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349 gennaio marzo 2011

Il postcoloniale in Italia Premessa

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Birgit Wagner La questione sarda. La sfida dell’alterità Marta Verginella Antislavismo, razzismo di frontiera? Chiara Brambilla Geografie italo-libiche Gianluca Gabrielli Razze e colonie nella scuola italiana Appendice di materiali Carmelo Marabello Nell’India di laggiù. O dell’attitudine etnografica di alcuni film e cineasti italiani Annamaria Rivera Razzismo postcoloniale o razzismo tout court? Riflessione sui casi italiano e francese Giovanni Leghissa Il luogo disciplinare della postcolonia

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INTERVENTI Hans-Dieter Bahr Gioia dei sensi e gusto. Sull’estetica del finito

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rivista fondata da Enzo Paci nel 1951 direttore responsabile: Pier Aldo Rovatti redazione: Sergia Adamo, Paulo Barone, Graziella Berto, Deborah Borca (editing, deborahborca@libero.it), Silvana Borutti, Damiano Cantone, Mario Colucci, Alessandro Dal Lago, Rocco De Biasi, Giovanna Gallio, Edoardo Greblo, Raoul Kirchmayr, Giovanni Leghissa, Anna Maria Morazzoni (coordinamento, tel. 02 70102683), Ilaria Papandrea, Fabio Polidori, Rosella Prezzo, Pier Aldo Rovatti, Antonello Sciacchitano, Giovanni Scibilia, Davide Zoletto direzione: via Melzo 9, 20129 Milano collaborano tra gli altri ad “aut aut”: G. Agamben, H.-D. Bahr, R. Bodei, L. Boella, J. Butler, M. Cacciari, A. Cavarero, G. Dorfles, M. Ferraris, U. Galimberti, P. Gambazzi, S. Givone, A. Heller, F. Jullien, J.-L. Nancy, A. Prete, M. Serres, G.C. Spivak, M. Trevi, G. Vattimo, M. Vegetti, P. Veyne, V. Vitiello, S. Žižek per proposte di pubblicazione: redazioneautaut@gmail.com Si fa presente che “aut aut” non pubblica recensioni e non accetta testi di ampiezza superiore a 40.000 battute (note e spazi compresi).

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Premessa

arebbe bello vivere in un paese in cui il senso della comune appartenenza si radica su un sano patriottismo costituzionale. In un simile paese, non il sangue e il suolo dominano l’immaginario di coloro che sentono se stessi come parte della medesima nazione, bensì un insieme di valori condivisi, radicati in un tessuto culturale fatto di tradizioni comuni, di carattere non unicamente linguistico o religioso (tanto più che il vincolo offerto dalle tradizioni linguistiche e religiose gioca spesso lo stesso ruolo a suo tempo giocato dalla mitologia del sangue e del suolo). Tali valori, inoltre, rimandano non solo ai principi universali che li sostengono, ma anche alle lotte compiute nel passato per la loro affermazione. Senza tale connessione a un passato condiviso, il richiamo a valori comuni rischierebbe infatti di rimanere astratto e freddo. In tal modo, nel parlare di patriottismo costituzionale non si intende solo riferirsi alla possibilità che il patriottismo tradizionalmente inteso si liberi da ogni tratto chiuso ed escludente, indissolubilmente legato a un’idea di nazione facilmente manipolabile per legittimare forme violente e guerrafondaie di nazionalismo. Né si vuole condire con salsa comunitarista una tradizione repubblicana che, a guardarla bene, sembra avere per lo più incontrato i favori di pochi palati fini. Di carattere progressivo, il patriottismo costituzionale evoca la possibilità che il patto democratico, chiamato a tenere unita la nazione, si radichi nel riconoscimento del fatto che la Carta costituziona-

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le, oltre ad assolvere la funzione di guidare il legislatore nel redigere e prescrivere le regole della convivenza civile, incarni anche la sedimentazione di quelle imprese collettive, articolatesi nel tempo, le quali avevano di mira l’edificazione di una società decente. In Italia sembra però essere vano anche solo nutrire la speranza che una qualche sorta di patriottismo costituzionale possa mai infiammare gli animi dei cittadini. Pensiamo all’Italia repubblicana: una volta congedata la Carta costituzionale, divisioni profonde hanno subito separato coloro che avevano combattuto insieme per liberare il paese dal fascismo; ma già nel corso del XIX secolo, i fautori del processo unitario non sono mai riusciti davvero a mettersi d’accordo su come fare l’Italia e gli italiani. E a guardarle bene, tutte queste sembrano essere divisioni in realtà ancora più antiche, tanto ricordano quelle narrate nelle opere di Machiavelli e Guicciardini. Per farla breve, un luogo comune, simbolicamente persuasivo, articolabile sia sul piano delle emozioni che su quello delle scelte razionali, sembra non sia stato ancora trovato per dire, nominare e narrare un’italianità aperta, democratica, rispettosa delle differenze – differenze che rispecchiano modalità diverse di sentirsi italiani e di abitare l’Italia (compresa ovviamente la modalità di chi abita in Italia avendo altrove la propria patria e la propria famiglia). A voler essere ottimisti – ed è bene esserlo, tanto più che un pessimismo ostentato per partito preso porta poco lontano – si potrebbe dire che c’è bisogno di intraprendere un colossale lavoro pedagogico mirante a rendere appetibile il patriottismo costituzionale. Come sapevano i più lungimiranti e accorti tra i nostri Padri della patria, italiani non si nasce, ma si diventa. Parimenti, non si nasce amanti delle regole della civile convivenza. Non è escluso – anzi, è probabile – che un contributo non irrilevante in tal senso possa venir offerto dalla capacità di dirigere verso noi stessi uno sguardo postcoloniale. Questo sguardo, beninteso, è già lì: ogni giorno moltissimi italiani di origine straniera e un numero ancora maggiore di stranieri ospiti del nostro paese ci guardano con uno sguardo che viene 4


da fuori, da un altrove che è l’altrove della periferia. Questa periferia, è bene dirlo subito, non è solo l’ex colonia. Sarebbe miope e riduttivo affermare – come spesso si fa, peraltro – che in Italia sia poco sensato porre la questione postcoloniale perché gli stranieri presenti nel nostro paese e provenienti dalle nostre ex colonie costituiscono solo una esigua minoranza degli immigrati. La questione postcoloniale, infatti, non riguarda solo il modo in cui il “centro” viene vissuto e narrato da chi proviene da quella “periferia” che è l’ex colonia. Certo, il pensiero postcoloniale di matrice anglosassone ha inizialmente trovato il proprio punto di partenza nel fatto che uno specifico regime discorsivo (che andava dalla letteratura al cinema, passando per varie forme di produzione culturale pop) esprimeva la voce, multiforme e coloured, di comunità migranti provenienti dalle ex colonie. Tuttavia, si è ben presto sviluppata e affermata una riflessione sulla postcolonia che non focalizza la propria attenzione unicamente su quei fenomeni di riappropriazione dello spazio culturale e identitario che esprimono i bisogni e le aspettative di coloro che, provenendo dalla periferia, sono soggetti a varie forme di esclusione in quanto immigrati dalle ex colonie. In altre parole, il “post” a cui la nozione di postcolonia fa riferimento ha cessato di concepire l’intreccio tra la cultura delle periferie e quella delle metropoli solo come un effetto dei rapporti pregressi tra metropoli colonizzatrice e periferie colonizzate. Almeno dal momento in cui il processo di globalizzazione ha spinto un numero considerevole di individui a lasciare le periferie di tutti gli ex imperi per spingersi in quegli spazi a suo tempo percepiti come il “centro”, si sono trasformate le coordinate entro cui si articola il discorso identitario nella sua interezza, cosicché nessuna delle caratteristiche proprie di quest’ultimo può prescindere da ciò che è stato il passato coloniale e imperialista, sia che a considerare le conseguenze di questo passato siano i figli dei colonizzati, sia che a farlo siano i figli dei colonizzatori. A ciò si aggiunge un’ulteriore osservazione, di notevole rilievo teorico, compiuta tanto dai cultori dei Postcolonial Studies, quanto da tutti coloro che, a vario titolo e con varie competenze, oggi 5


si interrogano sul modo in cui la questione della differenza culturale assume un significato immediatamente politico. Si tratta del fatto che ogni definizione degli spazi che i soggetti abitano allorché sono chiamati a negoziare sia appartenenze di vario genere, sia diritti e accesso alle risorse, è anche messa in scena di specifici rapporti di potere; ora, questi ultimi non sono affatto privi di relazioni con il modo in cui viene gestita la distribuzione delle risorse a livello globale, e tale gestione, a sua volta, rimanda all’intera storia pregressa della modernità, nel corso della quale si sono sedimentate e consolidate posizioni di potere operanti anche al presente. Per questo ha senso affermare che ogni città del pianeta è ormai divenuta luogo della postcolonia, ovvero incrocio di spazialità multiple, abitate – spesso contemporaneamente – da soggetti che variamente declinano le proprie appartenenze (di genere, di classe e di cultura) nell’orizzonte di un conflitto permanente la cui posta in gioco è la definizione del confine tra interno ed esterno. Tale confine non delimita più lo spazio fisico e geografico tra vecchi centri e vecchie periferie, ma si fa porosa intercapedine tra flussi di individui, merci, informazioni, codici e norme. E la gestione di tali flussi è al tempo stesso governo delle vite, un governo che, per essere globale, deve per forza insinuarsi nella viscosa materialità di piazze, vie e quartieri, di luoghi di produzione come fabbriche, uffici, campi di pomodori e aranceti, di istituzioni locali come scuole, ospedali, centri di permanenza temporanea, e via dicendo. Tutto ciò autorizza ampiamente l’uso di una prospettiva postcoloniale per impostare un discorso che si voglia minimamente innovativo sulla questione dell’identità nazionale italiana, dal momento che l’Italia, al pari di tutte le altre nazioni dell’Unione Europea, si trova assai ben integrata nel circuito dei flussi globali appena descritti. Chiarito ciò – e riprendendo il filo del discorso svolto sopra in merito al patriottismo costituzionale – possiamo azzardare l’affermazione seguente: educare alla postcolonia significa, in un senso molto pregnante, educare alla cittadinanza democratica. Lo sguardo postcoloniale comporta una messa in questione del modo in cui nel passato una specifica struttura identitaria si è costituita attraverso specifici meccanismi di esclusione e inclusione 6


dell’alterità. Significa inoltre far emergere nel presente una pluralità di sguardi convergenti su quel luogo comune che chiamiamo “patria”, in modo che l’unità e l’unicità di tale luogo possa scaturire dall’intreccio di quegli sguardi. Nel presente fascicolo – è bene sottolinearlo – non sono stati raccolti contributi con l’intenzione di esaurire, neppure lontanamente, la questione appena enunciata. Si è voluto aprire però uno spazio di discussione, con l’intento di additare un insieme di snodi problematici che in gran parte sono ancora in via di definizione. Si è voluto mettere a frutto le risorse concettuali ed euristiche fornite dagli studi postcoloniali per guardare attraverso di esse al modo in cui ciò che potremmo chiamare “italianità” si è costituita in riferimento a un’alterità forclusa, misconosciuta e rimossa. Si è voluto cioè posare un primo sguardo sui luoghi – immaginari e reali – che rendono percepibile e fruibile il confine tra l’Italia e il suo “altro”. Si tratta di un’alterità che assume in primis il volto dei migranti – sia quelli che soggiornano nel nostro paese, sia quelli che vengono fatti “sostare” in quei campi libici che simbolicamente si riallacciano ai campi fatti costruire dagli italiani durante l’occupazione coloniale. Ma ridurre la questione postcoloniale a quest’unica forma di alterità non basta. Diviene necessario ripensare almeno alcuni dei momenti cruciali della storia nazionale, per evidenziare il funzionamento di una macchina complessa, capace di produrre identità forti e chiuse ogniqualvolta si presenti l’occasione di istituire luoghi abitati da soggetti posti in condizione di subalternità. Emblematici, in questo senso, tutti i casi in cui si mette in opera l’italianizzazione dell’altro, intesa come processo in cui si mescolano la volontà di “incivilire”, la volontà di conquista, il desiderio di annientamento. Nel presente fascicolo ci si concentra da un lato su quel caso di “colonizzazione interna” che fu l’inserimento della Sardegna nel Regno d’Italia, dall’altro sulle strategie di espansione finalizzate a consolidare – o, durante la Seconda guerra mondiale, a estendere – i confini orientali. Ma non meno importante risulta l’indagine di quei fenomeni di inclusione/esclusione dell’alterità che si situano entro lo spazio immaginario. Come esempio si è scelto il cinema, potente macchina ca7


pace di mescolare, in un gioco di reciproche assonanze, le “Indie di laggiù” con quelle “di quaggiù”. Nello stesso contesto, assume un’importanza cruciale la scuola: intesa come istanza formatrice che veicola non solo ciò che c’è da sapere sul passato, ma anche quale uso farne nel presente, la scuola ha contribuito non poco a far sì che la rimozione del passato coloniale italiano potesse sfociare in quella rappresentazione collettiva degli “italiani brava gente” che rende così difficile, oggi, una discussione seria sulla drammatica diffusione di atteggiamenti razzisti e xenofobi. Molti altri aspetti di ciò che rende l’Italia un luogo della postcolonia globale andrebbero certo presi in considerazione. Come detto, si tratta qui solo di un primo tentativo. Condotto con l’auspicio che una diffusione dell’interesse per la postcolonia all’interno delle scienze umane nel loro complesso contribuisca a rendere queste ultime strumento efficace di una nuova pedagogia, mirante a ridefinire i confini dell’italianità. [G.L.] Hanno collaborato: Chiara Brambilla è assegnista di ricerca presso la Scuola di dottorato in Antropologia ed epistemologia della complessità, all’Università di Bergamo. Si occupa di antropologia, geopolitica ed epistemologia delle frontiere; cartografia e contro-cartografie; postcolonialismo e migrazioni transnazionali. È autrice di Ripensare le frontiere in Africa. Il caso Angola/Namibia e l’identità kwanyama (L’Harmattan Italia, Torino 2009) e curatrice, con Bruno Riccio, di Transnational Migration, Cosmopolitanism and Dis-located Borders (Guaraldi, Rimini 2010). Gianluca Gabrielli si occupa di storia del razzismo e del colonialismo italiano, nonché di storia della scuola. Ha collaborato alle mostre La menzogna della razza (1994) e L’offesa della razza (2005). Ha redatto la voce “Razzismo” del Dizionario del fascismo (Einaudi, Torino 2003) e ha curato, insieme a Davide Montino, il volume La scuola fascista (ombre corte, Verona 2009). Collabora con il Cesp (Centro studi per la scuola pubblica). 8


Carmelo Marabello è ricercatore presso la Facoltà di scienze della formazione dell’Università di Messina, dove insegna Filosofia e teoria dei media e Filmologia. È docente nella Facoltà di design dell’Università di Bolzano, dove insegna Antropologia culturale e Storia del cinema. Negli anni novanta è stato curatore e autore di Fuoriorario e del Festival internazionale del cinema di Taormina. Fa parte della redazione di “Fata Morgana”. Annamaria Rivera insegna Etnologia e Antropologia sociale all’Università di Bari. È specialista nell’analisi della xenofobia e del razzismo. Fra i suoi saggi più recenti: Les dérives de l’universalisme (La Découverte, Paris 2010); La Bella, la Bestia e l’Umano. Sessismo e razzismo, senza escludere lo specismo (Ediesse, Roma 2010); Regole e roghi. Metamorfosi del razzismo (Dedalo, Bari 2009). È editorialista del “manifesto” e di “Liberazione”. È anche autrice di un romanzo, Spelix. Storia di gatti, di stranieri e di un delitto (Dedalo, Bari 2010). Marta Verginella insegna Storia dell’Ottocento e Teoria della storia presso il Dipartimento di storia della Facoltà di lettere dell’Università di Lubiana. Studia le pratiche identitarie in aree multietniche e l’uso politico della storia di confine. Tra i suoi lavori più recenti, Il confine degli altri (Donzelli, Roma 2008). Birgit Wagner insegna Letterature romanze presso l’Università di Vienna. Ha dedicato vari saggi alla letteratura e cultura sarda. Tra le sue recenti pubblicazioni: Sardinien Insel im Dialog. Texte, Diskurse, Filme (Francke, Tübingen 2008); Nuovo Cinema Italia. Der italienische Film meldet sich zurück (con Daniel Winkler, “Maske & Kothurn”, 1, 2010).

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La questione sarda. La sfida dell’alterità BIRGIT WAGNER

Alla memoria di Giorgio Baratta, sardo d’adozione

el suo noto saggio L’importanza di Gramsci per lo studio della razza e dell’etnicità Stuart Hall informa i lettori (presumibilmente anglosassoni e quindi ignari della formazione dello stato unitario italiano): “Gramsci era nato in Sardegna nel 1891. La Sardegna si trovava allora in una relazione di tipo ‘coloniale’ con il resto dell’Italia”.1 Ma è vera quest’affermazione? E ammesso che sia vera, che cosa significano le virgolette aggiunte all’aggettivo coloniale? La questione delle cosiddette colonie interne come l’Irlanda o la Bosnia asburgica e del razzismo esercitato dai grandi centri europei verso le periferie è una questione spinosa ed è stata in passato oggetto di usi e abusi.2 Per quanto riguarda l’Italia, essa è stata sollevata per la Sardegna, “la terza Irlanda” secondo le parole attribuite a Cavour.3 Nella storiografia italiana attuale però l’interesse per il colonialismo, focalizzato sulle colonie africane, e la storiografia della Sardegna corrono su strade separate. Il colonialismo italiano, per quanto relativamente tardivo, si presta certo meglio al paragone con quello francese o britannico, benché con mol-

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1. S. Hall, Politiche del quotidiano. Culture, identità e senso comune, a cura di G. Leghissa, il Saggiatore, Milano 2006, p. 148. 2. Per una discussione critica, cfr. W. Müller-Funk, B. Wagner, Diskurse des Postkolonialen in Europa, in W. Müller-Funk, B. Wagner (a cura di), Eigene und andere Fremde. “Postkoloniale” Konflikte im europäischen Kontext, Turia + Kant, Wien 2005, pp. 9-27. 3. Nel febbraio 1860 un giornale londinese riferì che Cavour avrebbe detto che l’Italia aveva “tre Irlande”: la Savoia, Genova e la Sardegna. Cfr. F. Cheratzu, “Premessa”, in F. Cheratzu (a cura di), “La terza Irlanda”. Gli scritti sulla Sardegna di Carlo Cattaneo e Giuseppe Mazzini, Condaghes, Cagliari 1995, p. 15.

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ti distinguo. Oggi una delle sue caratteristiche più specifiche si individua nella brusca perdita dell’impero coloniale coincidente con il crollo del regime fascista, perdita sentita come una vergogna che ha dato origine a una lunga fase di parziale amnesia collettiva, vale a dire di silenzio istituzionale minato da memorie individuali.4 È soltanto a partire dagli anni ottanta e novanta del Novecento che le scienze umane italiane, soprattutto la storiografia, hanno effettuato un lavoro assiduo e accurato in merito.5 Per quanto ne sappia, questi studi non hanno però correlato il tema del colonialismo italiano in Africa alla “questione sarda”. Da parte sarda, lo statuto legale e amministrativo della Sardegna dalla fine del periodo giudicale fino al momento dell’unità d’Italia è stato ampiamente discusso e documentato e ha dato luogo a varie opere ormai di riferimento.6 In queste, il colonialismo esterno non va certamente trascurato, ma è legato alle imprese coloniali spagnole, all’organizzazione dell’impero coloniale spagnolo e al posto che la Sardegna occupava all’interno di questo vasto apparato statale e amministrativo. Se si considera l’anno 1890 – anno in cui l’Eritrea è dichiarata colonia – l’inizio ufficiale del colonialismo italiano, è ovvio che la Sardegna faccia già costituzionalmente parte dello stato unitario, benché si trovi in una situazione “ultraperiferica” riguardo al resto del paese. L’idea di avvicinare la situazione sarda di allora a quella delle colonie africane – idea che non sembra interessare la storiografia – spunta invece in alcune opere letterarie recenti di autori sardi, soprattutto in romanzi di Sergio Atzeni e di Marcello Fois.7 Tornerò più avanti sulla dimensione “postcoloniale” di gran parte della nuova narrativa sarda. 4. Molto informativo a proposito: J. Andall, D. Duncan (a cura di), Italian Colonialism. Legacy and Memory, Lang, Oxford-New York 2005. 5. Ricordiamo i lavori di Angelo Del Boca, Giorgio Rochat, Giampaolo Calchi Novati, Nicola Labanca; in ambito internazionale, cfr. anche R. Ben-Ghiat, M. Fuller (a cura di), Italian Colonialism, Palgrave Macmillan, New York 2005. 6. Cfr. L. Berlinguer, A. Mattone (a cura di), Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. La Sardegna, Einaudi, Torino 1998; M. Guidetti (a cura di), Storia dei Sardi e della Sardegna, Jaca Book, Milano 1989, 3 voll. 7. Cfr. Sergio Atzeni, Apologo del giudice bandito (Sellerio, Palermo 1986); Marcello Fois, L’altro mondo (Frassinelli, Milano 2002) e Memoria del vuoto (Einaudi, Torino 2006). Apologo del giudice bandito, un romanzo storico ambientato nel Quattrocento, affronta la tematica in modo allegorico; i romanzi di Fois evocano direttamente il passato coloniale in Africa.

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Mi propongo qui di sollevare tre questioni. In che senso e con quali tappe storiche è legittimo parlare di una condizione coloniale – o semicoloniale, come preferisco dire – del passato sardo? I sardi sono stati vittime di azioni e discorsi razzisti, e in quale fase storica si manifesta il fenomeno? Infine, possiamo individuare una coscienza di tipo postcoloniale nella cultura sarda attuale? Mi pare che solo nell’articolazione congiunta delle tre questioni si possa giungere a un quadro completo del tema.8 La scottante attualità di questo tema è da cercare nel fatto che gli italiani “continentali” hanno spesso percepito nella presenza dei sardi e della loro cultura un fenomeno di profonda alterità (e in parte lo fanno tuttora). Trattandosi di un processo di costruzioni reciproche, mutatis mutandis questo vale anche per i sardi: si percepiscono differenti e rivendicano il diritto all’alterità. In altre parole, la Sardegna costituisce una sfida alla capacità nazionale – politica e umana – di vivere e di gestire le differenze. 1. Un passato semicoloniale Cominciamo con un rapido riassunto della storia dell’isola per discutere il suo possibile collegamento con il colonialismo europeo. A prescindere dal periodo giudicale nel Medioevo, periodo di indipendenza politica,9 la Sardegna è stata, fin dalla sua “scoperta” da parte dei popoli navigatori antichi, oggetto di varie forme di dominazione straniera. In questa sede, interessa innanzitutto la rottura che costituisce nel Quattrocento l’incorporazione dell’isola prima nel regno aragonese, poi in quello spagnolo. Nel Regnum Sardiniae, parte del crescente impero spagnolo, assumono il comando i viceré e i grandi inquisitori10 mandati dalla corona spagnola: senza eccezione nobili della penisola iberica. L’ammini8. Riprendo qui in parte le analisi svolte nella mia monografia Sardinien Insel im Dialog. Texte, Diskurse, Filme, Francke, Tübingen 2008. 9. Il periodo giudicale è ancora oggi oggetto di costruzioni di un mito particolarmente sardo; cfr. a proposito i romanzi di Sergio Atzeni (Passavamo sulla terra leggeri, Mondadori, Milano 1996) e di Giulio Angioni (Il mare intorno, Sellerio, Palermo 2003). 10. In Sardegna – come in Sicilia – operava la temutissima inquisizione spagnola, non quella romana che vigeva nella penisola italiana, anche nelle parti governate dalla Spagna. Cfr. A. Prosperi, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Einaudi, Torino 1996, p. 60.

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strazione dell’isola introduce peraltro un tipo di feudalesimo finora sconosciuto, gli interessi militari del centro prevalgono nella politica estera e militare, l’isola è sottomessa alle rivendicazioni fiscali della Spagna con il risultato di “un drenaggio prolungato di risorse che non si traduceva in un miglioramento delle condizioni locali”.11 Il potere politico-militare del centro impone anche una nuova lingua per la giurisprudenza, l’amministrazione, la chiesa e i nascenti collegi gesuitici: prima il catalano, in seguito lo spagnolo. Il sardo, lingua vernacolare, ne soffre doppiamente: declassato come una parlata popolare, perde l’occasione di elaborare una lingua scritta pienamente funzionale.12 In sintesi: perdita della sovranità, situazione periferica, processi di declassamento amministrativo, sfruttamento economico, svalutazione della cultura indigena e della sua lingua – questi sono elementi che segnalano anche la colonizzazione delle Americhe. Mi riservo di tornare più avanti sulle differenze che pure ci sono tra le colonie esterne e quelle “interne”. Che cosa cambia nel Settecento e nell’Ottocento, quando la Sardegna, dopo un breve interludio austriaco,13 diventa parte del regno sabaudo e poi dell’Italia unita? Nel Settecento, nuovi viceré rappresentano il centro che ora si chiama Torino, l’italiano man mano sostituisce lo spagnolo come lingua elitaria. Quello che non cambia fondamentalmente sono le scarse possibilità di partecipazione politica. Le riforme, iniziate dal lontano centro e in parte ispirate da ideali illuministici, sono spesso destinate a fallire, per mancanza di conoscenze delle realtà locali. Il diritto feudale che la Rivoluzione francese ha spazzato via in vaste parti dell’Europa rimane valido fino al 1838, includendo la giustizia baronale. L’Ottocento introduce due novità destinate a portare nuove tensioni 11. A. Mattone, Le istituzioni e le forme di governo, in M. Guidetti (a cura di), Storia dei Sardi e della Sardegna, cit., vol. III, p. 325. 12. “Lo scrivere in Sardegna è strutturalmente connesso a una lingua non-sarda”, S. Maxia, L’arte e la letteratura in Sardegna: una chiave di lettura, in M. Brigaglia (a cura di), La Sardegna, Edizioni della Torre, Cagliari 1982, vol. I, p. 2. 13. Come altre regioni periferiche, la Sardegna è stata in balia degli interessi dei grandi poteri europei, trattata “come una res”: cfr. I. Birocchi, La questione autonomistica dalla “fusione perfetta” al primo dopoguerra, in L. Berlinguer, A. Mattone (a cura di), Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. La Sardegna, cit., p. 134.

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nella società sarda: l’editto delle chiudende (1820) e la “fusione perfetta” (1847). L’editto delle chiudende, concepito per introdurre una nozione “moderna” di proprietà terriera, permette processi di espropriazione, abolisce molti dei vecchi diritti all’uso comunale delle terre e danneggia gravemente la pastorizia a favore dei nuovi proprietari, anche locali, ed è una delle radici socio-economiche del banditismo sardo. La “fusione perfetta”, l’incorporazione giuridica della Sardegna nel corpo di diritto piemontese, è il frutto di richieste delle classi dirigenti sarde; in un certo senso, si potrebbe pensare che marca la fine di un dominio semicoloniale. Comunque i maggiori vantaggi della riforma favoriscono gli interessi capitalistici del centro, ed è proprio dopo lo statuto albertino (1848), che sancisce la fusione giuridica, che gli intellettuali sardi cominciano a parlare di “colonialismo”.14 Una volta giunti alla vigilia dell’unità d’Italia concediamoci una sosta per valutare le ripercussioni di questi quattro secoli di dominazione straniera di tipo “semicoloniale”. Con questo termine intendo rilevare che la cosiddetta colonizzazione “interna” produce tipi di dominazione che hanno sì tratti in comune con la colonizzazione extraeuropea, ma ne differiscono in altri punti. Come i fenomeni del postcoloniale, il colonialismo non è stato un blocco monolitico, ma un processo storico svariato e legato ai rispettivi presupposti locali.15 La teoria postcoloniale ha ampiamente dimostrato che il colonialismo si basa su discorsi che si svolgono attorno a una serie di opposizioni binarie: metropoli vs. colonia, civilizzazione vs. barbarie, bianco vs. non-bianco, cristiani vs. pagani, maschile vs. femminile. Applicando la teoria di Foucault,16 possiamo individuare 14. Scrive Birocchi: “Il riferimento allo stato di colonia era del resto un’idea diffusa nei circoli democratici sardi del tempo” (ivi, p. 152). Di “colonia” parla anche Mazzini: “Il Governo non vide nella Sardegna che una colonia dove avrebbero potuto impinguar negli uffici, fruttando ad esso gratitudine e appoggio dalle famiglie, tutti quei giovani di schiatta patrizia, ai quali la mala condotta, pubblicamente avverata, avrebbe conteso gli uffici continentali” (citato in F. Cheratzu, a cura di, “La terza Irlanda”, cit., p. 183). 15. Cfr. C. Hall, Histories, empires, and the postcolonial moment, in I. Chambers, L. Curti (a cura di), The Post-colonial Question. Common Skies, Divided Horizons, Routledge, London-New York 1996, pp. 65-77. 16. Cfr. M. Foucault, L’archeologia del sapere (1969), Rizzoli, Milano 1971, pp. 41-50.

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in queste opposizioni la formazione discorsiva che si trova alla base dei discorsi specialistici (antropologici, geografici, storici, rappresentazioni delle arti e lettere) che definiscono a loro volta la colonia come l’altro della metropoli. Ora, se non tutte le opposizioni sopra menzionate sono valide per il caso sardo, la formazione discorsiva che definisce l’ambito del dicibile e pensabile condiziona anche i discorsi svolti attorno alla “questione sarda” e alle altre colonie “interne”. Vediamo ora qual è la qualità specifica del caso sardo. La Sardegna, tranne qualche eccezione nell’Ottocento e durante il fascismo, non è mai stata la meta di un numero importante di coloni; semmai, per le sue condizioni di povertà endemica, l’isola è il punto di partenza di importanti movimenti migratori. Detto questo, è essenziale ricordare che subisce un’altra forma di immigrazione, di tipo elitario: arrivano non soltanto viceré e dignitari ecclesiastici, ma anche altri nobili, militari, amministratori, ecclesiastici, prima catalani e spagnoli, in seguito piemontesi; essi occupano i posti più importanti dell’isola, diminuendo drasticamente le possibilità di partecipazione politica dell’élite indigena e imponendo l’uso delle lingue dei centri. Ne deriva una svalutazione della cultura indigena che marca profondamente la mentalità sarda e produce sia atteggiamenti di autodisprezzo, sia di resistenza culturale assolutamente tipici delle situazioni coloniali. Per quanto riguarda la differenza etnica e quella religiosa, la situazione sarda non è certo comparabile con quella del Messico spagnolo o dell’Algeria francese: manca quella che si potrebbe definire l’alterità “assoluta”, sentita con terrore e fascino. Comunque, la differenza etnica e quella religiosa si percepiscono, anche se con sfumature. Al momento del loro sbarco gli spagnoli sanno per certo di incontrare una popolazione cristiana: ma non nel senso che la chiesa spagnola fortemente legata alla corona vorrebbe imporre. La Sardegna, come il mezzogiorno continentale, fa parte delle “Indie di laggiù”: terre che resistono alla confessione razionalizzata e controllata, l’essenza dell’ortodossia controriformista da costruire, terre che conservano credenze e pratiche magiche, terre da (ri)evangelizzare e da sottoporre a un controllo se15


vero. Ne deriva un’offensiva da parte della chiesa che prevede provvedimenti sia produttivi (scuole, università) che restrittivi (repressioni severe).17 I sardi però non portano segni evidenti di differenze fisiche: non sono “riconoscibili” quanto gli indios oppure i neri. Questo avrebbe dovuto risparmiare loro il razzismo aperto ma, come ricorda Stuart Hall, “per quanto riguarda le questioni razziali, molto più delle differenze contano i linguaggi disponibili”.18 Il momento del razzismo si produrrà nei primi decenni della giovane Italia. Una fase preparatoria consiste nell’esotismo dei viaggiatori europei dell’Ottocento, che scoprono nell’isola una terra “arcaica”, affascinante e diversa. La gamma degli scritti in merito va dalla vasta opera scientificamente impegnata di Alberto La Marmora19 – innamorato dell’isola e ancora oggi amato dai sardi – a osservazioni sprezzanti di viaggiatori più casuali come Honoré de Balzac. Lo scrittore francese che scrive in una lettera che ha visto “cose tali come si raccontano degli Uroni e della Polinesia”20 fa certamente eccezione; eppure l’esotismo, sentimento/atteggiamento ambiguo per eccellenza, induce – e ci induce anche oggi – a una valutazione sempre precaria della differenza; secondo l’analisi di Tzvetan Todorov, è un “relativismo compensato all’ultimo istante da un giudizio di valore (noi siamo migliori degli altri, gli altri sono migliori di noi)”.21 L’esotismo nell’Ottocento è peraltro partecipe della formazione discorsiva del colonialismo, nel senso che per gli europei non era facile parlare dell’altro al di fuori dei discorsi circolanti sulle colonie extraeuropee. Tali discorsi 17. Nel 1546 Ludovico De Cotes, vescovo di Ampurias in Sardegna e inquisitore per tutta l’isola, scrive che era più facile formare alla fede gli indiani del Perù che non i sardi, perché con gli indios si trattava solo di insegnare (docere) mentre con i contadini della Sardegna si dovevano cancellare conoscenze erronee (dedocere), cfr. A. Prosperi, Tribunali della coscienza, cit., p. 556. Cfr. anche R. Turtas, La chiesa durante il periodo spagnolo, in M. Guidetti (a cura di), Storia dei Sardi e della Sardegna, cit., vol. III, pp. 253-297. 18. S. Hall, “Insegnare la razza”, in Politiche del quotidiano, cit., p. 67. 19. Segnaliamo, tra i molti scritti dell’autore sulla Sardegna, il Voyage en Sardaigne de 1819 à 1825 ou description statistique, physique et politique de cette île (1826). 20. Citato in S. Atzeni, Raccontar fole, a cura di P. Mazzarelli, Sellerio, Palermo 1999, p. 13. 21. T. Todorov, Noi e gli altri. La riflessione francese sulla diversità umana (1989), Einaudi, Torino 1991, p. 311.

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includono anche enunciati soggettivamente riverenti, ammirati o addirittura “amorevoli” che fanno parte dell’archivio coloniale.22 Il razzismo, quando si fa palese, non si contenta di discorsi, produce anche la disponibilità a provvedimenti non legittimati dalla legge e alla violenza fisica. 2. Il momento del razzismo. Discorsi e fatti Nel 1897 il giovane criminologo Alfredo Niceforo dà alle stampe La delinquenza in Sardegna, libro notoriamente segnato dall’antropologia positivista. Tre decenni dopo, nel 1926 alla vigilia del suo arresto, Gramsci stende l’ultimo saggio che sarà pubblicato in vita, Alcuni temi della questione meridionale,23 e scrive: “È noto quale ideologia sia stata diffusa in forma capillare dai protagonisti della borghesia nelle masse del Settentrione: il Mezzogiorno è la palla di piombo che impedisce più rapidi progressi allo sviluppo civile dell’Italia; i meridionali sono biologicamente degli esseri inferiori, dei semibarbari o dei barbari completi, per destino naturale; se il Mezzogiorno è arretrato, la colpa non è del sistema capitalistico o di qualsivoglia altra causa storica, ma della natura che ha fatto i meridionali poltroni, incapaci, criminali, barbari”.24 Anche se il saggio gramsciano si inserisce nel contesto più vasto degli scritti meridionalisti, è difficile non vedere che il pensatore sardo aveva in mente libri e opuscoli come quello di Niceforo che attaccavano particolarmente i sardi predisposti “per natura” alla criminalità e ai fatti di sangue e che legittimavano quello che oggi chiamiamo razzismo biologico. Alfredo Niceforo, di scuola lombrosiana e, come il maestro, convinto assertore della craniometria, lavora su incarico della Società geografica italiana e della Società romana di antropologia, investito del prestigio scientifico di queste due istituzioni rino22. Per una discussione della nozione foucaultiana di archivio, cfr. G. Leghissa, Il gioco dell’identità. Differenza, alterità, rappresentazione, Mimesis, Milano 2005, pp. 31-38. 23. Il manoscritto, incompiuto al momento dell’arresto, si stampava a Parigi sulla rivista del Pci, “Lo stato operaio”, nel gennaio 1930. Cfr. A. Gramsci, Scritti politici, a cura di P. Spriano, Editori Riuniti, Roma 1978, vol. III, p. 243, nota del curatore. 24. Ivi, p. 246. Gramsci riprende l’argomento in Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975, vol. III, pp. 2021-2022.

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mate. In Sardegna indaga in particolar modo la società barbaricina e la criminalità endemica delle regioni interne dell’isola, coniando per tali regioni l’espressione “zona delinquente”. L’argomentazione del libro si avvale di misurazioni antropometriche e di dati statistici sulla criminalità, il linguaggio è violentemente polemico, impregnato di numerose metafore tratte dalla biologia e dalla medicina che palesano la formazione dell’antropologo positivista: “Esiste in Sardegna una specie di plaga moralmente ammalata che ha per carattere suo speciale la rapina, il furto e il danneggiamento. Da questa zona, che chiameremo zona delinquente e che comprende il territorio di Nuoro, quello dell’alta Ogliastra e quello di Villacidro, partono numerosi bacteri patogeni a portare nelle altre regioni sarde il sangue e la strage”.25 Oppure: “Quella zona è una grande scoria che galleggia sulle acque luminose di un grande oceano, scoria ammalata e vecchia, residuo di un mondo scomparso”.26 L’ibridazione di un registro retoricopoetico convenzionale (“galleggia sulle acque luminose...”) con metafore biologiche (una popolazione che rappresenta una malattia contagiosa) prefigura il gergo ideologico dei movimenti fascisti del primo Novecento. Se per il lettore odierno decostruire l’argomentazione biologista di Niceforo è un compito facile, per i lettori a lui contemporanei questo linguaggio poteva rappresentare un discorso scientificamente valido e in ogni caso plausibile, dato che si inseriva anche nella formazione discorsiva coloniale. Quando Niceforo afferma, per esempio, che “altri chiamerà ciò robustezza e vigoria, noi chiamiamo ciò non adattabilità della razza, impossibilità di progredire, di evolversi”, e che gli isolani sarebbero una “razza assolutamente priva di quella plasticità che fa mutare ed evolvere la coscienza individuale”,27 è ben 25. A. Niceforo, La delinquenza in Sardegna, Remo Sandron, Palermo 1897, p. 31. Per una discussione critica, cfr. G. Riccardo, L’antropologia positivista italiana e il problema del banditismo in Sardegna. Qualche nota di riflessione, in A. Burgio (a cura di), Nel nome della razza. Il razzismo nella storia d’Italia 1870-1945, il Mulino, Bologna 20002, pp. 95-103. Inoltre, è da segnalare che Niceforo fu incaricato dell’insegnamento di criminologia presso l’Università di Roma sino al 1953! 26. A. Niceforo, La delinquenza in Sardegna, cit., p. 65. 27. Ivi, pp. 58 e 59.

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presente in questo argomentare uno dei maggiori elementi strutturanti del discorso orientalista analizzato da Edward Said. Questa staticità culturale (per Niceforo ereditaria) è spesso stata attribuita dai colonizzatori europei ai popoli “orientali”.28 Si tratta di uno dei tipici topoi ambivalenti che caratterizzano il discorso orientalista: da una parte la presunta immutabilità di una cultura che produce nostalgia per forme premoderne della vita e promette una terra in cui trovare riposo ai popoli moderni ansiosi di mutamento, dall’altra riduce le società immaginate come statiche a uno statuto di eterna infantilità e irresponsabilità. Nel trattato di Niceforo prevale senz’altro la seconda accezione del termine: “Essa [la società barbaricina] si è atrofizzata nel cammino della civiltà ed è rimasta con le idee morali delle primitive società”.29 Se La delinquenza in Sardegna segna “la massima radicalizzazione della maniera razzista di considerare i mali dell’isola”,30 non è certo uno scritto isolato. Il trattato si inserisce infatti in un contesto di inchieste governative sulla Sardegna (De Pretis 1869, Pais Serra 1896), relazioni di deputati sardi e non,31 libri di antropologi meno apertamente razzisti, come La Sardegna di Giuseppe Sergi, pubblicato nel 1907. Al momento dell’uscita dell’opuscolo, si accende una viva polemica sulla stampa isolana.32 I difensori dell’isola scendono così in campo cercando di mettere l’accento sulle cause economiche e sociali del banditismo – mi limito a citare qui la Relazione dell’inchiesta sulle condizioni economiche e della sicurezza pubblica in Sardegna (1896) del deputato sassarese Francesco Pais Serra e La delinquenza della Sardegna (1907) del giurista sassarese Luigi Camboni, con una prefazione di Napoleone Colajanni, professore di statistica, che de28. Cfr. E. Said, Orientalismo (1978), Bollati Boringhieri, Torino 1991, pp. 211-238. 29. A. Niceforo, La delinquenza in Sardegna, cit., p. 41. 30. G. Riccardo, L’antropologia positivista italiana e il problema del banditismo in Sardegna. Qualche nota di riflessione, in A. Burgio (a cura di), Nel nome della razza, cit., p. 98. 31. Cfr. G. Sorgia (a cura di), Banditismo e criminalità in Sardegna nella seconda metà dell’Ottocento, Editrice Sarda Fossataro, Cagliari 1973. 32. Cfr. in proposito M. Da Passano, La criminalità e il banditismo, in L. Berlinguer, A. Mattone (a cura di), Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. La Sardegna, cit., pp. 421-497, specialmente pp. 488-489.

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nuncia veementemente quelli che scrivono per disonorare “in nome della scienza”.33 Questo fitto tessuto di scritti sulla Sardegna e i suoi “mali endemici” evidenzia due fatti: primo, il banditismo conosce una delle sue fasi calde intorno al 1900 e rappresenta un problema serio (di sicurezza pubblica, ma anche di malessere sociale e di intrecci di tipo mafioso), secondo, le valutazioni contemporanee del fenomeno sono gravemente impregnate dall’antropologia positivista e dai suoi concetti “scientifici” come l’eredità e la razza. Nel contesto del colonialismo, fenomeno politico a quei tempi nuovo per l’Italia, ma agevolato dalla retorica coloniale europea, anche i difensori del popolo sardo hanno a volte difficoltà a svincolarsi dalle reti discorsive dominanti. I discorsi sono vincolanti e quello egemonico ha la tendenza a influenzare quelli discordanti. L’insieme degli scritti sul fenomeno della delinquenza che potremmo chiamare “il complesso Niceforo” racchiude un’offesa non dimenticata dai sardi che percepiscono con ragione l’insulto globale a un popolo, non la condanna dei suoi elementi criminali. Judith Butler ha magistralmente dimostrato come l’effetto perlocutorio di parole offensive si manifesta non soltanto nel momento dell’enunciazione, ma si diffonde nella dimensione temporale, a volte generando possibilità di risignificazioni atte a provocare “una sorta di risposta”.34 L’offesa (sopra-)vive grazie alle sue ricorrenze citazionali, ma la sua inserzione in contesti nuovi l’arricchisce di significati che l’enunciatore dell’offesa non poteva prevedere. Così “il complesso Niceforo” è presente e ricordato fino a oggi non soltanto dalla storiografia, ma anche in numerose opere letterarie, cinematografiche e film per la tv.35 Pare già indicativo il fatto che citazioni o allusioni al trattato dell’antropologo emergono spesso senza che la fonte sia citata, così ovvio sembra il rimando, ormai parte della memoria collettiva. 33. N. Colajanni, “Prefazione”, in L. Camboni, La delinquenza della Sardegna, Galizzi, Sassari 1907, p. VII. 34. J. Butler, Parole che provocano. Per una politica del performativo (1997), Raffaello Cortina, Milano 2010, p. 21, ma si veda tutto il capitolo introduttivo, pp. 1-60. 35. Per esempio il telefilm a due puntate L’ultima frontiera (2006), diretto da Franco Bernini e scritto in collaborazione con lo scrittore Fois.

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I discorsi razzisti offendono e incitano alla violenza fisica, anche se è arduo stabilire un legame causale tra parole e fatti. La politica repressiva del giovane stato italiano si costruisce senza soluzione di continuità con quella del regno sabaudo; prevale sempre “una netta propensione a considerare criminalità e banditismo come puri e semplici problemi di ordine pubblico, da affrontare militarmente e comunque usando strumenti militari e mezzi straordinari”.36 Nasce la tendenza a risolvere i problemi grazie all’emanazione di leggi speciali (la prima di queste nel 1897, in seguito alla relazione di Francesco Pais Serra), ma ciò fa sì che non si tenga conto delle garanzie giuridiche dei cittadini colpiti dalle misure repressive. Non va qui taciuto che banditi e clan coinvolti in faide di vecchia data facevano a loro volta un uso spietato della violenza fisica. Soltanto mezzo secolo più tardi il giurista e filosofo Antonio Pigliaru saprà analizzare l’assetto culturale di questi fenomeni ancorati in una società tradizionale munita di valori ed entrata in crisi al momento dello scontro con il potere centrale e del conseguente cambio economico e giuridico.37 Per lo più i difensori dell’ordine si diedero alla “caccia grossa”, metafora disumanizzante in sintonia con il linguaggio di Niceforo. Ne dà una relazione (affascinata e allo stesso tempo scandalizzata) il giovane tenente di fanteria Giulio Bechi, fiorentino mandato in Sardegna e autore di Caccia grossa. Scene e figure del banditismo sardo, uscito nel 1900. L’operazione a cui partecipa si svolge nel 1899 e consiste in “un vero e proprio rastrellamento: gli arrestati sono quasi un migliaio e vengono condotti in catene nelle carceri di Sassari e Cagliari; il bestiame degli arrestati viene sequestrato, i loro beni sono venduti all’asta”.38 L’uccisione di alcuni pericolosi banditi costa la vita a non pochi soldati e carabinieri; al cosiddetto “processone”, però, la maggioranza degli arrestati viene assolta per insufficienza di prove, altri se la cavano con pe36. M. Da Passano, La criminalità e il banditismo, cit., p. 446; cfr. anche ivi, p. 454. 37. A. Pigliaru, Il banditismo in Sardegna. La vendetta barbaricina (1959), Il Maestrale, Nuoro 2000. 38. M. Da Passano, La criminalità e il banditismo, cit., p. 456.

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ne miti.39 Pare allora legittimo affermare che la supposizione di una colpa collettiva conduceva all’arresto indifferenziato di colpevoli e innocenti40 e che il metodo del rastrellamento, mezzo repressivo usato nelle colonie, non tutelava il rispetto dei diritti giuridici degli arrestati. Giulio Bechi, al momento della “caccia grossa” reduce da due anni di servizio in Eritrea, sembra aver provato per la Sardegna il fascino ambiguo caratteristico dell’esotismo. Pagine di viva ammirazione per la bellezza del paesaggio e delle donne sarde e l’incanto di una vita agreste arcaica si alternano con giudizi sommari sul presunto carattere collettivo. “E c’è chi va nella Cina, nel Congo, nelle Pampas, sfidando stenti e pericoli, per veder nuove genti e nuove cose, e non si sogna neppure che a poche ore da noi, in questo nostro Tirreno, vi è un mondo tanto diverso da quello in cui viviamo, sì che a ogni passo si stupisce, si esclama: – Ma è Italia? È Europa questa?”41 La Sardegna era proprio Italia, solo che molti italiani non se n’erano accorti... Manlio Brigaglia, il curatore della ristampa di Caccia grossa presso le edizioni Ilisso, commenta in modo appropriato l’ambiguità dello “choc antropologico e insieme politico” sofferto dal giovane cronista.42 Un altro elemento che, entro il quadro della relazione tra potere centrale e periferia, completa l’elenco delle offese subite dai sardi è il fatto che la Sardegna veniva considerata un luogo di punizione; qui fioriscono numerose colonie penali, ma l’isola è anche luogo di trasferimento forzato di funzionari, per ragioni disciplinari. L’isola come luogo di pena (variazione odierna: come scarica per rifiuti) è diventato un topos che perdura nella memoria dei sardi e continua a produrre risposte e rappresentazioni. Il “continentale” mandato in Sardegna per punizione o comunque 39. Ibidem. 40. Manlio Brigaglia scrive a proposito: “La tattica è semplice: fare il vuoto intorno ai latitanti, tagliando loro tutte le vie di comunicazione con le famiglie, gli amici e i favoreggiati. Anzi, ponendo tutt’intera la comunità del Nuorese, del vicino Goceano e delle Barbagie sotto l’accusa di favoreggiamento” (M. Brigaglia, “Prefazione”, in G. Bechi, Caccia grossa. Scene e figure del banditismo sardo, a cura di M. Brigaglia, Ilisso, Nuoro 1997, p. 10). 41. G. Bechi, Caccia grossa, cit., p. 35. 42. M. Brigaglia, “Prefazione”, cit., p. 21.

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“in esilio” fornisce una figura ricorrente nella nuova narrativa, soprattutto nella giallistica sarda.43 Si suppone che l’immagine dell’isola nella mente degli italiani “continentali” sia oggi molto cambiata: il venire meno della criminalità “etnica” dopo la stagione dei sequestri di persona, il profondo cambiamento sociale ed economico causato dal turismo soprattutto nelle zone costiere, l’incontro con membri della numerosa diaspora sarda, tutti questi fattori contribuiscono a formare una percezione meno spiccata dell’alterità dei posti e della gente (anche tenendo conto del fatto che il turista medio ha poche occasioni di sentire parlare il sardo). Ma i sardi, per conto loro, non hanno dimenticato e non dimenticano. Gli intellettuali più conosciuti dell’isola – Antonio Gramsci e, dopo di lui, Emilio Lussu – parlano con più o meno sdegno di Niceforo e anche di Bechi, ma dopo di loro, ci saranno altri intellettuali sardi che porteranno avanti un discorso critico. Non c’è però soltanto lo sguardo dell’altro. L’ultima parte di questo saggio è infatti dedicata alle autorappresentazioni che la nuova narrativa sarda – tanto letteraria che cinematografica – ha messo in circolazione e in scena. Si tratta di narrazioni, linguaggi letterari e cinematografici che partecipano in vari modi alla poetica postcoloniale e che testimoniano quindi il sentimento condiviso di aver vissuto – o ereditato – un passato “coloniale”. La scelta di questo approccio è certo dettata dalla mia formazione letteraria, ma ritengo che sia anche pertinente in merito all’argomento: narrare di se stessi, della propria cultura, del proprio passato o di un passato che uno avrebbe voluto in un certo modo, è una delle possibilità di costruire un’identità nazionale o regionale che sia. 3. Identificazioni in tempi postcoloniali Nel suo saggio Chi ha bisogno dell’“identità”? Stuart Hall propone di parlare di identificazioni invece che di identità. Il termine identificazione dà “rilievo al processo di soggettivazione nelle pra43. Cfr. Salvatore Mannuzzu, Procedura (Einaudi, Torino 1988); Giorgio Todde, Lo stato delle anime (Il Maestrale, Nuoro 2002); la trilogia di gialli storici di Marcello Fois. Cfr. anche il film Un delitto impossibile (2001) di Antonello Grimaldi, tratto dal romanzo di Mannuzzu.

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tiche discorsive”,44 ed è quindi preferibile a “identità”, che suggerisce troppo velocemente una sedimentazione identitaria, un effetto prodotto una volta per tutte. Parlare di “identificazioni” permette di considerare e di rispettare la parte attiva e la responsabilità dei soggetti parlanti o agenti oppure la responsabilità di quelli che raccontano del passato e presente, partecipando così alla “politica delle rappresentazioni”. Se il “noi” si costruisce sempre in relazione a una o a varie categorie di alterità, questo vale particolarmente per la condizione postcoloniale: in essa, i soggetti si ritrovano inevitabilmente indotti a parlare e a scrivere “contro”. Il concetto del “to write back” è stato ampiamente esplorato dagli studi postcoloniali;45 qui vorrei collegarlo con il concetto del “to talk back” di Butler, che permette di prendere in considerazione l’effetto produttivo – nel senso foucaultiano – di insulti presenti nella memoria collettiva. Fin dall’epoca romana, l’archivio prodotto da relazioni straniere sulla Sardegna e i suoi abitanti è foltissimo. Una tale tradizione secolare di eterorappresentazioni, una tale continuità dello sguardo dell’altro condizionano ogni forma di autorappresentazione e la convertono in un veicolo di identificazioni. Considerando la produzione letteraria e cinematografica sarda degli ultimi trent’anni, si rivelano alcuni nuclei importanti attorno ai quali si manifestano diverse tendenze narrative: narrare, rinarrare, reinventare la storia isolana; narrare il quotidiano della società tradizionale (barbaricina il più delle volte); identificarsi con altre situazioni coloniali; e infine, infischiarsi dell’ossessione identitaria e sviluppare forme di rappresentazioni alternative. I nuclei narrativi elencati conducono scrittori e cineasti a un’apertura alle volte di maggiore, a volte di minore intensità, sono più o meno dialogici; nell’insieme, inducono a formare un processo di apertura dialogica straordinario.46 44. S. Hall, Politiche del quotidiano, cit., p. 314. 45. Rimando al volume, dotato di una valenza fondante, B. Ashcroft, G. Griffiths e H. Tiffin (a cura di), The Empire Writes Back, Routledge, London-New York 1989. 46. È questa la tesi fondamentale che sottende il mio libro, già citato, Sardinien Insel im Dialog. La rivista “Portales” (Cagliari), diretta da Giovanni Pirodda, è una preziosa fonte di informazioni sulla letteratura sarda vecchia e nuova.

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Narrare la storia dal punto di vista degli ex colonizzati è una delle motivazioni maggiori che muove le letterature postcoloniali, qualunque sia stata la storia di una regione. In Sardegna, varie vie sono state esplorate per dare forma a questo bisogno di riscrivere la storia: dal romanzo storico al “giallo storico”, dall’evocazione mitizzante del passato giudicale a quella dei punti più neri della storia isolana. Il romanzo storico detto “postmoderno” si è liberato dalle pretese di fedeltà alla versione storiografica, è un genere aperto alle invenzioni, anche storiche, che si presta ottimamente all’identificazione con un dato momento storico o un dato personaggio. In un certo senso, si tratta di autori che scrivono in continuità con il grande falso storico dell’Ottocento, le Carte d’Arborea, che a loro volta e a prescindere dalle loro funzioni immediate si potrebbero considerare un’espressione del gesto volto a “write back”.47 Sia che si tratti della storia cagliaritana del primo tempo aragonese (Apologo del giudice bandito, di Sergio Atzeni), della vita (e morte per ordine dell’inquisizione) dell’umanista cagliaritano Sigismondo Arquer (Le fiamme di Toledo, di Giulio Angioni) o della bio-fiction di un famoso bandito (Memoria del vuoto, di Marcello Fois), i lettori ritrovano sempre un atteggiamento di empatia che sente la storia isolana “in un altro modo”. È ovvio che la storia del banditismo abbia dato luogo anche a rappresentazioni cinematografiche, non sempre prive di un romanticismo che ricorda gli scritti di Hobsbawm sul tipo del “ribelle sociale”;48 da rilevare sono le produzioni che vanno incontro a questa facile tendenza come il coraggioso film La destinazione di Piero Sanna. Il giallo seriale, che colloca l’azione in un dato periodo storico, permette ugualmente di (ri)scrivere la storia e di questionare gli eterostereotipi sui sardi. È degno di nota il fatto che le serie in47. A proposito delle Carte d’Arborea rimando al volume curato da L. Marroccu, Le “Carte d’Arborea”. Falsi e falsari nella Sardegna del XIX secolo, AM&D, Cagliari 1997. 48. Gli scritti di Hobsbawm intorno al tipo di “Robin Hood” parlano anche – sebbene molto genericamente – del banditismo sardo: cfr. E. Hobsbawm, I ribelli. Forme primitive di rivolta sociale (1959), Einaudi, Torino 1965 e Id., I banditi. Il banditismo sociale nell’età moderna (1969), Einaudi, Torino 1971.

