è il rimosso in quanto s-radicato, la sua virtualizzazione non può che accentuarne la ricorrenza ossessiva, la sua hantise. Le rappresentazioni mediatizzate, più o meno triviali, dei corpi non fanno altro che testimoniare di questo processo massiccio di disinvestimento e di reinvestimento sul corpo: è così che esso, da punto di applicazione dei dispositivi di biopotere, diventa oggetto di investimento mediatico. A voler ipotizzare una diagnosi con una formula troppo rapida e inadeguata, si potrebbe dire che il malessere della civiltà dei media procede di pari passo con la fantasmatizzazione del corpo e che le moderne forme di biopotere e di biopolitica non sono pensabili senza di essa. Con ciò – spostando leggermente il regime metaforico – possiamo dire che i media adempiono a una decisiva funzione di velo: essi velano e dunque, al tempo stesso, ri-velano. Cioè ri-velano perché velano alla seconda potenza. La conseguenza è che l’ordinaria opposizione tra vero e falso non tiene più: tutto può essere di diritto vero e falso, ovvero tutto è falso e proprio per questo è vero. È quello che potrebbe essere chiamato l’effetto lamellare dei media, che a sua volta spinge verso la condizione anestetica. L’inaridimento dell’esperienza dovrebbe essere messo in relazione con la lamella dei dispositivi mediatici e tele-tecnici che operano la rimozione e la fantasmatizzazione del corpo. L’iscrizione del corpo nella griglia del dispositivo è di conseguenza un’operazione essenzialmente anestetizzante: la protesi tecnica è infatti ciò che garantisce il con-tatto, eppure si frappone tra lembo e lembo in contatto. Non c’è contatto senza dispositivo, ma tale contatto – man mano che i poteri dei dispositivi si amplificano, così come le loro superfici di applicazione – non potrà che comportare una sempre minore sensibilità delle superfici poste in contatto. È il ben noto effetto di saturazione desensibi98
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lizzante prodotto dalle tele-tecnologie: quanto più aumenta l’esposizione tanto più aumenta l’an-estesia. 5. Recto/verso Ma quale corpo viene disinvestito e reinvestito? È anzitutto il corpo pulsionale, di per sé privo di unità. I dispositivi tele-tecnici intervengono sulla dispersione pulsionale del corpo. La costruzione dell’identità virtuale, di conseguenza, sarà funzionale alle dinamiche narcisistiche, con quanto di difensivo e di mortifero esse mettono in gioco. L’analisi dell’irretimento pulsionale del corpo sussunto dai media mostra come la struttura dei dispositivi sia à double face: a ciascuna faccia (recto e verso) corrisponde un movimento doppio e alternato di espropriazione e di appropriazione (exappropriazione). Le pagine del book virtuale sono à double face, costruite sulla struttura dinamica di una reversibilità exappropriante. Di fatto sono un impianto tecnico, una protesi, che funziona da trappola tesa ad amplificare le dinamiche pulsionali e a offrirne una meta. La pagina virtuale del dispositivo assolve alla funzione di “finestra” mediante la quale ci si affaccia nel mondo virtuale. Così, se considerata sotto il profilo del corpo exappropriato dal dispositivo, la monade virtuale non potrà che essere una deformazione amplificata del “corpo vissuto”. La pagina-finestra è il varco attraverso cui – privi di “corpo vissuto”, ma grazie al solo gesto della mano dotata di ausili tecnici (tastiera, mouse) e associata all’occhio e alla voce (webcam, cuffie e microfono) – canalizziamo i flussi pulsionali verso oggetti virtuali. È l’apertura di un orizzonte in cui è possibile la proiezione immaginaria di ciascuno, cioè di tutti e di nessuno. Se di ciascuno scompare il volto, i giochi di cornice e di entrata-euscita dal ruolo non appaiono che casi particolari delle dinamiche pulsionali virtualizzate. La liquidità del nostro mondo, pertanto, è il risultato di una canalizzazione e di un direzionamento dei flussi immessi nella sfera del virtuale. Dal lato del suo recto, il dispositivo à double face funziona a cavallo tra la vita e la morte: promettendo un più-di-vita attraverso una fantasmatica ricostruzione identitaria di sé che passa attraverso una narrazio99
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ne plurale (mediante i “post”, i link, le immagini ecc., cioè mediante tutte le risorse dei new media), il dispositivo si aggancia dal lato di una mortificazione della vita: è la dinamica della sottrazione e della perdita che prelude alla costruzione immaginaria del sé virtuale. Ma c’è pure il verso della pagina-finestra della monade: l’apertura della finestra infatti comporta di per sé una visibilità virtuale di ciascuno come “più di vita”. La finestra funge perciò da confine mobile, reso oscillante dai due tempi dell’exappropriazione, una specie di fort e di da dell’accesso e della fruizione virtuale. Il tempo del fort è quello dell’esposizione di ciascuno. Perciò il dispositivo tele-tecnico non è più del tutto riconducibile al modello foucaultiano della sorveglianza e dell’autosorveglianza. Di fatto, con lo sviluppo delle tecnologie del virtuale, si entra in un nuovo paradigma che – per quanto possa conservare alcune funzioni del vecchio – comporta delle trasformazioni significative. Sono queste che ci spingono a parlare di novità e di nuovi dispositivi. Non più sorveglianza e autosorveglianza di ciascuno, dunque, ma esposizione di ciascuno a ciascuno, cioè a uno sguardo anonimo dentro uno spazio di visibilità omologato, preformato e tuttavia plastico. Per questo Facebook non è che un’altra forma sintomatica dell’epoca in cui l’occidente tardo-capitalista sfigura e riconfigura gli spazi di visibilità: i malls delle periferie urbane, i viaggi low cost e il world wide web non potevano che essere figli dello stesso tempo. Con il paradigma dell’esposizione virtuale ciò che risulta decisiva è la captazione immaginaria che avviene dinnanzi a uno sguardo. Per i social network tale sguardo è quello di un altro immaginario che si moltiplica quanto più si moltiplicano i “contatti” – abbiamo infatti a che fare con un’azione a distanza che “tocca” il soggetto esposto: o, in altre parole, ci si espone per farsi toccare – dallo sguardo altrui. La monade ha porte e finestre, ed è visibile da qualsiasi altra monade con cui è “in contatto”. Ora, è su questo secondo movimento, di esposizione di sé, che si possono innestare ulteriori micro-dispositivi che intervengono sull’oscillazione dell’exappropriazione. Se il “dispositivo Facebook” è un operatore di (de)soggettivazione, esso de100
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soggettivizza nella misura in cui risoggettivizza spettralmente: “Quel che avviene ora è che processi di soggettivazione e processi di desoggettivazione sembrano diventare reciprocamente indifferenti e non danno luogo alla ricomposizione di un nuovo soggetto, se non in forma larvata e, per così dire, spettrale”.3 Il processo è quello della produzione fantasmagorica di parti di sé come “cose” rappresentate, dunque come potenziali merci. Ciò che viene esposto sono le disiecta membra di un soggetto-esploso e che entra nel dispositivo perché non smette di esplodere. La finestra, in questo caso, diventa una vetrina, dove ciascuno – esponendosi in forma estraniata – è produttore di immagini di sé, le quali diventano merci proprio perché sono prodotte per essere esposte agli sguardi e consumate. Brandelli di “vita”, enigmatici per gli stessi soggetti, vengono dati in pasto tanto agli sguardi affamati di “contatti” quanto all’occhio elettronico dei poteri. 6. Connessioni Il folle limite di Facebook come degli altri social network è un iperbolico essere-connesso per tutto il tempo della vita, dunque un vivere-in-connessione, secondo una semantica dell’essere in relazione che dovrebbe essere articolata con quella del con-tatto: la connexio di un nexum che è il legame della mutua relazione e dello scambio reciproco, di un mettere in comune (communitas). Che forme prende, dunque, questa “vita”-in-connessione che proietta costantemente le proprie tracce – sotto forma di immagini e di segni di sé – sulla bacheca di un eterno-presente che diviene, istante dopo istante? Affidandosi al flusso del “presente”, Facebook, così, non può che essere “alla moda”. È la quintessenza dell’essere-alla-moda, se quest’ultimo coincide con il trionfo dell’effimero. È l’effimero di una costante messa a giorno, di un aggiornamento che, giorno per giorno, promette un’esposizione di sé che, potenzialmente, potrebbe durare per tutta la “vita”. In questo modo il dispositivo à double face mostra la 3. G. Agamben, Che cos’è un dispositivo?, nottetempo, Roma 2006, pp. 30-31.
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sua faccia più spaesante, capovolgendo il rapporto “vita” - iscrizione della “vita”. Sulla bacheca si affiggono, all’istante e giorno dopo giorno, Zettel consegnati più o meno pêle-mêle alla corrente, come altrettanti ami da pesca, per sguardi che distrattamente vi si poggiano, catturati per pochi attimi. Post-it di un libro della “propria vita” le cui pagine, scritte qui e là, più spesso lasciate in bianco, non fanno che continuare a marcare un’assenza e a iscriverla in uno spazio smaterializzato. La pagina di Facebook è perciò testamentaria, come se ogni giorno, virtualmente in ogni momento della propria vita, l’“utente” non facesse altro che registrare su un supporto elettronico condiviso la propria ultima presenza. L’essere-connessi è un assumere fin dal primo istante la possibilità della scomparsa, la possibilità che la relativamente ultima iscrizione sia l’assolutamente ultima. Da qui la recentissima e ambigua moda del “cancellarsi da Facebook”, gesto che non cancella né lo sradicamento della “vita” né il recupero di un “più di vita” al riparo dal va-e-vieni tra estraneazione e (ri)appropriazione di sé. Facebook non è che il nome di una trasformazione inaudita della nostra possibilità di fare (ovvero di non fare più) esperienza. In questo andirivieni umbratile tra perdita e ricucitura virtuale di sé, movimento che rende visibile la consistenza anestetica della nostra esperienza, a ogni istante la pagina può essere rinfrescata (refresh) per poter accogliere l’iscrizione più recente di un brandello di “vita”. Tuttavia, la promessa di una visibilità testimoniale è trascinata via dalla stessa corrente, il succedersi dei giorni, delle ore, dei minuti e perfino dei secondi (12 secondi fa – refresh – meno di un minuto fa...). Facebook, contando le date, e per ciascuna data ogni secondo, promette all’utente una immortalità virtuale. Anche se questi dovesse “morire” “realmente”, rimarrebbero le sue foto, la memoria dei suoi post, l’elenco dei suoi amici ecc. La faccia unheimlich di Facebook è la lapide virtuale su cui il soggetto si scrive e si cancella a piacimento, sulla quale la morte si inscrive e si cancella come su di un notes magico. Il principio di potere che presiede ai dispositivi à double face fa intravedere così un suo “al di là”. Se certamente siamo al 102
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di là del principio di piacere, forse lo siamo pure dello stesso principio di potere. Un certo “morire” sembra essere essenzialmente implicato nell’avvolgersi della spirale che unisce gli “al di là”. Un certo “morire” è preso all’interno dei dispositivi e, in pari tempo, agisce in essi. Ancora “prima” del potere, esso muove la mano.
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Profilo di marca. Figure del brand tra il supermercato e Facebook GIOVANNI SCIBILIA
I’ll be your mirror Reflect what you are In case you don’t know. Velvet Underground, I’ll be your mirror La libertà universale non può quindi produrre nessun’opera né operazione positiva; ad essa resta soltanto l’operare negativo; essa è solo la furia del dileguare. G.W.F. Hegel, La fenomenologia dello spirito
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uando, ormai vent’anni fa circa, lessi American Psycho di Bret Easton Ellis, una cosa mi colpì in particolare, tra molte, forse per quella che iniziava a essere una deformazione professionale: la descrizione dei personaggi, in particolare del protagonista, Patrick Bateman, non avviene solo attraverso il racconto di comportamenti o, ancor meno, la rappresentazione di frammenti di vita psichica, piuttosto grazie a un ossessivo elenco delle marche che i personaggi utillizzano. Ecco un esempio: Dopo essermi messo un paio di mutande boxer monogrammate Ralph Lauren e un maglione Fair Isle, infilo pantofole Enrico Hidolin di seta a pois e, applicatomi un impacco di ghiaccio sul viso, eseguo gli esercizi mattutini di stretching. Poi mi piazzo davanti a un lavabo cromo e acrilici Washmobile – con portasapone, portacoppa e vari bracci per appendere gli asciugatoi – che ho comprato da Hasting Tile [...]. Verso un po’ di lozione antiplacca Plax in un bicchiere di acciaio inossidabile e mi sciacquo la bocca per trenta secondi. Poi spremo del Rembrandt su uno spazzolino in finta tartaruga e comincio a lavarmi i denti. Sono troppo stronato per 104
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usare il floss interdentale. Ma può darsi che li abbia flossati ieri sera, prima di coricarmi, chissà. Poi mi risciacquo la bocca con Listerine. [...] Poi uso un lustradenti Probright, quindi il lustradenti Interplak [...]. Accanto al cuocipane Panasonic e alla caffettiera Salton Pop-Up, c’è la macchina per gli espressi Cremina, argentata e, strano, ancora calda, che ho comprato da Hammacher Schlemmer [...] e il forno a microonde R-1810° Carousel II (modello Sharp) [...]. Oltre al tostapane Salton Sonata, al processore di cibi Cuisinart Little Pro, allo spremifrutta Acme Supreme Juicerator e alla liquoriera Cordially Yours, c’è il bricco per il tè in acciaio inossidabile, da due litri e mezzo, che fischietta Tea for Two.1 Un forte effetto di bidimensionalità e uno sconcertante vuoto interiore emergono da questi elenchi in modo quasi immediato, creando un disgusto programmatico, anche se non gratuito. L’esempio di Easton Ellis è però anche, mi sembra, una testimonianza della inquietante prossimità tra marche e individui, almeno certi individui, vicinanza che dagli inizi degli anni novanta comincia a venire allo scoperto. I brand possono essere utilizzati per descrivere metonimicamente i personaggi, accompagnandoli nella loro quotidianità, cingendoli, stando incollati ai loro corpi o, addirittura, scivolando tra i loro denti, come nel pezzo citato, sotto le spoglie di colluttori e dental floss. Fino a sovrapporsi loro, diventando una specie di sostrato ontologico paradossale perché completamente estroflesso, fuori. Marche e individui sembrano così fatti della stessa natura: il brand non solo come schema che permette di configurare un’esperienza2 ma come “essenza” dell’individuo, suo elemento costitutivo, attraverso qualcosa che sembra stare in posizione di “accessorio” (la maglietta, le scarpe, gli occhiali...) ma che in realtà occupa il cen1. B. Easton Ellis, American Psycho (1991), Bompiani, Milano 1991, pp. 33-34 e 36. 2. La scena di Fight Club in cui il protagonista vede il proprio soggiorno come una rassegna 3D del catalogo Ikea è una buona raffigurazione di questo “schematismo” della marca: il protagonista vede lo spazio domestico attraverso gli occhi del brand Ikea. Sul logo come schema, cfr. anche G. Scibilia, Contraffazione ed etica del consumo, “Quaderni della Fondazione Piaggio”, 1, 2004, p. 199 sgg.
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tro. E, in effetti, se il consumo diventa sempre più parte costitutiva delle nostre esistenze, come sempre più spesso si fa notare, è chiaro che le merci non potranno che spostare, a loro volta, la propria valenza feticistica verso qualcos’altro. Nelle ricerche di mercato a carattere qualitativo si utilizza da sempre un test proiettivo, definito “di personificazione della marca (o di un prodotto)”. In questo esercizio si chiede ai consumatori di immaginare la marca come una persona (per l’esattezza: di trasformare la marca in una persona) e di descriverla nel modo più accurato possibile. Questo ritratto non riguarda l’utilizzatore (idealtipico) della marca – anche se, ovviamente, potrebbe avere con lui nessi e somiglianze – ma è la marca stessa antropomorfizzata, con un aspetto fisico (un look), un carattere, una morale (“in quali cose crede, quali sono le cose veramente importanti per la marca nella vita”). Sembra il rovescio di American Psycho: se là i personaggi sono i marchi che utilizzano, qui sono le marche a trasformarsi in personaggi “in carne e ossa”. Il risultato però non cambia: le marche sono ricondotte a un piano ontologico, puntano a una qualità antropomorfica che le fa sembrare degli individui. Si potrebbe dire che nell’evoluzione delle teorizzazioni sulla marca si sia sintomaticamente passati da un pensiero rappresentativo della marca a una concezione relazionale. Per un lungo periodo l’interesse è rimasto focalizzato soprattutto sull’immagine della marca, sulla sua raffigurazione mentale, mentre in tempi recenti l’idea che si è imposta è che la marca esista in primis nella relazione con il consumatore, ovvero sia all’origine di una esperienza che si attiva nel momento in cui si entra in relazione con essa.3 Il tema diventa cioè non tanto come “appare” la marca ma come essa “fa sentire” chi l’acquista e utilizza. Si tratta di un passaggio decisivo verso l’antropomorfizzazione del brand, ovvero il suo divenire sempre più “individuo”. Se la marca viene immaginata al centro di uno spazio esperienziale è perché es3. Curiosamente nell’ambito della critica d’arte accade qualcosa di analogo più o meno nello stesso momento, cfr. N. Bourriaud, Estetica relazionale (2001), Postmedia Books, Milano 2010.
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sa può, proprio come una persona, interagire, scambiare, comunicare. È del resto la forza di questa relazione a determinare il successo commerciale delle marche: è provato che quanto più creano un intenso e intimo legame, tanto più si affermano sul mercato, migliorando le loro performance di vendita. Negli studi di marketing relativi alla equity della marca, ovvero al suo valore complessivo, una delle dimensioni di analisi ritenuta oggi fondamentale prende il nome di Brand Character. Dalla “marca come personaggio” dipende la capacità del brand di creare appunto relazione con il consumatore, di sedurlo, convincerlo, conquistarlo, oltre che stabilire un rapporto a lungo termine, continuativo, fedele. Della “creazione” di questo character, come si trattasse di una vera e propria fiction, si occupano oggi specifici studi di consulenza che si spingono fino a selezionare il guardaroba del personaggio, stabilire il suo tono di voce, i suoi gusti in fatto di grafica, stili musicali e così via. Dietro a questo approccio lavora, come è palese, una concezione dell’individuo come “tipo”, una figura idealizzata, visibile e riconoscibile, dell’umano da cui procede una possibilità di senso. L’ontologia sottesa dalla marca è quindi più che mai una onto-tipo-logia4 – e come potrebbe del resto essere altrimenti, considerato il carattere di impronta, segno o traccia proprio della marca? E, in effetti, quando si procede ad analizzare nello specifico questi personaggi-marca si vede bene come i brand non riescano nella maggior parte dei casi a essere altro che degli “stereotipi” o delle “caricature” di umani. La marca-individuo è un assemblaggio di tratti, non molto di più di un’ombra di un individuo: un tratteggio, appunto. Si tratta di soggetti univocamente scissi tra un fuori (l’iconografia, dal packaging all’advertising, tutti i segni che la marca emette) e un dentro (i valori, il tono, la mission, la vision), saldamente e coerentemente legati tra loro. Il soggetto-marca non può infatti permettersi contraddizioni o conflitti interni perché non può lasciare spazio ad ambiguità in4. Sull’onto-tipo-logia, cfr. P. Lacoue-Labarthe, Typographie, in AA.VV., Mimesis – des articulations, Aubier-Flammarion, Paris 1975, p. 173 sgg.
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terpretative da parte di chi vede e consuma: una buona marca deve “fare sistema” di tutti i propri aspetti, rimandando sempre la medesima immagine; solo in questo modo, infatti, può permettere un accesso da qualsiasi entry point. Concezione analogica della marca dove ogni particolarità del brand (microcosmo) riflette il tutto, la stessa immagine (macrocosmo). Il consumatore deve cioè riconoscere lo stesso tipo di immagine o di logica, sia che incappi, per esempio, in una confezione della marca sullo scaffale del supermercato o che veda un banner della marca in un sito Internet. Ancora, le marche devono comunicare in modo diretto e immediato la loro personalità e i loro sistemi di credenze: l’incontro fugace con il consumatore deve produrre un imprinting chiaro e univoco nel minore tempo possibile, andando a ritagliarsi uno spazio preciso e quanto più possibile distintivo. Il soggetto-marca, da una parte, non può non essere una individualità singolare, quella e non un’altra, dall’altra, non può permettersi una personalità troppo forte e peculiare, pena la perdita di immediatezza. Quanto più si particolarizza, tanto più la marca si chiude su una “nicchia”, non solo perché segmenta su gusti e preferenze, ma anche solo perché richiede un plus di investimento nella costruzione della relazione. Il sistema della moda è probabilmente il miglior esempio, oggi, di attivazione di questa logica: i fashion brands sono contemporaneamente tesi alla ricerca di codici trasversali, capaci di popolarizzare il marchio, e codici singolari che lo individualizzano, creando l’impressione di qualcosa di elitario, esclusivo, “per pochi”. Prendiamo un esempio: la marca Louis Vuitton è passata a partire dalla fine degli anni novanta da marca “di nicchia” e iper-esclusiva (le vere borse di Vuitton erano in realtà valigie di elevatissima fattura artigianale) a mega-luxury brand dell’immaginario pop (la marca si diluisce su piccoli prodotti ipercostosi – in questo caso le marocchinerie, più spesso i profumi – che restano comunque relativamente accessibili anche alla massa). Nel fare questa operazione, però, la marca cerca di implementare la propria peculiarità ed esclusività, rafforzando la propria personalità. Come spesso accade nella moda, ciò viene realizzato sfrut108
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tando degli aspetti personali di quel soggetto che incarna la marca (griffe), ovvero lo stilista Marc Jacobs che è un grande appassionato di arte contemporanea. È così che Vuitton può diventare contemporaneamente il brand che usa come testimonial divi pop e mainstream come Jennifer Lopez o Madonna (ma anche Sean Connery e... Gorbaciov) e l’azienda che fa progettare proibitive serie limitate di borse da star dell’arte contemporanea come Richard Prince o Takashi Murakami, mentre fa vetrina con le installazioni luminose di Olafur Eliasson. La variegatezza della personalità di marca, la sua articolazione/stratificazione pensata per target ed esigenze diverse, è quindi una modalità per rafforzare la distintività del posizionamento. Esattamente come avviene tra gli umani, la visibilità di un individuo si lega a doppio filo alla sua capacità di mostrarsi a livello sociale come ben caratterizzato: l’appartenenza a un gruppo passa in secondo piano, mentre sopravanza il carattere singolare. Ma come nasce una marca-individuo? Da dove viene? Tradizionalmente si distinguono almeno due fasi nella vita di una marca: il brand come immaginato da un gruppo di manager in azienda (un genobrand, potremmo dire) e il brand come percepito nel consumo, incastonato nelle forme di vita del pubblico che lo acquista o lo vive sulla scena del mercato (fenobrand). Nel lessico del branding, questi due stadi corrispondono alla Brand Identity e alla Brand Image. Lo statuto “identitario” viene confinato alla fase genetica della marca, quando essa esiste ancora nelle descrizioni e nelle fantasie dello staff. La parola “identità”, contrapposta a “immagine”, sembra rimandare a qualcosa di maggiore spessore, superiore dignità anche ontologica rispetto alla semplice apparenza (image) a cui la marca verrà confinata nel momento in cui finirà sullo scaffale.5 L’identità della marca, per
5. “L’identità è un concetto di emissione. Si tratta di specificare il senso, il progetto, la concezione di sé della marca. L’immagine è un risultato, una decodifica. Su un piano manageriale, l’identità precede l’immagine. Prima di essere rappresentato nello spirito del pubblico, occorre sapere quello che si vuole presentare. Prima di essere ricevuto bisogna emettere” (J.-N. Kapferer, Les marques. Capital de l’entreprise, Les Éditions d’Organisation, Paris 1995, pp. 100-101).
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esempio, implica una personalità, dei valori, una mission, una vera e propria etica della marca, insomma. Queste dimensioni saranno evidenti a chi crea il brand, mentre potranno o meno risultare chiare a chi vedrà la marca al supermercato. Questa distinzione è oggi rimessa in discussione dall’approccio semiotico alla marca che la pensa in quanto istanza enunciativa.6 In effetti, a ben guardare, il “discorso della marca” nasce da una fitta intersoggettività che rende non immediato individuare chi realmente porti l’enunciazione. Da un lato, infatti, c’è sì l’“idea” della marca che nasce dall’azienda – ma non è una genesi “pura”: a sua volta l’idea scaturisce da analisi di trend, riflessioni sull’insight, individuazione di bisogni, sogni, need-state ma anche proiezioni e illuminazioni profetiche di singoli manager, a volte durante sessioni dedicate (workshop, brainstorming...), a volte sotto la doccia o in auto. Tutto il discorso della marca è progettato in un intenso e costante confronto tra azienda e consumer: la marca è l’ipostasi di un desiderio del consumatore, qualcosa che da “fuori” intercetta, quando funziona, una corda, un gancio del “dentro”. Anzi, una marca funziona quando mette in essere (e in rappresentazione) qualcosa che si desiderava, o magari anche non si sapeva di desiderare, qualcosa che si scopre di volere, a cui si aspira – una concrezione informe (nella mente di chi consuma) che trova forma e consistenza (nella marca). La marca può quindi aprire un mondo possibile (come racconta Andrea Semprini)7 soprattutto perché ha sempre un rapporto con il mondo di riferimento, avendo lì origine, anche. Al contempo, però, la marca introduce qualcosa di “inedito” nel mondo di chi consuma, qualcosa di inaspettato e non pre-visto, qualcosa di esotico, straniero e altro. Questo qualcosa è proprio l’Identity della marca in senso tecnico. È quanto prodotto dal team che attorno alla marca lavora: in ogni marca trasfigura non solo una porzione della vita del consumatore, filtrata da dati e ricer6. Cfr. in particolare G. Marrone, Il discorso di marca. Modelli semiotici per il branding, Laterza, Roma-Bari 2007. 7. Cfr. A. Semprini, Marche e mondi possibili. Un approccio semiotico al marketing della marca, Franco Angeli, Milano 2004.
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che di mercato, ma anche l’esperienza produttiva dell’azienda, i suoi limiti tecnologici, la sua expertise, oltre a una parte della vita e dell’esperienza di chi la marca la costruisce tecnicamente e materialmente. Se lavoro a una marca destinata ai bambini, la mia esperienza di madre o padre non potrà essere messa totalmente da parte. Essa influenzerà, magari anche molto indirettamente, il modo di essere della marca. L’Identity della marca è di fatto una etero-biografia: tutt’altro che pura, essa è radicalmente altra, impropria. Così tanto “impropria” che, a volte, nell’azienda stessa non si sa più perché la marca abbia preso una determinata piega, sia evoluta in un senso piuttosto che in un altro: chi è stato a volere questo pack alla fine? Era l’AD dell’anno scorso? È stata l’incuria del PM? Oppure la colpa è del DM che è arrivato sei mesi fa e ha voluto fare di testa sua senza capirci un...? Le marche crescono, si autonomizzano e si estraniano dai loro stessi progenitori: mutano, come muta la loro immagine agli occhi dei consumatori. Quello che ieri era trasgressivo, oggi può sembrare ingenuo, naif... Non stupisce allora che anche le marche, oggi, finiscano su Facebook. Quale luogo, infatti, può esprimere meglio il carattere intersoggettivo dell’enunciazione che costituisce la marca? I profili di Facebook sono letteralmente creati attraverso l’intreccio inestricabile di interventi del “proprietario” del profilo e dei suoi interlocutori/amici. Allo stesso tempo, proprio come accade per la marca, il profilo su Facebook deve produrre identificazione: su Facebook bisogna avere un volto, quello, che permette di far riconoscere e, quindi, identificare. Il ruolo del volto su Facebook è fondamentale: avere un profilo senza foto (o icona di riconoscimento, totem, logo...) – come è il mio caso, per esempio – significa non stare al gioco e alle sue regole. E del resto, come può un profilo non far figura? Che profilo sarebbe mai?8 Quando le marche finiscono su Facebook hanno in primo luogo il problema di mostrare il proprio volto, darsi una faccia 8. Un’amica – acutissima – mi ha fatto notare questo aspetto scrivendomi: “Sei tu l’uomo senza volto su Faccialibro?”. La ringrazio.
