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350 aprile giugno 2011

NUOVI FASCISMI? Pierangelo Di Vittorio, Alessandro Manna, Enrico Mastropierro, Andrea Russo Fascismi senza fascismo Alessandro Dal Lago Il problema non sarà un altro? Damiano Cantone, Massimiliano Roveretto Un’idea di realtà. Berlusconi come educatore Edoardo Greblo La democrazia identitaria Massimiliano Nicoli Il fascismo del manager Raoul Kirchmayr Autoimmunità, tardocapitalismo, tecno-fascismo Pier Aldo Rovatti Il fascismo nella nostra lingua ATLANTE OCCIDENTALE-ORIENTALE Premessa Paulo Barone Vishva darpana. East-West atlas. Note sull’immagine del Mondo / il resto Giangiorgio Pasqualotto Tra Oriente e Occidente Rana P.B. Singh Rovine e tradizioni nell’India contemporanea Michel Serres Una nuova cultura umana, generica e naturale Antonello Sciacchitano Quel che resta del mondo Raoul Kirchmayr Atlante del disastro

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rivista fondata da Enzo Paci nel 1951 direttore responsabile: Pier Aldo Rovatti redazione: Sergia Adamo, Paulo Barone, Graziella Berto, Deborah Borca (editing, deborahborca@libero.it), Silvana Borutti, Damiano Cantone, Mario Colucci, Alessandro Dal Lago, Rocco De Biasi, Giovanna Gallio, Edoardo Greblo, Raoul Kirchmayr, Giovanni Leghissa, Anna Maria Morazzoni (coordinamento, tel. 02 70102683), Ilaria Papandrea, Fabio Polidori, Rosella Prezzo, Pier Aldo Rovatti, Antonello Sciacchitano, Giovanni Scibilia, Davide Zoletto direzione: via Melzo 9, 20129 Milano collaborano tra gli altri ad “aut aut”: G. Agamben, H.-D. Bahr, R. Bodei, L. Boella, J. Butler, M. Cacciari, A. Cavarero, G. Dorfles, M. Ferraris, U. Galimberti, P. Gambazzi, S. Givone, A. Heller, F. Jullien, J.-L. Nancy, A. Prete, M. Serres, G.C. Spivak, G. Vattimo, M. Vegetti, P. Veyne, V. Vitiello, S. Žižek per proposte di pubblicazione: redazioneautaut@gmail.com Si fa presente che “aut aut” non pubblica recensioni e non accetta testi di ampiezza superiore a 40.000 battute (note e spazi compresi).

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Nuovi fascismi?

Il titolo, va da sé, si riferisce a letture possibili dell’anomalia italiana. Al plurale e con il punto interrogativo, senza sovrapposizione storica e con un accento (forse un po’ pasoliniano) sugli aspetti di novità che caratterizzano la società di oggi. La sezione, che avrà probabilmente un seguito, ha solo la pretesa di esplorare un orizzonte di discorsi critici. L’occasione ci è stata fornita dal gruppo barese di Action30, che ha sollecitato una discussione redazionale con il testo che pubblichiamo qui in apertura.


Fascismi senza fascismo PIERANGELO DI VITTORIO ALESSANDRO MANNA ENRICO MASTROPIERRO ANDREA RUSSO

i un “ritorno del fascismo” si era già parlato all’inizio degli anni novanta. Dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989, si era assistito all’emergere di violente pulsioni identitarie che avevano preso di volta in volta l’aspetto del nazionalismo, del razzismo e del fanatismo religioso. Nel decennio successivo, l’ondata sicuritaria scatenata dagli attentati dell’11 settembre ha ridato vigore a un’interrogazione sulle nuove forme di razzismo e fascismo da cui ha preso le mosse il collettivo Action30. Le domande che erano alla base del collettivo sono diventate più urgenti con il clima che è venuto a crearsi in Italia dopo l’insediamento del quarto governo Berlusconi.1 E sembra difficile contestare il fatto che la lunga catena di violenze – contro rom, stranieri, omosessuali – abbia trovato la propria giustificazione nei discorsi politici dei partiti al governo, e in leggi palesemente discriminatorie come il “Pacchetto sicurezza”, che ha introdotto il reato d’immigrazione clandestina.

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Gli autori di questo intervento fanno parte di Action30 e hanno pubblicato L’uniforme e l’anima. Indagine sul vecchio e nuovo fascismo (Letture di: Bataille, Littell e Theweleit, Jackson, Pasolini, Foucault, Deleuze e Guattari, Agamben, Eco, Ballard), Action30, Bari 2009 (d’ora in poi UA). Action30 è un collettivo di grafici, fotografi, disegnatori, video-maker, musicisti, studiosi, il cui obiettivo è percepire le “nuove” forme di razzismo e fascismo usando gli anni trenta del XX secolo come una lente d’ingrandimento. 1. Per una presentazione di L’uniforme e l’anima nel contesto storico-politico da cui muove il collettivo Action30, cfr. P. Di Vittorio, Penser le fascisme aujourd’hui. Reflets italiens, “Lignes”, 33, 2010, pp. 113-129.

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I termini del dibattito È opinione diffusa che vi sia oggi un problema che riguarda lo stato di diritto e la democrazia, non solo in Italia. Minore è invece il consenso circa l’opportunità di mettere questo problema sotto la rubrica del “fascismo”. Il dibattito comincia qui. È legittimo usare ancora il termine fascismo? E per quali ragioni si può decidere, nonostante tutto, di utilizzarlo? La prima risposta è che il fascismo “si sente”: è un’atmosfera nella quale ci si trova immersi e che si percepisce quasi fisicamente. Si potrebbe allora rovesciare la prospettiva, e domandarsi se in taluni casi, invece di affidarsi unicamente alla propria testa, non convenga ascoltare anche la propria pancia. Atteggiamento in apparenza semplicistico, se non fosse che tra le caratteristiche principali del fascismo c’è quella di presentarsi come una mobilitazione “estetica” nel senso forte, cioè “metafisico”, del termine.2 Il fascismo si sente perché è fatto per essere percepito, più precisamente perché è un’organizzazione concertata del “sentire” di massa. Basti pensare al mito della razza, dove la componente estetica è il punto di articolazione e di sintesi tra una serie di preoccupazioni di ordine scientifico, ideologico e politico. La seconda ragione per cui si può decidere di continuare a usare il termine fascismo, è che si presenta ormai come tabù, soprattutto per coloro che hanno interesse a governare infrangendo i vincoli su cui si fondano le democrazie liberali. Per governare al di sopra della legge e al di fuori delle regole, è meglio epurare la razionalità di governo da ogni residuo di ideologia fascista. Non solo perché il richiamo al fascismo storico si presenta come politicamente scorretto, e può quindi nuocere al consenso politico entrando in rotta di collisione con l’imperativo di governo (al quale si sono piegate anche le rappresentanze parlamentari più “estreme”, sia di destra che di sinistra). La ragione principale è un’altra: per rispondere a questo imperativo di governo, che tende a mettere tra parentesi i principî su cui si fondano le 2. Cfr. P. Di Vittorio, Georges Bataille. Documents 1929-1930: l’Informe contro l’Uniforme, in UA, pp. 27-52 (in particolare il paragrafo “Modernità e metafisica fascista”, pp. 40-47).

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democrazie liberali (e che quindi delinea quanto meno una “deriva” di tipo fascista), è preferibile essere pragmatici, ossia radicalizzare in senso gestionale l’arte di governo. Se si considera il fascismo come una particolare forma di “eccesso di governo”, che al tempo stesso presuppone e produce la catastrofe della democrazia, allora si possono pensare le attuali forme di ipergoverno come una versione “riformata” del fascismo storico.3 In una recente analisi del “sarkozismo”,4 fenomeno che si presta in parte al paragone con il “berlusconismo”, un articolo viene dedicato al tema del fascismo democratico. Scelta interessante dal punto di vista della discussione terminologica: da un lato, infatti, si parla apertamente di fascismo, mentre l’aggettivo democratico è messo tra parentesi;5 dall’altro, però, si dice che la vera “novità” del fascismo democratico contemporaneo consisterebbe in ciò che viene indicato dall’aggettivo piuttosto che dal sostantivo. “Poco importa che sia fascista, l’importante è che sia ‘democratico’...”6 A giudicare dai nuovi leader politici premiati nelle ultime elezioni in Olanda, Svezia e Austria,7 sembrerebbe che anche l’estrema destra europea abbia assimilato la lezione e si candidi ora, a sua volta, a governare “senza complessi”.8 Ragion per cui, se è doveroso spiegarsi sul perché si continuino a usare i termini fascismo e fascista, è forse non solo ugualmente doveroso, ma perfino urgente spiegarsi sul perché si continuino a usare i termini democrazia e democratico. Significativo inoltre che l’analisi critica di questi fenomeni assuma l’aspetto del lessico o dell’antologia; come se la loro “complessità”, lungi dal lasciarsi racchiudere in una visione unitaria e totalizzante, si prestasse meglio a essere trattata in maniera aper3. Cfr. quanto dice Michel Foucault sulla riforma del sistema penale, in Sorvegliare e punire (1975), Einaudi, Torino 1976, p. 89. 4. Dictionnaire critique du “sarkozysme”, numero monografico di “Lignes”, 33, 2010, pp. 9-101. 5. M. Belhaj Kacem, Fascisme (démocratique), ivi, pp. 38-41. 6. Ivi, p. 40. 7. Cfr. il dossier Les extrêmes droites à l’offensive, “Le Monde diplomatique”, gennaio 2011, pp. 19-22. 8. Cfr. C. Vollaire, Décomplexé, “Lignes”, 33, 2010, pp. 26-28; P. Prado, Décomplexer, ivi, pp. 29-32.

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ta e frammentaria. Cosa che potrebbe essere messa in conto all’incapacità postmoderna di pensare in grande – adagio alla moda – senza che questo riesca, però, a fugare del tutto il dubbio che la frammentarietà appartenga anche alla natura dei fenomeni trattati. Una delle caratteristiche più evidenti del berlusconismo e del sarkozismo non è forse quella di presentarsi come assemblaggi o zibaldoni in cui si può trovare tutto e il contrario di tutto? Legittimo allora domandarsi se tra le caratteristiche di queste nuove forme di “fascismo democratico” non vi sia anche quella di essere prive del collante ideologico capace di sintetizzare tutti gli elementi che le compongono; e se, paradossalmente, la loro efficacia non sia da mettere in rapporto anche con la possibilità di fare l’economia delle grandi narrazioni, rimpiazzandole con massicce dosi di pragmatismo (la qual cosa dovrebbe, quanto meno, far riflettere sull’idea che una vittoria della sinistra passi necessariamente attraverso la risurrezione del Grand Récit, mentre nel migliore dei casi verrebbe premiata la ripresa, da sinistra, del “populismo messianico” imperante). Avremmo dunque a che fare con un fascismo post-ideologico? Ossia, se si preferisce, con un fascismo post-moderno? A questo punto, però, si affaccia un’altra obiezione: visto che queste nuove forme di fascismo si presentano come una sorta di “fascismo senza fascismo”, non è forse il caso di rinunciare definitivamente al vecchio lessico? Obiezione più difficile da contestare, giacché la nostra ricerca, non solo l’ha fatta propria, ma ne è stata in qualche modo alimentata. Non a caso vi occupa un posto importante Michel Foucault, il quale, in pieni anni settanta, denunciava la “statofobia” e lottava contro l’abitudine a vedere il “fascismo dappertutto”: sintomo evidente di un modo “idealistico” di guardare il potere, identificato con la “sovranità” politica del Leviatano di Hobbes.9 Perché usare la parola fascismo, nonostante l’invito di Foucault? Al di là del fatto che il termine fascismo potrebbe servire 9. P. Di Vittorio, Michel Foucault. Oltre il fascismo: biopolitica, governamentalità, tecnologie del sé, in UA, pp. 131-147.