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ventate rispettivamente da Marcello Fois49 e da Giorgio Todde50 siano ambedue ambientate intorno al 1900, periodo in cui si forma il “complesso di Niceforo”. Il genere del giallo storico, che presenta un detective che indaga sulla vita altrui, tende già al secondo nucleo narrativo, quello che racconta il quotidiano passato o presente e che si potrebbe qualificare come antropologia speculativa (letteraria). In questo filone, troviamo autori e autrici di varie generazioni: Maria Giacobbe, ancora Fois (con il suo ultimo romanzo Stirpe), Salvatore Niffoi, e della generazione più giovane Milena Agus (con il bestseller Mal di pietre), Flavio Soriga e Michela Murgia. I romanzi e i racconti negoziano la loro posizione tra documentazione e creazione, realismo nero e mondo magico. Tutti sono impegnati a far (ri)vivere “gli umili”, la loro lotta quotidiana e la loro cultura. L’azione si svolge di solito nelle zone interne (“la zona delinquente” di Niceforo: “to talk back”) e mette in scena un mondo di valori e credenze tradizionali, più o meno in mutamento e quindi in crisi. In questa sede, non è possibile procedere a una critica dettagliata di questi scritti; diciamo soltanto che i risultati si situano tra i poli di un atteggiamento critico-empatico e la tendenza all’autoesotizzazione. Questo vale anche per i cineasti, da Gianfranco Cabiddu a Giovanni Columbu (con il suo bel film Arcipelaghi, tratto da un romanzo di Maria Giacobbe) e Salvatore Mereu. Rispecchiare la propria storia in quella di un altro popolo ex colonizzato è un’ulteriore possibilità di dar voce a una coscienza postcoloniale. È una tendenza che troviamo soprattutto nelle rappresentazioni di Cagliari, città “africana” secondo la prospettiva di certi autori. Città portuale, grande “prostituta” aperta all’invasione di numerosi popoli stranieri, città indolente e “orientale”, tali sono le associazioni che troviamo nella serie dei gialli storici di Giorgio Todde, ma anche in Pesi leggeri di Aldo Tanchis (non però nella versione cinematografica in cui il regista Enrico Pau ha 49. Si tratta di una trilogia, scritta in un linguaggio poetico del tutto inusuale per il solito “giallo di genere”: Sempre caro (Il Maestrale, Nuoro 1998), Sangue dal cielo (Frassinelli, Milano 1999) e L’altro mondo (Frassinelli, Milano 2002). 50. Di scrittura e struttura più convenzionale, la serie di Todde intorno al detective Efisio Marini è composta finora da cinque volumi.

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scelto di dare alla città un’immagine più moderna).51 Se si tratti di una risignificazione di eterostereotipi o della continuità di un certo discorso, è a volte difficile da decidere. Le variazioni più eleganti del topos della “città africana” si trovano in Sergio Atzeni, scrittore che varie volte ha introdotto personaggi arabi nei suoi racconti per indicare l’ibridazione della popolazione cittadina, ma anche la vicinanza geografica e insieme immaginaria della Sardegna con il Maghreb (pensiamo al personaggio di Alì in Apologo del giudice bandito o a vari racconti del volume I sogni della città bianca – la città bianca per eccellenza è la Casbah di Algeri che effettivamente, per la sua situazione topografica e la struttura architettonica, può ricordare il panorama che Cagliari-Castello offre a chi arriva via mare). Ma c’è anche chi, come Salvatore Mannuzzu, lo scrittore forse più “urbano” tra i letterati sardi attuali, dà un’immagine alternativa della vita sarda. Mannuzzu è il cronista dell’urbanità nevrotica di Sassari, i protagonisti dei suoi romanzi appartengono tutti al ceto della borghesia colta, sono figure fragili, tormentate dal senso di colpa e da desideri erotici illeciti oppure considerati tali. Se l’autore si avvale delle strutture del giallo, lo fa per esplorare coscienze problematiche e autoriflessive. Romanzi come Procedura, Il catalogo o Le fate dell’inverno si inseriscono ovviamente nella tradizione del grande romanzo europeo moderno. Detto questo, le narrazioni sono anche molto “sarde”, nel senso che esplorano, apportando minime variazioni, sempre gli stessi luoghi, Sassari e la Sardegna del nord-ovest, e vi è anche un senso di perdita dell’identità. Nel suo saggio conclusivo sulla storia della Sardegna uscito nel volume einaudiano, Mannuzzu dà voce a questo dolore: “L’identità, l’identità tout court – della Sardegna e dei sardi – diventa un’assenza, una mutilazione, una ferita: che duole e non si cicatrizza. Qualcosa che esiste perché sta mancando”.52 Mannuzzu 51. Il romanzo di Tanchis “è un romanzo nato a rovescio”, perché scritto dopo la produzione del film di Pau (A. Tanchis, Pesi leggeri, Il Maestrale, Nuoro 2001, p. 302): è il caso interessante di uno sceneggiatore che sviluppa la trama filmica in un altro medium, quello della letteratura stampata. 52. S. Mannuzzu, Finis Sardiniae (o la patria possibile), in L. Berlinguer, A. Mattone (a cura di), Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. La Sardegna, cit., p. 1225.

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è quindi l’autore sardo che meno insiste sul passato e più deplora fenomeni di globalizzazione che si fanno sentire anche in terre di forti tradizioni.53 Infine, almeno un cenno va fatto alla questione della lingua. La letteratura sarda di lingua italiana54 è impregnata dalla presenza del sardo che si manifesta in vari modi: nomi, cognomi, toponimi, proverbi tradotti, parole sarde italianizzate oppure frammenti in sardo inseriti nel testo italiano. La tendenza alla “creolizzazione” della lingua o almeno alla copresenza della lingua “dominata” accanto alla lingua “dominante” è un’altra delle caratteristiche delle letterature postcoloniali. Sergio Atzeni, traduttore del martinicano Patrick Chamoiseau che scrive in un francese fortemente creolizzato, è quello tra gli scrittori sardi che ha sperimentato di più il lato ludico-creativo di questa strategia linguistica.55 Anche altri autori e autrici la usano abitualmente, ed è un tratto comune a quasi tutta la nuova narrativa dell’isola. In un certo senso, questi autori, più dei loro colleghi che scrivono in sardo, riescono a trasportare la loro lingua nel mondo, a “tradurla” per i lettori non isolani, anche se si potrebbe parlare, parafrasando Mannuzzu, di una lingua “che esiste perché sta mancando”. Nel campo linguistico, il cinema gode oggi di possibilità mediali che sono difficilmente imitabili dalla letteratura. In una fiction cinematografica, i personaggi possono parlare sia in italiano che in sardo – bilinguismo situazionale e posizionale che caratterizza anche la prassi linguistica di molti sardi – senza che la comunicazione ne soffra poiché i sottotitoli in italiano assicurano la comprensione per gli spettatori non isolani; questa strategia si trova per esempio in produzioni di Columbu, Sanna e Mereu. In generale, e tanto nel film come nella letteratura, la questione della 53. Con altri tipi di trama e in stile diverso, troviamo la preoccupazione per la perdita dell’identità anche in alcuni romanzi di Giulio Angioni (L’oro di Fraus, Editori Riuniti, Roma 1988; Assandira, Sellerio, Palermo 2004). 54. Utilizzo la voce “letteratura sarda di lingua italiana” in analogia con la voce “littératures maghrébines d’expression française” per significare la posizionalità – linguistica e culturale – di questa letteratura. 55. Esempio più divertente: il racconto Bellas mariposas. La traduzione del romanzo di Chamoiseau, Texaco, è uscita presso Einaudi nel 2004.

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lingua è la spia di una spiccata coscienza linguistica e insieme di una situazione di perdita/conservazione di un patrimonio culturale veicolato da una lingua minoritaria. Parlando della popolazione nera della Gran Bretagna Stuart Hall scrive: “Il problema non è tanto ‘chi siamo’ o ‘da dove veniamo’, quanto cosa potremmo diventare, come siamo stati rappresentati e come tutto ciò riguardi il modo in cui potremmo rappresentarci”.56 È un’osservazione che vale anche per altre situazioni postcoloniali: la coscienza della storia con i suoi momenti di gloria e di sofferenza mette in moto processi identificatori che possono aprirsi più o meno all’avvenire. Che cosa vogliono essere i sardi, cosa vogliono diventare? E gli italiani, vogliono essere capaci di gestire le differenze culturali (e le altre differenze) nel loro paese? Per quanto riguarda la politica delle rappresentazioni, i sardi hanno saputo trovare il modo di parlare per se stessi e di se stessi, dopo tanti secoli dominati dallo sguardo dell’altro.

56. S. Hall, Politiche del quotidiano, cit., p. 316.

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Antislavismo, razzismo di frontiera? MARTA VERGINELLA

antislavismo italiano ha assunto sembianze tipiche del razzismo o si è trattato piuttosto di un atteggiamento derivante dal fenomeno nazionalistico, caratterizzato da pregiudizi antichi e in parte legati al rapporto tradizionale tra le città italofone dell’alto Adriatico e la campagna slava? Per capirlo bisogna analizzare gli elementi costitutivi della politica antislava, prima propagata dagli ambienti liberal-nazionali giuliani e in seguito sostenuta e realizzata dal fascismo di frontiera, promotore sin dalla sua ascesa al potere di una italianizzazione forzata delle popolazioni slovene e croate residenti nell’ex Litorale austriaco, territorio annesso al Regno d’Italia dopo la fine della Prima guerra mondiale con il nome di Venezia Giulia. In quest’area multietnica e multilingue convissero dal Medioevo in poi sotto lo scettro degli Asburgo le popolazioni di lingua italiana, slovena, croata e tedesca. I flebili moti rivoluzionari del Quarantotto e le prime rivendicazioni nazionali delle principali etnie residenti sul territorio non modificarono in sostanza il rapporto interetnico. A innescare forti competizioni tra le rappresentanze politiche degli opposti schieramenti nazionali fu invece l’articolo 9 delle leggi fondamentali del 1867 che riconobbe a ogni etnia dell’Impero asburgico il diritto d’uso pubblico della propria lingua negli uffici e nelle scuole. Il permesso di introdurre accanto al tedesco, lingua ufficiale dell’Impero, e all’italiano, lingua parlata principalmente nelle città del Litorale austriaco, anche lo slove-

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no o il croato, lingue minoritarie nei centri urbani, ma predominanti nei distretti rurali, innescò battaglie politiche interessate a mantenere, o viceversa a mutare, il primato nazionale nella sfera pubblica. I pochi intellettuali che nell’età dei lumi e ai primi dell’Ottocento erano convinti assertori della convivenza tra italiani e slavi, come per esempio il filologo di origine dalmata Nicolò Tommaseo,1 furono qualche decennio più tardi del tutto isolati, superati dagli eventi e dalle idee che propagavano identità nazionalmente univoche e programmi che promettevano società nazionalmente omogenee. Nella periferia meridionale dell’Impero asburgico il passato storico divenne il campo di misurazione della continuità storica della singola etnia e terreno di dimostrazione dell’altrui usurpazione e infiltrazione. I miti fondativi servirono a rimodellare il passato nazionale2 e con essi i promotori dei movimenti nazionali affermavano la continuità della propria nazione dall’antichità in poi. L’invenzione della tradizione nazionale avveniva nell’area alto-adriatica nei modi e nei tempi tipici del contesto mitteleuropeo: l’obiettivo degli attori nazionali era compattare le proprie comunità per renderle meno instabili e delineare confini meno porosi.3 Per rinsaldare le proprie file nazionali in un contesto in cui l’appartenenza non era mai scontata, anzi necessitava di una continua conferma, l’altro veniva trasformato in una fonte inesauribile di disagio, diventava l’onnipresente nemico, poiché era proprio l’altro a rendere incerta l’identità nazionale della propria comunità, a complicare il rapporto con il potere centrale e a rendere insicuri lo stesso futuro dell’intera area di confine nonché la sua appartenenza statuale. Nonostante la similitudine dei discorsi argomentativi proposti dai singoli schieramenti nazionali, presenti nell’area alto-adriatica, la costante polemica con lo schieramento concorrente e la 1. Sul suo rapporto con il mondo slavo: J. Pirjevec, Niccolò Tommaseo. Tra Italia e Slavia, Marsilio, Venezia 1977; N. Tommaseo, Scritti editi e inediti sulla Dalmazia e sui popoli slavi, a cura di R. Ciampini, vol. I, Sansoni, Firenze 1943. 2. E.J. Hobsbawm, T. Ranger (a cura di), L’invenzione della tradizione (1983), Einaudi, Torino 1987. 3. M. Augé, Les sens des autres, Fayard, Paris 1994.

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tendenza assai comune di stereotipizzare l’altro, non vanno sottovalutate alcune differenze di fondo tra i vari attori nazionali: innanzitutto i rapporti di forza che si stabilirono nella sfera pubblica tra maggioranza e minoranza, tra chi riusciva a interagire con il centro politico, Vienna, e chi invece rimaneva relegato a un’azione locale o regionale. In questo contesto lascerò da parte l’analisi dell’anti-italianità slovena e croata,4 per soffermarmi più estesamente invece sull’atteggiamento antislavo storicamente radicato in quel modello di dominio veneto dell’area adriatica, fortemente caratterizzato da un rapporto coloniale della classe dominante veneta con le terre istriano-dalmate, contaminato però anche dalla modernità e dall’età illuminista, ovvero da quelle idee che dalla fine del Settecento in poi dettavano nuovi modelli comportamentali, tra cui anche il bisogno di classificare società e uomini. Per i ceti istruiti della società giuliana e dalmata di lingua italiana che ritenevano di far parte dell’Occidente, le popolazioni slave diventarono civiltà inferiori, provenienti come tutti i popoli barbari dall’Oriente e perciò poste al gradino più basso delle civiltà.5 La visione dello slavo come uomo vicino allo stato di natura, non corrotto dalla civiltà, il buon selvaggio, non fu però adottata soltanto da qualche singolo pensatore illuminista o viaggiatore, come Alberto Fortis.6 In forma di pregiudizio si diffuse dall’alto verso il basso soprattutto nella società cittadina istriano-dalmata, penetrando persino negli ambienti di recente immigrazione slava, fino a diventare un elemento caratterizzante dell’immaginario col4. Anche il ricompattamento della popolazione croata e slovena, sin dalla seconda metà dell’Ottocento, si svolse all’insegna del richiamo delle radici slave e del tentativo di ergere una barriera etnica invalicabile, in grado di difendere dall’impurità culturale. La domanda di sicurezza e di preservazione congegnò l’altro anche nel contesto slavo; l’italiano divenne in questo caso l’inesauribile fonte di dissanguamento etnico (cfr. M. Verginella, Radici dei conflitti nazionali nell’area alto-adriatica, in AA.VV., Dall’impero austro-ungarico alle foibe. Conflitti nell’area alto-adriatica, Bollati Boringhieri, Torino 2009, pp. 11-18). Sui parallelismi tra nazionalismo italiano e sloveno-croato, cfr. R. Wörsdörfer, Il confine orientale. Italia e Jugoslavia dal 1915 al 1955 (2004), il Mulino, Bologna 2009. 5. L. Wolff, Venezia e gli slavi. La scoperta della Dalmazia nell’età dell’illuminismo (2001), Il Veltro Editore, Roma 2006. 6. Alberto Fortis, naturalista e scrittore padovano, pubblicò nel 1774 Viaggio in Dalmazia, che riscosse molto successo in Italia e in altre parti d’Europa.

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lettivo borghese e urbano in tutta l’area alto-adriatica.7 Dopo il periodo rivoluzionario del 1848 lo stereotipo si adeguò alla nuova realtà: nella pubblicistica patriottica italiana dell’Istria e delle città dalmate lo slavo veniva sempre più spesso rappresentato come il barbaro incolto, rozzo, primitivo nella lingua e nelle sue idee. Qualche decennio più tardi quando per ragioni sociali, economiche e culturali non poté venire trattato esclusivamente come tale, subì un altro cambiamento: accanto allo stereotipo dell’invasore e dell’usurpatore gliene si affibbiò un altro, quello del sovvertitore ideologico, che per certi versi fu complementare a quella figura del mestatore arrivato dall’esterno, capace di suscitare “un odio di razza” (contro gli italiani) fino ad allora inesistente tra l’umile popolo delle campagne.8 Nel corso del Novecento, soprattutto durante il ventennio, sopraggiunse lo stereotipo dello slavo comunista che dopo la fine della Seconda guerra mondiale mutò in quello di slavocomunista infoibatore. Fino alla dissoluzione della monarchia asburgica la classe dirigente liberal-nazionale italiana, detentrice dell’egemonia politica e culturale nel Litorale austriaco, pretese l’esclusivo predominio della sfera pubblica, rivendicando la superiorità della nazione italiana, portatrice di cultura e progresso. Nell’ultimo ventennio dell’Ottocento la componente italiana andava perdendo la capacità di assimilare le masse di croati e sloveni immigrate in città e soprattutto non riuscì a contrastare con efficacia la crescita del ceto medio slavo, promotore di un associazionismo culturale ed economico capillare, capace di modificare i rapporti di forza anche nelle realtà urbane, governate dal partito liberal-nazionale italiano. L’ascesa della società slovena a Gorizia e a Trieste e di quella croata nelle città istriane e dalmate contribuì a diffondere apprensione e paura tra coloro che tolleravano la presenza delle classi inferiori slave nel contesto urbano, facendo entrare per esempio la servitù slava nelle loro case, ma erano contrari a ogni avan7. J. Pirjevec, Foibe. Una storia d’Italia, Einaudi, Torino 2009, p. 5. 8. Ivi, pp. 7-8. Pirjevec rinvia all’opuscolo di Vicenzo Duplancich Della civiltà italiana e slava in Dalmazia (Trieste 1861), in cui lo stereotipo del buon selvaggio si affianca a quello dello slavo barbaro.

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zamento della popolazione di lingua slovena o croata nella sfera della cittadinanza, ritenuto essenzialmente come un’invasione o deturpazione della “vera natura” delle città e delle stesse terre irredente. A questa paura cercò di dar risposta Ruggero Timeus (18921915),9 noto anche con il nome di Ruggero Fauro, iniziatore di quello che venne chiamato il “nuovo irredentismo”,10 propugnatore della liberazione delle terre irredente non più “in nome di un ideale nazionale, e non più in nome di un ideale democratico!”11 ma in una prospettiva di dominio italiano esteso a tutta l’area adriatica. La questione adriatica andava risolta a suo avviso al di fuori dell’Austria, riportando l’Italia nelle terre a suo tempo veneziane e rendendola unica padrona dell’Adriatico. Di Timeus sovente si ama ricordare la sua appartenenza a quella “generazione d’avanguardia” che in un territorio di confine, appartenente all’Impero asburgico, aveva maturato “una possibile funzione per l’italianità della Giulia”12 ed elaborato quel programma di irredentismo culturale che prevedeva nella concezione di Scipio Slataper, oltre alla difesa della nazione italiana, anche la funzione di mediazione nei confronti dell’Italia “delle realizzazioni culturali della Slavia e della Germania”,13 ma che nella versione timeusiana non lasciava spazio per alcun tipo di mediazio9. Nato a Trieste in una famiglia piccolo-borghese, dopo aver frequentato il ginnasio a Trieste si iscrisse alla Facoltà di lettere dell’Università di Graz. Non ancora ventenne si trasferì in Italia, prima a Firenze, poi a Roma. Collaborò con “La Voce” e “L’Idea nazionale”, e morì il 14 settembre 1915 sul Pal Piccolo nelle Alpi carniche occidentali dopo essersi arruolato volontario nelle file dell’esercito italiano. Cfr. D. Redivo, Ruggero Timeus. La via imperialista dell’irredentismo triestino, Edizioni Italo Svevo, Trieste 1995, pp. 23-31. 10. Per Luigi Federzoni, Timeus fu il demolitore del mito repubblicano e massonico ma anche di quell’irredentismo che, “attraverso quarant’anni di irresponsabili clamori comizieschi, si era sterilmente esaurito in una specie di vaneggiamento romantico che postulava la guerra predicando contemporaneamente il disarmo e l’insurrezione interna, e, mentre esprimeva un’aspirazione sentimentale ad alcuni acquisti territoriali, preparava inconscio gli argomenti e gli animi per le future rinunzie” (“Prefazione”, in R. Timeus, Scritti politici, Tipografia del Lloyd triestino, Trieste 1929). 11. R. Timeus, Scritti politici, cit., p. III. 12. Definizione usata da Baccio Ziliotto in Storia letteraria di Trieste e dell’Istria (Trieste 1924), riportata in E. Guagnini, La cultura. Una fisionomia difficile, in E. Apih, Trieste, Laterza, Roma-Bari 1988, p. 304. 13. M. Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, il Mulino, Bologna 2007, p. 59; cfr. anche A. Ara, C. Magris, Trieste. Una città di frontiera, Einaudi, Torino 1982, p. 26.

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ne interculturale. A suo avviso le civiltà procedevano “non per gli accordi, ma per le lotte delle razze”.14 A differenza dei giovani intellettuali triestini, collaboratori di “La Voce”, come i fratelli Stuparich, Scipio Slataper e lo storico Angelo Vivante,15 egli cavalcò l’intransigenza nazionale ritenendo improponibile qualsiasi tipo di conciliazione con il mondo tedesco e slavo.16 La lotta nazionale era per lui l’unico fenomeno importante della provincia giuliana, poiché al di fuori di essa non vi poteva essere alcun interesse collettivo.17 Allontanandosi dagli ambienti liberal-nazionali, rimasti difensori degli interessi italiani nella compagine asburgica, e da quelli vociani, inclini alla tradizione democratica e risorgimentale italiana, preferì identificare la lotta nazionale con l’idea di potenza e di espansione. La missione dell’Italia non era più promuovere i valori democratici ma superarli in favore di uno stato forte, in grado di conquistare e dominare.18 Negli articoli pubblicati su “L’Idea nazionale” Timeus dava per scontata la disuguaglianza tra gli individui appartenenti alla razza italiana e a quella slava e dichiarava ineluttabile il combattimento tra di esse: “Con gli slavi la lotta elettorale non esiste. Tra i due eserciti nemici, di razza e di lingua differente, tra due nazioni che si combattano fino allo sterminio non può esserci polemica”.19 La lotta nazionale intesa come fatalità trovava il suo compimento nella sparizione completa di una delle due razze in lotta: “Se il governo dominante nelle nostre terre rimane l’austriaco, tutte le lotte e tutte le tregue finiranno a nostro danno; se una volta avremo la fortuna che il governo sia quello della patria italiana, faremo presto a sbarazzarci di tutti questi bifolchi sloveni e croati, che appoggiati dal denaro boemo e dalle baionette austriache ci sembrano tanto pericolosi”.20 14. R. Timeus, Scritti politici, cit., p. 126. 15. Cfr. R. Lunzer, Irredenti redenti. Intellettuali giuliani, Lint, Trieste 2009, pp. 34-35 e 142-144. 16. A. Ara, C. Magris, Trieste. Una città di frontiera, cit., pp. 60-61. 17. R. Timeus, Scritti politici, cit., p. 41. 18. M. Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, cit., p. 63. 19. R. Timeus, Scritti politici, cit., p. 154. 20. Ivi, p. 45.

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La sconfitta del pericolo slavo poteva avvenire soltanto attraverso l’annessione delle terre irredente al Regno d’Italia e con il distacco completo degli slavi dei territori del Litorale austriaco dal resto della popolazione slava.21 In attesa di questa sconfitta finale spettava all’educazione nazionale, ovvero alla scuola italiana, un ruolo fondamentale. Il sentimento nazionale italiano doveva maturare insieme alla coscienza di un distacco completo e inconciliabile con l’altra razza. Gli slavi non dovevano essere amati, perché stranieri, italofobi, clericali e politicamente miopi, di fatto “non umani”. L’umanità a Trieste era per Timeus sinonimo di italianità.22 In questa prospettiva, a essere visti come i più pericolosi per l’italianità giuliana non erano gli slavi bifolchi, “individui senza una cultura, né una storia, né un programma politico, né postulati sociali”,23 ma gli “emigrati” che la società italiana non riusciva ad assimilare, coloro che contribuivano a far crescere “una piccola città slava nella grande città italiana”.24 Alla base del paradigma antislavo di Timeus c’era la paura dell’accerchiamento e del superamento, quel tipo di timore che Hervé Le Bras individua nel nazionalismo francese di fine Ottocento e definisce l’essenza stessa dell’ideologia razzista.25 Timeus temeva l’invasione slava, l’affievolirsi della capacità assimilatrice italiana, la perdita del monopolio della scuola italiana, l’infiltrazione slava che alterava la vera natura italiana di Trieste. Per questo motivo polemizzava con i socialisti triestini favorevoli all’apertura delle scuole slovene pubbliche nel centro cittadino e appoggiava le autorità cittadine promotrici di questo divieto; la scuola italiana doveva rimaneva lo strumento principale per italianizzare gli slavi.26 Il pensiero timeusiano trovò accoglienza innanzitutto in quegli 21. Timeus ipotizzò anche un possibile sostegno italiano al futuro stato jugoslavo, in cambio però di una piena dimenticanza da parte della popolazione slava del Litorale: “Noi dobbiamo far capire agli slavi che se vogliono il nostro aiuto, i loro fratelli delle province italiane dell’Austria devono considerarli come non esistenti, e quindi non curarsi nemmeno di quello che oggi noi facciamo con loro” (ivi, p. 112). 22. Ivi, p. 125. 23. Ivi, p. 149. 24. Ivi, p. 145. 25. Cfr. H. Le Bras, Le sol et le sang, Éditions de L’Aube, Paris 1994. 26. R. Timeus, Scritti politici, cit., p. 217.

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ambienti che dimostrarono, secondo Alceo De Rosa, un sentimento di profonda irritazione per doversi misurare “con una realtà imprevista e per questo sentita come minacciosa”.27 Il suo programma politico, criticato dai vociani, raccolse adesioni negli ambienti irredentisti ma soprattutto tra i nazionalisti che in Italia guardavano con egual favore la missione italiana in terre adriatiche e quella in Africa. Per Timeus gli emigrati italiani in Tunisia, “parte dell’Italia”, perseguitati dai francesi e dagli arabi, erano eguali agli irredenti sottomessi all’Austria, lentamente spodestati, perché “troppo civili e troppo pochi”.28 Dal suo punto di vista la conquista italiana di Tripoli anticipava la risposta che l’Italia avrebbe dovuto dare anche nei confronti di altri nemici e preconizzava le future conquiste dell’Italia sul suolo europeo. La sua visione del confine orientale dell’Italia come porta aperta verso est, e di Trieste come avamposto per l’espansione italiana verso i Balcani, era coerente con le aspettative del nazionalismo italiano più radicale e si situava sulla stessa lunghezza d’onda di quei circuiti politici che nel 1914 furono pronti a sostenere l’immediato intervento dell’Italia in guerra.29 Nelle file dell’intellighenzia triestina veniva condivisa da figure come l’economista Mario Alberti e lo storico Attilio Tamaro, ambedue fortemente impegnati sul fronte antislavo, contrari a ogni trattamento di eguaglianza tra le due nazioni – perché una definibile come Kulturnation, l’altra invece come nazione senza storia. Angelo Ara e Claudio Magris, che in Trieste. Una città di frontiera hanno ricostruito la storia culturale di Trieste, hanno evidenziato il radicalismo nazionale di Timeus sottolineandone l’intransigenza e definendolo, da una parte, “un caso eccezionale nell’opinione pubblica italiana di Trieste nel primo quindicennio del Novecento”, dall’altra, invece, comune per “la sensazione di impotenza di fronte a quella che era considerata l’aggressione slava, che metteva in discussione la fisionomia nazionale, politica e sociale che Trieste era venuta acquistando nella sua storia”.30 Per 27. A. Riosa, Adriatico irredento. Italiani e slavi sotto la lente francese (1793-1918), Guida, Napoli 2009, p. 108. 28. M. Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, cit., p. 31. 29. Ivi, pp. 76-79. 30. A. Ara, C. Magris, Trieste. Una città di frontiera, cit., p. 29.

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Elio Apih, uno dei più apprezzati rappresentanti della storiografia triestina della seconda metà del Novecento, Timeus impersonò esemplarmente con la sua lucida elaborazione la tendenza a ribaltare la storia e quanto essa aveva finora costruito: “Fu forse l’acquisizione di fondo, per Trieste, della cultura del ’900. Vi trovò spazio il connubio tra nazionalismo e imperialismo, e ne venne, per la prima volta dopo oltre un secolo, una nuova teoria sulla funzione della città, contrapposta a quella tradizionale e sperimentata dalla storia, che vedeva in essa il porto naturale (e artificiale) dell’Austria”.31 Timeus fece parte di quel nucleo di giovani intellettuali provenienti dalla piccola borghesia che abbandonarono la linea politica liberal-nazionale criticando le idealità borghesi che ostacolavano i progetti di conquista e aderivano a un progetto imperialista, nazionalista, intransigentemente antislavo che prevedeva anche la soppressione degli altri.32 Più recentemente è stata Marina Cattaruzza a cogliere nel linguaggio di Timeus, “gravido di violenza”, non solo l’esasperazione della lotta nazionale nel Litorale austriaco, “ma anche la nuova temperie etico-politica del nazionalismo italiano, fondata sul superamento dei valori democratici e liberali, sull’idea della potenza e dello Stato autoritario”,33 e a soffermarsi sull’influenza esercitata dal suo oltranzismo antislavo nella politica di snazionalizzazione dal fascismo di confine, oltre a sottolineare l’impatto del suo pensiero politico negli ambienti interventisti e l’ascendente esercitato su quegli apparati dello stato che accettarono il programma nazionalista irredentista come obiettivo strategico.34 Tuttavia, da una panoramica che include storici locali e nazionali che nell’arco di un secolo35 si sono occupati di Timeus, si evince che i termini più frequenti con cui viene valutato il suo pensiero politico sono di lucidità politica, eccezionalità, intransigenza, coe31. E. Apih, Trieste, cit., p. 98. 32. G. Negrelli, Trieste nel mito, in R. Finzi, C. Magris, G. Miccoli (a cura di), Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. Il Friuli-Venezia Giulia, Einaudi, Torino 2002, vol. II, pp. 1357-1358. 33. M. Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, cit., p. 62. 34. Ivi, p. 204. 35. Cfr. D. Redivo, Ruggero Timeus. La via imperialista dell’irredentismo triestino, cit.

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renza morale, acuta sensibilità, aggressività.36 Termini che se non denotano un certo grado di leggerezza interpretativa, dimostrano senz’altro una scarsa propensione ad analizzare in profondo le implicazioni di un modo di pensare che non esprimeva soltanto la Weltanschauung di un intellettuale di provincia, ma che diveniva un sentimento comune ed esprimeva aspettative collettive. Termini che infine palesano inefficacia nel sondare in profondità le basi ideologiche di una politica di confine profondamente ostile nei confronti della popolazione slovena e croata inclusa nel Regno d’Italia dopo il 1918. Altrimenti sarebbe difficile spiegare come mai nel passaggio dalla glorificazione del personaggio, alimentata dai nazionalisti nei primi del Novecento, all’esaltazione della sua figura di martire ed eroe patriotico, promossa dai fascisti durante il Ventennio, e infine ai tentativi di un’analisi politicamente più distaccata e storiograficamente convalidata, a beneficiare della maggior attenzione non sono tanto gli scritti politici di Timeus, quanto il suo pamphlet politico Trieste, ritenuto il suo testamento spirituale. Visto che furono proprio i suoi scritti politici, come afferma Enzo Collotti, a porre le basi ideologiche per la politica imperialista dell’Italia nell’area balcanica e a divenire un supporto fondamentale per quella politica di regime al confine orientale che, dopo l’ascesa di Mussolini, portò prima al disconoscimento dei diritti nazionali della popolazione slovena e croata, poi anche alla repressione di ogni loro difesa. Sono scritti che inneggiano, come abbiamo visto, alla superiorità della civiltà italica, che tendono a conferire all’Italia il diritto al predominio adriatico, che giustificano la conquista dei Balcani con il primato che all’Italia doveva spettare in quello che era considerato il suo spazio vitale, che concepiscono i rapporti con le popolazioni slave “in termini non di convivenza e di accordi ma di esclusione, di aut aut, o noi o loro, con una intransigenza che rasentava il razzismo nel suo assolutismo senza alternative né compromessi”.37 36. Si veda anche E. Apih, Trieste, cit., p. 99; J. Pirjevec, Foibe. Una storia d’Italia, cit., p. 13. 37. E. Collotti, Sul razzismo antislavo, in A. Burgio (a cura di), Nel nome della razza. Il razzismo nella storia d’Italia 1870-1945, il Mulino, Bologna 1999, p. 35. A ritenere le idee di Timeus non prive di una pregnanza razziale è anche Anna Maria Vinci nel saggio Il fascismo al confine orientale, in R. Finzi, C. Magris, G. Miccoli (a cura di), Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. Il Friuli-Venezia Giulia, cit., vol. I, p. 414.

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Tra gli estimatori degli scritti politici di Timeus vi erano anche persone provenienti dagli ambienti liberali38 che condividevano il suo antislavismo. Dagli inizi degli anni venti essi diventarono il punto di riferimento per gli ideologi del fascismo di confine, come per esempio Attilio Tamaro, che in La lotta delle razze nell’Europa danubiana (1923) preconizzava un conflitto tra la razza italiana e quella slava, non più locale ma generale. Il canone timeusiano rimase ben visibile anche nella pubblicistica fascista di confine degli anni trenta, che negli scritti di Giuseppe Cobol, per esempio, auspicava una soluzione radicale della questione allogena nella Venezia Giulia, dichiarandosi favorevole oltre che a forme di assimilazione forzata, anche a interventi di allontanamento definitivo dal territorio di quella parte di popolazione slava, maestri, clero, avvocati, ritenuti nemici troppo pericolosi per il dominio italiano: “Un problema allogeno slavo, lo ripetiamo, non esiste nella Venezia Giulia. Esiste invece un problema di penetrazione italiana e fascista. C’è la necessità di affermare in pieno l’autorità dello stato che ha un peso determinante in tutto ciò che è espressione del sentimento degli slavi. Tale problema è in prima linea nella differenziazione fra fedeli e infedeli, riveste in alcuni casi, quando gli infedeli siano irriducibili, le caratteristiche di un problema di polizia”.39 Il fascismo di confine che si trovò ad affrontare il problema delle popolazioni definite alloglotte, prima di giungere al potere, utilizzò sin dalla sua fase squadristica l’antislavismo come fattore di adesione e di mobilitazione. Le incursioni nei circoli slavi e gli attentati incendiari contro le case di cultura slovena e croata precedettero i programmi e le norme: “Salito al governo, prima di elaborare proprie linee di azione specifiche proseguì sulla strada dettata dal nazionalismo e dai circoli locali, portando a compimento scelte inclusive che erano già state poste in essere nel periodo pre38. Si veda V. Gayda, Gli slavi della Venezia Giulia, Rava e c., Milano 1915; Id., La Jugoslavia contro l’Italia, Stabilimento tipografico del Giornale d’Italia, Roma 1933; Id., L’Italia d’oltre confine. La Dalmazia, in AA.VV., Atti e memorie della Società dalmata di storia patria, vol. XXIV, Società dalmata di storia patria, Venezia 1995. 39. G. Cobol, Il fascismo e gli allogeni, “Gerarchia”, VII, 9 settembre 1927, p. 805.

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cedente, con la sostanziale differenza che adesso venivano elevate a programma organico di governo ed attuate in maniera sempre più totalitaria. Fu una scelta quasi obbligata, il fascismo non poté scegliersi i tempi come fece in altre occasioni”.40 L’italianizzazione dei nomi e dei cognomi, della toponomastica, la chiusura delle scuole slovene e croate, la proibizione dell’uso dello sloveno e del croato in chiesa, il licenziamento dei maestri sloveni e croati o il loro trasferimento coatto, come anche quello degli impiegati e dei ferrovieri in altre regioni della penisola, il divieto di usare lo sloveno o il croato in pubblico e negli uffici, di pubblicare quotidiani sloveni o croati, la chiusura di circoli culturali e sportivi, casse di credito e istituti bancari sloveni e croati, furono tra i principali provvedimenti con i quali le autorità fasciste cercarono di estirpare ogni forma di alterità politica, linguistica e nazionale nella Venezia Giulia. La popolazione slovena e croata accettando la cittadinanza italiana fu costretta ad assimilarsi. Ogni espressione pubblica della propria nazionalità minoritaria fu interpretata dalla fine degli anni venti in poi come un atto criminoso.41 Il fascismo di frontiera non ammetteva deviazioni perché, come spiegava Cobol dalle pagine di “Gerarchia”, gli allogeni della Venezia Giulia erano cittadini italiani che non dovevano differenziarsi dagli altri in nessun campo né nei doveri né nei diritti.42 Nello stesso numero della rivista il goriziano Giorgio Bombig dichiarava che non vi era più alcuna questione degli allogeni, perché “di una politica verso gli allogeni, non si dovrebbe più parlare; non perché il problema non esista, ma perché si correrebbe il rischio di dare ad una popolazione che per numero è meno di un terzo di quella totale della regione, e per valore morale, politico, sociale conta molto meno ancora, un’importanza che certamente 40. S. Bartolini, Fascismo antislavo. Il tentativo di “bonifica etnica” al confine nord orientale, ISRPt, Pistoia 2008, p. 41. Sui provvedimenti contro la popolazione slovena e croata nella Venezia Giulia durante il governatorato militare, cfr. A.M. Vinci, Il fascismo al confine orientale, cit., pp. 387-398. 41. Cfr. T. Sala, Storia e impegno civile con gli Atti della giornata di studio in ricordo di Teodoro Sala, Quaderni 24, Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia, Trieste 2009, pp. 115-129. 42. G. Cobol, Il fascismo e gli allogeni, cit., p. 803.

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non merita”.43 Come dimostrano i numerosi processi del Tribunale speciale dello stato eseguiti a carico di cinquecentoquarantaquattro imputati sloveni e croati, e le quaranta condanne a morte emesse contro gli appartenenti della minoranza, condannati per attività di carattere irredentista e cospirazione ai danni della sicurezza dello stato, la questione allogena non veniva chiusa. Era lo stesso Pubblico ministero, l’avvocato Fallace, a dichiararlo durante la sua requisitoria tenuta durante il secondo processo del Tribunale speciale per la difesa dello stato a Trieste ai primi di dicembre del 1941: Omuncoli impastati di odio, di rancore, di livore settario, omuncoli fortemente stretti da vincoli solidi, da invisibili ma potenti ed oserei dire strapotenti vincoli di un’associazione a carattere eminentemente cospirativa, associazione ibrida, manovrata da Potenze straniere. E sono proprio queste associazioni che raccolgono nelle contorte, velenose ma ampie e generose braccia gli elementi più eterogenei che formano oggetto del processo. Per il Pubblico ministero i sessanta imputati non erano che un groviglio immondo di rettili umani striscianti nell’ombra e nel fango al di qua e al di là del confine, sempre pronti a mordere e avvelenare, sempre pronti ad alimentare la fiamma di un certo panslavismo, di un certo nazionalismo slavo, sempre pronti a concepire, a preparare, ad attuare i più terribili misfatti; sempre pronti a ridestare vecchi, assopiti rancori, vecchi odi di razza che sono destinati per fatalità di cose ad estinguersi con il tempo. Vecchi odi di razza che sono un poco il fastidioso retaggio di queste terre italiane, che pure formarono la superba Decima regione d’Italia all’epoca di Augusto e che soffrirono indifese l’infiltrazione slava nel tormentoso Medioevo. Vecchi odi 43. G. Bombig, Le condizioni demografiche della Venezia Giulia e gli allogeni, “Gerarchia”, VII, 9 settembre 1927, p. 819.

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di razza che furono purtroppo e fin troppo agevolati, rinvigoriti, ingigantiti, proprio dalla nota politica dell’epoca absburgica. Sostenevano i triestini a viso aperto l’italianità delle loro terre conseguentemente su queste terre si scatenò una valanga di odio antiitaliano, slava valanga che avrebbe dovuto sradicare e travolgere la malaspinta italiana. Ma la valanga venne e la pianta poté resistere fino alla non lontana primavera, fino alla primavera italica che concesse a questa pianta benedetta da Dio di sorgere più bella e rigogliosa.44 La politica di integrazione e di assimilazione perseguita nei confronti delle popolazioni slave nella Venezia Giulia, l’attuazione di quella che doveva diventare a tutti gli effetti una bonifica etnica, era coerente con la concezione volontaristica e spiritualistica della nazione italiana che il fascismo aveva ereditato dal nazionalismo e avvalorato facendo propria la convinzione che la superiorità della propria civiltà si misurava con la capacità di inglobare le razze inferiori. Per le “tribù più o meno abbaianti lingue incomprensibili”, come definì Mussolini gli slavi in una conferenza tenuta a Trieste il 20 settembre 1920,45 era sufficiente rinunziare alla propria identità.46 Spettava poi all’incorporamento nella razza italica far disperdere tutti i segni di appartenenza a una razza priva di cultura e storia e assorbirli in una civiltà millenaria. La stessa incorporazione fu prevista dopo lo smembramento della Jugoslavia nell’aprile 1941 anche per le popolazioni slave residenti nei territori jugoslavi occupati dall’Italia. Gli abitanti delle province di Lubiana, Spalato e Cattaro erano diventati “italiani per annessione”47 e secondo le aspettative del governo di Roma e delle autorità occupanti essi avrebbero aderito in tempi bre44. L’analitica requisitoria del Pubblico ministero, “Il Piccolo”, 10 dicembre 1941; cfr. Dodici condanne a morte chieste dal Pubblico ministero, “La Stampa”, 10 dicembre 1941. 45. Citato da M. Risolo, Il fascismo nella Venezia Giulia. Dalle origini alla marcia su Roma, CELVI, Trieste 1932. 46. Cfr. G. Israel, Il fascismo e la razza. La scienza italiana e le politiche razziali del regime, il Mulino, Bologna 2010, p. 96. 47. Sulla diatriba riguardante la questione dell’occupazione militare o annessione politica, si veda M. Cuzzi, La Slovenia italiana, in F. Caccamo, L. Monzali (a cura di), L’occupazione italiana della Iugoslavia, 1941-1943, Le Lettere, Firenze 2008, p. 221.

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vi alla civiltà dominante. La pretesa di far coincidere “razza, nazione e stato” riguardava tutti i territori occupati nel 1941 e condizionò pesantemente i rapporti tra la popolazione sottomessa e le autorità italiane civili e militari, in particolar modo nella provincia di Lubiana e in Dalmazia. Attraverso lo studio dei provvedimenti repressivi emanati dai comandi militari italiani la storiografia ha messo bene in luce la spietatezza della repressione attuata nei confronti dei civili dopo l’inizio dell’attività di resistenza dell’Osvobodilna fronta (Fronte di liberazione), e parimenti è stata ricostruita la storia dell’internamento di uomini, donne e bambini nei campi di concentramento aperti in Italia e sull’isola di Arbe (Rab).48 La formula con la quale il comandante della seconda armata Mario Roatta riepilogava il comportamento che dovevano tenere i soldati italiani con i ribelli non era quella del “dente per dente” bensì la sua variante, consistente in “testa per dente”.49 Il tenore del comportamento suggerito era in perfetta armonia con la circolare emanata in data 8 settembre 1941 dal comandante dell’XI Corpo d’armata, il generale Mario Robotti, che dichiarava: “Si ammazza troppo poco”. Anche la politica di repressione attuata dal generale Giuseppe Bastianini in Dalmazia, non diversamente da quella realizzata nella provincia di Lubiana, era accompagnata da una propaganda di odio contro i partigiani croati e tutti coloro che li sostenevano, e perseguiva gli obiettivi che furono annunciati da Mussolini a Pola più di vent’anni prima, nel settembre 1920: “Di fronte ad una razza inferiore e barbara come la slava non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone. I confini della Patria devono essere il Brennero, il Nevoso e le Dinariche. Io credo che si possono più facilmente sacrificare 500.000 sloveni e croati barbari a 50.000 italiani”.50 Le disposizioni repressive venivano giustificate dalla propaganda del48. Per le ricerche più aggiornate, cfr. S. Capogreco, I campi del duce. L’internamento civile nell’Italia fascista (1940-1943), Einaudi, Torino 2004; A. Kersevan, Lager italiani. Pulizia etnica e campi di concentramento fascisti per civili jugoslavi 1941-1943, Nutrimenti, Roma 2008. 49. A. Kersevan, Lager italiani. Pulizia etnica e campi di concentramento fascisti per civili jugoslavi 1941-1943, cit., p. 75. 50. A.M. Vinci, Il fascismo e la società locale, in AA.VV., Friuli e Venezia Giulia. Storia del ’900, IRSMLT, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 1997, p. 227.

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l’apparato occupante come legittima reazione a un avversario senza scrupoli, che agiva al di fuori di qualsiasi convenzione militare e che si poneva al di fuori dei confini dell’umanità. Il bisogno di inculcare ai reparti italiani l’idea che la lotta con i partigiani comportava uno scontro tra civiltà e barbarie era condivisa da ogni grado di gerarchia. Come dimostrano numerose fonti autobiografiche, il senso di superiorità era spesso condiviso anche da soldati di estrazione semplice.51 Eric Gobetti, studiando le caratteristiche dell’occupazione italiana in Dalmazia, ha appurato che alcuni stereotipi erano profondamente interiorizzati dalle truppe italiane influenzate dalla campagna antislava propagandata dalla stampa di regime: “Il linguaggio politico e la retorica nazionalista si esprimevano in termini di epocali conflitti fra razze e civiltà. La missione storica della ‘latinità’ in Dalmazia (‘argine invalicabile alla marea stava temperando e addolcendo al calore del suo umanesimo la rozza barbarie stringente d’assedio’) era permeata di mentalità razzista, principale supporto ideologico come nelle imprese coloniali”.52 Marco Cuzzi, che ha approfondito gli aspetti militari e amministrativi della politica di occupazione italiana, sottolinea invece l’influenza esercitata dall’impostazione ideologica del fascismo di confine. I principali esponenti dell’apparato amministrativo della provincia di Lubiana provenivano dal Fascio triestino-giuliano e uno dei principali impegni che si prefissero fu quello di far dimenticare agli alloglotti del Regno d’Italia l’idea stessa di una patria al di là dei confini italiani. La meta conclusiva era eliminare la Slovenia con tutti i mezzi disponibili e incorporarla nel Regno.53 Nonostante un numero elevato di ricerche di studiosi italiani, sloveni e croati54 che documentano la forte regressività del regi51. A questo proposito si veda E. Gobetti, L’occupazione allegra. Gli italiani in Jugoslavia (1941-1943), Carocci, Roma 2007. 52. Ivi, p. 182. 53. M. Cuzzi, La Slovenia italiana, cit., p. 227. Si veda anche il suo L’occupazione italiana della Slovenia. 1941-1943, Stato maggiore dell’esercito, Roma 1998. 54. Cfr. T. Ferenc, La provincia “italiana” di Lubiana. Documenti 1941-1942, Istituto friulano per la storia del movimento di liberazione, Udine 1994; E. Gobetti, L’occupazione allegra. Gli italiani in Jugoslavia (1941-1943), cit.

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me di occupazione italiano in Jugoslavia, il comportamento dei comandi e dei soldati e il trattamento riservato ai civili, permane una forte ritrosia sia della pubblicistica sia della storiografia italiana ad abbandonare il mito degli “italiani brava gente”,55 quel mito fuorviante che ha contribuito a una comoda amnesia collettiva sostenuta dalla politica italiana per quanto riguarda i crimini di guerra italiani nell’area jugoslava.56 Rimane peraltro diffusa la convinzione che l’occupante italiano si fosse distinto da quello tedesco per un atteggiamento più benevolo nei confronti della popolazione civile e che vi fossero differenze sostanziali tra il progetto di dominio nazista e quello fascista e infine anche tra l’antislavismo tedesco e quello italiano. Come osserva puntualmente Giorgio Rochat, le truppe italiane furono certamente le meno feroci tra le forze contrapposte, ma anch’esse si contraddistinsero per fucilazioni di ostaggi, civili e prigionieri, devastazioni e incendi di villaggi.57 Vale la pena ancora una volta soffermarsi sulla riluttanza a cogliere nei comportamenti dei comandi e delle truppe italiane atteggiamenti razzistici nei confronti della popolazione occupata. L’assenza di una legislazione esplicitamente razzista nei confronti della popolazione slava sarebbe la conferma dell’inesistenza di un razzismo biologico, di una politica di tipo razziale che, fra l’altro, non fu praticata nemmeno nei confronti degli allogeni durante il Ventennio. Secondo Marina Cattaruzza: “La prassi del trasferimento all’interno degli elementi considerati poco affidabili, la prospettiva dell’assimilazione nazionale e il sostegno dato a matrimoni misti di italiani con donne slovene negano alla radice i presupposti del razzismo biologistico, che tende alla separazione drastica della razza ritenuta inferiore”.58 Tuttavia se 55. D. Rodogno, Il nuovo ordine mediterraneo. Le occupazioni dell’Italia fascista in Europa (1940-1943), Bollati Boringhieri, Torino 2003; A. Del Boca, Italiani, brava gente?, Neri Pozza, Vicenza 2005, pp. 229-254. 56. C. Di Sante (a cura di), Italiani senza onore. I crimini in Jugoslavia e i processi negati (1941-1951), ombre corte, Verona 2005. 57. G. Rochat, La guerra di Mussolini 1940-1943, in A. Del Boca (a cura di), La storia negata. Il revisionismo e il suo uso politico, Neri Pozza, Vicenza 2009, p. 162. 58. M. Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, cit., p. 187.

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nel razzismo antislavo non vi fu un orientamento “biologico”,59 vi erano dosi massicce di quello “spiritualistico” declinato in chiave nazionalistica.60 L’antislavismo come substrato ideologico della politica di regime nelle terre di confine e in quelle occupate dopo il 1941 divenne veicolante per la volontà di dominazione assoluta che si alimentò con fortissimi pregiudizi nei confronti di un “altro” minaccioso, violento, animalizzato e barbarizzato,61 e nella sostanza non fu diverso da quello propagato dai tedeschi. L’assenza di leggi razziste non va identificata con l’assenza di comportamenti razzisti.62 È bene ricordare, come fa Giorgio Israel, che il razzismo non poggia soltanto su fondamenta biologiche. Il concetto di razza è fluttuante, indica un insieme di atteggiamenti psicologici, spirituali, culturali, si radica, di volta in volta, e in modo arbitrario, nella biologia, nell’etnografia, nell’antropologia, nelle teorie evoluzionistiche, nella filologia storica e comparata.63 Non fu casuale che Corrado Gini, illustre rappresentante della scienza demografica italiana, nominato primo presidente dell’Istat nel 1926 e negli anni trenta sostenitore della politica demografica totalitaria del regime, tenne a Trieste nell’aprile del 1911 una conferenza nell’ambito della quale assunse una posizione espressamente razzista. Si chiese come mai “una razza ricca di intelligenza, fornita di censo, nutrita di nobilissime tradizioni, animata da alti ideali, non riesca a espandersi degnamente e a trionfare su un’altra razza intellettualmente più limitata. Questo problema che così vivamente appassiona voi, Italiani di Trieste, e noi, Italiani del Regno, che con tanta simpatia vi seguiamo nella diurna lotta contro la minac59. Il razzismo biologico veniva giudicato con sospetto in Italia, in quanto gli si preferiva un concetto di razza piuttosto ambiguo basato sulla nozione di “stirpe”. Cfr. G. Israel, L’espulsione dei professori ebrei dalle facoltà scientifiche, in M. Beer, A. Foa, I. Iannuzzi (a cura di), Leggi del 1938 e cultura del razzismo. Storia, memoria, rimozione, Viella, Roma 2010, pp. 46-47. 60. F. Cassata, “La difesa della razza”. Politica, ideologia e immagine del razzismo fascista, Einaudi, Torino 2010, pp. XI-XV. 61. S. Bartolini, Fascismo antislavo, cit., pp. 36-59. 62. Cfr. L. Goglia, Il colore nel razzismo fascista, in M. Beer, A. Foa, I. Iannuzzi (a cura di), Leggi del 1938 e cultura del razzismo, cit., p. 37. 63. G. Israel, Il fascismo e la razza, cit., p. 17.

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ciosa invadenza degli Slavi, non è un caso particolare del problema multiforme e complesso sulle cause dell’evoluzione delle nazioni”.64 L’antislavismo prevedeva attitudini e comportamenti psicologici e spirituali definiti, un’essenza legata alla stirpe che rimaneva immutata e che continuò a delimitare la civiltà italiana dal mondo slavo anche dopo la fine del regime fascista. Forti pregiudizi, che riflettevano la perentoria affermazione dell’immutabilità dell’essere italiano e slavo, si mantennero anche dopo la fine della Seconda guerra mondiale, e in taluni ambienti furono rafforzati dall’ultima riprova della “bestialità dell’altro”: gli eccidi avvenuti a fine conflitto, noti con la denominazione di foibe.65 Sebbene le stime più fondate permettano di ipotizzare che il numero delle persone uccise si collochi tra millecinquecento e duemila, a venir riportate dalla pubblicistica e dai media italiani sono sovente cifre che oscillano tra i venti e i trentamila morti. Non diversamente anche gli interventi di molti politici italiani in occasione delle Giornate del ricordo celebrate in onore degli esuli giuliano-dalmati e degli infoibati contengono espressioni come “le molte migliaia di italiani morti”, oppure evocano “il genocidio attuato con scientifica precisione dai nazionalcomunisti di Tito”, i “quindicimila italiani morti nelle foibe”, il “massacro di ventimila italiani”, oppure le migliaia di vittime barbaramente uccise dagli slavo-comunisti “soltanto perché italiane”.66 64. Citato in ivi, p. 123. Sulla teoria di Gini, e su come le sue idee sul rinnovamento biologico entrarono in contrasto con l’idea della purezza razziale e gli costarono persino accuse di antifascismo, dato che non era contrario a mescolanze con il sangue slavo, cfr. ivi, pp. 116-128. 65. Cavità assurte a simbolo di tutte le vittime italiane uccise dai partigiani jugoslavi: sia dei morti gettati nelle cavità del terreno roccioso in Istria dopo la firma dell’armistizio e prima dell’arrivo delle forze occupanti tedesche nel settembre del 1943, sia dei morti scagliati nelle voragini carsiche e nei pozzi di miniera dopo le esecuzioni sommarie avvenute durante gli ultimi giorni dei combattimenti, nonché a guerra finita, nel maggio-giugno 1945; esse inoltre vengono connesse anche ai morti per fame, sfinimento o malattia nei campi di prigionia jugoslavi, situati nelle aree più interne della Jugoslavia (cfr. R. Pupo, R. Spazzali, Foibe, Bruno Mondadori, Milano 2003; C. Cernigoi, Operazione “foibe” tra storia e mito, Edizioni Kappa, Udine 2005, p. 12). 66. Cfr. J. Pirjevec, Foibe, cit., pp. XIII e 201-230. Si veda anche il mio saggio in L. Accati, R. Cogoy (a cura di), Il perturbante nella storia: le foibe. Uno studio psicopatologico della ricezione storica, QuEdit, Verona 2010.