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per aprire un dialogo o un discorso: è dal volto che si apre la possibilità di stringere amicizia. Il logo assume questo compito, dimostrando così indirettamente il suo valore identitario e il suo doppio legame (assolutamente paradossale) con il nome proprio. Ciò che identifica la marca sono quindi il nome e il logo, come per noi il nome e la firma sul passaporto. Ora, sembra impossibile o curioso ma le persone (alcune persone almeno, ma non un numero irrisorio) cercano le marche su Facebook (ma che ci fa un’entità non-umana come una marca in un social network e perché cercarla proprio lì?) ed esprimono “gradimento” nei confronti della marca stessa (“Levi’s piace a 298.257 persone”). Per esempio dichiarano la propria ammirazione per la marca, la propria fedeltà, la durata del loro amore incondizionato, il perché della loro passione: stringono attorno alla marca una comunità in primo luogo di fan. E se la marca chiama (per esempio, se pone una domanda, come nel profilo di Levi’s: “How often do you wash your jeans?”), 823 persone il 23 aprile 2010 rispondono (una chiede timidamente: “Why?”). Momento estremo di mimetismo della marca nei confronti dell’umano – e viceversa: la marca socializza, parla di sé, delle proprie iniziative, delle proprie novità, in poche parole si racconta. Ma se il racconto di sé su Facebook è finalizzato alla propria autopromozione sociale – come dimostra l’origine stessa di Facebook, oltre al suo utilizzo9 –, si capisce bene come la marca venga per certi 9. Charles Petersen, in un lungo saggio-recensione su alcune recenti pubblicazioni su Facebook e il social networking, ricostruisce con grande efficacia come in origine Facebook sia in realtà nato come circolo chiuso all’interno di Harvard, completamente fondato sulle logiche della distinzione sociale e dello snobismo, ovvero le regole che sostengono l’istituzione del college americano: “Che cos’era il college se non una serie di ‘prese di posizione’? Molto di più, naturalmente, ma il primo Facebook non potrebbe essere accusato di fallire nell’incarnare l’esperienza del college nel suo complesso. Divenne persino una specie di norma salutare un amico all’ingresso dell’università dichiarando, per esempio, ‘Ho visto che hai aggiunto Trotskij alla tua lista di autori preferiti – ma hai mollato Marx!’ [...]. I meccanismi di queste ‘richieste di amicizie’ valgono una descrizione dettagliata. All’interno di un singolo college, nei primi giorni del sito, ognuno poteva vedere tutto. ‘Diventavi amico’ di una compagna di college non per vedere la sua pagina ma per aggiungere il suo nome e la sua immagine, come un trofeo, alla tua lista di amici; questa ‘lista di amici’ poi appariva non lontana dalle tue liste di libri preferiti e musica preferita, più prova dei tuoi gusti selettivi, o della tua popolarità” (C. Petersen, In the World of Facebook, “The New York Review of Books”, 3, 2010, p. 8).
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aspetti prima di Facebook, ne segni integralmente la concezione, ovvero: il racconto di sé, che su Facebook prende forma, punta a compiacere un determinato target (o a cadere quanto meno nelle sue attese), così da non deluderlo e confermarsi nella propria immagine socialmente accreditata. Letta in questa chiave, la marca non va tanto pensata come doppio rappresentativo dell’umano quanto come modello di soggettivazione: se la figura è il paradigma attorno a cui la marca si organizza, la marca a sua volta diventa regola per gli umani, o per ciò che ne resta, per riuscire a pensarsi come tali. Quasi fosse sempre meno possibile un pensiero di sé a prescindere da come la marca permette di pensare il soggetto. La marca, potremmo dire, fa “modello”, e non solo su Internet. Dai percorsi di soggettivazione che essa apre non è così facile affrancarsi perché la marca è una “figura di figure”, forse, una Gestalt iperbolica, l’ennesima, paradossale, Gestalt della metafisica – dopo lo Zarathustra di Nietzsche, il “lavoratore” di Jünger, lo stesso “angelo” di Rilke... Nella pluralità intrinseca a questa figura, pluralità ipertrofica del mercato, il soggetto contemporaneo individua un luogo di riconoscimento, una voce capace di raccontarlo per quello che potrebbe o vorrebbe essere. Alla crisi della soggettività risponde l’affermarsi antropomorfo delle marche, che diventano appunto dei modelli tra cui scegliere per avviare, metonimicamente, un percorso identitario. Ancore di salvezza o sirene per l’umano-soggetto alla deriva, le marche elargiscono “(stereo)tipi” di conforto: per garantire soggettivazione non possono che richiedere assoggettamento, fingono di aprire modelli plurali mentre in realtà producono omologazione e conformità. Soprattutto la soggettivazione attraverso la marca – che è un altro modo di chiamare ciò che prende anche il nome di self-branding10 – è un processo che smonta ogni possibile approccio critico: mediata dalla pubblicità, sostenuta dal successo commerciale e mediatico, la figura che la marca veico10. Sul self-branding, cfr. N. Barile, Brand new world, Lupetti, Milano 2009, in particolare cap. 3.
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la è visivamente sufficientemente forte per garantire elevata riconoscibilità ma anche intrinsecamente tanto leggera da risultare quasi inconsistente, vacua. Quello che dalla figura della marca procede è cioè un soggetto fàtico e autoreferenziale, impegnato più a distinguersi e differenziarsi che a realmente qualificarsi sostanziandosi. La figura della marca sembra, cioè, erigere la forma del soggetto, il suo scheletro, a modello, creando un inevitabile effetto di indifferenza sul contenuto e sulla natura di ciò che la figura veicola. La potenza soggettivante della marca lavora su un altro piano rispetto alle logiche del senso, un livello più basico e primario, sinistramente prossimo al reale e al suo carattere intrattabile. Per questo può comunicare sostanzialmente tutto e il contrario di tutto. Ciò risulta evidente, per esempio, nella campagna pubblicitaria di Diesel di questa primavera. Invece di blandire il proprio cliente, la marca lo invita a essere stupido (“Be stupid” è il claim): con un sorprendente colpo di mano, senza ragione alcuna, un dis-valore diventa un valore, un nuovo manifesto provocatorio a cui appellarsi per ritrovare una vena provocatoria e iconoclasta. Nulla, però, sembra davvero cambiare perché tutto alla fine si equivale nella sceneggiatura figurale allestita dalla marca: il tradizionale eroismo incarnato dal brand si rovescia senza pena nel proprio contrario imbecille, perché si tratta nel fondo delle due facce contrapposte di una stessa figura che questo e altro può contenere e far vivere, magari solo per il tempo di una stagione, per poi passare ad altro.
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Facebook. Un dispositivo omologante e persuasivo MARIA MADDALENA MAPELLI
acebook1 – quattordici milioni2 di utenti italiani – è un dispositivo social (siamo tutti “amici”) e sicuramente di successo (ma come, non sei su Facebook?) ma è anche un dispositivo persuasivo e omologante. È persuasivo nel senso che induce comportamenti automatici e prevedibili (ci vuole, appunto, tutti veri e social) ed è omologante nel senso che induce assetti identitari, modalità di interazione e di narrazione, regimi di visibilità che ci rendono seriali e simili. Su Facebook si è più soggetti costituiti che soggetti costituenti. Facebook accentua caratteristiche già presenti in altri luoghi della rete, rivelandosi così un esempio significativo di dispositivo-specchio, cioè di dispositivo che crea effetti di somiglianza con il “reale” e impone specifici assetti identitari. Il dispositivo, dice Deleuze sviluppando un concetto foucaultiano,3 è una macchina per far vedere e per far parlare: consideriamo allora anche i social network come dispositivi che abi-
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1. I contenuti di questo testo saranno sviluppati nel saggio di prossima pubblicazione, M.M. Mapelli, Per una genealogia del virtuale. Dallo specchio a Facebook, Mimesis, Milano, e sono l’esito di un percorso di ricerca condotto presso l’Ehess di Parigi e la Scuola di dottorato in scienze della cognizione e della formazione di Ca’ Foscari (Venezia). 2. Vincos Blog, Osservatorio Facebook, Italiani iscritti a Facebook, 28 febbraio 2010 (<http://www.vincos.it/osservatorio-facebook>). 3. G. Deleuze, Che cos’è un dispositivo? (1989), Cronopio, Napoli 2007. Si veda anche J. Revel, Dictionnaire Foucault, Ellipses, Paris 2008, pp. 41-42; G. Agamben, Che cos’è un dispositivo?, nottetempo, Roma 2006.
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tiamo4 e che orientano i nostri pensieri e la nostra immaginazione, disciplinano i nostri corpi e il nostro modo di interagire, veicolano, a seconda dei casi, differenti regimi discorsivi e di visualizzazione, promuovono, per continuare a usare la terminologia di Deleuze, processi di soggettivazione. Si tratta quindi di indagare, nei mondi virtuali contemporanei, la permanenza dei tratti distintivi dei dispositivi che hanno prodotto fin dall’antichità immagini virtuali e assetti identitari. Per dispositivi-specchio intendiamo dispositivi che producono immagini virtuali e perciò immagini riflesse; intendiamo quindi quelle macchine per far vedere e per far parlare generate all’incrocio tra saperi, pratiche (techne, arti) e poteri. Che tipo di dispositivo è lo specchio? Foucault mette a tema lo statuto speciale e ambivalente dello specchio quando definisce le utopie e le eterotopie. Lo specchio sta nel mezzo: è sia utopia “che consola” sia eterotopia “che inquieta”.5 Secondo Foucault, le utopie sono “spazi privi di un luogo reale”.6 Le eterotopie sono, invece, luoghi altri: “Dei luoghi reali, dei luoghi effettivi, dei luoghi che sono predisposti nell’istituzione stessa della società, e che costituiscono delle specie di contro-spazi, delle specie di utopie effettivamente realizzate in cui gli spazi reali, tutti gli altri spazi reali che possiamo trovare all’interno della cultura, sono, al contempo, rappresentati, contestati e rovesciati, delle specie di luoghi che stanno al di fuori di tutti i luoghi, anche se sono effettivamente localizzabili”.7 Torniamo quindi allo specchio, che è esperienza “mista, esperienza promiscua [...] tra le utopie e questi spazi assolutamente altri, queste eterotopie”.8 Lo specchio è utopia ed eterotopia: è vetro, manufatto, luogo esistente, prodotto tecnologico, che posso vedere, toccare, che, in quanto tale entra in relazione con me, 4. L. Fiorini (a cura di), Cittadinanzadigitale, Junior, Azzano S. Paolo (BG) 2009; S. Maistrello, La parte abitata della rete, Tecniche Nuove, Milano 2007. 5. M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane (1966), Rizzoli, Milano 1967, pp. 7-8. 6. Id., Eterotopie (1967), in Archivio Foucault 3, Feltrinelli, Milano 1998, p. 310. 7. Ibidem. 8. Ibidem.
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e con tutto ciò che lo circonda. Al tempo stesso, tuttavia, lo specchio genera, attraverso la riflessione, luoghi che sono, rispetto a me che ne faccio esperienza, non-luoghi: si tratta di riflessi, di immagini virtuali, che si collocano, rispetto alla mia fisicità, in una dimensione altra, in un non-luogo. Il dispositivo-specchio crea effetti di realtà e di somiglianza senza creare oggetti esistenti né copie identiche. D’altro canto, è attraverso lo specchio, è attraverso un dispositivo reale che, tuttavia, genera immagini riflesse virtuali, che facciamo esperienza di noi stessi, dell’immagine altrimenti inaccessibile del nostro volto, dei confini del nostro corpo, della presenza di un io unitario. È all’interno di un’immagine riflessa virtuale, è a partire da un contro-spazio, che veniamo, in parte, costituiti così come siamo. Poiché lo specchio è un artefatto, crea utopie situate, crea eterotopie, ci fa fare esperienza di mondi che si presentano come apparentemente reali: è un efficace generatore di effetti di somiglianza e di assetti identitari. I dispositivi-specchio sono, quindi, al tempo stesso generatori di utopie e, contestualmente di luoghi-altri – eterotopie – in cui hanno origine continui riassestamenti, rovesciamenti e frammentazioni degli ordini discorsivi, dei regimi identitari e di visibilità degli assetti esistenti. Nei dispositivi-specchio moderni e contemporanei, inoltre, l’immagine virtuale riflessa è fissata da un pittore o da un fotografo o da un utente della rete in un dipinto, in una foto o in un video ed è resa perciò disponibile ed eternamente presente: è sottratta alla fugacità che la costituiva; ecco che il dispositivo-specchio rafforza la sua capacità di generare mondi apparentemente reali, potenzia la sua capacità intrinseca di creare effetti di somiglianza così efficaci da farci pensare di essere di fronte a mondi reali. I dispositivi-specchio sono, in definitiva, dispositivi che (siano essi effettivamente riflettenti o meno) moltiplicano incessantemente la produzione di piani e di modi differenziati della presenza. Sono quindi le matrici del nostro essere virtuali, sono i contro-spazi in cui la dimensione della virtualità non è solo immaginata e rappresentata sul piano utopico, ma anche agita e 117
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vissuta, presentificata e attualizzata in quei luoghi che abitiamo ogniqualvolta ci guardiamo allo specchio o accediamo a Facebook attraverso lo schermo del nostro computer. Il dispositivo-specchio Facebook Su Facebook, dicevamo, a differenza che nel blogging,9 le cogenze del dispositivo rendono più standardizzati i processi di soggettivazione. Non solo perché su Facebook i processi attivi di soggettivazione e di costruzione identitaria si sviluppano sempre a partire dal dispositivo, ma anche perché Facebook è un dispositivo-specchio che produce serialità e omologazione: si è più soggetti costituiti che soggetti costituenti. Se infatti la decisione di aprire un proprio profilo in rete “costituisce una pubblicizzazione del sé, una sorta di promozione identitaria che, come per i marchi, passa attraverso una strategica proposta di un’identità visiva”,10 Facebook accentua, fin dal nome, la rilevanza assegnata alla promozione di un’identità visiva di sé: è il libro delle facce.11 Solo che, rispetto alla libertà espressiva che il blog consente, fin dai primi atti che noi compiamo, nel momento in cui siamo chiamati a produrre un’immagine di noi stessi, Facebook ci persuade a seguire un preciso regime di visibilità che non è esplicitamente prescritto ma che si articola su una serie di ingiunzioni.12 Nel momento in cui ci iscriviamo a Facebook e iniziamo a costruire il nostro profilo, ci viene chiesto di inserire il nostro nome e cognome, la data di nascita, un indirizzo e-mail, una descrizione di noi stessi e una nostra immagine, il nostro avatar, il nostro alter ego digitale. “Upload a profile picture” è l’ingiun9. M.M. Mapelli, L’autoformazione in rete. Il blogging come specchio di sé e dell’altro da sé, in I. Padoan (a cura di), Forme e figure dell’autoformazione, Pensa, Lecce 2008, pp. 395-414. 10. G. Festi, Catepol a segno, in M.M. Mapelli, U. Margiotta (a cura di), Dai blog ai social network. Arti della connessione nel virtuale, Mimesis, Milano 2009, p. 27. 11. Il nome Facebook si riferisce agli annuari con le foto degli studenti che i college statunitensi pubblicano all’inizio dell’anno. Fondato il 4 febbraio 2004 da Mark Zuckerberg, studente a Harvard, conta a oggi (marzo 2010) oltre 350 milioni di utenti. 12. B.J. Fogg, Picture Persuasion in Facebook, corso alla Stanford University, California, “Psychology of Facebook”, 17 settembre 2007, <http://credibility.stanford.edu/captology/notebook/archives.new/2007/09/picture_persuas_1.html>.
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zione che tutti noi riceviamo. Possiamo scegliere di non far vedere a nessuno o di condividere solo con gli amici alcuni dei nostri dati sensibili, quali la data di nascita o l’indirizzo e-mail. Quel che invece non possiamo in alcun modo nascondere è il nostro nome e cognome e la nostra immagine. Se decidiamo di non caricarne alcuna apparirà, al posto del nostro volto, un’immagine poco attraente: un grande punto interrogativo che in calce rinnova l’ingiunzione “Upload a profile picture”. Ora: non si dice né che siamo obbligati a farlo, né che dobbiamo pubblicare una foto “vera” di noi stessi: ma, se non lo facciamo, saranno i nostri stessi “amici” a sollecitarci, perché tutti su Facebook hanno una loro immagine! Quel che è specifico di questo dispositivo-specchio è proprio il fatto che la quasi totalità degli utenti è indotta a utilizzare il proprio nome e cognome anagrafico e a pubblicare una foto vera di sé. In questo senso la promozione visiva di sé risponde alle finalità del dispositivo stesso, che non lascia eccessivi margini a un’articolazione creativa della propria immagine, ma che ci vuole tutti presenti in un certo modo, un po’ come nella nostra carta d’identità, con dati anagrafici veri. Nei “Principi di Facebook”13 che ogni utente accetta nel momento in cui vuole iscriversi (ma che quasi nessuno legge prima di accettarli) si dice con chiarezza che la trasparenza e la sicurezza sono tra le finalità prioritarie del dispositivo. Il tutto è meglio dettagliato nella “Dichiarazione dei diritti”: “Gli utenti di Facebook forniscono il proprio nome e le proprie informazioni reali e invitiamo tutti a fare lo stesso”. E ancora: “L’utente si impegna a non fornire informazioni personali false su Facebook o creare un account per conto di un’altra persona senza autorizzazione [...], ad assicurarsi che le proprie informazioni di contatto siano sempre corrette e aggiornate”. Facebook insomma ci vuole veri e reali in quanto individui; Facebook induce processi di soggettivazione individualizzanti: 13. “La regolamentazione dell’uso di Facebook”, versione del 28 agosto 2009 che si articola in “Principi di Facebook” (dieci articoli) e nella “Dichiarazione dei diritti e delle responsabilità”.
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induce una visione monolitica e coesa dell’identità, vietandoci in modo esplicito di giocare con riposizionamenti creativi del Sé. Questo aspetto del dispositivo, tuttavia, proprio perché caratterizza un dispositivo-specchio, potenzia enormemente l’effetto di somiglianza al reale del nostro alter ego digitale: così come noi siamo indotti a dare di noi stessi un’immagine “vera”, assegniamo anche agli altri avatar, agli alter ego digitali dei nostri “amici”, una consistenza che in altri luoghi della rete non possiede la stessa forza persuasiva. La centralità assegnata alla “faccia”, al “vedersi” riporta in primo piano le immagini: le pratiche del singolo utente della rete appaiono imparentate con le pratiche umanistico-rinascimentali e tardo-rinascimentali della costruzione di reti di immagini.14 Se è del tutto nuova la tecnologia che ci fornisce lo sfondo in cui operiamo, non appare del tutto nuovo il modo di intrecciare saperi e pratiche per costruire reti di immagini. A distanza di secoli, anche oggi, si riattualizzano, pur in contesti ben differenti, pratiche simili, pratiche cioè che legano assieme la scrittura (e con essa anche le parole e quindi l’oralità15 di cui è permeata la scrittura digitale) e le immagini (e perciò i codici iconici, i mondi del visibile, siano essi l’avatar scelto per il proprio profilo o una fotografia digitale prelevata nel Web, o testi più complessi come video o digital storytelling);16 pratiche che presuppongono la condivisione, la negoziazione e la costruzione di codici per scambiare contenuti, per comprendere i messaggi degli altri, per interagire. Il virtuale di oggi, riconsegnando all’immagine un ruolo centrale nella messa in rete delle persone, ne rimette in gioco tutti i poteri: anche quei poteri che la cultura occidentale ha, a più riprese, sottratto all’immagine.17 14. L. Bolzoni, La rete delle immagini. Predicazione in volgare dalle origini a Bernardino da Siena, Einaudi, Torino 2009. 15. M. McLuhan, The Gutenberg Galaxy. The Making of Typographic Man, Routledge & Kegan, Toronto 1962; W. Ong, Orality and Literacy. The Technologizing of the Word, Routledge, New York 20022. 16. C. Petrucco, R. De Rossi, Narrare con il digital storytelling a scuola e nelle organizzazioni, Roma, Carocci 2009. 17. I.P. Culianu, Eros e magia nel Rinascimento (1984), Bollati Boringhieri, Torino 2006; D. Freedberg, Il potere delle immagini. Il mondo delle figure: reazioni ed emozioni del pubblico (1989), Einaudi, Torino 20092.
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Se tutti siamo educati a fare esperienza del fatto che l’immagine ha il potere di rappresentare ciò che non c’è (essa è segno, è rinvio a ciò che è assente), non tutti siamo consapevoli del fatto che su Facebook e su altri ambienti virtuali si riattivano altri due aspetti, complementari al primo, e intrinseci a ogni immagine, sia essa materiale o psichica:18 il potere di contenerci (l’image come enveloppe, come involucro che ci contiene) e il potere di trasformarci (l’immagine come icona che contiene una presenza e che, in quanto tale, ci trasforma, interagisce con noi, come imago in cui si presentifica una persona, un’anima, un mana, come talismano che, se toccato o guardato, ci fa del bene). Questi poteri complementari acquistano dimensioni nuove che vanno esperite da ciascuno di noi, a seconda del dispositivo che abitiamo in rete. Facebook è il dispositivo della rete che maggiormente ci persuade a mostrare il nostro vero volto,19 e se avete un account su Facebook già lo sapete: l’impressione è di essere tutti lì, di poter sapere in ogni momento quello che i nostri “amici” fanno (“amici” spesso solo virtuali, mai conosciuti nella realtà) e di sentirci liberi di raccontare loro (a persone che non conosciamo ma alle quali assegniamo lo statuto speciale di interlocutori fidati) ciò che in ogni momento pensiamo. È facile essere indotti ad attribuire alle interazioni su Facebook il valore di presenze reali. Gli effetti di illusione, gli “effetti di somiglianza”, e con essi i poteri magici e di fascinazione propri di ogni immagine sono, nei social network, e su Facebook in particolare, riattivati con forza. Alla fine di novembre 2008, compare su Facebook l’account Alessandro Baricco. Il passaparola – Ehi, Baricco è su Facebook! – fa in modo che centinaia di persone, nel giro di poche ore, inizino a interagire con lui. Lui scrive: “Alessandro pensa che Fb sia un viaggio per viandanti pazienti” e bastano poche parole per dare il via allo scambio dei commenti nel suo profilo. C’è la 18. S. Tisseron, Psychanalyse de l’image. Des premiers traits au virtuel, Dunod, Paris 20052, pp. 155-171; V. Stoichita, L’effetto Pigmalione. Breve storia dei simulacri da Ovidio a Hitchcock (2006), il Saggiatore, Milano 2006. 19. B.J. Fogg, Tecnologia della persuasione (2003), Apogeo, Milano 2005.
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sua foto, c’è il suo nome e cognome, c’è la sua data di nascita, ...adesso forse ci racconterà del nuovo libro che sta scrivendo. Dopo cinque giorni il profilo Alessandro Baricco scompare. Che cosa è successo? Si è stancato? Così presto? O Facebook l’ha bannato?20 Nulla di tutto ciò, quello non era Alessandro Baricco, lo scrittore torinese. Era Giorgio Cappozzo, che su “L’Espresso” titola il suo esperimento: Miracoli web “Per 5 giorni sono stato Baricco...”.21 Scrive Cappozzo: “Mi hanno scritto, hanno scritto a Baricco, molti vip. Francesco Baccini, Selvaggia Lucarelli, Melissa P., Isabella Santacroce, Fabrizio Rondolino, Tommaso Labranca, Stefano Disegni, Roberto Cotroneo, Tiziano Scarpa e altri. A differenza della gente comune, e salvo rare eccezioni, non hanno mai messo in discussione la verità del profilo”. È davvero interessante leggere il resoconto di Cappozzo, perché ci fa entrare nel virtuale, ci fa capire come in esso i poteri delle immagini vengano riattivati, come con estrema facilità si familiarizzi con il nuovo evento, come con estrema rapidità si costituisca una community – gli “amici” di Alessandro Baricco – e al tempo stesso si generino reazioni del tutto diverse, di fronte agli stessi oggetti virtuali: chi ci crede senza nemmeno porsi il problema (“Onoratissimo, Maestro”), chi invece ha dei dubbi (“Sei veramente Alessandro?”), chi accetta di soggiornare tra finzione e verità (“Non so se sei vero o falso, però anche così mi stai simpatico”). Ancora più interessante è che proprio l’intrattenersi sulla soglia tra verità e finzione fa crescere rapidamente una community che si rende protagonista di una narrazione collettiva che supera di gran lunga, nei contenuti prodotti, le intenzioni alla base della sperimentazione. Viene da chiedersi: ma è il dispositivo Facebook che di per sé facilita l’emergere di narrazioni collettive e di spazi creativi? La risposta è no. Anzi, Facebook definirebbe Cappozzo un “impostore”, la sua sperimenta20. Su Facebook accade di essere bannati: se si violano le condizioni di uso della piattaforma il proprio account viene disattivato e spariscono tutti i contenuti in esso pubblicati. 21. “L’Espresso”, 5 dicembre 2008, <http://espresso.repubblica.it/dettaglio/miracoliweb-per-giorni-sono-stato-baricco/2051708>.
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zione “furto di identità” e spiegherebbe anche, per filo e per segno, cosa devo fare “se qualcuno finge di essere me”.22 Altrettanto rigido, su Facebook, è il regime discorsivo che regolamenta gli aggiornamenti di stato: con un massimo di 420 caratteri, spazi inclusi, sono indotto a rispondere sempre alla stessa domanda che incessantemente si rigenera: “Cosa pensi in questo momento?”. La gabbia è a tal punto cogente che impone all’utente, nella risposta, l’uso della terza persona singolare perché in modo automatico fa iniziare la frase sempre con l’iterazione del proprio nome e cognome: la risposta, non appena pubblicata, oltre che comparire sul profilo, viene immediatamente resa pubblica nella home dove tutti i miei “amici” possono leggere che “Maddalena Mapelli in questo momento sta scrivendo un articolo su Facebook”. Se seguissi le prescrizioni e le ingiunzioni del dispositivo, mi limiterei quindi, a produrre brevi narrazioni standardizzate, all’interno di una “casa comune” accogliente, per tutti uguale e immodificabile, in cui i miei contenuti sono condivisi con i miei “amici”: in cui la mia identità viene articolata in modo standard, univoco e semplice e definita dalle appartenenze che svelo attraverso l’iscrizione a gruppi o a pagine di personaggi famosi di cui mi dichiaro fan. Ma forse, proprio perché Facebook è un dispositivo-specchio fortemente persuasivo e omologante, proprio perché pone vincoli e regole precise, può essere, se usato con consapevolezza, potenzialmente molto più formativo di altri ambienti, nel momento in cui, a partire dal mio profilo, riesco a trovare le vie per aggirarne gli interdetti e per creare dei contro-spazi discorsivi e di visibilità che facciano riflettere sul dispositivo stesso. Paradigmatico è il modo in cui lo scrittore Aldo Nove è riuscito a spezzare la monotonia di narrazioni standardizzate e ha messo in scena modalità creative di produzione della soggettività. La sua messa in scena è fortemente marcata dal dispositivo Facebook; esso consente di prelevare dall’intero Web immagini, video, testi 22. FAQ alle “Condizioni” d’uso di Facebook (<http://www.facebook.com/terms.php? ref=pf>).