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oggi a forzare la corazza democratica nella quale gli eccessi di governo avanzano “blindati”, il suo uso è soprattutto funzionale al metodo che abbiamo deciso di adottare per “pensare” il presente. L’analitica foucaultiana del potere può essere vista come una sorta di epoché del modo abituale di considerare il potere, condotta attraverso una particolare forma di atteggiamento critico: la genealogia. Com’è noto, mettere tra parentesi non vuol dire dissolvere i concetti, che appartengono al comune modo di pensare, bensì neutralizzarne il valore di realtà rispondendo all’appello delle “cose stesse”. In tal senso, solo la conservazione della parola fascismo consente di lavorare nel suo spazio vuoto dando uno spessore genealogico alla critica del presente. Democrazia d’eccezione Senza pensare il fascismo come una sorta di “cattivo passato” che non passa, le vicende storiche degli anni venti e trenta del secolo scorso possono continuare a funzionare come un monito. Lo “stato di eccezione” è tornato a infiltrarsi nell’intera vita politica delle società occidentali. In tal senso, il problema potrebbe essere il ricorso sempre più frequente delle democrazie allo stato di eccezione come modalità di governo della società.10 Evidentemente non si tratta più solo di una sospensione temporanea del diritto, né di una restrizione delle libertà fondamentali di determinate categorie di individui, gruppi sociali o organizzazioni collocate ai margini delle società, quanto piuttosto dell’affermarsi di una nuova macchina governamentale per gestire la popolazione nel suo complesso.11 Quest’uso reiterato dello stato di eccezione come tecnologia normale di governo non è affatto rassicurante. Com’è noto, c’è stato di eccezione ogniqualvolta la sicurezza e l’ordine pubblico di un paese sono talmente minacciati da disordini e sedizioni interne da esigere l’approntamento di misure 10. Cfr. G. Agamben, Stato di eccezione, Bollati Boringhieri, Torino 2003. 11. Cfr. M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France 19771978 (2004), Feltrinelli, Milano 2005; Id., Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France 1978-1979 (2004), Feltrinelli, Milano 2005.

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straordinarie di governo, che implicano da una parte il ricorso massiccio alle forze armate, e dall’altra una sospensione dello stato di diritto. Nonostante un uso transitorio dello stato di eccezione sia teoricamente compatibile con le costituzioni democratiche, un suo esercizio sistematico non produce come risultato una democrazia più forte, ma una democrazia blindata, che fa da ponte per l’instaurazione di un regime totalitario. È quello che accadde negli ultimi anni della Repubblica di Weimar.12 Secondo il sociologo Jean-Claude Paye, le procedure derogatorie di sospensione del diritto sono la caratteristica precipua dello stato di eccezione.13 Questa nozione appare quanto mai opportuna, non solo per rendere conto di eventi storici come la sospensione da parte del regime nazista di tutti gli articoli di garanzia delle libertà individuali contenuti nella Costituzione di Weimar, ma anche per descrivere la situazione attuale, caratterizzata dalla moltiplicazione esponenziale dei dispositivi sicuritari: leggi antiterrorismo, detenzione preventiva, pacchetti sicurezza, campi di internamento, cui bisogna aggiungere le agenzie di sicurezza private, i sistemi di videosorveglianza e di schedatura biometrica ecc.14 Una delle ragioni per cui il fascismo non tramonta con il progresso dello stato di diritto, è che dalla seconda metà del XIX secolo fino ai nostri giorni, lo stato di eccezione ha continuato a funzionare ininterrottamente. In fondo, il fascismo storico è uno stato di eccezione totale, e non semplicemente una dittatura o uno stato autoritario. Il fascismo non sarebbe, dunque, un’aberrante creatio ex nihilo, né un accidente che si abbatte dall’esterno sulla società, ma una sorta di “peripezia” interna al funzionamento del diritto nelle democrazie parlamentari. La genealogia dello stato di eccezione tracciata da Giorgio Agamben rivela la parentela segreta tra democrazia e totalitarismo, disattivando il cliché storiografico tipicamente novecentesco di un’opposizione secca fra democrazia e totalitarismo. Il nuovo assetto sistemico manifestato12. Cfr. A. Russo, Un’altra Weimar è possibile?, in UA, pp. 17-26. 13. Cfr. J.-C. Paye, La fine dello Stato di diritto (2004), manifestolibri, Roma 2005. 14. Cfr. G. Agamben, Nudità, nottetempo, Roma 2009.

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si a partire dal secondo dopoguerra, e in cui siamo ancora immersi, è un’inquietante zona grigia nella quale fascismo, razzismo e democrazia si sono progressivamente trasfigurati, confusi e ibridati, creando un piano di consistenza comune che li ha resi “indiscernibili”.15 Ed è per questo che non è mai possibile “tirarsi fuori” dal problema del razzismo e del fascismo. Pasolini-renaissance A trentacinque anni dalla morte, Pier Paolo Pasolini torna prepotentemente d’attualità. Da qualche tempo, le sue analisi sull’Italia degli anni settanta alimentano una serie di riflessioni critiche sul presente. Si pensi all’ultimo libro di Georges Didi-Huberman, che prende le mosse dal celebre articolo delle “lucciole”: l’autore vi propone un’idea di “contropotere” che, ispirandosi a Benjamin e Warburg, vuole essere una risposta al “pessimismo politico” dell’ultimo Pasolini.16 Certamente la questione del pessimismo pasoliniano resta da discutere, e le poste in gioco teoriche del libro vanno ben oltre la semplice interpretazione dell’opera dell’intellettuale friulano. Ma quel che importa è che Didi-Huberman prende sul serio la tesi attorno alla quale ruota tutta la riflessione pasoliniana tra il 1973 e il 1975: nell’Italia del boom economico, un “nuovo fascismo” profondamente diverso da quello “vecchio” – fenomeno “archeologico”, pura paccottiglia per nostalgici destinata a scomparire – sta silenziosamente penetrando nel tessuto della società italiana. Lungi dal descriverci il mondo di Sade o la violenza al tempo dei repubblichini, i gironi danteschi di Salò o le 120 giornate di Sodoma ci parlano del “nostro” fascismo quotidiano, del “nostro” inferno. Difficile negare che i quattro gironi del film di Pasolini siano un teatro infernale. Difficile non riconoscere che alcuni dei passaggi più cruenti del film ricordano certe scene contemporanee 15. Cfr. A. Russo, Giorgio Agamben. Il fascismo che viene, o la democrazia a pugni chiusi, in UA, pp. 169-189. 16. G. Didi-Huberman, Come le lucciole. Una politica della sopravvivenza (2009), Bollati Boringhieri, Torino 2010. Si veda anche M. Belpoliti, Pasolini in salsa piccante, Guanda, Milano 2010, e il recente fascicolo di “aut aut” dedicato all’inattualità di Pasolini, 345, 2010.

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della violenza: scagli la prima pietra chi non ha pensato ai soldati-torturatori di Abu Ghraib rivedendo la sequenza in cui le vittime di Salò avanzano nude, carponi, al guinzaglio come cani, verso i quattro Signori. In che modo le idee di Pasolini possono aiutarci ad analizzare le nostre società democratiche? In che senso queste ultime sarebbero il nostro inferno? Che cosa c’è di “fascista” nelle nostre esistenze quotidiane? Tutto potrebbe far pensare che certi commentatori di Pasolini colgono nel segno quando degradano al rango di “enormità” le sue idee sul “nuovo fascismo”.17 Semplice provocazione? Puro uso retorico-politico di una categoria irrimediabilmente ideologizzata?18 Già un anno prima dell’esplosione, questa volta oltralpe, di un “caso rom” che avrebbe portato nell’estate 2010 alla cacciata dalla Francia di centinaia di individui considerati pericolosi e indesiderabili, DidiHuberman suggeriva un’inquietante analogia tra l’attualità italiana e gli anni trenta: mentre la luce flebile delle lucciole pasoliniane sembra essersi definitivamente spenta, i bagliori accecanti del fascismo illuminano a giorno la penisola, “Silvio Berlusconi continua a pavoneggiarsi sotto i riflettori, la Lega Nord si muove con efficacia e i rom vengono schedati, il che è un buon sistema per mandarli via”.19 Qui, ancora una volta, sospesi tra Italia e Francia è davvero difficile non pensare al fascismo, alle deportazioni di sessant’anni fa – e al nazifascismo hanno peraltro pensato i critici del ministro francese dell’Immigrazione Eric Besson, la cui politica delle “retate” (rafles) è stata messa sul banco degli imputati (e senza tanti sottintesi o rituali diplomatici) con l’accusa di reiterare nel presente ciò che accadde all’epoca dei totalitarismi. Ma il fatto che da qualche anno a questa parte l’analogia con il “fascismo” abbia cominciato a fare regolarmen-

17. È, per esempio, il punto di vista di E. Vial, Reconsidérer le poids de l’antifascisme dans l’Italie républicaine?, “Vingtième siècle”, 100, 2008, pp. 79-85, numero della rivista dedicato al tema Italie: la présence du passé. 18. Cfr. E. Galli Della Loggia, Formes et fonctions de l’antifascisme dans la vie politique italienne. Légitimité ou légitimation?, ivi, pp. 69-78. 19. G. Didi-Huberman, Come le lucciole, cit., p. 31.

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te irruzione nella scena pubblica, e che di “fascismo” si parli, e che questa parola produca delle controversie pubbliche strutturando l’esperienza della politica, è di per sé un invito a non sottovalutare gli usi sociali di una categoria che produce senso rileggendo il presente attraverso l’epoca dei regimi totalitari. Probabilmente proprio una certa pratica dell’analogia potrebbe autorizzarci a usare la parola fascismo per analizzare una serie di fatti sociali che, a differenza delle espulsioni dei rom o dell’avvento in politica delle personalità “forti”, sembrano apparentemente estranei al fascismo tradizionale. Ed è in fondo quel che cercò di fare Pasolini con le sue riflessioni sul “nuovo fascismo”.20 Si prenda ancora Salò: forse non tutti sanno che inizialmente Pasolini avrebbe voluto fare un film “su un industriale milanese” con l’obiettivo di mettere a nudo le mistificazioni della grande produzione alimentare, ma anche l’atteggiamento medio del “consumatore” che, pur essendo perfettamente cosciente di “mangiare merda”, continua a farlo senza problemi, e lo fa anzi in piena libertà.21 Che cosa spinge il regista a volgere lo sguardo verso la Repubblica sociale e immaginare le intollerabili scene di coprofagia del “Girone della merda”? Precisamente un ragionamento di tipo analogico: solo l’uso dell’analogia permette di comparare l’apparentemente incomparabile, ossia di ritrovare in due tempi storici differenti – due regimi di discorsi e di pratiche – una serie di funzioni sociali costanti. Da questo punto di vista, si può ben dire che il lavoro pasoliniano sul “nuovo fascismo” è nello stesso tempo genealogico e strutturalista: il fascismo è un insieme di funzioni sociali che si combinano in strutture differenti a seconda dei tempi storici; e l’analisi delle nuove forme di fascismo consiste nell’individuare e isolare tali funzioni, farne la genealogia, capire come si sono me-

20. Cfr. P.P. Pasolini, La prima vera rivoluzione di destra (1973), Studio sulla rivoluzione antropologica in Italia (1974), Il vero fascismo e quindi il vero antifascismo (1974), Fascista (1974), Bologna, città consumista e comunista (1975): tutti ripubblicati in Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori, Milano 1999. 21. Cfr. A. Manna, Pier Paolo Pasolini. Il re è altrove: dal fascismo archeologico al nuovo fascismo, in UA, pp. 99-129.