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L’inversione dei ruoli realizzatasi durante i Quaranta giorni con l’occupazione jugoslava di Trieste e di Gorizia produsse una ferita simbolica mai del tutto rimarginata. L’altro, il barbaro, l’immigrato, il nemico ideologico e nazionale, al quale per decenni era richiesto di mimetizzarsi, poi di assimilarsi, assumendo le redini del comando sembrò confermare la sua massima distruttività. La “barbarie” vinse la civiltà, ma per poco. L’amministrazione angloamericana di Trieste e Gorizia decretò l’annessione della Venezia Giulia, a eccezione dell’Istria, all’Europa occidentale, ristabilendo i valori morali della “civiltà italiana” e gli interessi dell’Europa occidentale.67 In conclusione, sono le affermazioni di oggi e non di ieri quelle che ci dovrebbero costringere a riflettere sulla persistenza di atteggiamenti razzisti e sulla lunga durata di pregiudizi che godono di buona salute anche per il solerte contributo degli intellettuali, non per ultimo anche degli storici.

67. G. Montemuliano, Venezia Giulia italiana ed europea, Sestante, Roma 1945, p. 53.

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Geografie italo-libiche CHIARA BRAMBILLA

1. Studi postcoloniali, migrazioni e dis-locazioni di frontiera Il tempo postcoloniale è quello in cui, contemporaneamente, l’esperienza coloniale appare consegnata al passato e, proprio per le modalità con cui il suo “superamento” si è realizzato, si installa al centro dell’esperienza sociale contemporanea [...]. Il confinamento, la vera cifra “epistemica” del progetto di sfruttamento coloniale dell’Occidente, e la resistenza contro di esso cessano di organizzare una cartografia capace di distinguere in modo univoco la metropoli dalle colonie, frantumandosi e ricomponendosi di continuo su scala globale.1 Le parole di Sandro Mezzadra chiariscono il significato che si intende attribuire al termine postcoloniale in questo scritto, con riferimento all’analisi delle geografie relazionali tra Italia e Libia. L’esperienza coloniale italiana in Libia, attraverso le modalità stesse con cui si sta consegnando al passato, risulta essere centrale, infatti, nell’esperienza sociale contemporanea espressa dalle relazioni tra i due paesi. In particolare, le vicende coloniali italiane in Libia e le loro rappresentazioni contemporanee giocano un ruolo rilevante ai fini della comprensione delle esperienze migratorie e 1. S. Mezzadra, La condizione postcoloniale. Storia e politica nel presente globale, ombre corte, Verona 2008, p. 25.

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aut aut, 349, 2011, 50-68


di mobilità umana che abitano l’attuale spazio di relazione euroafricano e “popolano” il Mediterraneo. Tra i temi al centro dell’attenzione degli studi postcoloniali, le migrazioni occupano uno spazio significativo di riflessione. Di fronte alle sempre nuove forme di mobilità umana contemporanee, l’analisi così come la critica postcoloniale ci offrono, attraverso una sorta di decentramento dello sguardo storico, l’opportunità di rinnovare e adeguare il nostro modo di guardare ai fenomeni della modernità e ai loro sviluppi. Come sostiene Seyla Benhabib, infatti, siamo navigatori che viaggiano in un territorio sconosciuto con l’ausilio di mappe ormai vecchie, disegnate in un altro tempo e al fine di rispondere a bisogni diversi da quelli attuali.2 Gli studi postcoloniali forniscono una lente con la quale giungere a una migliore comprensione delle linee peculiari di questo territorio sconosciuto, mostrando le incongruenze normative tra le norme che regolano i diritti umani internazionali, in particolare per ciò che riguarda i “diritti degli altri” – immigrati, rifugiati, richiedenti asilo – e le asserzioni di sovranità territoriale. Ne emerge l’urgenza di un rinnovamento concettuale: sovranità, territorio, stato-nazione e cittadinanza non sembrano essere più adeguati per descrivere la realtà socio-politica degli scenari mobili contemporanei. Le migrazioni mettono in discussione la vecchia trilogia stato/nazione/territorio, rompendo la coincidenza tra “uomo” e “cittadino”, tra “natività” e “nazionalità” e chiamando in causa l’idea originale di sovranità moderna. Queste considerazioni recano altresì al centro della riflessione i percorsi di definizione e ridefinizione dell’ambito complesso, nel quale si creano e si situano le relazioni tra le grandi linee tematiche della cittadinanza, della mobilità e del territorio. I processi di globalizzazione e i processi migratori determinano uno sconvolgimento dei presupposti di lettura e comprensione che avevamo ereditato dalla modernità e sui quali si sono fondate e, per certi versi, continuano a fondarsi la geografia politica, economica, culturale e l’antropologia, in particolare quella politica. 2. Cfr. S. Benhabib, I diritti degli altri. Stranieri, residenti, cittadini (2004), Raffaello Cortina, Milano 2006.

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A tale riguardo, vi è un concetto che, come dimostrano diversi autori su più fronti disciplinari, funge da chiave di lettura privilegiata sia dal punto di vista analitico sia da quello metodologico: si tratta del concetto di frontiera, che indissolubilmente si lega, nelle sue diverse declinazioni, all’analisi postcoloniale.3 Quest’ultima propone, infatti, una dis-locazione dello sguardo dalla/nella frontiera, ponendo al centro dell’attenzione una storia globale fatta di una pluralità di luoghi e di esperienze, incrocio, insomma, di una molteplicità di sguardi. Si destabilizza e decentra ogni narrativa che si voglia unica e fondata su codici binari (centro/periferia, interno/esterno, dentro/fuori), mentre si affermano narrative ibride, che si incrociano in uno spazio che è quello della frontiera.4 Nella frontiera è possibile superare l’epistemologia statocentrica che ha dominato la riflessione della geografia moderna, assumendo consapevolezza della nostra necessità contemporanea di far riferimento a narrative alternative, portatrici di rappresentazioni differenti dello spazio e delle identità sociali, non necessariamente fondate sull’idea di fissità territoriale che ha consentito l’originarsi, in epoca moderna, di ciò che il geografo John Agnew ha definito “trappole territoriali”, riprendendo la riflessione abbozzata da Max Weber nelle ultime pagine dell’Etica pro3. Si vedano in particolare: W. Mignolo, Local Histories / Global Designs: Coloniality, Subaltern Knowledges, and Border Thinking, Princeton University Press, Princeton (N.J.) 2000; S. Sassen, Territorio, autorità, diritti. Assemblaggi dal Medioevo all’età globale (2006), Bruno Mondadori, Milano 2008; E. Rigo, Europa di confine. Trasformazioni della cittadinanza nell’Unione allargata, Meltemi, Roma 2007; S. Mezzadra, La condizione postcoloniale, cit.; C. Brambilla, Per una riflessione sulle/dalle frontiere. Percorsi teorici e l’esempio di una frontiera in Africa, “Studi culturali”, 2, 2009, pp. 197-215. 4. Frantz Fanon ci ha raccontato della narrativa uni-vocale, lineare e basata su relazioni oppositive, a partire dalla quale si organizzavano lo spazio, il tempo e l’esperienza delle colonie. Cfr. F. Fanon, Pelle nera, maschere bianche (1952), Tropea, Milano 1996; Id., I dannati della terra (1961), Edizioni di Comunità, Torino 2000. Il filosofo Peter Sloterdijk ha argomentato come l’omogeneità dello spazio, del tempo e dell’esperienza che ha dominato la Weltgeschichte sia messa in discussione dai processi di globalizzazione e dalla mobilità umana contemporanea. Tali processi evidenziano il superamento di ogni “semplificazione geometrica”, come evidenzia in ambito geografico e, con particolare riguardo alla “critica della ragione cartografica”, Franco Farinelli. Cfr. P. Sloterdijk, L’ultima sfera. Breve storia filosofica della globalizzazione (2001), Carocci, Roma 2002; F. Farinelli, Geografia. Un’introduzione ai modelli del mondo, Einaudi, Torino 2003; Id., La crisi della ragione cartografica, Einaudi, Torino 2009.

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testante, dove parla di “gabbia d’acciaio” del dispotismo coloniale.5 Sulla scia delle riflessioni dell’antropologo Walter Mignolo, vorremmo postulare la nozione di frontiera non solo nella sua accezione geografico-territoriale, estendendola piuttosto a una valenza politica, soggettiva, culturale-antropologica ed epistemologica.6 Mostrando l’urgenza di ripensare la frontiera come uno spazio di interazione, dove la relazione euro-africana si articola a livelli differenti, da quello politico, passando per quello economico, fino al livello socio-culturale.7 2. La Libia e le sue oasi: genealogia di una terra di frontiera tra Europa e Africa Queste considerazioni introduttive sono volte a sostanziare la scelta di declinare la lettura delle geografie relazionali tra Italia e Libia in termini di variazioni di frontiera. Il tema della frontiera e delle sue variazioni plurali accompagna e attraversa, infatti, come un basso continuo la storia del configurarsi in periodo coloniale e dell’evolversi, poi, fino alle sue forme postcoloniali della complessa relazionalità Italia-Libia. In particolare, è la Libia stessa a definirsi come terra di frontiera nel contesto delle relazioni italo-libiche. La Libia può essere intesa, allora, come luogo privilegiato delle continue dis-locazioni e ri-locazioni della discussa frontiera euroafricana.8 In questo quadro, sembra innanzitutto necessario adottare una prospettiva storica, capace di recuperare all’attenzione anche la dimensione temporale della frontiera. Si vogliono ri-pensare le geografie relazionali euro-africane, focalizzandosi sulla complessità della storia dello spazio di frontiera tra Italia e Libia, che, per 5. Cfr. M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1904-05), Sansoni, Firenze 1965, p. 305; J. Agnew, The Territorial Trap: The Geographical Assumptions of International Relations Theory, “Review of International Political Economy”, 1, 1994, pp. 53-80. 6. Cfr. W. Mignolo, Local Histories / Global Designs, cit. 7. Cfr. O. Kramsch, C. Brambilla, Transboundary Europe through a West African Looking Glass: Cross Border Integration, Colonial Difference and the Chance for Border Thinking, “Comparativ | Zeitschrift für Globalgeschichte und vergleichende Gesellschaft”, 4, 2007, pp. 95-115. 8. Per ulteriori approfondimenti a questo riguardo, si veda il capitolo introduttivo del volume di J. Bessis, La Libia contemporanea (1986), Rubbettino, Catanzaro 1991.

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lo più ancora tralasciata, si rivela grazie a uno sguardo critico su ciò che Jean-François Bayart ha definito la longue durée di questa relazione.9 In questo senso, la longue durée ci rimanda alla genealogia, come pensata da Michel Foucault, proponendo una ri-lettura delle configurazioni contemporanee attraverso il riferimento alle storie passate, intese come dei possibili percorsi attraverso cui portare alla luce nuova complessità.10 Si tratterebbe di focalizzare l’attenzione su una conoscenza della storia che passa attraverso i “punti ciechi che sono sfuggiti alla dialettica”,11 e che compongono l’eredità postcoloniale, come mette in evidenza sul versante dell’antropologia Johannes Fabian.12 Dagmawi Yimer, il protagonista del film Come un uomo sulla terra, pronuncia, in una delle primissime scene, alcune parole che nella loro semplicità dicono molto riguardo all’importanza di recuperare la dimensione temporale della relazione euro-africana: “Io penso che questa storia dovrebbe iniziare circa cento anni fa quando i nostri bisnonni si sono conosciuti. Con la guerra, quando l’Italia ha provato a invadere la Libia e poi dopo l’Etiopia”. Il film Come un uomo sulla terra, scrive il registra Andrea Segre, nasce, dal punto di vista cinematografico, “da un delicato processo di trasformazione dell’assenza in essenza”.13 In altre parole, il documentario nasce dalla ricerca di un modo adeguato per raggiungere cinematograficamente il punto di contatto con l’essenza profondamente umana delle storie di una decina di ragazzi e ragazze che hanno vissuto l’esperienza migratoria dal Corno d’Africa, attraverso la Libia, fino alle coste italiane, partendo dall’assenza pressoché totale di materiale visivo e scritto che raccontasse quelle storie. La difficoltà di accesso alle storie che fanno la ge9. J.-F. Bayart, L’État en Afrique: la politique du ventre, Fayard, Paris 1989. 10. Cfr. M. Foucault, Bisogna difendere la società (1975), Feltrinelli, Milano 1998. 11. L’espressione è usata da T.W. Adorno, Minima Moralia. Meditazioni della vita offesa (1951), Einaudi, Torino 1979, p. 178. 12. J. Fabian, Il tempo e gli altri. La politica del tempo in antropologia (1983), L’ancora del Mediterraneo, Napoli 2000. 13. Il dvd del film Come un uomo sulla terra di Andrea Segre, Dagmawi Yimer e Riccardo Biadene è uscito accompagnato da un volume omonimo per Infinito edizioni, Roma 2009. Segre affronta le questioni menzionate in un capitolo intitolato “Dialoghi di memoria”, p. 97 sgg.

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nealogia della frontiera Italia-Libia, in parte dovuta alla peculiarità di questo spazio relazionale e propria altresì delle relazioni postcoloniali che caratterizzano più generalmente i rapporti euroafricani, ha senz’altro contribuito a determinare la scarsità di studi su questi temi e spiega anche gli ostacoli affrontati dagli studiosi che si sono occupati di tali argomenti.14 L’oblio della storia delle geografie relazionali tra Italia e Libia rispecchia, allora, la peculiare natura dei rapporti italo-libici, che è caratterizzata da un’oscillazione continua tra fasi positive di dialogo, incomprensioni, difficoltà e contrapposizioni. Qui si esprime anche il carattere paradossale della politica di Gheddafi, fatta, al contempo, di elementi progressivi e regressivi, così come il situarsi della politica estera libica nella complessità di un universo relazionale più ampio, che chiama in causa le relazioni euro-africane. È in tali oscillazioni paradossali che trovano espressione le variazioni di frontiera delle geografie relazionali italo-libiche tra colonialismo e postcolonialismo. La Libia, si è detto, può essere assunta come terra di frontiera nella complessità delle relazioni geopolitiche euro-africane; spazio frontaliero tra il mondo mediterraneo e il mondo subsahariano: tra Europa e Africa. Questa sua localizzazione ne ha fatto, nel corso dei secoli, un luogo importante – e quindi conteso tra potenze diverse – per controllare le rotte commerciali transahariane e per lo sfruttamento delle risorse naturali di cui la zona è ricca. La prima potenza a occupare i territori libici è l’Impero ottomano nel 1500, mentre a partire dalla seconda metà del XIX secolo, le potenze coloniali europee cominciano a interessarsi alla Libia, sancendo l’inizio di una serie di scontri, negoziazioni e risoluzioni territoriali tra diversi attori europei su quel lembo d’Afri14. Al riguardo, sono significative le considerazioni fatte, in diverse sedi, dallo storico Angelo Del Boca: Gli italiani in Libia. Tripoli bel suol d’amore 1860-1922, Laterza, Roma-Bari 1988 (in particolare, vedi Avvertenza); Id., “Prefazione”, in A. Varvelli, L’Italia e l’ascesa di Gheddafi. La cacciata degli italiani, le armi e il petrolio (1969-1974), Baldini Castoldi Dalai, Milano 2009, pp. 11-17. L’argomento è affrontato anche da A. Triulzi, Per un archivio delle memorie migranti, in M. Carsetti, A. Triulzi (a cura di), Come un uomo sulla terra, Infinito, Castel Gandolfo 2009, pp. 17-20. Per approfondimenti, cfr. A. Mbembe, The archive and its limits, in C. Hamilton et al., Refiguring the Archive, David Philip Publishers, Cape Town 2002.

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ca proteso nel mar Mediterraneo, che continueranno fino a oggi.15 Il 24 dicembre 1951 venne proclamata l’indipendenza della Libia e re Idris as-Sanuri ne assunse ufficialmente la guida. Nel 1969, il 1° settembre, un colpo di stato militare, guidato da Muammar Gheddafi, rovescia la monarchia e il nuovo regime si instaura. Possiamo affermare, dunque, che nel corso di cento anni, dalla metà del XIX secolo alla metà del XX secolo, la Libia si fa espressione di una terra di frontiera, dove il nomos della terra pensato in Europa e per l’Europa fondato sull’identità territoriale dello stato e sul confine lineare si rivela un elemento fondamentale per la presa di possesso di quei territori. Per tale via, gli spazi libici sono stati de-territorializzati, privati del loro significato precedente e ri-territorializzati secondo la convenienza delle amministrazioni coloniali.16 Tuttavia, e soprattutto con riferimento alla Libia, oltre alla linearità dei confini definiti sulle mappe, vi è un’altra forma che la frontiera assume sia durante il periodo coloniale sia nel paesaggio libico attuale. Si tratta di una forma che, a differenza dei confini lineari visibili nella cartografia ma invisibili nelle geografie “reali”, si manifesta allo sguardo di chi si muove nel paese in alcuni luoghi-chiave per la sua comprensione: le oasi. Esse, già luoghi importanti nell’ambito delle territorializzazioni autoctone precoloniali, sono espressione delle modalità attraverso le quali il processo di territorializzazione coloniale si è sviluppato nelle aree interne. Infatti, mentre lungo la costa l’intervento coloniale in Libia si organizza a partire dalla costruzione di insediamenti stabili, nelle regioni interne si fonda su un controllo per punti, reso necessario dalle diverse caratteristiche pedologiche e morfologiche della zona, dominata dalle rocce e dalle sabbie del deserto. Le oasi, allora, siano esse situate in prossimità del tracciato frontaliero concordato sulle mappe, siano esse distanti centinaia di chilometri da questo, definiscono in periodo coloniale il loro ruolo strategico come frontiera che dichiara e sancisce il controllo territoriale delle diverse potenze europee sui territori sahariani. 15. Cfr. A. Del Boca, Gli italiani in Libia, cit. 16. Su questi aspetti si sofferma D. Harvey, La crisi della modernità (1989), il Saggiatore, Milano 1993, p. 324 sgg.

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Durante un periodo di campo in Libia nel 2004, abbiamo avuto l’opportunità di visitare e attraversare questi luoghi di frontiera nel Sahara, leggendo nei segni del territorio la storia delle variazioni di frontiera che là si sono originate. In particolare, le oasi di Ghadames e Murzuq – storicamente parte del circuito mercantile che univa l’Africa subsahariana (Agades, Zinder, Kano, Timbouktou...) al litorale del Mediterraneo – si trovano ancora oggi, seppur in modi e per ragioni differenti, alle frontiere della Libia. Ghadames, situata circa 680 chilometri a sud-est di Tripoli, funge da nodo di congiunzione tra due linee di frontiera: quella tra Tunisia e Libia, più a nord a partire dalla costa mediterranea, e quella tra Algeria e Libia, proseguendo verso sud fino a incontrare il territorio nigerino. Murzuq, invece, si trova nell’estremità più meridionale della regione libica del Fezzan, in un’area desertica nota come edeyen di Murzuq. Lo splendente passato delle due oasi, che le ha viste inserite in un sistema di organizzazione sociale e territoriale così ben strutturato come fu, in effetti, quello islamico tra il 1300 e il 1400, ne ha determinato il fascino per i turchi prima e per gli europei poi, definendole come posta in gioco politica in un’altalenante contesa tra potenze diverse. Una contesa che si è disputata, prima ancora che con le armi, immaginando linee di frontiera sulle carte geografiche. Visitando Ghadames e Murzuq quelle stesse linee sembrano cancellarsi, rivelando la loro natura di costruzione storica artificiale e invenzione politica pretestuosa, lasciando emergere la più profonda storicità dei luoghi, e, in particolare, dei luoghi di frontiera. Si tratta del carattere commerciale e religioso delle due oasi che, nella società islamica del XIV-XV secolo, conoscono il loro massimo splendore come città-mercato, punti di transito sulle rotte commerciali transahariane e tappe imprescindibili dei pellegrinaggi verso la Mecca. Realtà sociali tendenzialmente chiuse, data la loro localizzazione in pieno deserto, Ghadames e Murzuq sono un significativo esempio di come la cultura islamica abbia saputo mettere in atto, di contro, un insieme di pratiche capaci di coinvolgere le due oasi all’interno di un mondo in rete che, nella sua autoconsistenza, era incurante di qualunque fron57


tiera. Pellegrini e commercianti sono quindi i protagonisti indiscussi della storia più antica delle due oasi libiche, cui va aggiunto il non meno significativo ruolo degli schiavi, prima merce a essere scambiata. Oggi la cospicua presenza di neri, sia a Ghadames che a Murzuq, e la strutturazione della parte nuova delle due cittadine – dove spicca un’organizzazione degli spazi pubblici e delle attività commerciali tipica dell’Africa subsahariana – è testimonianza di quel passato.17 Ma quello stesso passato, che si voleva negazione di ogni limite all’insegna di una progettualità transafricana, è la ragione prima per l’inserimento delle due oasi nelle logiche di definizione delle frontiere a partire dalla fine del XIX secolo. La Turchia, la Francia e poi l’Italia, incapaci di controllare nella loro estensione quei territori desertici, tentano un controllo per punti, assicurandosi, a suon di trattati, l’appropriazione delle oasi di Ghadames e Murzuq, strategiche, grazie alla presenza di acqua e alla fertilità dei suoli, per lo sviluppo del progetto coloniale. Anche la politica rivoluzionaria di Gheddafi è influenzata dal retaggio delle dispute coloniali per il controllo delle oasi quali luoghi di frontiera. Ciò è rilevabile, in particolare, con riferimento ai conflitti territoriali tra la Libia e il Ciad, volti da parte di Gheddafi all’estensione della regione libica meridionale del Fezzan fino a comprendere la striscia di Azou, una porzione di deserto ricca di giacimenti di uranio e compresa tra i massicci dell’Ennedi e del Tibesti.18 Questa frontiera meridionale, ripetutamente spostata e attraversata dalla progettualità politica di Gheddafi, si fa icona dei paradossi che caratterizzano il discorso identitario del colonnello, proponendo una variazione di frontiera, dove la Libia oscilla da frontiera aperta a frontiera chiusa rispetto alla mobilità in quel territorio dei migranti provenienti dalle regioni subsahariane e dal Corno d’Africa. 17. Per un’analisi del ruolo delle oasi in Libia tra sistemi di valori tradizionali e processi di modernizzazione, cfr. M.O. Attir, The Road Toward Modernization of Libya: The Mixture of Old & New, Arab Development Institute, Beirut 1992. 18. Riguardo alla storia della definizione del confine Libia/Ciad e alla disputa per il controllo della striscia di Azou, cfr. G. Simons, Libya and the West. From Independence to Lockerbie, Centre for Libyan Studies, Oxford 2003, pp. 47-81; B. Lanne, Tchad-Libye, la querelle des frontières, Karthala, Paris 1986.

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Tale variazione è osservabile considerando i messaggi veicolati dal mezzo comunicativo più usato dal regime di Gheddafi, la cartellonistica, attraverso la quale le narrazioni identitarie del leader libico sono espresse da icone distribuite sull’intero territorio del paese. Ne emerge una rappresentazione della Libia come frontiera aperta, spazio di con-divisione, a seguito della politica di apertura dei confini libici al centro della visione di Gheddafi. Nel suo discorso identitario ufficiale, infatti, Gheddafi ha investito nella costruzione di un’identità nazionale che, recuperando valori fondativi quali quelli legati al deserto, alle sue oasi, alla religione islamica e agli scambi commerciali lungo le piste carovaniere, ruota intorno a uno stretto legame, storicamente costituitosi, tra i paesi africani, incentivando al contempo l’immigrazione da molti stati dell’Africa verso la Libia.19 La numerosa presenza nera, rilevata sia a Ghadames che a Murzuq, ma anche a Ghat, Sebha e Cufra, non costituisce quindi solo un’eredità dello schiavismo ma anche il frutto di una ricomposizione sociale in atto. Gli immigrati costituiscono parte integrante della nuova socialità delle oasi libiche che, icone di un deserto ricco di storia e di valori, sono assunte nella progettualità governativa di Gheddafi quali perni costitutivi della nuova identità nazionale. Tuttavia, comparando i messaggi comunicati dalla cartellonistica con la mappa dei centri di detenzione per migranti in Libia, realizzata con Google Maps e costantemente aggiornata sul sito Internet dell’osservatorio sulle vittime delle migrazioni Fortress Europe, emerge lampante il paradosso della politica di Gheddafi.20 A Ghadames, Ghat, Sebha, Quatrun (zona di Murzuq) e Cufra sono stati costruiti centri di detenzione per migranti. Guardando la mappa, le oasi del deserto libico si trasformano da frontiera aperta in frontiera chiusa, in uno spazio di di-visione. La Libia costituisce, infatti, uno dei casi più problematici, tra i paesi di transito africani, per quanto concerne il movimento migratorio dall’Africa subsahariana verso le coste europee. Questa variazio19. Cfr. J. Bessis, La Libia contemporanea, cit., pp. 184-189. 20. Cfr. <http://fortresseurope.blogspot.com>.

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ne di frontiera si esprime attraverso la chiusura e la militarizzazione dei confini libici, nonché, a seguito degli accordi stipulati con la controparte italiana e con l’Unione Europea, attraverso l’esternalizzazione dei confini dell’Europa in Libia. Qui, la variazione di frontiera sta in un confine euro-africano che, abbandonate di nuovo le sue spoglie di linearità, assume le forme di spazi di eccezione attraverso cui si esprimono le geopolitiche dell’esclusione che regolano i rapporti italo-libici postcoloniali con riguardo particolare alla mobilità.21 Con riferimento alla politica africana della Libia, la questione delle migrazioni costituisce un aspetto problematico da gestire per un paese teso, da un lato, a scelte finalizzate a un sempre maggiore avvicinamento all’Europa e, dall’altro lato, a garantirsi il sostegno degli altri stati africani. Non è possibile, infatti, che Gheddafi si ponga come leader del panafricanismo e propositore dell’idea di Stati Uniti d’Africa contro ogni retaggio del colonialismo, quando egli assume contemporaneamente, al di là di quanto afferma nei discorsi ufficiali, delle prassi di chiusura verso il popolo africano, imponendo, a sostegno e con il sostegno dell’Europa, vecchie barriere alla circolazione.22 3. Relazioni italo-libiche, esternalizzazione delle frontiere dell’UE e la forma-campo La variazione di frontiera tra apertura e chiusura non si ritrova soltanto nella politica africana di Gheddafi, ma è altresì rintracciabile spostando lo sguardo sull’altro lato della frontiera, quello delle relazioni che la Libia intrattiene con l’Italia, nell’ambito delle geografie relazionali euro-africane postcoloniali. 21. È opportuno precisare che, ancor prima degli accordi con l’Italia e l’Unione Europea, il governo libico ha adottato un atteggiamento contraddittorio riguardo alle migrazioni nell’area. Seppur salutata positivamente nei discorsi ufficiali, la questione dell’immigrazione nel paese è stata affrontata secondo modalità spesso contraddittorie. Il governo libico non ha esitato a cacciare interi contingenti di lavoratori in diverse occasioni. Cfr. A. Del Boca, Gheddafi: una sfida dal deserto, Laterza, Roma-Bari 1998. 22. Per approfondimenti a questo riguardo, si rimanda a: A. Varvelli, Gheddafi e l’unione africana: legittimità internazionale, influenza regionale e sviluppo interno, “ISPI Policy Brief”, 152, luglio 2009, pp. 1-7; D. Vandewalle, Storia della Libia contemporanea (2006), Salerno editrice, Roma 2007, in particolare pp. 201-237.

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L’attuale questione delle migrazioni si inserisce nelle relazioni Italia-Libia a partire dalla fine degli anni novanta. Tuttavia, allo scopo di comprendere la polisemia della relazione italo-libica non si può prescindere dal considerare la sua genealogia fondata su un intreccio di affari politici ed economici che si riflettono, con tutte le loro contraddizioni, sulle esperienze sociali, compresa quella migratoria. Ne emerge un passato di rapporti altalenanti. Subito dopo aver preso il potere, Gheddafi promuove la cacciata degli italiani dalla Libia, ma negli anni immediatamente successivi riconosce, in diverse occasioni, all’Italia del presente un “nobile e amichevole atteggiamento” verso la causa araba.23 Gli anni ottanta – con il lancio da parte libica di due missili sull’isola di Lampedusa nel 1986 e l’affare Lockerbie alla fine del 1988 – sono caratterizzati da relazioni molto tese che avranno un’influenza negativa sull’evolversi dei rapporti internazionali della Libia fino alla fine degli anni novanta.24 A partire dal 1999 si assiste a un progressivo avvicinamento dei paesi europei alla Libia, ai fini di favorirne l’integrazione nel dialogo euro-mediterraneo. L’Italia è stato il paese europeo più rapido ad avvicinarsi alla Libia e Lamberto Dini, ministro degli Affari esteri, già nel 1998 aveva espresso pubblicamente il desiderio che l’affare Lockerbie fosse risolto e che la Libia potesse riprendere i rapporti con gli altri paesi del Mediterraneo.25 Dini fu il primo ministro europeo a visitare Tripoli nel 1999, seguito dall’allora presidente del Consiglio Massimo D’Alema che, nel dicembre 1999, pronunciò la prima inequivocabile condanna del colonialismo italiano. Il governo libico ha più volte affermato di privilegiare l’Italia come partner in ambito commerciale e negli investimenti e di considerarla un’associata strategica.26 È così che nel corso del 2004 si moltiplicano le visite ufficiali in Libia da parte di re23. Cfr. M. Vignolo, Gheddafi, Rizzoli, Milano 1982, p. 131 sgg. 24. Per ulteriori riflessioni al riguardo, cfr. G. Simons, Libya and the West, cit. 25. Cfr. A. Varvelli, L’Italia e l’ascesa di Gheddafi, cit., pp. 290-307. 26. Il volume a cura di P. Gandolfi, Libia oggi, Atti del Convegno “Libia oggi”, Venezia 1-2 marzo 2002, Il Ponte, Bologna 2005, raccoglie dei saggi d’interesse per comprendere la Libia di oggi attraverso il riferimento alla storia delle sue relazioni passate e presenti con l’Italia e con altri paesi occidentali.

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ferenti del governo italiano. In particolare, pare significativo ricordare la visita di Silvio Berlusconi, l’8 ottobre 2004, in occasione dell’inaugurazione del nuovo gasdotto Eni GreenStream.27 Inoltre, sempre nel 2004, per la prima volta la tradizionale “giornata della vendetta”, rivolta fin dall’avvento della Jamahiriyya alla condanna dei soprusi della colonizzazione italiana, è stata rinominata “giornata dell’amicizia” tra Italia e Libia. La nuova apertura internazionale nei confronti della Libia a partire dalla fine degli anni novanta è segnata da una sempre crescente attenzione alla gestione e al controllo dei flussi migratori nell’area mediterranea. A questo riguardo, è interessante indagare come le modalità attraverso le quali la questione migratoria è affrontata nelle prassi politiche e sociali siano strettamente legate, nonché legittimate dai discorsi ufficiali che trovano espressione nei testi di alcuni accordi bilaterali italo-libici e, in particolare, ci riferiamo al testo dell’Accordo per la collaborazione nella lotta al terrorismo, alla criminalità organizzata, al traffico illegale di stupefacenti e di sostanze psicotrope ed all’immigrazione clandestina (Roma, 13 dicembre 2000) e al Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione (Bengasi, 30 agosto 2008).28 Per mezzo di questi discorsi ufficiali, al di là della validità degli argomenti, la questione delle migrazioni viene legata al terrorismo e alla criminalità, e per tale via anche la mobilità umana viene considerata come anormale e, dunque, da controllare in nome della sicurezza del Mediterraneo, in nome del rispetto della Norma. Questo aspetto è chiaro non solo dalla titolazione data all’Accordo del 2000, ma anche da una lettura del Trattato di amicizia firmato da Berlusconi e Gheddafi nell’agosto del 2008. Infatti, nel Preambolo si fa riferimento alla decisione delle parti firma27. Si tratta del gasdotto sottomarino più lungo del Mediterraneo. Il progetto fa parte del Western Libyan Gas Project e include la stazione di compressione di Mellitah, sulla costa libica, il gasdotto sottomarino e il terminale di ricevimento a Gela, in Sicilia. Cfr. <http://www.greenstreambv.com/it/pages/home.shtml>. 28. Michel Foucault ha riflettuto sull’importanza dei discorsi come elementi produttori di verità e sulla necessità che di essi ha ogni tipo di potere ufficiale. Infatti, i discorsi ufficiali sono in grado di dare sostegno e legittimazione al potere costituito, indipendentemente dai contenuti, affermando, al contempo, l’idea della norma, da cui discende il concetto di normale, e di conseguenza anche dell’anormalità. Cfr. M. Foucault, Storia della follia nell’età classica (1972), Rizzoli, Milano 1998, p. 201 sgg.

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tarie di “operare per il rafforzamento della pace, della sicurezza e della stabilità, in particolare nella regione del Mediterraneo”, mentre la questione migratoria è affrontata nell’articolo 19 “Collaborazione nella lotta al terrorismo, alla criminalità organizzata, al traffico di stupefacenti, all’immigrazione clandestina”.29 Tuttavia, dovremmo cominciare a interrogarci sui costi umanitari di questo spazio di libertà, sicurezza e giustizia che vuole essere il contesto euro-mediterraneo.30 L’ossessione per le politiche securitarie in tema di migrazioni e di confini è accompagnata, infatti, dal profilarsi di un serio problema umanitario: gli immigrati e i richiedenti asilo diventano, allora, le vittime di un processo securitario attuato dall’Europa che sembra perseguire la libertà, la sicurezza e la giustizia dei suoi membri, la sua integrazione sociale ed economica alle spese degli altri-esclusi. In particolare, sulla questione del Trattato di amicizia italo-libico pesano le gravissime denuncie di Amnesty International, Human Rights Watch e Fortress Europe, che fanno riferimento a decine di migliaia di migranti arrestati e deportati nella Jamahiriyya, comprese donne e bambini, migranti “economici” e rifugiati politici.31 Come lo stesso Preambolo del Trattato di amicizia del 2008 fa notare, gli accordi italo-libici in materia di migrazioni si inseriscono nell’ambito della controversa questione dell’allargamento dell’Unione Europea e dell’esternalizzazione dei suoi confini. Tale questione è strettamente connessa all’esplicarsi di politiche migratorie 29. Per ulteriori analisi al riguardo, cfr. C. Gazzini, Il “grande gesto” dell’Italia verso la Libia, “I quaderni speciali di Limes: Il mare nostro e degli altri”, supplemento al numero 3, 2009, pp. 135-148. 30. A questo proposito, cfr. T. Geisen, R. Plug, H. van Houtum, (B)ordering and othering migrants by the European Union, in T. van Naerssen, M. van der Velde (a cura di), Migration in a New Europe: People, Borders and Trajectories, Società Geografica Italiana, Roma 2008, pp. 75-86. 31. Si vedano: rapporto “Stemming the flow: abuses against migrants, asylum seekers and refugees”, Human Rights Watch, settembre 2006, <http://www.hrw.org/reports/2006/ libya0906/libya0906webwcover.pdf>; rapporto “Fuga da Tripoli. Rapporto sulle condizioni dei migranti di transito in Libia”, Fortress Europe, 2007, <http://fortresseurope.blogspot.com /2006/01/download-libya-2007-report.html>. Già il rapporto della Missione tecnica dell’Unione Europea in Libia del dicembre 2004 denunciò ufficialmente la condizione dei migranti. Questo rapporto è scaricabile alla stessa pagina del sito di Fortress Europe indicata qui sopra. Anche l’Associazione studi giuridici sull’immigrazione è intervenuta, a seguito del Trattato di amicizia del 2008: cfr. <http://www.asgi.it>.

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che derivano dalla relazionalità complessa tra confini interni ed esterni dell’Unione Europea, e dalla securizzazione selettiva dei confini esterni che va di pari passo con la soppressione di quelli interni. La gestione selettiva del movimento attraverso i confini esterni dell’UE si determina attraverso una ridefinizione delle relazioni tra cittadinanza, mobilità e territorio espressa da una realtà territoriale, quella dell’UE, costituita da tre anelli concentrici.32 L’anello centrale è costituito dai primi quindici paesi aderenti all’Unione Europea, quello intermedio comprende i dodici nuovi stati di recente annessione, e quello esterno gli stati che confinano direttamente con questi ultimi come anche i paesi nordafricani, tra i quali la Libia. Tale “modello di un confinamento concentrico”, come lo definisce Alessandra Sciurba, spiega la stretta connessione tra le politiche di esternalizzazione dei confini europei e quelli che vengono chiamati i paesi terzi sicuri, tra i quali la Libia ha un ruolo importante, coinvolti nei rimpatri e nelle deportazioni dei migranti non autorizzati.33 Al fine di adempiere al suo ruolo nell’ambito del terzo anello concentrico, la Libia ha messo in discussione uno dei principi fondamentali sui quali si è basata, negli anni, la sua politica di apertura all’Africa, vale a dire la libertà di movimento interafricano (con l’introduzione del reato di emigrazione clandestina), tra l’altro condivisa anche dagli altri paesi del Maghreb oggi coinvolti nell’impegno a difendere le frontiere di un altro continente, l’Europa. Ma qual è, allora, il territorio dell’Europa? Come è definibile il suo perimetro? Dove sono i suoi confini? La ricerca di una risposta a questo quesito fa emergere i progressivi spostamenti dei confini ideali dell’Unione Europea, sempre più a sud, oltre il Mediterraneo, nel limite che separa il Nord Africa dai paesi subsahariani.34 I flussi transnazionali possono cancellare alcune sorte 32. Per un approccio critico alle politiche migratorie e frontaliere dell’UE, cfr. W. Walters, Mapping Schengenland: Denaturalizing the Border, “Environment and Planning D: Society and Space”, 5, 2002, pp. 561-580. 33. A. Sciurba, Campi di forza. Percorsi confinati di migranti in Europa, ombre corte, Verona 2009, p. 73 sgg. 34. O. Pliez, La frontiera migratoria tra la Libia e il Sahel. Uno spazio migratorio rimesso in discussione, in P. Cuttitta, F. Vassallo Paleologo (a cura di), Migrazioni, frontiere, diritti, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2006, pp. 65-82.

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di confini, ma non possono prevenire la creazione di nuovi che ricreano le divisioni lungo altre linee. I confini, allora, non sono scomparsi. Si sono ricollocati, o ridisegnati.35 In questo modo, l’esternalizzazione delle frontiere dell’UE, compiuta attraverso il ruolo assegnato agli stati nordafricani per filtrare le migrazioni verso l’Europa, può essere letta, accogliendo la riflessione di Étienne Balibar, come l’esportazione da parte europea della sua forma frontiera nelle periferie, nell’intento di trasformare il mondo intero in una estensione dell’Europa, in un’altra Europa, costruita sullo stesso modello politico.36 Con il contributo di Italia ed Europa, nell’ultimo decennio la Libia ha messo in pratica una pluralità di strategie di confinamento, mostrando come esse mettano in discussione, in periodo postcoloniale, la possibilità di qualsivoglia distinzione univoca tra metropoli e colonie, frantumandosi tale linea distintiva e ricomponendosi continuamente su scala globale.37 Innanzitutto, vi è stata la già menzionata introduzione, dal febbraio del 2007, dei visti d’ingresso per i cittadini africani (fatta eccezione per Egitto e Tunisia), accompagnata, fin dal 2005, dall’istituzione presso il ministero degli Interni dell’Agenzia per la sicurezza dei confini, della Guardia costiera e del Dipartimento contro l’immigrazione illegale. L’Italia, in particolare, contribuisce al finanziamento per i mezzi necessari al pattugliamento della costa libica. Tuttavia, la Libia ha circa milleottocento chilometri di costa, in buona parte disabitati, di cui solo cento riescono a essere controllati, mentre le partenze si spostano progressivamente, di conseguenza, sul litorale a est di Tripoli, tra Khums e Ziltan. Al riguardo, è interessante fare riferimento al fatto che i pattugliamenti finiscono a est, a circa quindici chilometri da Zuwarah, presso la località di Mellitah, proprio dove si trova l’imponente impianto di trattamento del gas di proprietà dell’Eni e della libica National Oil Company. E, proprio da Mellitah parte il gasdotto sottomarino GreenStream, di cui si è parlato, che 35. É. Balibar, Noi cittadini d’Europa? Le frontiere, lo stato, il popolo (2001), manifestolibri, Roma 2004; Id., Le frontiere della democrazia (1992), manifestolibri, Roma 1993. 36. Id., Noi cittadini d’Europa?, cit., in particolare pp. 23-36. 37. S. Mezzadra, La condizione postcoloniale, cit., p. 25.

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collega la Libia a Gela in Sicilia. Il gasdotto corre, allora, parallelo alla rotta che porta i migranti verso le coste italiane: mentre sulla superficie del mare l’Europa dispiega le sue forze militari per bloccare il transito degli esseri umani, otto miliardi di metri cubi di gas scorrono ogni anno silenziosi nei cinquecentoventi chilometri di condotti sui fondali di quello stesso mare. Una coincidenza, questa, che si fa icona per leggere le relazioni italo-libiche degli ultimi anni, dove si intrecciano interessi economici, legati soprattutto alle risorse petrolifere libiche, e volontà politiche contraddittorie e insite nella difficoltà dell’Europa a definir-si.38 Prima di concludere, vi è un’ulteriore strategia di confinamento che richiede una riflessione a sé. Si tratta della costruzione, in Libia, di luoghi di diversa natura per la detenzione dei migranti e che potremmo raccogliere, prendendo a prestito le parole di Federico Rahola, sotto la definizione di forma-campo.39 Alessandra Sciurba presenta alcune riflessioni interessanti riguardo all’affermarsi di una “teoria della forma-campo” che, elaborata a partire dal discorso di Hannah Arendt sui campi, è stata accolta da più parti come uno strumento interpretativo valido per una riflessione riguardo non solo i campi del XIX e del XX secolo, ma anche con riferimento alle forme assunte dai luoghi contemporanei di confinamento dei migranti.40 Più precisamente, la teoria della forma-campo, nelle parole del filosofo Giorgio Agamben, definisce tutti i campi, del passato e del presente, come “spazio in cui l’ordinamento normale è di fatto sospeso e in cui che si commettano o meno delle atrocità non dipende dal diritto, ma solo dalla civiltà e dal senso etico della polizia che agisce provvisoriamente come sovrana”.41 38. Il controllo della mobilità per mare è attuato anche attraverso l’Agenzia europea per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne dell’Unione Europea (Frontex), istituita dal regolamento (CE) n. 2007/2004 del Consiglio del 26 ottobre 2004 e che ha sede a Varsavia. Frontex ha operato nel Canale di Sicilia con due missioni, Nautilus I e Nautilus II, ed è attualmente in corso Nautilus III, che sta interessando la zona di mare tra Malta e Libia. Cfr. <http://www.frontex.europa.eu>. 39. F. Rahola, La forma campo. Per una genealogia dei luoghi di transito e di internamento del presente, “Conflitti globali”, 4, 2007, pp. 11-27. 40. A. Sciurba, Campi di forza, cit., p. 87 sgg. 41. Cfr. G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 1995, p. 195.

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La strategia di confinamento che assume la forma dei campi per i migranti appare chiara alla vista della mappa della Libia, già menzionata, e redatta dall’osservatorio Fortress Europe con Google Maps. Si contano una trentina di campi, disseminati prevalentemente lungo la costa e nelle oasi dell’entroterra. Si tratta, vogliamo ribadirlo, delle stesse oasi già fatte frontiera in periodo coloniale e oggi nuovi spazi di confinamento della mobilità umana. In particolare, nell’osservare la mappa dei campi per migranti di oggi, il nostro sguardo finisce per cadere sul designatore “Cufra”, il campo più a est del paese, al confine sudorientale con l’Egitto e con il Sudan, che già il rapporto della Missione europea in Libia del 2004 segnalava essere stato finanziato dall’Italia. È, infatti, in questo nome sulla carta che ritroviamo la possibilità ulteriore di riflettere sulla genealogia delle geografie relazionali italo-libiche tra colonialismo e postcolonialismo attraverso il riferimento alle strategie di confinamento. Infatti, la forma-campo non è nuova a Cufra. L’oasi conosce già nel periodo coloniale questa forma di confinamento, quando l’allora vicegovernatore della Cirenaica, Rodolfo Graziani, conduce con spietata durezza la riconquista italiana della Libia tra il 1921 e il 1931.42 In particolare, nel suo piano di riordino della colonia e di lotta contro la Senussia, Graziani adotta, nel maggio del 1930, un provvedimento particolarmente severo: il raggruppamento coatto delle popolazioni indigene della Cirenaica e la loro deportazione dal Gebel nel sud-bengasino e nella Sirtica attraverso la costruzione di campi di concentramento dislocati nella regione.43 Il 20 gennaio 1931, le truppe italiane comandate da Graziani bombardano e occupano anche Cufra. Emerge, allora, l’importanza di riconoscere l’origine coloniale della forma-campo: i campi di concentramento, infatti, nonostante la diffusa identificazione tra il totalitarismo tedesco e il campo, non furono un’invenzione nazista e nep42. Cfr. A. Del Boca, Gli italiani in Libia, cit., pp. 174-232. 43. Riguardo alla costruzione di campi di concentramento in Libia durante il periodo di occupazione coloniale italiana, cfr. E. Salerno, Genocidio in Libia. Le atrocità nascoste dell’avventura coloniale italiana (1911-1931), manifestolibri, Roma 2005. Interessante è anche una lettura del volume scritto dallo stesso comandante Graziani: La riconquista del Fezzan, Mondadori, Milano 1934.

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pure nacquero nel XX secolo, ma già nelle colonie europee d’oltremare.44 L’attenzione a questa strategia di confinamento rileva le contraddizioni sulle quali si fondano le attuali geografie relazionali italo-libiche tra memoria coloniale e attualità postcoloniale. Se ripensiamo al Trattato di amicizia del 2008, esso dovrebbe, come affermato nel suo Capo II, portare alla “chiusura del capitolo del passato e dei contenziosi” attraverso un esborso di 5 miliardi di dollari che l’Italia si è impegnata a pagare in venti anni,45 ma: come è possibile chiudere i conti con le atrocità coloniali, attuandone di nuove su quegli stessi territori e mediante le stesse strategie di confinamento? I campi costruiti in Libia e negli altri paesi del Maghreb con il finanziamento dell’Italia e dell’Unione Europea devono essere considerati una responsabilità europea.46 La dis-locazione del confine esterno meridionale dell’Europa in Africa e le variazioni di frontiera che lo esprimono nelle relazioni italo-libiche ci devono rendere consapevoli del fatto che non è più possibile ancorarci a una cartografia fatta di territori localizzati e frontiere geofisiche lineari. Tale geo-grafia si è definitivamente frantumata, riproponendosi in un nomos della terra inedito, che mette in crisi la distinzione binaria tra un dove in Europa e un dove in Africa, e si fonda invece sulla moltiplicazione e de-localizzazione delle frontiere, disseminate in una pluralità di luoghi di confinamento. dicembre 2010

44. J. Kotek, P. Rigoulot, Il secolo dei campi. Detenzione, concentramento e sterminio: 1900-2000 (2000), Mondadori, Milano 2001, p. 3; A.J. Kaminski, I campi di concentramento dal 1896 a oggi (1990), Bollati Boringhieri, Torino 1998, p. 38; A.D. Moses (a cura di), Empire, Colony Genocide. Conquest, Occupation, and Subaltern Resistance in World History, Berghahn books, Oxford-New York 2008. 45. Anche se questo denaro rientrerà in buona parte nelle tasche delle aziende italiane che svolgeranno lavori in Libia. 46. Su questo tema, è utile consultare il materiale cartografico e scritto messo a disposizione dal gruppo Migreurop: cfr. <http://www.migreurop.org>.

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Razze e colonie nella scuola italiana GIANLUCA GABRIELLI

1. Il colonialismo italiano Rispetto al colonialismo di grandi potenze come Inghilterra e Francia, quello italiano ha avuto una storia certamente breve e un’estensione territoriale ristretta. Iniziato tardi, negli anni ottanta dell’Ottocento, si è sviluppato con difficoltà sia per le scarse risorse che aveva a disposizione, sia per le forti resistenze opposte dalle potenze aggredite e dalle stesse popolazioni (Dogali, Adua) che ne hanno rallentato la crescita. Ripreso alla vigilia del primo conflitto mondiale con la conquista della Libia (completata solo nel primo decennio dell’epoca fascista), ha avuto il suo culmine con la conquista dell’Etiopia e la proclamazione dell’Impero nel 1936, per sgretolarsi rapidamente nel corso della Seconda guerra mondiale. L’espansionismo coloniale italiano raggiunge quindi la massima estensione quando le altre potenze coloniali stavano già pensando a come diminuire il coinvolgimento diretto e ha subìto la propria dissoluzione prima che la decolonizzazione investisse le grandi potenze come problema storico concreto. Ciò però non significa che la storia del colonialismo italiano abbia avuto un’importanza trascurabile. Questo vale sia ovviamente in relazione alle popolazioni che hanno dovuto subirne la violenza, sia in riferimento alla popolazione italiana, al percorso di nation-building cui ha concorso, alla crescita di una cultura dell’identità nazionale che si è nutrita anche di sentimenti di superiorità, timori e attrazioni verso l’alterità rappresentata proprio dalle popolazioni delle colonie. Le pratiche reali e simboliche di doaut aut, 349, 2011, 69-89

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minio sulle colonie e sulle popolazioni colonizzate hanno cioè costituito il materiale per la costruzione di stereotipi dell’alterità carichi di espliciti o impliciti giudizi di disvalore che hanno contribuito alla definizione dell’identità dell’italiano e che allo stesso tempo hanno rappresentato una delle direttrici principali di sviluppo del razzismo nazionale. Angelo Del Boca nel volume L’Africa nella coscienza degli italiani ricorda che in una famiglia su dieci sono presenti oggetti o ricordi provenienti dall’esperienza delle colonie.1 Aggiungiamo che in alcuni momenti della storia nazionale l’Africa è stata davvero sulla bocca di tutti, dalle due grandi sconfitte di Dogali e di Adua alle due campagne, vissute da gran parte della comunità nazionale come completamente vittoriose, di Libia ed Etiopia. In questi periodi, con tonalità e contenuti diversi, il discorso sul colonialismo e sull’“altro” ha costituito un elemento fondamentale della costruzione dell’identità nazionale e dell’immagine di sé degli italiani. Un discorso unilaterale e spesso menzognero, senza un accenno ai crimini, alle resistenze, agli insuccessi della conquista, pieno di retorica e invenzione. Un discorso comunque grandemente efficace. Per il modo peculiare in cui l’esperienza si è conclusa, dopo la Seconda guerra mondiale il discorso pubblico italiano sulle colonie è entrato nel silenzio e nell’oblio. Si è smesso di parlare di colonie proprio quando un dibattito serio sarebbe stato fondamentale per articolare un discorso autocritico sulle scelte del passato. La memoria ufficiale è stata affidata a ex funzionari nostalgici e il silenzio imbarazzato o la riproposizione di vecchi stereotipi hanno dominato il campo, aprendo la strada all’irrigidimento dell’immagine del “bravo italiano” ereditata dagli anni della propaganda e mai messa profondamente in discussione.2 Due aspetti della storia del colonialismo italiano si dimostrano di grande importanza per la nostra analisi: la violenza e il razzismo. La dimensione della violenza coloniale è stata all’epoca sot1. Cfr. A. Del Boca, L’Africa nella coscienza degli italiani. Miti, memorie, errori e sconfitte, Laterza, Roma-Bari 1992. 2. Cfr. Id., Italiani, brava gente? Un mito duro a morire, Neri Pozza, Vicenza 2005.

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taciuta dai protagonisti per evidenti ragioni di opportunità; questa reticenza si è poi protratta fino a tempi recentissimi e, nonostante l’evidenza documentaria, le resistenze anche istituzionali a prendere atto del passato sono state enormi. Basti pensare alla questione dell’uso delle bombe a gas, prima, durante e dopo la guerra fascista contro l’Etiopia. La lotta di Del Boca per far riconoscere pubblicamente tale verità storica è durata almeno trent’anni, durante i quali gran parte dell’accademia, delle istituzioni e della pubblicistica di potere ha negato pervicacemente, e quindi ribadito nell’opinione pubblica, l’idea di un colonialismo buono e rispettoso dell’altro. Relativamente agli elementi di razzismo dispiegatisi durante tutta la storia delle colonie, per quanto essi siano inscindibili dai crimini, è necessario fare un discorso a parte. Nella storia coloniale nazionale si è dispiegato dapprima un razzismo sociale come dispositivo reale e simbolico che ribadiva quasi “naturalmente” il dominio italiano; dal 1936, invece, è stato varato un razzismo di tipo diverso, di Stato, istituzionale, segregazionista e propagandato come cifra significativa della colonizzazione fascista. Proprio per questa caratteristica, perché dapprima considerato quasi “naturale” e poi addirittura vantato come elemento di civilizzazione fascista, il razzismo ha un’importanza paragonabile a quella dei crimini, ma ha avuto una fenomenologia pubblica opposta, non dissimulato come i gas o i campi di concentramento libici, bensì descritto, codificato e – dopo il 1937 – esaltato consapevolmente. Anche in questo caso gli studi, pur prodotti in ritardo, soprattutto negli ultimi vent’anni, non hanno mai trovato canali di comunicazione sufficienti per poter uscire dalla ristretta cerchia degli addetti ai lavori e produrre un dibattito che potesse divenire patrimonio condiviso dell’opinione pubblica. Riguardo al periodo coloniale disponiamo ormai di numerosi approfondimenti sull’immaginario e sulla propaganda. Essi hanno permesso agli studiosi di analizzare nel dettaglio i modi in cui lo stereotipo dell’Africa e dell’africano, insieme all’immagine di sé dell’italiano, si sono declinati sulle pagine dei quotidiani, nella pubblicistica in generale, nella memorialistica e nell’immaginario tout 71


court. Non tutti gli approfondimenti però risultano sistematici e manca ancora una visione d’insieme, anche se una prima sintesi si può leggere nelle pagine che Nicola Labanca vi dedica nel suo volume Oltremare.3 2. Il ruolo della scuola L’istituzione scolastica ha giocato un ruolo importante nella trasmissione delle informazioni, delle immagini e dei concetti relativi all’esperienza coloniale e all’esperienza dell’alterità che vi è connessa. Sui materiali scolastici e sulla pubblicistica di evasione per bambini, che ne costituisce un complemento essenziale, esistono già alcuni lavori di ricerca che permettono di farsi un’idea del ruolo della comunicazione didattica in tema di colonie e della sua importanza nella storia della formazione dei giovani. Gli approfondimenti però raramente sono stati prodotti in connessione con la storia generale dell’istituzione scolastica, pertanto è ancora difficile collegarli in una visione d’insieme di lungo periodo.4 Vediamo prima di tutto come l’immagine scolastica delle colonie si va formando nel sessantennio in cui lo stato italiano conquista i possedimenti. All’indomani dei primi insediamenti negli anni ottanta dell’Ottocento molti compilatori di libri scolastici includono subito l’argomento nelle pagine dei libri di lettura. Sono gli anni in cui i processi di nazionalizzazione delle masse diven3. Cfr. N. Labanca, Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, il Mulino, Bologna 2002. Un esempio di ricostruzione dell’“immagine coordinata” relativa al periodo della conquista dell’Etiopia è A. Mignemi (a cura di), Immagine coordinata per un impero: Etiopia 1935-36, Gruppo ed. Forma, Torino 1984. 4. A oggi possiamo già disporre di buoni sondaggi su periodi o temi specifici. A partire da N. Labanca, L’imperialismo coloniale e la Libia nei manuali scolastici italiani, in N. Labanca, P. Venuta (a cura di), Un colonialismo, due sponde del Mediterraneo, CRT, Pistoia 2000; N. Labanca (a cura di), La Libia nei manuali scolastici italiani (1911-2001), IsIAO, Roma 2003. Si vedano anche, per il periodo della guerra d’Etiopia: R. Bottoni, La “marcia da Roma” a scuola. Fascisti e cattolici per la “civiltà”, in R. Bottoni (a cura di), L’impero fascista. Italia ed Etiopia (1935-1941), il Mulino, Bologna 2008, pp. 321-365; L. Pazzaglia, La Scuola Editrice e la politica imperiale fascista (1935-1943), “Pedagogia e vita”, 1, 2005, pp. 100-130. Sui manuali di storia dal 1945 a oggi: G. Leoni, A. Tappi, Pagine perse. Il colonialismo nei manuali di storia dal dopoguerra a oggi, “Zapruder”, 23, 2010. Sulla scuola elementare: G. Gabrielli (a cura di), L’Africa in giardino: appunti sulla costruzione dell’immaginario coloniale, Zanini, Anzola dell’Emilia 1998.