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ecc., e di condividerli facilmente e velocemente. Ma pur partendo dal regime di visibilità indotto da Facebook, Aldo Nove non si è limitato a condividere, con la community dei suoi “amici”, un’immagine di sé monolitica, da carta d’identità, ma ha fatto del suo profilo un contro-spazio sperimentale riuscendo a generare continui riposizionamenti identitari e nuovi regimi discorsivi. Il prezzo pagato, dall’estate 2008 a oggi, per i suoi insistiti tentativi di forzare il dispositivo sottoponendolo a processi di soggettivazione attivi e innovativi, è stato di vedersi disattivare l’account (e azzerare perciò tutta la rete di contatti e tutti i contenuti prodotti) per ben sette volte. Anche la disattivazione è stata ogni volta aggirata, perché Aldo Nove si è ogni volta ripresentato su Facebook riaprendo lo stesso profilo e mettendo in scena una nuova narrazione. In che modo? Innanzitutto attraverso riposizionamenti creativi dell’immagine del profilo: in 28 giorni è arrivato ad alternare 110 differenti immagini di sé. Di queste solo tre non sono state copiate o importate dal Web. I tre elementi atipici sono tre fotografie. La prima è la stessa del profilo MySpace Aldo Nove e rappresenta il volto dell’autore: è una foto-ritratto realizzata nello studio del fotografo milanese Piero Perfetto; così anche la seconda: “Volevano essere fotografie convenzionali, fredde ed eleganti”.23 Ma già il secondo avatar messo in scena rappresenta la prima trasformazione: fa da contrappunto alla seriosità non invasiva della prima foto, la marcata espressività della seconda. La contiguità tra le due immagini è data dall’eleganza del formato, ma la discontinuità è già evidente e allude a una modulazione del sé sul piano dell’informalità e dell’irriverenza. Di notevole interesse la terza fotografia: è un’istantanea digitale ritoccata con Photoshop che ritrae l’incontro avvenuto off-line tra Aldo Nove e due amici di Facebook. Il vero volto dell’amico Bart è ritoccato e sostituito dal finto avatar del suo account su Facebook. Il gioco finzionale (l’inserimento dell’avatar al posto del volto vero) alberga all’interno degli elementi documentali del resto dell’immagine. Basterebbero queste tre diverse articolazioni dell’identità visi23. Riferimento a uno scambio con Aldo Nove via posta Facebook.
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va (formale-pubblica, espressivo-irriverente, mnestico-finzionale) per comprendere quali e quanti sono i possibili piani narrativi a esse collegabili. Attraverso trasformazioni successive, Aldo Nove sperimenta innumerevoli riposizionamenti dell’identità visiva attingendo a piene mani dal database dell’immaginario collettivo già dispiegato nel Web e in esso, in parte, già organizzato in sequenze narrative o potenzialmente tali. Si presenta, infatti, con altri 107 volti copia-incollati appunto dal Web. La messa in scena della nostra memoria collettiva digitale attraversa così tutto ciò che la rete ingloba e che proviene da altri media. A partire dalla televisione. Televisione vuol dire immagini di personaggi pubblici, di leader politici, di volti legati a fatti di cronaca. Se Rosa Bazzi e il marito Olindo, già in carcere per il pluriomicidio di Erba, appaiono così come li abbiamo visti nei telegiornali, di Barak Obama (che fuma una sigaretta) e di Piero Fassino (con un’espressione e un ciuffo di capelli assolutamente anti-televisivo) se ne declinano invece versioni del tutto informali che le tv di stato e i quotidiani a tiratura nazionale non hanno mai rilanciato: il gioco del ribadire una dimensione plurale dell’io fa costantemente da contraltare alla seriosità del dispositivo Facebook che definirebbe tutti questi cambiamenti dell’immagine di sé come “furti di identità”. È una sfida continua agli interdetti, sulla base della quale si sta costruendo un contro-campo discorsivo. Il farsi mondo, l’uscire da sé per diventare memoria visiva collettiva condivisa, fa incarnare Aldo Nove nel motore di ricerca Google e lo fa diventare anche Facebook stesso, nei giorni in cui la “faccia” dello scrittore diventa quella della pagina di Facebook. La rete di immagini costruita da Aldo Nove ci fa continuamente dialogare con il nostro immaginario multimediale; è comprensibile solo a partire dalla condivisione di eventi e regimi di visibilità che prima di diventare database visivo rintracciabile nel Web, sono o sono state immagini costitutive del nostro vedere la tv. Questi codici visivi condivisi reimmessi in una narrazione costruita attraverso Facebook diventano contro-spazi sui quali possiamo tutti riflettere; Aldo Nove importa, filtra e inserisce in una dimensione narrativa propria ciò che trova o cerca in rete creando dei 125
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contro-spazi in/su cui gli amici sono costantemente invitati a riflettere/si. Un altro elemento utilizzato da Aldo Nove per forzare le gabbie di Facebook sono le figurine: sono le 12 immagini degli avatar di “amici”, di dimensioni ridotte, ben visibili sulla colonna sinistra di ogni profilo. Nel caso specifico acquisiscono la valenza di strumenti-immagine.24 Il suo album delle figurine ha ospitato, in alcune fasi, avatar di pornostar: “Jill Ball che studia il piano”, Sasha Grey, Emily Gran, Noha Hadad ecc. Non si tratta di immagini rappresentative di una realtà, ma di strumenti-immagine: sono “amiche”25 presenti su Facebook con un loro profilo e diventano lo strumento per costruire nuovi paradigmi impliciti condivisi sul rapporto tra il privato e il pubblico, tra ciò che pertiene alla sfera dell’intimità e ciò che è condiviso pubblicamente, tra l’in-timità e l’ex-timità. Aldo Nove rimette in piazza il “privato” giocando con gli interdetti relativi alla sessualità e creando così nuovi e differenti piani narrativi i cui paradigmi sono condivisi dai suoi lettori e sono quindi in grado di generare nuovi contesti, nuove correlazioni, nuovi regimi discorsivi. Senza entrare nel merito delle numerose altre forme e modalità di aggiramento degli interdetti e di resistenza rispetto al dispositivo Facebook sperimentate da Aldo Nove, l’account in questione ha messo in evidenza l’ineliminabile eterogenesi dei processi di soggettivazione osservabili: un’eterogenesi che segna profondamente il modo in cui lo scrittore ha chiamato a raccolta l’arsenale della memoria visiva collettiva archiviata nel Web e l’ha tuttavia utilizzata, come matrice di nuove, personali e non previste narrazioni. Questo, va ricordato, è il percorso originale di uno scrittore che è riuscito ad andare oltre Facebook. Non è così per tutti, ma tutti, a ben guardare, potremmo inventare e sperimentare nuovi e personali itinerari di resistenza, nuovi modi di contrastare l’egemonia dei dispositivi. 24. L. Manovich, Il linguaggio dei nuovi media (2001), Olivares, Milano 2002, p. 214. 25. Il termine amico originariamente su Facebook valeva come persona che si conosce nella realtà, ma nella prassi su Facebook diventano amici persone che non si conoscono. Il paradosso messo in scena da Aldo Nove della pornostar che mostra il proprio corpo spesso oltrepassando la soglia dell’intimità normalmente esibita, ci obbliga a una ridefinizione dei paradigmi normalmente adottati.
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Un pensiero clique-à-porter ANTONELLO SCIACCHITANO
Da zero a google Voleva vendermi il dizionario filosofico di una prestigiosa casa editrice. Sentivo che, se avesse insistito ancora un po’, avrei ceduto. Ma prima volevo divertirmi. “Ormai le enciclopedie sono inutili. Se voglio sapere qualcosa vado su Google”, insinuai. Il venditore di enciclopedie era impreparato all’obiezione. Sembrava condividere il luogo comune del declino del Web. Come dire: sulla rete c’è di tutto, anche la spazzatura. Ovviamente il suo dizionario non era spazzatura. E lo comprai, anche perché allo stesso prezzo – buon peso – ci aggiunse un atlante storico. Poteva sempre servire. Quanto a svarioni, quel dizionario non sembrava essere da meno di Wikipedia. Ricevuto il primo volume, controllai la voce “Intuizionismo” e trovai la diffusamente recepita assurdità secondo cui l’intuizionismo rifiuterebbe le dimostrazioni per assurdo. Una palla che si trova anche in rete dove – pare – allignano gli stessi tic dell’accademia. Allora? Niente di grave. La vita epistemica del soggetto è immersa nel falso, sia che viva isolato in qualche istituto universitario sia che sguazzi nella rete. Gli esami e i concorsi ufficiali, non diversamente dal volontarismo di Wikipedia, lasciano passare di tutto e forse è un bene. Accettando tutto, si può realizzare una selezione a più ampio raggio. Insieme, l’erranza cartesiana e la selezione darwiniana, possono dare buoni risultati. aut aut, 347, 2010, 127-137
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Difficili da controllare? Non più di tanto. Certo, le voci di matematica sono più facili da controllare delle notizie storiche. La dimostrazione sbagliata mostra più facilmente la corda di una montatura o di un plagio. L’accertamento delle fonti è altrettanto delicato sui testi apocrifi quanto sulle risposte di Yahoo.answers, che aiutano gli studenti in difficoltà con i compiti a casa. Io stesso consulto regolarmente questi siti. A volte ci trovo considerazioni peregrine interessanti. Mi acchiappano soprattutto certe semplificazioni che ufficialmente non godono di buona fama. Ma tant’è. Il vero sapere è democratico, si dice. Questo è un altro luogo comune da sfatare: la democrazia abita in Internet. Su questo assunto i miei pregiudizi sono più fondati che sull’inattendibilità delle informazioni diffuse su YouTube. La gestione dei siti web operata da Google è assolutamente tendenziosa. Non solo tende a far salire nei propri motori di ricerca i siti più gettonati e più collegati ad altri siti, ma privilegia sicuramente quelli che hanno più pubblicità. È normale in un mercato. Non scandalizziamoci, ma non parliamo di opportunità uguali per tutti. Resta il semplice fatto – nudo e crudo – che la rete è un’opportunità. Torno – mi sia concesso – all’esperienza personale. Recentemente ho pubblicato in Germania un libretto sulla resistenza alla scienza da parte degli stessi scienziati. Newton, Darwin, Einstein, Freud non ne volevano sapere della loro stessa scienza: Newton del calcolo infinitesimale, Darwin dell’evoluzionismo, Einstein della meccanica quantistica, Freud dell’inconscio. Sì, anche in Germania hanno resistito alla pubblicazione. L’editore mi ha cambiato il titolo. Sovversione infinita, Unendliche Subversion – si giustificava – avrebbe venduto di più. Ma in Italia non ho trovato neppure questo: un editore così compiacente e così disponibile all’avventura intellettuale. Se non avessi potuto pubblicare Resistenza alla scienza nel mio sito web, quel testo sarebbe rimasto sconosciuto ai lettori italiani. Una piccola perdita – non nego – ma pur sempre una perdita. 128
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Il riferimento personale è in questo caso l’occasione per una considerazione generale. Anche questa nasce dalla mia esperienza psicanalitica. Là dove c’è del sapere – vuoi in un istituto universitario, su una rivista femminile, su un sito Internet o nello studio dello psicanalista – il soggetto reagisce o resistendo o inclinando verso l’autoinganno. Il soggetto non vuol sapere. La “filo-sofia” non esiste. In analisi, tutto comincia con la supposizione di sapere nell’altro. Si suppone che l’analista sappia. Perciò lo si ama. Perché? Perché non comunichi quel che sa. Se per sbaglio lo fa, sconfermando l’autoinganno, l’amore è pronto a tramutarsi in odio. Fortunatamente, la supposizione che l’analista sappia, pur essendo falsa, regge e le cose corrono lisce sul binario della consuetudine psicoterapeutica – una falsità sociale come la televisione o il Web. Ci tornano indietro falsità? Chi se ne importa. È quel che volevamo per rimanere ignoranti. Lo psicanalista parte da Nietzsche per correggerlo. Il soggetto moderno non è definito dalla volontà di potenza ma di ignoranza. E poi – riconosciamolo – non è la fine del mondo. Se clicco e mi risponde il falso, la cosa non finisce necessariamente lì. Anche l’uomo di scienza parte dal falso. Per dimostrare un teorema per assurdo o per confutare un’ipotesi di lavoro, suppone il falso. Il tempo soggettivo è galantuomo, perché non è cronologico ma epistemico. Prima o poi il soggetto della scienza arriva all’assurdo o alla confutazione e la congettura iniziale decade. Un altro esempio. Durante una cura psicanalitica, quante false interpretazioni lo psicanalista non è chiamato a correggere? Le interpretazioni analitiche hanno scarso valore di verità. Non sono né vere né false. Servono a stimolare l’ulteriore ricerca dell’analizzante. Sono cliccate performative dell’inconscio. L’effimera constatazione che voglio fissare è che Internet non ci tratta da beoti che si accontentano di tutto, anche se agli occhi di qualche fenomenologo sembra così. Ci tratta – sicuramente in via preterintenzionale – da potenziali uomini di scienza. Ci offre semiverità da verificare e ulteriormente elaborare. In tedesco c’è un bel verbo per dirlo, intraducibile in italiano: durch129
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arbeiten. Il modo di scrittura ipertestuale, tipico del Web, invita già in lettura a scrivere, almeno a cliccare, continuando la “perlaborazione” del testo, avviata non si sa né dove e né quando.1 E forse, a quattro secoli o poco meno di distanza dal cogito cartesiano, Internet non poteva fare diversamente. Siamo noi con la nostra cultura umanistica, anche quando è scientifica, che resistiamo ai modi localmente pervasivi e durevolmente provvisori di Internet. Allora ci piace dire che su Internet vegeta un sapere di seconda mano, preconfezionato, prêt-à-porter. Si dimentica che su Internet vive il sapere di cui si alimenta il soggetto moderno. Senza quel sapere, in gran parte fasullo, il soggetto non esisterebbe. La verità epocale da riconoscere è semplice. A quasi quattrocento anni dal primo cogito – tanti o pochi? – l’essere non è più un dato scontato. Senza sapere – autentico o fasullo, non importa – non ci sarebbe essere. Prima di Cartesio l’essere era e il non essere non era sic et simpliciter. Dopo Cartesio l’essere non va da sé. Dopo Cartesio è iniziata una lunga, faticosa e perifrastica decostruzione dell’essere. In sintesi, l’essere dipende dal sapere. Se sai, sei. Può essere un sapere inconscio, quello che precede l’essere, ma può anche essere il sapere diffuso da Internet.2 Il punto difficile da mandar giù è che, se pensi, questo non significa automaticamente che esista un’autocoscienza preriflessiva, come vanno proponendo i neofenomenologi della svolta naturalistica. Se pensi, clicchi. Questa “forma di pensiero” porta automaticamente alla luce il soggetto e... lo cancella, perché lo fa immediatamente naufragare nel mare aperto del sapere (supposto) dell’altro. Si può dire in due modi: uno serio, l’altro spiritoso. “E naufragar m’è dolce in questo mare” oppure 1. Non esiste la scrittura originaria, tanto meno quella sacra in Internet. Ciò condiziona il carattere essenzialmente laico dell’ontologia informatizzata. Tramite la prevalenza della scrittura il Web decostruisce il logocentrismo della metafisica fonocentrica occidentale – si potrebbe dire con Derrida. 2. Sapere inconscio collettivo, direi al seguito di Jung. O “l’inconscio è il sociale”, direi con Lacan.
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“Lì comincia l’avventura del signor Bonaventura.” Qualche giovane dei miei tempi lo ricorderà. Cominciava male ma finiva bene. Sul Web è quasi lo stesso. “Fluctuat nec mergitur”, si diceva a Parigi, quando era ancora paludosa. Oggi si dice “navigare”. Intuire/dedurre Adesso provo a parlare del Web un po’ più seriamente, con quel singolare mix di generalità e particolarità che conviene a un discorso filosofico. Distinguere il buono dal fasullo, l’autentico dall’inautentico, non è un compito banale e non solo sul Web. Il vangelo suggerisce di farli crescere insieme come il grano insieme al loglio. Una volta cresciuti, la selezione è facile. Certo, ma fuor di metafora cosa significa? Non a caso la parte meno seria di questo breve scritto cita l’intuizionismo, implicitamente Brouwer e, poco prima, Cartesio. Cartesio – che mi risulti – è il primo intuizionista della storia del pensiero occidentale. Spiego in che senso. Fondamentalmente Cartesio pone due forme di pensiero: l’intuizione e la deduzione. La prima è la condizione iniziale. La seconda è la condizione per passare da un pensiero all’altro lungo una concatenazione logica – non necessariamente sillogistica. Sentiamo Cartesio stesso nella Terza delle Regulae ad directionem ingenii.3 Per intuizione (intuitum) non intendo la fluttuante attestazione dei sensi o il giudizio fallace di un’immaginazione scombinata, ma il concetto di una mente pura e attenta tanto ovvio (facilem) e distinto che, per quanto ne comprendiamo, non rimangano ulteriori dubbi; ossia, ma è lo stesso, un concetto indubbio della mente pura e attenta, che nasce dalla sola luce della ragione (rationis luce), addirittura più certo, perché 3. Ma potremmo sentire anche Lacan con i suoi significanti: S1, significante ontologico, S2, significante epistemico, si intrecciano in ogni discorso.
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più semplice, della deduzione, la quale tuttavia può essere fatta male dall’uomo, come abbiamo già notato. Così ognuno può intuire con la mente che esiste, che pensa, che il triangolo ha solo tre lati, che la sfera ha un’unica superficie e cose simili, di gran lunga più numerose di quanto non riconoscano i più, che disdegnano di rivolgere la mente a tali ovvietà. [...] Certezza ed evidenza dell’intuizione non sono richieste solo per enunciati ma anche per qualsiasi altro discorso. Infatti, per esempio, si dia questa conseguenza: 2+2 fa lo stesso che 3+1. Non solo si deve intuire che 2+2 fa 4 e che 3+1 fa 4, ma in più che da queste due proposizioni segue di necessità la terza. Da qui si potrebbe discutere perché oltre l’intuizione abbiamo aggiunto un altro modo della conoscenza: quello deduttivo. Per deduzione intendo tutto ciò che si conclude necessariamente da cose note con certezza. Si è dovuto procedere così perché molte cose, benché per sé non evidenti, si sanno con certezza a patto di dedurle solo da principi veri e noti attraverso un moto continuo e ininterrotto della cogitazione che perspicuamente intuisce le singole cose. Non diversamente sappiamo che l’ultimo anello di una lunga catena si connette al primo, anche se non contempliamo con uno unico colpo d’occhio tutti gli anelli intermedi, da cui dipende la loro connessione, ma li passiamo in rassegna uno dopo l’altro e ricordiamo che i singoli anelli sono vicini l’uno all’altro dal primo all’ultimo. Distinguiamo, dunque, l’intuizione della mente dalla deduzione certa per il fatto che nella seconda e non nella prima si concepisce un moto o una certa successione. Inoltre nella prima e non nella seconda è di necessità presente un’evidenza, mentre la seconda e non la prima deriva la propria certezza dalla memoria. Da tutto ciò si capisce come si possa dire che le proposizioni conclusive, ottenute immediatamente dai primi principi, sono conosciute in modi diversi: ora per intuizione, ora per de132
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duzione. I principi stessi solo per intuizione, le conclusioni remote solo per deduzione.4 Gli elementi che ci servono ci sono tutti. Si possono combinare in vari modi. In questo caso scelgo la triangolazione: CLASSIFICARE / FARE / NARRARE, dove al vertice intermedio del FARE colloco il soggetto performativo foucaultiano, senza privilegiare l’ordinamento. NARRARE / FARE / CLASSIFICARE va altrettanto bene. Gli altri due vertici, o lati, del triangolo supposto isoscele, rappresentano il fare epistemico del soggetto, qui inteso come diviso, il quale o classifica o narra. La triangolazione è generalissima. Se ne possono dare innumerevoli rappresentazioni (o modelli), tutte più o meno simili, se non proprio equivalenti. Ne elenco alcune: essere / soggetto (eracliteo) / divenire; spazio / soggetto kantiano / tempo; sincronia / soggetto linguistico / diacronia; statica / soggetto fisico / dinamica; coscienza /soggetto psicologico / memoria; conscio / soggetto freudiano / inconscio; significante principale / soggetto lacaniano / significante binario; cura / soggetto analizzante / teoria, o al termine della formazione analitica: teoria / soggetto analista / cura. Addirittura, venendo ai nostri tempi, si può scrivere: ermeneutica / soggetto postmoderno / filosofia analitica, dove la filosofia ermeneutica privilegia l’aspetto interpretativo e narrativo, sviluppato lungo la dimensione epistemica del tempo, mentre la filosofia analitica è più familiare con l’aspetto sistematico e classificatorio nella dimensione ontologica e fissa dello spazio.5 In particolare, in questa sede ci interessa la triangolazione cartesiana: INTUIRE / SOGGETTO DELLA SCIENZA / DEDURRE. O meglio, ci interessa la sua rappresentazione astratta in termini di relazioni tra stati di sapere. L’intuire sta dalla parte della relazione riflessiva, mentre il dedurre è governato dalla relazione transiti4. La distinzione tra intuizione e deduzione, la prima immediata e soggetta a errori, la seconda mediata e controllata, è stata recentemente ripresa dal premio Nobel per l’economia Daniel Kahneman, il quale ha condotto esperimenti di decisioni economiche nelle condizioni controllate del laboratorio di psicologia sperimentale. 5. In Essere e tempo Heidegger tentò l’improbabile sutura della divisione soggettiva, rimandata poi al secondo volume, che non uscì mai.
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va. Dai tempi di Aristotele, logica significa sillogismo: se a implica b e se b implica c, allora a implica c. Ancor prima, dai tempi di Parmenide, essere significa identità: l’essere è l’essere.6 Riflessività e transitività sono i cardini della logica occidentale. Nel secolo scorso, in modi diversi, l’uno con modelli topologici, l’altro con grafi astratti, Tarski e Kripke dimostrarono che la triangolazione RIFLESSIVITÀ / SOGGETTO SEMANTICO / TRANSITIVITÀ è sufficiente a costruire una semantica. Per quale logica? Proprio per la logica intuizionista di Brouwer, quella logica, cioè, che sospende due principi aristotelici: il principio del terzo escluso (A vel non A) e il principio della doppia negazione esistenziale, secondo cui basta dimostrare che non esiste un x che confuti f(x) per dimostrare che tutti gli x confermano f(x). In tempi più vicini a noi la logica intuizionista ha trovato una prima sistemazione semantica all’interno dell’algebra reticolare, già preconizzata da Tarski e poi resa definitiva nella teoria delle categorie di Lawvere e Mac Lane. La loro teoria definisce le categorie come strutture algebriche associative e dotate di unità. L’unità garantisce la riflessività; l’associatività la transitività dell’operazione di concatenazione. All’interno della teoria delle categorie la semantica intuizionista trova posto come algebra di Heyting,7 che generalizza l’algebra di Boole, ultimo e definitivo rappresentante della logica aristotelica. Oggi l’intuizionismo di Cartesio è codificato stabilmente come topos di Grothendieck, che generalizza la teoria degli insiemi, sospendendo la relazione di appartenenza.8 Intuitivamente, riflessività e transitività definiscono strutture di preordine.9 6. Da Parmenide giunge fino a noi la concezione tradizionale di intuire come vedere dentro (latino in tueri), nel senso di cogliere l’essenza. Qui lo psicanalista preferisce battere una falsa strada etimologica: intuire da intus ire, andare dentro, penetrare. 7. L’allievo più vicino a Brouwer. 8. Con qualche dettaglio tecnico in più, un topos è una categoria cartesianamente chiusa, nel senso che ogni diagramma finito ha un limite e la categoria prevede l’esponenziazione. Riceverà mai Cartesio dai filosofi tanta considerazione quanta ne ha ricevuta dai matematici? 9. Le strutture di preordine stanno al bivio tra strutture di ordine (basta aggiungere l’antisimmetria) e strutture di equivalenza o quozienti (basta aggiungere la simmetria).
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Il supersuccinto excursus storico da Cartesio a Grothendieck non è tanto succinto da non consentire di immaginare un’ultima e finale triangolazione, più pertinente al nostro tema: CAOS / SOGGETTO WEB / ORDINAMENTO. In particolare, non dovrebbe essere difficile comprendere perché, parlando di Web e più in generale di informatica e di informatizzazione, il riferimento all’intuizionismo di Cartesio e Brouwer sia attuale. Sospendere il terzo escluso equivale a sospendere l’onniscienza. Ammettere che non valga a priori A vel non A, vuol dire escludere l’esistenza di un soggetto che per ogni A sappia se vale A o se vale non A, anche nel caso estremo che non sappia se, singolarmente presi, valga A o non A. È chiaro che nessuno smanettatore retaiolo arriverebbe mai a pensare che la rete sappia tutto. La rete sa qualcosa di qualcosa, ma è incompleta e incompletabile, proprio come afferma il teorema di Gödel per l’aritmetica.10 Analogamente, dalla rete non si può dedurre nessuna affermazione universale per doppia negazione esistenziale. La rete può solo offrire preziose indicazioni euristiche, proposizioni quasi-universali, valide fino a prova contraria. La costruzione universale è sempre nelle mani dell’utilizzatore della rete. Il costruttivismo, che l’intuizionismo implica, è salvo. Per costruire teorie non basta un clic. Ci vuole un soggetto che costruisca la propria verità. Infinito virtuale Tutto qui? Valeva la pena sparare con il cannone cartesiano sul moscone di Google, che alla fine dello scorso millennio Larry Page e Sergey Brin hanno fatto decollare? Certo che no. Allora, qual è la posta in gioco? La posta in gioco è l’oggetto della modernità, cioè l’infinito. Già Gödel, benché realista platonico, nutriva simpatie per la 10. Sarà anche coerente? I dubbi sono giustificati.
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logica intuizionista e dimostrò che la semantica intuizionista doveva essere infinita. Benché a vocazione infinita, l’intuizionista è un esempio di logica incompleta: al suo interno l’onniscienza, sotto forma di principio del terzo escluso, non è né dimostrabile né confutabile. È pertanto, l’intuizionismo, l’ambiente naturale per ospitare quell’oggetto originariamente incompletabile (apeiron) che la logica aristotelica aborriva, confinandolo allo stato potenziale: l’infinito, appunto. Il quale è non categorico (o non concettuale) nel senso che di esso si possono dare (parecchie) rappresentazioni non equivalenti. Veniamo al Web. L’infinito non si clicca. Non si trova bell’e fatto – prêt-à-porter – in rete. Va di volta in volta costruito, come la verità scientifica. L’infinito numerabile si costruisce per ricorrenza a partire dall’insieme vuoto o senza elementi (supposto esistente). L’infinito numerabile contiene il vuoto e, se contiene un insieme, contiene anche l’unione di quello e dell’insieme che ha quello come elemento. Più difficile da costruire è l’infinito continuo. Ci sono le costruzioni di Cantor, che procede per esponenziazione dell’infinito numerabile,11 e di Brouwer, che specula su ventagli di infinite scelte libere di segmenti finiti.12 Anche come oggetto del desiderio l’infinito non è un dato. In analisi il soggetto lo costruisce. La necessariamente lunga narrazione analitica si conclude, quando si conclude, con l’intuizione13 dell’oggetto: per Freud l’oggetto da ritrovare – il seno o gli escrementi – per Lacan l’oggetto originariamente perduto – lo sguardo e la voce. Non dovrebbe più di tanto stupire che la logica intuizionistica, adeguata alle banalità del Web, possa dire la sua sulle impensabili ovvietà – le intuizioni – dell’inconscio.14 11. Per esponenziazione di un insieme si intende il passaggio dall’insieme all’insieme dei suoi sottoinsiemi. La tecnica dell’esponenziazione era nota già ad Archimede. 12. In pratica le successioni convergenti. 13. O presentazione o ingresso in, da intus ire. Cfr. supra, nota 6. 14. Per quanto riguarda l’inconscio, ne ho trattato in Una matematica per la psicanalisi. L’intuizionismo di Brouwer da Cartesio a Lacan, cfr. M. Emmer (a cura di), Matematica e cultura 2006, Springer, Milano 2006, p. 61. Di questo testo esiste una versione ampliata inglese Mathematics for Psychoanalysis. Brouwer’s Intuitionism from Descartes to Lacan, in M. Emmer (a cura di), Mathematics and Culture VI, Springer Verlag, Berlin 2009, p. 59.