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tamorfosate nel corso della storia, per metterne a fuoco il funzionamento nel presente. Quali sono, dunque, le “funzioni fasciste” individuate da Pasolini? In primo luogo, una funzione di tipo pedagogico ed estetico. Il fascismo è una pedagogia del corpo che assolve a una funzione omologante: si tratta di un potere che “mette in forma”, che “uniforma”. Ma mentre il vecchio fascismo uniformava nel senso che annullava le differenze tra gli individui – si pensi solo alla grandeur delle parate naziste in Il trionfo della volontà di Leni Riefenstahl –, quello “nuovo” mira invece a produrre omologazione a partire dalla produzione di differenze: ciò che dagli anni settanta in poi si è cominciato a chiamare “consumismo” funziona secondo questa logica. Ma lungi dal limitarsi a metterci addosso delle uniformi, il fascismo assolve anche una funzione mitologica che mira a produrre realtà a partire da una serie di “modelli” originari. Se nel caso del vecchio fascismo si trattava di pochi e grandi miti “esclusivi” – l’Ariano, che esiste nella misura in cui annienta l’Ebreo –, nel caso di quello nuovo abbiamo a che fare, al contrario, con una serie di mitologie intercambiabili interamente funzionali alla produzione di omologazione; per essere tutti uguali essendo tutti diversi abbiamo bisogno di un’infinità di modelli – di comportamento, azione, abbigliamento, interpretazione della realtà ecc. – buoni per tutte le stagioni. Per dirla con Debord, quella del presente è una mitologia, non “concentrata”, ma “diffusa”, o addirittura “integrata”,22 disseminata, plurale. Qui emerge peraltro una differenza fondamentale tra il fascismo “vecchio” e quello “nuovo”: mentre il primo si occupava della salvaguardia dell’esistenza e dell’identità di pochi “eletti”, il secondo tende invece a garantire “edonisticamente” benessere e joie de vivre a tutti.23 Il nuovo fascismo è una vera e propria “politica della felicità”, o meglio – a voler seguire una ben nota pista foucaultiana –, una biopolitica, ossia una “scienza della fe22. Cfr. G. Debord, Commentari sulla società dello spettacolo (1988), SugarCo, Milano 1990. 23. Cfr. P.P. Pasolini, Il vero fascismo e quindi il vero antifascismo, cit.

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licità delle popolazioni” (proprio come la celebre Polizeiwissenschaft nel XVIII secolo) riadattata allo stile di vita delle democrazie contemporanee.24 Ma se il nuovo fascismo ci rende tutti felici – salvo qualche “trascurabile” minoranza che cerca di sopravvivere ai margini della società: rom, immigrati, pazienti psichiatrici, clochard ecc. –, in fondo, che problema c’è? Ebbene, l’ultimo Pasolini ci ricorda che la felicità ha un prezzo, giacché per produrre benessere il nuovo fascismo ci chiede in cambio l’“anima”, ossia un’adesione incondizionata all’ordine dominante.25 Ciò non vuol certo dire che il nuovo potere fascista pensa per noi dominandoci come marionette. Al contrario, esso lascia nelle nostre mani, o meglio alle nostre menti, il compito di scegliere ciò che è buono e giusto per la nostra felicità. In ogni ambito della vita sociale, in ogni tipo di organizzazione umana – si tratti di management, politiche dell’handicap o pratiche educative – esso moltiplica all’infinito la sua presa sulle nostre vite delegandoci il massimo di libertà, puntando sulle nostre capacità di giudizio e sulla nostra autonomia, responsabilizzandoci in prima persona attorno alle scelte fondamentali della nostra esistenza. Ed è probabilmente in questo senso che esso deve essere inteso come una vera e propria “psicopolitica”, come una “politica della soggettività”:26 ciascuno di noi costruisce la propria personale adesione al “nuovo ordine” fascista. È forse quel che voleva suggerirci Pasolini con il famigerato girone coprofago di Salò: la merda del nuovo potere fascista ci seduce, e siamo tutti disposti a mangiarne liberamente, e a convincerci nell’intimo che farlo è cosa buona e giusta. Un suggerimento dal valore quasi divinatorio, visto che più di trent’anni dopo, in Italia, i giochi di seduzione con il potere hanno assunto i contorni di una love story scatologica e grottesca. 24. Cfr. M. Foucault, “Omnes et singulatim” (1981), in Biopolitica e liberalismo, Medusa, Milano 2001, pp. 107-146. 25. Cfr. P.P. Pasolini, Acculturazione e acculturazione (1973) e Ampliamento del “bozzetto” sulla rivoluzione antropologica in Italia (1974), entrambi in Saggi sulla politica e sulla società, cit. 26. Cfr. P.A. Rovatti, Etica minima. Scritti quasi corsari sull’anomalia italiana, Raffaello Cortina, Milano 2010.

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Fascismo in polvere Una delle caratteristiche principali delle nuove forme di razzismo e fascismo è che, in esse, la componente “soggettiva” riveste un ruolo determinante. Non si tratta di affermare che la dimensione “etica” ha completamente assorbito quella politica, ma di sottolineare il fatto che, oggi, nessuna politica può evitare di fare i conti con i modi di condotta, gli stili di esistenza, le tecnologie del sé. L’interesse di Foucault per L’anti-Edipo si giustifica probabilmente a partire da questa precoce consapevolezza.27 Nella prefazione all’edizione americana, oltre a definirlo come “il primo libro di etica che sia stato scritto da molto tempo in Francia”, lo paragona a un manuale di esercizi spirituali: “Rendendo un modesto omaggio a san Francesco di Sales, si potrebbe dire che L’anti-Edipo è una Introduzione alla vita non fascista”.28 Per cogliere la portata delle nuove forme di fascismo è necessario raddoppiare la prospettiva “molare” (inerente alle grandi strutture come gli stati, i partiti, i sindacati) con una prospettiva “molecolare” (specifica, invece, della postura etica e della sfera esistenziale). Questa seconda prospettiva consente di situare la micropolitica a livello della produzione di soggettività.29 L’inconscio si rapporta senza mediazioni al piano sociale, politico ed economico, perché non esiste “il” potere come trascendenza infinita, ossia come qualcosa da cui ci separa una distanza incommensurabile. Il potere non è piramidale, ma segmentale e lineare; esso si propaga per contiguità, come le sirene di Ulisse, ed è su questa superficie d’immanenza che si sviluppano le relazioni di potere, la fitta trama dei giochi di “seduzione” con o contro di esso.30 Attraverso una completa riorganizzazione del pia27. G. Deleuze, F. Guattari, L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia (1972), Einaudi, Torino 1975. 28. M. Foucault, “Prefazione” (1977), in Archivio Foucault 2, 1971-1977. Poteri, saperi, strategie, Feltrinelli, Milano 1997, p. 243. 29. Cfr. F. Guattari, S. Rolnik, Micropolitiche (1986), in S. Bianchi, L. Caminiti (a cura di), Gli autonomi. Le storie, le lotte, le teorie, 3 voll., DeriveApprodi, Roma 2007, vol. II. 30. Cfr. G. Deleuze, F. Guattari, Kafka. Per una letteratura minore (1975), Feltrinelli, Milano 1975, p. 90.

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no percettivo, la fascinazione del potere irraggiungibile viene così sostituita dal mito, altrettanto suggestivo, di un potere facilmente accessibile, acquistabile, negoziabile. Il nemico principale dell’Anti-Edipo è il fascismo, non solo quello “storico di Hitler e Mussolini”, ma anche quello “che è in noi tutti, che abita il nostro spirito e la nostra condotta quotidiana”.31 Il fascismo è pericoloso per la sua potenza molecolare o micropolitica, perché è un movimento di massa che assomiglia, però, più a un corpo canceroso che a un organismo totalitario: è un particolato che penetra nelle relazioni sociali modellandole dall’interno. Esiste il “fascismo rurale e il fascismo di città o di quartiere, il neofascismo e il fascismo da vecchio combattente, il fascismo di sinistra e di destra, di coppia, di famiglia, di scuola o d’ufficio: ogni fascismo è definito da un microbuco nero, che vale per se stesso e comunica con gli altri, prima di risuonare in un gran buco nero centralizzato. Vi è fascismo quando una macchina da guerra viene installata in ogni buco, in ogni nicchia”.32 Tra i vari cambiamenti connessi con l’avvento della società del controllo vi sono quelli relativi allo sviluppo della produzione di beni e servizi “immateriali”, e all’affermazione di un modello etico basato sulla competizione tra individui e sul successo. Ma, soprattutto, la società del controllo si presenta come un sistema organizzato su piccole insicurezze che alimentano grandi paure. In tal senso, il nuovo fascismo si presenta come un patto mondiale per la sicurezza, per la gestione di una “pace” angosciante, attraverso l’organizzazione concertata di tutte le piccole paure, di tutte le piccole ansie che fanno di noi dei microfascisti, pronti a zittire qualsiasi comportamento “inadeguato”, qualsiasi impulso “eccessivo”.33 La soggettività è così plasmata in un regime essenzialmente precario, preda della stretta combinata di cinismo, in31. M. Foucault, “Prefazione”, cit., p. 242. 32. G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia (1980), Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1987, p. 309. 33. Cfr. G. Deleuze, “L’ebreo ricco” (1977), in Due regimi di folli e altri scritti (2003), Einaudi, Torino 2010, p. 106.

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fantilismo e banalizzazione. Il trionfo dell’etica della competizione individuale ha come contropartita, da un lato l’ossessione identitaria come ripiegamento esistenziale, dall’altro l’esperienza della paura come “connettivo” sociale.34 La società del controllo inventa e moltiplica i suoi vulnera, e li elegge a fronti di guerra interni: se ne aprono ovunque, e tutti sono chiamati a stanare il nemico, il casseur di turno della normalità. Se la “malattia” chiamata fascismo è “prima di tutto una modalità particolare di gestire ed estrinsecare (aggressivamente) la sofferenza e la paura”,35 nelle società neoliberali essa si manifesta in modo, forse meno brutale, ma sicuramente più sistematico e capillare: è qui, infatti, che “lo sfruttamento ha assunto il volto della paura”.36 Curare e governare L’indagine genealogica prende sempre le mosse dalle turbolenze che agitano il presente. Con i termini biopolitica e neoliberalismo è possibile circoscrivere il campo problematico nel quale siamo inscritti e con cui dobbiamo fare i conti. Articolandosi tra loro, questi due termini offrono le coordinate generali delle relazioni di potere e delle tecniche di soggettivazione nell’epoca attuale. Ciò che impedisce di cogliere quanto vi è di “nuovo” e di “diverso” nel presente, non è nient’altro che l’applicazione a esso degli schemi della teoria politica tradizionale. Spesso, infatti, la biopolitica e il neoliberalismo sono trattati come le ultime incarnazioni della sovranità politica. Il fantasma dello stato paranoico e divoratore continua ad aleggiare, e in generale c’è ancora una certa difficoltà a emanciparsi dalla tendenza a considerare il potere come una forza o un’entità essenzialmente negatrice, castratrice, repressiva. Cosa tanto più strana se si pensa che la biopolitica e il neoliberalismo contraddicono questa immagine “negativa” del potere. Il problema con cui oggi abbiamo 34. E. Mastropierro, Gilles Deleuze e Félix Guattari. Microfascismi, in UA, p. 163. 35. F. Berardi, Come si cura il nazi. Iperliberismo e ossessioni identitarie, ombre corte, Verona 2009, p. 18. 36. T. Negri, F. Guattari, Le verità nomadi. Per nuovi spazi di libertà, Pellicani, Roma 1989, p. 20.

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a che fare, la sua insidiosa novità, è che il razzismo e il fascismo si presentano essi stessi, direttamente, come fonti di socialità (la trasgressione e la violenza come modi di vivificare il legame sociale), di comunità (la comunità terapeutica come strategia generalizzata di management politico degli uomini), di umanità (l’uomo bio-economico come manager del proprio capitale umano), di eticità (la cura di sé come capacità di operare la raccolta differenziata della vita quotidiana, selezionando le buone e le cattive performance), di spiritualità (il “saperci fare con il potere” come espressione del lavoro di sé su di sé), di soggettività (il soggetto come prodotto di un’escalation calcolata della normalità, vale a dire di una “super-normalità”).37 Il mondo più familiare appare avvolto da riflessi inquietanti. Saranno queste le “cose stesse” verso le quali il termine fascismo fa segno con la sua vuota presenza? È questa la “fenomenologia” delle nuove forme di razzismo e fascismo? C’è, in ogni caso, un punto in cui l’analogia tra vecchio e nuovo fascismo – in quanto tensione tra ripetizione e novità, identità e differenza – raggiunge un certo grado d’incandescenza: è l’analisi della comunità terapeutica come razionalità di governo degli uomini. Più precisamente, se la genealogia è una storia del presente, la genealogia della comunità terapeutica offre utili strumenti per pensare il fascismo in quanto problema dell’attualità. Spesso si dimentica che è stato Franco Basaglia il primo a sperimentare una comunità terapeutica in Italia, a partire dal 1961, nell’ospedale psichiatrico di Gorizia. Ma si dimentica soprattutto che Basaglia non si è limitato a combattere genericamente il manicomio, bensì ha rifiutato la possibilità di riformare il manicomio secondo la logica della comunità terapeutica. Se non avesse operato questo rifiuto, il manicomio avrebbe continuato a esistere in Italia, magari in forma diversa, come è successo in altri paesi. Uno strappo netto, tanto più violento e lacerante essen37. Cfr. P. Di Vittorio, James G. Ballard. This is Tomorrow: biofascismo e follia d’elezione, in UA, pp. 213-288.