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gono cruciali e l’alterità coloniale è una delle palestre privilegiate sia per mettere alla prova la costruzione di un “diverso” sufficientemente dominabile – indigeno o selvaggio –, sia per costruire in opposizione a esso una delle dimensioni della recente identità nazionale. Ma la precocità nell’includere le nuove tappe dell’espansione non viene meno neppure a ridosso della conquista della Libia nel 1912 e a maggior ragione negli anni dell’invasione dell’Etiopia, quando diviene addirittura, per un paio di anni, il tema cruciale della vita scolastica.5 Si tratta di una crescita progressiva di attenzione all’argomento che è attestata anche dalla percentuale di pagine che vi sono dedicate: i sommari riscontri quantitativi emersi dalle ricerche di Finaldi sulla Libia confermano le impressioni che già erano state avanzate in altre occasioni.6 L’immagine che ne scaturisce è articolata per i diversi livelli di scuola, non solo nel senso della progressiva difficoltà delle nozioni insegnate, ma anche della loro funzione in relazione alle diverse classi sociali dei destinatari e quindi al diverso ruolo che gli scolari avrebbero dovuto assolvere rispetto alla colonia. Gli alunni delle scuole elementari erano tutt’al più destinati a divenire semplici manovali ed era pertanto sufficiente un’immagine generica fatta di orgoglio della missione civilizzatrice e di stereotipi sui selvaggi. Nella scuola media, preposta in teoria a preparare possibili funzionari di grado esecutivo, comincia a comparire qualche dato di informazione sui prodotti e sulle caratteristiche reali del territorio. Nella scuola superiore, infine, pur non cessando la propaganda, i dati di realtà crescevano tanto da non escludere la comunicazione dei problemi e dei limiti della colonizzazione.7 La gamma dei temi che emergono è ampia e comprende prima di tutto le motivazioni della politica espansionista. Da una parte, i popoli cui si rivolge l’espansione risultano sempre oggetto di do5. La circolare del ministro dell’Educazione nazionale Bottai del 23 novembre 1936, “Tutta la vita italiana deve essere portata sul piano dell’Impero”, non rimase lettera morta. 6. Cfr. G. Finaldi, La Libia nei manuali scolastici italiani (1911-1960), in N. Labanca (a cura di), La Libia nei manuali scolastici italiani (1911-2001), cit., pp. 68-71. 7. Cfr. N. Labanca (a cura di), La Libia nei manuali scolastici italiani (1911-2001), cit.

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mini vessatori, feudali e particolarmente disumani, per cui la conquista risulta in parte una liberazione (nel Corno d’Africa dai regimi feudali e schiavisti, in Libia dal dominio dei turchi). Dall’altra, la nazione viene presentata come portatrice di diritti e di prestigio che devono essere difesi nelle relazioni con le altre potenze occidentali; così l’espansione in Eritrea, in Etiopia e poi in Libia sono presentate come l’inevitabile impegno della giovane nazione ad affermare diritti a risorse e territori che altrimenti finirebbero nelle mani delle potenze rivali con perdita di prestigio e di sicurezza. Emergono subito anche altre tematiche che avranno una lunga vitalità. In occasione della guerra di Libia trionfa l’idea della romanità imperiale che ritorna sui luoghi che erano stati suoi duemila anni prima e sui quali vanta una specie di diritto inalienabile; il fascismo farà propria e amplificherà ulteriormente questa idea di un ritorno sulle terre che erano fertili in passato e che solamente la nuova presenza italiana può restituire a un rinnovato benessere. Anche il racconto delle colonie come terre di popolamento ove indirizzare l’emigrazione nazionale compare precocemente, ma ha il suo massimo sviluppo solo in epoca fascista, quando il violento completamento della conquista dell’entroterra libico, unito all’affermazione anche politica delle teorie popolazioniste di Corrado Gini, ne fornisce i maturi presupposti. È il mito dell’italiano che, non avendo terre da mettere a coltura in patria, invece di emigrare in altre nazioni del Nord Europa e delle Americhe e arricchirle con la propria presenza, si trasferisce nella colonia e la feconda con le proprie braccia.8 Ma il mito che tutti gli altri tiene legati è quello della civilizzazione. L’Italia e gli italiani conquistano le colonie per portare la propria “civiltà superiore”, per compiere una missione civilizzatrice verso popoli ancora “selvaggi” o “barbari”, verso popolazioni che professano “religioni primitive”, verso “regimi feudali” che rifiutano il progresso e la modernità. Questa sicuramente è la 8. Ciò rimase in gran parte un mito, tanto che le presenze di italiani nelle colonie nazionali non hanno mai avvicinato quelle di italiani nelle colonie africane degli altri stati europei. Cfr. N. Labanca, Oltremare, cit., p. 369 sgg.

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motivazione di fondo di tutti i discorsi sulla conquista e sulla presenza oltremare. Gli altri – di volta in volta i selvaggi, i primitivi o gli infedeli – vengono descritti utilizzando svariati registri: dal paternalismo umanitario che li presenta come bambini, al nazionalismo che li vuole ascari fedeli, al razzismo che li vede solo come disumani o indiavolati nemici, animali selvaggi o, soprattutto nella seconda metà degli anni trenta, anche biologicamente inferiori. La matrice comune dello sguardo inferiorizzante sull’indigeno è quella messa a punto dagli antropologi sul “negro”, i quali, quando descrivono le razze extraeuropee, ne mostrano l’inesorabile inferiorità.9 Questo sguardo antropologico sull’uomo africano costituisce così il senso comune “scientifico” cui in ultima istanza ogni descrizione dell’avventura coloniale italiana fa esplicito o implicito riferimento. Esso compare e accompagna la scuola italiana in modo sempre più formalizzato nelle cosiddette “tavole delle razze”: schemi, disegni e fotografie antropologiche incluse nei testi di geografia con la descrizione positivistica delle caratteristiche somatiche e culturali delle popolazioni. Il culmine di tale processo si rinviene in quel manuale di discriminazione razziale che è stato Il secondo libro del fascista, testo di dottrina fascista per le scuole medie interamente dedicato al razzismo e diffuso dal ministero dell’Educazione nazionale a partire dal 1939.10 D’altronde, durante il sessantennio successivo all’unità non emerge sempre un’immagine uniforme; è importante ricordare che nel periodo ottocentesco vengono pubblicati anche libri scolastici che hanno uno sguardo di opposizione, critico rispetto all’espansione. Tale difformità però scompare quasi completamente già con la conquista della Libia; in seguito si possono ancora trovare rare voci critiche sulla redditività dei possedimenti o sull’efficacia del controllo del territorio, che tuttavia scompaiono rapidamente dopo la metà degli anni venti, nel corso della fascistizzazione della scuola. 9. Cfr. R. Maiocchi, Scienza italiana e razzismo fascista, La Nuova Italia, Firenze 1999, p. 157. 10. PNF, Il secondo libro del fascista, Mondadori, Verona 1939. Cfr. Centro Furio Jesi (a cura di), La menzogna della razza, Grafis, Bologna 1994, pp. 196-197.

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3. La scuola della Repubblica Con la Seconda guerra mondiale la storia coloniale italiana si interrompe. Il Corno d’Africa passa in mano inglese fin dal 1941, mentre l’occupazione della Libia termina nel 1943. Ai tavoli di pace la diplomazia italiana tenta di perorare la causa della conservazione delle colonie prefasciste, Libia, Eritrea e Somalia; per questa soluzione si spendono non solo le destre, i politici eredi del liberalismo e i democristiani, ma inizialmente anche uomini come Parri, Nenni e Togliatti. Nel 1949 però viene deciso altrimenti e all’Italia è riconosciuto unicamente il mandato decennale sulla Somalia fino al 1960, anno dell’indipendenza.11 Come recepisce la scuola le novità di questa nuova fase? Se in passato gli estensori dei manuali sono stati solerti nell’integrare i loro testi con il tema coloniale, ora non lo sono altrettanto nell’escluderlo. La speranza di conservare la colonia, che rimane viva per alcuni anni, convince gli estensori dei testi a esprimere l’auspicio di conservare quelle meno compromesse – almeno formalmente – con la conquista fascista. Non si tratta solamente di comunicare la possibilità e la speranza di mantenere delle colonie italiane. L’insieme delle conoscenze sull’alterità che attorno alle colonie era cresciuto e aveva costituito uno dei nuclei pedagogici dell’identità nazionale non era cancellabile con un tratto di penna. In parte i materiali didattici hanno un’inerzia che spinge insegnanti e preparatori di testi a riproporli per anni, forti dell’abitudine che si crea a insegnare secondo schemi già sperimentati; questa tendenza è ancora più forte in quegli anni, in cui gran parte dei testi sono frutto di veloci ristampe, dopo una censura degli aspetti più evidentemente compromessi con la cultura del regime. Ma soprattutto incide il fatto che la perdita delle colonie è avvenuta senza alcun dibattito pubblico che possa favorire una prima messa in discussione dell’immaginario coloniale, dei materiali e degli stili comunicativi che hanno trionfato nel decennio precedente. A eccezione dell’Etiopia, percepita evidentemente come qualcosa di difficilmente scindibile dal regime fascista, i compilatori di 11. Cfr. A. Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale. Nostalgia delle colonie, Mondadori, Milano 1992.

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testi considerano le colonie italiane proprio come la propaganda scolastica le ha sempre presentate: frutti “del sangue e del sudore” di un colonialismo buono e civilizzatore, e di colonizzatori costruttori di strade e portatori di giustizia. Così, analizzando i libri di testo stampati a ridosso della conclusione della Seconda guerra mondiale, emerge un immaginario coloniale dapprima rivendicativo e speranzoso, poi addolorato per la “sottrazione” delle colonie al tavolo della pace. L’effetto è la riproposizione di gran parte delle idee e degli stereotipi messi a punto nel sessantennio precedente, depurati soltanto delle più palesi manifestazioni fasciste, come il razzismo di Stato e la difesa dei diritti sull’Etiopia. La continuità quindi è la dimensione dominante. Alcuni esempi a sostegno: Non un desiderio di conquista, ma il bisogno di dare una dimora e un lavoro sicuro al sovrappiù della nostra popolazione, ci spinse a cercar terre nella parte orientale dell’Africa, ove per primi si erano addentrati dei valorosi esploratori italiani, quali Vittorio Bòttego, Giovanni Miani e altri. [...] Fu conservata all’Italia quella che ormai era chiamata Colonia Eritrea: piccola, ma resa preziosa per noi dal sangue dei nostri soldati e dal lavoro dei nostri coloni, che vi han portato la civiltà e il benessere. [...] Nel 1911-12, occupò anche la Libia. [...] In queste sue colonie, portò felicemente l’industrie e l’intelligente lavoro de’ suoi figli, creandovi una prosperità che le popolazioni indigene non avevano mai goduta per l’innanzi. Vi acquistò così un diritto sacro, che nessuno ci può negare senza commettere un delitto di lesa maestà. [...] Il lavoro italiano, messosi in lotta con il deserto, riuscì a restituirla all’antica prosperità che aveva avuto sotto i Romani.12 In questo sussidiario del 1948, semplificati e sintetizzati nelle pagine di storia e geografia per allievi di quinta elementare, gli ele12. Citazioni tratte da Sussidiario Italia, L’Italia editrice, Roma 1948.

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menti della propaganda si ritrovano tutti: migrazione laboriosa nel solco di Roma, portatrice di civiltà e benessere agli indigeni. I quali, quando resistono all’azione civilizzatrice, sono “orde di guerrieri” che “assalgono”, guidati dai loro capi che “rinnegano i trattati” oppure – è il caso degli arabi in Libia – sono sobillati dai turchi a portare guerriglia. Per completare il quadro vediamo come è presentata, nello stesso volume, l’alterità nelle pagine riassuntive della geografia antropica. Nel paragrafo intitolato Le razze umane e la loro civiltà, con il sottotitolo Vari tipi della stessa umanità, compaiono le foto del viso e del busto di cinque rappresentanti delle “razze”: il rappresentante di quella bianca è al primo posto, sorridente, ripreso di tre quarti con giacca e cravatta, mentre il rappresentante della “razza negra” è ripreso di profilo nella tipica posa spersonalizzante dell’antropologia fisica o della fotografia criminale. Nelle brevi didascalie si legge: “1° Razza bianca o caucasica, che è la più civile e la più sparsa nel mondo”.13 E più oltre: “Le popolazioni indigene [...] appartengono alla razza negra, che è la più arretrata in fatto di civiltà. Tra esse ve ne sono addirittura alcune, come i Boscimani e i Niam Niam, ancora selvaggi, che sono piccoli e brutti e scarsamente intelligenti”.14 Qui emerge con evidenza dove si situa il “noi” e chi siano gli “altri”. La fattura e la disposizione delle immagini fotografiche esemplificano giudizi e gerarchie organizzati su criteri estetici e di intelligenza, illustrano i diversi livelli di sviluppo evolutivo. Invece, in testi di geografia più complessi, destinati agli studenti delle scuole medie, è possibile trovare passi come questo: “La razza bianca, alla quale noi apparteniamo, ha caratteri che la distinguono da tutte le altre. Essa è in certo modo come il sale della storia e la sorgente della civiltà. [...] Gli uomini della razza bianca insegnarono al mondo tutte le scienze, dall’agricoltura alla navigazione, dalla matematica alla medicina”.15 13. Ivi, pp. 160-161. 14. Ivi, p. 192. 15. V. Bazzicalupo, Corso di geografia per le scuole medie inferiori, vol. I, Geografia generale, De Simone, Napoli 1945, pp. 126-127.

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Poco prima, la descrizione dei caratteri fisici segnalava che gli individui di razza bianca “si distinguono per l’armonia dei lineamenti, la proporzione delle membra”. Se in quinta elementare si parlava direttamente di bruttezza degli africani, qui si articola il criterio estetico in modo meno ingenuo ma ugualmente plateale. Una tradizione di studi di lunga data, irrigidita dalla recente stagione del razzismo di Stato fornisce ai compilatori le idee e i materiali antologici per supportare questa classificazione dell’umanità. La gerarchia delle civiltà è netta e indiscutibile; e se anche non viene fatta derivare direttamente e biologicamente dall’essenza “razziale”, l’indipendenza da essa è solo formale. Nei paragrafi seguenti infatti si articola il tema delle religioni, anch’esse poste sulla scala delle civiltà: “Ne viene di conseguenza che la civiltà sia tanto più elevata quanto più nobile ed alto è il concetto che gli uomini si formano della divinità”.16 Infine, viene presentato il tema del lavoro, considerato secondo criteri evoluzionisti come elemento centrale per descrivere in parallelo gli stadi della storia dell’umanità e i livelli della civiltà dei popoli: “selvaggi” in quanto cacciatori-raccoglitori, “barbari o semicivili” gli allevatori nomadi, “civili” gli agricoltori. Non tutti i manuali di geografia sono organizzati così coerentemente in modo eurocentrico, ma l’impressione è che la maggioranza mantenga questa cornice di fondo. Alcuni pongono l’accento maggiormente sulla religione come matrice attraverso cui misurare la civiltà dei popoli (e quindi esaltano il ruolo positivo esercitato dai missionari per la civilizzazione); altri propongono un’ampia sezione degli indici antropometrici che stanno alla base della descrizione e conseguente ripartizione dell’umanità in “razze”. Esistono anche alcuni volumi che si mantengono più neutri, ma l’idea di una gerarchia tra i popoli pulsa anche in essi. Un altro genere di sussidi scolastici da cui affiora paradigmaticamente la grande continuità con il passato su questi temi è l’antologia per le scuole elementari. Sono libri di lettura che in parte vengono scritti dagli autori, in parte poggiano su materiali anto16. Ivi, p. 135.

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logizzati da raccolte precedenti o da volumi esistenti. Ebbene, i brani sugli ambienti dell’Africa, sugli africani, sui colonizzatori e sugli esploratori compongono l’immagine dell’alterità che circola tra i banchi. Esotismo, “senso dell’avventura” e curiosità per lo “sconosciuto affascinante” emergono con forza fin dai testi ottocenteschi costituendo un’immagine indistinta di questi luoghi selvaggi e favolosi su cui sognare. L’immagine degli africani ovviamente ricalca gli stereotipi già illustrati. A volte si tratta di un’immagine benevola nei confronti di coloro che in qualche modo si sono posti sotto l’egida del bianco, dell’italiano, dell’europeo, altre volte emerge con forza l’alterità di cui costituiscono un simbolo vivente. Così in un’antologia troviamo un brano sulla caccia grossa di Zammarano,17 in un’altra L’elefante, dell’esploratore Carlo Piaggia,18 in un’altra ancora Un cacciatore di elefanti, di Antonio Cecchi;19 sono gli scrittori di vent’anni prima, a volte gli esploratori di cinquant’anni prima e più. Altre volte sono gli scrittori autori per l’infanzia attivi nei trent’anni precedenti che costituiscono la miniera da cui attingere: Fernando Palazzi racconta il Sahara, le termiti e gli usi “curiosi” delle donne africane atti a suscitare moderato ribrezzo,20 Eugenia Graziani Camillucci racconta l’evoluzione storica della forma della casa e vi sovrappone, coerente con la cultura dell’epoca, un giudizio di civiltà: “Nei paesi molto caldi, le popolazioni, non ancora incivilite, costruiscono case col tetto di paglia, oppure coperte con le foglie di un grosso albero che si chiama cocco. Sono capanne poverissime; eppure quegli abitanti vi stanno contenti. L’uomo però, di secolo in secolo, con lo sviluppo della civiltà, costruì case sempre più solide, grandi, comode, belle; costruì chiese, scuole, teatri, palazzi”.21 17. V.T. Zammarano, La caccia grossa, in P. Gigli, G. Martelli, Nel giardino fiorito, V classe, La Fiamma, Milano 1949. 18. C. Piaggia, L’elefante, in AA.VV., Gemme e fiori, V classe, Alfa, Milano 1946. 19. A. Cecchi, Un cacciatore di elefanti, in A. Bronzini, T. Galbiati, Il giorno sereno, V classe, Vallardi, Milano 1946. 20. F. Palazzi, Un ingegnoso modo di attinger acqua, in B. Grella, L’età fiorita, V classe, Sei, Torino 1949, pp. 86-87. 21. E. Graziani Camillucci, La casa, in AA.VV., Fraternità, III classe, Signorelli, Milano 1948, pp. 129-130.

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Vi sono le descrizioni degli uomini e delle donne africane: a volte gli abitanti delle “nostre” colonie (i pastori della Somalia),22 a volte presenze che vogliono funzionare come curiosità antropologiche come i pigmei23 o i villaggi trogloditi della Libia,24 fino ad arrivare alle descrizioni ottocentesche come questa dei “negri”, riduzione da Gerard de Rialle, di cui riporto l’incipit: “Il negro è leggiero, gaio, burlone, portato ai divertimenti, pazzo per la danza, per il chiasso, per gli ornamenti bizzarri e vistosi. Vanitoso fino all’inverosimile, prova il bisogno di comandare, di parlare ad alta voce”.25 4. Alla vigilia del Sessantotto Con quell’insieme eterogeneo di mutamenti nella società, nella cultura e nella scuola, che precede e segue il 1968, si attivano percorsi di critica e denuncia del carattere reazionario della gran parte dei libri di testo e, parallelamente, dibattiti e proposte alternative che progressivamente contribuiscono a modificare – almeno parzialmente – il panorama editoriale. Per avere un’idea del panorama messo in discussione in quegli anni possiamo prendere uno tra i più diffusi sussidiari della scuola elementare, quello diretto da Alberto Manzi. Esso non presenta sostanziali differenze di impostazione riguardo al tema coloniale. In parte la causa è ravvisabile nel ritardo degli studi e perciò della loro semplificazione didattica, ma l’impressione è che manchi del tutto la volontà di modificare il punto di vista sull’argomento. Manzi, per esempio, propone una copertina suggestiva che mostra il passaggio di un testimone – un rotolo di pergamena – da un 22. N. Puccioni, Pastori della Somalia, in AA.VV., Prime vie del sapere, IV classe, Le Monnier, Firenze 1947, pp. 166-167. 23. Il racconto è di Attilio Gatti, in un caso nella foto allegata è riconoscibile l’antropologo razzista Lidio Cipriani accanto a un pigmeo con la didascalia che recita: “Un pigmeo cinquantenne, alto m. 1,24, in compagnia di un europeo” (A. Gatti, Tra i pigmei africani, in M. Puccini, V. Masselli, Soldimaggio. Letture per la quinta classe, Sei, Torino 1945, pp. 214217). 24. Anonimo, Villaggi trogloditi, in A. Martini, Primerose, V classe, La prora, Milano 1952, pp. 125-126. 25. G. de Rialle, I negri, in B. Grella, L’età fiorita, cit., pp. 78-79.

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ragazzo bianco a un ragazzo nero mentre corrono sull’arcobaleno; l’immagine è nuova e promettente, anche se mantiene una certa ambivalenza: si vuole sicuramente indicare che nella storia planetaria è giunto il momento dell’Africa, ma quel testimone culturale passato dalle mani del bianco non può che ricordare la solita idea della civilizzazione portata dall’Occidente. Le pagine di storia non fanno che confermare questa seconda interpretazione; il capitolo sulle guerre coloniali del periodo liberale ripete gli stereotipi che abbiamo visto: le colonie erano necessarie ad accogliere i migranti, il governo italiano era pacifico e fu spinto alla guerra dagli indigeni, gli africani sono infidi (“Menelik, però, non era uomo da mantenere i patti”), i “nostri soldati” furono eroici, la conquista della Libia si pose in continuità ideale con la colonia romana.26 Nulla di nuovo sotto la copertina. Allargando lo sguardo ai testi per le scuole medie vediamo che la situazione è simile: alcune aperture, in parte ancora contraddittorie, in un panorama in cui regna un grande senso di continuità. Prendiamo il manuale di storia per le scuole medie di Paolucci pubblicato nel 1966. Si usa ancora il possessivo per indicare le colonie e le battaglie in cui sono protagonisti gli italiani: “la nostra prima colonia”, “i nostri soldati”; l’asimmetria è evidente anche nella descrizione dei conflitti: gli italiani “allargano zone d’occupazione” o, quando vengono sconfitti, mostrano un eroismo disperato, mentre gli abissini “trucidano”. Cominciano a comparire dati di realtà che erano sempre rimasti nascosti, come la resistenza araba durante la conquista della Libia, e scompaiono elementi di propaganda nazionalista, come il richiamo alla continuità con l’antica Roma, ma l’idea della colonia come sbocco per l’emigrazione viene ancora indicata tra le cause determinanti dell’espansione. In generale però l’impressione è che si stiano abbassando i toni. Si è venuta affermando, cioè, una modalità diversa di guardare all’esperienza coloniale, passando dall’esaltazione al ridimensionamento. Ora l’espansione viene vista in termini più coerenti 26. A. Manzi, Il ponte d’oro. Sussidiario per la classe 5a, Ave, Roma, 19746, pp. 90-91.

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con il peso comparato dell’Italia rispetto alle altre potenze: per citare un manuale, essa è “frutto più della frustrazione e della miseria che della ricchezza e della potenza”.27 Questa attenuazione dei toni, risultato anche del mancato dibattito sulla decolonizzazione, porta la maggior parte dei manuali “a scivolare verso una dimensione meno eroica, per un verso mantenendo vivo il mito degli italiani brava gente, alacri lavoratori e vittime casomai di decisioni altrui, specie sotto Mussolini, per un altro tacendone i misfatti”.28 Insomma, nulla spinge ancora in questo periodo a mettere in discussione l’ottica italocentrica con cui si guarda il colonialismo. Anche i testi di geografia nella parte dedicata all’elemento umano sono pieni di segnali forti di continuità. Prima di tutto è l’immagine fotografica dell’alterità che è rimasta sovente quella degli anni trenta, con le foto delle “razze” o dei “tipi umani” che comunicano gerarchie “evidenti” e suggeriscono inferiorità fisiche e culturali. L’inerzia con cui queste immagini compaiono immutate per decine di anni fa davvero impressione. Scattate negli anni trenta o ancor prima, in contesti di spedizioni antropologiche profondamente eurocentriche e spesso francamente razziste, sono riprese e riutilizzate, in anni di pieno neocolonialismo, al servizio di un “discorso silenzioso” che, in una comunicazione didattica, colpisce in modo diretto e non lascia possibilità di argomentazione o di replica. Prendiamo per esempio il volume di Toschi. Qui le foto sembrano essere riutilizzate senza neppure rimettere mano alle didascalie, tanto che sotto l’immagine di un africano possiamo leggere: “Negro puro (del Senegal)”. Ma anche all’interno dei testi si trovano passaggi significativi: nella descrizione dei caratteri della “razza bianca” l’autore passa dagli elementi somatici a quelli culturali in questi termini: “Ne sono caratteristiche il colorito piuttosto chiaro, [...] labbra sottili, capelli ondulati, spirito d’iniziativa, di praticità, massima capacità di adattamento e dominio dei più diversi ambienti”; nella descrizione dei “mongoloidi”, spe27. F. Traniello, Corso di storia, Sei, Torino 1974, vol. III, p. 300, citato in G. Leoni, A. Tappi, Pagine perse, cit., p. 160. 28. G. Leoni, A. Tappi, Pagine perse, cit., p. 160.

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cificando che sta parlando dei “tipi più puri”, elenca “i capelli lisci neri, lo scarso sviluppo di barba e baffi, lo spirito pensoso, fatalistico, sprezzante della vita individuale propria come dell’altrui”; i “negroidi” invece hanno “labbra tumide, statura alta, prontezza di riflessi e istintiva attitudine alla ripetizione esatta ma meccanica degli atti appresi”; infine, parlando dei “gruppi misti o razze miste”, descrive i dravidi come “di colorito scurissimo, poco sviluppati somaticamente e intellettualmente”.29 5. Dopo il Sessantotto A partire dal Sessantotto le spinte che arrivano dalla società sono troppo forti per lasciare tutto come prima. Proprio sul tema dei libri di testo si aprono grandi polemiche, il loro carattere conservatore e reazionario diviene oggetto di critica e di indagini, mostre, libri, che nel giro di pochi anni mutano decisamente l’orizzonte. Nelle scuole elementari, e non solo, prendono forza iniziative come il rifiuto dell’adozione del libro di testo, sostituito dalla costruzione di un curricolo più composito, adattato alle condizioni degli studenti e aperto ai problemi dell’attualità.30 Nel giro di pochi anni questo vasto movimento impone dal basso una rapida evoluzione dei temi scolastici e un tumultuoso aggiornamento del panorama editoriale. Difficile dare conto nel dettaglio di un cambiamento tanto rilevante. Vediamo, però, due ambiti particolari da cui si possono trarre alcune linee generali. Prima di tutto l’insegnamento della storia. Occorre subito segnalare che nel 1972 nella collana “I documenti della storia” della Loescher esce il volume di Giorgio Rochat Il colonialismo italiano.31 La novità del testo è fondamentale. Con esso entra finalmente nel panorama editoriale una raccolta di documenti commentati sul colonialismo italiano, aggiornati agli 29. U. Toschi, Corso di geografia generale, Zanichelli, Bologna 19706, pp. 313-314. 30. Tra le numerose pubblicazioni, cfr. A. Alberti, G. Bini, L. Del Cornò, F. Rotondo, I libri di testo nella scuola elementare, Editori Riuniti, Roma 1973; G. Sansone, M. Marelli Vaccaro (a cura di), La storia dannosa: indagine sui libri di storia adottati nelle scuole medie, Emme, Milano 1972. Per una panoramica sui dibattiti aperti in quel periodo, cfr. M.L. Tornesello, Il sogno di una scuola, Petite plaisance, Pistoia 2006. 31. Cfr. G. Rochat, Il colonialismo italiano, Loescher, Torino 1972.

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sviluppi più recenti della ricerca e fuori da qualsiasi ottica apologetica, dove si documentano il razzismo, le deportazioni, i crimini del colonialismo. Inoltre, per cogliere appieno l’importanza di questa operazione, bisogna collegarla al contesto in cui uscì: in questo periodo gran parte del rinnovamento della didattica è avvenuto con gli insegnanti impegnati a costruire percorsi didattici alternativi a quello che offrivano i libri di testo; in questo senso i documenti di storia del colonialismo raccolti da Rochat sono stati usati come tessere per una didattica alternativa sull’espansione italiana. Solo negli anni seguenti la novità dei temi retroagisce anche sulla preparazione di una parte dei nuovi libri di testo. Da quel momento inizia quindi il faticoso – e sempre ritardato e contrastato – aggiornamento dei manuali di storia con le acquisizioni che veniva offrendo una parte della storiografia – quella impegnata a “decolonizzare” il passato – insieme al mutamento dello sguardo pubblico verso il passato imperialista in generale. Come sostengono Leoni e Tappi, “nonostante il progredire (lento) degli studi coloniali, fino a tutti gli anni ottanta si contano sulla punta delle dita i manuali che denunciano gli orrori del colonialismo italiano” e anche nel decennio successivo “permangono residui lessicali emblematici”.32 D’altronde occorre sempre ricordare che la società italiana stessa rimane in questi anni più arretrata della scuola se si pensa che ancora nel 1996 la polemica sull’uso dei gas durante la guerra d’Etiopia campeggiava sulle pagine del “Corriere della Sera” mentre almeno nei libri di testo queste acquisizioni, ormai vecchie di quarant’anni, si potevano considerare acquisite. L’altra prospettiva da cui guardare i mutamenti occorsi negli anni settanta è quella della scuola elementare. Nei materiali didattici si fa largo, per esempio, il tema inedito della colonizzazione come sfruttamento da parte degli europei sugli altri popoli, ma sembra che questa presa di coscienza emerga maggiormente nelle pagine dedicate alla geografia mentre non ha delle grosse ricadute nella redazione della sezione di storia e soprattutto non comporta una riorganizzazione della storia nazionale. In Tempo pre32. G. Leoni, A. Tappi, Pagine perse, cit., pp. 161 e 163.

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sente si legge ancora: “Per l’Italia la conquista di terre in altri continenti poteva contribuire a risolvere il problema della fame: le grandi estensioni di terre africane avrebbero potuto ospitare un gran numero di lavoratori italiani con le loro famiglie”. Mentre poche pagine dopo, nella sezione della geografia, abbiamo addirittura un paragrafo, intitolato Sono stati sfruttati dagli Europei, dedicato a spiegare la povertà attuale delle ex colonie con lo sfruttamento delle nazioni colonialiste. La pagina è illustrata con il planisfero che riproduce L’ex impero coloniale europeo ma che non segnala le colonie italiane, incluse tra quelle anonime che la legenda mette sotto la categoria Altri stati.33 L’esempio è abbastanza paradigmatico. Il grande movimento di idee che sta investendo anche il sapere scolastico agisce prima di tutto sui contenuti generali, sulle grandi mozioni di principio, ma si arresta proprio dove è il ruolo dell’Italia che dovrebbe essere messo in discussione. Quel “noi”, che lentamente sparisce dalle trattazioni storiche, continua ad agire in silenzio mettendo un po’ al riparo la storia del passato italiano dagli strumenti di critica che penetrano attraverso i grandi dibattiti di idee. Per trovare una netta inversione di punto di vista bisogna andare a cercare fuori dai sussidiari, in quei materiali che fioriscono in appoggio alla didattica che contesta i libri di testo tradizionali. Nell’enciclopedia Io e gli altri, per esempio, la colonizzazione italiana è trattata in un capitolo intitolato significativamente Fame e colonie e se ne parla anche in un altro capitolo dedicato alla storia dell’Etiopia. Qui il centro non è più l’Italia coloniale, ma l’Etiopia, che lotta per difendere la propria indipendenza. Ecco come viene descritto Menelik: La restaurazione dello stato fu opera di un intelligente e attivo sovrano, Menelik, che seppe giovarsi degli aiuti, per nulla disinteressati, dell’Italia. Il governo italiano pensava che questi aiuti gli dessero il diritto di esercitare una stretta forma di 33. AA.VV., Tempo presente, classe V, Aristea, Milano 1971 (per la storia: R. Camera, A. Fontan; per la geografia: G. Giardiello), pp. 74-75 e 139.

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controllo (protettorato) sullo stato etiopico. Di fronte alle resistenze di Menelik si giunse alla guerra, ma l’esercito etiopico seppe ancora una volta difendere il paese dall’invasione straniera.34 Cambiano anche le pagine delle antologie per la lettura. Qui entrano velocemente i temi della lotta antirazzista statunitense, soprattutto attraverso la poesia e la narrativa. Ai classici del passato si sostituiscono nuovi classici che sono riprodotti in numerose antologie: Langston Hughes, Geraldo Bessa Victor; poi gli spirituals, le vicende di Martin Luther King, anche brani dall’autobiografia di Malcolm X. Il bambino negro non entrò nel girotondo diventa uno dei testi più diffusi nelle antologie mostrando la scandalosa ingiustizia dell’esclusione razzista. E un altro luogo simbolico di costruzione dell’alterità diventano gli indiani d’America, le cui vicende sono raccontate ereditando il senso di avventura che in passato era riservato ai racconti esotici, ma adesso sempre collegato alla critica del loro sterminio fisico e culturale. Anche la fotografia, che in questi anni viene usata in maniera massiccia sostituendo in gran parte l’illustrazione, perde la connotazione white e si colora di visi di tutto il mondo; spesso viene usata strumentalmente per dare una patina di novità a discorsi sostanzialmente vecchi, ma l’impressione è che quelle immagini forzate a illustrare pagine di paternalismo cattolico abbiano comunque anche l’effetto di svecchiare l’immaginario fino a quel momento rigidamente italocentrico. Anche qui però rimane il limite individuato nelle pagine di storia e geografia: una parte cospicua di decolonizzazione dell’immaginario avviene pensando che il razzismo e lo sfruttamento coloniale siano cose altrui, criticabili proprio perché non chiamano in causa gli italiani. Un percorso quindi importantissimo di introduzione nella scuola dei grandi problemi globali e di un’ottica non

34. Etiopia: tra bianchi e neri, in AA.VV., Io e gli altri, vol. II, Le civiltà, I, La Ruota, Genova-Milano 1973, p. 13.

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più coloniale nel guardare l’alterità, ma con la limitazione di una rimozione del passato e delle proprie responsabilità storiche. È con questo percorso alle spalle che la scuola italiana arriva alla vigilia degli anni novanta, il momento in cui inizia la grande stagione dell’immigrazione. Lo spazio di questo saggio non permette di concludere il discorso, ovvero analizzare come la scuola stia attraversando questa nuova fase e come costruisca o critichi l’immagine dell’immigrato, dell’“extracomunitario”. Lasciamo ad altra sede anche il problema, ancora più complesso, di capire quanto la nuova immagine dell’immigrato sia tributaria delle diverse immagini dell’indigeno che abbiamo visto costruire ed evolversi a partire dall’Ottocento. Come punti fermi possiamo però ormai considerare acquisito che nel recente periodo repubblicano l’abbandono degli stereotipi di origine coloniale è stato lento e in gran parte passivo. La nascita di un’immagine diversa dell’alterità negli anni settanta spesso non ha implicato anche una presa di coscienza delle responsabilità nazionali del passato poiché la decolonizzazione della storiografia, prodottasi in ritardo rispetto alla precoce conclusione della storia coloniale nazionale, è passata solamente con difficoltà nei libri di testo, dopo una prima fase di sviluppo addirittura in contrapposizione a essi. Questo, dunque, l’immaginario scolastico ereditato alla vigilia degli anni novanta. Leggendo i testi prodotti dai bambini e dalle bambine coinvolti proprio in quegli anni nell’indagine di Paola Tabet ci pare di poter affermare che essi risultino abbastanza coerenti con i presupposti scolastici che siamo venuti analizzando. La vita degli Africani è una vita selvaggia. È molto diversa dalla mia. Io vivo in una città, e nelle case costruite in cemento. Io vado a scuola e studio, invece loro non hanno nessuna educazione e vivono in paesi sommersi dalle giungle e in capanne fatte di canne. Io ho la televisione e i videogiochi e da mangiare: carne ecc. Invece loro non hanno nessuna di queste cose tranne che da mangiare. Ma loro mangiano da selvaggi e mangiano solo banane. Io uso la macchina per muovermi o la 88


bicicletta invece gli Africani vanno sempre a piedi. Gli Africani sono gente povera. Qualche Africano muore anche perché prende delle malattie e non riesce a guarire perché non hanno medicine. Io invece quando prendo una malattia la posso sempre curare perché noi abbiamo le medicine. Secondo me la vita degli Africani è molto strana. Noi dovremmo rispettarli di più perché anche loro sono delle creature umane. Però hanno fortuna a vivere là senza industrie o altre cose. Però bisognerebbe educarli e dar loro una vita un po’ migliore. Trieste, v elementare.35

35. P. Tabet, La pelle giusta, Einaudi, Torino 1997, p. 74.

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Appendice di materiali a cura di GIANLUCA GABRIELLI

1. Negra (razza) NEGRA (razza – ). Razza umana che costituisce la gran maggioranza della popolazione dell’Africa. Caratteristiche principali: colore bruno scuro della pelle; peli scarsi; muscolatura scarsa, specialmente nelle gambe; cranio voluminoso e alto, con osso frontale sporgente; ossa facciali prominenti; denti forti e compatti; ossa nasali appiattite (naso camuso); facilità estrema alla menzogna, avidità, scarso rispetto della vita umana. Fonte: G. Vaccaro (a cura di), Enciclopedia illustrata dei ragazzi, Curcio, Roma 1949.

Una descrizione delle caratteristiche fisiche della “razza negra”, erede della tradizione positivistica ottocentesca, è seguita dall’elenco delle caratteristiche immorali. Colpisce particolarmente leggere in un’enciclopedia per ragazzi del 1949 frasi che sembrano tratte direttamente da “La difesa della razza”. La volgarizzazione dell’immagine “scientifica” dell’africano non viene messa in discussione dalla perdita delle colonie.

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2. Foto antropologiche (Giannitrapani)

Fonte: L. Giannitrapani, Il libro di storia e geografia per la quinta classe elementare, Marzocco, Firenze 1946.

La potenza comunicativa delle fotografie è enorme. In passato lo sguardo antropologico sulle popolazioni non europee si basava sulla riproduzione di ritratti decontestualizzanti, busti ripresi di fronte e di profilo in cui l’intento oggettivante tendeva a rappresentare gli uo91


mini e le donne come tipi razziali, veri e propri esemplari zoologici. L’antropologo si poneva in relazione verticale con l’individuo oggetto della sua indagine esasperando la distanza che lo divideva da lui. La tavola qui riprodotta è tratta da un sussidiario del 1946. Per raffigurare la “negra dell’alto Nilo” viene scelta una foto tristemente famosa, quella della donna scilluk di Lidio Cipriani che, pochi anni prima, fu utilizzata per comporre il logo della rivista “La difesa della razza” a rappresentare l’umanità sottomessa e discriminata delle colonie fasciste. 3. Foto antropologiche (Pizzetti, Valle)

Fonte: G. Pizzetti, T. Valle, Geografia e geologia per le scuole medie superiori, Dante Alighieri, Milano 197011, p. 255.

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Ancora negli anni settanta del Novecento circolano libri di testo di geografia impregnati di descrizioni antropometriche delle razze e corredati di foto risalenti ai decenni precedenti, spersonalizzanti e decontestualizzate. In questo volume per le scuole superiori sono incluse oltre tre pagine di descrizioni dei criteri di classificazione delle razze umane basati sull’indice cefalico e sull’angolo facciale e un’ulteriore pagina di foto qui riprodotta. Il paragrafo si conclude poi con la rassegnata ammissione che “nell’epoca attuale il termine razza perda il suo preciso significato” ma solamente “in quanto i patrimoni genetici delle varie popolazioni incrociandosi danno origine a caratteri sempre meno differenziati”. 4. Foto antropologiche (Cori, Ostermann)

Fonte: M. Cori, G. Ostermann, Geografia generale e geologia per le scuole medie superiori liceo classico, liceo scientifico, istituto magistrale, Cappelli, Bologna 1971, pp. 344-345.

La freddezza dello sguardo estraneo della macchina fotografica dell’antropologo e la violazione dell’intimità divengono anche più palesi in questo caso – siamo nel 1971 –, quando nelle stesse pagine troviamo affiancate la foto a colori di un “uomo di razza bianca” intento a fumare la pipa e quella in bianco e nero, di profilo e di fronte, come nelle riproduzioni di criminologia, della “razza negra o africana”.

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5. “I negri e il libro” (Parravicini) I negri raccontano la seguente storiella. Il buon Dio creò gli uomini bianchi e gli uomini neri, mise loro innanzi due preziosi doni e disse: “Qui c’è l’oro e qui c’è la scrittura. Scegliete!”. I negri, avari e poco riflessivi, gridarono subito come fanciulli tumultuosi: “Noi vogliamo l’oro! Noi vogliamo l’oro!”. “Pigliatevi l’oro,” rispose il buon Dio; ed ebbero l’oro. Ai bianchi rimase la scrittura. I negri e i bianchi fecero uso come meglio seppero dei doni ricevuti. I negri, curvati nelle miniere, si diedero a scavar l’oro; i bianchi, curvati sui libri, si diedero a studiare le scienze. Che avvenne un secolo dopo? I bianchi inventarono macchine, fecero navi, impararono l’arte della guerra e soggiogarono i negri, i quali continuano a scavar l’oro, ma lo scavano per i bianchi. Questa tradizione è così radicata nella testa dei negri della Costa d’oro, che essi credono cosa impossibile e contraria alle leggi del Creatore che i negri possano imparare bene a leggere e a scrivere, e che vi siano miniere d’oro anche fuori del loro paese. Fonte: il brano di Luigi Alessandro Parravicini risulta pubblicato con il titolo “L’oro e la scrittura” nel 1927 (firmato però Pier Luigi Parravicini), in V. Gazzei Barbetti, La vita di domani. Letture, V classe, Sandron, Palermo, p. 109; nel 1934, in F. Di Sanza, La raccolta, Mondadori, Milano, p. 6; nel 1948 (circa), in L. Moretti, Testo per le scuole popolari. Corso tipo B, Franceschini, Firenze, pp. 6-7; negli anni cinquanta, con il titolo “I negri e il libro”, in G. Villa, Un passo avanti (testo per le scuole popolari tipo B), Fabbri, Milano, pp. 12-13. Un’ulteriore pubblicazione, senza indicazione dell’autore, è segnalata anche da Valentina Asioli (L’impero di carta. Il colonialismo italiano di età liberale nell’editoria per ragazzi, “Studi piacentini”, 35, 2004, pp. 5657) in Letture per la quarta classe delle scuole elementari, Direzione dei libri scolastici, Vienna 1870, p. 74.

I negri e il libro è un apologo esemplare nato nell’Ottocento a opera di Luigi Alessandro Parravicini, uno dei primi famosi compilatori di antologie didattiche – in particolare del Giannetto, vincitore di un premio nel 1835 e ristampato decine di volte durante tutto il secolo. 94


In questo racconto l’avidità e l’inferiorità culturale degli africani appaiono come la causa ultima della loro subordinazione ai bianchi: la scelta egoistica al cospetto di Dio comporta come conseguenza l’arresto dello sviluppo della civiltà africana. Il fatto che, nel testo, siano gli stessi “negri” a “raccontare la storiella” contribuisce, ancora di più, a dare l’impressione di una ineguale divisione del lavoro vissuta come naturale e giusta perché di origine “divina”. È interessante notare la fortuna di questo apologo nel Novecento: dagli spogli sommari fatti è risultato ripubblicato in antologie del 1927, del 1934, del 1948 e ancora negli anni cinquanta. Evidentemente ancora a metà del secolo poteva apparire normale ad antologisti e editori riferirsi a un’immagine ottocentesca dell’africano. 6. “Il tulipano nero” (Pezzani) Dio per tutti fece bello il mondo La nuova scuola accoglie bambini delle case operaie: è una scoletta di due classi con una sola maestra. Di mattina la casa dell’alfabeto si rallegra d’improvvise voci fresche e di coretti felici. Ma nell’aula c’è un bambino che non assomiglia a nessun altro; un bambino che, anche se si lavasse col sapone, non cambierebbe il colore cioccolata che natura gli ha dato: è un negro, figlio di negri, e si chiama Eli Tan. Egli parla il nostro linguaggio, legge nel nostro libro e dice le nostre stesse preghiere, perché ebbe in capo il battesimo come tutti i cristiani. Un giorno, durante il gioco, un suo compagno gli disse: “Se ti pungi un dito esce sangue come inchiostro”. Ed Eli Tan si era punto con la penna per far vedere che il suo sangue era rosso, rosso, come quello di tutti i bambini bianchi. Poi, solo, di nascosto, Eli Tan aveva pianto a lungo e s’era toccato le lacrime, preso d’un tratto dalla paura che esse fossero nere.

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No, il suo dolore è simile al dolore degli altri, forse più bello perché più rassegnato e paziente. Egli tuttavia si paragona agli altri bambini e si sente felice. Vorrebbe essere bianco e non sa ancora comprendere perché il buon Dio lo abbia fatto di quel colore scuro. Anche il suo babbo è nero come l’antracite; e la sua mamma è nera, e il fratellino che da poco l’angelo della vita posò nella culla che fu sua, è nero. Venuta la primavera, la maestra volle che ogni scolaro portasse un vasetto di coccio peno di terra grassa: “Ognuno vi pianterà un bulbo di tulipano”, disse, “lo innaffierà, lo curerà, lo amerà come una creatura. E sarà bello vedere la pianticella gentile spuntare nella terra buia e crescere tutti i giorni un poco”. Sul vasetto di coccio pieno di terra, ciascuno scrisse il proprio nome col gesso e lo mise sul davanzale perché il sole lo vedesse: e allora, ogni giorno dopo la preghiera, ogni bambino pensava al piccolo giardino rotondo e gli portava da bere, impaziente che il bulbo nascosto nella terra mettesse fuori un germoglio. Il germoglio spuntò acuto e arrugginito come uno spino, rinverdì, s’aprì in due foglie, crebbe un po’ inclinato verso la luce, divenne un piccolo cespuglio fresco e delicato, una pianta su cui un lucherino avrebbe potuto fermarsi e cantare. Anche Eli Tan vedeva crescere la sua pianta nel suo vasetto di coccio, e sarebbe stato felice se un terribile pensiero d’un tratto non l’avesse assalito: “Nascerà dalla mia pianta un fiore nero, come quelli di velluto che tremano sul cappellino della signora maestra?”. Un mattino da un vasetto esplose, radioso, il primo fiore: un delicato fiore bianco, e da allora ogni giorno qua e là uno se ne apriva di diversi colori e un bambino lo riconosceva suo e lo festeggiava come un amico lungamente atteso. Il giallo, il rosso, il turchino. Era l’alfabeto di un linguaggio che il mondo ritrovava sulle labbra della primavera bambina. Ed Eli Tan

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pregava col cuore: “Non volere, Signore, che il fiore del tuo piccolo servo sia nero come la notte!”. Sbocciò il fiore nel vasetto di Eli Tan ed era bianco come il giglio di San Luigi. Quando il piccolo negro lo vide, quasi non osò toccarlo e pianse come per un grande dolore. Ma era pianto di gioia. Fonte: Renzo Pezzani, “Il tulipano nero”, in G. Gilardini, A. Lampugnani, Stella alpina, Sei, Torino 1954, pp. 150-151, e in M. Luri, G. Neri, Valle serena, La Scuola, Brescia 1957, pp. 69-71.

Il tulipano nero di Renzo Pezzani è un racconto antologizzato più volte nel secondo dopoguerra. Qui abbiamo forse la prima immagine scolastica in Italia di un bambino dalla pelle nera in una classe di bambini bianchi, figli di operai. Eli Tan, questo il suo nome, a causa del suo colore “non assomiglia a nessun altro”, ma “parla il nostro linguaggio, legge nel nostro libro, dice le nostre stesse preghiere”. La sua diversità lo tormenta, teme di avere il sangue nero, come pure le lacrime quando si trova da solo a piangere. La sua angoscia per la propria diversità raggiunge l’acme in occasione della coltivazione dei tulipani a scuola, che ogni bambino cura nel proprio vaso. Eli Tan teme che il suo tulipano non sia bianco come quello dei compagni, ma nero “come la notte”. Non sarà così e il bambino si scioglierà in lacrime di gioia. Qui l’inclusione nella comunità bianca del bambino dalla pelle nera avviene attraverso il desiderio di essere uguale agli altri e tramite la rassegnazione cristiana a una diversità le cui ragioni sono insondabili: “Vorrebbe essere bianco e non sa ancora comprendere perché il buon Dio l’abbia fatto di quel colore oscuro”, e ancora “il suo dolore è simile al dolore degli altri, forse più bello perché più rassegnato e paziente”.

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7. Atlante storico (Menin)

Fonte: T. Menin, Atlante storico, Minerva Italica, Bergamo 1968, vol. III, p. 26, citato in N. Labanca (a cura di), La Libia nei manuali scolastici italiani (1911-2001), IsIAO, Roma 2003, pp. 53 e 62.

La pagina dedicata alla “Civiltà italiana in Africa” dell’Atlante storico di Tiberio Menin è del 1968, ma potrebbe benissimo essere una pubblicazione degli anni trenta. Vi troviamo il richiamo all’antica Roma, alle “opere imponenti” degli italiani, all’“impronta del lavoro e della civiltà dei nostri coloni”. La continuità con la 98


retorica celebrativa del passato è completa, manca solamente il tono violento degli anni dell’impero fascista. È il mito degli “italiani brava gente” che ha resistito nel secondo dopoguerra e che solo a partire dagli anni settanta, sotto la spinta della decolonizzazione della storiografia coloniale e del sommovimento culturale del Sessantotto, verrà messo progressivamente in discussione. 8. Sussidiario (Petter)

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L’opera italiana in Africa Non soltanto i nostri emigranti lasciarono la patria in cerca di lavoro, ma anche esploratori, missionari e pionieri. Questi si diressero di preferenza nel continente africano. Gli esploratori e i pionieri per scoprire le sorgenti sconosciute dei grandi fiumi dell’Africa, e per studiare piante, animali e abitanti. I missionari, spinti da zelo apostolico, portarono tra quelle tribù selvagge la parola di Gesù; infine molti lavoratori italiani cercarono fortuna sulle coste africane. Colonie francesi e inglesi Già gran parte dell’Africa era stata colonizzata dalla Francia e dall’Inghilterra, proprio durante quegli anni in cui l’Italia era impegnata nelle guerre d’indipendenza. Laggiù esse trovarono ricche miniere e in alcune zone un suolo fertilissimo, per cui poterono aumentare le loro già prospere condizioni economiche. Anche l’Italia aveva bisogno di altre terre per dar lavoro ai suoi disoccupati e aumentare la sua produzione. Così, quando l’Italia raggiunse la sua unità, poté pensare a occupare qualche lembo di terra africana ancora libero. Le prime due colonie italiane Per le imprese coloniali l’Italia era purtroppo impreparata, per cui, quando tentò di occupare alcune terre sulle rive del Mar Rosso, subì gravi perdite nelle battaglie affrontate contro gli abissini. Fummo vinti a Dogali, ad Amba Alagi e ad Adua. Tuttavia, nonostante le gravi sconfitte subite, l’Italia nel 1896 poté occupare l’Eritrea, che si deve considerare la prima colonia italiana. La seconda fu la Somalia; lungo le coste dell’Oceano Indiano, occupata alcuni anni dopo. [...] La conquista della Libia Durante il regno di Vittorio Emanuele III, l’Italia conquistò la sua terza colonia: la Libia. Nel 1911 scoppiò la guerra con la Turchia, che occupava da tanto tempo la Libia, ma non si era

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mai curata di darle un buon governo. Per altro molti nostri connazionali si erano stanziati in Libia, fondandovi scuole, ospedali, banche e imprese commerciali. La guerra fu anche combattuta nel mar Egeo, dove i Turchi avevano altri possedimenti. Qui la nostra flotta occupò 12 isole, fra le quali la bellissima Rodi, mentre l’esercito in Libia occupava vittoriosamente Tripoli e Bengasi. Seguì il trattato di pace con i Turchi, i quali furono costretti a cedere all’Italia la Libia e il Dodecanneso, cioè quelle 12 isole già occupate durante le operazioni di guerra. La civilizzazione L’Italia si adoprò con ogni mezzo per civilizzare tutte le sue colonie in Africa: si cercarono nuovi centri e tra loro vennero collegati con belle strade asfaltate. Nelle aride terre si cercò l’acqua con pozzi profondissimi e in tal modo vasti lembi di terra furono guadagnati all’agricoltura. Ma il merito principale degli italiani fu di aver portato tra gli indigeni l’amore per la civiltà. Ricorda: 1. La prima colonia africana occupata dall’Italia nel 1896 fu l’Eritrea sulle rive del Mar Rosso. 2. Alcuni anni dopo l’Italia occupò anche la Somalia lungo le coste dell’Oceano Indiano. [...] 4. Nel 1911 l’Italia occupò la Libia e il Dodecanneso che dipendevano dalla Turchia. Che cosa andarono a fare gli esploratori e i missionari italiani in Africa? Dove si trovano la Libia, l’Eritrea e il Dodecanneso? A chi appartengono ora? È giusto che i bianchi conquistino i paesi dei negri e vi si stabiliscano da padroni e da tiranni? Hai qualche parente che è stato o ha combattuto in Africa? Fonte: G. Petter (a cura di), Sussidiario per la quinta classe, Bemporad-Marzocco, Firenze 1966, pp. 135-136.

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Il sussidiario curato da Guido Petter viene pubblicato nel 1966. Esso costituisce una parziale novità nel panorama editoriale immobile di quegli anni, ma sul tema coloniale la continuità è completa. Già la sezione dell’aritmetica è introdotta dal disegno a tutta pagina del missionario che insegna addizioni e sottrazioni a piccoli africani; poi, nelle pagine di storia, leggiamo di una espansione tutta votata a portare ai selvaggi la parola di Gesù, strade asfaltate e l’amore per la civiltà. Solo tra le domande riassuntive al termine del paragrafo troviamo la messa in discussione del dominio dei bianchi, ma sembra riferirsi più all’espansionismo delle altre potenze o all’imperialismo in generale che all’esperienza italiana. In fin dei conti, gli italiani nelle “loro” colonie hanno portato civiltà e non vi si sono stabiliti “da padroni e da tiranni”.