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Il Web, psicanaliticamente parlando, è il sintomo collettivo della nostra epoca. Se clicchi, non scarichi l’infinito sul desktop. Semplicemente lo evochi. È questo il senso della realtà virtuale. Attenzione, però! Virtuale è ben più di potenziale e non meno di attuale, non essendo un attributo ontologico ma epistemico. Le favolette epistemiche di Wikipedia testimoniano che noi viviamo “dentro” un oggetto che ci “trascende” da tutte le parti e che riusciamo a raccontarci provvisoriamente e in modo incompleto cliccando e doppiocliccando. E continuiamo a raccontarcele l’un l’altro. Il Web è un luogo collettivo, esattamente come l’inconscio. “L’inconscio è il sociale”, diceva il mio maestro, che ancora non conosceva il Web. Il Web crea un particolare legame sociale. Si tratta di un legame epistemico, non identificatorio. Dura il breve scambio di un sapere volatile. Il termine cartesiano è par provision. Vuol dire che siamo favorevoli al Web e alla sua metastatica ignoranza? Né favorevoli né contrari ma, intuizionisticamente parlando, contrari a chi è contrario. La doppia negazione non afferma. È un’escamotage per realizzare l’Erschlossenheit dell’essere al sapere, si direbbe interpretando Heidegger alla Cartesio. Apre a una necessità che è tutta da determinare e che il soggetto sperimenta solo come contingenza provvisoria. Cliccare per credere.
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Sparizioni. I due punti della soggettività PAULO BARONE
acebook possiede senz’altro proprietà e caratteristiche specifiche, forse inconfondibili. E tuttavia decidere di rimanere sul suo bordo, ai suoi margini – prima, cioè, di qualunque disamina a riguardo – significa assumere il fenomeno circoscritto di questo “social network” non solo quale figura della rete in generale, ma, più ancora, quale emblema della scena della nostra contemporaneità. Poiché proprio qui, come è ormai noto, tendono a precipitare (e a fuggire da ogni lato) alcuni tratti salienti che definiscono il nuovo volto “virtuale” assunto dalle cose. È attraverso il Web infatti che passa la spinta continua delle innovazioni tecno-scientifiche, dove si riflettono al meglio le movenze selvagge che l’odierno capitalismo detta alla società, agli animali, alla vegetazione, agli elementi e ai luoghi; dove si dà conto di quell’insolito fenomeno di rimescolamento, concentrazione e sovvertimento del tempo e dello spazio che va sotto il nome di mondializzazione, dove si promuovono nuove forme di sensibilità e di identità, dove il sapere e la memoria culturale stanno trovando supporti per la prima volta completamente “smaterializzati” per la loro archiviazione, dove si producono e si distribuiscono informazioni e modalità di comunicazione. La scena in cui compariamo si profila sempre più come un Mediascape, un paesaggio mediatizzato della realtà, configurazione a sua volta interpretabile come una delle molteplici stazioni con cui, presumibilmente, la Modernità scandisce e dissimula quell’intermi-
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nabile processo di avvitamento su se stessa che la contraddistingue. Qualcosa ogni volta di inedito, che, perciò, non finiamo mai di descrivere e con cui non cessiamo mai di fare i conti. Proprio una simile, irresistibile, estenuante, potenza di cattura e di fascinazione potrebbe essere considerato il segno più eloquente del fatto che questo assetto, tutt’altro che un episodio incidentale, si avvale piuttosto dell’insieme, alterato, delle parolechiave e dei dispositivi di fondo con cui la nostra tradizione culturale ha organizzato l’esperienza, resistendo così a una sua messa a fuoco definitiva – a una qualche “idea” che lo “chiarisca” – ma, pure, sollecitandola instancabilmente. In tal senso, il paradosso di non poter venire a capo di sé – trovarsi irriconoscibili, sperimentare di continuo una sorta di smemoratezza, di afasia, di cecità – sebbene tutti gli elementi siano rovesciati dinnanzi agli occhi, per uno sguardo mai tanto rapido e acuto, per una bocca mai tanto loquace, ben rappresenterebbe il tenore e il tipo di implicazione con il presente in cui viviamo. Non una fase qualunque, ma nemmeno una dai contorni determinati e dal profilo certo. Di sicuro una sequenza totalizzante, che tende ad assolutizzarsi. Qual è il destino della soggettività in una simile disposizione? Se teniamo presenti le elaborazioni del “discorso del capitalista” di Lacan1 (che si aggiunge ai quattro esposti nel Seminario XVII) troviamo che la genesi del nostro presente torbido e sfocato sia sostanzialmente ricondotta a un motivo: al venir meno del “rispetto”, della “distanza simbolica”.2 Mentre i discorsi precedenti – e in generale quelli tradizionali – sono tutti organizzati dalla legge della castrazione, che certifica la perdita dell’oggetto di godimento assoluto e l’impossibilità di un suo recupero pieno – e grazie a questa interdizione permette di “inquadrare” fantasmaticamente la realtà, di renderla soggettivamente significativa, attivando il desiderio di (ri-)ottenere ciò che si è perso –, il 1. J. Lacan, Del discorso psicoanalitico (1972), in Lacan in Italia 1953-78, La Salamandra, Milano 1978, pp. 186-201. 2. J. Alemàn, L’antifilosofia di Jacques Lacan (2003), Franco Angeli, Milano 2003, p. 82.
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discorso del capitalista inaugura una condizione di godimento diffuso e generalizzato, dove il limite imposto dalla castrazione viene sistematicamente aggirato grazie alla continua offerta di oggetti di consumo. La facile accessibilità alla merce, la sua produzione fantasmagorica, la trasformazione in essa di qualunque “bene”, la spinta incessante al consumo, assottiglia progressivamente la “distanza simbolica” sino a renderla ininfluente. Al “soggetto” viene dato modo di raggiungere direttamente qualcosa (un surrogato) che, per definizione, doveva rimanere irraggiungibile, provocando così un autentico collasso del volume consueto dello spazio psichico: dissoluzione della trascendenza, atrofia del desiderio, disinvestimento del linguaggio e del lavoro concettuale con parallela esplosione di un regime di visibilità generalizzato, frammentazione e omogeneizzazione dell’esperienza, indebolimento del legame sociale, esautoramento dell’Altro, dissoluzione della funzione paterna e, nel complesso, dei nessi metaforici a favore delle mere, disarticolate, giustapposizioni metonimiche. In sintesi, un restringimento del tempo e della memoria al solo presente, una smemoratezza da presentificazione assoluta, non più ascrivibile alla dinamica della rimozione e del ritorno del rimosso (attraverso formazioni sintomatiche che rivelano appunto l’inconscio e hanno struttura di linguaggio – sogno, lapsus, motto di spirito, sintomo), quanto piuttosto alla forclusione, da qualcosa che, rifiutato dal simbolico, riappare non nel linguaggio ma nel reale, sotto forma di “lettera muta” o di “punteggiatura senza testo”. Assisteremmo così a una vera e propria scomparsa dell’inconscio, della storia, della realtà, del sapere concettuale, del linguaggio. Conseguentemente, il destino di una simile soggettività denudata, sarebbe quello di essere ridotta alle dimensioni di un punto. Cosa fare di fronte a questo esito? Un primo atteggiamento è portato ad accentuarne la relatività, magari drammatica ma intrinseca alla sua stessa struttura. L’assottigliamento, la concentrazione progressiva di tutte le linee-guida che l’hanno fatta emergere e l’hanno tradizionalmente sostenuta sembrano spingere questa (pseudo)soggettività verso una sua spontanea autolimitazione. Si dirà così che una sog140
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gettività puntiforme (un individuo soffocato dal godimento, una vita autistica, un consumatore ecc.) si produce per estromissione dell’inconscio, per perdita del desiderio, per disconnessione dal simbolico. Lasciando intendere che la soggettività autentica, la sua matrice e il suo sapere si trovano momentaneamente in uno stato (precario e minacciato) di inattività, di riserva o di latenza e che quella puntiforme non è che una caricatura, un’aberrazione, una deviazione dell’originale, sia pure con un enorme potere distruttivo.3 (In modo non dissimile Jung si riferì alla coscienza moderna – orizzontale, massificata, presentificata – stigmatizzandone il profilo in termini di distacco e di sradicamento dall’inconscio collettivo, dal vero soggetto in questione.) Ma il Mediascape è un paesaggio che può essere messo in prospettiva, che lascia qualcosa all’esterno, da parte, fuori di sé, da cui essere “osservato” e giudicato? E il desiderio, l’inconscio, il lavoro concettuale, la stessa psicanalisi, non hanno forse partecipato, in modo determinante, alla formazione di questa “scena”?4 E ancora: una “civiltà” in transizione è necessariamente transitoria? Un sapere critico, allora, ha ancora possibilità di manovra? Le analisi di Baudrillard, per esempio, ci mostrano in modo vertiginoso come non ci sia pressoché nulla che rimanga escluso da questa trasformazione epocale, come la sparizione sia radicale e abbia già oltrepassato il punto di non-ritorno. Attraverso le sue molteplici incursioni nell’universo del Mediascape possiamo constatare che il venir meno della distanza simbolica non sia avvenuta tanto (o solo) in virtù del suo aggiramento, ma grazie all’aumento del carico di lavoro cui è stata sottoposta, e dunque per una frenetica mobilitazione della sua attività. Mentre avevamo pensato “una realtà incompiuta, travagliata dal negativo”,5 3. Cfr. per esempio i recenti M. Fiumanò, L’inconscio è il sociale, Bruno Mondadori, Milano 2010, e M. Recalcati, L’uomo senza inconscio, Raffaello Cortina, Milano 2010. 4. Cfr. M.H. Brousse, Il padre nella civiltà contemporanea, “La psicoanalisi”, 45, 2009; J.-A. Miller, Una fantasia, “La psicoanalisi”, 38, 2005. 5. J. Baudrillard, Il delitto perfetto (1995), Raffaello Cortina, Milano 1996, p. 70. Ma anche Id., Patafisica e arte del vedere (2006), Giunti, Firenze 2006, e Id., L’agonia del potere, Mimesis, Milano 2008.
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secondo lo storico e fecondo schema che opponeva, e insieme collegava, idealità e stato di fatto, sogno e ragione, liberazione e dominio, l’accelerazione costante e generalizzata degli scambi dialettici provoca – nello smascheramento critico di tutte le illusioni – l’avvicinamento e infine la promiscuità e la confusione di qualunque opposizione polare. Assorbito ogni potenziale critico, la realtà si compie, si realizza integralmente in una iper-realtà, in una iper-positività dal riverbero abbagliante, inosservabile, dove ciascuna particella di quest’ultima viene evidenziata nella sua simultanea inter-relazione con le altre e inchiodata a coincidere con l’immagine di se stessa. A differenza dell’opzione precedente, l’esito di restringimento e assottigliamento non sarebbe dovuto all’estromissione o all’esclusione dell’inconscio e del desiderio, ma al loro pieno, sistematico e incessante coinvolgimento. Come – secondo Baudrillard – è la stessa trasparenza generalizzata a costituire, al medesimo tempo e senza poterlo impedire, l’ombra che la vela, così sarebbe la frenetica oscillazione tra rimosso e ritorno del rimosso ad apparire indistinguibile da una sorta di “forclusione”. (Dunque, luce e ombra, rimozione e forclusione una dentro l’altra, e non in alternativa tra loro.) E ancora, la sistematica diffusione di ossimori, paradossi, antinomie in cui rimangono irretite e paralizzate le ordinarie procedure della significazione non indicherebbero una destituzione del lavoro concettuale a favore dell’immagine, ma il culmine, e dunque il limite, che il sapere raggiunge addentrandosi fin nelle pieghe più recondite delle cose. Anche qui, la grossolanità e la superficialità con cui, sovente, ci appare la nostra condizione di presentificazione assoluta sarebbero piuttosto un riflesso della sua microscopica sottigliezza, realizzatasi grazie all’assorbimento e all’esaurimento del patrimonio culturale, dei suoi semi. “La realtà (attuale) è una cagna”,6 dice Baudrillard quasi con accenti orientali (se al posto della “cagna” mettessimo la “vacca”): composta esclusivamente da bordi, margini, limiti, soglie, è docile, asseconda qualunque ipotesi, compiace ogni idea, sembra 6. J. Baudrillard, Il delitto perfetto, cit., p. 7.
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inverare i pensieri più disparati, quelli che vorrebbero riformarla, quanto quelli che vorrebbero coglierne le contraddizioni insuperabili. E in questo modo arresta la loro spinta e se ne avvale, alimentando, nella piena disponibilità, anche la propria impossibilità. Mai come ora, per esempio, le analisi di Marx sembrano trovare conferma (ma servire, al contempo, una realtà insospettata, snaturandosi). Lo stesso si potrebbe sostenere per quelle di Freud. Ma, nella sua infinita accoglienza, questa odierna non è anche la realtà dove “tutte le cose sono incatenate, intrecciate, innamorate” dello Zarathustra di Nietzsche, e non è davvero parodisticamente simile al “mondo messianico dell’attualità universale e integrale” di Benjamin, dove il passato pare “divenuto citabile in ciascuno dei suoi momenti”? Ciò che, al di là di Baudrillard, va sottolineato è che la soggettività, pur rimanendo stretta, anche qui, alle sole dimensioni del punto, non equivarrebbe affatto al semplice individuo atomizzato, denudato e senza prerogative, al consumatore ottuso e saturo di godimento, come nel caso precedente. Nel punto in cui sparisce dovremmo scorgere concentrato anche l’acme (necessariamente immobile) del desiderio, il vertice (inevitabilmente insignificante) dell’inconscio e del linguaggio, il colmo (per forza di cose disorientato) della storia. In tal senso, una soggettività certamente residuale (al limite della de-soggettivazione) ma per eccesso, che non ha lasciato nulla al di fuori, e dunque – a parità di punto – ben più problematica ed enigmatica dell’altra. A ulteriore riprova della maggiore complessità di questa soggettività residuale ma senza residui, va considerato il fatto che in essa sembra confluire quel “movimento verso il concreto”, quella “tensione dell’essere-al-concreto” – formato, secondo Nancy, dalla linea Hegel, Marx, Nietzsche, Heidegger, Benjamin, Adorno, seguito dal trittico Lévinas, Deleuze, Derrida7 – che, indipendentemente dalla lista sempre riformulabile dei nomi, ha rivolto la sua attenzione verso il dettaglio, l’elemento trascurabile, lo scarto, le vite perdute. Oppure, dove sem7. J.-L.Nancy, Il senso del mondo (1993), Lanfranchi, Milano 1997, p. 230, nota 6.
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bra confluire, ancora, quel nichilismo che raccoglie in sé il cinismo e lo scetticismo dell’antichità e che – secondo Foucault –, oltre ad aver influenzato con tracce involontarie della sua presenza (dunque, come meglio non si potrebbe) un certo modo di essere rivoluzionario o artista, si riassume nella domanda: “Se devo confrontarmi con il pensiero che ‘niente è vero’, come devo vivere?”.8 In virtù di queste confluenze, il punto che concentra e riduce in sé tutte le forme tradizionalmente esterne, con la sua fragilità ed evanescenza, invece che una sventura, sarebbe addirittura la dimensione più auspicabile, quella prediletta, quella da rivendicare. Anziché opporre le due versioni puntiformi della soggettività, potremmo allora supporre la più probabile intersezione delle loro traiettorie. Volendo, il punto della soggettività residuale ma senza residui esterni – quella che ha tutto in sé ma in forma abbreviata, sfigurata, rotta, deposta – si troverebbe nel bel mezzo di quel vuoto indeterminabile che si produce tra la soggettività sradicata (denudata e alienata) e l’inconscio in latenza. Forse questo “distacco” è transitorio, e allora anche la chance concessa alla soggettività residuale è momentanea, “dura” nel frattempo, cioè nel “suo” tempo appropriato. Perché in ogni caso la sua voce è comunque quella delle rimanenze, delle risonanze: non sta nell’onda dell’evento che sta per abbattersi, nemmeno in quella che, presto o tardi, si ritira, ma solo nell’odore che rimane – dopo la prima e la seconda – da qualche altra parte.
8. M. Foucault, Il coraggio della verità (1984), “Lettera Internazionale”, 100, 2009, pp. 2-5.
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Ultimo “post” a Parigi MASSIMILIANO NICOLI
o studente di dottorato italiano – il dottorando di ricerca, come si dice abitualmente – arriva a Parigi per la seconda volta ai primi di marzo, dopo aver abortito un primo viaggio causa furto di documenti. Se tutto andrà come deve andare, rimarrà per un paio di mesi e poco più. Abita in un appartamento in pieno centro, uno studio al piano terra, in una corte interna. Il piccolo appartamento è carino, ma avvolto in una penombra perenne. È solo, lo studente è solo. Certo, come spesso accade a Parigi, c’è un topo che vive dietro i muri, probabilmente fra le tubature, e ogni tanto lo si sente squittire e grattare i tubi, ma, nonostante questa presenza, il nostro studente è solo, non c’è dubbio. Certo, frequenta un corso di francese e lì conosce giovani che provengono da tutti gli angoli del pianeta e che si dirigono verso altri angoli del pianeta, in cerca di fortuna. Di ulteriore fortuna, visto che i più sono già molto ricchi, e, per il momento, fanno tappa nella Ville Lumière. Certo, in quanto italiano, è molto ben accolto, stranamente (o forse no) oggetto di un pregiudizio positivo (che, poi, a ben guardare, tanto positivo non è), per cui, per definizione, egli sarebbe simpatico, socievole, creativo, gran cuoco, gran donnaiolo, pieno di stile, melodioso nel parlare (“ah, les italiens, quand ils parlent, ils chantent...”), teatrale nel gesto: “toujours sur la scène!”. Una specie di piacevole buffone, insomma. Così lo invitano alle loro feste: americani, australiani, tedeschi, coreani, inglesi, russi, spagnoli, argentini – “el ta-
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no fou”, lo chiamano i latini. Ma in fondo, lo studente, il dottorando, per quanto paggio di compagnia, è solo. Solo in una città tanto bella quanto spietata, in cui nessuno ha bisogno di lui. Parigi, come tutte le grandi città, lo assorbe nell’indifferenza totale. Stiamo parlando di una solitudine da privilegiato, naturalmente, che ha a che fare con il lusso della scelta e non certo con la ferocia della condanna, una solitudine che si impasta con la libertà, che ubriaca, e pur tuttavia, qualche volta, spaventa e paralizza. Di sicuro amplifica le emozioni, le esaspera, le esagera. L’iperbole è la figura retorica che caratterizza la sua esperienza, ne è la cifra. Bestia formidabile e terribile, questa solitudine da privilegiati. Per esempio, egli può girare per le bancarelle del mercato coperto di Boulevard de Magenta, con le borse in mano, cantando ad alta voce, senza che nessuno badi a lui. Può passeggiare la domenica, il primo giorno di primavera, lungo il Canal Saint-Martin e bagnarsi gli occhi leggendo una lapide che ricorda un certo Charles Dupas, “tombé glorieusement pour la libération de Paris, à l’âge de 29 ans”, senza che nessuno badi a lui. Può svegliarsi la mattina nella penombra eterna della sua stanza, schiacciato dal granito di una malinconia che lo perseguiterà per tutto il giorno, senza che nessuno badi a lui. Senza che nessuno lo guardi. Vive in uno stato di tensione emotiva permanente e dunque si innamora di tutto ciò che incontra. Perde la testa a ogni piè sospinto, la vede rotolare, la insegue e la raccoglie. Si esalta e si dispera. Si dispera perché gli oggetti del suo amore, quegli oggetti che lo fanno persino commuovere, non li può condividere con nessuno. Si dispera anche perché tutto lo incanta ma tutto lo abbandona, lasciandogli in mano solo il cencio del suo stupore, perché niente e nessuno ha bisogno di lui, o della sua cura. Nessuno lo riconosce. Ma insomma, qual è il motivo di questa breve carrellata nella vita parigina di un anonimo dottorando di ricerca italiano? Beh, il punto è che il diario della sua esperienza a Parigi si riversa in Facebook, nella pagina pubblica o in comunicazioni private, e il social network diviene così la finestra attraverso cui passa la memoria semi-pubblica della sua parentesi francese, nel tentativo, 146
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più o meno riuscito, di esporsi finalmente allo sguardo d’altri per puntellare la sua solitudine, perché non gli crolli addosso. Partiamo da qui, dalla singolarità di questa esperienza, anche se non credo che ci sposteremo molto più in là. Primo: la vergogna. Lo studente, che prima di Parigi utilizzava Facebook sporadicamente e controvoglia, celandosi persino dietro uno pseudonimo per non essere individuato da persone sgradite, ora vi si dedica con determinazione. Incrementa il numero di “amici”, amplia il reticolo delle connessioni, chiede e ottiene l’amicizia delle persone che incontra in Francia, si iscrive a “gruppi” o diviene “fan” di “pagine” legate a persone/oggetti/interessi di natura politica, culturale o semplicemente goliardica, scegliendo fra questi luoghi virtuali quelli in cui crede di riconoscersi maggiormente. Riconoscersi, appunto. Ma che cos’è il riconoscimento sul piano del legame sociale che tesse la rete del social network? Il problema gli si presenta immediatamente in termini molto semplici: cosa penseranno i suoi “amici” (ma quanti e quali sono, precisamente, i suoi “amici”? Non può ricordarli tutti, gli occorre controllare l’elenco) del fatto che si è iscritto proprio a quei gruppi e non ad altri ed è “fan” esattamente di quelle pagine e non di altre? E coloro che non sono (ancora) suoi “amici” ma pure possono accedere a una versione limitata del suo profilo, che idea si faranno? Gli interessi che ora manifesta, i soggetti collettivi in cui dichiara di riconoscersi e identificarsi, quanto collimano con l’immagine di sé che egli ha costruito per gli altri, a volte faticosamente, spesso in uno sforzo intenzionale progettato nei dettagli? E come conciliare la narrazione di sé dispiegata su Facebook – quel quadro che chiunque può comporre a partire dagli elementi pubblicati, dalle fotografie e dalle immagini, dalle opzioni rispetto a “pagine” e “gruppi” – con la molteplicità delle immagini che ciascun altro/amico si è già formato de visu nella vita prima o fuori dal social network? Il sé-oggetto che lo studente lascia indiscriminatamente in pasto a tutto il pubblico di Facebook, quanto modifica e incrina – se lo incrina – quel sé-oggetto che i suoi “amici” 147
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già possiedono e sul quale lo studente aveva più o meno intensamente, più o meno strategicamente e consapevolmente tentato di agire per influirvi – governandosi a seconda delle persone e dei contesti –, per impedire la piena rapina del proprio segreto, della propria verità? Quanti saranno delusi? Quanti saranno sorpresi? E ancora: i diversi gradi di accesso al proprio privato, stabiliti e registrati a seconda delle persone e delle relazioni nella vita prima di Facebook, non sprofonderanno ora nell’indeterminazione di uno sguardo in cui si distinguono solamente “amici” e “non (ancora) amici”, per cui tutti gli appartenenti al primo gruppo possono guardare, leggere e ascoltare simultaneamente gli stessi brani di vita, al medesimo livello di intimità? Ovvero, come selezionare le informazioni su di sé, come regolare la comunicazione e i suoi stili, il linguaggio e i suoi giochi, a seconda dei singoli interlocutori, una volta che tutti sono interlocutori, tutti ascoltano, tutti guardano, tutti commentano e parlano, o possono farlo, nel medesimo tempo, intorno al medesimo oggetto. Senza dubbio, il problema del governo di sé attraverso l’autosorveglianza e l’autocensura si complica parecchio. In un dispositivo di esposizione generalizzata e simultanea del sé, l’autosorveglianza non è mai abbastanza e ugualmente è sempre troppa. È in questo bilico fra il troppo e il troppo poco che si deve muovere lo studente se vuole partecipare alla costruzione di se stesso dentro il social network. Dunque egli si pone questo genere di problemi, ma più che porseli li vive, e al sentimento che li accompagna, se avesse letto certe pagine di Sartre, e probabilmente le ha lette, darebbe il nome di vergogna. Anzi, siccome quelle pagine, in effetti, una volta le ha studiate, capisce che non si sfugge alla malafede, che la sincerità è tutt’al più un attimo di fosforescenza, e decide di fare l’unica cosa che può fare, forse quella che tutti fanno: superare la vergogna tentando di farsi oggetto affascinante, e guardare gli altri, per giocare il gioco e la battaglia degli sguardi. Secondo: la seduzione. Lo studente, allora, quando è in casa, nella penombra, si adopera allo schermo e scrive, pubblica, com148
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menta, si espone. Video, fotografie, microriflessioni, citazioni, battute, musica, articoli di giornale, narrazioni... “Condividi?”, gli chiede Mr Facebook, e lui condivide, riversando nel Web porzioni della sua esperienza a Parigi, scegliendo con cura e con attenzione i materiali da esporre, perché accendano un faro su di sé, per stare sotto il cono di luce, per tentare di regolare e modulare l’intensità, la tonalità di quella luce. Una comunicazione “leggera” in quanto istantanea, non c’è dubbio, ma “pesante” al tempo stesso, perché ogni elemento esposto incide e forgia il profilo di ciascuno. Dunque lo studente si fa oggetto, accetta di solidificarsi (anche) nel Web, e attraverso lo sguardo indeterminato e oggettivante dell’Altro – amplificato, moltiplicato, intensificato in versione 2.0 – tenta di farsi oggetto persino a se stesso. “Guardami”, gli dice dallo schermo la sua pagina su Facebook, il suo stesso profilo, mutuando le parole da una canzone che ha appena condiviso, “non sono meglio di uno specchio?” Sì, in effetti è ben meglio di uno specchio, perché il profilo accetta e anzi invoca continue correzioni, continui aggiustamenti, sollecitati dal ritorno della propria immagine su di sé e, soprattutto, dall’interazione con altri. Sulla pagina arrivano continui commenti e nuove richieste di amicizia, si avviano conversazioni pubbliche e private, si manifestano apprezzamento e adesione rispetto agli elementi pubblicati; segnali di riconoscimento, produzione di legame sociale in una vita metropolitana, quella del nostro dottorando, evidentemente impoverita sotto questo punto di vista: una canzone pubblicata su Facebook origina una filiera di commenti, chiede e ottiene contatti, una canzone cantata in un mercato di Parigi non dà altro che l’ebbrezza dell’anonimia, e le due esperienze sembrano completarsi e compensarsi, come legate a doppio filo. La foto della lapide in memoria di Charles Dupas viene ripresa e rilanciata dagli “amici”, quelle lacrime sembrano non cadere più nel vuoto e chiamare a una partecipazione non più solo individuale. Quella malinconia di granito da trascinare da mattino a sera in giro per Parigi, fino, per esempio, a una panchina del cimitero di Montparnasse, una volta raccontata e lasciata in preda ad altri, una volta integrata 149
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nel processo incessante di fabbricazione di una biografia che si vuole interessante, in un gioco di verità e finzione, sincerità e malafede, evapora e lascia spazio a una nuova mossa di costruzione di sé. Accontentare e provocare, esporsi e celarsi: lo studente si perde e si riprende, si inchioda, fugge e si blocca di nuovo, e di sicuro ama giocare a lungo questo gioco intorno al soggetto che lui (non) è. E poi può sempre guardare. Il nostro dottorando, quando torna a casa, di sera, mentre la pasta bolle sul fuoco in attesa di essere (s)cotta, accende trafelato il computer – anzi, l’ordinateur, come lo chiamano i francesi – entra in Facebook e, dopo aver controllato i messaggi ricevuti e i commenti ai suoi “post”, scorre la homepage per osservare l’attività dei suoi amici nelle ultime ore, negli ultimi minuti. Con tutti si può interagire, di tutti si può scoprire una piega, a tutti si può rubare qualcosa. Beninteso, qui chi guarda chiede sempre di essere guardato, chi ruba implora di essere derubato. Ecco quelli che scrivono il proprio diario online, quelli che si specializzano nella diffusione di (contro)informazione politica, quelli che bighellonano incessantemente, quelli che praticano un po’ di pudore, quelli che non lo praticano affatto, che si esibiscono, che si svelano, che si spogliano, quelli che confessano. Ecco, appunto, quelli che confessano. Terzo: la confessione. “A cosa stai pensando?”, chiede Facebook non appena ci si collega. Ciò che si pubblica sulla propria pagina, nella propria “bacheca”, è una risposta a quella domanda. Inoltre, nello spazio che sta esattamente sotto la foto, gli architetti del social network hanno posto una chiara esortazione: “Scrivi qualcosa su di te”. Epitaffio in vita. Un amico tedesco del nostro dottorando, dopo aver subito dal medesimo una lezione di italiano dedicata al motto volgare, ha deciso di rispondere in modo piuttosto perentorio a quella sollecitazione: “Cazzi miei”. Molti, come il dottorando stesso, non rispondono, oppure giocano di spirito: “Istigazione al tatuaggio?” – scrive qualcuno. Ma non si sfugge al dispositivo della confessione, nella mi150
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sura in cui esso fornisce la trama al tessuto delle relazioni sociali nel social network – e questo, dalla sua stanza parigina, lo studente lo capisce molto presto. Egli, in effetti, si racconta, e raccontandosi si confessa, senza mai smettere di farlo: talvolta in uno sforzo illusorio di sincerità, talaltra in un progetto di malafede che gli sfugge senza tregua; guarda per essere guardato, chiede e ottiene di essere riconosciuto, costruisce quel ritaglio di socialità che la città gli nega, e così facendo, non cessa di illuminare le pieghe della sua anima, di rimettere ad altri l’arcano della sua coscienza: regolarmente, continuativamente, esaustivamente. Questo studente di cui parliamo deve essere proprio un povero dottorando di filosofia, perché, a questo punto, sono di Michel Foucault le pagine che gli vengono in mente, e attraverso la porta della confessione – oibò – torna a insinuarsi nel suo rapporto con Facebook una buona quota di sospetto. Gli sembra a un tratto che tutto questo raccontarsi faccia più che pendant con quella moltiplicazione dei discorsi su di sé che è tratto saliente delle pratiche biopolitiche di potere, con quell’inesauribile dispositivo di esame, analisi e controllo di cui la confessione, il racconto di sé, l’estroflessione della verità interiore sono modello e matrice. Ognuno è confessore d’altri, in questo complesso dispositivo a nome Facebook, ognuno è sorvegliante dell’anima altrui, come se la verticalità del controllo e del governo si dislocasse lungo una linea che attraversa orizzontalmente la comunità e gli individui, tutti insieme e uno per uno, omnes et singulatim, appunto. E se fosse questo il collante che tiene insieme i legami sociali? – si chiede lo studente ancora una volta nella penombra della sua stanza parigina. Quel gioco che tanto ama giocare, quanto è ripreso e fatto funzionare all’interno di una tecnica di potere senza autore che regola i processi di produzione di soggettività proprio attraverso la gestione di spazi di libertà e di gioco? Lo studente inizia a pensare di essere preso in un reticolo che se da un lato lo cattura attraverso la possibilità di farsi oggetto e di vedersi identificato in uno o più simulacri, dall’altro rinforza e intensifica l’abitudine alla confessione, ad assoggettarsi a un’identità, ad avvolgersi nelle sue ben151
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de, a innamorarsene a generosi colpi di narcisismo, nonostante tutta la malafede (sartriana) del mondo. E poi, se avesse anche un abbozzo di formazione marxista, e forse ce l’ha, si renderebbe conto che se la confessione è la trama del dispositivo, allora la valorizzazione capitalistica del tempo di non lavoro, la capitalizzazione dei bisogni – dei suoi bisogni di socialità e di relazione –, la loro trasformazione in merce immediatamente esposta nella fiera del social network, ne costituiscono probabilmente l’ordito. Facebook come uno specchio, si era detto, anzi, meglio di uno specchio, e ora allo studente, qualche volta, viene quasi voglia di tirare un sasso a quello specchio, a quello schermo. Epilogo: il suicidio. E se quell’anonimia del mondo prima di Facebook, quella solitudine cui sembra di tornare lasciando il social network, fossero preferibili al gioco ambiguo e spettacolare che tanto assorbe il desiderio del dottorando? Egli, alla Bibliothèque nationale de France, in cui spesso si lascia tumulare da vivo, legge per caso alcune pagine di Deleuze, e la sua voce, che proviene dal 1990, gli parla di controllo continuo e macchine informatiche, gli parla di una comunicazione istantanea che è marcia e fradicia di denaro, lo invita forse a creare dei “vacuoli di non-comunicazione”, a costruire degli interruttori, per sfuggire al controllo. Che fare? La domanda resta in sospeso e, anzi, apre lo spazio per altre domande. Se Facebook fosse solamente un sintomo o un moltiplicatore, un amplificatore, un esponente che eleva a potenza una configurazione dell’esperienza soggettiva che comunque attraversa il corpo sociale nell’ipermodernità liquida? Come dire, una volta che si è stati per Facebook, lo si rimane per sempre, perché, tutto sommato, il dispositivo non è altro che un ritaglio del diagramma di controllo nel quale restiamo, prima e dopo il social network. Lo studente, nel frattempo, considera la possibilità di progettare il proprio suicidio 2.0 e forse, domani, pubblicherà il suo ultimo “post” da Parigi (“Entrate, mi sono impiccato”, così potrebbe scrivere sulla sua bacheca, con un virtuale gesso rosso e con sfoggio di citazione: l’ultima mossa seduttiva) prima di abbandonare il suo profilo, prima di 152
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oscurarlo, prima di consegnarlo al backstage di Facebook, dove – è importante saperlo – si conserverà dormiente, congelato in aeternum, per un’eventuale riattivazione. Pulsione di morte prêtà-porter: anche questo è un gioco che si può giocare, in questo strano mondo di spettri, dove, ogni volta che si muore, c’è sempre il tempo per risorgere.