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dosi prodotto “dall’interno” del processo di riforma, e che ha impresso una biforcazione decisiva alla modernizzazione del sistema psichiatrico in Italia. Perché questo rifiuto, questa rottura radicale nei confronti della comunità terapeutica, che era pur sempre il modo con cui si stava provando a rendere l’organizzazione ospedaliera più liberale e democratica? Perché Basaglia si rese conto che lo spirito della riforma comunitaria, lungi dall’aprire un dibattito su come erano considerati e trattati i malati di mente nelle nostre società, rispondeva essenzialmente all’esigenza di migliorare – di rendere più razionale ed efficace – la loro “gestione”: “Durante la guerra le esperienze di alcuni campi di concentramento per i prigionieri avevano dimostrato che, se agli internati si dava un obiettivo di vita, i campi potevano essere gestiti tranquillamente, senza problemi di rivolta né necessità di oppressione”.38 Da qui presero le mosse le prime esperienze di comunità terapeutica, a opera di alcuni psichiatri militari anglosassoni – Bion, Rickman, Main, Jones –, che nel dopoguerra diventeranno i principali rappresentanti della psichiatria sociale. Ma, soprattutto, a partire da queste esperienze si manifestò il potenziale propriamente “politico” della comunità terapeutica, che finirà per imporsi come una possibilità più generale di gestione biopolitica degli uomini (allo stesso modo in cui il panopticon si era diffuso come possibilità di gestione disciplinare).39 Non solo l’obiettivo della gestione si può ottenere in modo diverso, ma a questo scopo la “manipolazione” (delle coscienze) funziona meglio della disciplina e della repressione (dei corpi). La vera posta in gioco della gestione risiede, dunque, nella capacità (manageriale) di raccogliere le persone intorno a “una finalità comune”, affinché l’istituzione non funzioni più su regole imposte dall’alto, bensì su “principî condivisi”, e ogni membro della co38. F. Basaglia, Conferenze brasiliane, Raffaello Cortina, Milano 20002, p. 106 (corsivo nostro). 39. Cfr. P. Di Vittorio, L’anima oltre le sbarre. La biopolitica dalla segregazione alla comunità terapeutica, in C. Tarantino (a cura di), Gino Covili. Gli esclusi 1973-1977, con interventi di R. Castel, L. Wacquant et al., Quodlibet, Macerata 2007.

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munità possa partecipare alla sua “gestione”.40 Fondamentale, a questo punto, investire sull’anima degli individui, affinché essi interiorizzino le finalità dell’organizzazione come se fossero le proprie, senza più la possibilità di distinguere le une dalle altre. L’altra faccia dell’autonomia potrebbe essere un iperbolico “eccesso” di governo. L’efficacia del management comunitario si misura essenzialmente sulla sua capacità di ridurre la “conflittualità”, facendo della decisione sovrana un caso limite dell’arte di governo, e rendendo tendenzialmente “invisibile” l’autorità da cui tale decisione dovrebbe procedere.41 La grande scoperta è che gli uomini possono essere governati di più e meglio in un contesto di tipo liberale e democratico: come nel film Il ponte sul fiume Kwai,42 che secondo Basaglia mostrava la logica profonda della comunità terapeutica, il management autonomo dei prigionieri inglesi riesce lì dove la direzione giapponese del campo, con il suo ottuso e violento autoritarismo, aveva invece miseramente fallito. La “morale” di questo film, soprendente ancora oggi, è che se le democrazie liberali hanno prevalso sul nazifascismo, non è solo a causa della forza bruta delle armi, ma a causa di un’arma incommensurabilmente più sottile, efficace e potente: l’arte di condurre gli uomini. Un’arma sublime, dal momento che si manifesta anche, e al tempo stesso, come l’arte di “guarire” gli uomini. La comunità terapeutica segna l’esodo definitivo della funzione politico-taumaturgica dall’orbita della monarchia assoluta a quella della democrazia liberale.43 La democrazia in gioco La comunità terapeutica si presenta come una “riforma” della razionalità di governo liberale. E, forse, il problema con cui oggi ci troviamo a fare i conti – quello di un fascismo “al di là” del 40. Ivi, pp. 106-107. 41. Maxwell Jones proponeva, a questo proposito, la teoria dell’autorità latente. 42. Il ponte sul fiume Kwai, regia di D. Lean, Gran Bretagna/Usa, 1957. 43. Cfr. M. Bloch, I re taumaturghi. Studi sul carattere sovrannaturale attribuito alla potenza dei re particolarmente in Francia e in Inghilterra (1924), Einaudi, Torino 1973, 19892.

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fascismo – può essere effettivamente ricondotto all’affermarsi di una razionalità gestionale o manageriale, a tutti i livelli e in tutti gli ambiti. Nelle attuali società liberali e democratiche, l’ipergoverno potrebbe rispondere, in modo non ideologico ma del tutto pragmatico, al dovere di gestire tutto, costi quel che costi, derogando se necessario alle regole della democrazia e alle garanzie della legge. Per gli “executive” di oggi, siano essi politici come Berlusconi e Sarkozy o manager come Bertolaso e Marchionne, l’essere décomplexé (senza complessi, senza scrupoli, senza pudore, senza inibizioni, senza limiti)44 costituisce un elemento tutt’altro che accessorio. Il fatto di non porsi troppi problemi di principio – si tratti dei diritti degli immigrati o di quelli dei lavoratori o del funzionamento delle istituzioni – costituisce, al contrario, una condizione esistenziale, quasi ontologica. Ma non si capisce fino in fondo questa condizione se non si comprende che è in nome di un imperativo gestionale che i nuovi Eichmann trasgrediscono il diritto e violentano la democrazia. La possibilità di governare “senza” tener conto di principî, regole e ideali su cui si fondano le democrazie liberali, delinea una democrazia fascistoide che è solo la faccia speculare del fascismo “senza” fascismo. Quando parliamo di nuovo fascismo ci riferiamo, in conclusione, a una democrazia che può sospendere se stessa e funzionare come una sorta di fascismo, senza però dover fondare tale sopensione su un’ideologia di tipo fascista. Perciò è importante rendersi conto che è in atto una battaglia, tanto silenziosa quanto decisiva, tra questa interpretazione “manageriale” della democrazia e quella che considera, invece, la democrazia come lo spazio aperto all’irruzione di una domanda radicale su come e a quale prezzo siamo governati. Sempre che non si pensi di “secedere” da una democrazia “reale” che nulla sembra ormai distinguere da un fascismo di fatto. Anche questo dibattito resta aperto.

44. Cfr. C. Vollaire, Décomplexé, cit.; P. Prado, Décomplexer, cit.

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Il problema non sarà un altro? ALESSANDRO DAL LAGO

Non mostrarti mai troppo esperto di pratiche viziose, e non raccontare i vizi altrui con troppo vituperio o troppo zelo, o si penserà che ci caschi anche tu. Cardinal Mazzarino, Breviario dei politici

o diverse difficoltà con espressioni come “ritorno del fascismo” o l’equazione “berlusconismo uguale fascismo”.1 Per cominciare, c’è un ovvio problema di proporzioni. Il bonapartismo di Napoleone III “il piccolo”, come lo chiamò Victor Hugo, non era esattamente quello del terribile zio. Anche senza ricordare la battuta di Marx sulle tragedie che ritornano in forma di farsa, è abbastanza evidente, per esempio, che Berlusconi ha ben poco in comune, in senso stretto, con Mussolini, salvo l’origine padana e la tronfia verbosità. E ciò vale a maggior ragione per Sarkozy, che non è certamente Pétain (e figuriamoci De Gaulle...). Insomma, in questo campo bisognerebbe non farsi condizionare troppo dalle somiglianze superficiali, dall’avversione per i personaggi e nemmeno, come nel caso dell’Italia, da un senso quasi inarrestabile di depressione. Ma cerco di procedere con ordine. Una prima definizione applicabile ai fascismi del XX secolo è il Führerprinzip, ovvero la supremazia di un leader (Führer, duce, caudillo, conduca˘tor) sulla Costituzione, mediante un partito che si fa stato (Germania, Spagna), oppure che convive formalmente con un potere di facciata (in Italia, la monarchia fino alla Repub-

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1. Cfr. P. Di Vittorio, A. Manna, E. Mastropierro, A. Russo, L’uniforme e l’anima. Indagine sul vecchio e nuovo fascismo, Action30, Bari 2009. Si veda anche, per una versione più polemica e popolare di tali dibattiti, “MicroMega”, 1, 2011, numero speciale su Berlusconismo e fascismo (1).

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aut aut, 350, 2011, 22-30


blica di Salò). Da tale supremazia discende l’aspetto più ripugnante e grottesco del fascismo, ovvero la pretesa di obbedienza assoluta al Duce-Führer sostenuta dalle armi ed espressa in miti e apparati simbolici. Ovviamente, non troviamo nulla del genere nelle democrazie occidentali contemporanee e nemmeno in gran parte degli stati autoritari, come quelli della riva sud del Mediterraneo che – mentre scrivo – sono travolti o scossi da straordinari movimenti popolari. In questo secondo caso, i leader sono piuttosto autocrati petroliferi o finanziati dall’estero (cioè dalle democrazie liberali occidentali), presidenti a vita, di rinnovo in rinnovo, che si appoggiano all’esercito, il quale a un certo punto può abbandonarli e così via. In giro per il mondo il Führerprinzip trova oggi ben poche applicazioni dottrinali (anche se pullulano ovviamente dittatorelli di ogni tipo). E nulla del genere troviamo nell’Italia berlusconiana. Il Cavaliere cerca di aggirare le leggi vigenti o di inventarne continuamente a sua protezione, ingaggia da sempre una guerriglia contro le procure e magari sarà condannato per aver violato la legge nella sua vita privata, ma non è (o non è ancora) formalmente al di sopra della legge (ci prova, ma è dubbio che ci riesca). Tant’è che i nostri custodi della Costituzione, i presidenti della Repubblica, alla fine firmano le leggi volute dalle maggioranze berlusconiane (anche se obtorto collo, con osservazioni e distinguo, rinvii alle camere ecc.). Questo non significa che non siano evidenti tra i seguaci di Berlusconi tendenze autoritarie o dispotiche e persino un risibile culto del capo nelle sue diverse epifanie (dall’imprenditore di successo all’insostituibile leader della destra, dall’uomo della provvidenza al gallo nel pollaio e al munifico Papi). Ma si tratta di consenso volontario e non di coercizione. Nessuno può obbligarci a essere berlusconiani. Si è mai visto un dittatore che interviene in diretta in una trasmissione televisiva e viene mandato a quel paese dal conduttore? Per farla breve, il berlusconismo, qualunque cosa sia, rimane per il momento compatibile con lo stato cosiddetto liberale, ovvero con un sistema legale-razionale (avrebbe detto Max Weber), e c’è proprio da dubitare – vista l’età del Cavaliere e date anche le caratteristiche del suo partito – che 23


l’attuale (e orrida) cultura politica di maggioranza relativa in Italia evolva verso forme neocarismatiche o golliste. Ma esisterebbe in Italia, obiettano alcuni, una specie di fascismo culturale, espresso dal dominio incontrastato di un certo linguaggio, di stili di vita riprovevoli, insieme libertini e sessisti, di modelli cognitivi e comunicativi orientati quasi esclusivamente dai media ecc. Tuttavia, anche su questo punto si rischia di scambiare una certa dimensione antropologica con un progetto politicoculturale. Lo stile di vita tipo Videocracy o “folli notti di Arcore” corrisponde a una dimensione abbastanza diffusa (forse in Italia più che altrove) che il Berlusconi imprenditore ha saputo sfruttare con le sue televisioni fin dagli anni ottanta e ha rilanciato con successo in politica, ma che non ha inventato e che comunque non è sua esclusiva. La differenza è che in Italia questa pornocrazia ha cominciato a interagire con la sfera pubblica. Mentre altrove si esige dai politici un’apparente irreprensibilità, da noi di fatto ciò non avviene (e questo vale anche per l’altro grande tema specificamente italiano, la auri sacra fames di politici, amministratori ecc.). In Italia, diremmo noi sociologi, mancano da sempre quelle etiche di gruppo (o se vogliamo di élite) che altrove condannano all’ignominia o alla sparizione dalla scena pubblica un deputato sorpreso a infastidire una segretaria o a falsificare un rimborso spese.2 È un tema importante in Italia (probabilmente collegabile con il “familismo amorale”), che però non ha granché a che fare con il fascismo, persino in un’accezione metaforica o traslata. Ritengo anche che le mobilitazioni attuali contro l’amoralità dei comportamenti privati di Berlusconi e la corruzione politica (denaro e seggi contro favori per così dire corporali ecc.), per quanto comprensibili e persino condivisibili (da parte mia con forti riserve),3 siano destinate allo scacco perché sostanzialmente impo2. Con “etiche” intendo norme non scritte, ma in qualche modo vincolanti, che disciplinano il comportamento privato e personale di politici, amministratori ecc. Sarebbe lungo indagare le ragioni storiche della mancanza di tali codici informali in Italia, ma quel che è certo è che anche in questo campo Berlusconi non ha inventato nulla di nuovo. 3. La mia riserva principale è che il quadro di riferimento che si oppone al berlusconismo finisce per riproporre una cultura bipartisan di tipo nazionale (Dio, patria e famiglia) molto perbenista. Si veda a questo proposito la presa di posizione critica di Maria Nadotti su un cer-