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Nell’India di laggiù. O dell’attitudine etnografica di alcuni film e cineasti italiani CARMELO MARABELLO La trasmissione di culture della sopravvivenza del resto, non avviene all’interno dell’ordinato musée imaginaire delle culture nazionali, con le loro aspirazioni alla continuità tra un passato autentico e un presente ancora in vita. [...] La cultura intesa come strategia di sopravvivenza è transnazionale, è in continuo movimento traduttivo. H.K. Bhabha

ggetto di questo testo è una lettura di alcuni film indiani di autori italiani, di alcuni viaggi per immagini intrapresi dagli anni cinquanta nell’india di laggiù, in quegli stessi anni in cui Ernesto de Martino, nelle sue cosiddette spedizioni, attraversava il Sud italiano per riscoprire e analizzare le indie di quaggiù. Viaggi e film, o appunti di film, tra documentario e finzioni narrative, buone o meno buone finzioni, finzioni vere, per riprendere una felice osservazione di James Clifford a proposito delle buone etnografie, che segnano geograficamente e politicamente il cinema italiano, la sua ricerca di un altrove autentico o estetico, sulla traccia del neorealismo rapidamente consumato nel dopoguerra, e da cui autori diversi, di generazioni lontane, diversamente si distaccano rielaborandolo. Film che diversamente si prestano a una lettura postcoloniale dell’immaginario italiano, del mondo immaginato da Rossellini, Pasolini, Antonioni, Rosi, dei mondi che l’India offre alle diverse pratiche di indagine spettacolare, alle diverse aspettative. Se l’India di Rossellini appare come una sorta di premonizione filmica della argumentative India di Amartya Sen, le tracce pasoliniane in forma di appunti per un film da fare, Appunti per un film sull’India (1967), come già nei resoconti del suo viaggio nel subcontinente indiano del 1961, segnano piuttosto un percorso panmeridionalista, un viaggio lettura alla ricerca estetica ed etica dei Sud del mondo come luoghi

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del riscatto subalterno e della critica della modernizzazione occidentale sia nella variante democratica che marxista, nei termini di Giovanna Trento nel suo recente volume su L’africa di Pasolini,1 esito in fondo di un orientalismo eretico, per riprendere il titolo di un altro bel testo dedicato a Pasolini e al cinema del Terzo mondo da Luca Caminati.2 L’india di laggiù diviene insomma l’esercizio cinematografico di un’apertura al mondo nel segno di una politica del mutamento – Rossellini – piuttosto che di una teoria del mitico nel moderno, una teoria delle sopravvivenze come scaturigine di una resistenza – Pasolini – o ancora, per Antonioni, la traccia di un’epifania rituale e spaziale di un mondo altro letto nella grammatica architettonica della formalità cinematografica, come accade in Kumbha Mela, il cortometraggio girato nel 1977. Diversa invece l’attitudine quasi etnografica che traspare da The Boatman, film italiano e apolide di Gianfranco Rosi, del 1997, percorso di ricerca la cui origine e il cui senso si configurano già nel segno e nella cifra dell’esperienza postcoloniale, esito di un giovane autore al suo primo film, di passaporto italiano, ma nato in Etiopia, vissuto in Turchia, di formazione poi italiana e statunitense, parzialmente in debito con le memorie indiane rosselliniane, lontano di fatto, per metodo e approccio, dal segno pasoliniano che invece può sembrare, a una prima lettura, il più prossimo. Nell’india di laggiù, un diverso altrove si determina, si presenta come luogo e indice, materia di immagini e relazioni, di progetti di conoscenza spettacolare. Tuttavia, alle indie di quaggiù, epigrafe e motto, moto di ricerca di De Martino, bisogna riferirsi, non per un gioco di specchi, né per una sorta di chiasmo storico critico, in nome di una genealogia, di una ricostruzione genealogica e archeologica del cinema italiano, sulla traccia dell’alterità spaziale e culturale di esso. La geografia delle rotte rosselliniane e pasoliniane, ma anche del documentarismo di Lizzani e Antonioni, è certamente passibile di una lettura postcoloniale, ma è innanzi1. G. Trento, Pasolini e l’Africa. L’Africa di Pasolini, Mimesis, Milano 2010. 2. L. Caminati, Orientalismo eretico, Bruno Mondadori, Milano 2007.

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tutto il luogo di un’archeologia, il dispositivo spettacolare e culturale da indagare come eredità e conseguenza di alcune pratiche neorealiste, come traiettoria di discontinuità verso un immaginario-mondo, verso altre indie da confrontare e immaginare, nel senso di farne immagini. Per accostare l’india di laggiù è utile ritornare alle indie di quaggiù oggetto di pratica e visione neorealista, definirne il quadro teorico, filmologico piuttosto che filmografico, rimandando evidentemente a Rossellini e Visconti innanzitutto, a La terra trema e Stromboli terra di Dio, come emergenza e cogenza qui semplicemente richiamata. Nel tentativo di ricostruire una genealogia dell’altrove italiano del dopoguerra. 1. Genealogie neorealiste Se davvero, come ha scritto Walter Benjamin, l’indice storico, contenuto nelle immagini del passato, mostra che esse giungeranno a leggibilità solo in un determinato momento della nostra storia, la natura stessa della contemporaneità, l’idea di presenza come di presente, si ritrovano da sempre ingaggiati e contesi nello spazio occasionale o tempestivo dell’esperienza, nelle storie di sguardi incarnati e molteplici. Di geografie situate della ricezione e dell’ascolto. Di occhi e obiettivi storici di cui si fa resoconto e interrogazione. Situati dinanzi alle immagini, e nelle forme da queste assunte, data la loro ormai secolare e secolarizzata riproducibilità, accostiamo la forma dell’immagine interrogata alla storia della sua produzione, alla tradizione della sua ricezione, alla suscettibilità di nuove domande, all’esitazione di altre leggibilità. Come archivi paradossali di indici e luoghi, i film sembrano documentare e incarnare l’aforisma benjaminiano: nella drammaturgia di tempi e segni, nella presenza e potenza di documenti e corpi, i film rassegnano e tradiscono un ordito di tracce, un ordine di equivalenze, lo schema di un prodotto e il trascorso di un evento. L’orizzonte di un tempo – tempo reale – che assume la forma filmica di uno spazio memorabilmente tale, effettualmente reperibile nelle sue trasformazioni in quanto differenza: differenziale di un dato che il fotogramma o la sequenza dimostrano mostrando. Nella scena dell’archivio, nel dispositivo concettuale, gli oggetti film si pre105


sentano alla leggibilità come time capsule del discorso delle immagini, forme storiche della conoscenza spettacolare cinematografica, memoria e pratica della conoscenza per montaggio, progetti di attrazione e seduzione. Drammaturgie del reale e drammi, più o meno intensi, del documentale. La scena dei neorealismi italiani ha esercitato, nelle sue differenze, nelle sue progettualità, come negli esiti, la produzione di indici e luoghi, di materie in forma di immagini, di reali diversamente indagati e immaginati, di mondi costituiti e mondi ritrovati. I neorealismi italiani attraversano i luoghi e li indicano, producono rilievi e topografie, agiscono la dimensione urbana, ri-tracciano la storia del paesaggio italiano declinando le nature e le cronache di questo. Filmano nel Sud italiano, nelle indie di quaggiù oggetto della ricerca etnologica demartiniana, l’eterotopia possibile di un’origine, lo spazio preterintenzionale della storia naturale da cui ricominciare, filmando, a vedere il mondo e l’autentico, nell’istanza e nell’ipotesi dell’essenziale. Filmando così alcuni lacerti del tempo italiano tra la guerra e il dopoguerra, producendo alcuni spazi filmicamente ignoti come luoghi, immaginando una diversa cinematografia italiana, altre viste, nuove cardinalità degli esterni, nella potenza del neo-reale di altre possibili vues, nella produzione di un primitivo e del semplice. Di un teatro genuino e quasi demologico di segni e simboli, come in La terra trema di Visconti, o di una dialettica tra le forze della grazia e le forme della natura in Stromboli terra di Dio. E che in altri echi e in altri stili si configurerà, iscrivendosi nel segno di un’estetica politica della questione meridionale stessa, come ha scritto Francesco Faeta nel suo Questioni Italiane.3 Il neorealismo, in questo senso, si faceva emergenza storica e teorica dell’enunciato, nuova esigenza degli indici e nascita dell’autor-izzazione filmica, nel senso che Geertz tributa alla scrittura etnografica. Traslazione dell’I see, I was there della tradizione antropologica, nel senso indagato da Johannes Fabian,4 qui espli3. F. Faeta, Questioni Italiane. Demologia, antropologia, critica culturale, Bollati Boringhieri, Torino 2005. 4. J. Fabian, Il tempo e gli altri. La politica del tempo in antropologia (1983), L’ancora del Mediterraneo, Napoli 2000.

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citato e riconfigurato dalla mediazione tecnica della cinepresa e dalla verità linguistica dell’enunciato stesso ulteriormente categorizzato, esitato nel film: “Ho visto, ho filmato, ero lì”. Competence divenuta pertinence, nella risoluzione dell’immagine come performance, traiettoria della modernità tra spettacolo e conoscenza, traiettoria storica della presenza come testimonianza e potenza. Spettacolo e cerimonia culturale dell’autorità. 2. Nei luoghi dell’autentico Nei materiali del Passagenwerk che Benjamin indicizza, rubricandoli sotto il titolo di “Città onirica e architettura onirica, sogni a occhi aperti, nichilismo antropologico, Jung”, egli riporta una citazione marxiana che recita: “Nella natura infantile, il carattere proprio di ogni epoca non rivive forse nella sua verità naturale?”. Questa ripresa dai Grundrisse può apparire sorprendente, o addirittura fuorviante: la verità naturale viene infatti interpellata come cifra ed epitome di un’epoca, infanzia della storia. Di quella natura che sembra ancora disporsi come cornice hölderliniana capace di integrare l’immagine labile dei tempi. Ma nel montage benjaminiano il riferimento è un movimento proprio di un attitudine intellettuale e di pensiero: nel suo capitalizzare l’ellissi intensiva della citazione come frammento e come apertura, Benjamin epifanizza l’idea stessa di natura come condizione ultima e fondativa della verità, smascherandola in quanto pratica culturale ricorsiva, ideologia. Perché se di natura qui si tratta, la natura stessa non sarà allora storica e situabile? Non sarà in un certo senso storicizzabile? E quali saranno i tratti contemporanei, i tratti della natura postbellica dell’Italia minoritaria neorealista la cui leggibilità viene in luce, mediaticamente, al di là dei confini nazionali, e delle nuove barriere fisiche e politiche del dopoguerra? La scena della natura italiana sembra offrire l’evidenza di una civiltà contadina il cui sistema di valori e le cui strutture simboliche e culturali sembrano darsi come cornice politica possibile di riscatto nelle forme delle lotte per le terre e le riforme. E come cornice di intelligenza storica e antropologica nei modi a venire di un’etnografia delle sopravvivenze. Di un’etnologia dell’arcaico e del primitivo come ri107


cognizione della traccia profonda di mondi storici occulti ancora presenti, in una negoziazione con la tradizione demologica e con quella storicista. Tracce di Nachleben, trame di relitti occultati dal folklorismo di regime e dall’ideologia accomodante dello strapaese, sembrano emergere come forme utili alla rilettura dell’identità italiana prefascista, all’iscrizione dell’identità nazionale come questione sociale e antropologica: il neorealismo è la cornice culturale progressista del progetto identitario, la finestra e la lente sul mondo postbellico, lo specchio di una rappresentazione. La questione meridionale si afferma quindi come il frame più specificamente politico entro cui declinare il processo storico dell’identità: arcaico, primitivo, politico e identitario si embricano fittamente e si producono come irrisolto immaginario del politico e dell’estetico. La pubblicazione dei Quaderni gramsciani, a partire dal 1947, soccorre teoreticamente la poetica e la pratica neorealista, produce il lessico da cui muovere immagini e concetti. Il tema delle classi subalterne, la questione popolare e folklorica, la ridefinizione del concetto di cultura di massa emergono nella società italiana alla luce del trauma postbellico e delle nuove istanze migratorie. Ma il cinema neorealista nella sua pratica e nelle sue poetiche sfida già dai primi anni quaranta la modernità alla ricerca di dati di realtà, di nuove drammaturgie e luoghi altri del racconto. La scena reale, la scena del reale nel cortocircuito del naturale e dell’esterno segnano l’idea stessa del cinema a venire. I luoghi dell’autentico marcano così la conoscenza spettacolare, la cinematografia, nelle forme e nei modi di un cinema minoritario nei suoi esiti di mercato; cinema la cui disposizione e potenza si spiega e attraversa l’immaginario cinematografico dell’Europa e del mondo di quegli anni, la cui natura di matrice genera posture ed esiti in nome di pratiche come di poetiche. Provocando estetiche, stati estetici dell’etico. Confrontandosi, inevitabilmente, per opposizione e scarto, col primitivo razziale che il cinema esotico di narrazione, ma soprattutto i materiali di propaganda italiani avevano immaginato e prodotto negli anni dell’Impero, tracciando lì, nella linea del colore e nel confine della pelle, la soglia di civiltà e di modernità, distinguendo così il primitivo dall’autentico. Attestando così l’au108


tentico come prodotto competente e pertinente della civiltà – da cui la missione italiana nelle colonie come esito storico della italica cultura millenaria – per configurare il primitivo come sopravvivenza del pittoresco, nella leggibilità del paradigma esotico. Così da configurare e manifestare la presenza italiana come dispositivo militante dell’immaginario progressivo della macchina, della civiltà industriale e militare dell’impresa, delle cinture d’asfalto capaci di imbrigliare il deserto e dominare le vie interne dell’Etiopia, del cemento e del travertino capace di segnare l’orizzonte urbano nella cifra del razionalismo architettonico classicheggiante, muse eloquenti della madrepatria. Piuttosto che i film di ambiente africano sono i documentari sull’Africa orientale italiana destinati al pubblico della penisola a costituirsi come elogio della macchina, macchina dell’immaginario bienveillant, della superiorità tecnico-umanitaria della razza bianca sulla razza nera. Sono questi materiali a proporsi come macchina del moderno in quanto stato di mobilitazione totale jungeriana – basti pensare al documentario agiografico sull’impresa di Etiopia di Corrado D’Errico, Milizie di Civiltà, di segno tardofuturista, focalizzato sulla costruzione dell’impresa come progetto e immaginazione dell’industria italiana e della logistica industriale e militare. A queste immagini, come alle immagini più note del cosiddetto cinema dei telefoni bianchi, il neorealismo contrappone le indie di quaggiù, la ruralità mitica di De Santis, gli immaginari urbani di De Sica e Zavattini, una trama del moderno come relazione tra uomini e cose, tra esseri nella natura e nella cultura. L’india o meglio l’altrove si popola di luoghi e indici italiani, di mondi visibili dove l’autentico si declina nella misura filmica del reale, del realismo possibile di una narrazione, di un montaggio, di una traccia. L’Italia contadina, dei bordi urbani, delle periferie postbelliche, costituisce il terreno, e il set, di una drammatizzazione nuova del presente. Di una riassunzione del paesaggio nella storia, di una ricollocazione del presente come circuito di storia e cronaca. Di sopravvivenze e tensioni, nella luce di un’idea di futuro.

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3. Verso l’india di laggiù: cuciture, scuciture, uomini drappeggiati, uomini cuciti. Altri continenti della vista Il vero titolo è India, matri bhumi, che vuol dire l’humus della terra. È forse il film più esemplare – non come film, come esempio – di tutto ciò che abbiamo visto nelle nostre interviste, di tutto ciò che ho spiegato nelle mie ambizioni sul cinema. È un film che ho fatto davvero sperimentalmente, potrei dire. Ho cercato di mettere su pellicola ciò che pensavo in maniera forse teorica. È un’inchiesta il più possibile approfondita, sia pure nei limiti di un film, su un paese, su un paese nuovo come l’India, che ha ritrovato la sua libertà, che è uscito da colonialismo – allora erano appena dieci anni –, e sull’immenso sforzo che faceva per mettersi in marcia, per diventare un paese come gli altri. Com’è costruito il film? C’è una parte strettamente documentaria, ma ho comunque cercato di evitare di vedere tutto ciò che il turista vede di solito, i monumenti ecc. Il mio sguardo si è posato soprattutto sulle strade, sull’aspetto delle persone, sulla vita quotidiana più immediata. E poi ci sono anche delle piccole storie, un po’ romanzate se si vuole, ma comunque sono romanzate perché sono probabili, non escono dalla fantasia ma sono cose che ho sentito attorno a me, che mi hanno raccontato, più o meno, e ho costruito il film con questi elementi, con queste quattro brevi storie, che sono mescolate con il documentario. Non so cosa possiate pensare del film. È uscito solo in Italia, con non grande successo bisogna dire. È stato fatto con un coproduttore francese che non lo ha mai fatto uscire in Francia: ignoro il perché. È un film che amo molto perché, come ho detto, è qui che ho cercato di fare un tentativo di rinnovamento nel campo della conoscenza, dell’informazione: un’informazione che non sia strettamente scientifica o statistica ma che sia anche una certa documentazione dei sentimenti e del modo di comportarsi degli uomini. È anche, se si vuole, in un certo senso, un film etnologico. Ecco, è tutto ciò che ho da dire su questo film.5 5. R. Rossellini, L’India che ho visto (1959), a cura di C. Bourdet, in Il mio metodo. Scritti e interviste, a cura di A. Aprà, Marsilio, Venezia 1987, p. 137.

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India è un film di una logica assoluta, essenzialmente socratica. Le immagini non sono belle come le inquadrature di Que viva Mexico: esse sono lo splendore del vero, perché Rossellini muove dalla verità. Là dove gli altri giungeranno tra vent’anni, forse, Rossellini c’è già stato. Rossellini sta al cinema mondiale come Riemann e Planck alla geometria e alla fisica classica.6 Il 9 dicembre 1956 Roberto Rossellini atterra nell’aeroporto di Bombay oggi Mumbay. Non è il primo cineasta occidentale a sbarcare nel subcontinente indiano con il progetto di realizzare un film. Sei anni prima, infatti, Jean Renoir ha firmato in Bengala, The River, uno dei suoi film più affascinanti. L’India si presentava a Renoir come lo spazio di una possibilità ulteriore e diversa di fare cinema. Deluso dall’esperienza americana, scelta come volontario esilio dall’industria cinematografica francese, Renoir intuiva, nelle culture altre e lontane, il luogo di un ripensamento dell’identità occidentale. Non si trattava di una fuga esotica da Hollywood e dal cinema francese del primo dopoguerra, né una sorta di flashforward esistenziale del viaggio in Oriente degli anni sessanta. Era piuttosto, come racconterà molti anni dopo, in un’intervista apparsa su “Écran”, un interrogarsi di tipo etico e intellettuale, nella forma propria del lavoro di un cineasta, sugli anni della nascita di una nazione e della proiezione mondiale della figura di Gandhi: Il potere distruttivo delle idee che provengono dall’India riguarda l’inutilità dell’azione e coinvolge quindi milioni di persone. Per la mia generazione Dio era l’azione. La forma semplice dell’azione è stata il lavoro. La società moderna è basata sul lavoro: bisogna affannarsi, comprare, vendere, produrre. Negli adulti la meditazione è ancora in gran parte sconosciuta [...]. Al contrario, e tranquillamente, la convinzione indù sulla vanità degli sforzi travolge il mondo.7 6. J.-L, Godard, India, “Cahiers du cinéma”, 96, giugno 1959, pp. 244-245. 7. J. Renoir, Ma vie et mes films, Flammarion, Paris 1974, p. 28.

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Queste considerazioni, datate vent’anni dopo l’esperienza di The River, non differiscono di molto da quelle espresse da Rossellini nelle interviste e nelle dichiarazioni pubbliche degli anni della sua esperienza indiana, e che trovano una restituzione diretta ed esplicita in uno dei due testi che accompagnano l’esito di questa, la serie documentaria J’ai fait un beau voyage – il cui titolo italiano è L’India vista da Rossellini (1957), la serie documentaria autonoma e vero e proprio testo a fronte e réperage e preparazione di India, matri bhumi, completato nell’anno successivo: “La mia teoria è questa: ci sono civiltà di uomini drappeggiati e civiltà di uomini cuciti. L’uomo dagli abiti drappeggiati è un uomo più morbido, più bello, molto di più tenero, se si vuole, molto più tollerante, il che è molto importante. I cuciti sono invece lì, attivi, efficienti”.8 Questa citazione di Rossellini è parte del testo di commento da lui firmato, della terza puntata della serie. Quest’argomento ritorna più volte nelle interviste, così come in scritti di occasione di Rossellini. Ma una sua ulteriore restituzione, significativamente ampliata e circostanziata, va riportata: Nehru, come tutti gli indiani, è un “uomo drappeggiato”. Cerca di aprire il suo spirito a tutte le conoscenze e di ottenere una sintesi poetica del mondo. Noi europei siamo degli “uomini cuciti”, siamo diventati degli specialisti, eccelliamo in un campo peculiare alla nostra attività ma siamo incapaci di capire quanto fa parte della nostra specializzazione. Noi siamo prigionieri delle nostre abitudini: dico “noi”, ma io mi sforzo di diventare un “uomo drappeggiato”.9 Il progetto indiano di Rossellini è quindi chiaro ed esplicito: l’India è l’orizzonte di una possibilità di vita, di una civiltà e di una cultura da esplorare e soprattutto incontrare, alla ricerca di uno spazio per allentare le cuciture del mondo occidentale, per disegnare per immagini la scena di un mondo fatto immagine, ma la 8. R. Rossellini, J’ai fait un beau voyage, III puntata. 9. Id., Uomini “drappeggiati” e uomini “cuciti” (1959), a cura di F. Tranchant e J.M. Verité, in Il mio metodo. Scritti e interviste, cit., p. 184.

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cui forma sia drappeggiata dai suoi abitanti piuttosto che vestita dallo spettacolo, cucita insieme dall’industria dell’immaginario. All’interno del progetto documentaristico, Rossellini immagina comunque un film di finzione, in senso assolutamente originale, un film che, nella forma della narrazione, produca il senso di quella visibilità che si presenta davanti ai suoi occhi di cineasta, un film che racconti l’India come paese di donne e uomini, di mutamenti e tradizioni; un paese la cui densità di esperienze e storie diventi, attraverso un viaggio per immagini, uno spazio altro dell’immaginario, il risultato di un incontro piuttosto che di un’appropriazione. Detto in altri termini, già nelle premesse di Rossellini, l’India si disegna quindi come un field, il campo di un’esperienza che il film trasformerà di volta in volta in set, sia nella forma della serie televisiva, sia nel film pensato e immaginato per la destinazione cinematografica. India, matri bhumi, come il progetto della serie di documentari, nasce da una coproduzione tra il governo indiano dell’epoca, la televisione pubblica francese ORTF e la Radiotelevisione italiana. Rossellini, su invito diretto di Nehru, appronta le linee generali del suo impegno, e giunge in India nel 1956. A capo del comitato che presiede all’organizzazione delle riprese e alle relazioni con le autorità locali troviamo la giovane Indira Gandhi. Rossellini lavorerà in India per oltre un anno. Lo script sarà preparato via via, com’è abitudine di Rossellini: il viaggio sarà réperage di luoghi e storie, di incontri e opportunità. Rossellini indaga l’India con la sua piccola super8, attraverso le foto di Aldo Tonti, che lo accompagna nel viaggio, attraverso la competenza linguistica e culturale di una donna, Sonali Das Gupta, che diventerà la sua terza moglie. Come un etnologo dilettante di talento Rossellini metterà spesso in atto delle strategie elusive nei confronti di autorità, traduttori, informatori: Ho visitato villaggi con guide indiane, e non ho mai potuto stabilire un contatto umano con le persone. Un giorno sono andato da solo con il mio collega francese, Jean Herman, e tutto il villaggio ci ha circondato. Hanno cominciato a fare domande. Hanno chiesto il mio nome. Mi chiamo Rossellini, 113


ho detto, provocando una risata generale, perché in India i nomi che finiscono per -ini sono femminili – poi ho sempre detto Roberto, marcando la “o” finale. Hanno iniziato a chiedermi qualcosa sulla mia provenienza – o così almeno mi sembrava di capire. Ho cominciato a dire che ero italiano, ho accennato al Mediterraneo, all’Europa. E tutto d’un tratto hanno fatto venire un vecchio del villaggio, che forse era in grado di parlarmi. Quest’uomo anziano, dagli occhi rossi, cominciò a parlare sforzandosi di farsi capire. Mi parlava del sanscrito, del fatto che era una lingua indoeuropea, vicina al latino e al greco. Poi disse che patri significa pater, il padre, che matri è mater, la madre, pedi la gamba, e così via. E in venti minuti avevo imparato circa quaranta parole grazie ai gesti e alla memoria del latino. Avevamo stabilito un modo per comunicare.10 In questo breve apologo, tratto ancora dalla terza puntata della serie, nella sua versione francese, Rossellini mostra semplicemente la sua strategia di accesso alle informazioni, la costruzione dialogica e relazionale del suo cinema, la pratica neorealista come estetica dell’oggetto, il film, come estetica ed etica del set, dell’azione che precede e produce la ripresa, come continua e originale decisione di superamento e accorciamento di distanze tra cineasta e soggetto filmato, tra il cineasta e l’immagine parziale del mondo, il frame che si forma nella flagranza del set. La scelta etica di Rossellini non si manifesta certo nella pratica della camera partecipata di Rouch, nella produzione di film come approssimazioni successive i cui esiti intermedi di montaggio sono condivisi con i nativi filmati. Rossellini, sodale di Rouch nella Parigi dei primi anni cinquanta, criticherà poi l’ipotesi di cinema verité del cineasta antropologo leggendola come strategia di camouflage, elisione della responsabilità di restituzione del mondo nella forma del film di cui il regista è autore. Il cineasta italiano si pensa all’interno di un movimento dove la pratica dell’immagine nasce nella frizione e nella passione del reale, segno della realtà nella forma-film, me10. R. Rossellini, J’ai fait un beau voyage, III puntata.

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moria soggettivamente restituita, in un processo dove il linguaggio della rappresentazione e la tecnica della rappresentazione viaggiano insieme verso il vero, come pratica visibile del soggetto che filma – il movimento di macchina – e come pratica diversamente visibile della struttura formale – il montaggio. Alla potenza del montaggio come tradizione e invenzione delle forme, Rossellini oppone la verità visibile del movimento della macchina da presa, l’assunzione di un punto di vista mobile, sia attraverso l’invenzione di tecniche di ripresa originali, il pancinor, una sorta di teleobiettivo capace di consentire un accorciamento morbido della distanza e un passaggio a una diversa messa a fuoco nella profondità di campo (vedi la sequenza in soggettiva delle folli internate di Europa ’51), sia attraverso un uso spericolato e sgrammaticato, letteralmente, dei materiali, usati nel senso del vero piuttosto che del bello, come in India, matri bhumi, dove in un campo controcampo una ripresa in 35 mm di un vecchio viene montata con una sequenza in 16 mm ingrandito di una tigre. I cineasti sono soggetti, e Rossellini come tale assume su di sé più che una volontà monologica, la faticosa consapevolezza del privilegio conoscitivo del cinema come traccia di un individuo in un’impresa collettiva e plurale come la produzione di un film. Ma la sua pratica di viaggio nella contemporaneità, la pratica neorealista dei capolavori del periodo bellico e postbellico, Roma città aperta, Paisà, Deutschland im Jahre Null, è la stessa pratica che informa il lavoro indiano: la ricerca dialogica, la costruzione contingente di soggetti e set, la volontà di produrre, nella semplicità di una forma comunque narrativa, una passione verso il reale. Scelta, questa, segnata dal lavoro con non attori, dall’adesione alla lingua locale. Così Germania anno zero, girato e montato in tedesco nella sua versione originale del 1948, così il materiale indiano, che riporta le principali lingue parlate nel paese, hindi, urdu, inglese, bengali. La fedeltà della pratica neorealista è quindi la matrice in cui leggere l’esperienza indiana, la sua dimensione etnologica: viceversa le pratiche etnologiche, come più volte ha scritto David McDougall, contraggono un debito essenziale con le pratiche di Rosselini e gli scritti teorici di Zavattini, precursore, nella sua idea di cinema co115


me pedinamento del personaggio – si pensi a Umberto D di De Sica –, delle pratiche contemporanee di shadowing. Come un etnologo dilettante, Rossellini si muove nell’India degli anni cinquanta, ne osserva la modernità, gli elementi di una presenza tradizionale e primitiva, in un certo senso, ne coglie la tradizione razionalista, recentemente difesa e rinverdita da Amartya Sen,11 studia la tradizione castale, le dinamiche religiose, la cultura agricola, la relazione tra città e campagna, la struttura dei legami di parentela, la struttura della famiglia e la natura dell’autorità parentale, l’autorità maschile, ne osserva l’architettura. Procede sul campo come un etnologo, riempie taccuini, fotografa, intervista, scrive lettere a Parigi a Enrico Fulchignoni, allora all’Unesco, per informarlo del progetto e per ottenere da lui ragguagli su argomenti e luoghi della vita indiana. Tutto questo nella forma di una serie televisiva, nella forma di una conoscenza trasmessa per immagini, muovendosi certo ancora nella consuetudine della restituzione fonologica ma lasciando al rumore di fondo, alla densità e ricchezza del suono registrato sul campo, largo spazio in termini di profondità di campo, di traccia ambientale: lo splendore del vero comincia dal suono. India, matri bhumi è il testo a fronte narrativo della serie televisiva che ha il titolo italiano di L’India vista da Rossellini. Se il testo documentario si può, nel gioco delle similitudini, costituire e definire come una sorta di etnografia visiva, diario di viaggio etnografico tra modernità e tradizione, India, matri bhumi si accosta al carattere del saggio, alla riflessione meta-etnografica nella forma di quattro storie esemplari, alla narrazione come allegoria etnografica, nel senso di Clifford e Marcus: ma la finzione etnografica è qui evidentemente rivelata come tale. Il soggetto di Rossellini, i soggetti, nel senso di plot, dei quattro apologhi sono il risultato di un lavoro di raccolta di materiali sul campo, nell’accezione ampia e in un uso volutamente discorsivo del lessico antropologico. Il lavoro di set si presenta poi analogo al lavoro dei film neorealisti: Rossellini riprende a considerare una tecnica che 11. A. Sen, L’altra India: la tradizione razionalista e scettica alle radici della cultura indiana (2004), Mondadori, Milano 2006.

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sarà propria del cinema di osservazione. Lavoro di ascolto di storie e di raccolta di queste, lavoro di osservazione del corpo e dei movimenti dei corpi, i corpi di non attori, al fine di memorizzarne i gesti, sperimentarli visivamente negli spazi di vita quotidiana, per cercare di riprodurli dinanzi alla camera: memoria anche fotografica, nel segno di produrre un atlante di gesti individuali da chiedere al proprio attore, addirittura da re-insegnare al proprio attore, nella coscienza della perturbazione singolare e inevitabile della macchina da presa. Una complessa e peculiare pratica di re-enacting prodotta al di fuori della disciplina antropologica, nel segno di un’antropologia complessa dell’uso della relazione attraverso la camera, nel segno della responsabilità ineludibile del soggetto che filma. Le osservazioni del commento della serie televisiva muovono continuamente dal singolare verso l’universale. Nella pratica filmica, invece, il singolare, la singolarità viene esaltata nella forma semplice e peculiare di una etnofiction la cui dinamica di produzione e restituzione mette in pratica una consapevolezza acuta sia dell’oggetto come soggetto del racconto, nella mediazione dell’invenzione narrativa, sia della relazione con la cultura e le pratiche dei non attori. Verso cui le scelte realistiche di messa in scena implicano una capacità di accorciare la distanza ma anche la necessità di una condivisione del set. Pratica complessa, in un paese che già negli anni cinquanta manifesta una particolare propensione culturale al consumo di immagini cinematografiche. E, infatti, descritte le condizioni di produzione testuale, evidenziate le caratteristiche di lunga durata del field-set di Rossellini, seguendo Stephen Tyler nulla ci vieterebbe di considerare il film come una sorta di esempio postmoderno di etnografia, qui evidentemente visiva, invece che letteraria, ovvero come “un testo che si evolve in forma partecipata e cooperativa, sulla base di frammenti discorsivi, il cui scopo è l’evocazione, in chi scrive e in chi legge, di un comune mondo reale possibile, così da provocare un’interazione estetica dagli effetti terapeutici”.12 12. S.A. Tyler, Post-modern ethnography: From document of the occult to occult document, in J. Clifford, G.E. Marcus (a cura di), Writing Culture. The Poetics and Politics of Ethno-

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La complessa finzione etnografica, nel senso di Kilani, diviene qui una relazione tra reader e writer – tra cineasta e spettatore –, il luogo di un’integrazione estetica, acquisendo la valenza allegorica di un percorso di ricerca o addirittura di una parabola, nella religione delle immagini di cui il cinema si è fatto chiesa, assemblea, localizzazione originale di legami. Nella forma rituale dello spettacolo cinematografico. Nelle istruzioni per l’uso del mondo di cui il cinema si fa mediatore, di cui il film è, metaforicamente, terapia. Il cinema di Rossellini, in questo senso, e questo film soprattutto, insieme col materiale della serie documentaria, diventano, di fatto, l’esito di una pratica etnologica, di una volontà etnologica, la cui evidenza traspare ed è espressa non tanto dalle dichiarazioni di intenti, quanto dall’evidenza filmica, eludendo esplicitamente una questione più ampia ed essenziale, ovvero se una pratica etnologica produca necessariamente un oggetto etnologico, e se questo oggetto sia poi normalizzabile, e come, dal sistema disciplinare. 4. L’etnografia delle lucciole indiane: sopravvivenze, globalizzazione, viaggi, traduzioni. O dell’antropologia effettuale Il primo viaggio indiano di Pier Paolo Pasolini è datato 1961. Pasolini viaggia in India con Moravia ed Elsa Morante, che li accompagna per una parte del viaggio. Il suo diario di viaggio, L’odore dell’India, restituisce un paese fatto di impressioni, ritratto nella forma di un io alla ricerca di un’immagine parola, nel rischio dell’elzeviro e del bozzetto, nella coscienza situata e politica di un’impossibile immediatezza con l’altrove che gli si presentava dinanzi, nella difesa di una risoluzione letteraria dei fatti e dei luoghi. Le lucciole indiane hanno metaforicamente il volto di ragazzi e bambini, sulla scena dei grandi numeri di una demografia imponente, di una democrazia attesa alla sfida del governo di un subgraphy, University of California Press, Berkeley 1986, p. 125 (la traduzione è mia, e si discosta da quella presente nell’edizione italiana: J. Clifford, G.E. Marcus, a cura di, Scrivere le culture, Meltemi, Roma 1997, p. 179). Cfr. anche M. Kilani, Antropologia. Un’introduzione (1989), Dedalo, Bari 2002, p. 131 sgg.

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continente, alla sfida soprattutto di un avvenire industriale che nel segno progressivo degli anni sessanta sembra l’unica traccia possibile di una rotta oltre la miseria sottoproletaria, oltre la fame atavica delle campagne. Sullo sfondo di una tradizione castale che il segno della politica fatica a trasformare al cospetto di tradizioni religiose millenarie. Pasolini legge questo Sud del mondo come la sopravvivenza di forme antiche di una civiltà della mitezza e della ragionevolezza di origine induista. Segnala il rischio di un equilibrio in fase di veloce mutamento, destinato al cambiamento dalle trame globali dell’industrializzazione. Osserva un mondo di riti la cui liturgia di gesti – i roghi rituali dei cadaveri – suscita in lui l’idea di una comunione possibile con un mondo lontano nel segno di una religione naturale: nella sera invernale, lungo il Gange, si accorge, con Moravia, di cercare il tepore di un fuoco sacro il cui combustibile è il corpo di qualcuno che è stato uomo. Il calore dei cadaveri senza odore riscalda i corpi dei vivi nel rito senza lacrime del rogo. Nella luce di un rito in-esibito, alla vista delle lucciole metaforiche dei morti, nella vista dei vivi che si aggirano tranquilli nell’attesa dell’incenerimento. Pasolini, che in Nuova poesia in forma di rosa scriverà di sé, a metà degli anni sessanta, come di un ritardatario del nuovo corso della storia, un non addetto ai lavori capace solo di presentire che gli uomini del Sud dell’India e dei tropici rischiano ormai di essere travolti dagli ingranaggi dell’industrializzazione emergente, tornerà in India nel 1967, questa volta per fare immagini del suo viaggio. Con una piccola troupe della Rai, Pasolini girerà uno speciale per TV7, il cui titolo sarà Appunti per un film sull’India, mai uscito in sala, presentato nella contestatissima edizione della Biennale cinema di Venezia del 1968, edizione in cui Pasolini presentava Teorema. Appunti per un film sull’India racconta di un film da fare, un film la cui trama narra di un maharaja il quale, secondo una leggenda mitica indiana, offre il proprio corpo alle tigri per sfamarle prima della liberazione dell’India; e, dopo la liberazione dell’India, sempre idealmente, la sua famiglia scompare perché i suoi membri muoiono di fame uno dopo l’altro durante una carestia. Pasolini decide così di verificare l’attendibilità di quest’idea attraverso una serie di in119


terviste. Ma a questa trama altre linee narrative si aggiungono: un’inchiesta sulla sterilizzazione di massa, domande sulla struttura castale dell’India, un viaggio nelle periferie industriali di Bombay. Pasolini filma senza operatore, intervista la gente per strada, alterna la dimensione metafilmica del progetto a immagini di vita quotidiana, tracce urbane. Filma i volti della gente comune alla ricerca di possibili protagonisti del suo film, ci accompagna, nell’edizione finale, con la sua voce, con immagini-parole pronunciate nel segno di un Terzo mondo in quanto progetto di rivoluzioni e nostalgie, dove l’autentico sembra ancora sopravvivere, darsi come possibile. Dove però Bach, come già in Accattone, si fa cornice solenne del sacro quotidiano e dell’autentico, nel circuito del classico entro cui si segna l’altrove nobilmente addomesticato dal sublime contrappunto barocco. A trentacinque anni di distanza da India, matri bhumi, Gianfranco Rosi firma The Boatman. A trentacinque anni di distanza, due cineasti, diversamente apolidi, il primo maestro riconosciuto del cinema del dopoguerra, in polemica col modo di produzione occidentale, l’altro allora studente della New York University, producono, per immagini, una forma di attenzione conoscitiva, un’istanza di lettura del subcontinente indiano e delle culture di quell’area del mondo, tra volontà di localizzazione – il lavoro di Rosi a Benares – e scrittura di sintesi – il progetto continentale di Rossellini. La restituzione dell’India di Rosi avviene nella luce genealogica del segno rosselliniano, nella ripresa di un’attitudine etnologica propria del cinema neorealista. Con alcune differenze. Se India, matri bhumi si presentava come sguardo enunciativo sul mondo indiano, segno di un genealogia critica di formazione dello sguardo occidentale, The Boatman, nella sua distanza temporale dal film di Rossellini, risulta piuttosto, e significativamente, come la traccia di uno sguardo al presente, il prodotto di un etnoscape intensamente globale e meticciato, l’evidenza di una storia globale in atto, le cui forme ed elementi si presentano nell’orizzonte di una visibilità non più neutrale né naturale. Emergenza di un mondo ibridato, rivelato e rintracciato, la cui risoluzione visiva assume il mutamento e la trasformazione di luoghi ed esperienze, ravviva il presente come 120


trama di tradizioni e contaminazioni, attraversa il tema del sacro pasoliniano nella sua profana transvalutazione, preferendo all’origine, come all’originale, l’ibrido del reale, il costituirsi insieme di dati e immaginari, di grammatiche della ripresa e di sintassi del montaggio e della restituzione. Kumbha Mela, progetto occasionale di Antonioni, esito del 1989 di materiale filmato nel 1977, è il segno invece di un’attenzione consolidata ed esplicita del cineasta più significativamente apolide della storia del cinema italiano, il più intento a pensare il cinema come architettura di mondi possibili e lontani, alla ricerca del set come radicamento e straniamento nei luoghi-mondo. Dopo l’esperienza di Chung Kuo – Cina, il documentario reportage nella Cina maoista, il cui finale sembra una messa in forma spettacolare del saggio di Mauss sulle tecniche del corpo, nelle scene di massa filmate nel mattino di Pechino dove un popolo di vecchi, giovani, adolescenti si impegna in esercizi di tai chi, Antonioni in viaggio in India decide di filmare il rito del Kumbha Mela, nel segno del totale e del dettaglio, del corpo e del paesaggio. Nel gennaio del 1977 il regista si trova nei pressi della città di Allahabad, dove ogni dodici anni ha luogo l’imponente celebrazione religiosa. In quella stagione il Gange è in magra, e il suo enorme letto può accogliere la massa di pellegrini che accorrono da ogni parte dell’India. Per compiere il rito di purificazione i pellegrini si dirigono verso un luogo sacro dove i fiumi Jamuna e Saraswati confluiscono sotterraneamente nel Gange. Quel luogo per le culture indiane rappresenta l’Assoluto nella forma fisica e terrena. Impressionato dalla potenza dell’evento, Antonioni decide di registrare con una cinepresa le sue impressioni di viaggiatore mescolandosi alla folla dei pellegrini: con una cinepresa 16 mm, camera prevalentemente a mano, Antonioni filmerà la scena della purificazione collettiva. 5. Bordi antropologici, questioni di cinema e metodi, ipotesi di set, effetti di field Roberto Rossellini trascorre circa un anno nel subcontinente indiano, attraversandolo largamente e viaggiando lungo le cardinalità di quello spazio e nelle cardinalità dei luoghi, delle città e de121


gli stati. La restituzione di questa esperienza di viaggio e conoscenza è come sappiamo una serie documentaria in dieci puntate, coprodotta dalla televisione francese e italiana e dal governo indiano, e un film India, matri bhumi. Appunti per un film sull’India è ancora un prodotto in un certo senso televisivo, una etnofiction e un metafilm, un viaggio alla ricerca di un film da fare, della sua possibilità, una breve e rapida inchiesta sull’India tra modelli urbani e tradizioni rurali, inchiesta nella forma del viaggio-intervista dell’autore, la cui voce contrappunta talvolta i dialoghi, per farsi autorità poetica nel commento off di accompagnamento al film. Il lavoro di Rosi, sviluppo di un saggio di laurea alla New York University è l’esito di tre anni di riprese in tre diversi periodi dell’anno. Il lavoro di Rossellini nella forma del viaggio, delle routes, della ricerca di roots, e nelle due diverse restituzioni, documentaria e di fiction, traccia un’azione multisituata, configura un presente continuamente dislocato e rilocato, si traccia come un percorso orientato di indagine e osservazione, producendo i numerosi set e le situazioni nel corso di un anno. Pasolini interroga e interagisce come poeta e intellettuale, piuttosto che cineasta, assumendone invece le vesti allorché intervista bramini e maharaja sulla forma e la possibilità del suo film da fare. Il lavoro di Rosi, diversamente, si produce come atto di localizzazione, Benares come field, e come pratica di situazione, il Gange, nella logica sostanzialmente di un set unico, attraverso una serie di approssimazioni successive e di attese, al fine di poter filmare i roghi rituali dei cadaveri. Le esperienze di Rossellini e Rosi si costituiscono così come frutto di una profonda frequentazione, la prima più vicina alla tradizione antropologica del field anglosassone, pur con una pratica spaziale di derivazione francese, nel segno della spedizione griauliana; la seconda si localizza e si propone all’interno di una pratica spaziale e temporale rouchiana, mutuando elementi, grammatiche e sintassi, dal segno post-zavattiniano del cinema di McDougall. Rossellini si presenta nella serie documentaria come erede acutamente consapevole della tradizione monologica della restituzione, Pasolini oscilla tra struttura dialogica della restituzione di attitudine etnologica e reportage tradizionale, Rosi sce122


glie un traghettatore del Gange, un dalit, Gopal Maji, come informatore e personaggio, come informatore e persona. I due esiti di Rossellini configurano due diverse pratiche di cinema, l’una attinente al documentario, alla serie, l’altra alla etnofiction, nella tradizione e nella formalità di Fejos, piuttosto che Rouch, pur nell’avvertenza che il lavoro etnografico di Fejos era sconosciuto in quegli anni, a differenza di quello del cineasta antropologo francese. Questi film, così come il cortometraggio di Antonioni, interrogano l’antropologia e il cinema, l’area stessa dell’antropologia visiva storicamente costituita. Questi testi-film producono la questione densa e intensa del profilmico, questione essenziale che investe sia l’esperibilità stessa dell’antropologia visiva sia la possibilità di un’euristica per immagini del mondo. Questione che investe puntualmente la possibilità del film di farsi produttore di reali e realia, capace di rifigurare e costruire senso e significato, di disporsi e proporsi come testo, narrazione, artifact cognitivo. Ma la questione del profilmico attiene poi alla constituency culturale e grammaticale dello sguardo occidentale sui mondi non occidentali: evidenzia ancora una volta una trama che la riflessione postcoloniale è obbligata a dipanare, o quanto meno a leggere all’interno delle formazioni discorsive che producono le immagini del mondo. L’onesta e complessa ambiguità pasoliniana, passibile di una lettura in termini di experimental etnography, nell’accezione di Catherine Russell,13 appare più feconda se letta come complessa variante gramsciana e pan-meridionalista del discorso dell’altro, come potenza estetica di marca, della sua differenza semiotica – gesti, posture, volti, riletti come resistenza al mercato mondiale degli sguardi normalizzati, e tuttavia già sensibili alla seduzione dello spettacolo, come Pasolini osserverà più volte nelle sue immagini della Palestina. Nei tre viaggi a Benares, nelle tre esperienze di set, Gianfranco Rosi accosta e interroga il mondo della tradizione e, sintomaticamente, alcune forme di modernità dell’India anni novanta. La 13. C. Russell, Experimental Ethnography: The Work of Film in the Age of Video, Duke University Press, Durham-London 1999.

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modernity at large di Arjun Appadurai, come la location of culture di Homi Bhabha trovano qui eco e parziale risoluzione: in un documento visivo di circa sessanta minuti, trascorrono, nella forma di incontri e dichiarazioni, figure di bramini, custodi della tradizione, turisti occidentali occasionali, residenti di altre provenienze, come spiriti post-hippie e new age, addetti al culto dei morti e alla cremazione tradizionale dei morti, operatori di forni crematori elettrici, donne bambini adulti vecchi che nelle acque del fiume sacro bagnano ritualmente le membra, adepti occidentali di culti religiosi indiani nel segno di un’adesione eclettica e light. Nella scena urbana indiana contemporanea, l’etnoscape tradizionale, per nulla ormai perturbato dalla presenza del cineasta, si mostra come crocevia di tradizioni e di caste, scena di trend turistici internazionali – le barche colme di giapponesi intenti alle foto di rito, di viaggi di occidentali alla ricerca individuale del sacro, di viaggi sacri indiani al termine della vita terrena. Le acque del fiume presentano una costellazione di cadaveri, cifre di umani e animali, bestie che trascorrono, derive di corpi subito oggetto di attenzione da parte degli uccelli, alimento ciclico del naturale. Dalle sponde e dalla barca del traghettatore – il dalit informatore privilegiato, protagonista del film – la cinepresa osserva e inquadra la com-presenza di morti e viventi in spazi mobili e contigui, al cospetto di Benares, la città personificazione di Shiva, il dio che crea e distrugge. L’eco del conflitto tra musulmani e induisti traspare evidente nelle dichiarazioni di alcuni intervistati. L’impalcatura castale della società indiana, presente nel lavoro di Rossellini, e visibile nell’incontro con i paria di Pasolini, si fa qui largo nelle affermazioni di baba e bramini. I turisti attraversano la scena, gli sguardi in macchina di asiatici e occidentali formano nitidamente l’esperienza di uno spazio ormai globale, la traccia mobile di un mondo assunto come orizzonte di viaggio, vue singolare di ciascuno, di un mondo pronto a farsi memoria fotografica, carta partecipativa di resoconti occasionali validanti. Anche Benares, anche il fiume sacro, sembra offrirsi come paradigma insidioso ma visibile di una zona di contatto. Spazio individuato e ri-localizzato da nuove figure di residenti, come un drop-out romano, prototipo 124


post-hippie ormai indigenizzato, o come un medico americano ripreso nelle sue abluzioni nelle acque infette del fiume, testimone di un avvenuto incontro tra ragione biologica e tradizione sacra. Accanto alle descrizioni letteralmente embodied in queste figure per nulla casuali nell’India contemporanea, la cinepresa non tralascia gli addetti ai crematori mentre attendono alla ricerca di oro e gioielli nei resti dei cadaveri inceneriti, i giochi dei bambini presso i morti, le cerimonie di commiato e la liturgia di queste. Qui, semplicemente, nel prodursi del vero, il film è la morte al lavoro della profezia di Cocteau, inscritta e descritta nella semantica dei gesti e dei discorsi. Pur nell’ellissi narrativa del film la cremazione di un corpo è tuttavia la cremazione di quel corpo: il cadavere che brucia dinanzi alla macchina da presa è la messa a fuoco letterale e ottica del corpo di un ex vivente. Ma l’idea di cinema sottostante, lo sguardo del cineasta, traccia la modestia o addirittura la routine propria di questi gesti, desacralizza il rogo stesso, evidenziandone l’umanità dolorosa, l’insorgenza della tecnica nell’economia del rito: la cremazione elettrica. Mentre Pasolini assegnava ai roghi il finale dei suoi Appunti, in un crescendo poetico, e ne segnava la valenza cerimoniale ed estetica, Rosi filma la flagranza del vero: quadri di cose e stati di cose, una presa d’atto emica piuttosto che etica. India, matri bhumi, Appunti per un film sull’India, Kumbha Mela, The Boatman disegnano, nell’arco di quarant’anni, un racconto dell’india di laggiù vista dal cinema italiano, o meglio da alcuni cineasti italiani. Sono quattro tracce, segnali di attenzione complessa, interrogazioni dell’altrove sulla scorta di passioni politiche, passioni verso il reale, nell’ipotesi che il lontano da noi e il diverso consentano, in nome dello sguardo da lontano, una più intensa chiarezza, o almeno un più intenso stupore, una disponibilità nella via verso lo splendore del vero. Intenti e bisogni di cinema sfidano le vues e l’esotico, si arrischiano nella terra incognita dell’altro, tracciano l’evidenza di grammatiche e sintassi dove l’idea di spettacolo si risolve nella forma dell’attenzione esplorativa, dove la narrazione si fa occasione di interrogazione e conoscenza. Rossellini produce uno sforzo teorico tra cinema etnografico e neo125


realismo nell’ipotesi di una narrazione del mondo come descrizione densa, come finzione vera. Pasolini pratica l’intervista come un poeta reporter, si affida all’immagine nei modi e nelle grammatiche della pittura – i ritratti dei bambini protagonisti del film da fare – per riscattare continuamente l’umano dalle periferie e dalle miserie. Si arrende poi dinanzi alla preistoria contadina dei villaggi dove filma il re-enacting di pratiche agricole alla ricerca delle origini, nella nostalgia pan-meridionale di un mondo contadino e ctonio, dove estasi ed estetica coincidono in un gesto o in uno sguardo. E qui oscilla tra set e field, nella doppia verità di entrambi, nella scomodità del profilmico, nella potenza della sua parola-commento, che poeticamente si fa agency delle immagini. Antonioni, sorpreso dall’evento, dal mondo-set che si fa o può farsi field, raccoglie la sfida dei mondi possibili filmando intanto mondi reali, mondi dove il gesto di un’abluzione si fa esperienza di corpo e spirito insieme, dove il mondo descritto e filmato racconta il reale di un immaginario in un gesto, nell’ipotesi che la vista, nella misura delle ottiche, nella forma dell’inquadratura e poi del film, sia all’altezza di esso, grazie alla potenza delle protesi. Rosi, trent’anni dopo Rossellini, gioca la carta di una complicità emica, sceglie il bianco e nero per produrre una sorta di liminalità enunciata già nell’assenza di colore. Assume la pratica dialogica e la responsabilità della camera, filmando in prima persona filma il tempo nel tempo di vita dei suoi protagonisti, nell’arco di tre anni di set e field. Ai bordi di un’istanza antropologica questi film si presentano come pratiche di cinema e documenti di una restituzione allegoricamente etnografica di alcuni luoghi fisici, di alcuni oggetti narrativi. Ma anche di alcuni luoghi e questioni di metodo, domande su una possibile natura delle immagini antropologiche, sulle evidenze – l’effettuale verrebbe da dire – di certe pratiche di restituzione, dove i bordi di discipline, arti, tecniche in parte si allentano, e le routes diventano esse stesse zone di contatto. Tutto ciò sulla scena più ampia delle immagini-movimento che chiamiamo cinema. Ovvero di una pratica collettiva del vedere e delle sue discipline e possibilità, di una pratica collettiva e plurale del filmare, e quindi delle sue grammatiche storiche e del126


le sue storiche sintassi, nella sua cogenza di dispositivo di immaginari. Dalle indie di quaggi첫 alle diverse indie del mondo. Nei luoghi dove, comunque situati, filmiamo o siamo filmati. Nei luoghi ibridi, transnazionali, per riprendere Bhabha; in quei materiali discorsivi di cui i film sono traccia e documento, spazi di negoziazione del significato. Dove di volta in volta le scuciture del senso o i suoi drappeggi, per ritornare alla metafora rosselliniana, riproducono la dialettica noi-altri, qui e altrove, di cui le immagini sono sintomi, desideri, stati di mondo, enunciati, ellissi, deformazioni spettacolari. Dove da spettatori abitiamo nelle vesti di coloni, ospiti, stranieri, colonizzati, viaggiatori.

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Razzismo postcoloniale o razzismo tout court? Riflessione sui casi italiano e francese ANNAMARIA RIVERA

1. La novità relativa della critica postcoloniale Gli studi postcoloniali hanno il merito di aver rilanciato e ravvivato – anche in Francia e in Italia, sebbene in questi paesi più tardivamente – il dibattito sulle radici coloniali del razzismo contemporaneo e della discriminazione verso migranti e minoranze, col valorizzare l’analisi dell’articolazione fra “razza”, genere e classe sociale e quindi col mostrare in qual modo etnocentrismo e razzismo attuali, eredi delle strutture coloniali, si combinino con altri processi di categorizzazione gerarchica e di dominio. Va loro riconosciuto anche di aver posto l’accento sulla dimensione al tempo stesso materiale e discorsiva del dominio coloniale e sui suoi effetti nel presente, non solo in termini politici, ma anche relativi alle categorie del sapere e alle rappresentazioni dell’alterità, comprese quelle colte e/o accademiche. Tuttavia, la ripresa di questo dibattito non avviene nel vuoto assoluto, come invece sembrano credere certi seguaci recenti della critica postcoloniale. I quali arrivano a sostenere, per esempio, che le scienze sociali francesi avrebbero taciuto per lungo tempo sulla “questione razziale” e, quanto agli storici (senza fare distinzioni), essi sarebbero stati riluttanti “a integrare il passato coloniale nell’interpretazione della storia contemporanea”.1 Che il coQuesto articolo riprende argomentazioni contenute in una mia opera recente: Les dérives de l’universalisme. Ethnocentrisme et islamophobie en France et en Italie, La Découverte, Paris 2010. 1. D. Fassin, E. Fassin, Á l’ombre des émeutes, in D. Fassin, E. Fassin (a cura di), De la question sociale à la question raciale?, La Découverte, Paris 2006, p. 10 (si noti il titolo dell’opera, per quanto dubitativo).