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Esitare su Facebook PIER ALDO ROVATTI
e qualcuno mi domandasse se sia più opportuno entrare in Facebook o rimanerne fuori, proporrei innanzi tutto di non precipitarsi a rispondere. Lo consiglierei anche a chi, per vari motivi, si astiene dall’usare questo cosiddetto social network, quindi anche a me stesso. Il lettore può non avere alcun interesse nel sapere che i disturbi alla vista di cui soffro mi tengono lontano dalla telematica in generale e che il computer è spesso per me qualcosa di simile a uno strumento di tortura che uso quel minimo indispensabile per non sentirmi escluso dalle pratiche normali della comunicazione sociale del mondo in cui vivo e del lavoro che faccio (insegnare filosofia), come leggere le e-mail che ricevo che sono parecchie. Quando poi mi è necessario rispondere ad alcune di esse, o inserire nel sito dell’università le informazioni indispensabili, o solo acquistare un biglietto di treno o di aereo, o fare un’operazione bancaria urgente, entro in crisi e devo appoggiarmi alla pazienza di chi mi sta accanto. Così, per me, il computer, i suoi segreti, le sue pratiche, le navigazioni nella grande rete e le interazioni virtuali che esso permette, costituiscono un territorio quasi sbarrato. Sorrido pensando che sto scrivendo a mano queste righe, e che rimarrebbero sepolte nei miei quadernoni se un’anima buona non le dissotterrasse dando a esse una possibilità di diventare vive e socialmente accessibili. Non difendo la mia incapacità con qualche argomento cultu-
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rale, me ne guardo bene – oggi sarebbe ridicolo – e anzi la percepisco come un handicap. Al contrario, essa alimenta la mia curiosità: come se fossi collocato al di qua di un vetro e osservassi con un più di desiderio quanto accade al di là. Vedo gli altri che adoperano il computer come si va in bicicletta o si guida l’automobile, senza tanto pensarci, e fin dalla giovane età, mentre da parte mia non faccio che pensarci, chiedere, indagare, accumulare pareri. Ogni giorno trovo qualcosa nelle opinioni e nelle cronache della stampa, e già ho a disposizione un’intera biblioteca di saggi e libri che si accumulano a grande velocità e altrettanto velocemente invecchiano. Ascolto chi avverte il rischio di correre a mettere un cappello intellettuale su un fenomeno così pervasivo e liquido, e infatti a quei saggi e libri, che pure leggo, antepongo ciò che ricavo dalle mie inchieste personali cercando di raccogliere esperienze da chi mi circonda e talora anche da chi non conosco e incontro casualmente. Noto, però, che prevale un atteggiamento di riserbo, come se le persone con cui parlo avessero poca voglia di raccontare quello che stanno facendo, per esempio a proposito di Facebook, cosa, come e quando lo fanno, e magari perché, non so dire se davvero per il fatto che ne sanno loro stessi poco, se non interessa più di tanto il saperlo, o se scatta un meccanismo geloso a difesa di una dimensione tutta privata, o magari in tale privatezza c’è anche la traccia di un vago senso di colpa. Quando, alle prove di maturità del 2009, il Ministero della pubblica istruzione ha proposto ai ragazzi un tema sui social network con tanto di testi critici all’appoggio, mi risulta che questa iniziativa non sia stata accolta con entusiasmo: il tema è stato sì scelto da parecchi studenti, ma poi svolto con sussiego e reticenza, più allo scopo di compiacere l’ordinante e di cavarne un risultato scolasticamente opportuno, che non con l’intenzione di raccontare effettivamente esperienze vissute in prima persona. Ciò può apparire paradossale se solo riflettiamo al fatto che Facebook è essenzialmente un racconto di se stessi attraverso gli altri.
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Facebook è tante cose e ha diversi usi. In questo fascicolo di “aut aut” il lettore dispone di molte analisi critiche e articolate, cui ovviamente rimando. Viene fatta l’ipotesi che la sua natura di “dispositivo” sia la pista da seguire, non dimenticando innanzi tutto che Facebook nasce e prolifera in una società di mercato a impianto capitalistico, e cioè che qualcuno ha approntato uno scenario interessato e lo manovra allo scopo di allargare le forme di “valorizzazione” sociale al di là del tempo di lavoro e della sua specifica produttività. Questa valorizzazione interpella gli individui uno per uno e si alimenta attraverso la massa di informazioni che essi “spontaneamente” producono, senza alcun comando diretto e visibile, dunque senza alcuna coercizione, anzi assecondando le proprie voglie e desideri. Ma non possiamo neppure dimenticare che, in questo modo, i milioni e milioni di utenti costruiscono realmente, non solo illusoriamente intendo, qualcosa come un legame sociale che sfonda i confini stretti della socialità di ciascuno, che è oggi decisamente povera, fino a ridursi spesso alla condizione estrema della solitudine. Un legame, inoltre, non incatenato nella dimensione unica della virtualità, ma che è in grado di produrre degli acting out anche politici (cioè non solo limitati alle sfere delle relazioni personali, per esempio a quella dell’amicizia): in Italia, negli ultimi mesi, il fenomeno più appariscente è stato, come è noto, quello dell’“onda viola” (in particolare la grande manifestazione di piazza a Roma contro Berlusconi, il “No B. day”). Basterebbe questa doppia lettura per giustificare l’esitazione a cui ho accennato all’inizio. Aggiungo che non basta chiamarsi fuori da Facebook per esserne davvero fuori, poiché esistono effetti collaterali e indiretti del fenomeno che possono comunque implicarci. Non mi riferisco solo al fatto che di fronte a un acting out politico, come quello che ho ricordato, si crea evidentemente un’implicazione tra “il popolo” di Facebook e gli altri (i quali dovranno pure dedicare una riflessione ai modi e alla velocità con cui tale popolo si è costituito in tempi nei quali la pratica politica appare spesso paralizzata e assente). Mi riferisco anche alle procedure più specifiche e interne che fanno funzionare Fa156
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cebook, per esempio al fatto che ciascuno di noi può trovarsi dentro il dispositivo, anche se non ne fa uso, poiché il suo nome, la sua identità e magari la sua immagine sono stati fatti circolare a sua insaputa da qualche utente “iscritto” al mondo di Facebook (come è capitato anche a me). L’esitazione, e dunque la cautela, nei confronti di Facebook riguarda per me il senso del dispositivo stesso, la sua paradossalità starei per dire, piuttosto che un semplice computo algebrico dei più e dei meno rispetto a ciò che possiamo farne e all’uso delle nostre storie individuali che automaticamente cediamo al sistema di identificazione, una volta che ci siamo immessi in esso. Più precisamente: questo eventuale computo, già falsato dalla constatazione che comunque ci siamo dentro anche se volessimo starne del tutto fuori, è possibile solo se ci facciamo un’idea di come tale dispositivo lavora sulla nostra soggettività. E qui mi sembra che un rimando alle analisi di Michel Foucault sia essenziale. Quando diciamo la parola “dispositivo” per connotare Facebook, di quale potere stiamo soprattutto parlando? È chiaro che si tratta di una specie di “confessione”, ed è altrettanto evidente che quello che vi avviene è la costruzione di una biografia. Dunque, l’effetto è un’esposizione di se stessi attraverso un racconto, e il potere in questione si applica proprio a questa visibilità il cui carattere panottico è altrettanto palese, dato che tutti possono vedere tutto. Quanto più dettagliata è l’esposizione di sé, tanto più forte è l’applicazione del potere. In fondo è la ragione per cui Foucault critica Freud e la psicanalisi interpretandola non come inizio, bensì come emergenza storica di un cammino lunghissimo che nasce addirittura nella cultura antica, greca e romana. Fatta questa premessa, che inserisce Facebook nella grande vicenda della costruzione della soggettività che caratterizza in modo essenziale la modernità e la contemporaneità, dobbiamo tuttavia riconoscerne alcuni tratti specifici e differenziali. Foucault, insomma, resta un punto di partenza da articolare, anche 157
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nelle sue non nascoste contraddizioni o almeno difficoltà, forse sintetizzabili in un interrogativo come il seguente: con quale strategia, attraverso quali pratiche, possiamo “salvare” il soggetto e la sua verità? Il paradosso, il pasticcio, il doppio vincolo (come direbbe Bateson), in cui veniamo a trovarci, è quello tra la visibilità e il sottrarci alla visibilità, oppure, analogamente, quello tra il raccontare noi stessi o il fare silenzio su noi stessi, tra l’impulso e il piacere di apparire o l’esigenza di contrastare la visibilità e di praticare un’arte dell’inapparenza. Una linea di pensiero (nella quale metterei Deleuze e in parte Foucault stesso), che ha avuto effetti molto significativi sull’attuale cultura critica, tende a sciogliere il paradosso, attribuendo un segno positivo a una delle due dimensioni (pudore, silenzio) e un segno decisamente negativo all’altra (desiderio di visibilità), ma è facile constatare che il paradosso si riproduce nel momento stesso in cui riconosciamo che tutti siamo all’interno di questo dispositivo di potere (e di “soggettivazione”), che non esistono linee di fuga che ne siano immuni e che un elogio dell’inapparenza, della “pura” inapparenza, non è una strategia realistica, cioè non è realizzabile nel mondo in cui oggi viviamo, e forse addirittura ci allontana dai “turbamenti” della soggettività con cui abbiamo a che fare quotidianamente. L’elemento di differenza che più colpisce nel funzionamento del dispositivo Facebook (ben oltre lo stesso modello del “reality” televisivo) è che qui le storie personali sono interattive e non del tutto governate dal singolo soggetto. A questo elemento se ne connette un secondo, di non minore rilevanza, e cioè quello che attiene alla “verità” di queste storie, che risultano racconti intrisi di finzione e dunque in buona misura fittizi, al punto che, al di là dell’intenzione di simulare la propria storia, non sembra possibile a nessuno tracciare una frontiera precisa tra la parte di verità e la parte di finzione che lo riguarda. Dunque, abbiamo soprattutto a che fare con un effetto “sorpresa” che si accompagna al piacere della “simulazione”. Ciò che accade di non prevedibile, e che spinge l’utente di Facebook 158
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davanti al computer quasi ogni sera, è l’ingresso nella sua storia, presente ma soprattutto passata, di nuovi personaggi che talora emergono dal nulla, di piccoli eventi dimenticati e magari decisamente secondari, che lo interpellano a sua insaputa e illuminano, per quanto fievole sia questa luce, piccoli segmenti della sua vita. L’utente può non rispondere o corrispondere a questi segnali, ma i segnali, fatti di nomi, parole e anche immagini (una fotografia di cui ignoravamo perfino l’esistenza, ecc.), ci sono e vengono comunque a comporre un tessuto di storie reali, immaginate e possibili. In ogni caso la scena individuale si allarga e si frastaglia in un orizzonte variegato sul quale si applica la curiosità di ogni soggetto verso dettagli che riguardano la sua identità, così come viene vista o è stata vista dagli altri, anche da coloro che erano stati lasciati in ombra o addirittura cancellati nella ricostruzione consapevole della propria storia, anche da quegli altri di cui forse ignoravamo la presenza ma che pure, in qualche momento, stavano guardandoci. Il risultato è che si producono una oscillazione dell’identità e una moltiplicazione degli sguardi: ciò che attrae – credo – è proprio questo leggero squilibrio nella percezione di sé, l’irrompere di immagini allo specchio, più o meno gradevoli, che ci catturano magari solo per un momento. È una costruzione della soggettività a opera di altri in una visibilità spalancata a tutti. Visibilità che produce, a propria volta, un piacere sottile che – a mio parere – si raddoppia attraverso l’illusione di governare questa scena mediante la sua stessa virtualità, falsificando e oscurando i dati reali messi a disposizione, affidandosi alla distanza del gioco. Ma si tratta – come tutti sanno – di un’illusione (quest’illusione di governare la finzione), per due ragioni che sembrano opposte: perché il dato di realtà o gli elementi di identificazione vengono infine sempre alla superficie e perché la finzione non è davvero governabile, o scioglibile, in quanto si rivela come la colla stessa che tiene assieme il racconto di sé cui Facebook dà contorni. Si può allora scoprire (o semplicemente verificare) che la finzione è una dimensione essenziale della nostra storia, cui non possiamo rinunciare e che va paradossalmente a rinforzare 159
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il versante stesso della realtà. Quel dato personale, che esitiamo a dichiarare e che in certo modo trucchiamo, ci viene comunque restituito, dai nostri cosiddetti “amici”, caricato ancora di finzione ma con una pretesa di realtà che aggiunge a esso anche un supplemento di verità. Certo, siamo vicini all’ipotesi di Foucault, secondo la quale questo ormai dominante dispositivo di potere si realizza mediante tecniche di autosorveglianza, ma al tempo stesso ne siamo lontani poiché l’effetto di “libertà”, grazie al quale il dispositivo funziona e si legittima, non è più contenibile nella cornice rigida dell’autosorveglianza, cioè in una qualche declinazione del governo di sé. Al contrario, Facebook si presenta come un esempio della intenibilità di questa supposta autonomia e anzi manifesta il nostro desiderio di affidarci allo sguardo e alle parole degli altri, di slittare fuori dalla nostra centralità e da una semplice trasparenza di noi a noi stessi. È in gioco, infatti, quella che Lacan chiama “pulsione scopica” e che, più semplicemente, potremmo caratterizzare come un desiderio di apparire o di farsi vedere dagli altri. Mi esprimo così (e potremmo chiamare in causa anche le famose analisi di Sartre sul “per altri”) poiché il mix di parole e immagini veicolato da Facebook può essere considerato una funzione dello sguardo in cui le parole e il racconto di sé, così come le parole e il racconto degli altri su di noi, tendono a “esibire” i contorni di una vita individuale. E tutto ciò che riguarda il mascheramento, la deviazione e perfino la finta o la simulazione, è il tessuto, il “testo” se vogliamo, di questa esibizione che si produce al di là delle intenzioni e del governo soggettivo di quanto viene, in ogni caso, messo in mostra. Per quanto trattenuta, avviene qualcosa come un’apparizione pubblica nella solitudine e nella penombra di un occhio che guarda uno schermo e di una mano che lo asseconda. Perciò propongo di esitare. Non perché abbia in mente una qualche contromanovra (che, attraverso tattiche di sottrazione, alimenterebbe l’illusione di poter effettivamente scomparire dalla scena). Considero Facebook una finestra assai sintomatica del 160
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teatro in cui viviamo, e che forse ci può aiutare a capirlo e ad abitarlo. Siamo tutti dentro un simile teatro, anche se ci disinteressiamo di questo curioso esperimento di legame sociale che ci può sembrare artificioso, vacuo e privo di importanza, e nel quale ci pare di distinguere con chiarezza il carattere di dispositivo. La macchina dell’apparire è ormai diffusa a ogni livello sociale, non solo nella politica e nello spettacolo, al punto che talora sembra coincidere con la dinamica stessa dei rapporti attuali tra individui e società. Esitare su Facebook significa, per me, in conclusione, non precipitarsi a chiudere la questione prima ancora di essersi resi conto di quale questione precisamente si tratti. Non accettarla subito come una pratica ovvia o un gioco le cui regole sono indifferenti come tali, poiché bisogna innanzi tutto giocarlo o delegarlo ai giocatori senza farsi tante domande sul perché e sul come, dando per scontato che la sua posta consista in un “sapere” di scarsa rilevanza. Condivido, inoltre, come ho detto, l’atteggiamento di chi mette in guardia dal precipitarsi, con un gesto di presunzione intellettuale, a costruire su Facebook un cappello teorico di qualche tipo. Naturalmente metto in guardia anche me stesso. So bene che queste operazioni di inscatolamento non fanno altro che applicare premesse e idee già oggettivate sopra un fenomeno che chiederebbe un impegno critico corrispondente alla sua novità. Facebook rimette in campo la questione della soggettività, per come essa è situata o situabile nel nostro presente. Se condividiamo questo, se siamo d’accordo che di tale “situazione” del soggetto sappiamo poco o nulla e che essa resta per noi un delicato, o forse il più delicato dei punti interrogativi, è opportuno procedere con esitazione e con una conseguente pensosità.
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M. Bettetini, S. Poggi (a cura di)
I viaggi dei filosofi Non è solo la mente a viaggiare, nella vita dei filosofi
John R. Searle
Costruire il mondo sociale La struttura della civiltà umana
Judith Butler
Parole che provocano Per una politica del performativo
Umberto Curi
Straniero Un tema ineludibile per l’uomo contemporaneo
Laurent Ségalat
La scienza malata? Come la burocrazia soffoca la ricerca
Peter Sloterdijk
Devi cambiare la tua vita Per salvare il pianeta occorre migliorare se stessi
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Interventi Hyperbolé. Politica, potere, potenza GIACOMO MARRAMAO
1. Desidero innanzitutto rivolgere un ringraziamento non formale a Massimiliano Marotta e ai giovani della Società di studi politici per avermi invitato a questo importante ciclo di lezioni e alla direzione della libreria Feltrinelli per ospitarci in questa splendida sede di piazza dei Martiri. Non si tratta propriamente per me di un battesimo. In questa stessa sala ho avuto tempo fa un appassionante dibattito con lo storico Franco Cardini su un tema quanto mai incandescente: i rapporti tra l’Europa e l’Islam. Il tema di stasera, nella sua formulazione prettamente categoriale, presenta a prima vista un’attualità meno evidente e pressante. Si tratta tuttavia, come sa chiunque pratichi il mestiere del filosofo, di un’impressione falsa e fuorviante. I concetti astraggono dalla realtà, dalla concreta dinamica sociale, non per distanziarsene ma per coglierne ed enuclearne – avrebbe detto Marx – l’intima logica strutturale o per fornirne – con le parole di Wittgenstein – una “rappresentazione perspicua” (übersichtliche Darstellung). La triade concettuale classica da me prescelta non fa eccezione alla regola aurea appena enunciata. Nel corso dell’esposizione proverò pertanto a proiettarla sulla costellazione del nostro presente “globale”: la costellazione di uno spazio-tempo “compresso” ma non uniforme, interdipendente ma non “eucliIl presente testo è la registrazione di una conferenza tenuta presso la libreria Feltrinelli di piazza dei Martiri a Napoli, nell’ambito di un ciclo organizzato dall’Istituto italiano per gli studi filosofici e dalla Società di studi politici. Una versione modificata del testo è apparsa, in lingua spagnola, sulla “Revista de Occidente”, 337, 2009.