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litiche, cioè incapaci di contrastare il consenso politico di cui il berlusconismo gode in parlamento e nella società. Se la maggioranza parlamentare vota compatta a favore di Berlusconi e, stando ai sondaggi, una maggioranza relativa o comunque rilevante dell’opinione pubblica non lo condanna, questo è il vero problema. Berlusconi mobilita e continua a mobilitare più consenso delle opposizioni perché evidentemente è capace di soddisfare (simbolicamente o materialmente, o tutt’e due) i suoi seguaci.4 E allora le mobilitazioni morali lasciano il tempo che trovano. Mettiamoci nei panni dei suoi elettori-tipo. Che a insorgere contro l’immoralità del cavaliere siano scrittori di successo, conduttori televisivi e altri self-appointed esponenti della società mediale o intellettuale non deve avere un grande impatto su un elettorato di destra largamente trasversale e popolare. Non credo che le mie siano considerazioni ciniche, ma semplicemente realistiche. In politica avere o credere di aver ragione non basta, bisogna convincere e vincere. Ancora su questo punto. Io credo che una delle ragioni principali del consenso ancora vasto di cui gode Berlusconi sia stata, negli ultimi due decenni, anche la sua capacità di offrire uno sbocco, politico, professionale, mediale ecc. a tipi sociali marginali fino al suo avvento sulla scena pubblica, oppure apparentemente condannati alla sparizione dopo Tangentopoli. I professori o intellettuali della prima stagione berlusconiana (modello Colletti o Urbani, per intendersi) sono stati rapidamente rimpiazzati, tra i parlamentari o i quadri di partito, dalle seconde o terze file della vecchia Dc e del Psi (nonché del vecchio Pci) e soprattutto da homines novi delle professioni e della piccola impresa, gente di spettacolo (ci vuole del genio a mandare Iva Zanicchi al Parlamento europeo!), aspiranti stelline televisive, soubrette e così via. Con ciò Berlusconi si è sempre rivolto a una parte del paese che esiste to spirito di “crociata” (parole sue) che anima le mobilitazioni contro Berlusconi. Cfr. M. Nadotti, Le contraddizioni e il no alla crociata, “Corriere della Sera”, 7 febbraio 2011. 4. Spiegare questa identificazione nel capo in termini psicanalitici (vacuo priapismo, fallocrazia dominante ecc.) dà luogo a esercizi diagnostici che però non hanno alcun rilievo politico. Si tratta forse di psicanalizzare i milioni che adorano Silvio? Ma si veda M. Recalcati, L’osceno godimento del tiranno, “il manifesto”, 10 febbraio 2011.

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e fino a lui non era né visibile, né più rappresentata. E che, piaccia o no, lui è stato capace di portare alla ribalta, se non altro nell’immaginario. Non c’è da meravigliarsi se questa Italia – che lo snobismo dell’opposizione spesso qualifica come ventre molle del paese – non lo abbandoni nemmeno oggi che la sua immagine è così compromessa. Per contro, gran parte dell’opposizione (e soprattutto il Pd) rivela un’incapacità quasi imbarazzante di liberarsi di un ceto politico eternamente perdente, supponente, abbarbicato alla carriera politica da almeno trent’anni e privo di qualsiasi appeal per quello che si suppone il proprio elettorato di riferimento, il quale, lentamente ma fatalmente, gli ritira il proprio consenso elettorale, non va più a votare oppure vota, ohibò, per disperazione o altro, proprio l’aborrita destra. D’altra parte, i nuovi quadri che periodicamente “emergono” nell’opposizione (non farò nomi per carità di patria) sono persino più irritanti dei vecchi, con quell’aria volta per volta da studentelli perbene o professorini con l’indice alzato, convinti, chissà perché, di rappresentare il meglio della società. Ma la verità è che, diversamente dalla destra, la “sinistra” ha perso da tempo i contatti con quella che dovrebbe essere la propria base sociale. Non rappresenta più il lavoro fisso (tranne che nel pubblico impiego), ma nemmeno il precariato, è moderatissima nelle questioni che contano (lavoro, scuola, università), e condivide in tutto e per tutto le ossessioni della destra in tema di sicurezza, immigrazione e decoro urbano. Se dunque consideriamo con un minimo di freddezza il rapporto dei due schieramenti con il proprio elettorato, sembra chiaro che Berlusconi ha sempre qualcosa da offrire al proprio, mentre gran parte dell’opposizione no. E qui si può già intravedere una conseguenza di lungo periodo. Se e quando Berlusconi uscirà di scena, se non altro per motivi anagrafici, il suo blocco politicosociale resterà comunque (si tratterà di trovare un nuovo leader...), mentre ho l’impressione che l’attuale opposizione, al di là di un’evidente problema di leadership, continuerà a essere frammentaria, contraddittoria ed eterogenea. Se mai il Nemico verrà a mancare, che cosa terrà insieme i falsi amici di oggi? 26


E ora, una considerazione laterale. L’impossibilità di parlare strictu sensu di fascismo fa sì che chi si oppone alla “deriva berlusconiana” insista sul tema della “legalità”, come se questa, da sola, fosse l’argine contro il personalismo debordante di Berlusconi, il particolarismo, la corruzione, la pornocrazia ecc. Ma Weber, che ho richiamato sopra, definiva un sistema legale-razionale come un insieme di regole elaborate in vista di certi obiettivi e conseguenze – e quindi di convenzioni soggette, come qualsiasi altra, a influenze storiche, politiche o culturali, e non di norme moralmente cogenti perché assolute. Mi sembra che nell’appello alla legalità in chiave antiberlusconiana risuoni qualcosa che il vecchio Simmel imputava a Kant, ovvero il fanatismo morale. Ma, al di là di questo, si tratta di una pretesa ingenua, perché il suo fondamento è l’obbedienza indiscussa, e magari interiorizzata come imperativo categorico, alla legge. Con ciò, a fini di contestazione di un certo potere, si rinuncia alla critica della legge e anche alla disobbedienza civile. E se una legge è iniqua e non ci piace, dovremo obbedire comunque? E se non obbediamo – per esempio contestando, che so, le eventuali norme votate dal parlamento a protezione di Berlusconi – come possiamo appellarci alla legalità? In quello che io chiamerei il “travaglismo” (da un noto fustigatore televisivo dei costumi) si manifesta un legalitarismo autocontraddittorio.5 E delude che la cosiddetta sinistra, ossessionata da Berlusconi, o forse dalla propria incapacità politica di batterlo politicamente, si rifugi in un culto della legge che non solo cancella una gloriosa tradizione di disobbedienza civile, e quindi di illegalità (da Gandhi ad Aldo Capitini), ma ignora quello spirito di cambiamento che da sempre spinge le folle, quando non ne possono più, a scendere in piazza e a erigere barricate contro il potere dominante e i suoi scherani. Ma chi può immaginarsi Eco, Saviano, Travaglio, Santoro ecc. a guidare le folle in una simile impresa? Ed ecco, in poche parole, la debolezza intrinseca di qualsiasi mobilitazione legalitaria. 5. Si veda per esempio M. Travaglio, Delle leggi vergogna, il catalogo è questo, “MicroMega”, 1, 2011, pp. 55-86, disamina delle leggi “illegali” votate dal centrodestra e dal centrosinistra.

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Mi si potrebbe obiettare che in realtà non è tanto la lettera della legge a essere invocata contro Berlusconi, quanto una “legalità” o moralità più profonda, sostanziale, “autoevidente”. Io mi limito a rilevare che questo moralismo ha dato vita a un bizzarro girotondo o gioco delle parti, in cui i principi rispettivi ruotano e si capovolgono. Mentre la destra invoca il garantismo e la libertà degli individui – non c’è bisogno di dirlo, strumentalmente, e con lo sguardo rivolto solo alle garanzie dei potenti –, la sinistra, in modo del tutto speculare, innalza la bandiera delle procure, esige la certezza della pena e tende a mettere nello stesso sacco infrazioni dei potenti e dei deboli. Dura lex, sed lex. In realtà, prima di questa temperie legalitaria, la cultura di sinistra disponeva di una sua complessa moralità, secondo cui si doveva combattere il capitalismo più che il singolo capitalista, il lenocinio più che il lenone, lo spaccio più che lo spacciatore e così via – una moralità che attingeva sia al cristianesimo non clericale (“scagli la prima pietra chi è senza peccato”), sia alla tradizione illuministica e perfino al garantismo liberale (“è meglio un colpevole a piede libero che un innocente in galera”), e che comunque mirava agli effetti finali, la diminuzione del danno, e non al ritualismo della punizione, con quanto di culto dello stato trionfante vi è connesso – a partire dalla soddisfazione di chi si ritiene nel giusto.6 Tanto per essere chiari, mi schiero dalla parte di chi vorrebbe mandare il Cavaliere in pensione una volta per tutte, e vedere la sua cultura politica sconfitta. Ma non provo alcun interesse, né eventuale soddisfazione, per una sua condanna penale. E tanto meno per la condanna di una ragazzina che ha mentito sulle sue generalità, magari per evitare l’affido in comunità o l’espulsione nel paese natale. Ritengo la legge penale l’inevitabile necessità di una società complessa, non il ricettacolo delle nostre pulsioni o frustrazioni. E non parliamo del carcere. Anche perché, se la crisi della Prima repubblica ci ha regalato Berlusconi, l’agonia della sinistra nella Seconda ci ha consegnato 6. Penso per esempio al tono self-righteous con cui esponenti della società antiberlusconiana qualificano come “prostitute” le fanciulle coinvolte nelle notti di Arcore.