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lonialismo quale fenomeno-chiave del presente e paradigma per comprendere le relazioni fra maggioranza e minoranze “di origine immigrata” nelle “metropoli” sia una scoperta della corrente postcoloniale è cosa alquanto dubbia: se in Italia i pochi storici del colonialismo nostrano sono stati per lungo tempo emarginati o ignorati, per non parlare della risonanza insufficiente che hanno avuto studi e ricerche sul razzismo contemporaneo, la Francia ha sempre avuto una piccola schiera di avanguardia di studiosi molto “ascoltati” – storici, ma anche antropologi, sociologi, politologi, filosofi… – che ha analizzato in profondità non solo il colonialismo francese, ma anche i rapporti fra colonizzazione, immigrazione e razzismo attuali.2 Limitandoci agli autori francofoni, possiamo ricordare, fra gli altri, Althabe, Balandier, Balibar, Césaire, Coquery-Vidrovitch, Fanon, Gallissot, Memmi, Noiriel, Sayad, Senghor. Per non parlare di Sartre: al confronto con la sua prefazione ai Dannati della terra di Fanon, scrive icasticamente Jean-François Bayart, “Gayatri Spivak fait un peu figure de demoiselle d’honneur!”.3 Ma basterebbe considerare l’importanza della nozione di “situazione coloniale” proposta da George Balandier in un famoso articolo del 19514 o l’insistenza con la quale Étienne Balibar ha sottolineato la centralità del retaggio coloniale nel sistema di relazioni sociali, economiche, ideologiche con gli immigrati e i loro discendenti, “la persistance des méthodes et des habitudes administratives acquises au contact de ‘l’indigénat’”,5 l’influenza del sistema coloniale negli schemi di conoscenza e di categorizzazione degli “altri”. 2. Gérard Noiriel contesta l’affermazione secondo la quale in Francia la storia coloniale sarebbe sempre stata un tabù, come tende ad affermare qualche autore postcoloniale, e aggiunge che “prétendre que les rapports entre immigration et colonisation n’ont jamais été étudiés est tout simplement risible”, se è vero, fra l’altro, che la popolazione immigrata più studiata è stata quella algerina. Cfr. G. Noiriel, Immigration, antisémitisme et racisme en France (XIXe-XXe siècle). Discours publics, humiliations privées, Fayard, Paris 2007, pp. 680-681. 3. J.-F. Bayart, Les études postcoloniales. Un carnaval académique, Karthala, Paris 2010, p. 21. 4. G. Balandier, La situation coloniale: approche théorique, “Cahiers internationaux de sociologie”, 11, 1951, pp. 47-79. 5. É. Balibar, Le droit de cité ou l’apartheid?, in É. Balibar, M. Chemillier-Gendreau, J. Costa-Lascoux, E. Terray, Sans-papiers: l’archaïsme fatal, La Découverte, Paris 1999.

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Ora, come hanno contribuito a dimostrare questi studiosi non “postcoloniali”, è indubbio che vi siano, in Francia soprattutto, forme specifiche di discriminazione, disprezzo o rifiuto verso gli immigrati originari dei paesi colonizzati e perfino verso i loro discendenti, che hanno fondamento in istituzioni, pratiche, discorsi e rappresentazioni elaborati nel contesto degli imperi coloniali. Lo dimostra, per riprendere un esempio ben noto, la stessa risposta istituzionale data alla lunga ed estesa rivolta “delle banlieues” dell’autunno del 2005: basta dire che per imporre lo stato di emergenza e il coprifuoco si fece ricorso a una legge del 1955 risalente alla guerra d’Algeria. Conviene ribadirlo, anche per prendere nettamente le distanze dalle tendenze, sempre più rumorose negli anni più recenti, che, in Francia, mirano a minimizzare o a riabilitare il passato coloniale;6 e che in Italia, ben più radicate e persistenti, lo hanno sempre occultato o assolto dietro il mito degli “italiani, brava gente”. Insomma, mi sembra doveroso riconoscere i meriti di coloro che, soprattutto nell’Esagono, non hanno mai smesso di analizzare la persistenza delle radici coloniali nelle relazioni fra la maggioranza e le minoranze, onde evitare di ricadere in quella retorica della rivelazione alla quale mi sembra indulgano alcuni autori postcoloniali, sicuri di essere portatori di paradigmi assolutamente inediti e innovativi, in realtà mutuati tardivamente da ambienti universitari anglofoni. 2. L’antiziganismo, un razzismo specifico e duraturo Con questo non voglio affatto negare, ripeto, l’influenza degli schemi e delle strutture coloniali nei processi di inferiorizzazione, discriminazione, razzizzazione che hanno per oggetto i discendenti dei colonizzati: coloro che, pur essendo cittadini francesi, in Francia sono etichettati come “immigrati di seconda o terza generazione”, una definizione corrente che rivela come la loro naziona-

6. Fra le tante, si veda l’opera di Daniel Lefeuvre, Pour en finir avec la repentance coloniale (Flammarion, Paris 2006), che ha ottenuto dei consensi, ma ha anche suscitato vivaci polemiche.

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lità sia considerata spuria o abusiva.7 Tuttavia penso che sarebbe scorretto dedurre solo dalla forma postcoloniale, oltre tutto non sottoposta ad analisi comparativa, una teoria generale del razzismo, riducendone l’intero arco delle espressioni e delle metamorfosi alla matrice coloniale. Questo riduzionismo conduce alcuni autori che si rifanno agli studi postcoloniali a categorizzare come semplice xenofobia le espressioni di disprezzo, discriminazione e violenza delle quali sono stati per lungo tempo vittime – in Francia come in altri paesi occidentali – gli immigrati provenienti da altri paesi europei (italiani, polacchi, spagnoli, portoghesi, turchi, armeni…), distinguendola dal razzismo propriamente detto, che avrebbe come uniche vittime gli ex colonizzati e i loro discendenti.8 Questa distinzione, basata principalmente sull’argomento dell’“integrazione” riuscita dei figli e nipoti degli immigrati europei, fa torto alla storia. Per dirne una, è assai dubbio che sia definibile come semplice xenofobia il pogrom sanguinoso che si consumò il 17 agosto 1893 ad Aigues-Mortes9 – nelle saline della Camargue, alle foci del Rodano – e che fece strage di un numero ancora imprecisato di operai emigrati dal Piemonte, dalla Lombardia, dalla Liguria, dalla Toscana. Se a compiere quel linciaggio fu una folla costituita da operai francesi e gente comune, i mandanti morali furono di sicuro l’ideologia nazionalista, la politica del tempo, la stampa, anche socialista, i sindacati e le autorità pubbliche. Conviene ricordare che la lunga marcia dell’“integrazione” delle popolazioni immigrate di origine europea, compresi gli ebrei – in Francia come in Svizzera, in Germania come negli Stati Uniti –, 7. Non per caso il presidente Sarkozy di recente è giunto a proporre la misura del ritiro della nazionalità francese alle persone di origine straniera colpevoli di violenza verso rappresentanti delle forze dell’ordine e delle autorità pubbliche, mettendo così in discussione non solo il principio dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, ma anche lo stesso impianto che fonda la concezione francese della nazionalità e della cittadinanza. 8. Come rappresentativo di questa tendenza, si veda P. Blanchard, La France entre deux immigrations, in P. Blanchard, N. Bancel, S. Lemaire (a cura di), La fracture coloniale. La societé française au prisme de l’héritage colonial, La Découverte, Paris 2005, pp. 173-182. 9. Su ciò si veda J. Cubero, Nationalistes et étrangers. Le massacre d’Aigues-Mortes (1893), Imago, Paris 1996; e E. Barnabà, Morte agli italiani! Il massacro di Aigues-Mortes, 1893, Infinito, Castel Gandolfo (Roma) 2008.

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non ha percorso sentieri cosparsi di fiori; e che qualche residuo del sospetto, del disprezzo, del rifiuto o “solo” del pregiudizio e dell’insofferenza che esse hanno patito perdura ancora oggi. Insistendo sulla contrapposizione fra il successo che avrebbe coronato la loro immigrazione, facendo piazza pulita del razzismo, e l’insuccesso che si perpetuerebbe, immutabile, fra le generazioni degli ex colonizzati, si rischia di avallare il mito che oppone l’immigrazione “riuscita” degli uni alla fallita “integrazione” degli altri.10 Oltretutto, questo genere di analisi non considera, o sottovaluta, l’importanza della diversità delle congiunture storiche, soprattutto economiche: nei “trent’anni gloriosi” della Francia, per i giovani dell’immigrazione spagnola, portoghese, italiana, ma anche algerina, le possibilità di trovare lavoro, di inserirsi nel mondo della fabbrica, perfino di “fare carriera” erano ben maggiori di quelle che poi sarebbero state offerte alle generazioni nate dagli anni settanta in poi.11 A dimostrazione della non riducibilità del razzismo alla sola matrice coloniale, si consideri quanto vetusta e persistente, violenta e diffusa nei paesi europei, condivisa e trasversale alle classi sociali e agli orientamenti politici ne sia la forma che prende a bersaglio i rom e i sinti (i cosiddetti “zingari”).12 Anno dopo anno, le inchieste di opinione, realizzate in Italia e in altri paesi europei, confermano che al primo posto nella scala del disprezzo e del rifiuto degli “altri” rimangono costantemente gli “zingari”. Oggi, in Europa, l’intolleranza e il razzismo antizigani conoscono una nuova fase di recrudescenza; o per lo meno il consueto razzismo istituzionale e l’endemica ostilità popolare contro i rom 10. Come ha osservato Gérard Noiriel, in effetti questo è stato il “dogma” principale mobilitato dalla destra e dall’estrema destra, anzitutto allo scopo di bloccare l’immigrazione algerina e poi per giustificare i ritorni forzati in patria, cfr. G. Noiriel, Immigration, antisémitisme et racisme en France (XIXe-XXe siècle), cit., p. 680. 11. Si veda, a tale proposito, S. Beaud, M. Pialoux, Violences urbaines, violences sociales. Genèse des nouvelles classes dangereuses, Fayard, Paris 2003. 12. Vale la pena ricordare, fra l’altro, che l’ossessione delle carte d’identità ha inizio in Francia nel 1912 con l’istituzione del “libretto antropometrico” per gli “zingari”: come ricorda René Gallissot, “vi erano descritti il volume del cranio, il colore degli occhi, la forma delle mascelle e tutte le misurazioni fisiche care allo scientismo razzialista dell’epoca” (R. Gallissot, Identità-identificazioni, in R. Gallissot, M. Kilani, A. Rivera, L’imbroglio etnico in quattordici parole-chiave, Dedalo, Bari 2001, p. 191).

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risaltano con maggiore evidenza visto che essi al momento attuale sono stati ancora una volta prescelti come capro espiatorio: le gravi misure discriminatorie – anzitutto, la segregazione territoriale e sociale nei “campi-nomadi” e l’allontanamento coatto, contro il principio della libera circolazione dei cittadini europei nello spazio europeo – più che a gestire la mobilità di una categoria di “indesiderabili” servono a sostenere campagne politico-mediatiche volte a catturare il declinante consenso degli elettori e a stornare l’attenzione dei cittadini dagli effetti della crisi economica e dagli scandali in cui sono coinvolte le élite politiche al potere. In Italia come in Francia e altrove, tale riattivazione, voluta anzitutto dai governi, da apparati repressivi, da amministrazioni locali, senza una sensibile differenza fra destra e centrosinistra, a sua volta sollecita il disprezzo e l’ostilità popolare contro i rom, sempre latenti. E questi in alcuni casi sfociano in aggressioni collettive, perlopiù compiute da abitanti di quartieri popolari “difficili” e con tassi di disoccupazione molto alti. È accaduto non solo in Italia, per esempio, a Scampia nel 2000 e a Ponticelli nel 2008, in forme assai simili al pogrom; ma anche in Francia, per esempio a Marsiglia, nell’estate dello stesso 2008, a opera di figli e nipoti di immigrati maghrebini. Nel caso marsigliese, a scatenare la spirale di violenza – aggressioni a cittadini rumeni, assalti a colpi di molotov contro insediamenti rom – è stata la propalazione, tramite sms e posta elettronica, della vecchia diceria sui rom come rapitori di bambini, in questo caso aggiornata non solo per il mezzo di diffusione ma anche per lo scopo attribuito: l’espianto di organi. Nell’estate dello stesso anno, a Ponticelli, quartiere della periferia orientale napoletana, un tempo operaio e di sinistra, l’accusa a un’adolescente romnì di tentato rapimento di un neonato ha scatenato un pogrom conclusosi con l’incendio delle baraccopoli e la cacciata violenta di tutti i rom della zona.13 In questo secon13. Umberto Bossi, segretario della Lega Nord e ministro delle Riforme del governo Berlusconi così commentò il pogrom di Ponticelli: “Se lo stato non fa il suo dovere lo fa la gente, la gente dopo un po’ si rompe le scatole” (Ansa, 17 maggio 2008). Su questo e altri casi di razzismo recenti, si veda: G. Naletto (a cura di), Rapporto sul razzismo in Italia, manifestolibri, Roma 2009.

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do caso, la riattivazione della vecchia leggenda della zingara rapitrice e lo scatenamento conseguente dell’ostilità popolare sono state le micce che hanno acceso un fuoco che faceva gli interessi della camorra locale e della giunta comunale napoletana, di centrosinistra, accomunate dal medesimo obiettivo di sgomberare l’area occupata dagli insediamenti rom e destinata a un importante e lucroso progetto urbanistico. 3. La molteplicità delle matrici storiche del neorazzismo Peraltro, l’immigrazione in Italia è caratterizzata, al contrario che in altri paesi europei, dalla presenza di un numero elevatissimo di nazionalità: attualmente la più rappresentata è la rumena, mentre i discendenti dei colonizzati ne costituiscono una percentuale infima.14 Inoltre, i migranti che provengono dai paesi delle ex colonie italiane del Corno d’Africa – in gran parte rifugiati – sono meno bersaglio di discriminazione e di campagne allarmistiche di quanto lo siano o lo siano stati, di volta in volta, i “marocchini”,15 gli albanesi,16 i “musulmani”, gli “slavi”, i rumeni, i rom, questi ultimi due gruppi oggi vittime principali della xenofobia e del razzismo.17 Infatti, i capri espiatori delle ricorrenti campagne politi14. Se vi è una peculiarità concernente migranti e rifugiati provenienti dai paesi del Corno d’Africa, e i loro discendenti, questa riguarda la nascita, a partire dagli anni novanta, di un filone narrativo postcoloniale a opera di autori – in maggioranza autrici – somali, etiopi, eritrei, che scrivono in lingua italiana e che si confrontano in modo consapevole con il proprio passato da colonizzati e con il nostro passato coloniale. 15. Con questo termine, fino ad anni recenti, si nominavano tutti i migranti provenienti dai paesi del Maghreb. 16. È vero che si potrebbe parlare degli albanesi come di ex colonizzati: nel 1939 le truppe italiane invasero il territorio albanese, trasformandolo in una colonia e instaurandovi un regime fantoccio. Tuttavia, dopo il ritiro delle truppe tedesche, nel 1944, la storia albanese dei successivi quarant’anni non è stata certo quella tipica delle ex colonie. 17. A proposito del processo di razzizzazione che colpisce i rumeni, si legga questo passo tratto da un articolo pubblicato nel 2006 da un quotidiano nazionale, “Il Tempo”: “È considerata la razza più violenta, pericolosa, prepotente, capace di uccidere per una manciata di spiccioli. È capace di compiere truffe milionarie grazie all’alta conoscenza delle tecnologie. Non ha paura di nulla, disprezza anche la vita di donne e bambini che non raggiungono i dieci anni d’età. E si appresta addirittura a entrare nell’Unione Europea. Sono i rumeni, sono i cittadini della Romania che da anni terrorizzano il nostro paese” (A. Parboni, Un’etnia sempre in “cronaca nera”. Hanno il monopolio criminale di clonazioni e prostituzione, “Il Tempo”, 3 ottobre 2006).

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co-mediatiche di stampo xenofobico o razzista sono prescelti in base alle contingenze politiche e alla loro posizione statistica nella scala dell’immigrazione: il gruppo preso di mira è solitamente quello al momento più numeroso, con l’eccezione di “zingari”, invariante per eccellenza, e di “musulmani”, che si è affermato come invariante a partire dalla guerra del Golfo e si è infine consolidato a partire dall’11 settembre 2001. Il caso italiano mostra, fra l’altro, quanto insostenibile sia la tesi postcoloniale alla francese, secondo la quale gli immigrati da paesi europei sarebbero, sì, all’inizio, bersaglio della xenofobia ma destinati poi a un’“integrazione” sicura: l’esempio dell’immigrazione albanese, vecchia ormai di almeno vent’anni, smentisce clamorosamente questa tesi. In Italia, il circolo vizioso del razzismo, ormai ben noto e ben analizzato, si riproduce costantemente almeno da un ventennio, secondo gli stessi schemi e dispositivi, con pochi aggiornamenti e varianti. I dispositivi retorici sono quelli classici della tradizione razzistica: la generalizzazione arbitraria; il ricorso a metafore naturalistiche e allarmistiche; la de-umanizzazione delle persone appartenenti al gruppo etichettato; l’etnicizzazione dei crimini (omicidi, stupri, rapine, perfino incidenti stradali), che vengono quindi fatti passare come tipici di questa o quella popolazione immigrata; il trattamento discriminatorio dei dati personali dei presunti autori se stranieri (sempre indicati dai media con nome, cognome e nazionalità, sempre sottratti al principio giuridico della presunzione d’innocenza). Ora, i gruppi che di volta in volta vengono prescelti come capro espiatorio e di conseguenza razzizzati non sono certo marcati da tratti fenotipici distintivi (il che smentisce il presupposto che il razzismo “di colore” sia l’unico definibile come tale); e neppure, con l’eccezione dei rom, da rilevanti differenze culturali rispetto agli “autoctoni”. A renderli “particolari” vi è solo l’intreccio fra la condizione sociale inferiore, lo status giuridico “minore” e la nazionalità differente. Quest’ultimo elemento, peraltro, è spesso assente fra i rom e i sinti, una percentuale importante dei quali è di nazionalità italiana, il che non li ha messi al riparo da stigmatizzazione, disprezzo, apartheid e razzismo. Quest’ultimo caso, so135


prattutto, dovrebbe indurci a relativizzare e a contestualizzare comparativamente l’argomentazione secondo la quale il razzismo contro gli immigrati originari dei paesi colonizzati sarebbe la più – o la sola – specifica e duratura. Basta ricordare con quale persistenza la violenza istituzionale e quella popolare abbiano colpito i rom nel corso della storia: dalle persecuzioni e i pogrom di epoca premoderna alle modernissime misure come l’istituzione e l’obbligo del libretto antropometrico per poter circolare, dalle campagne di sterilizzazione forzata alla deportazione nei campi di sterminio, fino ai massacri nelle regioni della ex Jugoslavia… Insomma, a soffermarci sul contesto italiano – a mio parere caratterizzato oggi da una pericolosa saldatura fra razzismo di Stato e razzismo popolare, come ho scritto più volte18 – risalta con ancor più evidenza la molteplicità delle “tradizioni” che riemergono e vengono di nuovo mobilitate per stigmatizzare, discriminare, colpire i più vari soggetti razzizzati: i rom e categorie variabili di migranti e rifugiati. Mi sembra, insomma, che il razzismo italiano attinga le proprie retoriche e i propri dispositivi da una “memoria”, per lo più irriflessa, costituita dall’intreccio fra antigiudaismo cristiano, antisemitismo, razzismo antislavo, pregiudizio antimeridionale e antizigano, infine razzismo sociale verso le “classi pericolose”. Quanto al razzismo coloniale, pur non essendo, in Italia, componente principale di questo intreccio, vi ha di sicuro contribuito, in un duplice senso: 1) ha lasciato in eredità un immaginario e un repertorio – latenti ma sempre disponibili per essere riesumati, attualizzati, riutilizzati – di cliché, stereotipi, pregiudizi riguardanti le popolazioni ex colonizzate, gli africani, i “negri”; 2) poiché il passato e il razzismo coloniali non sono stati mai sottoposti a riflessione, rielaborazione, condanna collettive, lo stesso razzismo odierno è oggetto di una sorta di negazionismo collettivo. Intendo dire che la tendenza a negare la deriva razzista attuale – contro ogni evidenza, contro le indagini più rigorose e i frequenti ri18. Si vedano, per esempio: A. Rivera, Regole e roghi. Metamorfosi del razzismo, Dedalo, Bari 2009, e Id., La Bella, la Bestia e l’Umano. Sessismo e razzismo senza escludere lo specismo, Ediesse, Roma 2010.

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chiami all’Italia da parte di istituzioni europee e internazionali – è simmetrica e conseguente all’incapacità, tipicamente italiana, di fare i conti con la storia specifica del proprio colonialismo e razzismo. Questa attitudine non riguarda solo gli ambienti di destra, ma si estende anche a quelli di sinistra. A proposito delle molteplici tradizioni storiche che concorrono a formare il neorazzismo, non solo nella versione italiana, occorre aggiungere un’altra considerazione. Oggi assistiamo al ritorno in superficie di una delle matrici più classiche del razzismo di origine ottocentesca: quella contro le “classi pericolose”, che, come è noto, furono inventate fra gli anni settanta dell’Ottocento e i primi del Novecento. Mi sembra non vi sia molta differenza fra gli stereotipi e i pregiudizi che a quel tempo categorizzarono come “classi pericolose” i poveri, i vagabondi, i lavoratori precari, gli operai immigrati dalle campagne e dall’estero, e gli stereotipi e i pregiudizi attuali che considerano i rom e i migranti (anche i loro figli e nipoti), in particolare i più precarizzati o marginalizzati, come pericolosi, devianti, non integrabili. I discorsi pronunciati in occasioni ufficiali da ministri (in primis quello dell’Interno) e da altri esponenti politici circa le nuove misure da adottare contro “chi non vive in modo legale e autosufficiente e in particolare nomadi, prostitute e vagabondi”19 riecheggiano le retoriche fin de siècle sulla plebaglia, la marmaglia, la populace, la racaille… Del resto, come ha osservato fra gli altri Alberto Burgio, la narrazione razzista è una sorta di mito circolare, che si autoconferma incessantemente, crescendo su se stesso e ricorrendo sempre al medesimo arsenale sincretico di metafore e pregiudizi.20 L’emergere dei più classici repertori razzistici, compreso l’antisemita, si accompagna con il ritorno a una concezione premoderna del diritto penale: si è considerati colpevoli – o colpevoli più di altri – non necessariamente perché si è commesso un reato, ma in quanto si appartiene a una certa categoria sociale o a una certa minoranza stigmatizzate. Recuperando l’impianto giuridico pre19. Così Gianni Alemanno, sindaco della capitale, in un vertice con il ministro dell’Interno Maroni, il 7 settembre 2010. 20. A. Burgio, Nonostante Auschwitz, DeriveApprodi, Roma 2010, p. 188.

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moderno, la penalità ritorna, insomma, a fare perno intorno alla personalità, alla posizione e alla rappresentazione sociale del presunto colpevole. Come osserva Burgio, la stessa “determinazione dei comportamenti perseguibili in quanto devianti muove dalla figura (dalla rappresentazione sociale) dell’attore che (presuntivamente) li mette in atto”.21 Per le ragioni che ho illustrato sommariamente, mi sembra non sia opportuno – dal punto di vista sia scientifico che politico – mettere in discussione la struttura unitaria del razzismo, riducendolo alla sola matrice coloniale e/o anti-nera: in realtà, come ho detto, i medesimi repertori, provenienti da filoni molteplici, sono costantemente ri-mobilitati per colpire i più diversi soggetti razzizzati, qualunque sia la loro provenienza e nazionalità. 4. Una questione di “razza”? Per quel che riguarda il piano teorico, uguale cautela si dovrebbe usare rispetto all’importazione – in Francia come in Italia – di temi, concetti e parole-chiave elaborati nel contesto anglo-americano, per non rischiare di ottenere effetti controproducenti o paradossali. È il caso della proposta di reintrodurre il termine e la nozione di razza, avanzata esplicitamente da alcuni autori, soprattutto francesi, che si rifanno agli studi postcoloniali. Quando non si tratta di un’importazione meccanica e irriflessa del lessico anglo-americano, il loro ragionamento è riassumibile nei termini di un sillogismo di questo genere: la retorica dei diritti umani ha fatto della “razza” un interdetto (in realtà in Europa la “razza” è divenuta indicibile dopo la scoperta dello sterminio nazista); ma poiché la discriminazione e il razzismo esistono, per renderli palesi, analizzarli, contrastarli, nominarne le vittime, conviene riesumare la parola “razza”, dunque parlare di “realtà razziali” e di “questione razziale”. Per cogliere quanto sia paradossale questa proposta si deve considerare quale mole di paziente lavoro critico sia stata dedicata, in Francia e in Italia, a partire dagli anni del secondo dopoguerra, alla demolizione della categoria di razza, nel cam21. Ibidem.

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po delle scienze sociali e di quelle biologiche. Come è quasi banale precisare, a condurre questo lavoro sono stati gli studiosi più impegnati a contrastare razzismo, colonialismo e neocolonialismo, non già dei pigri retori dell’umanitario. Ma la stessa cosa si può dire in rapporto agli Stati Uniti, dove pure il termine “razza” e i suoi derivati sono adoperati correntemente, anche nel linguaggio scientifico. Basta ricordare l’incessante opera di decostruzione della “razza” condotta nell’ambito dell’antropologia culturale americana, a partire dal suo caposcuola, Franz Boas, per arrivare a Ashley Montagu, la cui critica, iniziata negli anni trenta, avrebbe condotto nel 1942 alla pubblicazione di un’opera importante – un classico ormai – volta a dimostrare la fallacia e la pericolosità del “mito della razza”.22 Qualche anno più tardi, colui che aveva coniato il concetto di transculturazione, il cubano Fernando Ortiz, egli stesso di formazione boasiana, denuncerà el engaño de las razas in un libro che resterà, purtroppo, poco conosciuto in Europa.23 Il fine dichiarato del tentativo di reintrodurre, in Francia e in Italia, la nozione sociale di “razza” è – lo sappiamo bene – denunciare la finzione e l’interdetto che impediscono di nominare pubblicamente, riconoscere e interpretare la realtà della discriminazione ai danni delle minoranze postcoloniali (nondimeno, alcuni studiosi e movimenti lo hanno sempre fatto). Poiché in teoria i modelli d’integrazione francese e italiano – il primo, vetusto e consolidato, benché oggi in crisi, il secondo inconsistente e mal definito – si basano sul riconoscimento di diritti individuali universali, essi da una parte non riconoscono le differenze dette etniche e dall’altra garantiscono, ma molto in astratto, il principio di non-discriminazione. In tal modo il peso che hanno nei processi di discriminazione l’origine nazionale, il “colore”, la residenza in quartieri connotati come etnici, l’appartenenza a gruppi disprezzati è occultato o denegato; e le stesse indagini statistiche – che pure non mancano – sono rese difficili da tale finzione. Se questo è lo scopo asserito, l’effetto non voluto potrebbe es22. Cfr. M.F.A. Montagu, La razza: analisi di un mito (1942), Einaudi, Torino 1966. 23. F. Ortiz, El engaño de las razas (1945), Editorial de Ciencias Sociales, La Habana 1975.

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sere quello di tornare a entificare o reificare una metafora biologizzante, che appartiene al campo dei fenomeni semantici, non già a quello della realtà empirica;24 in tal modo si confermerebbe o si legittimerebbe il senso comune secondo il quale le “razze” sarebbero indiscutibili realtà empiriche e autoevidenti, e il razzismo si identificherebbe con il disprezzo, il rifiuto, la discriminazione della “gente di colore”. Inoltre, mi sembra che dietro l’importazione della “razza” vi sia la sottovalutazione delle ragioni storiche per le quali il termine relativo ha, nelle aree culturali e accademiche francese e italiana, connotazioni e risonanze molto diverse che in quelle anglosassoni. In queste ultime, infatti, esso è inteso per lo più come denotativo di una realtà oggettiva, al pari dell’età e del sesso, benché non sempre sia declinato in senso biologico o essenzialistico: nel lessico scientifico, soprattutto negli ambienti postcoloniali, essa denota piuttosto la percezione sociale della variabilità fenotipica e la sua incidenza nei rapporti sociali e nelle differenze di classe, di status e di potere. In Gran Bretagna e negli Stati Uniti, la definizione razzialista delle minoranze, da queste per lo più accettata, se ha fra le sue finalità il loro controllo da parte delle istituzioni, ha anche come scopi dichiarati la rilevazione della discriminazione, una più efficace definizione dei loro bisogni, la correzione delle ineguaglianze, la conseguente distribuzione delle risorse. Il diritto francese, all’opposto, rifiuta perfino la nozione di minoranza, è privo di strumenti positivi per contrastare le discriminazioni e ignora il carattere collettivo delle vittime di discriminazione e razzismo.25 Tuttavia, non credo affatto che l’introduzione nel discorso pubblico francese e italiano della “razza”, sia pure ridefinita come differenza “à la fois reifiée et radicalisée”, come scrive Didier Fassin,26 24. C. Guillaumin, L’idéologie raciste. Genèse et langage actuel, Mouton & Co, Paris-La Haye 1972. 25. Cfr. V. De Rudder, C. Poiret, F. Vourc’h, L’inégalité raciste. L’universalité républicaine à l’épreuve, PUF, Paris 2000. 26. D. Fassin, Nommer, interpréter. Le sens commun de la question raciale, in D. Fassin, E. Fassin (a cura di), De la question sociale à la question raciale?, cit., p. 32.

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potrebbe segnare un avanzamento nella presa di coscienza pubblica della discriminazione e del razzismo o essere, come sostiene paradossalmente lo stesso Fassin, uno strumento più efficace per analizzare il “razzismo senza razze”: un’affermazione contorta come la seguente – “a coté de la classique combination du racisme racial il existe une racialisation non raciste, mais aussi un racisme sans races” – lascia trapelare il retropensiero che le razze siano, in fondo, delle realtà empiriche e che il razzismo non-biologico rappresenti una novità del nostro tempo. Sul piano descrittivo risulterebbe meno imbarazzante e ben più operativo ed efficace parlare di minoranze, facendo riferimento non già alle loro “origini”, ma alla loro storia.27 Il concetto di minoranza,28 più adatto a essere usato in senso dinamico e processuale, cioè nell’accezione di collettività storica, può permettere di scongiurare il rischio di un’etero-definizione e assegnazione in base al “colore” o al fenotipo. L’appartenenza a una minoranza – intesa non in senso statistico, ma sociologico, come entità collettiva dominata, subalterna e/o esclusa – è sì l’esito di relazioni gerarchiche ma soprattutto di una scelta soggettiva, cioè di un “gesto” politico.

27. Come ricordano Véronique De Rudder, Christian Poiret e François Vourc’h (L’inégalité raciste, cit., p. 7), “la France récuse la notion même de minorité (nationale, ethnique, religieuse, linguistique): elle refuse de signer les conventions et les traitées internationaux qui en font mention ou ne le ratifie que sous réserve”. 28. La classica definizione di “minoranza” dovuta a Louis Wirth, sociologo della Scuola di Chicago, resta tuttora una pietra miliare, benché formulata sessantasei anni fa: “Possiamo definire minoranza un gruppo di popolazione che, a causa delle sue caratteristiche fisiche o culturali, si distingue dagli altri all’interno della società in cui vive per il trattamento differenziato e diseguale cui è sottoposto, e che per questa ragione considera se stesso oggetto di discriminazione collettiva. L’esistenza nella società di una minoranza implica l’esistenza di un corrispondente gruppo dominante che gode di un migliore status sociale e di maggiori privilegi. Dalla condizione di minoranza deriva l’esclusione dalla piena partecipazione alla vita della società” (L. Wirth, The problem of minority groups, in R. Linton, a cura di, The Science of Man in the World Crisis, Octagon Books, New York 1945, p. 347). Anche sul piano della prospettiva politica, Wirth ci dà un’indicazione preziosa: se una minoranza adotta una strategia “pluralista”, si può ritenere che abbia raggiunto il proprio scopo allorché sia riuscita “a estorcere al gruppo dominante il pieno riconoscimento dell’uguaglianza in tutti i campi dell’economia e della politica e il diritto di essere lasciata in pace in tutti i campi della cultura” (ivi, p. 357).

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5. La struttura unitaria del razzismo Quanto al razzismo detto differenzialista, culturale o culturalista – e, con un’espressione ben più infelice, “razzismo senza razze” – conviene fare qualche precisazione. Una vulgata scientifica superficiale afferma che questa è la forma di razzismo “propria del nostro tempo”. In verità, solo se ci si riferisce alla dimensione del discorso si può affermare, per approssimazione, che il razzismo contemporaneo sia “senza razze”: con alcune eccezioni rilevanti, infatti, esso per lo più non fa riferimento alla biologia, a classificazioni e gerarchie razziali. Tuttavia, gli slittamenti, il mélange e i passaggi dal razzismo biologico a quello detto culturale ci sono sempre stati, ci sono tuttora e sono sempre possibili. Conviene ricordare che lo stesso discorso antisemita è stato, anche nel passato, attraversato dall’idea che gli ebrei costituissero una “razza storica”, una “razza dell’anima” o una “razza mentale”: qualcosa di più solido e duraturo di una razza tout court, come scriveva Hitler nel suo testamento politico.29 Nelle retoriche del nazismo tedesco e del fascismo italiano, gli argomenti biologisti più estremi hanno sempre convissuto con quelli differenzialisti, culturalisti e spiritualisti: basta pensare a Julius Evola, uno degli ideologi più importanti del fascismo, italiano e non solo. In un senso più generale, il razzismo è sempre stato “senza razze”, se è vero che è esso a inventarle performativamente, come ci insegna soprattutto la lunga storia dell’antisemitismo. Non è, dunque, qualche tratto distintivo specifico, più o meno visibile, o l’effettiva distanza culturale fra “noi” e gli “altri” ciò che determina o alimenta il razzismo, poiché lo stigma della “razza” o dell’“etnia” (come si dice con un eufemismo) è l’esito arbitrario di un processo sociale di naturalizzazione della differenza, di alterizzazione, di conseguente etichettamento dei gruppi naturalizzati. Anche l’attribuzione di un “colore diverso” è il risultato di una costruzione sociale: per gli italiani immigrati negli Stati Uniti si inventò il colore “olivastro”, non volendo ascriverli alla “razza bian29. Vedi P.-A. Taguieff, La force du préjugé. Essai sur le racisme et ses doubles, La Découverte, Paris 1990, p. 168.

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ca” e non potendo attribuirli a quella “nera”. In definitiva, tutte le razze sono inventate, come ha scritto Colette Guillaumin.30 La “razza”, insomma, serve a dare un nome, più o meno spregiativo, comunque connotativo, a collettività discriminate, dominate, sfruttate e/o inferiorizzate, segregate, selezionate come capro espiatorio. Per queste ragioni, sommariamente esposte, riesumare la “razza” mi sembra sia un arretramento rispetto allo stato attuale della ricerca e del dibattito scientifici, anche perché, qualunque precauzione si prenda, “le passé des mots sédimente et persiste – de façon manifeste ou latente – dans leurs usages ultérieurs”:31 per quanto si faccia lo sforzo di sociologizzarla, “razza” conserverà sempre il significato biologico che le è stato attribuito nel XIX secolo. Insomma, non sarebbe fondato scientificamente né politicamente intelligente mettere in questione il carattere sistemico e unitario del razzismo. Il quale, certo, non è un monolito, poiché si articola in forme molteplici e subisce le metamorfosi più varie, che vanno analizzate nella loro dimensione storica e sociale. Nondimeno, vi sono strutture ideologiche e discorsive che lasciano tracce e si perpetuano al di là delle loro condizioni storiche, riattivandosi in congiunture particolari e rivolgendosi ai bersagli più disparati: basti pensare a quanto l’islamofobia e la ziganofobia attuali somiglino all’antisemitismo per temi e dispositivi ideologici e simbolici. Converrebbe, dunque, legare teoreticamente il carattere distintivo del razzismo postcoloniale al carattere generale del sistema-razzismo, cercando di coglierne la dialettica reciproca. Sarebbe corretto affermare che il razzismo coloniale – a sua volta erede del protorazzismo della limpieza de sangre, del positivismo e del nazionalismo liberale (che oggi si perpetua nelle più varie forme di razzismo istituzionale e/o “democratico”) – concorre, insieme alle altre matrici cui ho accennato prima, a modellare le più varie espressioni di razzismo: anche le forme che prendono di mira minoranze diverse da quelle costituite dagli ex colonizzati e dai loro discendenti. 30. Cfr. C. Guillamin, L’idéologie raciste, cit. 31. V. De Rudder, C. Poiret, F. Vourc’h, L’inégalité raciste, cit., p. 27.

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Il luogo disciplinare della postcolonia GIOVANNI LEGHISSA

1. La governamentalità neoliberale, ovvero l’ubiquità della postcolonia Interrogare la postcolonia significa avvicinarsi a un luogo discorsivo, molteplice e variegato, e di conseguenza abbastanza sfuggente, che attraversa istituzioni, pratiche di potere, meccanismi di esclusione e di inclusione, confini, corpi legislativi, norme, formazioni dell’immaginario collettivo, tradizioni, scambi di linguaggi e di idee, saperi e discipline, linguaggi dell’arte e della letteratura, dialoghi tra soggetti nel mondo della rete. La postcolonia si situa in tutti quei luoghi in cui le rappresentazioni collettive delle identità incrociano i vissuti quotidiani e i rapporti di potere che li innervano e permettono ai soggetti di occupare una specifica posizione entro il gioco dello scambio sociale. Di volta in volta, è chiaro, sarà possibile isolare solo un momento specifico di tali molteplici incroci. A seconda delle proprie competenze disciplinari, si riuscirà a descrivere, con un minimo di completezza e con quel rigore che è richiesto da ogni prassi accademica, solamente una porzione definita, locale, della rete di discorsi in cui i soggetti sono catturati quando si confrontano gli uni con gli altri in quanto abitatori di un mondo che si presenta diviso in due. Precisamente verso questa divisione, che è discorsiva prima di essere fattuale, si dirige lo sguardo postcoloniale: da una parte, vi è la metropoli, il centro, la sorgente di significati contestabili ma al tempo stesso necessari per definire l’umano; dall’altra, si pone la periferia, il margine, l’altrove, geografico e mentale

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assieme, spesso assimilato a un’inferiorità bisognosa di emendazione. Descrivere quella piccola porzione sarà il solo modo per dar conto della più vasta rete: quest’ultima è imprendibile, non si lascia cogliere da nessun colpo d’occhio, perché essa si confonde ormai con quella totalità inesauribile dei flussi di merci, individui e informazioni che, con una parola tanto abusata quanto inevitabile, chiamiamo globalizzazione. Che non si possa parlare della postcolonia senza toccare il tema della globalizzazione economica è ormai un dato che possiamo dare per acquisito.1 Tra le ragioni che stanno alla base di questo stato di cose ne esplicito una soltanto – ma, vista la complessità che la caratterizza, mi pare comunque sufficiente. Si tratta di ciò che definirei come la pervasività delle pratiche di governo neoliberali – il plurale qui è d’obbligo, essendo il progetto politico neoliberale caratterizzato da un’estrema duttilità. È un progetto che si lascia scorgere, da un lato, nel modo in cui le agenzie di governo, siano esse organizzazioni, istituzioni o amministrazioni,2 si prendono cura delle vite individuali a partire dall’assunto secondo cui queste ultime sono una risorsa misurabile, calcolabile e gestibile seguendo criteri desunti dalla razionalità economica. Dall’altro, il progetto neoliberale emerge nel modo in cui si gestiscono gli spazi del dentro e del fuori in riferimento alla costruzione delle comunità politiche (da intendersi nel senso più lato possibile, ovvero come comunità di individui ai quali possono essere ascritti dei diritti). Tali spazi possono estendersi quanto i confini di uno stato, oppure quanto lo spazio abitato da un gruppo anche piccolo di individui, accomunati per esempio da un’attività lavorativa o da una qualche forma di appartenenza; ciò che conta, in tutti i casi, è la possibilità di gestire le vie di accesso a questa spazialità in modo da rendere poco visibile, o addirittura in modo da occultare, la politicità delle negoziazioni necessarie per stabilire chi entra e chi esce, sostituendo a essa criteri di natura economica – 1. Cfr. S. Mezzadra, La condizione postcoloniale. Storia e politica nel presente globale, ombre corte, Verona 2008. 2. Sulla distinzione tra amministrazioni, istituzioni e organizzazioni, si veda L. Boltanski, De la critique. Précis de sociologie de l’émancipation, Gallimard, Paris 2009.

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laddove l’economico in questione non rimanda tanto alla logica del mercato o a quella del profitto, quanto a quella di un’efficienza che permette di rendere in ogni momento perspicui i rapporti procedurali che legano i mezzi a disposizione ai fini perseguiti durante uno specifico corso di azioni.3 Inversamente, coloro che analizzano il progetto neoliberale non possono non interrogarsi sul luogo della postcolonia, in quanto quest’ultimo ormai coincide con lo stesso ecumene globale. Nessuna forma di dominio può oggi prescindere dagli antichi legami che univano i centri alle loro periferie coloniali: questi legami servono da base sia per la formazione delle élite attualmente al potere, al tempo stesso simili e dissimili da quelle dell’età coloniale,4 sia per la costruzione e il mantenimento di quei flussi di merci e di manodopera dalla periferia ai centri (e viceversa) che la nuova classe capitalista transnazionale gestisce a proprio beneficio.5 Ma, più in profondità, nessuna gestione governamentale degli assemblaggi globali potrà ormai essere altro che contaminazione tra quella temporalità fissa e immobile, del tutto simile a un eterno presente, che coincide con il flusso delle transazioni economiche, e quelle temporalità multiple, variamente dislocate, che ritmano i flussi dell’esperienza soggettiva, la quale rimanda inevitabilmente a forme di vita che resistono, in vario modo e con varia intensità, alla riduzione del vitale all’economico.6 Guardare all’ecumene globale da una prospettiva postcoloniale significa allora articolare, 3. Sugli “spazi di eccezione” che la governamentalità neoliberale costruisce a proprio vantaggio, sono fondamentali le analisi compiute in A. Ong, Liberalism as Exception. Mutations in Citizenship and Sovereignty, Duke University Press, Durham (N.C.)-London 2006. 4. In merito, si veda l’analisi, che qui assume un valore esemplare, compiuta sul caso costituito dall’Africa subsahariana in J.-F. Bayart, L’État en Afrique: la politique du ventre, Fayard, Paris 1990. 5. Che oggi, in riferimento alla gestione del progetto politico neoliberale, si possa tornare a parlare di classe, lo si mostra bene in L. Sklair, The Transnational Capitalist Class, Blackwell, Oxford 2001. 6. Vi è un’eccezione al riguardo: il vissuto dei traders, di coloro che lavorano per così dire “dentro” la macchina che produce e riproduce i mercati finanziari, è totalmente immerso nell’eterno presente dei flussi che attraversano il mercato delle transazioni finanziarie; su ciò, cfr. C. Zaloom, The discipline of speculators, in A. Ong, S.J. Collier (a cura di), Global Assemblages: Technology, Politics, and Ethics as Anthropological Problems, Blackwell, OxfordMalden (Mass.) 2005, pp. 253-269.

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ovvero rendere visibile, la contaminazione tra queste due forme di temporalità; ma si tratta di una messa a nudo che, per quanto aspiri a essere critica e decostruttiva, non potrà mai annullare del tutto la carica a suo modo utopica ed eversiva del progetto di dominio neoliberale. I tempi del mondo della vita si lasciano certo comprendere come messa in scena di formazioni storiche e culturali che non nascono nell’età della governamentalità neoliberale, che sono discroniche rispetto al tempo piatto e onnivoro del mercato globale e che, dunque, forniscono la cornice a giochi di scambio in cui avvengono transazioni di natura non solo mercantile ed economica. D’altra parte, però, l’acronia dei mercati, a cui tutto si rapporta grazie al diffondersi di una narrazione che identifica nella razionalità del calcolo economico la sola sorgente del senso, non potrà mai fare a meno di tradursi nel tempo vissuto dei soggetti che, oltre a commerciare, produrre e consumare, pure sperano, sognano, desiderano e si scambiano doni. Insomma: la necessaria Einbettung dell’economico entro tutte le altre sfere del mondo della vita, a cui si riferiva Polanyi7 e che recentemente è stata ripresa da coloro che hanno a cuore una sociologia che non si riduca a essere appendice della scienza economica,8 costituisce ciò di cui si serve il progetto di dominio neoliberale per poter proliferare e riprodursi, in una sorta di parassitismo incessante che lavora dentro le pieghe dei vissuti soggettivi – e ciò nonostante il fatto che tali vissuti soggettivi mai e poi mai si lascerebbero descrivere grazie alle risorse concettuali offerte dalla teoria della scelta razionale. Solo una profonda miopia disciplinare potrebbe allora far credere che occuparsi di studi postcoloniali significhi descrivere le forme culturali del tardo-capitalismo, o del liberalismo avanzato – espressioni, queste ultime, che segnano un notevole arretramento euristico rispetto al modo in cui Foucault, nel momento in cui introduce le nozioni di biopolitica e governamentalità, si sforza di 7. Cfr. K. Polanyi, La grande trasformazione (1944), Einaudi, Torino 2000. 8. Cfr. M. Granovetter, Azione economica e struttura sociale. Il problema dell’embeddedness, in M. Magatti (a cura di), Azione economica come azione sociale, Franco Angeli, Milano 1990, pp. 49-80.

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isolare la novità costituita dal dominio neoliberale.9 Non ci sono, da una parte, un mondo globale, in cui agenzie di governo pubbliche e private si contendono la gestione della vita degli individui e dell’ambiente in cui vivono, e, dall’altra, gli sforzi di individui e gruppi tesi a preservare “ciò che resta” dopo che tutto è stato ingurgitato e digerito dalla cosiddetta “logica del capitale” (altra espressione che poco aiuta a comprendere la governamentalità neoliberale). Ci sono invece processi di formazione della città neoliberale globale in cui l’imposizione di nuove forme di controllo e di disciplinamento dei corpi (corpi che migrano o che lavorano, per esempio) non è distinguibile dall’emergenza, contraddittoria e polisemica, di rappresentazioni identitarie individuali e collettive delle quali i soggetti si servono, a volte in modo non del tutto consapevole, per rendere possibile l’articolazione discorsiva – o anche solo fantasmatica – di un altrove rispetto alla progettualità biopolitica neoliberale.10 2. La scrittura della postcolonia e la questione dell’alterità Soltanto dentro lo spazio dell’enciclopedia parrebbe forse risultare lecito ritagliare un campo di enunciati che ha il compito di descrivere la dimensione culturale che caratterizza il gioco di rimandi tra centri e periferie, lasciando che sia invece affidato a un altro campo il compito di descrivere i cambiamenti sociali, politici e giuridici che il neoliberalismo porta con sé. Ma la legittimità di tale divisione del lavoro è tutta da discutere e, soprattutto, da decostruire. Essa infatti non poggia tanto sulla pigrizia mentale o sulla mancanza di curiosità intellettuale, le quali spesso inducono a occuparsi solo di aspetti parziali e settoriali di un complesso di fenomeni che si presenta variegato e multiforme, e quindi 9. Cfr. M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (19771978) (2004), a cura di M. Senellart, Feltrinelli, Milano 2005 e Id., Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979) (2004), a cura di M. Senellart, Feltrinelli, Milano 2005. 10. Su ciò, cfr. J.-F. Bayart, Le gouvernement du monde. Une critique politique de la globalisation, Fayard, Paris 2004, un testo che offre un ottimo esempio di come si possa spiegare il fenomeno della globalizzazione mettendo a frutto le categorie foucaultiane di biopolitica e di governamentalità.

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difficilmente dominabile da un singolo individuo. Nemmeno è qui decisiva la spinta alla specializzazione che proviene dall’accademia e che induce a focalizzare lo sguardo su questo o quell’aspetto dell’intreccio tra la postcolonia globale e la governamentalità biopolitica neoliberale a seconda della propria appartenenza disciplinare (e quindi concorsuale). Più in profondità, dietro tale auspicata divisione del lavoro operano piuttosto quelle formazioni discorsive all’interno delle quali si è dispiegata, nell’ambito della tradizione europea, una serie ben precisa di distinzioni concettuali, in primis quella tra il culturale e l’economico; ed è in virtù del peso attribuito a queste ultime che risulta predeterminata ogni possibile articolazione discorsiva del nesso che lega i centri alle periferie. Tanto la storia dell’imperialismo, quanto la storia della globalizzazione – che dal primo è in parte indistinguibile11 – non possono essere scritte in modo minimamente critico se non ci si fa carico dell’enorme apparato discorsivo, concettuale e metaforico a un tempo, che accompagna ogni atto di inclusione ed esclusione dell’alterità. Si tratta di esclusioni e inclusioni che possono funzionare ed essere rese operative in seno alla prassi solo perché il campo discorsivo che ruota attorno alla nozione di “cultura” è già pervaso da specifiche rappresentazioni del confine che separa il centro e la periferia, il superiore e l’inferiore, l’universale e il particolare, la pienezza dell’umano e ciò che a questa è supposto avvicinarsi solo per approssimazione.12 In tale campo discorsivo non è opportuno vedere solamente l’ideologia dell’imperialismo prima, e del capitale globale poi, come se il piano della differenza culturale si limitasse a ricoprire la superficie dietro la quale hanno luogo quei processi che conducono alla distribuzione ineguale delle ricchezze e dell’accesso al11. Su ciò, oltre al saggio di Bayart citato nella nota precedente, cfr. A.G. Hopkins (a cura di), Globalization in World History, Pimlico, London 2002 e D. Held, A. McGrew, D. Goldblatt e J. Perraton, Global Transformations. Politics, Economics and Culture, Stanford University Press, Stanford (Cal.) 1999. 12. Per una genealogia del concetto di cultura, attenta a metterne in luce l’efficacia quale punto di partenza di una serie di ordinamenti gerarchici che regolano forme di esclusione e di inclusione a livello simbolico, cfr. G. Leghissa, Incorporare l’antico. Filologia classica e invenzione della modernità, Mimesis, Milano 2007.

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le risorse; un simile modo di affrontare la questione rischierebbe di non prestare sufficiente ascolto alle voci attraverso le quali si esprime sia il disagio dell’esclusione, sia la resistenza che a questa si oppone. Come Said ha mostrato in modo convincente,13 si tratta di uscire da una visione dicotomica e binaria, che pone come momento fondante la logica dell’impero, intesa quale spinta economica verso l’espansione e lo sfruttamento delle terre d’oltremare, e aggiunge, quale momento secondario, dipendente dal primo, la logica del discorso imperiale, volto invece a giustificare nel campo della produzione culturale il dominio, lo sfruttamento, o la supremazia dell’Occidente; a tale visione meccanica del rapporto tra pratiche di potere e campi di enunciazione si sostituirà, con maggiore profitto, una griglia di lettura volta a comprendere la compenetrazione tra questi due livelli – una compenetrazione così profonda che Said giunge ad affermare che “la costruzione di un impero, per realizzarsi, deve essere sostenuta dall’idea di avere un impero”.14 Certo, sarebbe riduttivo – ed erroneo – pensare che solo agli studi postcoloniali possa essere ascritto il merito di aver offerto modalità interpretative capaci di saper individuare, entro il campo di enunciazione che ruota attorno alla nozione di cultura, quei discorsi che non solo legittimano le pratiche di dominio, ma le rendono anche possibili in quanto esperienze coerenti, dotate di un senso unitario che informa di sé non solo la mentalità dei dominatori, ma anche i complessi giuridici e istituzionali chiamati a gestire lo spazio sia della colonia che della postcolonia. A interrogare in modo critico la presunta ovvietà della distinzione tra sfera culturale e sfera materiale erano giunti da tempo sia coloro che, in Italia, avevano saputo rileggere con lenti nuove l’eredità marxista,15 sia coloro che, in area anglosassone, hanno dato vita a quel13. Cfr. soprattutto E.W. Said, Orientalismo (1978), Bollati Boringhieri, Torino 1991 e Id., Cultura e imperialismo. Letteratura e consenso nel progetto coloniale dell’Occidente (1993), Gamberetti, Roma 1998, due testi che, giustamente, vengono posti alla base dell’intera produzione discorsiva dei Postcolonial Studies. 14. E.W. Said, Cultura e imperialismo, cit., p. 36 (corsivo mio). 15. Cfr., quale esempio paradigmatico, F. Rossi Landi, Il linguaggio come lavoro e come mercato, Bompiani, Milano 1968.

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la tradizione dei Cultural Studies16 la quale, ormai, avrebbe poco senso distinguere, per oggetti e metodi di studio, dagli stessi Postcolonial Studies. Né va dimenticato il contributo offerto dall’antropologia culturale, la quale da tempo ha intrapreso un cammino teorico lungo il quale potesse emergere il permanente intreccio dei sistemi simbolici con le negoziazioni sociali che i soggetti intraprendono per appropriarsi dell’accesso alle risorse.17 Non per questo, tuttavia, possiamo licenziare come risolta la questione attorno a cui ruotano le presenti riflessioni, questione formulabile come segue: vi è una specificità del postcoloniale quale luogo disciplinare a cui possa essere ascritto il compito di interrogare modalità di espressione e funzioni sociali dei discorsi sulle formazioni identitarie nel contesto dell’ecumene globale? Per coloro che lavorano in campi disciplinari come la storia della letteratura o la storia comparata delle letterature, la risposta a questo interrogativo appare scontata, nel senso che molti studiosi di storia della letteratura (sia essa la letteratura del paese di appartenenza, oppure la letteratura espressa in una lingua straniera) si sono candidati a offrire quel terreno istituzionale di cui la questione postcoloniale ha bisogno per essere articolata sul piano della riflessività. Se a scrivere nelle lingue della metropoli oggi sono coloro che provengono dalla periferia (che in molti casi è l’ex colonia), allora cambiano gli statuti della lingua letteraria e della funzione sociale delle opere letterarie, insomma del fare letteratura nel suo complesso. L’impero, ormai assente come insieme di istituzioni e forme di dominio, si inscrive nel presente come memoria e ferita, come archeologia di una violenza antica che contamina le violenze che costellano la forma di dominio neoliberale. La città che fa da sfondo alle storie della letteratura postcoloniale, infatti, non sta più né al “centro” né alla “periferia”, perché ormai ogni città del pianeta è costruita come insieme di spazi di esclusione e di inclu16. Mi riferisco qui tanto all’opera di Raymond Williams che a quella di Stuart Hall. 17. Considerando la vastità della letteratura sul tema, mi limito a rimandare solo a un paio di lavori, ormai definibili come classici: G. Balandier, Società e dissenso (1974), Dedalo, Bari 1977; M. Sahlins, Cultura e utilità (1976), Bompiani, Milano 1982; Id., “Addio tristi tropi”: l’etnografia nel contesto storico del mondo moderno, in R. Borofsky (a cura di), L’antropologia culturale oggi (1994), Meltemi, Roma 2000, pp. 457-475.