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deo”, segnato da nuove (o dal ritorno di vecchie) forme di conflitto e attraversato da un campo di tensione tra gli imperativi antagonistici della mondializzazione e della sovranità, della transterritorialità dei mercati, delle tecnologie, dei flussi migratori e la persistenza (o in taluni casi la ripresa) delle prerogative potestative e delle logiche territoriali degli stati. Veniamo dunque, in prima battuta, al trinomio che dà il titolo al nostro incontro: politica-potere-potenza. L’ordine in cui ho disposto i termini si presenta prima facie paradossale, procedendo per così dire contro-marcia rispetto al grado di specificazione e complessità. Non è forse vero che la politica è un ambito più specifico e complesso rispetto al potere e che il potere costituisce a sua volta una specie e declinazione peculiare rispetto al genere astratto della potenza? Non è forse vero che la potenza – la Macht – rappresenta, per dirla con Max Weber, una categoria indifferenziata e “sociologicamente amorfa”, fino a quando non venga articolata nelle forme idealtipiche della Herrschaft, del “dominio” inteso come potere legittimo? Tutto ciò è indubbio. Ma a condizione di visualizzare il rapporto fra i termini del trinomio da uno solo dei lati della medaglia: dal versante analiticocategoriale. Se invece osserviamo le cose dall’altro verso, dalla prospettiva dei presupposti simbolici e delle condizioni di possibilità, apparirà chiaro che potere e potenza risultano letteralmente impensabili senza assumere la politica – secondo una fondamentale indicazione di Hannah Arendt – come prassi relazionale. Solo a partire di qui si dischiude la possibilità di sottrarre i connotati produttivi del potere (oggetto dell’analitica di un Michel Foucault) o i connotati energetici della potenza (quali si trovano dispiegati in quella traiettoria dell’ontologia occidentale che va dalla Metafisica di Aristotele all’Etica di Spinoza, dalla Logica di Hegel alla nozione nietzschiana di Wille zur Macht) ai rischi di una cristallizzazione sostanzialistica. Vediamo allora di fissare con chiarezza i termini della questione. Si tratta non solo di rileggere, ma di ripensare in senso forte tutti quei nodi che la grande tradizione metafisica dell’Occidente aveva concepito in termini di sostanza traducendoli nei 164
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termini – nel lessico e nella logica – della relazione. È questa l’unica via di accesso che consente di ridefinire in un senso radicalmente nuovo la nozione di soggetto: nella direzione – da me delineata nel corso degli ultimi due decenni, da Potere e secolarizzazione a Dopo il Leviatano e a Passaggio a Occidente, passando per una reimpostazione più specificamente teoretica della questione del tempo, da Minima temporalia a Kairós – di un’ontologia del limite e del contingente aperta alla prassi di trasformazione (una direzione, detto per inciso, che – come sa chiunque abbia una qualche dimestichezza con il mio lavoro – incrocia per molti aspetti i temi del pensiero femminista della differenza e della queer theory: da Carla Lonzi a Luce Irigaray e Luisa Muraro, da Adriana Cavarero a Judith Butler e Wendy Brown, da Donna Haraway a Rosi Braidotti, da Lia Cigarini a Maria Luisa Boccia e Ida Dominijanni). Ripensare genealogicamente la tradizione della metafisica non ha, con ogni evidenza, un mero significato storico-ricostruttivo – e neppure semplicemente “decostruttivo”, almeno stando agli esiti di un decostruzionismo ridotto, ben oltre gli intenti dello stesso Derrida, a stile manieristico negli epigoni angloamericani –, ma ha piuttosto una portata ontologica in grado di gettare luce sulla costellazione del nostro presente. Al punto che viene da chiedersi: come mai proprio adesso diviene cruciale, per la teoria come per la prassi, ciò che era già da sempre latente nel pensiero dell’Occidente intorno alla politica? Da qui occorre partire: dalla presa d’atto che lo spazio della costituzione dei soggetti si trova oggi stretto tra i due poli del già-da-sempre e del proprio-ora. Come mai accade proprio adesso che la questione del “politico”, del nucleo simbolico del potere e della potenza, presente sin dalle origini alla nostra nomenclatura concettuale, ci pone drammaticamente al cospetto di alternative, dilemmi, decisioni radicali? Non allude forse a questo il logo adottato dalla Società di studi politici: il logo pitagorico della biforcazione e della scelta? Andiamo dunque, alla luce di queste premesse, ad analizzare nella loro distinzione e relazione reciproca i tre termini che formano l’oggetto del nostro incontro: politica, potere, potenza. 165
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2. Politica, in primo luogo. Quale termine è più familiare di questo? Eppure è un termine che, a ogni svolta della storia, dobbiamo ridefinire in modo radicale: indipendentemente dal fatto che tale ridefinizione – la cui posta in gioco è una risemantizzazione di ciò che costituisce sul terreno teorico-pratico l’ambito del “politico” – assuma la forma di un’implicita discontinuità o di una rottura aperta con la tradizione. L’aspetto strutturalmente problematico del lemma non dipende tuttavia soltanto dalla circostanza che la sua semantica viene periodicamente rimessa in questione. Dipende piuttosto dal fatto che il “politico” si costituisce sin dalla sua genesi come una preliminare messa-inquestione dell’ordine: come una sottrazione dell’ordine, delle sue gerarchie e delle sue leggi, al mito di una presunta “fatticità” naturale. In breve: non si dà propriamente politica se non come problema (e non come fatto) dell’ordine; se non come domanda intorno alle condizioni di legittimità del potere. Il transito dalla fatticità alla normatività, dall’ordine come fatto all’ordine come problema, non è dunque, come recitano ancora troppi manuali o troppe ricostruzioni manualistiche sottese a saggi sedicenti innovativi, un portato del contrattualismo moderno, ma è innervato – come dicevo – sin dalle origini nel termine politica: tanto da costituirne la premessa e la scena influente. Una scena che, in Occidente, coinvolge politica e filosofia in un destino comune. Ogni volta che adoperiamo i termini politica e filosofia parliamo greco. Di più: evochiamo due lemmi coevi nella loro genesi, situabile a cavallo tra il VI e il V secolo a.C. È in quel periodo, storicamente e teoreticamente nevralgico, che si comincia a parlare di “politica” attraverso un processo – ben documentato dallo storico tedesco Christian Meier – di sostantivazione di un aggettivo inizialmente deputato a connotare il complesso delle questioni che investivano la vita della polis. Ed è nello stesso periodo che prende forma, con l’insegnamento socratico, il neologismo philosophía: anche la filosofia, come la politica, si presenta come una pratica nuova che ha il suo spazio proprio ed esclusivo nelle pratiche relazionali della polis. Se è vero che il termine affiora per la prima volta in ambito pitagorico e in un celebre 166
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frammento di Eraclito, è soltanto con Socrate che esso acquista quel significato di rottura che, strappandolo alla dimensione “sapienziale” e “iniziatica”, lo consegna alle tecniche dialogico-argomentative approntate dalla grande sofistica. Difficile dar credito alla distinzione – attribuita da Diogene Laerzio a Pitagora – tra i filosofi, amanti della sapienza, e i sophói, i sapienti per antonomasia che sarebbero soltanto gli dei: distinzione che con ogni probabilità risente dell’influenza della dottrina platonica mediata da Eraclide Pontico. D’altro canto, il frammento di Eraclito in cui si afferma chrè gàr eu mála pollòn hístoras philosóphous ándras einai, “occorre che uomini filosofi [amanti-della-sapienza] siano indagatori di molte cose” (fr. B 35 DK), non adombra la curiositas scientifica cui siamo abituati a partire dall’irruzione della modernità e dalle metodiche d’indagine approntate dalla philosophia naturalis, ma piuttosto il perseguimento della sophía in quanto légein, capacità di raccogliere la pluralità delle conoscenze nella veduta unitaria del logos. Altra cosa era la filosofia per Socrate: non dimensione sapienziale ma pratica dialogica che, raccogliendo la sfida della sofistica, ne mutuava le tecniche (dialettica e retorica) al fine di giocare un gioco che si sarebbe rivelato oltremodo pericoloso: il gioco della verità. Con questa mossa, la prassi dialogica veniva ad assumere un carattere ben più drammatico di ciò che oggi comunemente si intende per “dialogo”, finendo per includere in sé il momento del conflitto, dell’antitesi, della polarizzazione tra tesi opposte: per Socrate, in altri termini, non c’è dialogos senza polemos. Il socratico “sapere di non sapere” istituiva così un’attitudine ambivalente, di prossimità distante, rispetto ai linguaggi della polis, gettando un ponte con lo spazio proprio della politica. E tuttavia... E tuttavia il gemellaggio tra filosofia e politica si sarebbe presto trasformato in diaspora a causa del trauma prodotto – ancora un’osservazione di Hannah Arendt – dal processo e dalla condanna a morte di Socrate da parte della democrazia ateniese. Da questa scena influente prende avvio una sorta di doppio movimento: per un verso, a partire da Platone, una tensione inconciliabile tra filosofia e politica (con il corollario di un’irriducibile 167
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riserva critico-polemica nei confronti della democrazia in quanto regno della doxa, dell’opinione); per l’altro un’oscillazione costante, ravvisabile già in Aristotele, della pratica filosofica tra i due poli della paideia e della “filosofia prima” (quella che verrà successivamente chiamata “metafisica”). È significativo, a tale proposito, che Aristotele ascriva a Socrate il merito di avere dischiuso alla riflessione filosofica la dimensione dell’etica, sottraendola al relativismo della sofistica: “Socrate si occupò delle virtù etiche e per primo tentò di dare di esse definizioni universali” (Metaph., M, 4, 1078b 17-19). Si tratta, con ogni evidenza, di una forzatura: dal momento che lo spazio del metaxý, dell’intermezzo o interludio tra sapienza e ignoranza, assegnato dallo stesso Socrate platonico alla filosofia per il tramite di Diotima (nel celebre passo del Simposio), alludeva a una prassi dialogica come approssimazione alla verità destinata a restare incessantemente aperta e a non concludersi mai con un’acquisizione stabile e definitiva. Malgrado ciò, è indubbio che Socrate – come ha osservato Mario Vegetti nel suo importante libro del 1989 L’etica degli antichi – abbia svolto un “ruolo di cerniera, di saldatura, fra la tradizione delle idee morali greche, dall’VIII al V secolo a.C., e la loro traduzione nei termini e nel linguaggio della teoria etica, che inizia non prima del IV secolo”. Ed è altrettanto indubbio – occorre a questo punto aggiungere – che il “momento socratico” acquisti oggi una rinnovata attualità. Per due ordini di ragioni. In primo luogo, per il rilievo che è venuto assumendo – a cavallo fra i due stili di pensiero dell’analitica e dell’ermeneutica – l’idea della filosofia non come “visione” o Weltanschauung, “intuizione del mondo”, ma come pratica dell’interrogare: nella consapevolezza che buona parte dei nostri problemi (anche esistenziali) derivi da questioni irrisolvibili, da domande mal poste. In secondo luogo, per il fatto che il metaxý filosofico viene oggi ad assumere, negli scenari della Cosmopolis o della Babele globale, una posizione analoga a quella che ne aveva segnato la genesi nella polis ateniese del V secolo: stretta allora in uno spazio mediano tra la visione sapienziale dell’arché propria dei “presocratici” e il relativismo etico-gnoseologico del168
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la sofistica, oggi in un precario interstizio tra i due opposti poli delle teorie cosmologiche del Tutto (o delle dottrine fondamentali, non solo religiose, della Verità assoluta) e il relativismo etico-culturale dei postmoderni. 3. Vengo così al secondo termine: potere. Termine carico non solo di indeterminatezza, ma – come vedremo – anche di contraddizioni e tensioni interne. Se “politica” è il risultato della sostantivazione di un aggettivo, “potere” è il risultato della sostantivazione di un verbo. Ma cosa intendiamo, esattamente, quando parliamo di potere? In cosa consiste il potere del potere? Che cosa può il Potere? La classica distinzione che viene introdotta a questo proposito è quella tra “potere-di” e “potere-su”: tra potere di disposizione sugli oggetti e potere come azione esercitata sui soggetti umani. Ma la tenuta di una tale distinzione diviene oltremodo problematica se consideriamo il carattere contraddittorio delle sue conseguenze: per un verso, il potere sulle persone è tale se è in grado di disporre di esse (Marx docet...) alla stregua di “cose”; per l’altro, l’assoggettamento dei soggetti (quel processo che Foucault denota con il termine “soggettivazione”) può essere intanto contrassegno di potere in quanto si traduce in un dispositivo di controllo-disciplinamento di individui virtualmente liberi: ossia, potenzialmente dotati di “volontà”, della capacità di agire altrimenti o antagonisticamente rispetto alla relazione di assoggettamento. Il paradosso del potere propriamente inteso consiste pertanto nel fatto che esso è tale solo se lo concepiamo non già come sostanza ma – appunto – come relazione con soggetti potenzialmente liberi: vale a dire, dotati del potere di agire in modo alternativo all’atto di subordinazione. Ma, stando a queste premesse, vediamo emergere un’implicazione radicale del paradosso del potere, messa genialmente in luce da Étienne de La Boétie nel suo breve e luminoso Discorso sulla servitù volontaria (composto, secondo la testimonianza di Montaigne, intorno alla metà del XVI secolo): potere e libertà sono co-originari, discendono dalla medesima fonte. Proprio in quanto negazione della libertà, il potere la presuppone: non sa169
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rebbe pensabile se i “soggetti” su cui esso si esercita non fossero originariamente e potenzialmente liberi. In parole povere: un potere esercitato su individui per natura non liberi non sarebbe propriamente potere, dal momento che a esso verrebbe a mancare la fondamentale prerogativa della relazione. E un potere senza relazione non sarebbe più un potere-su, ma semplicemente un potere-di: mero potere di disposizione su oggetti. Per questa decisiva ragione il potere necessita dell’asservimento volontario dei soggetti, della rinuncia ad agire liberamente operata da individui potenzialmente attivi. La proverbiale passività dei “subalterni”, su cui gli intellettuali del secolo scorso hanno versato fiumi di inchiostro, non discende affatto da un’originaria illibertà o impotenza, ma al contrario dall’indeterminata potenza della libertà, intesa come possibilità di agire o non agire. Discendono di qui due conseguenze fondamentali: in primo luogo, l’irriducibilità del potere alla dimensione fattuale della forza; in secondo luogo, il disvelamento della circostanza che la libertà originaria che sta a presupposto della relazione di potere è la potenza. 4. Siamo giunti così alla delucidazione dell’ultimo termine del nostro trinomio: potenza. Come è stato messo in luce soprattutto da Spinoza, la potenza coincide con l’essenza stessa dell’essere in quanto attività e l’impotenza altro non è che potere di nonesistere: Posse non existere impotentia est, et contra posse existere potentia est – “Poter non esistere è impotenza, e, al contrario, poter esistere è potenza” (Ethica, Pars I , Propositio XI). Per ragioni di tempo, posso appena menzionare una significativa linea di tendenza della riflessione contemporanea che, facendo leva su Spinoza oppure sulla trattazione della coppia concettuale dynamis-enérgeia (potenza-atto) contenuta nel libro Θ della Metafisica di Aristotele, ravvisa nella costitutiva coappartenenza di potenza e impotenza (adynamía) una vera e propria “archeologia” della soggettività. Data l’impossibilità di trattare le complesse implicazioni di questa tematica, mi limito a osservare che il merito della tendenza in questione (che, detto per inciso, pre170
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senta al proprio interno posizioni assai variegate) consiste essenzialmente nello spostare il focus dell’indagine sul potere dalle forme del suo esercizio (e della sua organizzazione) al presupposto a esse soggiacente: il “differenziale” della potenza. Più precisamente: quella costitutiva differenza tra potere e potenza che induce nel potere – come è stato detto – un’originaria nostalgia della potenza. Ma – e qui veniamo al punto – come intendere questa differenza? In cosa consiste il differenziale della potenza rispetto al potere? Le risposte che vengono in genere fornite, anche in ambito strettamente filosofico, a questa domanda convergono nell’individuare il carattere della differenza in un’eccedenza energetica: in una quantità di energia che necessariamente sporge, eccedendo le forme in cui la potenza di volta in volta si cristallizza in potere. Si tratta però di risposte che, anziché chiudere la questione, sollecitano un’ulteriore – e ancor più fondamentale – domanda: qual è la natura di questa energia? Dobbiamo intenderla come un vettore indeterminato di energia che attraversa – come in Spinoza – tutti gli enti, e con essi gli individui umani, dando luogo a gradazioni diverse delle passioni: determinate, dalla gioia alla tristezza, dall’incremento e dal decremento del grado di potenza e dunque di essere? O dobbiamo invece concepire il differenziale energetico della potenza in termini non meramente quantitativi ma simbolici? Nel porre questo interrogativo siamo giunti a un tornante decisivo del nostro discorso. La differenza innervata nella potenza – il suo differenziale incolmabile rispetto al potere – risiede non nella quantità di energia ma nella sua hyperbolé: nella sua eccedenza simbolica. Se la differenza consistesse in un mero surplus energetico, sarebbe concettualmente impossibile distinguere la potenza dalla forza. E in tal modo la caratterizzazione filosofica del concetto finirebbe per estinguersi, risolvendosi (e dissolvendosi) in una “dilatazione semantica” di stampo naturalistico: analogamente a quanto accadde a Werner Heisenberg nel suo ingegnoso quanto problematico tentativo di esibire le implicazioni ontologiche della meccanica quantistica. Davvero curioso 171
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– viene da dire – come spesso le operazioni riduzionistiche si accompagnino a una iperdilatazione e (data la circostanza, è proprio il caso di aggiungere) indeterminatezza dei concetti. Ma se le “onde di probabilità” di Bohr, Kramers e Slater possono essere interpretate come una “formulazione quantitativa del concetto aristotelico di dynamis” (secondo l’affermazione dello stesso Heisenberg nella sua celebre conferenza del 1958), sarà difficile sfuggire alla conclusione di Simone Weil: poiché la potenza altro non è, in ultima analisi, che una gradazione della forza, il fronte di resistenza deve essere necessariamente affidato a una incondizionata passività o “volontà di impotenza”. Per scongiurare tale esito, seducente e tragico nella sua straordinaria radicalità, non vi è che una via: sganciare il concetto filosofico di potenza dalla nozione fisica di forza. L’enunciato della tesi dovrebbe a questo punto suonare come segue: il differenziale della potenza, la sua irriducibile ridondanza rispetto al potere, non risiede nella quantità di energia, ma nell’eccesso simbolico dell’autorità. 5. Per evitare di essere frainteso – mi rivolgo soprattutto ai giovani e giovanissimi – dirò subito che non è certo mia intenzione proporre un elogio dell’autorità costituita. Chi vi parla si è formato sulla critica di quello che, a cavallo tra gli anni sessanta e settanta, veniva chiamato “autoritarismo” – e al nocciolo razionale di quella critica non intende certo rinunciare. Sta di fatto, però, che oggi come ieri – anzi, oggi ancor più di ieri – le forme autoritarie procedono in senso diametralmente opposto alla simbolica dell’autorità. Per questo sono convinto che uno dei meriti maggiori del pensiero femminista della differenza sia consistito nella proposta – una proposta coraggiosa e controcorrente rispetto agli stereotipi del “pensiero critico” maschile – di una ridefinizione radicale del concetto di autorità. Una ridefinizione che – come ho tentato di dimostrare nei miei lavori degli ultimi anni, in particolare in Dopo il Leviatano e in Passaggio a Occidente – restituisce al concetto il suo significato etimologico e, insieme, la sua carica simbolica originaria. Derivando – secondo la fondamentale indicazione contenuta nel Vocabolario delle istitu172
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zioni indoeuropee di Émile Benveniste – dalla radice indoeuropea aug- (da cui il verbo augere), il lemma auctoritas, al pari di augurium e auctor, reca in sé il significato di un “aumento” iperbolico: di un incremento non meramente quantitativo ma simbolico. Tuttavia l’aspetto decisivo innervato in questa dimensione simbolica si manifesta con chiarezza nel momento in cui poniamo in rapporto l’auctoritas con la potestas: con l’ambito della potestà assoluta originariamente regale. Rispetto alla potenza simbolica, “augurale”, dell’autorità, il potere rappresentato dal rex e istituzionalizzato nel regnum funge da operatore e regolatore geometrico, a un tempo spaziale e normativo. La potestas regale, in altri termini, traduce l’augmentum, l’incremento di senso (e il conferimento di autorità) implicito nella funzione augurale, in dispositivo di segni. L’etimo di rex – dal tema nominale *reg- – rimanda al significato di regere, “segnare”, tracciare in linea retta, dunque delimitare e perimetrare uno spazio. Ma permettetemi a questo punto di citare direttamente dal testo di Benveniste: “Attestato solo in italico, in celtico e in indiano, cioè alle estremità occidentale e orientale del mondo indoeuropeo, rex appartiene a un gruppo molto antico di termini relativi alla religione e al diritto. L’accostamento del lat. rego al gr. orégo ‘stendere in linea retta’ (dove la o- iniziale si spiega con ragioni fonologiche), l’esame dei valori antichi di reg- in latino (per esempio in regere fines, e regione, rectus, rex sacrorum) fanno pensare che il rex, più simile in questo al sacerdote che al re in senso moderno, fosse colui che aveva autorità per tracciare i limiti della città e per determinare le regole del diritto”. L’espressione rex regit regiones sta, pertanto, originariamente a significare: “il segnatore segna i segni”. La coppia augurium-regnum – con il nesso, ma anche con l’irresolubile tensione, che vi si istituisce – viene in tal modo a configurarsi come la costante che sorregge il simbolismo del potere e dello spazio pubblico, pur nelle sue molteplici varianti e metamorfosi storiche. In sintesi: la dinamica del potere pone perennemente il problema di un’eccedenza di senso che deve di volta in volta tradursi in un (intrinsecamente coerente) sistema di se173
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gni. È da questa polarità, dalla sua insolubile tensione, che trae origine la segreta logica che presiede a tutti i miti di fondazione: la mitologia di una fonte unica e “sovrana” del potere. Ed è, conseguentemente, dalla scollatura dei due poli dell’augurium/augmentum/auctoritas e del regnum/regere potestativo che si produce sempre quella che chiamiamo crisi di legittimità di un ordinamento o di un regime politico. Se è vero che una tale crisi investe oggi la forma democratica – come è attestato dalla ribellione populistico-mediatica contro il “liberalismo procedurale” – ne consegue che per fronteggiarla vi è un solo modo: interrogarsi ancora una volta sulla sua “essenza” e sul suo “valore” (da cui in ultima analisi dipendono anche le sue “regole” e le sue “tecniche”); verificare se e dove essa rechi ancora in sé una riserva simbolica – un’“augurale” ridondanza di senso – che i suoi attuali segni codificati non sono più in grado di trasmettere. Ma è dubbio che una tale verifica possa darsi senza sottoporre i due poli di “individuo” e “comunità” a un approfondimento che vada ben oltre i termini in cui la loro relazione è stata pensata, tra XIX e XX secolo, dai paradigmi dominanti del liberalismo e del socialismo. 6. Difficile, a questo punto, tentare una conclusione, sia pure provvisoria, del discorso fin qui svolto. Mi limiterò, pertanto, a scarne ed essenziali indicazioni. Muovendo dal campo di tensione tra potere e potenza, è necessario riconsiderare sotto una nuova luce le due grandi definizioni di politica scaturite dalla travagliata vicenda del pensiero occidentale. Da un lato, la politica come prassi relazionale, sapere funzionale all’“ottima repubblica”, alla realizzazione della comunità, dell’essere-in-comune: secondo la prospettiva magistralmente riattualizzata e ridefinita nel XX secolo da Hannah Arendt. Dall’altro, la politica come conflitto, arte-scienza funzionale all’organizzazione della potenza: secondo la traiettoria delineata da Machiavelli e Spinoza (ai cui occhi, è bene ricordarlo, Machiavelli si presentava come un pensatore della vita, mentre Hobbes restava un pensatore della paura e della morte) e ripresa – non senza interne aporie e oscilla174
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zioni – dall’analitica del potere di Foucault. Sono convinto che queste due concezioni della politica – che potremmo classicamente compendiare nelle formule “politica come processo” e “politica come evento” – vadano tenute insieme e fatte interagire, contro le scolastiche volte a cristallizzarle in una statica antitesi. Per la semplice ma decisiva ragione che l’una è l’interfaccia dell’altra. Non possiamo intendere la politica senza partire dall’idea che essa è essenzialmente relazione, processo di costituzione dell’essere-in-comune. Ma al tempo stesso non possiamo, assumendo questa idea di politica come prassi relazionale, mettere in secondo piano la questione del “politico” come evento: come atto contingente e necessitante capace di operare delle decisioni, delle scelte collettive dirimenti, delle rotture in grado di imprimere alle congiunture “cairologiche” della storia una direzione determinata. Ribadire la necessità di una tale saldatura è tanto più importante oggi: in un tempo in cui la politica si presenta schiacciata dai due poli della razionalità e dell’identità, dell’economia e della religione, delle “forme” e della “vita”. Da questa doppia neutralizzazione del “politico” dipende la sindrome del “futuro passato”, che fa apparire il nostro presente come un’epoca delle “passioni tristi”. Per questo oggi come ieri, oggi più di ieri, la riapertura del futuro passa per la sottrazione del presente al dominio della necessità e per la sua restituzione all’apertura della libertà e della contingenza. Per questo oggi come ieri, oggi più di ieri, occorre spostare il fuoco della teoria e della prassi sulla costituzione dei soggetti: di una soggettività politica radicalmente nuova, capace di costituirsi a partire non più dall’ideologia identitaria della reductio ad Unum, ma dal criterio e dalla potenza simbolica della differenza.
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CENTRO INTERNAZIONALE DI STUDI DELLA CIVILTÀ ITALIANA “VITTORE BRANCA” Intitolato a Vittore Branca, italianista di fama mondiale e storico Segretario Generale della Fondazione Giorgio Cini, il Centro è un polo internazionale di studi umanistici e lo strumento principale di attuazione della strategia di apertura e valorizzazione del grande scrigno di tesori dell’arte e del pensiero custodito presso la Fondazione Giorgio Cini sull’Isola di San Giorgio Maggiore a Venezia. Il Centro “Vittore Branca” si configura come il luogo d’elezione per una nuova comunità scientifica interdisciplinare: grazie alla struttura residenziale presente sull’Isola, garantisce soggiorni di studio a Venezia, anche per periodi prolungati, in una situazione propizia alla riflessione e al confronto, a condizioni economicamente sostenibili. Sin dall’apertura,
nel giugno 2010, è stato frequentato da studiosi affermati e giovani ricercatori di provenienza internazionale, interessati allo studio della civiltà italiana e afferenti a prestigiose istituzioni, come pure da scrittori e artisti. I destinatari dell’offerta del Centro Vittore Branca sono sia giovani ricercatori, come studenti post lauream e dottori di ricerca, sia studiosi affermati, che intendono svolgere ricerche sulla civiltà italiana (e in special modo veneta), con un orientamento interdisciplinare, in una delle sue principali manifestazioni: le arti, la storia, la letteratura, la musica, il teatro. La durata della permanenza deve risultare coerente con gli obiettivi del progetto di ricerca; sono favoriti soggiorni di studio di lungo periodo e sono disponibili borse di studio.
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La nozione di vita nella psiche postmoderna RAOUL SILVESTRI
Uno spettro si aggira per il mondo accademico occidentale... lo spettro del soggetto cartesiano. S. Žižek1
Hegel e la postmodernità La Fenomenologia di Hegel, oltre a essere una brace concettuale non ancora esaurita – al punto che, almeno di fatto, non possiamo non dirci hegeliani –, ha fornito anche lo strumento di pensiero più potente al Soggetto pentito della modernità – che nel suo intimo, e nemmeno in modo troppo inconfessato, ancora si credeva antico –, per superare dialetticamente la propria divisione cartesiana. E, perciò, all’atto pratico, la storia della coscienza narrata da Hegel, nelle vicissitudini dello sguardo rivolto a se stessa come preludio dell’autocoscienza, ha avuto la conseguenza più consistente nel dilatare a dismisura lo spazio psichico dello spirito occidentale, fornendogli così le istruzioni per la costruzione dell’apparato ideologico moderno. Ciò è servito anche a rinsaldare il fondamento essenzialistico della razionalità logocentrica, mai abbandonato, ma costantemente minacciato dalla nuova logica della scienza, la quale vi si opponeva con tutt’altre premesse. È evidente che tale operazione di filosofia politica ha avuto successo non tanto perché è riuscita a contrastare direttamente l’idea di libertà della scienza, ma perché, al contrario, ha mostrato un’indubbia forza nel riproporre, come alternativa alla scienza cartesiana, l’aristotelismo riverniciato con lo smalto dello spirito. 1. S. Žižek, Il soggetto scabroso. Trattato di ontologia politica (2000), Raffaello Cortina, Milano 2003, p. 1.
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Tuttavia, se ci fermassimo a criticare l’ideologia che, per essere giusti con Hegel, non è tutta demerito suo, mancheremmo di cogliere proprio l’influsso più profondo della sua opera, cioè quello a livello della diffusione della vita psichica concreta, che affianca problematicamente il puro mondo dello spirito, oggetto consueto di ricerca. Quindi, perché non formulare l’ipotesi che lo spirito hegeliano si sia effettivamente realizzato, anche se con una morfologia del tutto inattesa, proprio nella vita psichica della postmodernità? Ribadiamo, non è un refuso: della postmodernità e non della modernità. Se ci si concede che la modernità, in una definizione tranciante, sia l’epoca rivoluzionaria della nascita del nuovo soggetto cartesiano, allora ci si deve anche concedere che la postmodernità abbia già inizio come fase antimoderna, e proprio nell’epoca immediatamente successiva a quella nascita, come restaurazione idealistica dell’unità spirituale da essa minacciata. Ma non c’è una volontà nella storia e, prescindendo da spiegazioni antropomorfe, ancor più che una reazione volontaria a una minaccia, occorre vedere nella vita psichica che si diffonde immediatamente dopo la nascita dell’epoca moderna, una reazione involontaria, ma comunque una necessità psichica, al disagio dovuto all’incapacità del mondo antico di rispondere alle esigenze moderne. Poste queste premesse, possiamo meglio comprendere la prospettiva di Jean Hyppolite, per cui egli, secondo il suo allievo Michel Foucault, della Fenomenologia dello spirito “voleva farne uno schema d’esperienza della modernità [...] e voleva, inversamente, fare della nostra modernità la prova dell’hegelismo, e, quindi, della filosofia”.2 Ed è una vera e propria conferma il fatto che una pensatrice così immersa nel dibattito sul postmoderno come Judith Butler possa implicitamente convenire con tale prospettiva quando, nella seguente affermazione, mostra come le figure fenomeniche hegeliane si sovrappongano alla vita psichica, generando interazioni fra immaginario e ideologia, al 2. M. Foucault, L’ordine del discorso (1971), Einaudi, Torino 2004, p. 38.
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punto che “potremmo considerare i vari livelli di progressione della Fenomenologia come forme consecutive del fantasmatico, ovvero, modi consecutivi nei quali il soggetto viene dissimulato nella scena della sua azione, anch’essa illusoria”.3 Occorre, pertanto, ammettere che il postmoderno – pur con tutte le sue effettive specificità e particolarità, che sarebbe del tutto anacronistico credere di trovare tali e quali già nel passato –, se ben osservato, mostra di essere il risultato psichico più diretto del tentativo di abbandono ed elevazione senza conservazione, Erhebung e non Aufhebung, del soggetto cartesiano. Una prima conclusione che possiamo trarne è che tutto ciò che di drammatico sperimentiamo oggi come soggetti individualmente e collettivamente coinvolti, non è tanto l’effetto dell’esaurirsi precoce della modernità, quanto piuttosto il rifrangersi di un’onda lunga come effetto del mancato riconoscimento di sé da parte del soggetto moderno che, tutto sommato, non si è mai cercato se non credendo di potersi rispecchiare nell’impossibile purezza della propria autocoscienza. Ma occorreva andare oltre lo specchio... La dimensione fenomenologica di Hegel è, in fondo, pur sempre la nostra di quando tentiamo di conferire alla dimensione spirituale del soggetto un più efficace strumento articolato intorno alla sua riflessività cognitiva, che alla fine consenta di dominare razionalmente la realtà; tuttavia, occorre ammettere che la realtà, e anche la più concretamente quotidiana, in ragione della sempre più crescente complessità, è sempre meno attingibile con i soli mezzi fondati sulla diretta visibilità delle idee. Compiamo, inconsapevolmente, lo stesso errore di Hegel quando crediamo che occorra potenziare ulteriormente la speculatività soggettiva della coscienza, fidandoci che la sola ragione autoriferita possa rendere conto, ed eminentemente, del nucleo più profondo della realtà.4 3. J. Butler, La vita psichica del potere (1997), Meltemi, Roma 2005, p. 47 nota. 4. Si tratta di un errore analogo a quello commesso dalla Ego psychology di Heinz Hartmann, nella convinzione di dover rafforzare l’Io del paziente nella visione della sua coscienza.