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come leader politico-morali Torquemada piccoli piccoli, anchormen populisti, grilli parlanti giustizialisti, specialisti dell’indignazione, vessilliferi letterari dell’anticamorra o dell’antimafia, tutta gente che non ha niente da dire (e tanto meno si è mai appellata alle piazze se non strumentalmente) sulle questioni che da sempre sono oggetto di reale e materiale contesa politica: la distribuzione del reddito, l’equità sociale, le libertà civili, la cittadinanza, il futuro della scuola e della ricerca. E chi li ha mai visti, questi, appellarsi al popolo contro la schedatura dei rom, le ignobili condizioni delle nostre carceri, la riduzione dei diritti sindacali, il fatto che i nostri salari, pubblici e privati, sono tra i più bassi d’Europa, le morti accidentali nei commissariati, la partecipazione alla guerra più lunga degli ultimi anni e così via? Cito alla rinfusa issues su cui in realtà c’è un grande e implicito accordo, parlamentare e non, perché non se ne parli o se ne parli solo come necessità, fatalità della competizione, prezzi da pagare all’Europa o alla nostra collocazione nel mondo sviluppato e simili paludosi luoghi comuni della Realpolitik. Ma il “fascismo”, mi si dice, è un modo di affrontare quanto di fatalmente deviato emerge da quel sistema di convenzioni e finzioni, vincoli giuridici e procedure che chiamiamo democrazie. Questo è ragionevole. Dalla democrazia giacobina scaturì quel genio massacratore di Napoleone, così come dalla Terza repubblica francese spuntò De Gaulle ecc. Fatte le debite proporzioni, in un sistema politico zoppo come quello italiano si è infilato questo imprenditore oscuro, populista e iperattivo, che ci ha costretto a occuparci di lui, delle sue ossessioni ideologiche ed erotiche, dei suoi svaghi e delle sue freddure. Ma una volta messe tra parentesi le sue “pratiche viziose”, come le chiamava il cardinal Mazzarino, siamo proprio sicuri che il cavalier Silvio B. sia proprio un’eccezione? O non piuttosto la quintessenza o, se vogliamo, il tipo ideale di una parte cospicua e storicamente irriducibile dei nostri concittadini? Se guardo al “nuovo centro” – con cui una parte consistente dell’opposizione moderata di sinistra vorrebbe creare una specie di patto costituzionale – vedo gente che ha governato con 29


Berlusconi quando le sue allegre nottate non erano ancora sulla bocca di tutti. Giovani democristiani di lungo corso, ex fascisti convertiti a un neogollismo di maniera e tutto il classico erbario di traslocatori di gruppi parlamentari. Non sarebbe allora meglio declinare la questione del “fascismo” italiano nei termini di questa gommosità della nostra democrazia tanto giovane e così irrimediabilmente vecchia e paludosa? Io credo che alla fine Berlusconi uscirà in qualche modo di scena, ma che il teatro politico italiano sarà sempre lo stesso di prima. E che quindi sarebbe il caso di occuparsi delle sue fondamenta, a partire da tutto ciò che riguarda la giustizia sociale e le libertà individuali. Il che ci riporta proprio non solo alle grandi questioni globali, ma anche, esattamente, agli straordinari sommovimenti che stanno avvenendo al di sotto del vecchio stivale, al di là di quel mare che nel nostro provincialismo un po’ reazionario consideriamo nostro. Francamente, quello che sta succedendo laggiù mi sembra incomparabilmente più interessante delle notti boccaccesche del nostro attuale presidente del Consiglio.

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Un’idea di realtà. Berlusconi come educatore DAMIANO CANTONE MASSIMILIANO ROVERETTO

anto nel testo del collettivo Action30 contenuto in questo stesso numero di “aut aut”, quanto nella pubblicazione che ne costituisce il presupposto,1 si trova avanzata una duplice ipotesi: da una parte, che la fase storica che stiamo vivendo rappresenti una sorta di riedizione di quanto avvenuto tra gli anni venti e trenta del secolo scorso; dall’altra, che, oggi come allora, l’Italia si trovi, “nel processo di sgretolamento della democrazia, [...] all’avanguardia”.2 Anche dando per scontato un certo consenso circa l’esistenza, in Italia e altrove, di un “problema” concernente la salvaguardia dello stato di diritto e delle libertà democratiche fondamentali, l’opportunità di inscriverlo sotto il titolo “fascismo” – come peraltro riconosciuto dagli stessi membri del collettivo – è oggetto di un vivace dibattito. Tanto più se teniamo presente come l’esigenza di confrontarsi con lo spettro del fascismo, pur essendo sorta sotto la spinta della “possente ondata sicuritaria successiva agli attentati dell’11 settembre”, sarebbe per essi divenuta tanto più “urgente” e “acuta” dopo l’insediamento, nella primavera del 2008, del quarto governo Berlusconi. Da questo punto di vista, la que-

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1. Cfr. P. Di Vittorio, A. Manna, E. Mastropierro, A. Russo, L’uniforme e l’anima. Indagine sul vecchio e nuovo fascismo (Letture di: Bataille, Littell e Theweleit, Jackson, Pasolini, Foucault, Deleuze e Guattari, Agamben, Eco, Ballard), Action30, Bari 2009. 2. Cfr. P. Di Vittorio, A. Manna, E. Mastropierro, A. Russo, Fascismi senza fascismo, in questo fascicolo.

aut aut, 350, 2011, 31-43

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stione circa la legittimità o meno di impiegare il termine “fascismo” in relazione all’attuale fase di sviluppo politico e istituzionale delle moderne democrazie liberali assume infatti una forma ben altrimenti circostanziata, riducendosi da ultimo alla seguente domanda: il cosiddetto berlusconismo può essere sic et simpliciter considerato una fattispecie del fascismo? È vero che Di Vittorio e gli altri membri di Action30 non adoperano il termine “fascismo” alla stregua di un criterio tassonomico, bensì come un semplice strumento, funzionale al “metodo” o allo “stile” genealogico da essi adottato nella loro analisi. Vale a dire che esso serve loro anzitutto come un ponte, come “una passerella” da stendere tra il presente e il passato al fine di potersi muovere “all’interno di una sequenza storica di lungo periodo”. Soltanto in tale prospettiva il fascismo rivelerebbe difatti, al di sotto dei suoi orpelli ideologici, la sua reale funzione di agente della normalizzazione e della generalizzazione di una condizione di esercizio della sovranità, lo stato d’eccezione, cui, nel corso degli anni immediatamente precedenti il suo avvento, avevano invero fatto già appello, dal profondo della loro agonia, quelle stesse democrazie che avrebbero viceversa dovuto arginarlo. Ed è sempre focalizzando lo sguardo sul lungo periodo che, nell’esigenza di efficacia amministrativa rinvenibile al fondo di tale metabolizzazione dello stato d’eccezione quale condizione limite per la democrazia, ci sarebbe dato di riconoscere il medesimo ordine di ragioni attualmente alla base della gestione della res publica. Di modo che la scomparsa, in seno alla nostra società, dei tratti più scopertamente e diffusamente repressivi dell’eccesso di governo incarnato dai fascismi storici, non ne implicherebbe in alcun modo il declino, ma ne segnerebbe piuttosto l’evoluzione. Sulla scorta delle analisi di Giorgio Agamben e di Michel Foucault, si tratterebbe insomma di prendere atto di come, da sospensione temporanea del diritto e delle libertà individuali, lo stato d’eccezione vada attualmente evolvendosi in una vera e propria “macchina governamentale per gestire la popolazione nel suo complesso”. Già nel corso degli anni sessanta, del resto, Pier Paolo Pasolini aveva intuito come l’ingresso, sulla scena della storia, di una 32


nuova generazione di italiani, avrebbe alla lunga comportato la fine dei partiti politici tradizionali, i quali non solo erano improvvisamente divenuti incapaci di rappresentare una società per essi incomprensibile, ma, vanamente illusi che la gestione della cosa pubblica sarebbe sempre stata un affare di rapporti tra la Dc e il Pci, non apparivano nemmeno in grado di comprendere le reali poste in gioco nelle scelte da essi operate. La nostra ipotesi è che l’Italia non versi, come alcuni credono, in una situazione anomala, un’eccezione al limite del tollerabile nel panorama delle moderne democrazie occidentali. Al contrario pensiamo che sia un laboratorio politico nel quale si sta tentando di mettere a punto una forma politica di governo che riguarda non tanto il presente quanto il futuro. Non c’è rimprovero più miope del considerare la democrazia italiana in ritardo o inadeguata rispetto alle altre democrazie europee o mondiali: siamo anzi l’avanguardia, l’incubatrice di un modello della possibile democrazia a venire, la forma di governo più adatta ad affrontare il capitalismo contemporaneo e a prevedere e progettare quello futuro. Berlusconi è causa ed effetto di tutto questo. L’uomo Berlusconi è l’effetto più perfetto, compiuto e autoconsapevole di quel processo di “mutazione antropologica” di cui Pasolini è stato il primo lucido analista più di trent’anni fa; il politico Berlusconi ha rivestito e riveste tuttora principalmente la funzione di educatore, in un senso speculare a quello in cui Nietzsche dà a questo termine in riferimento a Schopenhauer: “Tutti noi per mezzo di Berlusconi possiamo educarci contro il nostro tempo, perché abbiamo il vantaggio di conoscerlo realmente per mezzo suo”.3 Non stupisce allora che, sulla quarta di copertina di uno dei primi libri – e per certi versi sicuramente il migliore – dedicati alla figura di Berlusconi, Berlusconi in concert, questi sia presentato come l’incarnazione “del prototipo di una umanità che sta cambiando pelle: sognatore pragmatico, cultore di utopie, [...] filosofo dell’azione, egli esprime una sintesi ancora in costruzione tra Ulis3. F. Nietzsche, Schopenhauer come educatore (1874), trad. a cura di M. Montinari, Adelphi, Milano 1972, p. 32. Ovviamente abbiamo inserito il nome Berlusconi al posto di quello del filosofo tedesco.

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se e il monaco Zen, in questa età di transizione dal Capitalismo razionale, di radici ottocentesche, a un Capitalismo Etico-EsteticoEmozionale, di respiro planetario”.4 Vero e proprio visionario dei tempi a venire, chi meglio di lui è in effetti stato capace di cogliere come la rivoluzione silenziosa diagnosticata da Pasolini fosse, prima ancora di quella delle infrastrutture che nel dopoguerra avevano finalmente riunito il Nord e il Sud del paese, quella, per certi versi ancora in corso, del sistema delle informazioni? Chi meglio di lui ha capito come la televisione, con la sua capacità di essere compresente e uguale a se stessa in tutta Italia, a prescindere dai contesti sociali, culturali ed economici, avrebbe finito per assimilare “l’intero paese, che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali”, imponendo ovunque i suoi modelli? Modelli che – precisava Pasolini – sono quelli “voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di un ‘uomo che consuma’, ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo”.5 Indubbiamente, essendo stato tra i primi a cogliere che qualcosa era nell’aria e che la televisione stava divenendo “il luogo in cui si fa concreta una mentalità che altrimenti non si saprebbe dove collocare”,6 Berlusconi può essere senz’altro considerato corresponsabile del “genocidio” da essa perpetrato.7 Per lo stesso motivo, la sua ascesa sembrerebbe aver confermato i peggiori timori espressi da Pasolini relativamente a chi o cosa avrebbe occupato il vuoto di potere in tal modo determinatosi in Italia, ovvero alla natura di quel “potere” che già allora, “da una decina di anni le ‘teste di legno’ [avevano] servito senza rendersi conto della sua realtà”.8 Non fosse che, tra il fascismo da lui stesso definito “fa4. S. D’Anna, G. Moncalvo, Berlusconi in concert, Otzium, London 2004, p. 45. 5. P.P. Pasolini, Scritti corsari (1973-75), in Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori, Milano 2006, p. 291. 6. Ivi, p. 293. 7. Cfr. ivi, p. 511. Con il termine “genocidio”, Pasolini intende, come è noto, il processo per cui la borghesia ha assimilato al proprio stile di vita, ai propri valori e ideali, tutti quegli strati della popolazione italiana che erano viceversa in precedenza sempre rimasti ai margini della storia del paese, se non della storia tout court. Né esso avrebbe risparmiato i ceti medi, a loro volta “antropologicamente” mutati in un senso del tutto omologo a quello dei ceti subalterni. 8. Ivi, p. 411.