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sione, come reticolo di poteri che governano processi di soggettivazione attraverso l’uso di vari codici, il più vistoso dei quali è ancora quello che permette l’articolazione del linguaggio della differenza culturale (vuoi come razzializzazione dell’alterità, vuoi in vista della costruzione di una politica dell’integrazione). Ma chi racconta le storie di coloro che abitano la città postcoloniale non si limita a far parlare nella lingua della metropoli un soggetto marcato dalla cifra dell’alterità, ovvero un soggetto che è supposto liberarsi progressivamente dal peso dell’esclusione; questo aspetto di ciò che contraddistingue la letteratura detta “postcoloniale” non è certo secondario, come aveva già visto Sartre in un’epoca in cui la via verso un discorso postcoloniale veniva preparata da quello sulla negritudine.18 Più in profondità, il campo di enunciati che delimitano lo spazio della letteratura postcoloniale aspira a scrivere una memoria condivisa dell’intera umanità. Si tratta di un aspetto che, sempre nel contesto in cui si sviluppò la poetica della negritudine, venne enunciato con chiarezza da Aimé Césaire. Non voler riconoscere quanto sia disumano lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, che nella colonia trova una delle sue espressioni più tipiche e drammatiche (l’altra, per Césaire, è quella costituita dal lavoro salariato), offende la dignità della stessa tradizione europea, fino a rendere “indifendibile” l’Europa quale luogo fondatore e fondante della “cultura”.19 A partire da tali premesse, Césaire trae la conclusione seguente: scrivere per rendere visibile la ferita che i meccanismi del dominio e dell’esclusione apportano all’umano non è più, semplicemente, l’emergere della voce dell’“altro”, ma diviene espressione di una rivincita dell’umano in quanto tale. In modo non dissimile, Soyinka assegna proprio alla scrittura letteraria il compito di rendere universale il peso della memoria coloniale, identificando nella condivisione di quest’ultima il punto di partenza per una nuova definizione della responsabilità collettiva globale verso il passato.20 Ed è ripren18. Cfr. J.-P. Sartre, Orfeo nero. Una lettura poetica della negritudine (1948), Marinotti, Milano 2009. 19. Cfr. A. Césaire, Discorso sul colonialismo (1950), ombre corte, Verona 2010. 20. Cfr. W. Soyinka, Il peso della memoria, a cura di M. Gelardi, Medusa, Milano 2007.

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dendo le fila di questi argomenti, infine, che Said può formulare un umanesimo che non cessa di pensarsi come universale pur cessando di porsi come il prodotto della tradizione occidentale euroamericana.21 Tutto ciò spiega agevolmente come mai la riflessione sul “postcoloniale” abbia potuto presentarsi in primis come riflessione sulla letteratura postcoloniale, come riflessione sul gioco delle differenze che il testo letterario induce a rivivere non come esperienze personali, ma come sedimentazioni di un’esperienza collettiva e, in quanto tali, sussumibili sotto categorie universali. Al punto che alcuni cultori degli studi postcoloniali non hanno esitato a proporre il proprio ambito disciplinare come il solo luogo discorsivo atto ad articolare il tema delle differenze in modo rigoroso e conseguente e hanno puntato il dito contro autori come Foucault, Derrida o Deleuze, ai quali è stata imputata la “colpa” di essersi sottratti al compito di indagare la provenienza eurocentrica di molti dei filosofemi da loro impiegati.22 Una simile prospettiva appare alquanto discutibile, in quanto senza gli autori appena menzionati sarebbe impensabile, dal punto di vista concettuale, l’intera riflessione sulla differenza che attraversa non solo gli studi postcoloniali, ma anche quelli di genere; ben più importante è però il fatto che la questione postcoloniale – se non sono del tutto implausibili le proposte teoriche avanzate in questa sede – non può essere ricondotta alla sola dimensione delle rappresentazioni collettive. E non perché queste ultime non siano rilevanti: come aveva mostrato Williams, vi è un interscambio, un rimando continuo, tra la produzione artistica e le “strutture del sentire” che accomunano, in modo ancora fluido, i vissuti di una collettività storica;23 di conseguenza, nelle forme dell’espressione letteraria, artistica o cinematografica possono ben giungere a una piena articolazione – entro codici e significati definiti e riconoscibili – aspira21. Cfr. E.W. Said, Umanesimo e critica democratica (2004), il Saggiatore, Milano 2007. 22. Esemplare, in tal senso, B. Ashcroft, G. Griffith e H. Tiffin (a cura di), The Empire Writes Back. Theory and Practice in Post-colonial Literatures, Routledge, London 2001. 23. Cfr. R. Williams, Marxismo e letteratura (1977), Laterza, Roma-Bari 1979 (in particolare pp. 169-178).

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zioni, desideri, mutamenti delle strutture identitarie condivise, rappresentazioni dei ruoli sociali, e simili. Che la decolonizzazione passi attraverso l’immaginario, e un immaginario mediato dall’opera artistica, può dunque essere considerato un elemento acquisito di qualsivoglia discorso critico sul presente. Ma quell’operazione che potremmo chiamare “decolonising the mind” – per usare un’espressione che, nata nel contesto dell’Atlantico nero,24 ha finito con l’imporsi in tutto l’ambito degli studi postcoloniali – non può basarsi solo sull’apporto fornito dalla produzione letteraria e sull’analisi critica su di essa operata nell’ambito degli studi postcoloniali praticati nei dipartimenti di letteratura. Sono le intere discipline umanistiche a doversi decolonizzare, a dover farsi carico cioè della questione postcoloniale, intesa come questione che incrocia tutti gli ambiti del sapere prodotto da una collettività storica nell’atto di riflettere su di sé, sul proprio passato e sulla propria identità. 3. Il caso italiano: frammenti di un discorso (post)coloniale In relazione all’esigenza di una decolonizzazione dell’immaginario enunciata alla fine del paragrafo precedente, mi pare dotato di una valenza esemplare il caso italiano. Ormai anche in Italia si è compiuto grosso modo il processo che ha condotto a una piena ricezione delle opere e degli autori che hanno dato vita sia agli studi postcoloniali che agli studi culturali. Si è trattato di una ricezione preparata da un fecondo dialogo con la filosofia francese contemporanea, iniziato già alla fine degli anni settanta e protrattosi fino a rendere possibile l’accasarsi, entro il panorama culturale nostrano, di temi e questioni che altrove (per esempio in Germania) hanno incontrato forti resistenze almeno fino agli anni novanta del secolo scorso. Ma va subito aggiunta un’osservazione che porta a limitare, in riferimento al caso italiano, la rottura epistemologica che si produce – o che dovrebbe auspicabilmente prodursi – non appena irrompe nell’enciclopedia una nuova nozione 24. Cfr. Chinweizu, Decolonising the African Mind, Pero, Lagos 1987.

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di soggettività, elaborata a partire da un pensiero della differenza orientato in senso decostruttivo e genealogico. Una volta recepita, in area anglosassone la French Theory ha prodotto effetti a dir poco devastanti entro la divisione del lavoro accademico.25 Certo, non tutti questi effetti possono essere salutati con giubilo, in quanto il discorso sulla differenza in alcuni casi si è irrigidito in una pericolosa dogmatica, a partire dalla quale le posizioni patriarcali e imperialiste, incarnazioni tipiche di una tradizione euroamericana messa sul banco degli accusati da parte di coloro che agiscono nel nome del pensiero critico, si sono trovate solo capovolte, ma non davvero studiate e messe in discussione.26 Per non parlare dei danni enormi provocati dalla diffusione dell’assunto secondo cui tutto – ma proprio tutto – sarebbe una costruzione sociale27 (un assunto, quest’ultimo, per giunta attribuito erroneamente e in modo indiscriminato a tutti quegli autori che della French Theory sarebbero stati gli ispiratori). Tuttavia, in ambito anglosassone la riflessione critica sul medesimo e l’altro che ha contagiato gli studi letterari prima, le scienze umane nel loro complesso poi, ha prodotto una salutare revisione del modo in cui queste ultime svolgono il proprio compito epistemico. Non si è trattato solo di cambiare lo sguardo rivolto alla produzione artistica e letteraria dell’Occidente, in modo tale da poter giungere, come obiettivo finale, a una profonda modificazione del canone e a una ridefinizione del senso che va attribuito alla Weltliteratur; si è cercato anche di mettere a fuoco il modo in cui ogni artefatto culturale è per principio latore di valenze e significati che rimandano a giochi di scambio nei quali agiscono soggetti attraversati dalla differenza, impegnati a ridefinire i confini delle proprie appartenenze culturali, di 25. Cfr. F. Cusset, French Theory. Foucault, Deleuze, Derrida & Cie et les mutations de la vie intellectuelle aux États-Unis, La Découverte, Paris 2003. 26. Del disagio che si può provare a dover constatare questi esiti grotteschi dà conto in modo magistrale Said, commentando un episodio occorsogli in una discussione accademica in cui, dopo aver presentato le proprie tesi sulla genesi dell’imperialismo, si è visto accusare di essere lui stesso un rappresentante dell’esecrato imperialismo in quanto i protagonisti degli eventi da lui narrati e sottoposti a esame erano tutti maschi bianchi! Cfr. E.W. Said, Nel segno dell’esilio. Riflessioni, letture e altri saggi (2000), Feltrinelli, Milano 2008, pp. 426-438. 27. Su ciò, cfr. I. Hacking, La natura della scienza: riflessioni sul costruzionismo (1999), McGraw-Hill, Milano 2000.

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classe e di genere. Tutto ciò comporta la presa di coscienza della necessaria non neutralità del soggetto del discorso, che parla non tanto per “restituire la voce all’altro”,28 quanto per ridefinire la propria posizione quale rappresentante di una lotta che, essendo eminentemente politica, va condotta nell’agorà prima ancora che nelle aule universitarie e nei campus. Si tratta di una presa di coscienza che coinvolge necessariamente il senso della propria appartenenza a una tradizione che eredita dal passato i gesti della violenza coloniale e la traduce nelle nuove forme dell’esclusione governata dalla biopolitica neoliberale. Ora, a fronte di tale rilettura critica dell’eredità lasciata dal predominio patriarcale e imperialista sull’universo mentale e culturale anglosassone, l’universo discorsivo delle scienze umane in Italia sembra invece poco propenso ad applicare la griglia di lettura offerta dalla prospettiva postcoloniale al contesto nostrano. Ciò appare tanto più grave, quanto più si ponga mente al fatto che solo una simile operazione permetterebbe sia di rileggere in modo critico la storia nazionale, sia di offrire un possibile argine di fronte all’imporsi, nei media e nella prassi politica, di inquietanti forme di razzismo. Così, entro le mura dell’accademia, da un lato sembra affermarsi la prospettiva postcoloniale in direzione di tutte quelle aree culturali e geografiche che trovano legittimo spazio nei dipartimenti di letterature straniere, mentre si moltiplica l’interesse per le proposte teoriche di Said, Spivak o Hall; d’altro lato, però, non si può non constatare quanto poco sia stato fatto sinora per interrogare la questione postcoloniale italiana. Ma come pretendere di dar vita a un effettivo sguardo postcoloniale sulla realtà italiana senza l’apporto costruttivo degli storici, chiamati a fornire a chiunque operi nel campo delle scienze umane quella che definirei la “materia grezza” su cui lavorare, costituita da una panoramica completa e dettagliata di quello che effettivamente fu il significato dell’impresa coloniale italiana, dall’età giolittiana fino alla fine della Seconda guerra mondiale? E qui 28. Un tema, questo, acutamente affrontato in G.C. Spivak, Critica della ragione postcoloniale. Verso una critica del presente in dissolvenza (1999), Meltemi, Roma 2004.

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si tocca un punto decisivo ai fini del nostro discorso. Se consideriamo il nostro immediato presente, possiamo dire che ormai è finalmente possibile disporre di un dossier abbastanza completo sia del passato coloniale italiano,29 sia della natura criminale delle imprese militari italiane in epoca coloniale e delle ragioni che portarono a lasciarle impunite.30 Non mancano sguardi approfonditi sulla coerenza e la centralità del disegno imperiale italiano in età fascista,31 né si è trascurato di interrogare il modo in cui la memoria della colonia e dell’Impero si è sedimentata nella coscienza collettiva.32 A tale quadro va aggiunto il crescente interesse che la storia del colonialismo italiano suscita oltreoceano, dove non sono mancati contributi di rilievo tanto in sede di storia evenemenziale, quanto in riferimento al retroterra culturale della colonizzazione italiana.33 Da tempo, infine, è disponibile un’antologia dei principali testi che hanno accompagnato l’espansione coloniale italiana.34 Tra questi merita qui ricordarne almeno uno, ovvero il famoso passo tratto da un dispaccio inviato dal generale Badoglio ai generali Graziani, vicegovernatore della Cirenaica, e al generale De Bono, ministro delle Colonie, in cui, dopo aver affermato la necessità di aumentare il distacco tra la popolazione libica sottomessa e le truppe ribelli, guidate da Omar el Muktar, distacco ottenibile solo con deportazioni di massa, si afferma: “Non mi nascondo la portata e la gravità di questo provvedimento che vorrà 29. Qui rimando solo alla sintesi più completa in materia: N. Labanca, Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, il Mulino, Bologna 2002. 30. Cfr. L. Baldissara, P. Pezzino (a cura di), Giudicare e punire: processi per crimini di guerra tra diritto e politica, L’ancora del Mediterraneo, Napoli 2005; G. Oliva, “Si ammazza troppo poco”. I crimini di guerra italiani. 1940-1943, Mondadori, Milano 2006. 31. Cfr. D. Rodogno, Il nuovo ordine mediterraneo. Le politiche di occupazione dell’Italia fascista (1940-1943), Bollati Boringhieri, Torino 2003. 32. Cfr. I. Taddia, La memoria dell’impero. Autobiografie d’Africa orientale, Lacaita, Manduria-Bari-Roma 1988; N. Labanca, Una guerra per l’Impero. Memorie della campagna etiopica 1935-36, il Mulino, Bologna 2005. 33. Cfr. P. Palumbo (a cura di), A Place in the Sun. Africa in Italian Colonial Culture from Post-unification to the Present, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-London 2003; J. Andall, D. Duncan (a cura di), Italian Colonialism: Legacy and Memory, Lang, OxfordWien 2005; R. Ben Ghiat, M. Fuller (a cura di), Italian Colonialism, Palgrave Macmillan, New York 2005. 34. Cfr. L. Goglia, F. Grassi (a cura di), Il colonialismo italiano da Adua all’Impero, Laterza, Roma-Bari 1993.

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dire la rovina della popolazione cosiddetta sottomessa. Ma ormai la via ci è stata tracciata e noi dobbiamo perseguirla sino alla fine anche se dovesse perire tutta la popolazione della Cirenaica”.35 Se mai tali parole dovessero suonare come espressione di un’iperbole, giustificabile in quanto uscita dalla penna di un generale impegnato a fare il suo dovere, va ricordato che la repressione della resistenza libica all’occupazione italiana costò la vita a circa centomila libici, corrispondenti a circa un ottavo della popolazione. Tuttavia, con ciò stiamo dando conto di sviluppi assai recenti in seno al panorama storiografico italiano. Nell’immediato dopoguerra, e poi per lunghi decenni, la storiografia italiana ha ignorato completamente il problema coloniale. Giorgio Rochat e Angelo Del Boca, i pionieri dello studio del colonialismo italiano,36 hanno lavorato in perfetta solitudine. La comunità scientifica per lungo tempo non ha saputo – o voluto – prendere le difese di Del Boca quando i settori più conservatori della classe politica italiana vedevano nei suoi lavori il semplice tentativo di diffamare l’Italia. Eppure, al culmine del proprio decennale lavoro di ricerca, compiuto sfidando la resistenza sia dell’establishment politico che accademico,37 Del Boca riuscì a mettere assieme un dossier in linea di massima completo sulla questione coloniale,38 il quale avrebbe ben potuto stimolare non solo l’interesse della comunità degli storici, ma anche quello dell’intera comunità scientifica attiva nel campo delle scienze umane. La storia si svolse altrimenti. Del Boca e gli storici che oggi operano lungo i sentieri di ricerca da lui tracciati hanno continuato il loro lavoro senza comunicare con i colleghi di altre discipline e – quel che è peggio – lontani dalla discussione pubblica. Fu solo verso la metà degli anni novanta, quando scoppiò il caso dei “gas di Mussolini”, che si ebbe la possibi35. Ivi, p. 353. 36. Cfr. A. Del Boca, La guerra di Abissinia, 1935-1941, Feltrinelli, Milano 1965 e G. Rochat, Il colonialismo italiano, Loescher, Torino 1972. 37. Sulla vicenda della mancata assegnazione di una cattedra di “Storia e istituzioni dei paesi afroasiatici”, Del Boca si sofferma in Un testimone scomodo, Grossi, Domodossola 2000. 38. Cfr. A. Del Boca, Gli italiani in Africa orientale, vol. I: Dall’Unità alla Marcia su Roma; vol. II: La conquista dell’Impero; vol. III: La caduta dell’Impero; vol. IV: Nostalgia delle colonie, Laterza, Roma-Bari 1976-84; Id., Gli italiani in Libia, vol. I: Tripoli bel suol d’amore, 1860-1922; vol. II: Dal fascismo a Gheddafi, Laterza, Roma-Bari 1986-88.

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lità di rendere fruttuoso quell’incrocio tra intervento storiografico, discussione pubblica e prese di posizione da parte dei politici che rende la questione postcoloniale una componente essenziale della vita democratica di una nazione.39 In generale, si può constatare che la consapevolezza maturata dagli storici del colonialismo circa l’ineludibilità del nesso tra mancata elaborazione del passato coloniale italiano e difficoltà a gestire in termini umani e democratici il tema dell’immigrazione e, più in generale, l’avvento di una società pluriculturale40 non ha prodotto grandi effetti né in seno alla comunità scientifica, anche quando questa si occupa di studi postcoloniali, né in seno al più vasto ambito dell’opinione pubblica. Ancora peggiore, da un certo punto di vista, appare lo scenario italiano se prendiamo in esame l’antropologia culturale, intesa quale campo disciplinare entro il quale poter articolare la questione postcoloniale. Qui ci si trova di fronte a un vero paradosso, che articolerei nel modo seguente. Da un lato, a partire dal secondo dopoguerra furono attivi in Italia alcuni dei maggiori teorici di questa disciplina a livello internazionale. Ben prima che in area anglosassone facessero la propria comparsa nozioni quali subaltern o Subaltern Studies, De Martino ha saputo sviluppare una compiuta riflessione sulle culture subalterne del Sud d’Italia che si presenta dotata di una portata generale, tale da trascendere i limiti geografici che lo stesso de Martino aveva scelto di imporre alla propria ricerca.41 Vittorio Lanternari (recentemente scomparso nel quasi totale silenzio della comunità scientifica), in piena continuità con l’opera di De Martino, sin dagli anni sessanta si era posto la questione del rapporto tra la modernità occidentale e le tradizioni “altre”, ovvero tra cen39. Cfr. A. Del Boca (a cura di), I gas di Mussolini. Il fascismo e la guerra d’Etiopia, Editori Riuniti, Roma 20072. 40. Cfr. A. Del Boca, Le conseguenze per l’Italia del mancato dibattito sul colonialismo, “Studi Piacentini”, 5, 1989, pp. 115-128; N. Labanca, Strade o stragi? Memorie e oblii coloniali della Repubblica, “Annali del Dipartimento di Storia”, 3, 2007, numero monografico a cura di A. Rossi-Doria e G. Fiocco, Politiche della memoria, pp. 11-36. 41. Su ciò, mi soffermo in G. Leghissa, Concetti di cultura tra filosofia e scienze umane, in S. Adamo (a cura di), Culture planetarie? Prospettive e limiti dell’analisi culturale nella contemporaneità, Meltemi, Roma 2006, pp. 133-151.

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tro e periferie, in modo tale da far emergere non solo il necessario superamento della presunta superiorità della cultura occidentale sulle altre tradizioni, ma soprattutto la natura fittizia e costruita di ogni divisione netta tra centri e periferie. E questo in riferimento pure a epoche premoderne (ciò che di rado accadeva, per esempio, nell’ambito dell’antropologia sociale anglosassone), anche se il fuoco dell’attenzione si concentrava soprattutto sull’epoca moderna, profondamente segnata dall’esperienza coloniale, nel corso della quale le forme del dominio si sono sempre intrecciate con svariate e spesso contraddittorie forme di scambio culturale. In altre parole, non si sbaglierebbe ad affermare che la più avanzata ricerca antropologica italiana si incamminò assai presto sulla via di un ripensamento critico del proprio ruolo e dei propri statuti disciplinari, in modo tale da cessare di essere solo strumento di conoscenza dell’alterità per divenire, invece, strumento di una riflessione critica sull’Occidente, o, meglio, sulla presunzione che la sola conoscenza “autentica” dell’altro sia quella offerta dai saperi nati sul suolo europeo. Dall’altro lato, però, all’antropologia italiana, nonostante simili premesse e l’alto livello di consapevolezza metodologica che fu possibile raggiungere grazie al lavoro dei suoi massimi rappresentanti, è mancata a lungo la capacità di guardare a se stessa quale complice dell’impresa coloniale – la capacità, cioè, di trarre tutte le conseguenze da una lettura coerente dell’etnocentrismo critico demartiniano. Lo stesso Lanternari, che ha sempre prestato grande attenzione alla storia dei saperi da lui stesso praticati, ebbe a scrivere, a proposito del ritardo che caratterizzava lo sviluppo degli studi antropologici in Italia, che tale ritardo era dovuto, in primis, alla “mancanza di possedimenti coloniali”,42 mancanza che avrebbe impedito l’accesso a quel materiale empirico di cui l’antropologo ha bisogno per compiere le proprie ricerche sul campo. In realtà, ciò che in Italia poté svilupparsi solo e unicamente a partire da De Martino era uno sguardo storico sui fenomeni culturali, uno sguardo cioè che rendesse il lavoro antropologico par42. V. Lanternari, Antropologia e imperialismo, Einaudi, Torino 1974, p. 322.

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te integrante di una critica del dominio e dello sfruttamento; ciò che in precedenza comunque non mancò mai fu uno sguardo sull’altro funzionale ai bisogni del dominio coloniale, e questo in riferimento sia alle terre del Sud unite sotto la corona sabauda, sia alle colonie d’oltremare.43 E fu uno sguardo attento, minuzioso, quasi sempre consapevole della propria portata ideologico-politica, che sapeva ben destreggiarsi tra la misurazione di crani e ossa e i rapporti dal campo che venivano forniti da missionari, esploratori, funzionari delle colonie.44 L’antropologia italiana di fine Ottocento non fu né una scienza ancillare della craniometria, né una formazione discorsiva posta ai margini dell’enciclopedia. Un autore come Mantegazza godeva di una fama notevole, che andava ben al di là del ristretto mondo accademico, mentre le tesi di un autore come Sergi in materia di classificazione delle razze sono state per lungo tempo al centro di ampi dibattiti internazionali. In modo consapevole e utilizzando tutti gli strumenti concettuali di cui allora era possibile disporre, l’antropologia italiana seppe elaborare, insomma, una discorsività complessa, molto spesso ideologicamente orientata, e fu sempre attenta a calibrare il proprio ruolo quale disciplina capace di orientare le scelte pubbliche e istituzionali ogniqualvolta fosse in gioco la questione dell’alterità. Ecco perché appare sensata l’affermazione, fatta poco sopra, secon43. A voler essere precisi, però, si dovrebbe porre nelle ricerche sui morlacchi, abitanti della Dalmazia allora posta sotto il dominio di San Marco, compiute nel Settecento da Alberto Fortis, il momento inaugurale di un discorso sull’altro che univa la curiosità scientifica, etnografica, alle esigenze di un buon governo della periferia, piagata da ignoranza, malattie, arretratezza economica. Cfr. A. Fortis, Viaggio in Dalmazia (1774), a cura di E. Viani, introduzione di G. Pizzamiglio, Marsilio, Venezia 1987. L’opera di Fortis ebbe un successo immediato (nel 1776 uscì la traduzione tedesca, nel 1778 quelle inglese e francese) e furono proprio le pagine etnografiche sui morlacchi a interessare maggiormente il pubblico di allora. 44. Su ciò, innanzitutto si vedano i materiali antologici raccolti in F. Surdich (a cura di), L’esplorazione italiana dell’Africa, il Saggiatore, Milano 1982, che fornisce un’ampia panoramica dello sguardo italiano sull’Africa costruito da esploratori e funzionari, i cui testi costituirono la base sulla quale poi gli antropologi elaborarono le loro teorie. Sulla riflessione antropologica propriamente detta, invece, si vedano i testi raccolti in S. Puccini (a cura di), L’uomo e gli uomini. Scritti di antropologi italiani dell’Ottocento, CISU, Roma 1990. In generale, sul rapporto tra antropologia e viaggi, cfr. S. Puccini, Il corpo, la mente e le passioni: istruzioni, guide e norme per la documentazione, l’osservazione e la ricerca sui popoli nell’etno-antropologia italiana del secondo Ottocento, CISU, Roma 1998 e Id., Andare lontano. Viaggi ed etnografia nel secondo Ottocento, Carocci, Roma 1999.

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do cui gli antropologi italiani ebbero una parte essenziale non solo nel contesto in cui nacque e si sviluppò nella coscienza collettiva quell’idea di impero che accompagnò le politiche coloniali italiane dall’età giolittiana al fascismo,45 ma anche nel contesto in cui prese forma quel “colonialismo interno” che caratterizzò i rapporti dello stato unitario nei confronti delle popolazioni meridionali e sarde.46 4. Postcolonia e identità nazionale Se si approfondisce il discorso portato avanti sin qui, in direzione di una disamina del rapporto che lega il lavoro delle scienze umane alle rappresentazioni collettive del passato coloniale di una nazione, si giunge a formulare l’ipotesi seguente: la questione postcoloniale non riguarda solo il modo in cui la storia del colonialismo si relaziona al più ampio decorso storico della vita nazionale, ma riguarda il modo in cui si cristallizza l’idea nazionale nel suo complesso. Detto altrimenti, si tratta dell’ipotesi secondo cui lo sguardo postcoloniale sia capace di offrire una riscrittura delle narrazioni che stanno alla base dell’idea nazionale. Anche su questo punto, merita soffermarsi sull’esempio offerto dal caso italiano. A fronte di una storiografia accademica che solo di recente si è mostrata disposta a dare il giusto peso all’impresa coloniale italiana, gli storici italiani da tempo indagano con strumenti appropriati la complessa vicenda che ha portato alla formazione dello stato unitario. Non che sia stato spulciato anche l’ultimo documento d’archivio, non che si siano lette le pagine di tutti gli epistolari, di tutti i documenti tramandati all’interno delle singole storie famigliari, ma si può dire che la gran parte del lavoro di ricostruzione storiografica sia stata portata a termine. Soprattutto, va 45. Cfr. B. Sorgoni, Parole e corpi. Antropologia, discorso giuridico e politiche sessuali interrazziali nella Colonia Eritrea (1890-1941), Liguori, Napoli 1998 e Id., Etnografia e colonialismo. L’Eritrea e l’Etiopia di Alberto Pollera 1873-1939, Einaudi, Torino 2001. 46. Cfr. V. Teti, La razza maledetta. Origini del pregiudizio antimeridionale, manifestolibri, Roma 1993; G. Riccardo, L’antropologia positivista italiana e il problema del banditismo in Sardegna. Qualche nota di riflessione, in A. Burgio (a cura di), Nel nome della razza. Il razzismo nella storia d’Italia 1870-1945, il Mulino, Bologna 20002, pp. 95-103; C. Pogliano, Eugenisti, ma con giudizio, in ivi, pp. 423-442.

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riconosciuto il fatto che la storiografia sul Risorgimento si è rinnovata sia nei metodi che nell’approccio alle fonti, avendo saputo prestare attenzione anche al modo in cui l’elaborazione del passato risorgimentale si è variamente incistata nelle successive ridefinizioni dell’identità nazionale.47 A tal proposito, merita fornire almeno un esempio. Ormai è chiaro quanto pesò, nella costruzione del discorso risorgimentale, la componente patriarcale, che interagì sia con il complesso delle narrazioni volte a forgiare l’identità della nuova Italia, sia con le modalità attraverso cui venne gestita, anche sul piano legislativo, la posizione della donna in seno alla società. Ne risulta un quadro in cui, come moglie, madre, sorella, la donna può stare solo a fianco (ovvero in posizione subordinata) degli eroi valorosi che combattono per costruire la nazione.48 Si tratta di un complesso narrativo in cui la conquista e difesa del suolo nazionale, così come l’edificazione del contesto istituzionale che garantisce la convivenza tra cittadini, vengono concepite e rappresentate quali imprese essenzialmente maschili, che hanno come immediato corollario la preservazione dell’integrità di un elemento femminile costitutivamente passivo. Pur trovando nel fascismo la propria acutizzazione, tale complesso narrativo non cesserà mai del tutto di forgiare le rappresentazioni condivise dell’identità nazionale. Resta però ancora poco indagato il nesso che lega tale impianto discorsivo patriarcale alle retoriche coloniali, le quali hanno sempre scommesso sulla performatività garantita da una commistione di elementi razzisti con quegli elementi che rimandano al modo in cui il dominio maschile si esercita entro l’ordine simbolico.49 E con quest’ultima osservazione appare chiaro quale debba essere allora il compito più urgente, in sede storiografica: la 47. Cfr. M. Ridolfi, Risorgimento, in M. Isnenghi (a cura di), I luoghi della memoria. Simboli e miti dell’Italia unita, Laterza, Roma-Bari 2010, pp. 5-47. 48. Cfr. A.M. Banti, Il Risorgimento italiano, Laterza, Roma-Bari 2004. A questa brillante e incisiva ricostruzione critica del processo di unificazione della penisola si rimanda anche per una disamina della bibliografia sul Risorgimento. 49. Sul nesso tra dominio maschile e discorso coloniale, si veda intanto G. Stefani, Colonia per maschi. Gli italiani in Africa orientale: una storia di genere, ombre corte, Verona 2007.

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messa a punto del legame che unisce il processo di unificazione nazionale con l’impresa coloniale. Sottolineare l’ineludibilità di tale legame non significherebbe certo fare opera di revisione storiografica, nel senso peggiore del termine – né tanto meno significherebbe ridare fiato a nostalgie legittimiste, codine e borboniche. Tanto più che furono gli stessi testimoni dell’epoca – almeno quanti tra loro che seppero provare orrore per i metodi adottati dai generali sabaudi nel reprimere il brigantaggio – a palesare le somiglianze tra costruzione a tappe forzate del Regno d’Italia e sottomissione di una popolazione indigena, soggetta a un dominio di stampo coloniale.50 Come gli spagnoli con gli indios, come gli inglesi con i sepoy indiani, come i francesi con gli algerini – i paragoni si potrebbero moltiplicare, ma il senso è chiaro: lo sguardo con cui i soldati piemontesi e le truppe garibaldine guardavano i “cafoni” del Mezzogiorno era uno sguardo coloniale. Uno sguardo che poneva l’altro in una condizione di inferiorità, uno sguardo senza il quale non sarebbe stato possibile mettere in atto quelle crudeltà che hanno caratterizzato l’annessione del Mezzogiorno al resto d’Italia. Ed è del tutto plausibile ipotizzare che vi sia una continuità non casuale, bensì profonda, tale da intaccare i modi del sentire collettivi, tra le violenze perpetrate ai danni delle popolazioni civili del Sud e l’insorgere di quelle attitudini che poi sarebbero state necessarie per compiere l’impresa coloniale 51 – impresa che è stata sì anche contestata,52 ma che nel complesso, come si è detto sopra, ha suscitato un’adesione diffusa fino al 1945. In virtù di tale ipotesi non ci si potrebbe certo spingere fino al punto di affermare che il moto unitario, a causa della violenza che accompagnò la repressione del brigantaggio negli anni a ridosso dell’avvenuta unificazione, fu di tipo coloniale.53 Tuttavia, cominciare a 50. Su ciò, cfr. R. Martucci, L’invenzione dell’Italia unita. 1855-1864, Sansoni, Milano 1999 (in particolare pp. 287-315). 51. Su questa continuità si sofferma A. Del Boca, Italiani, brava gente?, Neri Pozza, Vicenza 2005. 52. Su ciò, cfr. R. Rainero, L’anticolonialismo italiano da Assab ad Adua (1869-1896), Edizioni di Comunità, Milano 1971. 53. Acute, in merito, le precisazioni che si trovano in S. Lupo, Il grande brigantaggio. Interpretazione e memoria di una guerra civile, in W. Barberis (a cura di), Storia d’Italia. Annali 18. Guerra e pace, Einaudi, Torino 2002, pp. 463-502.

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guardare la storia nazionale sin dal suo incipit risorgimentale con la griglia interpretativa degli studi postcoloniali significherebbe dare un contributo decisivo a una rifondazione, tutto meno che vuotamente celebrativa, di quei valori, nati proprio nell’età del Risorgimento, che hanno permesso alla nazione italiana di incamminarsi, seppure a fatica e dopo molte deviazioni, verso la strada della convivenza democratica. Se ora vogliamo tirare le fila del discorso condotto sin qui, sarà bene innanzitutto fugare un possibile fraintendimento. Nell’aver esposto in modo cursorio alcuni dei temi e problemi a cui è legata la questione postcoloniale, ho fatto riferimento principalmente a quelle discipline che hanno come oggetto della propria indagine l’articolazione del rapporto tra universi di significato condivisi e pratiche sociali. Credo infatti che dal lavoro compiuto all’interno di tali discipline possa provenire una luce nuova, diversa, in virtù della quale illuminare il presente di una realtà nazionale – quella italiana – che dalla mancata elaborazione della questione coloniale e postcoloniale sembra scivolare, senza scossoni eccessivi e senza contrasti apparenti, verso la condivisione di un razzismo e di una xenofobia che minano le fondamenta stesse della civile convivenza democratica. Non penso minimamente che tali discipline possano, da sole, cambiare i connotati dell’agenda politica italiana, illuminando, in virtù dei risultati acquisiti con le proprie ricerche, la mente di legislatori e amministratori pubblici. Tuttavia, va ricordato che, sin dal loro sorgere, le scienze umane, in quanto scienze storico-culturali, giocano un ruolo decisivo nella formazione della coscienza collettiva, se non altro attraverso la mediazione offerta dagli insegnanti di materie umanistiche che riversano nelle aule scolastiche il sapere acquisito con lo studio universitario. Per questo mi è parso opportuno individuare in tali discipline il principale luogo della postcolonia italiana: ritardi e omissioni nell’analizzare il modo in cui la storia coloniale italiana e il razzismo che ne ha accompagnato, sin dall’unificazione, i comportamenti collettivi conducono, mediatamente, a un deciso impoverimento della discussione pubblica. È bene insistere, però, sul fatto che tale analisi riguarda le scienze umane nella loro tota165


lità. Sarebbe infatti poco opportuno – e troppo comodo, soprattutto – istituire insegnamenti di studi postcoloniali ad hoc, ai quali affidare il compito di trasmettere, attraverso quel peculiare canale istituzionale che è una disciplina, quelle conoscenze che, richiamate all’inizio del presente saggio, da tempo ormai gettano luce sul modo in cui le formazioni identitarie sviluppatesi nel Nord del mondo siano anche il prodotto di una storia globale che ha avuto il proprio perno nella conquista coloniale e che attualmente si caratterizza per la costruzione di nuove e inedite forme di esclusione e di marginalizzazione. Fatta questa precisazione, va subito aggiunto che non possono restare immuni da una profonda trasformazione le scienze umane chiamate a interrogare il passato coloniale italiano e a decostruire i meccanismi che rendono quel passato sfondo inespresso dei discorsi che plasmano l’identità collettiva contemporanea. A prima vista si tratta di una trasformazione difficile da individuare in termini rigorosi, dal momento che intacca non i metodi e gli oggetti propri di ciascuna disciplina, bensì le modalità attraverso cui viene indirizzato lo sguardo verso il proprio oggetto. In realtà, l’introduzione di uno sguardo postcoloniale nel campo delle scienze umane non fa che porsi in consonanza con un’operazione di rimodellamento degli statuti del sapere che da qualche decennio investe la discussione epistemologica, in riferimento tanto alle scienze della natura quanto alle scienze storico-culturali. Tale discussione mira a riformulare il rapporto tra campi del sapere e posizionalità del soggetto che di quei campi è responsabile, non solo quale garante della concettualità che ne governa la portata euristica, ma anche in termini istituzionali e, in senso lato, politici.54 Ed è a partire da questo necessario coinvolgimento del soggetto del sapere entro il campo disciplinare da esso gestito in termini discorsivi che può nascere un nuovo modo di intendere il rigore pro54. Cfr. K. Knorr-Cetina (a cura di), Science Observed. Perspectives in the Social Study of Science, Sage, London-Beverly Hills-New Delhi 1983; S. Harding, Is Science Multicultural? Postcolonialism, Feminism, and Epistemology, University of Indiana Press, Bloomington 1998; A. Pickering (a cura di), La scienza come pratica e cultura, Edizioni di Comunità, Torino 2001; D. Haraway, Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo (1991), Feltrinelli, Milano 1999, pp. 103-134.

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prio della scrittura scientifica. Si tratta qui di un rigore che nulla ha in comune con la presunta neutralità dello studioso, poiché esso mira a rendere perspicua la portata in fondo “terapeutica” che il lavoro compiuto dalle scienze storico-sociali assume non appena esso intenda porsi quale genealogia dei meccanismi di esclusione e di inclusione. A tali meccanismi non fa riferimento necessariamente solo una disciplina particolare, come per esempio la sociologia; essi, infatti, sono sì correlati a quelle rappresentazioni collettive che stanno alla base di costrutti densamente significativi come “patria”, “straniero”, “immigrato”, ma hanno alle loro spalle una storia, che è la nostra, la quale, come la storia di ciascuna nazione europea, è sempre stata attraversata da specifiche dislocazioni della differenza culturale, di classe e di genere. Detto in altro modo: rendere “postcoloniale” lo sguardo delle scienze umane nel loro complesso conduce a rendere contemporanea la significatività di ogni artefatto “culturale” italiano in quanto prodotto di una storia collettiva che non ha mai cessato di ospitare lo straniero – come suddito delle colonie prima, come immigrato oggi – e che pertanto è sempre stata abitata dalla differenza. Certo, il “latin sangue gentile” da Petrarca contrapposto al “barbarico sangue” nella sua canzone “Italia mia, benché ’l parlar sia indarno” (Canzoniere, CXXVIII) non anticipa né il primato morale e civile degli italiani né il razzismo nostrano che affligge l’epoca presente; ma sarebbe quanto meno miope voler dimenticare quali usi, anche nefasti, siano stati fatti dei noti versi petrarcheschi quando si trattò di inculcare la “coscienza nazionale” a generazioni di scolari nati sotto il tricolore.55 Per chiudere, un’ultima domanda, volutamente provocatoria. Metodologicamente, forse si tratta semplicemente di radicalizzare l’istanza storicista? In fondo, lo stesso gesto con cui De Martino fondò il proprio metodo ha avuto come principale effetto un ampliamento e una ricollocazione del problema che lo storicismo pone quando si tratta di definire la distanza che separa il sogget55. Sulla costruzione dell’italianità nell’ambito della letteratura nazionale, cfr. M.S. Sapegno, “Italia”, “Italiani”, in A.A. Asor Rosa (a cura di), Letteratura italiana. Volume Quinto. Le Questioni, Einaudi, Torino 1986, pp. 169-221.

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to che conosce dall’oggetto conosciuto. Che si possa inserire la prospettiva aperta dagli studi postcoloniali nel solco di una riflessione che ha già dato prova di condurre a soluzioni ampiamente spendibili sul piano della metodologia ha però un unico vantaggio, che consiste nel ricordarci che la questione postcoloniale non è quella faccenda politicamente corretta di cui hanno diritto di occuparsi solamente i discendenti di coloro che furono sottoposti al dominio coloniale. È, questo, un risultato non trascurabile, ma non del tutto soddisfacente. Fermarsi a tale risultato altro non sarebbe che il segno di un desiderio non privo di ambiguità, del desiderio cioè di far “rimpatriare” la questione postcoloniale nell’alveo di una tradizione, la nostra, capace di maneggiare una teoria dell’alterità senza scarti e senza residui. In realtà, nella volontà di leggere il presente di una nazione alla luce degli studi postcoloniali viene messo in gioco ben altro. Più precisamente, si tratta della volontà di rendere mediatamente politico il proprio gesto teorico, si tratta cioè di palesare la necessità di interpretare i fenomeni attraverso i quali si articola la questione delle differenze facendo costante riferimento al modo in cui operano, nel presente, quei meccanismi di esclusione ai quali più volte si è fatto riferimento sopra. Tale necessità non si lascia facilmente dominare in termini concettuali, in quanto rimanda a un desidero di giustizia che lavora ai margini della concettualità e che, come ha mostrato Derrida, si lascia argomentare solo entro una cornice teorica capace di ospitare al proprio interno una certa dose di paradossalità.56 Non è escluso, però, che nella capacità di ospitare tale paradossalità si celi la reale portata filosofica – oltre che politica – dello sguardo postcoloniale su noi stessi.

56. Cfr. J. Derrida, Forza di legge. Il “fondamento mistico dell’autorità” (1994), a cura di F. Garritano, Bollati Boringhieri, Torino 2003.

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Interventi


Gioia dei sensi e gusto. Sull’estetica del finito HANS-DIETER BAHR

1. Ci sono espressioni il cui uso si coglie solo al loro scomparire. Spesso si crede di potere ancora comprenderne il significato primitivo, ma ecco che esso si sottrae. “Gioia dei sensi” è un’espressione di questo tipo. Sulla via dell’oblio si trova quel suono che un tempo combatteva contro ogni costrizione a forme di vita ascetiche. Alcune morali religiose hanno voluto vedere in ogni tipo di sensibilità una “voluttà carnale” lasciva e dissoluta, e hanno perciò esortato a sopprimere tali peccaminose brame con penitenze e flagellazioni, astinenza, quaresime e duro lavoro, onde guadagnarsi una beatitudine post mortem. Oggi e nel nostro contesto, in cui si parla al contrario di “ebbrezza consumistica e società del divertimento” come irrinunciabili fattori di propulsione economica, la gioia dei sensi sembra essere inghiottita dalla sua stessa vittoria contro le forme del puritanesimo. Non si è forse abbassata a commercio di piaceri che galleggiano sulla superficie di angosce esistenziali, noia e orrore, piuttosto che essere il grido dell’affermazione della vita? Nessuna morale pone più confini a tali piaceri, tutt’al più lo fanno il tempo lavorativo e le condizioni patrimoniali. E dove ancora si fa appello alla moderazione o alla rinuncia, si sente il dovere di giustificare questa richiesta mediante il riferimento alla salute e all’igiene sociale. Ma come starebbero le cose se proprio questo sfrenato consumo di beni fosse solo un segno del fatto che una società, nel mezzo dei suoi piaceri, è diventata incapace di una gioia dei sensi? Non sarebbe una tardiva e raffinata vittoria degli “ideali ascetici” (Nietz170

aut aut, 349, 2011, 170-199


sche) dietro la maschera del loro contrario? Questo infaticabile consumo non è forse il sintomo di una profonda spossatezza, di un godere narcotizzato, di una diffusa dipendenza dal godimento che non trova più soddisfazione, che non educa alcun gusto e non ha più la forza di darsi una forma? Senz’altro oggi si parla incessantemente di “gusto”, ma non per combattere quanto di continuo l’offende. Dove le costrizioni della morale si ritirano, un numero imprecisato di arbitrarie confessioni del gusto assumono la funzione di regolare inclusione ed esclusione sociali. 2. Col termine “godimento” si può intendere il modo in cui si apprende qualcosa nel sentimento e nel giudizio, lo si possiede e se ne fa uso. Godiamo perciò non solo del piacere di cibi, bevande, odori, contatti, paesaggi, di ritmi e suoni o movimenti, del piacere di pensieri, ricordi, fantasie. Possiamo godere anche di quanto ci è offerto, come amore, rispetto, onore; di ciò che ci è concesso, come considerazione, fama, giustizia, pace, potere; di ciò che ci si procura da sé, come patrimonio, successi, vittorie, educazione, fede o anche quanto si è donato ad altri o è stato loro sottratto attraverso distruzione e orrori. Da quanti e quali disparati motivi tali gioie possono essere determinate! Anche ai piaceri spirituali giungiamo solo mediante la nostra sensibilità corporea. E ognuno di questi godimenti non è caratterizzato solo da differenze di qualità, durata e intensità o dalla relazione ad altri beni o mali, ma precisamente dalle diverse modalità della loro finitezza. Sotto la spinta del desiderio sembra che il godimento sia in sé infinito, e che sia interrotto sempre solamente da qualcos’altro, sia esso sufficienza e sazietà, sonno, sfinitezza, dolori o preoccupazioni, oppure distrazioni o abitudini. Ma ogni godimento è strutturato piuttosto secondo un’intrinseca misura di sviluppo, mediante la quale esso può in principio diventare unico, sempre nuovo, simile o del tutto diverso. Nel sogno del piacere ininterrotto si manifesta invece un’idea di eterna beatitudine, che tuttavia non può mai giungere a rappresentazione, proprio come condizione per poter continuare ad avere effetto. Certo questo sogno può sviluppare la forza di far aumentare il godimento fino a che esso non si frantu171


ma nella smisuratezza e nella dipendenza mai soddisfatta. Ma come fu possibile che proprio un tale sogno di suprema e ininterrotta gioia dei sensi si sia potuto rivolgere dolorosamente contro questa stessa gioia? Perché, all’improvviso, la fugacità di una felicità, che per Nietzsche si manifesta perfino nel lesto zampettare di una lucertola, sembra far crollare il valore del godimento vitale? La modernità, tuttavia, cominciò proprio affermando il contrario, ossia svalutando gli ideali ascetici, o comunque la virtù del lavoro e delle rinunce, in nome di un diritto a piaceri permanenti, che ora vengono invece offerti ovunque, consumati e rigettati senza posa, senza limiti persino nella marea di immagini e voci dei media. Come ha potuto quest’economia dell’inondamento organizzarsi in un modo tale che ogni sottrazione di piaceri scatena i sintomi di una crisi d’astinenza, mentre la loro perpetua identica ripetizione non sembra condurre alla saturazione, alla noia, al fastidio e al disgusto? Perché non vale più quello che Shakespeare fa dichiarare al principe Enrico: “Se tutti i giorni dell’anno si facesse festa, il gioco diventerebbe tanto molesto quanto il lavoro”?1 Non si rivela qui un regno di morti delle passate gioie dei sensi, che il più completo esaudirsi della fortuna non riteneva un tempo garantite nella loro pretesa d’eternità, ma esperiva nella loro rarità, nel loro volare alto, nella loro differita fugacità? 3. Nella storia del pensiero occidentale, perlomeno in quella segnata dal platonismo, dallo stoicismo e dal cristianesimo, le gioie dei sensi sono state sospettate quasi sempre di non poter essere “innocenti”. I maestri della morale le hanno sempre viste strettamente connesse all’attaccamento a vizi di origine pulsionale. Esse non solo parevano mostrare ogni volta una tendenza a una peccaminosa smisuratezza, ma nel loro essere plebee e ancor più nel loro eccesso di raffinatezza ed eccezionalità distraevano dalla superiore beatitudine dei godimenti religiosi e metafisici. Sembra che le gioie dei sensi siano di per sé affette da qualcosa di immo1. W. Shakespeare, Enrico IV, 1, 2.

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rale, già solo per il fatto di non poter essere gustate senza “egoismo”, anche quando ne va del godimento degli altri. I neoplatonici, la stoà, il cristianesimo sospettarono a torto alcuni sofisti, e ovviamente gli epicurei, di raccomandare esclusivamente il godimento sensibile corporale, legato al presente e all’al di qua. È ben vero che gli epicurei non rifiutavano le gioie dei sensi come immorali o al di fuori dell’etica, ma è anche certo che vedevano in esse tutt’altro che un bene affidabile e degno di essere perseguito. La fugacità, instabilità, imprevedibilità, la disponibilità abbastanza limitata e gli effetti spesso cattivi delle gioie dei sensi sembravano deporre a loro sfavore. Alla loro esperienza effettiva si legava qualcosa di casuale e incerto. Proprio perciò agli epicurei stava a cuore l’educazione del gusto, cioè della capacità di distinguere tra le diverse gioie dei sensi che si offrivano, e di scegliere come la più squisita quella capace di garantire la spinta più lunga contro la scomparsa della gioia. Si trattava dell’educazione della sensibilità al gusto, e proprio le arti dovevano assumersi questo compito. Anche la società borghese, oggi al tramonto, ha preso ancora i suoi ideali dagli epicurei. Il suo manifesto più bello è sicuramente il testo di Schiller L’educazione estetica dell’uomo. Ma dalla metà del XX secolo questa educazione dei sensi viene sostituita da teorie dell’educazione che inseguono soprattutto l’ideale di tecnici e funzionari perfetti, non della formazione della personalità. E giacché apparentemente sul gusto non si può discutere, la sua educazione fu bandita dall’ambito pubblico e abbandonata alle occasioni private e alla decadenza. È così che si chiude il cerchio del processo di impoverimento del gusto: l’inevasa dipendenza dal piacere di quanti non sanno più trovare soddisfazione nelle gioie dei sensi. 4. Nella storia del pensiero occidentale si trovano solo pochi spunti per comprendere le gioie dei sensi in quanto tali. Si è infatti frettolosamente attribuita loro una funzione nell’ambito dei soli desideri e interessi, come se fosse questo il loro legittimo scopo, un gradito accompagnamento o una conseguenza. Si è parlato dell’immediatezza dei sentimenti come apparentemente non analiz173


zabile, quasi che si volesse evitare ogni tentativo di comprenderli. Non si è considerato il piacere stesso, ma il piacere di qualcosa, la bramosia. Così la sensualitas poté essere allontanata dalla sensibilitas e avvicinata alla voluptas, precisamente a una voluttà [Wolllust] nella quale la volontà di piacere [Wille zur Lust] trionfa sul piacere effettivamente provato [gefühlte Lust]. Allo stesso tempo si è affermata una concezione secondo la quale sarebbero organi e nervi del nostro corpo a farci dono del piacere sensibile. Laddove, al contrario, gioie e dolori dei sensi portano il corpo, sia organico sia inorganico, a tremare tanto che solo la sensibilità rende i corpi fisicamente trasparenti e vivibili fino in fondo. Non è facile comprendere il destino delle gioie dei sensi. La stessa modernità, che pure ha restituito alla sensibilità un valore alto e autonomo, non ha eliminato ogni sospetto nei confronti delle gioie dei sensi. Non si è stati più capaci di ritrovarne l’innocenza e le si è quindi trasposte nelle beatitudini di un paradiso di natura creduto ormai perduto. È ben vero che nell’Illuminismo, e segnatamente in Kant, si troverà la volontà di ascrivere al sentimento di piacere e dispiacere una certa autonomia rispetto agli ordini tanto del desiderio quanto del conoscere. Tale sentimento è sperimentato di per sé come “piacere della riflessione” nella modalità di un innalzamento al di sopra del preteso “piacere sensibile inferiore”. È così che Kant nella sua analitica del giudizio estetico è potuto giungere a un platonismo completamente diverso da quello nemico dei sensi – un platonismo che parlava di quella irresistibile potenza del bello, in grado di penetrare senza eccezione ogni fenomeno della natura, delle arti, della morale e delle virtù, delle scienze, dei concetti mitologici o filosofici. Di una bellezza che non solo era accessibile attraverso la gioia dei sensi, ma le metteva addirittura le ali. Prima di occuparmi esplicitamente dell’interpretazione kantiana, vorrei parlare di ciò che l’ha preparata, ossia del romanzo che tratta della formazione di un giovane filosofo, che ebbe un notevole influsso sul pensiero kantiano: la Storia di Agatone di Christoph Martin Wieland. Ma prima ancora va fatto vacillare un concetto di sensibilità duro a morire. 174


5. Abbiamo visto che, se prendiamo in considerazione la “sensibilità”, la storia occidentale della sua interpretazione ci rimanda sempre a una duplice immagine: da un lato, si intende la totalità delle sensazioni possibili, nella misura in cui noi, attraverso di esse, possiamo pervenire a intuizioni e percezioni (aisthesis, sensibilitas); dall’altro, si fa riferimento al destarsi di sentimenti (pathos, sensualitas) provati a causa delle sensazioni, che danno via via forma alla nostra situazione emotiva, a come ci sentiamo, e indicano le nostre inclinazioni. Tuttavia l’interpretazione della sensibilità secondo cui, in quanto enti sensibili, saremmo “subordinati” a qualcosa d’altro, riposa su un’antica decisione metafisica: nella sensibilità si vedeva non tanto ciò che apre al mondo, quanto piuttosto la limitazione di un soggetto libero in sé, ma condizionato dal proprio apparato fisiologico. Mentre, al contrario, le nostre sensazioni e i nostri sentimenti, come momenti della sensibilità, sono più originari di ogni nostro orientamento verso gli oggetti fisici e dei nostri stati psicofisici. È grazie a loro che noi siamo sempre qualcosa di più che mute parti organiche della natura. Misteriosamente, dagli effetti naturali, concatenati tra loro e privi di sensazioni e sentimenti, emerge un mondo sensibile. Tale destarsi alla sensibilità non è in potere del soggetto, ma è condizione della sua esistenza. Ciò vale anche quando chi abbia una sensibilità già desta espone il proprio organismo a degli stimoli, in attesa di risvegliare sensazioni e sentimenti specifici. Risulta perciò difficile comprendere le forme rivelatrici di tali sensazioni e sentimenti come qualcosa che saremmo noi soli a destare, prima di essere in grado, in quanto enti corporei, di rivolgerci a un altro ente, prima di essere in grado di orientarci nella loro fugace permanenza e capacità di mutare, nelle loro proprietà e nei loro intrecci, prima di essere noi stessi, in quanto soggetti, a relazionarci in modo comprendente a ciò che esse hanno potuto scatenare in noi. Fin dall’antichità la metafora del “conio” domina il discorso sulla sensibilità. In base a essa le cose agirebbero come stimoli sul nostro organismo, in modo che esso vi “reagirebbe” “producendone” “rap175


presentazioni”. Ma una simile interpretazione appartiene piuttosto al pensiero magico. Com’è infatti possibile trarre fuori magicamente da processi descrivibili in modo causale un tale destarsi, con le rap-pre-sentazioni che vi si trovano, se la loro caratteristica è proprio quella di far saltare la concatenazione ininterrotta degli effetti? Ma ogni pre- delle rappresentazioni presuppone un ambito esterno, un venir fuori dalla muta “interiorità” priva di distanza dei processi causali. Le sensazioni e i sentimenti non sono per niente qualcosa di “interiore”, bensì modi a priori dell’apertura. Se distinguiamo ora una sensibilità senziente [empfindend] da una sensibilità sensibile [fülend] è perché il nostro pensiero ascrive differenti funzioni a entrambe. Per esperienza interpretiamo le nostre sensazioni come se fossero “suscitate” da cose, mentre i sentimenti sarebbero tipi di esperienza, fondati sulle sensazioni, che compenetrano la nostra intera corporeità. Così avvertiamo [empfinden] i nostri sentimenti e sentiamo [fühlen] le nostre sensazioni, giacché altrimenti non conosceremmo il nostro stato né sperimenteremmo mai gli effetti delle cose. Ma attribuiamo alle due situazioni accenti differenti, distinguendo nel pensiero il mondo dei sentimenti dal mondo dei corpi “fuori” di essi, come cosalità che trascende i sentimenti. La nostra stessa corporeità appartiene inoltre a queste cose, e noi la consideriamo soltanto come un corpo fisico. Sotto la luminosità delle nostre intuizioni si mostra l’oscurità di una corporeità dalla quale noi stessi siamo emersi. Sotto i flutti dei nostri sentimenti si dà a vedere la distanza dalla quale sembrano essere sgorgati. Un certo realismo metafisico, dunque, ha interpretato la sensazione come se essa costituisse il confine tra l’esperire, in cui diveniamo coscienti della nostra corporeità, e ciò che esiste in quanto cosa, sussiste indipendentemente da noi e agisce su di noi. In base a questa concezione si afferma che le cose eserciterebbero in qualche modo effetti sul nostro organismo e lo stimolerebbero in modo da farlo reagire. Anche il nostro organismo è però considerato al pari di una cosa. Avremmo perciò descritto soltanto un processo fisiologico, in cui dei fotoni verrebbero all’incirca tra176


sformati in stimoli nervosi, che a loro volta regolano il comportamento dell’organismo. Il che, però, non spiega perché da tutto ciò può a un tratto emergere un mondo. Il “confine” tra le cose e la nostra esperienza sta allora piuttosto nella differenza che si è mostrata inizialmente nella sensibilità in un duplice senso, ma che a noi si è resa nota solo in seguito: il vedere, il tastare, l’assaporare dell’intuizione non avvengono mai senza sentimenti di piacere, dispiacere o indifferenza; ma con attenzione e direzionalità, mediante cui l’intuizione viene scomposta nell’atto dell’intuire e nell’oggetto dell’intuito, e i sentimenti possono arretrare verso uno sfondo inosservato, anziché portarsi in primo piano dominando come affetti ed emozioni, cosicché noi abbiamo di fronte soltanto ciò che è intuito. Deve però essere intuitivamente dato anche tutto ciò che noi giudichiamo come stimolo sul nostro organismo e come sue reazioni. È perciò sempre già presupposto quanto dev’essere spiegato: la sensibilità con le sue sensazioni e sentimenti. È proprio la sensibilità ciò che sta al principio, in modo irraggiungibile. Possono invece essere “affetti” solo taluni processi organici, che debbono essere intesi come veicoli condizionanti, ma non come origine delle sensazioni. Se cioè, riguardo alla sensibilità, si parla di una “ricettività a impressioni provocate da un mondo esterno indipendente”, non si tiene più d’occhio l’enigma di una presenza che dischiude il mondo – il che è quanto contraddistingue la sensibilità –, ma si sottintende un’istanza che può essere formata e che conserva la forma, cioè l’istanza di un soggetto che va incontro alle cose che agiscono su un organismo, e che è capace di tenere testa alla molteplicità delle impressioni sensibili, che ha potere di controllo su di esse e che a sua volta risponde all’azione delle cose. Solo che, in tal modo, svanisce l’enigma della sensibilità come viva attesa [Gewärtigung], che sola può destare all’intuire e al sentire e che per prima cosa ci fa “ri-trovare” [ein-finden] in quanto soggetti (ritrovare [einfinden] è l’etimo di provare [empfinden]). Le parole conservano ancora una debole memoria del fatto che noi avremmo sensi specifici per ciò che è termico, meccanico, ottico, acustico e chimico, grazie alla condizione per cui in queste moltepli177


ci determinazioni siamo noi stessi allo stesso tempo la mondanità e la terrestrità che esse dischiudono, nascondendo. Muovendo da queste osservazioni tenterò ora di avvicinarmi a una comprensione della sensibilità come sentimento. 6. L’Illuminismo europeo, che pure ha così tanto contribuito a liberare la sensibilità dalle sue “bassezze”, non seppe liberarsi del tutto dal sospetto verso la gioia dei sensi, in base al quale noi, ingannandoci, ci esporremmo esclusivamente alla loro fugacità, come se soltanto essa ci potesse promettere una vita permanentemente felice. Certo, si riportò la beatitudine sulla terra e le si garantì nei confronti dei doveri della legge morale un diritto proprio, ancorché modesto. Ma comunque si sottomise l’ideale della perfetta felicità, al quale si credeva di avvicinarsi, a un’antica economia delle gioie. Questa non solo prescrive di confrontare tra di esse le diverse gioie sensibili e di selezionarle in vista di gioie via via superiori, cosicché alla gioia della salute va garantito un diritto maggiore che alla gioia di cibi e bevande, al sentimento dell’onore un diritto maggiore che alla salute e così via. Veniva anche prescritto di comportarsi in modo parsimonioso con le gioie sensibili, onde evitare sazietà, fastidio, noia e disgusto, che si installerebbero se a esse ci si abbandonasse senza remore. Si è rinviato quindi al loro carattere effimero e alla loro fugacità non più solo per svalutarle, ma cercando anzi di prolungarne il godimento con la loro nobilitazione. “Vi è un modo di procurarsi piacere,” scrive Kant nell’Antropologia pragmatica, “che è a un tempo cultura, e si ha quando c’è un incremento della capacità di godere ancora di più di piaceri di tal natura, com’è il caso delle scienze e delle arti belle. Ma vi è anche un altro modo, ed è la forma della degenerazione, la quale ci fa sempre meno capaci di un ulteriore godimento [...]. O giovane (io ripeto), ama il lavoro; ricusa i piaceri, non per sottrarti a essi, ma per averne sempre davanti allo sguardo solo quanto è possibile! Non attutire con un godimento precoce la sensibilità per il piacere!”2 Si tratta chiaramente di assicu2. I. Kant, Antropologia pragmatica (1798), trad. di G. Vidari rivista da A. Guerra, Laterza, Roma-Bari 2001, p. 126.