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Ed è tale nucleo, nell’epoca postmoderna, che sembra emblematicamente avere la sua epifania nell’invocazione della dimensione della vita. Dimensione che, sin da una prima analisi, mostra chiaramente di essere qualcosa di falsamente immediato e originario, poiché, nella pratica di questa invocazione, la dimensione naturale sotto la sua superficie nasconde l’artefatto ideologico, esigendo nel contempo la necessità di un palcoscenico sul quale la coscienza infelice possa reimmergere la propria sofferenza nell’alveo simbolico onnicomprensivo della vita. Dimensione, dunque, che costituisce, prima di tutto, la necessità di concettualizzare l’inafferrabile della sofferenza esistenziale del soggetto moderno. Volendo sfiorare la paradossalità, potremmo definirlo un alchemico regressio ad uterum. Insomma, il filo rosso che, implicitamente, correla la nozione di vita nella psiche postmoderna e che rende possibili le nozioni di biopotere e biopolitica, fino a quella estrema e drammatica di nuda vita, ha forse la sua origine proprio nell’uso cognitivo dello sguardo. E, molto probabilmente, non è un caso che, quella dello sguardo, sia una passione che si rende autonoma e si diffonde proprio nell’epoca barocca della nascita della scienza, in un clima così sensibile alla ricerca ma anche al falso dell’artificio e alla spinta della curiosità, passione che in quel preciso momento storico rende possibile, oltreché quello scientifico, anche l’uso metafisico dell’ottica. Lo sguardo fenomenico trionfa accanto alla scienza e, con esso, l’illusione che la vita si manifesti come l’anima visibile e onnicomprensiva del mondo. Il Soggetto e la sua vita “Se la grande rottura cartesiana ha posto la questione dei rapporti tra verità e soggetto, il secolo XVIII ha introdotto, per quanto riguarda i rapporti tra la verità e la vita, una serie di questioni, di cui la Critica del giudizio e la Fenomenologia dello spirito sono state le prime grandi formulazioni.”5 Questa è la chiara sin5. M. Foucault, La vie: l’expérience et la science, “Revue de métaphysique et de morale”, 1, 1985, pp. 3-14, ora in Dits et écrits, Gallimard, Paris 2001, vol. II, p. 1594; trad. La vita: l’esperienza e la scienza, in Archivio Foucault 3, Feltrinelli, Milano 1998, p. 328.
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tesi di Foucault prossima al nostro argomento, tratta da un passo dei suoi Dits et écrits. È una diagnosi puntuale e chiarificatrice, la cui unica pecca è di rimanere muta proprio sulla postmodernità, cioè sugli effetti postmoderni della modernità, quelli che precisamente interessano il rapporto immaginario fra il soggetto dissolvente e la coscienza della vita, cioè con la vita come suo pseudo-oggetto narcisisticamente soggettivato. Il paradosso specifico della postmodernità è, come accennavamo, quello del soggetto moderno che, non riconoscendosi come tale, vede la propria progressiva sparizione, lo svuotamento della sua essenza di soggetto, e al suo posto elegge la dimensione della vita, la quale ha il non modesto vantaggio di poter sostituire un’indeterminatezza soggettuale ormai sempre più inconsistente, con un’indeterminatezza di immediata e visibile certezza e di universale diffusione. Coloro che, in questo modo, mitologizzano la vita, credono così di aver raggiunto e concettualmente racchiuso una chiave di volta non solo teorica, ma anche eminentemente adatta all’azione; in realtà, discutere di vita in questi termini, significa arrendersi all’incapacità di assumere un pensiero che abbia almeno un indice minimo di laicità. Il meccanismo dell’esaltazione della vita, del resto, è del tutto prossimo ai sistemi di persuasione religiosa, i quali producono la stessa situazione della notte in cui tutte le vacche sono nere. Forse è proprio in questo uso retorico della vita che si ha il punto in cui la postmodernità si allontana maggiormente da Hegel: cos’è, d’altronde, il ricorso puro e semplice alla vita se non un momento dell’intuizione romantica, della sua religiosità in debito di razionalità? Ma se il soggetto crede di poter sostituire se stesso con la vita nel rapporto con la verità, ciò significa soprattutto che rinuncia a sostenere la responsabilità del proprio desiderio inconscio. La modernità, l’età della scienza, ancor più che garanzia del progresso attraverso la tecnologia, è ormai da secoli un potente richiamo all’etica di un soggetto che ormai non può più contare sul soccorso delle mitologie religiose. In un certo senso, modernità ed età della scienza sono, hegelianamente parlando, la ve181
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rità del mondo antico religioso; e il sintomo di questa verità, la vita psichica di questa verità malcelata, è il cieco e disperato ricorso all’idea indeterminata di vita e, proprio perciò, in ogni modo pronta a transigere sulla chiarezza concettuale. La “nuda vita” come verità della vita postmoderna Negli anni sessanta, Renato Solmi proponeva una traduzione molto attenta di alcuni scritti fondamentali di Walter Benjamin, e tale accuratezza sembrava destinata a sostenere la sopravvivenza dell’enunciazione, altrimenti irrecuperabile nell’enunciato della lettera.6 In particolare, è proprio nella scelta di tradurre das bloße Leben7 con nuda vita, anziché col più anodino ma teoricamente più corretto mera vita, che si nota un intervento del tutto teso a salvare la presunta intenzione dell’autore che, nella traduzione più letterale, avrebbe potuto andare perduta, ma che nel contempo ha anche il non minore svantaggio di prestare il fianco alla possibile aggressione ideologica. Che effettivamente esista, qui, un problema filosoficamente più vasto di quanto possa sembrare, e che lo stesso Solmi forse non ha nemmeno sospettato, è confermato dal fatto che le possibili traduzioni di das bloße Leben, sono oggi dibattute a vari livelli: filosofico, giuridico e politico... non certo un filioque dei nostri tempi, eppure qualcosa che pur lontanamente lo evoca. Tutto ciò è indice, pertanto, dell’esistenza di un risvolto più 6. “Come le manifestazioni vitali sono intimamente connesse col vivente senza significare qualcosa per lui, così la traduzione procede dall’originale, anche se non dalla sua vita quanto piuttosto dalla sua ‘sopravvivenza’”, W. Benjamin, Il compito del traduttore, in Angelus Novus. Saggi e frammenti (1955), Einaudi, Torino 1962, p. 39. Si noti, per inciso, come in questo passo il tema di das bloße Leben si ripropone ancora come annuncio di un resto soggettivo meramente sopravvivente, non ancora pienamente cosciente della propria tendenza alla sparizione e, pertanto, non ancora ideologicamente esposto nella sua nuda spettacolarità. 7. “Die mythische Gewalt ist Blutgewalt über das bloße Leben um ihrer selbst, die göttliche reine Gewalt über alles Leben um des Lebendigen willen. Die erste fordert Opfer, die zweite nimmt sie an”, W. Benjamin, Zur Kritik der Gewalt (1920-21), in Walter Benjamin Gesammelte Schriften, a cura di R. Tiedemann e H. Schweppenhäuser, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1999, vol. II, tomo I, p. 200 (“La violenza mitica è sanguinaria violenza per se stessa sulla mera [bloße] vita, la pura [reine] violenza divina è violenza su ogni vita in nome del vivente. La prima esige sacrifici, la seconda li ammette”).
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profondo rispetto a quella che potrebbe anche sembrare una sterile polemica d’occasione, che invece crediamo dovuto al riemergere sordo di un precipitato ideologico. A tale riguardo, Rainer Maria Kiesow, specialista di diritto romano, oltre a criticare la plausibilità dell’homo sacer, sostiene animosamente che: Nessuno sa precisamente, o anche solo approssimativamente, cosa significasse sacer nell’Antica Roma [...] di reali uomini sacri non si sa nulla di là di parziali determinazioni normative [...]. L’homo sacer rimane un enigma storico – un mito. [...] La nuda vita, in quanto nozione derivata dalla sacertà, è una pura mistificazione, nella misura in cui si conforma esattamente al testo messianico di Benjamin sulla violenza.8 Con intento più costruttivo, un anonimo estensore di un blog su Internet evidenzia che la traduzione del benjaminiano bloße Leben non è univocamente determinabile, come invece a prima vista potrebbe sembrare: “Ma cosa s’intende per bloßes Leben? Vi è incertezza tra nudo (bare), così come Daniel Heller-Roazen rende Agamben in inglese, e semplice (mere), così come Jephcott traduce Benjamin. Propendere per nudo, significa ritenere che, per quanto la vita sia spogliata di tutte le sue qualità, il suo essere comunque sopravvive, nel senso che la connotazione che le resta è la sua esposizione.9 Semplice può essere invece utilizzato per implicare una spoliazione di qualità, nonché per una connotazione di piccolezza, debolezza, o bassezza, mentre nel caso precedente è posto in evidenza il momento dell’esposizione. [...] Nuda vita come vita estratta a livello di pensiero, come la vita resa indifferente a tutte le sue qualità, tranne che al suo essere vivo”.10
8. R.M. Kiesow citato in L. Garofalo, Studi sulla sacertà, CEDAM, Padova 2005. 9. Così, la nuda vita è una sorta di essere-nel-linguaggio-del-non-linguistico. Vedi G. Agamben, La comunità che viene, Einaudi, Torino 1990, p. 68. 10. <http://whatinthehell.blogsome.com/2006/10/05/p315/>.
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Come terza prospettiva, ecco un passo della recensione di Francescomaria Tedesco, sempre da Internet, dell’articolo di Slavoj Žižek, Diritti umani per Odradek?:11 La critica di Žižek all’idea di “nuda vita” (Agamben) o “biopolitica” (Foucault) si fa serrata, anche attraverso la rielaborazione di alcune delle riflessioni di Hannah Arendt: la negazione della dimensione del politico nell’esistenza umana – la “riduzione” del soggetto a mera pulsione vitale, “vita-chesoffre” – consente di passare sotto la soglia dei diritti eludendoli. [...] Žižek – rinvenendo nell’idea “biopolitica” uno strumento teorico che trascina l’uomo fuori dalla dimensione del politico – conclude il suo breve saggio sostenendo che “la Pura Vita è una categoria del capitalismo”, inteso quest’ultimo come oppressivo in sé.12 Preso atto che questa nozione giunge a maturazione e si diffonde nel dibattito contemporaneo grazie alla lunga e articolata elaborazione di Giorgio Agamben, ci sembra opportuno anche richiamare una sua precedente costruzione teorica che, senza dubbio, ha fatto da incubatrice alla nozione di nuda vita, offrendosi a sua volta come elemento teorico per rinnovare e potenziare l’analisi sull’essenza della vita specificamente umana: la forma-divita: “Col termine forma-di-vita, intendiamo invece una vita che non può mai essere separata dalla sua forma, una vita in cui non è mai possibile isolare qualcosa come una nuda vita”.13 La forma-di-vita sarebbe, pertanto, la struttura di un esistenziale ideale che qualifica la vita umana nel suo essere regolata da un’applicazione corretta delle norme, tale da escludere la diretta interferenza di queste con la dimensione biologica propria e incondizionata della vita umana; e la nuda vita sarebbe, di conseguenza, il suo risultato negativo, cioè l’esito della sospensione della non-interferenza da parte dei biopoteri. 11. S. Žižek, Diritti umani per Odradek? (2005), nottetempo, Roma 2005. 12. F. Tedesco, <http://www.juragentium.unifi.it/it/books/odradek.htm>. Si noti, qui, un’ulteriore variante di traduzione: la locuzione bloße Leben questa volta è resa con Pura Vita. 13. G. Agamben, Forma-di-vita, in AA.VV., Politica, Cronopio, Napoli 1993, p. 107.
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L’argomentazione è chiara. Tuttavia, come escludere che queste due nozioni, anziché meglio determinare, purificandolo, il contenuto dell’idea generale di vita, non finiscano invece per esasperarlo senza mai raggiungerne una precisa determinazione? Di conseguenza, non occorre forse prendere atto che è proprio questo irrimediabile sfuggire a ogni tentativo di definizione precisa, la prova dell’inconsistenza della nozione di vita? Di conseguenza, è lecito dubitare, e per ogni punto della loro articolazione, che forma-di-vita e nuda vita non siano che costruzioni essenzialistiche, mitologiche, che in qualche modo, in quanto locuzioni performative, assolvono il loro compito di tenere aperta e indeterminata la presunta scomparsa del soggetto nella postmodernità. Ma non è tutto: di fatto, e prescindendo dalle migliori intenzioni che hanno presieduto alla loro elaborazione, tali locuzioni si prestano agevolmente come sostegno per ulteriori elaborazioni politiche del tutto a ridosso della dimensione non laica dell’idea di vita. Come negare che, sia nella forma-di-vita sia nella nuda vita, non operi un richiamo profondo all’essenza cristologica dell’uomo, il quale, per quanto abbassato e condannato a essere meno cosa della cosa infima, nella sua totale uccidibilità, è comunque potenzialmente in grado di riconquistare quell’umanità e addirittura quella sacralità che il potere, per definizione, non gli ha mai storicamente riconosciuto? Del resto, l’esperienza postmoderna della scomparsa del soggetto non è forse una figura che ricalca, per quanto lontanamente, l’esperienza teologica della morte di dio? Poiché, se per un verso la morte di dio è la mitologia della morte del soggetto antico fatto a somiglianza divina, per altro verso, la figura patetica della nuda vita richiama anch’essa, e nemmeno troppo implicitamente, proprio la dimensione teologica per riproporla come dimensione esistenziale non più limitabile a quella religiosa. Tutto ciò non ha forse una risonanza con l’esperienza della vita di Cristo, come soggetto che, nell’abbandonare la propria divinità, finisce per stringere della vita umana solo la nuda vita, consumato nell’aggressione della sua persona come l’uccidibile e l’insacrificabile, al quale però è promessa la redenzione 185
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finale? Il meccanismo mutatis mutandis, si riconferma essere quello speculativo della coincidenza degli opposti, in cui la versione messianica della salvezza è del tutto conciliabile con quella della storia laica. Queste considerazioni, peraltro, non significano che non sussista il problema della kenosis del soggetto postmoderno, così ben avvertito sia a livello sociale sia intellettuale, ma che tutte le soluzioni proposteci, incardinate intorno alla nozione di vita, sono di per sé inadatte a trattarlo. Infatti, se andassimo oltre lo sguardo preso nella fenomenicità che ci costringe a vedere la vita come sfondo generale e orizzonte specifico intorno a cui elaborare le nostre spiegazioni, constateremmo che lo spegnersi del soggetto è uno spegnersi presunto come riflesso della coscienza infelice che si rappresenta, come origine della propria sofferenza, la propria progressiva sparizione. Una spiegazione alternativa a questo sintomo caratterizzante la coscienza postmoderna, sintomo che ha iniziato ad assalirla proprio agli albori dell’epoca moderna, è una spiegazione che si sottrae alla fenomenicità del sintomo e cerca di coglierne l’invisibile reale. Il presupposto è che l’epoca moderna presenta al soggetto, come novità, un mondo ormai illimitato in cui l’esistenza non si armonizza più con l’essenza. Ma solo esteriormente, e come ulteriore istanza, si può trattare dell’azione dei biopoteri; in realtà, quella perdita d’armonia è data dall’infinitizzazione del nuovo oggetto, che non interessa solo gli scienziati di professione, bensì ogni uomo dotato di coscienza e quindi di inconscio, con tutte le complicazioni etiche che questa nuova condizione richiede. Si tratta, perciò, di un destino storico-strutturale ancor più che degli effetti, soprattutto colti in un’ottica essenzialistica, della biopolitica. Ciò non significa che il problema della biopolitica sia illusorio, ma che si può continuare a parlare di esso avendo l’accortezza di riconoscere che la biopolitica non è una causa sociale, bensì un fantasma sociale, se non addirittura un fenomeno che sostituisce la mancanza di una teoria più adatta a spiegare il destino del soggetto moderno/postmoderno. 186
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In altri termini, non è direttamente il potere che, sospendendo l’ordinamento giuridico, si volge a mordere direttamente le carni del soggetto, ma è lo stesso soggetto che, avendo un rapporto sempre più complesso e sempre meno chiaro col proprio oggetto di conoscenza e di desiderio, non solo non riesce più a dominarlo, ma alla fine viene dominato da esso. Insomma, se il soggetto antico riusciva a dominare il suo oggetto con la visione della conoscenza, della morale e della politica, quello moderno/postmoderno non vi riesce più, poiché il rapporto con l’oggetto è radicalmente mutato. Pertanto, il fatto che nella postmodernità emerga effettivamente qualcosa come la nuda vita è più precisamente una delle tante conseguenze di uno scarto strutturale che, nei termini più generali, prosciuga infinitamente il soggetto sino a farlo diventare un resto di se stesso. Tale scarto, a sua volta, deve anche essere inteso nell’accezione di rifiuto, poiché è tutta la società tardo-capitalistica nel suo insieme a produrre non più semplicemente la merce come prodotto virtuoso dell’economia, bensì merci virtuali che sin dall’inizio sono già progettualmente scarti sociali, strutturalmente determinati nel vorticoso panorama che è la nostra società: società dei rifiuti, sia come cose sia come uomini. Pertanto, è la nozione di vita, più o meno nuda, a rivelarsi come una delle maschere simboliche, un’essenza occlusiva che ricorre ogni qual volta nella struttura sociale si produce un mutamento strutturale e non si ha a disposizione miglior termine, nella sua vaghezza, per indicarlo anziché per definirlo. La vita psichica, a sua volta, finisce per manifestarsi sempre più come concrezione delle coscienze individuali prese nella società, diventando sempre più strutturata e articolata, un vero e proprio nucleo reattivo della coscienza di fronte al disagio della civiltà. E questa dimensione di coscienza, divisa in se stessa, e descritta da Hegel come coscienza infelice, prolifera in funzione dell’ampliarsi di quell’incongruenza, di quello scarto strutturale che le più diverse ideologie tentano di spiegare e in effetti oscu187
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randolo, tentando ancora di ricondurre la cosa moderna all’antico ovile dell’enciclopedia delle essenze. Ma la soluzione non consiste nell’ideare l’essenza più adatta, elastica e onnicomprensiva, bensì nel comprendere che il presupposto per procedere consiste, all’inverso, proprio nella deposizione di uno strumento antico come l’essenza, poiché questa non può saltare fuori da se stessa e afferrare il reale, ma può solo continuare a fare il suo lavoro di sempre, quello del termine medio che si sovrappone indefinitamente alla realtà di due termini concreti, con la conseguenza di moltiplicare gli enti anziché comprenderli. L’eredità di Merleau-Ponty e l’opzione neurofenomenologica Kant ha evidenziato la diretta correlazione fra appetizione e rappresentazione, e la conseguente dipendenza della formazione degli oggetti dallo schematismo del soggetto trascendentale, non trovando, tuttavia, termine più adeguato di quello di vita per indicare la dimensione pratica di tale operazione.14 Mutati i tempi, la vita continua a essere quella stessa dimensione immaginaria definibile, freudianamente parlando, come formazione di compromesso, per unire idealisticamente realtà in sé altrimenti disunite. Vediamo, di seguito, come lo stesso Merleau-Ponty sia ricorso a questo espediente e come, a oggi, in un settore della filosofia contemporanea come quello della neurofenomenologia, si insista a ricorrervi. Sull’argomento scrive uno studioso del filosofo francese, Étienne Bimbenet: La struttura del comportamento propone, incontestabilmente, una filosofia della vita. Questa si prefigura, pertanto, a partire da una domanda preliminare che decide in anticipo della sua struttura e che Merleau-Ponty formula nell’introduzione 14. “La facoltà di appetire è la facoltà di essere, per mezzo delle proprie rappresentazioni, causa degli oggetti di queste rappresentazioni stesse. La facoltà di agire conformemente alle proprie rappresentazioni si chiama la vita” (I. Kant, La metafisica dei costumi, a cura di N. Merker, Laterza, Roma-Bari 19732, p. 11).
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della sua opera: Il nostro scopo è di comprendere i rapporti fra la coscienza e la natura. Ciò che anticipa la comprensione della vita e prefigura il suo senso d’essere, è una vera antinomia – e la necessità di risolvere questa antinomia – fra una coscienza senza natura, una coscienza per la quale la natura è uno spettacolo che essa stessa si offre come insieme d’oggetti che essa costituisce, una coscienza che si rappresenta filosoficamente nell’idealismo trascendentale, e una natura senza coscienza, definita come una molteplicità d’avvenimenti esteriori gli uni agli altri e collegati fra loro mediante rapporti di causalità, e una natura che si rappresenta nel realismo della scienza e in particolare della psicologia sperimentale dell’epoca. È a partire dal conflitto di queste due prospettive che la vita sarà pensata in un tentativo per arbitrarlo.15 La chiusa della citazione è precisissima e mostra come la vita o, meglio, la nozione vaga di vita – che, di fatto, si impone ideologicamente come accordo mistificante fra teologia e scienza –, funzioni come un vero e proprio pieno narrativo destinato a riempire un vuoto altrimenti incolmabile. Contrariamente, per esempio, allo statuto delle ipotesi matematiche, qui la x non è l’incognita vuota, ma è il mistero traboccante di pathos che viene teorizzato genericamente come vita. In realtà, le due ipotesi sono del tutto opposte e inconciliabili, poiché il mistero della vita è riferito a questa come a una particolare nozione la cui proprietà operativa è di adattarsi a offrire un immediato e inesauribile posticcio ideologico. Pertanto, quando non si riesca altrimenti a stabilire la connessione semantica fra coscienza e natura, si finisce per decidere d’autorità che due specificità apparentemente irrelate possono, in ogni caso, essere forzosamente raccordate dal mistero della vita, poiché la vita passa per essere un assioma così evidente, seppur così complesso, che non si ritiene necessi-
15. É. Bimbenet, “L’être interrogatif de la vie”: L’historicité de la vie dans les cours du Collège de France (1957-1958), “Chiasmi International”, 2, 2000, numero monografico su Merleau-Ponty. Dalla natura all’ontologia, pp. 144-145.
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ti di essere dimostrato. È molto significativo, pertanto, che non si riesca a fornire una definizione di vita se non in un regresso infinito, in un ab ovo della più vuota indeterminatezza, decretandola come “operazione primordiale”: “In questo tipo di formulazione la vita non è più una mescolanza ma è un’operazione primordiale, non è più un nodo di significazione miracolosamente racchiuso in un corpo, essa è l’istituzione e la creazione del senso, l’apertura di dimensioni inedite”.16 Tutta l’operazione si fonda sull’osservazione sintetica del visibile e dell’invisibile, postulando un loro presunto rapporto dialettico, senza però che ci si preoccupi di evidenziare come tale osservazione sia del tutto svolta all’interno della prospettiva soggettiva anziché in quella, propria del sapere scientifico, del rapporto fra un soggetto finito nel suo sapere e un oggetto infinito nel suo essere. E da questa stessa riflessività, che si sigilla alla stregua di un hortus conclusus soggettivo, non si fuoriesce nemmeno con gli apporti più speculativamente avanzati dei nuovi studi neurofenomenologici. A parere di Massimiliano Cappuccio, infatti, come si esprime nei passi conclusivi della sua presentazione di una raccolta di studi neurofenomenologici, l’attività cognitiva propria sia al ricercatore scientifico sia al filosofo trascendentalista, sembra essere anche la “stessa attività cognitiva che si trova rispecchiata nel soggetto che viene analizzato dagli esperimenti o attraverso la descrittiva fenomenologica – e pertanto un fondamento per la pratica d’indagine cognitivistica, se esiste, esiste solo come attuazione vivente di questa conversione speculare”.17 Come si può notare, di là dalle novità che questa direzione di studi transdisciplinare può sotto molti aspetti apportare, fenomenologia e cognitivismo alla fine si ritrovano sullo stesso e insuperato terreno della specularità e tale circostanza è considerata come quel pregio che rende possibile il reciproco intendimento e il fruttuoso prosieguo della ricerca comune. Lo stesso Varela, d’al16. Ivi, p. 146. 17. M. Cappuccio, introduzione a Id. (a cura di), Neurofenomenologia. Le scienze della mente e la sfida dell’esperienza cosciente, Bruno Mondadori, Milano 2006, p. 54.
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tronde, ebbe motivo di affermare che “l’organismo e l’ambiente si avviluppano e si scoprono a vicenda nella circolarità fondamentale che è la vita stessa”.18 Appare pertanto che, fra le varie discipline interessate al progetto neurofenomenologico, l’invariante non sia altro che la varianza virtuosa dei punti di vista soggettivi e, cioè, un rimedio che ingenuamente si appella alla stessa origine del male, ossia al malinteso sulla natura speculare della vita psichica. In tal modo qualcosa pur sfugge alla visione d’insieme nel momento in cui, ancora una volta, a prevalere è l’acritica convinzione, per non dire il pregiudizio, che per realizzare la migliore collaborazione interdisciplinare tra filosofia e scienza occorra sempre e comunque partire dall’unico ambito condivisibile, quello della percezione cognitiva, nella sua presunta fedeltà ai dati naturali. Riteniamo, pertanto, che l’esigenza inconfessata della neurofenomenologia sia sempre e comunque la stessa che, per altro verso, presiede all’elaborazione della nozione di nuda vita: entrambe, pur presentandosi come reciprocamente autonome e indipendenti, sono invero da intendersi come manifestazioni ideologizzate di una necessità strutturale peraltro autentica, vale a dire come espressioni inadeguate della sofferenza della vita psichica del soggetto postmoderno. In conclusione, facciamo senz’altro nostre le parole di Paulo Barone allorché, riguardo al disagio diffuso della vita psichica contemporanea, egli osserva: La quota di sapere concettuale che partecipa indistricabilmente alla vita psichica sarebbe esaurito. Ovvero, la vita psichica prenderebbe corpo come versione positiva ed enigmatica dell’estinzione della stessa trama concettuale con cui ideologicamente coincide, e quindi non in virtù di un qualche fermento ancora vitale che da questa trama eccede e proviene come ultima risorsa. Più la vita psichica andrebbe potenzian18. Ivi, p. 55.
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dosi, più perfezionerebbe l’estinzione dei suoi dispositivi concettuali, senza riattivarne alcun frammento.19 Sarebbe, dunque, una forzatura eccessiva allargare questa osservazione anche alla specificità degli odierni tentativi eclettici, che qui abbiamo brevemente esaminato, per considerarli tutti come rimedi i quali, per scongiurare l’attuale travaglio della vita psichica, non fanno che richiamarsi a soluzioni che rimangono, comunque, all’interno della sua logica immaginaria autoreferenziale?