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scismo classico” e il nuovo fascismo di cui egli andava denunciando l’affermazione, Pasolini non stabiliva alcuna continuità, se non quella – del tutto specifica e limitata alla situazione italiana – derivante dalla reale continuità tra gli apparati amministrativi dello stato.9 Laddove infatti il primo fascismo non sarebbe mai pervenuto a sopprimere la dialettica tra il modello culturale reazionario e monumentale da esso propugnato e la molteplicità delle culture particolari (contadine, operaie, sottoproletarie) che costituivano la realtà del paese, con la società dei consumi si sarebbe imposto un centralismo di tipo nuovo, tale da decretare, per la prima volta in Italia, la scomparsa del secondo polo. Un centralismo che avrebbe precipitato l’Italia in una situazione piuttosto analoga a quella della Germania di Weimar, a suo tempo egualmente interessata dal processo della formazione di masse non più antiche (contadine e artigiane) e non ancora moderne (borghesi), e in quanto tali destinate alla nevrosi derivante dall’incapacità di realizzare un modello rispetto al quale sarebbe nel frattempo venuta meno qualsivoglia alternativa. Da cui la constatazione della differenza intercorrente tra l’Italia degli anni sessanta e la situazione degli altri paesi europei, Francia in primis, da Pasolini indicati come il reale luogo d’origine del nuovo potere e nei quali la transizione dalle vecchie forme del legame sociale alle nuove si sarebbe fatta con maggiore gradualità e – ciò che qui più ci interessa – senza soluzione di continuità rispetto alla tradizione liberal-democratica da essi incarnata. È dunque a quest’ultima, più che a quella del fascismo storico, che anche la figura di Berlusconi andrebbe collegata. Per rendersi conto di come le cose stiano effettivamente così, basta del resto esaminare la natura del largo consenso di cui gode Berlusconi. Se prendiamo il caso Ruby, ci sembra per esempio significativo il fatto che il presidente del Consiglio non abbia in prima istanza reagito alle rivelazioni che lo riguardavano smentendone il contenuto, bensì rivendicando la legittimità e l’appeal del proprio stile di vita, ovverosia il diritto di condurre liberamente un’esistenza che 9. Cfr. ivi, pp. 297-299.

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non sarebbe sbagliato paragonare a una puntata di Drive-in.10 Questo programma di intrattenimento, una delle trasmissioni più innovative delle sue reti nel corso degli anni ottanta, offriva infatti ai telespettatori la possibilità di entrare in una specie di bar frequentato da ragazze bellissime, che non solo fungevano da sfondo per i numeri comici che ininterrottamente vi si susseguivano, senza alcun presentatore o cornice narrativa che li giustificasse, ma li permeavano con la loro presenza di un alone di desiderio che finiva per diventare indisgiungibile da essi. Umorismo ed erotismo venivano insomma declinati insieme, producendo una forma di realtà quasi onirica, un luogo ideale che incarnava a suo modo l’idea berlusconiana di paradiso: quella di un mondo fatto di uomini brillanti e simpatici, di cui il presidente del Consiglio sarebbe naturalmente il primus inter pares, e di donne belle e disponibili, che trascorrono insieme una vita fatta di lusso e divertimenti. Sbaglia la sinistra italiana a insistere sugli aspetti morali e sulle eventuali conseguenze legali di questo comportamento. Nel primo caso non è compito suo, c’è già la chiesa cattolica che vigila sui comportamenti sessuali degli italiani e li censura, soprattutto nella misura in cui non riesce più a determinarli. Nel secondo caso, gli eventuali elementi di reato sono così deboli (una delle ragazze era minorenne; le ragazze a fine serata ricevevano dei regali e questo può configurarsi come una specie di pagamento; Berlusconi ha telefonato in questura a Milano per informarsi dell’arresto di una di esse) che dimostrano semplicemente l’incapacità, da parte della sinistra stessa, di fare i conti con il bisogno di rinvenire nel capo un adeguato supporto per quelle identificazioni immaginarie che Berlusconi ha viceversa saputo intercettare in un elettorato giocoforza sempre più ampio. E diciamo “giocoforza” a ragion veduta, nella misura in cui non è escluso che l’instaurarsi di un rapporto privilegiato tra le masse e un leader carismatico costi10. In relazione alla capacità di Berlusconi di veicolare i sogni e i desideri degli italiani, in funzione della costruzione della loro identità, citiamo un solo dato, che ci ha colpito molto, ricavato da un sondaggio pubblicato da “la Repubblica” il 31 gennaio 2011. Tra le giovani donne (sotto i 29 anni), solo il 37 per cento ritiene che i comportanti del premier siano offensivi verso le donne, percentuale che scende al 28 per cento tra le donne di età compresa tra i 30 e i 44 anni.

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tuisca, per la fondazione e il mantenimento del legame sociale, un dato strutturale, se non il problema politico par excellence, rispetto al quale la soluzione offerta dal populismo berlusconiano non soltanto non contraddirebbe in alcun modo l’esperienza della democrazia, ma parrebbe costituirne anzi, in certo qual modo, l’esito più coerente e obbligato. Se la sinistra continua a sperare in un miracolo giudiziario che possa nascondere la sua incapacità di fornire un’alternativa politica credibile a Berlusconi, non capisce che la soluzione sarebbe ben peggiore del problema. Per approfondire il punto occorrerebbe forse fare riferimento al Freud di Psicologia delle masse e analisi dell’Io e alla sua ipotesi circa l’esistenza di una duplice psicologia: quella “degli individui appartenenti alla massa” e quella “del padre, capo supremo, guida”,11 al quale sarebbe stato riservato un duplice privilegio: quello della libertà, da intendersi narcisisticamente come indipendenza da qualsivoglia legame oggettuale; e quello del godimento, dal quale egli non avrebbe escluso i singoli appartenenti alla massa senza al contempo sancirne – per quanto derisoriamente – il pari diritto ad accedervi. Ragion per cui già dei rivoluzionari del 1789 si è potuto scrivere che, affermando il principio secondo cui la legge è uguale per tutti, dopo essersi per breve tempo sforzati di conservare, nella persona del re, l’eccezione alla regola, essi avrebbero tuttavia finito “per tagliargli la testa [...]. Ma, evidentemente, dato che gli tagliavano la testa, si sono messi tutti a tagliarsi la testa reciprocamente, per essere uguali. Il soggetto di diritto, per evitare che gli si tagli la testa, la abbassa”. Senza contare che, tagliata la testa “al re-fabbro, al povero Luigi XVI”, ci si era tuttavia “ritrovati con Napoleone Bonaparte”. Il che induce a riflettere su come vi sia “un legame, una consequenzialità rigorosa, e che, se si preme troppo il pedale da un lato, si finisce con l’avere sul groppone un padrone, uno vero”.12 Piuttosto che vedere nell’avvento di Berlusconi una riedizione, 11. S. Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’Io (1921), in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1971, vol. IX, p. 311. 12. J.-A. Miller, Della natura dei sembianti. Lezione IV (1993), “La psicoanalisi”, 13, 1993, p. 191.

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in tono maggiore, o minore, o magari ancora di farsa della tragedia del ventennio fascista, converrebbe pertanto, a nostro avviso, riflettere ulteriormente su ciò che esso rappresenta per noi stessi e la nostra democrazia. Perché Berlusconi non è, con tutta evidenza, fascista. A meno che, naturalmente, per “fascismo”, non si voglia intendere qualcosa di affatto diverso dal fenomeno cui gli storici si riferiscono con tale nome. Ma, anche in questo caso, occorrerebbe innanzitutto muovere dalla constatazione di come, agli italiani, Berlusconi non abbia in fondo offerto che un’idea di realtà: non nel senso di una Weltanschauung che egli sarebbe riuscito a imporre a detrimento di altre, nondimeno riconosciute nella loro autonomia; bensì in quello, più radicale, di una vera e propria riconfigurazione dell’orizzonte di senso che sta al fondo delle nostre vite e della nostra esperienza. Berlusconi ci ha letteralmente insegnato a stare al mondo, fornendoci quello di cui noi tutti abbiamo bisogno: un sogno, dei desideri da desiderare, un “miracolo italiano”. Per secoli le scuole (“ore e ore in un banco, per imparare a diventare prigionieri senza alcuna preparazione alla libertà”), lo stato e la chiesa hanno inculcato nei giovani il valore della rinuncia, dell’accontentarsi, dello stare al proprio posto, determinando una generale infelicità strumentale al mantenimento dello status quo dei rapporti di potere. Ora è il momento che tutti portino “il sole in tasca”, che si portino all’altezza del loro sogno: “È una spiritualizzazione del Capitalismo, il passaggio consapevole di istituzioni e industrie, di fabbriche e uffici, da imprese a scuole dell’essere e la scomparsa di ogni dipendenza e di ogni forma di vittimismo e di abbassamento della dignità dell’uomo”. Da cui l’esigenza di trasformare anche le tradizionali istituzioni formative, scuole e università, affinché propongano un “sistema di idee vitali, capaci di interpretare il mondo”.13 Lo stesso libro di D’Anna e Moncalvo, da cui anche queste frasi sono tratte e che avrebbe dovuto servire al lancio della candidatura berlusconiana alle politiche del 1994, presenta, da questo punto di vista, due gravi difetti: non ha nemmeno una fotografia 13. Cfr. S. D’Anna, G. Moncalvo, Berlusconi in concert, cit., pp. 251-253.

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del capo14 ed è troppo corposo. 384 pagine intessute di riflessioni sono poco efficaci dal punto di vista pedagogico, visto che contravvengono a uno dei postulati che lo stesso Berlusconi illustra nel libro: non sono rivolte a un “pubblico che ha fatto la terza media, e non era tra i primi della classe”.15 Anche se non va dimenticato come esso costituisca la cornice nella quale collocare un’altra iniziativa editoriale, di ben più ampie proporzioni e portata: l’invio a tutte le famiglie italiane, a ridosso delle elezioni del 2001, di una sorta di rivista, sul modello di “Chi” o “Grand Hotel”, che si intitolava Una storia italiana e si presentava – come notato da Belpoliti – come una vera e propria “Bibbia dei poveri in versione postmoderna”, o ancora come una di quelle vite dei santi, opportunamente illustrata, che dal tardo Medioevo hanno costituito il cuore della pedagogia cattolica popolare.16 Ma la pedagogia berlusconiana non si limita a proporre una imitatio Christi. Molto più efficacemente, la sua è una “pedagogia delle cose”. Ancora una volta, era stato proprio Pasolini, negli stessi anni in cui l’attuale premier cominciava la sua carriera imprenditoriale, a mettere in luce come la mutazione antropologica non passasse attraverso le istituzioni, i discorsi ufficiali, i valori culturali e le radici identitarie di un popolo. Essa passava invece attraverso la lezione delle cose, che non si identificano semplicemente con gli oggetti che ci circondano (i quali, negli ultimi cinquant’anni, 14. Su quanto sia importante per il successo di Berlusconi la gestione della propria immagine, rimandiamo al testo di M. Belpoliti, Il corpo del capo, Guanda, Parma 2009. 15. S. D’Anna, G. Moncalvo, Berlusconi in concert, cit., p. 148. 16. Che Berlusconi punti ad accreditare la propria persona di un’aura quasi sacrale, si evince peraltro non solo dai momenti e dagli aspetti della sua esistenza selezionati per la pubblicazione citata (la formazione presso il collegio dei gesuiti, il forte senso della famiglia, l’amore per i figli e i genitori, lo stile vita sobrio e austero, la lettura dei mistici medievali, i miracoli sportivi e commerciali), ma anche dal linguaggio scelto per descriverli. Forza Italia, il partito da lui fondato nel 1994, non possedeva alcuna ideologia: privo di qualsivoglia retaggio delle “parole, delle chiacchiere, dei veti incrociati, dei vecchi rancori” caratteristici della scena politica italiana, esso faceva piuttosto appello a un “credo laico”, a una fede incrollabile nel nuovo “miracolo italiano” sostenuta dal “sogno di una società” in cui all’“invidia” e all’“odio di classe” avrebbero dovuto subentrare “la generosità, la dedizione, la solidarietà, l’amore per il lavoro, la tolleranza e il rispetto per la vita”. Del pari, il periodo passato all’opposizione dal 1994 al 2001 è “la traversata del deserto”, utile per tornare a raccogliere le forze necessarie a “cacciare i mercanti dal Tempio” (cfr. M. Concina, A. Costa, Una storia italiana, Mondadori Print, Milano 2001).