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rarsi un “capitale di felicità”. Il supremo giudizio su piacere e dolore è infatti frutto di un “più alto compiacimento o disapprovazione di se stessi”,3 ossia del giudizio morale. E nella lingua degli ideali ascetici, che vanno impallidendo, Kant sostiene ancora che a donare valore alla vita non è la fortuna, bensì la saggezza,4 che potrà forse avere la felicità come conseguenza, ma non come movente. Al peso di una tale economia metafisica va ascritta la ragione per cui non troviamo quasi accenni per comprendere il fenomeno della gioia dei sensi. Intendo seguire adesso le tracce di questa gioia. 7. Il romanzo La storia di Agatone di Christoph Martin Wieland, la cui prima edizione apparve nel 1766, ovvero ventiquattro anni prima della Critica del giudizio di Kant, è considerato da alcuni teorici della letteratura come il primo romanzo di formazione [Bildungsroman] in lingua tedesca. Wieland colloca gli avvenimenti nella Grecia del IV secolo a.C. Le dispute filosofiche vi giocano un importante ruolo non solo nella caratterizzazione dei personaggi: sono soprattutto il mezzo dello sviluppo filosofico del protagonista, non nel contesto della sua evoluzione scolastica privata, ma piuttosto nel confronto pratico con il suo destino mondano. Sono narrate le avventure di un giovane platonico non solo nei vari casi di fortuna e sfortuna che lo mettono alla prova, ma soprattutto nel suo confronto con i chiaroscuri delle tentazioni sofistiche. Attraverso questa strada tortuosa il suo entusiasmo ascetico venato di fanatismo giunge a temperarsi in una più moderata religione della ragione di stampo platonico che, alla fine di un lungo peregrinare, si chiarirà definitivamente a Taranto, grazie ai pitagorici e all’allievo di Platone, Archita. Mi limiterò qui alla trattazione di quei passaggi che possono gettare luce sulla valutazione delle gioie sensibili.

3. Ivi, p. 126. [Qui e in altri casi la traduzione italiana è stata leggermente modificata per ragioni di coerenza, N.d.T.] 4. Cfr. pp. 128-129.

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Wieland riprende figure storiche a lui famigliari, tratte dalla lettura dei dialoghi platonici. Diversamente da Platone, però, in questo romanzo Wieland cerca di presentare gli insegnamenti del sofista Ippia in modo più convincente e allettante. Ciò mi sembra di particolare interesse. Wieland cade, infatti, nella tipica scissione illuministica tra la rivalutazione della sensibilità e il suo contemporaneo superamento in direzione di un mondo ideale soprasensibile, il quale, però, costringendo alla virtù, finisce per assumere toni ostili alla sensibilità. Tale scissione può essere tuttavia superata dalla vera bellezza. All’inizio del romanzo Agatone descrive pertanto la grazia di una bella notte estiva con le parole: “Il silenzio generale, il chiaro di luna, la commovente bellezza della natura addormentata, l’aria notturna, pervasa dal profumo dei fiori, le mille piacevoli sensazioni i cui amabili smarrimenti inebriavano la mia anima mi disposero a una forma d’incanto, al cui interno si apriva una diversa scena di sconosciute bellezze. Fu solo un istante. [...] Questo mi fece pensare a quanto è felice lo stato di quegli spiriti che, deposto il rozzo corpo animale, vivono interi millenni nella contemplazione della bellezza essenziale, dell’imperituro, dell’eterno e del divino, che a loro non sembrano durare più a lungo che a me questo istante”.5 Questa tensione tra il mondo sensibile e soprasensibile, com’è noto, sarà portata all’estremo dall’opera di Kant. Non so se l’influsso di Wieland su Kant sia mai stato valorizzato. Lo stesso Kant nella Critica del giudizio esalta comunque Wieland, ponendolo accanto a Omero, e considerandolo come quel genio che ha saputo congiungere il suo regno fantastico con idee dal pensiero profondo.6 Il giovane Agatone era giunto da bambino a Delfi per esservi educato, e vi era cresciuto. Divenuto un giovinetto, oppresso dalle insidie di una sacerdotessa e dai suoi intrighi a danno della fanciul5. C.M. Wieland, Sämmtliche Werke, Hamburger Stiftung zur Förderung von Wissenschaft und Kultur, Hamburg 1984, vol. I, p. 83 sgg. 6. Cfr. I. Kant, Critica del giudizio (1790), trad. di A. Gargiulo, Laterza, Roma-Bari 2002, p. 259.

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la Psiche, che egli castamente amava, fuggì. Raggiunse dapprima Atene, dove inizialmente intraprese una rapida carriera politica, ma finì poi per essere esiliato, vittima di rivali invidiosi e masse volubili. Depredato dei suoi averi, degli amici, della patria, in tale sfortuna cercò la pace dell’anima mediante la “contemplazione di ciò che è eterno e illimitato”. Una sera, mentre in una foresta andava in cerca di un riparo per la notte, sentì delle voci provenire da una montagna e decise di seguirle. Tutt’a un tratto si trovò in mezzo a menadi trace, che si abbandonarono a selvaggi orge in onore di Dioniso. Per un istante lo credettero un’apparizione del dio. Ma poco prima di rendersi conto del loro errore e di gettarsi su di lui, caddero esse stesse vittime di una banda di pirati che le aggredirono, le violentarono e le trascinarono sulle proprie navi come schiave. Agatone fu così salvato dalla sua “possibile perdizione per mano delle baccanti” mediante un altro male, allorché con loro perdette la propria libertà. Egli sopportò la cosa con rassegnazione: “Avendo in effetti perso tutto quanto rende la libertà degna di valore, [Agatone] non aveva molte ragioni di prendersela per una perdita, che prometteva quanto meno un cambiamento nella sua sfortuna”.7 Wieland conduce dunque il suo lettore innanzitutto attraverso forme estreme di desiderio. Sono presenti la lussuria di una sacerdotessa contrapposta al casto e “innocente” amore di Psiche, seguiti dalla sensualità orgiastica e distruttiva delle menadi, e dall’avidità dei pirati. A Smirne questi vendettero Agatone al sofista Ippia, che presto si assunse il compito di convincere il fanatico giovane platonico dell’al di qua di un mondo del tutto accessibile alla sensibilità umana. Ippia non è presentato come il portavoce di una dipendenza dal godimento sensibile priva di limiti e autodistruttiva. Wieland gli fa dire di non desiderare nulla il cui appagamento non sia in suo potere. “Io conosco poco il malumore e la preoccupazione. Mi faccio poche speranze perché mi appaga il godimento del presente. Provo piacere con moderazione, in modo 7. C.M. Wieland, Sämmtliche Werke, cit., vol. I, p. 35.

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da poter godere più a lungo. E quando provo dolore soffro con pazienza, giacché questo è il modo migliore per abbreviarne la durata”.8 Il piacere dei sensi è così sottomesso certamente a una ragione economica, ma rimane tuttavia il fine autentico di ogni aspirazione, che la ragione è costretta a servire. Quando Agatone domanda retoricamente a Ippia: “Su cosa fondi la tua virtù?”,9 in questa domanda si annuncia già quella completa frattura tra legge morale e felicità che Kant, nella Critica della ragion pratica, designava con le parole: “Tutti i principi pratici materiali [...] appartengono al principio universale dell’amor proprio, ossia della propria felicità”.10 Nella descrizione di Wieland Ippia diventa il difensore di un edonismo che delimita in modo ragionevole un certo tipo di piacere dei sensi per estendere l’uso di un altro. Egli fa notare ad Agatone: “I filosofi parlano di piaceri dello spirito, di piaceri del cuore e della virtù. Tutti questi piaceri sono tali o per i sensi o per l’immaginazione, oppure non sono niente”.11 La sua comprensione del piacere sensibile non si limita quindi a quanto è stato chiamato in modo dispregiativo ed erroneo col nome di “piacere della carne”. Anche quelle gioie dei sensi che sono procurate dalle sensazioni di singoli organi invece che dal corpo in generale concernono, infatti, in modi di volta in volta diversi, l’intera esistenza. Considerando che a Wieland era familiare Spinoza, parlerò di gioia dei sensi, perché per Baruch Spinoza la gioia era l’esperire in cui il piacere particolare si fonde alla più generale “allegria” (Ethica more geometrico demonstrata). La gioia dei sensi è pertanto dappertutto già gioia sensibile, godimento della vita in generale. Ogni educazione del gusto dovrà quindi indirizzarsi ai sensi, dei quali fanno parte necessariamente anche i sensi “immaginanti” dell’immaginazione, giacché ne va del raffinamento e dell’ampliamento della sensibilità. Ippia giunge perfino a parlare della pa8. Ivi, p. 93. 9. Ibidem. 10. I. Kant, Critica della ragion pratica (1788), trad. di F. Capra, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 41. 11. C.M. Wieland, Sämtliche Werke, cit., vol. I, p. 116.

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radossale sensibilità dell’ostilità nei confronti dei sensi di stampo ascetico: nel delirio12 la sensibilità repressa fa ritorno infatti in forma distorta. Ippia, comunque, non dice mai che l’estensione e il raffinamento della sensibilità potrebbero condurre anche a una diminuzione della sua freschezza, vivacità o forza. È forse questo un segno del fatto che nemmeno lui è alieno da un certo scetticismo verso quelle gioie dei sensi che potrebbero mettere in pericolo il suo ideale di atarassia? “Io voglio scoprire i segreti di una saggezza che conduce a godere di tutto quanto la natura, l’arte, la società e la stessa illusione (giacché l’uomo non è fatto per essere sempre saggio) hanno da offrire di buono e di piacevole”:13 questo dichiara Ippia ad Agatone, e da principio espone il virtuoso platonico semplicemente alle “pulsioni naturali”, nella speranza che egli venga travolto da tale momento di “irrazionalità”. Le arti di seduzione della bella e astuta serva Ciana non hanno però successo per il semplice fatto che per Agatone – che ne intuisce gli intenti – tutto quanto la sua figura e i suoi movimenti hanno di provocante e seducente assume l’aspetto di qualcosa di artificioso, che raffredda i suoi sensi. Wieland intende mostrare la limitatezza consistente nel separare il piacere sessuale da una sensibilità più completa, che solo l’innamoramento farà entrare in scena. Ippia prova in seguito con la retorica, con la seduzione dei percorsi di pensiero nei quali giunge a parola il principio del piacere per così dire spirituale. Sul senso del principio epicureo esposto da Ippia, secondo cui l’assenza di dolore coincide immediatamente col sommo piacere,14 tornerò successivamente. Ora accenno soltanto al fatto che in esso si trova tutt’altro che una forma di moderazione. Secondo Ippia è la ragione ciò che non solo deve effettuare una selezione tra le diverse tipologie di piacere, in base alla loro durata e alle loro conseguenze buone o cattive. Essa de12. Cfr. ivi, p. 131. 13. Ivi, p. 96. 14. Cfr. ivi, p. 116.

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ve ancor più raffinare i piaceri per renderli spirituali, cosa che però non riuscirà mai senza un raffinamento dei sensi, così come avviene nell’educazione del gusto. A differenza della rozzezza dei selvaggi, le arti del gusto sarebbero, secondo Ippia, la modalità più gradevole di provare piacere. Tuttavia non basta certo accumulare potere e ricchezze se l’eccesso di voluttà sensibili finisce per distruggere gli strumenti della sensazione, e per generare sazietà e disgusto.15 I “sentimenti ottusi di questi beati senza beatitudine” costringerebbero perfino a provare gratitudine per una natura che obbligasse a guadagnarsi il piacere col lavoro.16 Per quanto concerne il rapporto di un tale edonismo razionale con il comportamento morale, Ippia fa notare che “solo quello stato della società che riunisce un certo numero di uomini in vista di ciò che è la cosa migliore per tutti loro, pone capo a quella straordinaria legge di natura secondo cui bisogna cercare ciò che è meglio per sé, con l’unica limitazione di non danneggiare l’altro”.17 Detto in forma positiva, la limitazione di una sfrenata ricerca di godimenti serve a un superiore piacere, che consiste nel vivere con gli altri in pace, concordia e socievolezza. È la logica del piacere stesso a comandare di riunirsi in base a un contratto sociale. Questa riflessione sembra essere riconducibile al problema che Socrate affronta con Protagora nell’omonimo dialogo platonico. Se all’inizio Socrate sostiene che la virtù non si lascia insegnare, mentre Protagora afferma la sua insegnabilità, la trattazione dell’essenza del piacere porta ad ammettere che in realtà solo l’ignoranza e la mancanza di conoscenza conducono gli uomini a farsi sopraffare da un piacere che potrà poi rivelarsi dannoso. La saggezza consisterebbe nel potersi difendere da una tale debolezza.18 Che cosa sia però la virtù non lo si è ancora capito. A Wieland non rimane per ora altro che avvicinare nuovamente Ippia a una sofistica che si pone in contrasto con il sentimento morale. Gli fa pertanto dire, in modo piuttosto inconseguente: “Ciò 15. Cfr. ivi, p. 137. 16. Cfr. ivi, p. 138. 17. Ivi, p. 154. 18. Platone, Protagora, a cura di A. Capra, La Nuova Italia, Scandicci 2004, 358 c.

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che si chiama saggezza dei sofisti è l’abilità di servirsi degli uomini in modo che questi siano inclini a soddisfare i nostri piaceri, o a diventare comunque strumenti dei nostri fini”.19 Il sofista si presenta come colui che convince e corrompe, pur rinunciando alla violenza e rispettando apparentemente la libertà degli altri. Ma i suoi motivi restano in ogni caso legati a un interesse egoistico che non riconosce la dignità dell’altro, in nome della quale esso – come dirà Kant – non deve venire usato solo come mezzo, ma anche rispettato come fine in sé. Ippia contravviene quindi a uno specifico piacere, alla gioia che scaturisce dal rispetto dell’autonomia di ogni individuo. L’interesse egoistico non è infatti altro che l’incapacità di godersi il piacere del rapporto con gli altri. È quindi comprensibile che Ippia fallisca nel tentativo di indurre Agatone a queste gioie dimidiate, e che questi controbatta che il suo discorso è senz’altro bello, ma “ciononostante non avverto la minima voglia di essere felice in tal modo”.20 Le conseguenze del suo principio egoistico sarebbero infatti soltanto l’elevazione dell’utile a unico filo conduttore del suo agire, una prospettiva che Agatone rifiuta in nome della virtù. Ippia non abbandona il suo tentativo di corruzione, cambia però strategia dichiarando di volersi servire dell’“arte della sofistica femminile”.21 Si rivolge alla sua amica Danae, “dama di compagnia”, chiedendole se essa non abbia voglia di “gustare l’amore metafisico”.22 Danae, donna coltissima di gusti squisiti, accondiscende al progetto di sviare Agatone dal suo platonismo nemico dei sensi. “Ippia”, pensa Danae, “avrebbe sbagliato soltanto nell’aver voluto corrompere Agatone per mezzo dei sensi”23 invece che mediante l’immaginazione. Quando Agatone entra nel palazzo di Danae è subito rapito dalla sua magnificenza, frutto del buon gusto. “Agatone, sul quale ogni cosa bella faceva un’impressione molto più vivace di quanto non sarebbe necessario per soddisfare i criteri dei moralisti, fu 19. C.M. Wieland, Sämtliche Werke, cit., vol. I, p. 142 sgg. 20. Ivi, p. 165. 21. Ivi, p. 191. 22. Ivi, p. 196. 23. Ivi, p. 198.

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a tal punto incantato da tutto quanto vedeva, da credersi trasportato in uno dei mondi ideali nei quali credeva.”24 Wieland mostra abilmente come il piacere sensibile momentaneo, disprezzato in nome della virtù, può corrispondere a un’ancor più inebriante gioia dei sensi frutto dell’immaginazione, secondo quanto si è già reso manifesto nel fanatismo del giovane platonico. Quando questi scorge però la bella Danae, resta ammutolito. Ella non si era infatti minimamente preoccupata di aumentare le proprie grazie con trucchi risplendenti, o di porle con altri artifici in una luce accecante: “Un abito bianco con fini bordure di porpora e una rosa semiaperta nei suoi capelli neri, costituiva tutto il suo sfoggio; e la sua veste era così lontana dalla trasparenza che nell’abito di Ciana aveva così offeso gli occhi del nostro eroe, che si sarebbe a buon diritto potuto dire che essa copriva troppo”.25 Al termine del pasto, fecero ingresso un ballerino e una giovane ballerina per “rappresentare con la danza, accompagnati da due flauti, il mito di Apollo e Dafne”.26 Successivamente la compagnia si intrattenne entusiasta di questa rappresentazione. Ma Agatone biasimava il fatto che Dafne si fosse sempre guardata intorno tremante e con le lacrime agli occhi alla ricerca del suo amante: “La caratteristica che secondo me Dafne dovrebbe avere è quella dell’indifferenza e dell’innocenza; essa può possedere entrambe le cose senza essere necessariamente scostante”.27 Con “indifferenza” Agatone intendeva naturalmente indifferenza non nei confronti del pericolo, bensì nei confronti della seduzione del dio. Danae replicò che la danzatrice avrebbe potuto recitare la parte di se stessa, anziché rimanere fedele al testo del poeta. Poi si alzò, scomparve, per rientrare e recitare in prima persona il ruolo di Dafne. “La sua rappresentazione diede espressione nel modo più preciso all’idea di Agatone, aggiungendovi però una grazia e una leggiadria che la fantasia del giovane non avrebbe saputo immaginare.”28 Un potere ir24. Ivi, p. 199. 25. Ivi, p. 201. 26. Ivi, p. 202. 27. Ivi, p. 205. 28. Ivi, p. 207.

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resistibile si impadronì di lui: “In uno stato di muto rapimento continuava a fissare il luogo dove lei si era trasformata in alloro, pur essendo ormai già scomparsa di scena”.29 E proprio il suo carattere fugace, che sembrò mantenersi anche di fronte alle acclamazioni degli spettatori, aumentò il turbamento di Agatone. Egli si trasformò allora da “un platonico speculativo a un Aristippo pratico”30 – secondo le parole di Wieland – e prese le difese di quest’ultimo, un allievo di Socrate, contro l’accusa secondo cui è da considerare buono solo il godimento legato agli organi di senso. Danae scoprì invece in sé un delicato e caloroso amore nei suoi confronti, che sembrò andare oltre ogni aspetto corporeo. Si realizzò così una “fusione delle loro anime innamorate”.31 Dopo la messa in scena di una competizione musicale tra le sirene e le muse – allegorie della seduzione e della rappresentazione artistica –, durante la quale la voce di Danae cantante celebrò il proprio trionfo sul giovane platonico, l’innamorata si aggirò turbata nel giardino notturno, finché egli non la ritrovò in un padiglione, dove i due caddero l’una nelle braccia dell’altro. Danae realizzò così il suo progetto di riprendere Agatone dal mondo soprasensibile delle idee, ma solo pagando il prezzo inatteso di innamorarsi a sua volta. La descrizione che Wieland fa di questo amore e della sua beatitudine mirano a rovesciare il rapporto tra “gioia dei sensi” e “amore animale”. Non si tratta tanto di appagare una bramosia sessuale e di risvegliare ogni volta questo appagamento con nuovi corteggiamenti, si tratta al contrario di sottrarre la gioia delle loro sensazioni alla coazione ciclica di desiderio e soddisfazione. La gioia dei sensi del piacere vitale compenetra anche la ciclicità dello stesso desiderio: “La bella Danae era così ingegnosa, così inesauribile nell’arte di moltiplicare i propri favori, di aumentare il loro valore col fascino del proprio modo di adornarsi, di mantenere sempre nuova la freschezza della loro fioritura, di tener felicemente 29. Ibidem. 30. Ivi, p. 272. 31. Ivi, p. 270.

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lontano ogni forma di monotonia e tutto quanto avrebbe potuto far svanire l’incanto e consentire l’accesso alla sazietà”.32 “I due amanti, beati, in base a quello che provavano, per eguagliare la somma gioia degli dei non avevano bisogno di nient’altro che del loro amore.”33 Qui il “piacere senza interesse” non si contrappone dunque al desiderio, ma lo compenetra con tutto il suo potere. Quando però Agatone, divenuto suscettibile per un’incomprensibile tristezza come quelle che venano spesso l’estrema felicità amorosa, venne un giorno a sapere che il tutto era scaturito da un piano ordito da Ippia e Danae, fugge da Smirne profondamente ferito. In seguito alla sua fuga, Agatone finì dapprima alla corte del tiranno Dionisio di Siracusa, dove un suo progetto di fondare uno stato libero e giusto – simile a quello di Dione e Platone – fallì per colpa degli intrighi, della brama di lussi e degli sprechi della corte. Egli stesso fu risucchiato nel turbine dei piaceri eccessivi fino a che non cominciarono a presentarsi noia e disgusto, che lo fecero cadere in una “instupidita malinconia”. Abbandonò quindi Siracusa e giunse a Taranto, dove incontrò Archita. Questi gli insegnò la propria “teoria della saggezza” volta contro ogni tipo di sofistica, che tuttavia sembra essere fomentata da un certo odio di stampo “pietistico”, atteggiamento che non dovette essere estraneo allo stesso giovane Wieland: “Fin dalla mia infanzia la rettitudine e un odio mortale per ogni deviazione e falsità furono i tratti più forti del mio carattere”.34 A ciò si accompagnò la sua repulsione verso l’ingiustizia e l’iniquità, e verso quei sofisti che “fanno un’arte ginnica della loro forza di pensiero”.35 Se si vuole raggiungere la pace dello spirito si deve aspirare alla virtù, per il solo motivo che essa è un dovere.36 Il fatto di essere coscienti di aver compiuto il dovere deve bastare, che gli altri lo riconoscano o me32. Ivi, p. 269. 33. Ibidem. 34. C.M. Wieland, Sämtliche Werke, cit., vol. III, p. 385. 35. Ivi, p. 401. 36. Cfr. ivi, p. 388.

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no. La battaglia senza tregua della ragione con la sensibilità, ovvero dell’uomo spirituale con quello animale, è l’unico modo per togliere di mezzo la perdizione della nostra natura e tutti i tipi di mali che ne scaturiscono.37 Avvicinandosi in eterno alla perfezione della ragione suprema, le idee svolgono la funzione di “elementi regolativi della vita”.38 Questa infinita superiorità dell’invisibile in noi nei confronti del visibile costituisce la nostra dignità.39 Così si troverebbe un posto nel tutto. La fede condurrebbe sulla via del sommo bene morale e guiderebbe al più puro godimento della propria esistenza.40 Qui si parla di un godimento che solo per ignoranza di fronte a se stessi si può negare che diventi esperibile soltanto attraverso la gioia dei sensi. Archita non può rinunciare al piacere della soddisfazione per aver compiuto il proprio dovere, piacere strappato al suo odio. Chi non avverte qui ciò che Robespierre sintetizzerà nelle parole: il terrore è la virtù in azione? L’obbligo al dovere comporta la funzione di distruggere sempre di nuovo l’irrinunciabile “armonia” tra la natura animale e quella spirituale, per erigerla nuovamente a livelli sempre più elevati, in quanto natura nobilitata. La sensibilità resta infatti sempre un’umiliazione dello spirito,41 che svanirà solo con la morte. L’intera nobilitazione della natura animale dell’uomo, l’educazione del gusto, viene quindi nuovamente sottomessa a un forte desiderio e ammessa solo in quanto mezzo di una religione pratica della ragione, mezzo che deve però sempre annientare se stesso. Il sentimento del piacere rimane così, infine, muto, e possiamo indicarlo apparentemente soltanto con una “parola distesa”. 8. Quali che siano le ragioni per cui la gioia dei sensi viene poco stimata, essa rientra comunque in un sentimento di piacere che prima di tutto ravviva i sensi che provano sensazioni. Noi pensia37. Cfr. ivi, p. 396. 38. Ivi, p. 390 sgg. 39. Cfr. ivi, p. 397. 40. Cfr. ivi, p. 407. 41. Cfr. ivi, p. 393.

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mo il corpo organico come un sostegno e un mezzo, ma mai come fondamento dei sentimenti di piacere. Solo a partire da ciò il platonismo in generale ha potuto mettere in gioco un sentimento di somma beatitudine, un sentimento che certo oltrepassa i confini del corpo organico avvertiti dai singoli sensi, ma non per questo può sussistere al di là di una vivace esperienza sensibile. La pretesa differenza tra gioie “spirituali” e gioie “sensibili” è quindi insostenibile sul piano fenomenologico. Non esistono né gioie dei sensi “prive di spirito” né sentimenti di felicità “insensibili”. Ma che cosa si intende con “piacere” [Lust]? Come già Aristotele, Epicuro vedeva nel piacere (hedone) l’estremo, sommo bene, ciò che è ricercato da tutti gli esseri viventi di per sé, in vista di nient’altro.42 Ma poiché nel desiderio del piacere, in quanto desiderio, è presente una sensazione dolorosa43 – come egli dice nella Lettera a Meneceo – che sia o meno rivestita di un piacere della memoria o dell’attesa, si pone la questione di che cosa sia il piacere indipendentemente dalla sua presentazione mediante il desiderio. Epicuro confessa: “Per parte mia non posso concepire niente di buono se elimino i godimenti percepibili per mezzo del gusto, quelli procurati dalla vita amorosa, quelli frutto dell’udito e del canto, e se elimino anche i godimenti che scaturiscono in occasione della percezione di immagini e che assumono mediante la vista la forma di movimenti belli, o tutti quei piaceri che sono comunque il prodotto di una qualche percezione sensibile nell’uomo intero. Sicuramente non si può dire che le gioie dello spirito siano di per sé qualcosa di buono. Secondo me è infatti nell’attesa di tutte le cose appena nominate che uno spirito è contento”.44 In cosa consiste allora questo bene? Il piacere non diventa certo più comprensibile attraverso il rinvio a diversi tipi di godimenti che peraltro non di rado si contraddicono e impongono di operare una scelta tra loro. E 42. Cfr. il paragrafo “Lust” del capitolo “Epikureismus” in A.A. Long e D.N. Sedley (a cura di), Die hellenistischen Philosophen: Texte und Kommentare, Metzler, Stuttgart-Weimar 2000, p. 131 sgg. 43. Cfr. ivi, p. 132. 44. Ivi, p. 136.

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anche Epicuro vede nell’atarassia quel piacere dal quale non si debbono temere conseguenze dolorose o fonti d’inquietudine. La gioia è dunque la modalità di provare piacere nei modi più diversi. Ma cosa intende Epicuro in generale con piacere? Diogene Laerzio cita dal suo scritto Sulla scelta, andato perduto, la frase: “La libertà dall’errore e l’assenza di dolore sono piaceri statici; la gioia e l’allegria sono al contrario considerate attività cinetiche”.45 Egli vede nell’assenza di dolore la determinazione ontologica generale di ogni piacere che costituisce il fondamento di qualunque tipo di gioia: “Non appena sia messo da parte il dolore frutto della mancanza, il piacere carnale non aumenta più, ma varia solamente. Nel pensiero il confine della gioia viene invece raggiunto quando sono state chiarite proprio le cose che arrecano al pensiero le più grandi paure e tutto quanto vi è imparentato”.46 Detto in generale: “L’eliminazione di tutto quanto arreca dolore è il confine dell’intensità della percezione del piacere”.47 La cosa suona sorprendentemente stoica, se si fa attenzione esclusivamente all’assenza di mali e alla mancanza di dolore e sofferenza. Tale assenza di dolore è tuttavia solo il presupposto negativo perché possa liberarsi il piacere. Il piacere, per Epicuro, è la struttura ontologica dell’esistenza come sommo bene. Esso è piacere vitale per eccellenza, il cui vivo dispiegamento è impedito finché permangano dolori, di qualsiasi tipo essi siano. Una tale libertà dell’esistenza, ricca di piacere verso se stessi, sarà forse davvero vissuta in rari istanti. Ma essa non è vincolata a godimenti determinati. E sebbene le gioie, nella maggior parte dei casi, fanno la loro comparsa intorbidite da un’infinità di fattori, esse prendono pur sempre parte al piacere vitale in sé. Soltanto la semplice assenza di quelle costrizioni frutto di sofferenze e dolori che reclamano il piacere rende libero quel campo in cui il singolo non gode solo di questa o quella gioia, ma della propria esistenza in generale. La teoria di Epicuro non illustra tuttavia la potenza di quella bellezza che sola libera una tale gioia vitale. 45. Ivi, p. 138. 46. Ivi, p. 134. 47. Ibidem.

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9. La descrizione di una tale potenza è compiuta da Kant nella sua Critica del giudizio. Ritengo che Kant, nella Critica del giudizio, si riallacci a questa riflessione di Epicuro, quando ascrive al piacere dell’esistenza, che si manifesta nella bellezza, determinazioni di carattere generale. Come è noto egli distingue tre tipi di piacere [Wohlgefallen]: quello che corrisponde al piacevole, quello che corrisponde al bello e quello che corrisponde al buono, così come distingue i loro opposti, che rientrano nel sentimento del dispiacere. In generale nei giudizi di gusto non è descritto nulla che riguardi l’oggetto, bensì esclusivamente il soggetto che avverte se stesso. Ma questa concezione si avvicina davvero alla cosa stessa? È facilmente comprensibile cosa Kant intenda con “soggetto”. Con ogni evidenza non si tratta infatti né della persona intesa in senso psicologico, né del puro soggetto trascendentale. Siccome però i giudizi di gusto, come egli sottolinea, sono sempre giudizi singolari, Kant deve comprendere anche il soggetto estetico come dotato di un’esistenza singolare. Questo però non significa abbandonarsi alle casualità del vivere psichico, ma cogliere il generale per come esso è già sempre inteso nel giudizio di gusto. Sulla base di percezioni sensibili, nel giudizio riflettente di gusto viene messo in relazione al sentimento solo l’apparire [Schein] delle cose, non il loro manifestarsi [Erscheinen]. Tuttavia, non appena il fenomeno estetico è interpretato alla luce di interessi pratici, siano essi un desiderare sensibile oppure un interesse conoscitivo o morale, la sua struttura viene ricoperta di fini pulsionali o scopi, e resa irriconoscibile. Ma è proprio questo il caso del piacevole o del buono. Per tale motivo la pura struttura del giudizio di gusto si mostra solo nel piacere privo di interesse provato nei confronti del bello. Questa articolazione analitica nascondeva fin dal principio il pericolo di essere equivocata in senso ontologico, come se trattasse di diverse regioni dell’essere. Kant stesso ha talvolta incoraggiato tale fraintendimento. Eppure a lui interessava soltanto rendere comprensibile il sentimento di piacere o dispiacere per come esso si dà, ed esclusivamente nel giudizio di gusto estetico. Mi rivolgerò quindi criticamente alle sue esposizioni del piacevo192


le, per mostrare che le gioie dei sensi non possono essere sufficientemente comprese se si prescinde dal momento del bello. Secondo Kant nel giudicare che qualcosa è bello non si sarebbe per nulla interessati all’“esistenza” della cosa, ma solo alla sua “considerazione”.48 Ma che cosa significa? “Esistenza” è per lui evidentemente un’espressione con cui la cosa [Sache] è colta come pragma, cioè come una “cosa” [Ding] compresa a partire dal suo utilizzo, come nel caso dei cibi e delle bevande. Quando Kant dice: “Piacevole è ciò che piace ai sensi nella sensazione”,49 questo vale in ultima analisi per ogni tipo di piacere, giacché nessuno può essere avvertito in assenza di sensazioni. “Piacevole” è quindi la parola con cui egli indica la “gioia dei sensi” in generale. La percezione deve infatti stare anche a fondamento della riflessione sulla pura apparenza. In base al piacevole tutte le cose vengono valutate, infatti, secondo il grado di diletto che promettono, anche le cose belle, spirituali o morali.50 Kant non pensa dunque il piacevole in quanto tale, ma lo interpreta come scopo di un desiderio: “Ora è chiaro che il giudizio, col quale io dichiaro piacevole un oggetto, esprime un interesse nei suoi riguardi, perché il giudizio stesso, mediante la sensazione, suscita il desiderio di oggetti simili, e per conseguenza il piacere non presuppone il semplice giudizio sull’oggetto, ma il rapporto della sua esistenza con il mio stato, in quanto sono affetto da un tale oggetto. Perciò del piacevole non si dice semplicemente che esso piace, ma che esso diletta. Non è una semplice approvazione che io concedo, poiché esso produce in me un’inclinazione”.51 In questa interpretazione si avverte ancora l’antico scetticismo verso i piaceri sensibili, nella misura in cui essi sono visti come oggetto di un desiderio, cosa però tutt’altro che evidente. Il sentimento di piacere viene ristretto e compreso come piacere per qualcosa e di qualcosa. Ma inclinazione e interesse “non ci lasciano alcuna libertà di farcene noi 48. I. Kant, Critica del giudizio, cit., p. 73. 49. Ivi, p. 75. 50. Cfr. ivi, p. 77. 51. Ivi, p. 79.

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stessi un oggetto del piacere”.52 Si potrebbe obiettare a Kant che proprio questa “libertà di procurarsi piacere”, se fosse in generale possibile, avrebbe tuttavia già sottomesso la bellezza alla volontà. Neppure essa avrebbe potuto così mostrare il suo “favore” come “unico piacere libero”. 10. Si è rimproverato a Kant un “formalismo” estetico perché con bellezza pura egli intenderebbe solo ciò che non ha alcun significato, ovvero ciò di cui non possederemmo alcun concetto determinato. Fiori, disegni liberi, tratti che senza intenzione confluiscono l’uno nell’altro, “non dipendono da alcun concetto determinato e tuttavia piacciono”.53 Certamente il fascino dei colori o del suono gradevole di uno strumento possono aggiungervisi, ma il disegno e la composizione “costituiscono l’oggetto proprio del puro giudizio di gusto”,54 ossia il gioco delle figure nello spazio o delle sensazioni nel tempo. Io non vedo in ciò alcun formalismo, ma al contrario un’argomentazione sul sentimento di piacere nei confronti del bello in ultima analisi ancora empirica, che dovrebbe assumere la funzione di delimitare il bello dal “mero” piacevole, dal buono della conoscenza e dell’azione. Se però si rinunciasse del tutto a questa delimitazione non avrebbe più alcun fondamento un giudizio di gusto libero, in rapporto al quale scoprire ogni sentimento di piacere o dispiacere, poiché infatti verrebbe in primo piano esclusivamente questo stesso sentimento e non il suo legame col desiderio e con significati concettuali, il che è proprio ciò che costituisce il carattere della libertà. Dagli esempi kantiani di gusto gradevole risulta subito evidente la tendenza a rinunciare a un’educazione estetica del gusto. Nell’Antropologia pragmatica si dice del mangiare: “Non c’è una situazione in cui sensibilità e intelletto possono esser riuniti in un godimento che continua così a lungo, e che può esser ripetuto così spesso con piacere, [simile a quella] di un buon pasto in buona 52. Ivi, p. 85. 53. Ivi, p. 79. 54. Ivi, p. 119.

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compagnia”. Siccome però l’ospite non può scegliere indifferentemente per tutti, offrirà molte cose, adatte a ogni gusto.55 Non si nasconde così nel concetto di “buon pasto” una pretesa dell’arte culinaria a educare il gusto, invece che soddisfare solamente dei bisogni? Dove domina il desiderio, Kant può naturalmente dire: “Per ciò che riguarda l’interesse dell’inclinazione nel piacevole, ognuno dice che il miglior condimento è l’appetito, e alla gente di buon appetito piace tutto ciò che è commestibile; quindi un piacere di questa specie non dimostra nel gusto nessuna scelta”.56 Il piacevole emerge qui soltanto come impulso a eliminare lo spiacevole, ma tale tipo di soddisfazione non ha neppure un carattere sociale. Confinando il piacevole al gusto empiricamente casuale del singolo, Kant può affermare: “Per ciò che riguarda il piacevole, ognuno riconosce che il giudizio che egli fonda su di un sentimento particolare, e con il quale dichiara che un oggetto gli piace, non ha valore se non per la sua persona. Perciò quando qualcuno dice: – il vino delle Canarie è piacevole, – sopporta volentieri che gli si corregga l’espressione e gli si ricordi che deve dire: – è piacevole per me; – e così non solo per il gusto della lingua, del palato e della gola, ma anche per ciò che può essere piacevole agli occhi o agli orecchi. Per uno il colore della violetta è dolce e amabile, per l’altro è cupo e smorto. A uno piace il suono degli strumenti a fiato, all’altro quello degli strumenti a corda. Perciò sarebbe da stolto litigare in tali casi per riprovare come errore il giudizio altrui, quando differisce dal nostro, quasi che tali giudizi fossero opposti logicamente; sicché in fatto di piacevole vale il principio: ognuno ha il proprio gusto (dei sensi)”.57 Allo stesso modo nessuno si lascerebbe trattenere, se non con rassegnazione o indifferenza, dal discutere relativamente al gusto. Nessuno vuole limitarsi soltanto alla casualità del proprio benessere privato, ma scorge in esso anche qualcosa che Kant rende visibile soltanto nella sua analitica del bello, e per il quale, in nome dell’educazione del gusto, vale la pena di disputare. 55. I. Kant, Antropologia pragmatica, cit., p. 42. 56. Id., Critica del giudizio, cit., p. 85. 57. Ivi, p. 91.

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Sono notoriamente quattro i criteri che Kant ritiene validi relativamente al riferimento della facoltà di giudizio al sentimento del bello: credo che la mancanza d’interesse possa avere la sola funzione analitica di tracciare in generale l’autonoma struttura del sentimento in quanto tale, e di delimitarla nei confronti del desiderio. Essa corrisponderebbe così all’epicurea libertà dal dolore come condizione del piacere dell’esistenza. Ciò che caratterizza la generalità del piacere nei confronti del bello è che essa non è un concetto, giacché “bello” non è una determinata proprietà delle cose; tale generalità risiede piuttosto nella pretesa che il piacere nei confronti del bello sia valido per ognuno. Il “sentirsi libero”58 da interessi particolari non è infatti una “condizione privata”, ma potrebbe essere presupposta come possibilità in ogni altro. A causa di questa generale validità si parlerebbe di bellezza come se fosse una caratteristica dell’oggetto e quindi come se il giudizio fosse logico. La forma di una finalità senza scopo risiede nel gioco delle facoltà conoscitive, che non mira a una conoscenza di vantaggi empirici. Questo gioco consiste in un libero rapporto dell’apparire [Scheinen] con il sentimento di piacere, che noi esperiamo come adeguatezza o accordo della nostra propria esistenza. Sentimento diventa qui parimenti senso [Gespür] dell’adeguato e dell’inadeguato, dell’accordo e del disaccordo. La sua misura non sta né in un modello imitabile, né in un “archetipo” o in un’idea di bellezza, e non segue quindi alcun fine. Si tratta di un senso capace di giudicare se i fenomeni siano adeguati al sentimento o meno. Siccome questo appartiene al modo d’essere di ogni esistenza individuale, il giudizio di gusto di ciascuno potrebbe esigere di essere condiviso con necessità, perché ci sarebbe un fondamento comune a tutti e quindi comunicabile.59 Ciò che qui è determinato come generalmente valido soltanto tramite il sentimento, Kant lo chiama il sensus communis [Gemeinsinn]. Esso appartiene al modo d’essere estetico universalmente, non solo “privatamente” o in modo empiricamente generale, come lo si potrebbe trovare nel gu58. Ivi, p. 89. 59. Cfr. ivi, p. 143.

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sto unanime di un determinato pubblico. Viene così posto a fondamento di ogni singola esistenza un “sentimento comune”, che stranamente si esprime come un imperativo e contiene dunque un dover-concordare.60 Ma non si ripropone così il desiderare come fattore della sua interpretazione, cioè come valore estetico universalmente valido? La “norma indeterminata del senso comune”61 è però soltanto l’espressione del fatto che il sentimento del bello non si limita né alla sua esperienza ogni volta casuale, né al consenso di un pubblico. Si potrebbe pertanto trasformare, con Husserl, la proposizione apparentemente normativa: “Un A deve [soll] essere B”, nella forma: “Soltanto un A che sia B è un A bello”,62 per evitare la sua interpretazione in base a esigenze pratiche. Il sentimento del piacere del bello, sperimentato in modo ogni volta individuale, fa parte – in base a quanto dice Kant stesso – di un “piacere generale” al quale noi facciamo anticipatamente riferimento nei nostri giudizi di gusto, e senza il quale essi non sarebbero neppure pensabili. La formulazione kantiana, apparentemente enigmatica, secondo la quale questo piacere generale nel giudizio prende il posto del predicato, mi sembra diventare comprensibile se non interpretiamo il sentimento di piacere né dal punto di vista della sua esperibilità psichica né da quello del desiderio, ma a partire dal suo senso ontologico: come la felicità dell’esistenza, affermatasi in se stessa. Una tale felicità non dipende però dal nostro potere di disporre delle cose, ma accade in quanto potenza della bellezza. E il giudizio estetico di gusto, che può venire affinato dall’educazione, lascia aperta la possibilità di incontrare questa potenza. Come già notato, non c’è alcun motivo evidente per concepire come regioni ontologiche diverse quelle del piacere relativo al piacevole, al buono e al bello, se comunque solo il sentimento del bello è in grado di far conoscere la struttura generale dell’essere este60. Cfr. ivi, p. 147. 61. Ibidem. 62. E. Husserl, “Prolegomeni a una logica pura”, in Ricerche logiche (1900-01), trad. a cura di G. Piana, il Saggiatore, Milano 2001, vol. I, p. 58.

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tico. E solo in quanto desideri, interessi, dolori e mancanza di conoscenze non fanno interamente pervenire a sé il piacevole come libero piacere e gioia dei sensi, può nascere l’esigenza di un’educazione del gusto. Il gusto educato è infatti capace di trovare la bellezza anche nel desiderio, nel pensiero e nella conoscenza, senza che essa ne sia nascosta o scacciata. Non c’è alcuna modalità di esperire i sentimenti nella quale, alle condizioni appropriate, non si possa fare esperienza del potere della bellezza. Se il piacevole e il buono vengono riflessi su adeguatezza e armonia, e precisamente nell’intera enorme tensione tra “concordia” e “conflitto”, invece di essere determinati unicamente in base alla funzione che svolgono nel desiderio, allora il bello si potrà rivelare anche in essi. Lo si è sempre saputo, ma lo si è anzitempo moralmente rigettato come “estetismo”, allorché si fu spinti a rinunciare alla distanza della riflessione in nome dell’engagement pratico. In questo caso si lascia che le cose che si ritengono belle siano usate come meri strumenti del desiderio, come mezzi per stimolare o commuovere, per rivestire o abbellire condizioni sgradevoli, ma anche come qualcosa di prestigioso o come modo per raggiungere la fama, come bene d’investimento o oggetto di speculazione, per una dimostrazione di forza o per l’adorazione di Dio o della natura. Tutte le cose belle possono essere adoperate per altri scopi. Ma questo può notoriamente portare a regole prive di contenuto su come andrebbero prodotte le cose belle. L’educazione del gusto può essere solo il modo per prepararsi all’evento della bellezza. Non c’è una tecnica per produrre la bellezza: si può soltanto acquisire la disposizione a riconoscerla, per non mancarla dove essa si rivela. Quello che il demone della bellezza ci segnala nel nostro smarrimento è l’andare in pezzi delle nostre abitudini, tanto potente quanto effimero e fugace. È l’altra faccia del platonismo. A un tale demone del bello si rapportano tanto le cose belle che possono essere usate, quanto il loro riflesso perdurante, che continuamente le richiama. Solo tali riflessi possono essere adoperati per educare il gusto al bello, oppure per adoperare le cose belle o abusarne in vista di altri arbitrari scopi. Si può tuttavia ben dire che esse, in un senso che non possiamo determinare, favoriscono 198


il ritorno del bello, l’irruzione del suo demone, se un tale favore si manifesta nelle visioni, nei suoni, nei profumi, nelle immagini, nelle parole o nelle azioni. Dove ciò accade, la bellezza permette di sperimentare la gioia dei sensi come godimento della stessa esistenza.

Traduzione dal tedesco di Matteo d’Alfonso e Rosa Marafiori

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Archivio Enzo Paci A oltre trent’anni dalla morte di Enzo Paci, con il moltiplicarsi degli studi e delle iniziative legate alla sua opera, l’Archivio chiede a chi ha scritto e scriva su Enzo Paci di voler gentilmente inviare copia del proprio lavoro all’Archivio stesso. Lo scopo evidente è quello di riunire e fare conoscere lavori e ricerche, e i loro autori, per favorire altri studi. Nello stesso ternpo si intende garantire la presenza di una collezione completa di scritti di e su Enzo Paci nel luogo che ne conserva manoscritti e biblioteca. L’invito si rivolge anche a chi abbia scritto una tesi di laurea o una dissertazione di dottorato su Enzo Paci e/o sul contesto culturale in cui si è mossa la sua attività. Al momento la collezione è parziale e sembra utile completarla. Si potrà in questo modo compilare anche un elenco degli studiosi interessati. Inoltre si è avviata l’acquisizione e la catalogazione dell’epistolario. Chiediamo pertanto a chi sia in possesso di lettere di Enzo Paci di collaborare, inviandoci fotocopia delle lettere; se ne ha tenuto copia e non ha nulla in contrario, sono benvenute anche fotocopie delle lettere del corrispondente. L’indirizzo al quale inviare il materiale è: Archivio Enzo Paci via Beato Angelico 5 20133 Milano Ringraziamo tutti anticipatamente e raccomandiamo di accludere al materiale anche il proprio recapito.




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NOV I

John Milton

Uccidere il tiranno Perché è un diritto, anzi un dovere, abbattere i tiranni

Peter Sloterdijk

Caratteri filosofici Da Platone a Foucault

Nicholas Carr

Internet ci rende stupidi?

Come la Rete sta cambiando il nostro cervello

Cesare de Seta

Il fascino dell’Italia nell’età moderna Dal Rinascimento al Grand Tour

Massimo Recalcati

Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna


345 gennaio marzo 2010

Inattualità di Pasolini MATERIALI Nota filologica su due inediti di Pier Paolo Pasolini [Piera Rizzolatti] Pier Paolo Pasolini Dialogo tra un maniscalco e la sera [1942] Pier Paolo Pasolini Dialogo tra una vecchia e l’alba [1945] Preludi drammaturgici [Angela Felice] Davide Zoletto Pasolini, l’Africa e due scene di insegnamento Raoul Kirchmayr Pasolini, gli stili della passione Michel Foucault I mattini grigi della tolleranza [1977] Pier Aldo Rovatti Che cos’è uno scritto corsaro? Damiano Cantone Pasolini e i segni Massimiliano Roveretto L’ingombrante fantasma. Le ragioni di Pasolini Massimiliano Nicoli L’innocenza del potere. Una riflessione su “Petrolio” Giacomo Marramao A partire da “Salò”: corpo, potere e tempo nell’opera di Pasolini Dario Giugliano Una storia infame: Pasolini e l’orizzonte temporale occidentale Alessandro Mariani La vocazione pedagogica di Pasolini INTERVENTI François Jullien L’esteriorità cinese, ovvero come fare lavorare gli scarti culturali per una intelligenza comune Marco Galati Garritto L’in-scrivibilità della scomparsa (di Georges Perec) Chiara Pastorini Corpo ed etica nel secondo Wittgenstein: una proposta teorica

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MATERIALI Martin Heidegger Rimbaud vivant [1972] 209 Luigi Azzariti-Fumaroli Nota a “Rimbaud vivant” di Martin Heidegger 212


346 aprile giugno 2010

Lo stato penale globale Alessandro Dal Lago Lo stato penale globale. Premessa

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Nota ai testi

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Loïc Wacquant La disciplina produttiva: fisionomia essenziale dello stato neoliberale John L. Campbell Stato penale e stato debitore: l’irripetibile esemplarità del neoliberalismo americano Frances Fox Piven Neoliberalismo e neofunzionalismo: la logica opaca del capitale Mariana Valverde La profondità è in superficie: per una tregua politico-metodologica Jamie Peck Il neoliberalismo zombie e lo stato ambidestro Bernard E. Harcourt La penalità neoliberale: una breve genealogia

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Massimo Gelardi Dominio dei corpi, stato penale e biologia della cittadinanza. Riflessioni sul dibattito

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INTERVENTI Ferdinando G. Menga Unitarietà del potere ed eccedenza della pluralità. Hannah Arendt 158 alla prova della decostruzione 185 Edoardo Greblo Vite senza contratto


347 luglio settembre 2010

Web 2.0. Un nuovo racconto e i suoi dispositivi Premessa PER UNA CRITICA DELL’IDEOLOGIA DEL WEB Carlo Formenti Il gran récit della rete Geert Lovink Tre tendenze del Web 2.0 Mathieu O’Neil L’autorità su Internet: per una teoria povera Stefano Rodotà Perché serve un Internet Bill of Rights Stefano Cristante McLuhan mistico della rete Nello Barile Network come neotot. La socialità in rete e gli avamposti di un nuovo fascismo emozionale DISPOSITIVO FACEBOOK Raoul Kirchmayr New media, dispositivi à double face Giovanni Scibilia Profilo di marca. Figure del brand tra il supermercato e Facebook Maria Maddalena Mapelli Facebook. Un dispositivo omologante e persuasivo Antonello Sciacchitano Un pensiero clique-à-porter Paulo Barone Sparizioni. I due punti della soggettività Massimiliano Nicoli Ultimo “post” a Parigi Pier Aldo Rovatti Esitare su Facebook

INTERVENTI Giacomo Marramao Hyperbolé. Politica, potere, potenza Raoul Silvestri La nozione di vita nella psiche postmoderna Gaetano Chiurazzi Mimesi ed emancipazione

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348 ottobre dicembre 2010

Georges Didi-Huberman Un’etica delle immagini Premessa PER UN’ETICA DELLE IMMAGINI Georges Didi-Huberman Rendere un’immagine Laura Odello Nota sulla politica delle sopravvivenze Raoul Kirchmayr Abitare il visibile Pietro Montani Apertura e differenza delle immagini Andrea Pinotti Pazienza del dissimile e sguardo pontefice Antonio Somaini Montaggio e anacronismo Ludger Schwarte Etica dello sguardo. Didi-Huberman e la visione tattica Emanuele Alloa Il pensiero fasmide RIPENSARE WARBURG Georges Didi-Huberman Epatica empatia. L’affinità degli incommensurabili in Aby Warburg Davide Stimilli Il pentimento di Warburg Sigrid Weigel La “dea in esilio” di Warburg Paulo Barone Un groviglio di serpenti vivi Bibliografia di Georges Didi-Huberman

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