19. P. Barone, Vicissitudini della vita psichica, “aut aut”, 328, 2005, pp. 28-29.
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Mimesi ed emancipazione GAETANO CHIURAZZI
1. Mimesis e dialettica Il concetto di mimesi è certo uno dei più potenti della storia della filosofia: esso costituisce il crocevia di ogni discussione sull’identità e la differenza, sul rapporto tra gli uomini e tra l’uomo e Dio, persino sul concetto di verità. Mimetico è per Platone l’intero ordine della realtà, caratterizzato da diversi gradi di verità a seconda della sua maggiore (mimesi icastica) o minore (mimesi fantastica) vicinanza all’idea, modello ancestrale e termine ultimo di ogni mimesi. Mimetico è il rapporto che Platone intrattiene con il suo maestro Socrate: lo imita, si identifica con lui al punto da farlo parlare al suo posto, lo rappresenta, garantendosi così la verità del suo discorso. Questa funzione vicariale è definita, al pari della mimesi, come rapporto di fedeltà. Verità come adeguazione e rapporto etico come fedeltà sono due varianti di una stessa mimesi, cioè di un modo di intendere le relazioni (logiche, epistemologiche, etiche) come determinate da un fondamentale processo di identificazione: il culmine della mimesi è infatti la homoíosis, l’identità o l’assimilazione, con cui l’imitazione (o l’imitante) diventa tutt’uno con l’imitato. Ma Platone non ha tardato a rendersi conto anche del carattere potenzialmente distruttivo del rapporto mimetico: la dialettica non è che la presa d’atto dell’ambivalenza di un tale rapporto, che mentre è identificante è altrettanto escludente, anzi, quanto più identifica tanto più esclude. La logica che presiede alla formazione del concetto – e cioè di ciò che risponde alla doaut aut, 347, 2010, 193-205
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manda “che cos’è?”, che chiede l’identità di qualcosa, la sua definizione – è una logica necessariamente oppositiva, la logica amico-nemico. Essa impone di identificare escludendo, e quindi individuando il proprio nemico. Fin nella sua matrice greca, la dialettica, come scienza della formazione del concetto, è il riflesso a livello logico della prassi della definizione delle parti nell’agone politico, della loro identificazione e del loro confronto. La struttura del concetto assume perciò la stessa struttura del politico, una struttura oppositiva volta a identificare e, conseguentemente, a escludere. 2. René Girard: la violenza della mimesi A René Girard si deve il tentativo di fare del processo mimetico il fondamento antropologico di ogni comportamento umano, a cui le recenti scoperte in campo neurologico sembrano dare ulteriore credibilità. La scoperta dei cosiddetti “neuroni specchio” mostra che la mimesi, l’imitazione, “gioca un ruolo fondamentale nella costruzione del senso d’identità sociale, che è un processo di co-costruzione rispondente appunto a regole di reciprocità. Questa identità sociale è pre-verbale e pre-razionale, è una condizione appunto ‘naturale’ che ci mette nelle condizioni di accogliere l’altro come simile a noi, dal momento che condivide con noi le stesse esperienze, e lo fa in quanto ha in comune con noi gli stessi meccanismi neurali che le sottendono”.1 Il meccanismo imitativo sarebbe quindi alla base della costituzione dell’identità personale e sociale: l’altruismo potrebbe essere inscritto nel funzionamento stesso dei neuroni specchio, che consentono di gettare un ponte empatico tra noi e gli altri. Eppure, quel che una tale concezione mimetica lascia comunque inspiegato è il fatto che si possa “non fare come gli altri”, non imitarli: per quanto in tal modo le neuroscienze possano dare un importante contributo nel suscitare nuove riflessioni in ambito etico, politico ed economico, il secolare problema che generica1. Nei neuroni-specchio il riflesso sociale della natura umana, intervista di Felice Cimatti a Vittorio Gallese, “il manifesto”, 22 giugno 2005.
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mente designiamo con il nome di “libertà” – ma si potrebbe anche dire “originalità” o “creatività” – resta, e anzi viene per certi versi acuito: come e perché è possibile il comportamento non imitativo? Le riflessioni di René Girard mostrano che la logica del comportamento mimetico è una logica sacrificale, la quale, prima che a livello politico o filosofico, si esprime nei miti e nelle religioni naturali: il bisogno di imitare gli altri diventa competizione, rivalità, e quindi può sfociare nella sopraffazione e nella violenza. La teoria mimetica mette in luce l’aspetto più profondamente “animale” dell’uomo, anzi, esattamente quel che lo accomuna agli animali: “Questo è vero anche per gli animali. Quando un maschio vede un altro maschio corteggiare una femmina, anch’esso desidererà quella femmina. Non si sentirà un aggressore, bensì un rivale nella conquista di quella femmina. Sentirà di aver gli stessi diritti degli altri”.2 Il desiderio di uno stesso oggetto non è che il sintomo del desiderio di essere come l’altro. Ma questo desiderio mimetico è intrinsecamente ambivalente: costruttivo e distruttivo, poiché mentre identifica produce rivalità, e quindi violenza. Il meccanismo vittimario è il dispositivo (il termine “meccanismo” allude appunto al suo carattere quasi meccanico, automatico, “naturale”) mediante il quale le società arcaiche si difendono dalla violenza distruttiva che la mimesi può innescare al loro interno, catalizzandola su un loro membro ed espellendola quindi al di fuori, espellendo colui che ne è stato caricato quale vittima sacrificale. Le religioni naturali sono dunque espressione di questo meccanismo: per esse la vittima è portatrice e causa dei mali della società, la quale viene riportata all’ordine attraverso l’immolazione del capro espiatorio e la sua conseguente sacralizzazione. Girard presenta la sua teoria mimetica come una teoria scientifica della natura umana (compito a cui hanno pregiudizialmente rinunciato l’antropologia relativistica e il nichilismo gno2. R. Girard, G. Vattimo, Verità o fede debole? Dialogo su cristianesimo e relativismo, a cura di P. Antonello, Transeuropa, Massa 2006, p. 41.
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seologico oggi troppo in voga), cioè come il nucleo universale costitutivo di un’antropologia positiva: la dimensione di violenza che conduce alla pratica del sacrificio nelle società arcaiche è un dato costitutivo della natura umana. A svelare una tale verità universale avrebbe contribuito quella particolare religione sacrificale che è il cristianesimo. La differenza tra le religioni naturali e il cristianesimo, quel che fa del cristianesimo una religione che pone fine al fondamento naturale della religione, è il fatto che Cristo svela la violenza insita nella cultura e nelle società arcaiche mostrandosi vittima innocente: proprio perché innocente può svelare come quel meccanismo sia volto al controllo della violenza, e non ha quindi nulla a che fare con la presunta, o pretesa, colpevolezza della vittima. La prospettiva antropologica da cui Girard muove fa dunque del cristianesimo il luogo di una conferma – uno svelamento – della struttura universale del meccanismo vittimario: Cristo avrebbe mostrato questa verità denunciando l’inevitabile dimensione sacrificale connessa al controllo della violenza, a sua volta inevitabile corollario del comportamento umano fondato sulla mimesi, a un tempo identificatoria e competitiva, costruttiva e distruttiva. Quel che si apre in seguito a questo svelamento è la possibile liberazione totale della violenza, ormai priva del suo argine contenitivo dovuto all’ignoranza delle “cose nascoste”. E però lo svelamento del meccanismo vittimario non può risolversi nella sua irrilevanza, come in una sorta di “risata” di fronte alla scoperta che tutto era “nient’altro che questo” o, per dirla in altri termini, come in una sorta di soluzione puramente estetistica che troppo facilmente oscura gli aspetti tragici della logica del sacrificio: il comportamento mimetico che ne è all’origine è e resta un dato naturale, che non è possibile eludere o cancellare. Come dire che il cristianesimo pone fine alle religioni naturali ma non al dato naturale del meccanismo mimetico, che continua a permanere, ponendo il problema di un contenimento della violenza che non può più essere risolto nei termini del sacrificio arcaico, ma in termini di sacrificio simbolico. Anche le società cristiane ricorrono perciò al sacrificio (questo spie196
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ga come mai Girard rivaluti l’espressione “sacrificio” a proposito del cristianesimo, quando in alcuni suoi testi precedenti, per il semplice gusto di dissentire sonoramente dalla chiesa,3 aveva evitato di usarlo), sebbene non si possa più intenderlo come nelle religioni naturali: il cristianesimo si presenta come una religione sacrificale al pari di tutte le altre, con la differenza però che svela il fondamento vittimario delle religioni, “il che lo rende inseparabile da tutte le altre religioni e allo stesso tempo incomparabile ad esse”.4 Il contenimento simbolico della violenza avviene nel caso del cristianesimo tramite l’apparato istituzionale della chiesa, nonché tramite la sua ortodossia: a ciò risulta essenziale persino la rappresentazione “punitiva” insita nell’idea di un Inferno, un Purgatorio e un Paradiso oltre la vita, quasi che il meccanismo vittimario si inverta (“i persecutori saranno perseguitati”), idea senza di cui “la religione perderebbe la maggior parte della propria forza”.5 La religione si fonda e mantiene la sua forza proprio grazie al permanere del meccanismo vittimario. 3. Gianni Vattimo: l’emancipazione come ulteriorità È su questo ruolo attribuito alla religione – e dunque anche alla religione cristiana – che sembra misurarsi il confronto tra Vattimo e Girard nel recente Verità o fede debole? Dialogo su cristianesimo e relativismo. La posta in gioco è la possibile conciliazione tra modernità e cristianesimo. Malgrado i punti di contatto, il divario tra i due autori su questo appare forte e deciso, tanto che i punti su cui concordano sono talmente fugaci da risultare alla fine più dei punti di tangenza che di convergenza. Vattimo riconosce a Girard il merito di averlo riconvertito al cristianesimo, grazie ai suoi studi sul nesso tra violenza e sacro. La teoria di Girard gli appare, infatti, come la traduzione sul piano antropologico della sua concezione della storia della metafisica come progressiva rivelazione (e quindi riduzione) della vio3. Ivi, p. 81 4. Ivi, p. 88. 5. Ivi, p. 45.
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lenza in essa insita.6 Processo in cui la figura di Cristo assume un ruolo centrale, costituendo anzi l’anello di congiunzione in cui si saldano la storia del cristianesimo e la storia della modernità come secolarizzazione.7 Ma il punto di divergenza rispetto alla teoria di Girard è esattamente nel voler considerare come un “dato naturale” il rapporto mimetico, il che conduce a tutta un’altra valutazione del cristianesimo. Se per Girard la forza della religione sta proprio nel suo potere di controllo della violenza attraverso il sacrificio, per Vattimo lo svelamento di questo meccanismo non può che portare a un suo indebolimento, secondo il detto nietzschiano “la conoscenza dell’origine aumenta l’insignificanza dell’origine” (Aurora, § 44). Il tal senso, il cristianesimo sarebbe la religione dell’uscita dalla religione.8 In generale, la critica implicita di Vattimo a Girard ricorda quella marxiana alla società capitalistica, o quella di Marcuse a Freud. I meccanismi economici (siano essi politici o psichici) sono strutture naturali delle società e della psiche umana o non sono forse essi stessi determinati dalla società, e cioè, in fondo, storici? Non si può non notare infatti come la teoria mimetica si accordi con i tipi di comportamento richiesti dalla società liberalcapitalistica, che grazie a essi può risultare altamente produttiva o altamente distruttiva, ovvero con la sua dialettica. Nell’esempio addotto da Girard, tratto dal mondo animale, la competitività di due maschi per una stessa femmina genera un comportamento identitario (essi hanno gli stessi diritti) e allo stesso tempo di rivalità. Basta inoltre vedere in questa femmina “la madre” per vedere nel meccanismo mimetico il nucleo costitutivo del complesso di Edipo, ovvero di uno dei più grandi miti sacrificali dell’Occidente a cui Girard spesso si riferisce. Come dire che 6. Cfr. G. Vattimo, Violenza, metafisica, cristianesimo, in Dopo la cristianità. Per un cristianesimo non religioso, Garzanti, Milano 2002, pp. 119-127; Id., Metaphysics and violence, in S. Zabala (a cura di), Weakening Philosophy, McGill University Press, Montreal 2007, pp. 400-421. 7. Cfr. G. Vattimo, Storia della salvezza, storia dell’interpretazione, in Dopo la cristianità, cit., pp. 63-74. 8. M. Gauchet, Il disincanto del mondo. Una storia politica della religione (1985), Einaudi, Torino 1992, p. VIII.
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la società liberal-capitalistica si fonda su una struttura intrinsecamente edipica: l’identificazione assume la forma di una rivalità. Anzi, forse si può giungere a dire che la mimesi è essenzialmente edipica: è l’idea che l’immagine possa sostituirsi al suo modello in virtù della sua somiglianza. Ora, per Vattimo, Gesù non è venuto solo a svelare il meccanismo vittimario, ma a chiedere di cambiarlo: “C’è un elemento di dinamicità [cioè di storicità] nella rivelazione cristiana che ha detto ‘guardate che il meccanismo vittimario delle religioni è orribile, e dobbiamo cambiarlo’”.9 Quel che è assunto come “natura”, e di cui si rivendica l’universalità, è dal cristianesimo mostrato come storico, allo stesso modo in cui la proprietà privata per Marx – e quindi l’economia capitalistica che su essa si fonda – è considerata come una condizione storica superabile, e in ogni caso non un dato naturale. Il cristianesimo, insomma, non ha solo svelato il meccanismo vittimario: svelandolo, ne ha mostrato la storicità. “Partendo dalla teoria di Girard allora si può davvero elaborare un discorso sul cristianesimo che non descrive la ‘vera’ natura umana ma la cambia, la redime.”10 Come nell’obiezione di Marx alla sinistra hegeliana, non basta “prendere coscienza” della condizione di alienazione per superarla: occorre una prassi volta a trasformarne le condizioni “strutturali”. 4. Il modello non mimetico In che cosa consiste questa prassi? Essa, paradossalmente, consiste ancora in una mimesi, o, meglio, nell’interpretazione: la imitatio Christi. Cristo, in quanto verbo fattosi carne, è già l’interpretazione della parola divina. Ma quel che si pone per la mimesi – il problema della sua fedeltà o corrispondenza, fino all’identità, con un modello – si pone in maniera analoga per l’interpretazione. La questione allora diventa: che cosa può mai significare “imitare Cristo”? Di fatto, non c’è figura della storia, come osserva Hans Küng, che non abbia subito più divergenti 9. R. Girard, G. Vattimo, Verità o fede debole?, cit., p. 9. 10. Ivi, pp. 9 e 14.
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esemplificazioni di quella di Cristo, anche solo a livello iconografico, e cioè delle immagini. Di qui la difficoltà, del tutto conseguente, di identificare chi è il discepolo fedele di Cristo, chi è il cristiano, e cioè qual è la sua mimesi o la sua interpretazione fedele. La difficoltà pertiene al fatto che, proponendosi come modello di imitazione (“amatevi come io ho amato voi”), Cristo scardina il meccanismo mimetico: che cosa infatti può voler dire “imitare” chi è stato vittima innocente se non imitare chi è stato radicalmente estraneo al meccanismo identificatorio e competitivo della mimesi? E quindi rendersi estraneo a tale meccanismo? L’imitatio Christi è la fine del rapporto mimetico, poiché Cristo rifiuta di entrare in esso sottraendosi alla rivalità con l’amore.11 Imitare Cristo significa quindi sottrarsi al rapporto mimetico, e cioè al rapporto di identificazione. Questa modalità non mimetica di comportamento è una modalità liberante, emancipante. Di cui non si può però nascondere l’indubbia difficoltà, dovuta alla supposizione di una mimesi senza alcun modello con cui identificarsi. Si tratta cioè di un’emancipazione che non consiste nel realizzare un modello ma nel liberarsi di esso, che non consiste nell’inseguimento di una sostanzialità identitaria e identificante, ma nel mostrare la storicità della propria identità mimetica. Cristo non indica un “che cosa”, ma piuttosto un senso, un modo di essere: la sua figura svolge non tanto un ruolo iconico quanto quello di una indicazione formale, nel significato che Heidegger attribuisce a questa espressione. L’indicazione formale non ha il carattere della generalizzazione, non è cioè l’indicazione di un che cosa, ovvero di un contenuto determinato che si estende gradatamente permanendo nelle sue determinazioni predicative fondamentali, secondo un rapporto che a ragione si può definire di partecipazione o mimetico, nel senso platonico; essa dà piuttosto un riferimento, ma lo dà solo formalmente, senza cioè specificare com11. Su questo punto, cfr. P.D. Bubbio, Mimetic Theory and Hermeneutics, “Colloquy Text Theory Critique”, 9, 2005, pp. 16-28.
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pletamente il suo senso, ovvero il suo come: “Il riferimento e l’attuazione del fenomeno non sono determinati in anticipo, ma sono tenuti in sospeso. [...] Non c’è alcun inserimento in un ambito reale [vale a dire cosale], bensì, al contrario, l’indicazione formale è una difesa, un’assicurazione preventiva, sicché il carattere di attuazione rimane ancora libero. La necessità di questa misura precauzionale emerge dalla tendenza decadente dell’esperienza effettiva della vita, la quale minaccia continuamente di scivolare nell’obiettivo, eppure è partendo da essa che dobbiamo mettere in evidenza i fenomeni”.12 La discussione che qui Heidegger conduce riguarda proprio il problema dell’esperienza effettiva della vita religiosa, che però è solo un caso del problema più ampio dell’esperienza e del suo senso: l’indicazione formale è l’assunzione di un termine di riferimento (nel nostro caso, diciamo, Cristo), ma senza che esso possa valere come modello mimetico, lasciando anzi completamente vuoto il suo contenuto concreto e rendendo così del tutto libero il senso della sua attuazione esperienziale. L’indicazione formale è un modo di dire questa libertà connessa all’esperienza effettiva, al senso concreto della realizzazione, dell’attualizzazione ermeneutica. Questa sorta di emancipazione fondata su una mimesi senza modello è, credo, uno degli esiti più incompresi della modernità, e che in maniera forse impropria passa con il nome di “postmodernità”. In effetti, l’accusa più comune al postmoderno è quella di privarsi della possibilità di una critica dell’esistente perché rinuncia in partenza a opporre all’esistente un modello, un’idea o un ideale che si tratterebbe di realizzare (come ancora nell’obiezione habermasiana secondo cui il postmoderno semplicemente rinuncerebbe alla realizzazione dell’ideale di emancipazione dell’Illuminismo, alla sua idea di razionalità e di umanità, ideale che, piuttosto, bisognerebbe riprendere e portare a compimento), secondo uno schema platonico che agisce profondamente nella storia della filosofia, sotto forma di un appello a una 12. M. Heidegger, Fenomenologia della vita religiosa (1920-21), a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 2003, § 13, p. 100.
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natura umana da difendere o da ripristinare da uno stato di corruzione. Si potrebbe però dire che il potenziale emancipativo dello “schema non mimetico” del cristianesimo è proprio nel riconoscimento della storicità dell’esistente, cioè nel riconoscimento che esso è sempre e comunque solo una delle molteplici possibilità che trovano o possono trovare un’attualizzazione nella storia: svelando il meccanismo vittimario, Cristo avrebbe annunciato la sua possibile trasformazione, e cioè l’idea che un altro mondo è possibile. Il che non significa tanto, come scrive anche Vattimo, che “niente è impossibile”,13 ma piuttosto che ciò che è possibile è sempre al di là, un plus ultra rispetto a ciò che è, il quale comunque ne costituisce il limite situazionale, nel senso heideggeriano della gettatezza. Lo schema mimetico è scardinato dunque facendo appello, non a una possibile identificazione – e quindi al desiderio di possedere la stessa cosa, alla proprietà – ma a una possibile differenza (è questo il senso profondo di quel che Heidegger chiama “differenza ontologica”), all’idea che le proprietà attuali possano cambiare, e che quindi non esista alcuna proprietà inalienabile in assoluto. Il richiamo alla critica marxiana dell’economia capitalistica e al suo fondamento nella proprietà privata – o, meglio, nella difesa della proprietà privata come un diritto naturale – può infatti essere trasposto a livello logico. L’identificazione avviene attraverso la definizione di proprietà, predicati che costituiscono il contenuto sostanziale di un determinato soggetto. Non va dimenticato che il termine “sostanza” in greco indicava esattamente “ciò che si possiede”, il bene, le sostanze (come in fondo si dice ancora oggi) o le facoltà, i mezzi di cui si dispone (un uomo facoltoso è un uomo che ha molte sostanze). Questo significato di “possesso” non è del tutto negativo, anzi: allude a un carattere in fondo molto temporale, essendo la relazione possessiva – a differenza di quella copulativa – contingente, variabile. Si tratta di una connotazione temporale che si è gradata13. R. Girard, G. Vattimo, Verità o fede debole?, cit., p. 15.
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mente affievolita, fino a scomparire, nella concezione metafisica della sostanza come il “che cosa” permanente, eterno, di un determinato soggetto, il che ha segnato la prevalenza della relazione copulativa (identitaria) su quella possessiva (non identitaria, pragmatica, e forse persino etica, se è vero che uno dei concetti fondamentali dell’etica aristotelica, quello di héxis, deriva dall’ambito semantico del verbo échein, “avere”). Tutta una tendenza della modernità si caratterizza in buona parte per aver portato una critica radicale a questo modo di concepire la sostanza, e quindi l’identità che su di essa si fonda: per motivi e in modi diversi, tanto il trascendentalismo quanto la psicanalisi hanno posto al fondo dell’io psicologico qualcosa di non sostanziale (delle funzioni logiche, il desiderio), ovvero qualcosa di cui non si può neanche dire “che cos’è”, in quanto non ha alcuna proprietà, non si dice attraverso predicati, ma attraverso elementi non categoriali, sincategorematici. La postmodernità, proprio rifiutando il modo tradizionale di pensare l’identità, è pertanto focalizzata su quel che Lyotard, con una felice espressione, ha chiamato “pragmatica delle particelle linguistiche”: un fare che è un “costruire o stabilire” relazioni, un formare, e non un identificare.14 5. Mimesi e verità Scardinare il modello mimetico significa scardinare il concetto tradizionale della verità come adeguazione tra l’intelletto e la cosa, della proposizione come immagine di uno stato di cose (il cui esempio classico è la teoria wittgensteiniana esposta nel Tractatus), e dunque della conoscenza come rispecchiamento adeguato della realtà. La riflessione ermeneutica ha elaborato una concezione alternativa, certo non mimetica, della verità, a partire dalle analisi di Heidegger e dalla sua definizione della verità come, essenzialmente, apertura. L’apertura allude a un’ulteriorità
14. G. Chiurazzi, La formazione del legame sociale tra immagine e senso, Atti del convegno internazionale Person and Society. Perspectives for the XXI Century, 17-19 novembre 2005, Braga (Portogallo).
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sempre possibile, a un plus ultra: essa è la definizione – se è lecito usare qui questo termine – di un orizzonte di senso all’interno del quale sono possibili le singole asserzioni o le singole verità. L’accostamento con la teoria kuhniana dei paradigmi scientifici risulta a tal proposito allo stesso tempo pertinente e forse anche in certa misura fuorviante: un paradigma è un modello, una struttura o uno schema teorico, che serve a spiegare, rendendoli “adeguati”, un insieme di fatti osservabili. L’idea della verità come apertura allude però, più che a questo carattere “costruttivo” dell’elaborazione teorica, al carattere “distruttivo” che è in qualche modo implicito nel concetto stesso di apertura, il quale è da intendere, non in senso mediale (un “essere aperto”), ma innanzitutto in senso attivo (un “rendere aperto”). Questo perché la verità è fondamentalmente un’esperienza, l’esperienza che, più che confermare o verificare le nostre convinzioni, e quindi adeguarsi a esse, le sconfessa o le falsifica:15 la verità ha cioè un carattere esperienzialmente anti-conformistico, e solo così sfugge al meccanismo della mimesi. Nella concezione tradizionale della verità c’è dunque un elemento sacrificale che potremmo individuare esattamente nel suo tendenziale conformismo: nel tentativo di ricondurre una molteplicità di fatti a un identico principio, nel tentativo di rendere omogeneo l’eterogeneo (la legge dei gravi riconduce a un unico modello esplicativo tanto il fenomeno della pietra che cade quanto la rivoluzione della Terra intorno al Sole). La questione della diversità è dunque quella – se ne ha la percezione sin da Platone – che compromette o mette in discussione il meccanismo mimetico, il quale tende a difendersi esattamente dal diverso, dal non assimilabile, da ciò che non è conforme. E allora, “quid est veritas”? “Est vir qui adest”, risponde Cristo a Pilato: con questa risposta Cristo addita se stesso come verità, indica cioè la non mimesi come verità. Questa considerazione ci permette forse di rivalutare la frase aristotelica amicus 15. G. Vattimo, Le ragioni etico-politiche dell’ermeneutica, in E. Ambrosi (a cura di), Il bello del relativismo, Marsilio, Venezia 2005, pp. 80-84.
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Plato, sed magis amica veritas, in cui Vattimo vede la formula di ogni totalitarismo, “quella frase che si cita sempre per giustificare qualsiasi rogo”:16 quasi che l’amicizia, di per sé, possa sfuggire al meccanismo mimetico e non costituisca invece, molto spesso, o in certe sue manifestazioni che si tratterebbe comunque di distinguere, esattamente un portato del meccanismo mimetico e del suo esito sacrificale, in quanto fondato sull’opposizione amico-nemico.17 Ci sono, in fondo, forme di “amicizia” che, in quanto mimetiche, sono altamente escludenti, fusionali, forse persino simbiotiche, e che perciò possono risultare ben più distruttive e sacrificali di qualsiasi appello alla verità. La questione insomma non è se l’amicizia sia più importante della verità, ma se l’una e l’altra sfuggano davvero al modello mimetico. Ci si può appellare alla verità, se questa è “apertura” rispetto a un’amicizia eccessivamente mimetica, in nome del “vir qui adest”; ci si può appellare all’amicizia, se questa è un lasciare aperta una possibilità, contro una verità eccessivamente escludente, contro ogni conformismo e in nome della non violenza.
16. R. Girard, G. Vattimo, Verità o fede debole?, cit., p. 30. 17. Sul problema identitario connesso a una certa concezione dell’amicizia, cfr. J. Derrida, Politiche dell’amicizia (1994), Raffaello Cortina, Milano 1995.
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345 gennaio marzo 2010
Inattualità di Pasolini MATERIALI Nota filologica su due inediti di Pier Paolo Pasolini [Piera Rizzolatti] Pier Paolo Pasolini Dialogo tra un maniscalco e la sera [1942] Pier Paolo Pasolini Dialogo tra una vecchia e l’alba [1945] Preludi drammaturgici [Angela Felice] Davide Zoletto Pasolini, l’Africa e due scene di insegnamento Raoul Kirchmayr Pasolini, gli stili della passione Michel Foucault I mattini grigi della tolleranza [1977] Pier Aldo Rovatti Che cos’è uno scritto corsaro? Damiano Cantone Pasolini e i segni Massimiliano Roveretto L’ingombrante fantasma. Le ragioni di Pasolini Massimiliano Nicoli L’innocenza del potere. Una riflessione su “Petrolio” Giacomo Marramao A partire da “Salò”: corpo, potere e tempo nell’opera di Pasolini Dario Giugliano Una storia infame: Pasolini e l’orizzonte temporale occidentale Alessandro Mariani La vocazione pedagogica di Pasolini INTERVENTI François Jullien L’esteriorità cinese, ovvero come fare lavorare gli scarti culturali per una intelligenza comune Marco Galati Garritto L’in-scrivibilità della scomparsa (di Georges Perec) Chiara Pastorini Corpo ed etica nel secondo Wittgenstein: una proposta teorica
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MATERIALI Martin Heidegger Rimbaud vivant [1972] 209 Luigi Azzariti-Fumaroli Nota a “Rimbaud vivant” di Martin Heidegger 212
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346 aprile giugno 2010
Lo stato penale globale Alessandro Dal Lago Lo stato penale globale. Premessa
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Nota ai testi
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Loïc Wacquant La disciplina produttiva: fisionomia essenziale dello stato neoliberale John L. Campbell Stato penale e stato debitore: l’irripetibile esemplarità del neoliberalismo americano Frances Fox Piven Neoliberalismo e neofunzionalismo: la logica opaca del capitale Mariana Valverde La profondità è in superficie: per una tregua politico-metodologica Jamie Peck Il neoliberalismo zombie e lo stato ambidestro Bernard E. Harcourt La penalità neoliberale: una breve genealogia
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Massimo Gelardi Dominio dei corpi, stato penale e biologia della cittadinanza. Riflessioni sul dibattito
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INTERVENTI Ferdinando G. Menga Unitarietà del potere ed eccedenza della pluralità. Hannah Arendt 158 alla prova della decostruzione 185 Edoardo Greblo Vite senza contratto
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