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si sono peraltro ampiamente trasformati e moltiplicati a dismisura), a meno di non sottolineare come essi non si limitano a starsene intorno a noi, ma si fanno e ci fanno continuamente segno. Ogni cosa parla, emette dei segni, e questi segni dicono dove siamo nati, in che modo viviamo, e soprattutto, come dobbiamo concepire la nostra nascita e la nostra vita: “L’educazione data a un ragazzo dagli oggetti, dalle cose, dalla realtà fisica – in altre parole dai fenomeni materiali della sua condizione sociale – rende quel ragazzo corporeamente quello che è e quello che sarà per tutta la vita. A essere educata è la sua carne come forma del suo spirito”.17 La pedagogia delle cose è incontrovertibile, non ammette repliche, non ritorna indietro, ma lascia inevitabilmente indietro la generazione precedente, quella che è sopravvissuta alle cose del proprio tempo, e che non è in grado di capire le cose di ora. Va inteso così il senso di impotente sconfitta che anima il trattato pedagogico da Pasolini lasciato incompiuto con il titolo di Gennariello: le “tazze da tè” separano per sempre l’educatore dal suo allievo, essi vivono in due mondi fatti di cose diverse nel modo e nella sostanza. Per questo Berlusconi, nel suo libretto-manifesto e ancor di più nelle sue televisioni, si mostra orgogliosamente insieme alle sue cose: la famiglia (soprattutto i figli), i vestiti (una sezione è dedicata alle sue marche preferite), gli amici (nel “ritiro spirituale” delle Bermuda), le case e i palazzi che possiede oppure ha costruito, le televisioni, i trofei di calcio che ha vinto, la nave da crociera utilizzata per la campagna elettorale, le folle e i personaggi famosi – nell’ordine: attori cinematografici, sportivi, il papa e vari capi di stato – che lo circondano e che dimostrano come lui sia importante, ascoltato e ben voluto. Certamente, il linguaggio delle cose di cui parla Pasolini era cambiato prima e indipendentemente da Berlusconi: la sua abilità è consistita nella capacità di curvarlo in un linguaggio che diventasse a sua immagine e somiglianza. Questo è stato ovviamente possibile attraverso l’uso della televisione, di cui già Pasolini aveva notato il carattere “perfettamente prag17. P.P. Pasolini, Lettere luterane, Einaudi, Torino 1976, 20022, p. 36.

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matico”, tale da non ammettere, al pari delle cose, “repliche, alternative, resistenza”.18 Essa – buona o cattiva – rimane comunque “maestra”, e pone lo spettatore in una posizione di subalternità: non tanto o non solo perché ci dice cosa fare, cosa pensare ecc., quanto perché ci dice a cosa pensare, di cosa occuparci. La tv non è omologante nel senso che ci obbliga a pensare tutti la stessa cosa, ma perché ci impone gli argomenti di cui occuparci, anche se poi ognuno è libero di avere la propria opinione. Propone modelli di identificazione, ma non ne impone alcuno. In tal modo finisce per determinare la realtà delle persone, poiché pian piano diventa comodo ed efficace demandarle funzioni pedagogiche complesse, un tempo affidate alla famiglia o ad altre istituzioni sociali. Soppianta i romanzi nell’educazione sentimentale degli adolescenti, la famiglia in quella sessuale. Propone modelli sociali vincenti che poi diventano aspirazioni reali dei giovani, alimenta la paura o rassicura, ci insegna che cos’è un uomo e cosa una donna, e come devono comportarsi. Diversamente dai politici di sinistra, Berlusconi sa insomma bene come sono fatti gli italiani, essendo in una certa misura proprio lui, in più di trent’anni di scuola quotidiana, ad averli formati. Ciò ne fa sì un educatore, ma in un senso diametralmente opposto a quello sottinteso dal discorso pasoliniano, il cui pathos nasceva dalla residua speranza nel potenziale eversivo insito nella parola quale veicolo di una cultura sempre singolare, ma proprio in quanto tale in grado di mettersi di traverso al discorso assorbente e livellatore instancabilmente tenuto dalle cose del nostro tempo. Anche se Berlusconi stesso, naturalmente, non sarebbe d’accordo, mentre si riconoscerebbe probabilmente di buon grado nella figura che si trova tratteggiata in un altro passo della già citata Terza inattuale nietzschiana: quello in cui il filosofo tedesco, dopo essersi interrogato sul destino dell’allora neonato secondo Reich, suggeriva che il compito di tornare a erigere “l’immagine dell’uomo, mentre tutti non sentono in sé che il verme dell’egoismo e la paura immonda” non avrebbe potuto toccare ad altri che al18. Ivi, p. 37.

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l’uomo “veridico”, ovverosia a chi “sente nella sua attività un significato metafisico, spiegabile secondo le leggi di un’altra e superiore vita e, in un senso più profondo, affermativo: per quanto tutto ciò che egli fa appaia come un distruggere e uno spezzare le leggi di questa vita”. A un uomo chiamato a essere nemico “anche agli uomini che ama, alle istituzioni nel cui seno è sorto”, e cui non sarà lecito “risparmiare né uomini né cose, sebbene soffra con loro quando li ferisce”: un uomo insomma destinato a essere misconosciuto, nonché reputato, “secondo una misura umana della sua penetrazione, [...] ingiusto nonostante l’aspirazione alla giustizia”. Quasi che non fosse possibile vivere nella ricerca della verità senza trovarsi da ultimo ad attingere coraggio e consolazione dalle parole di Schopenhauer, che di un tale uomo sarà stato il prototipo e l’educatore al contempo: “Una vita felice è impossibile: il massimo che l’uomo può raggiungere è una vita eroica. Conduce questa vita colui che, in una maniera e per un motivo qualsiasi, combatte per ciò che in qualche modo giova a tutti, contro le più grandi difficoltà e alla fine vince, ma nel far ciò è male o niente affatto ricompensato. Quando ha finito si trova pietrificato, come il principe nel Re cervo di Gozzi, in nobile atteggiamento e magnifico aspetto. La sua memoria rimane ed è celebrata come quella di un eroe, la sua volontà, mortificata per tutta una vita dalla fatica”.19 Ovviamente non pensiamo che Berlusconi sia un eroe, ma che l’atteggiamento che la sinistra italiana ha adottato nei suoi confronti rischi di renderlo tale, magari in modo postumo, come sta accadendo al suo mentore politico, Craxi, oggi santificato da più parti. L’errore fondamentale, tuttavia, sarebbe quello di considerare Berlusconi il problema principale di un’Italia che sta attraversando una profonda disgregazione delle forme sociali che ne hanno sostenuto l’identità nazionale. Egli è il sintomo, non la malattia. Quando “mani pulite” ha spazzato via i partiti che avevano governato il nostro paese dal dopoguerra in poi, azzerando un’intera classe politica, un vento di rinnovamento e ottimismo ha at19. F. Nietzsche, Schopenhauer come educatore, cit., p. 42.

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traversato l’Italia: quest’Italia nuova, la cosiddetta “Seconda repubblica” ha partorito Berlusconi, assieme alla crisi delle istituzioni, alla marginalizzazione internazionale del nostro paese, alla recessione economica, a scandali e clientele peggiori di prima. Di fronte a questa distopia realizzata, ci chiediamo se non sia il caso di fermarci e cercare di comprenderla a fondo, anziché ostinarci a giudicarla, o – peggio – condannarla troppo in fretta: rischiamo altrimenti che, come tutti i traumi rimossi troppo presto, ritorni a tormentarci in forme ancora più mostruose dell’attuale. Non illudiamoci che, una volta tramontata la stella di Berlusconi, magicamente si dissolvano con lui anche i meccanismi che lo hanno generato. Egli è stato solamente il catalizzatore e l’acceleratore di tendenze e processi già in atto nella società italiana, processi a cui ha saputo dare un nome e una direzione politica. Sarebbe bello se potessimo davvero pensare l’Italia dopo Berlusconi a partire da premesse diverse, auspicabilmente di tipo politico e non legalmoralistico. Ma temiamo che la lezione berlusconiana ce la ricorderemo per un pezzo.

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La democrazia identitaria EDOARDO GREBLO

1. Anche se non manca chi continua a caldeggiare la teoria della democrazia diretta o partecipativa in modo da avvicinarsi alla democrazia partendo dal basso, l’idea ormai prevalente è che, nelle democrazie moderne, la rappresentanza politica sia la sola procedura elettorale che permetta la trasmissione e la realizzazione della volontà popolare. La rappresentanza non è altro, infatti, che l’applicazione del principio di eguaglianza dei cittadini ai sistemi politici moderni.1 È certo irrealistico pensare che vi possa essere una perfetta corrispondenza fra la volontà dei cittadini e la volontà espressa dai loro rappresentanti parlamentari, a meno di non imporre i vincoli di mandato esclusi dalle costituzioni liberaldemocratiche proprio per sottolineare la differenza tra rappresentanza di diritto privato e rappresentanza di diritto pubblico, e cioè la rappresentanza politica. Per questo tutti i teorici della rappresentanza democratica hanno considerato le funzioni parlamentari incompatibili con qualsiasi forma di mandat impératif e tutte le costituzioni liberaldemocratiche hanno accolto questo divieto come una regola fondamentale. Ciò significa che i rappresentanti politici non dovrebbero essere responsabili neppure di fronte ai propri elettori, ma solo di fronte all’intera nazione, poiché l’interesse generale del paese richiede che i delegati, titolari di un mandato ad omnia, si oppongano a ogni tipo di interesse particolare. Il pro1. R. Dahl, La democrazia e i suoi critici (1989), Editori Riuniti, Roma 1990, pp. 324-327 e 339-349.

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aut aut, 350, 2011, 44-60


blema della selezione della cosiddetta “classe dirigente” è perciò ovviamente cruciale: se in un regime rappresentativo i cittadini si limitano a decidere chi dovrà decidere per loro, è come minimo necessario che nell’arena politica abbia luogo una competizione autenticamente democratica per la selezione dei rappresentanti. La realtà che abbiamo sotto gli occhi ci costringe, invece, ad assistere all’erosione quotidiana dei meccanismi che dovrebbero mobilitare i cittadini, tradurre in linguaggio politico i loro interessi e conferire forza legittimante alle deliberazioni di maggioranza. Che ciò avvenga in nome dell’unità plebiscitaria del corpo politico è uno dei tanti paradossi della crisi della democrazia rappresentativa e parlamentare, ossia della sola forma di democrazia che i moderni siano riusciti a costruire, servendosi peraltro di materiali e meccanismi che non sono di per sé democratici: elezioni, costituzione, diritti e, ovviamente, rappresentanza. Non c’è bisogno di evocare il fascismo per sostenere che negli ultimi quindici anni hanno preso piede processi politici capaci di alterare in misura sostanziale l’assetto costituzionale che la nostra democrazia si è data nel secondo dopoguerra. Il degrado della rappresentanza in senso oligarchico, la sovrapposizione del potere castale su quello statuale, l’ormai strutturale carenza di “rappresentatività” degli organismi legislativi e, certo non ultimo, l’imporsi di un modello politico trainato da un populismo a base carismatica, ne sono soltanto gli esempi più macroscopici. Ciò è avvenuto sulla spinta di movimenti e partiti che si sono dimostrati capaci di mobilitare settori consistenti della società italiana grazie al fatto di essere riusciti a trovare un efficace fattore di convergenza tra due orientamenti politici distinti ma paralleli: l’ideologia privatistica che chiede lo smantellamento dello stato sociale e l’ideologia localistica delle “piccole patrie”. Questo fattore di convergenza è stato individuato nell’idea di “libertà negativa”, ovvero di libertà dallo stato, cui si chiede di astenersi dalle funzioni regolative in materia di controllo macroeconomico e di redistribuzione, ormai considerate equivalenti a forme mascherate di statalismo, e di libertà dalla nazione, alla quale si chiede di segmentarsi secondo presunte linee “etniche” al solo scopo di ottenere benefici, risorse, privilegi. 45


Con la prima libertà si è cercato di ridimensionare i tratti più significativi delle politiche di coordinazione in campo sociale ed economico e di cedere potere non tanto alla “giustizia di scambio” assicurata dalle leggi anonime dei mercati, quanto ai soggetti privati, alle comunità o alle lobby organizzate. Con la seconda si è cercato di svalorizzare ogni preliminare consenso di fondo su una forma di omogeneità culturale capace di operare da fondamento nazionale della solidarietà civica, ormai considerata come una forma residuale di nazionalismo, e di esaltare “identità collettive in comunità immaginate, col folklore o con le ronde volontarie che creano l’illusione che si possano ritrovare i territori e gli spazi sociali perduti”.2 In entrambi i casi, la disarticolazione dello stato sociale da un lato e dello stato nazionale dall’altro viene presentata come se ciò offrisse ai cittadini migliori opportunità di costruire i propri piani di vita in modo sempre più autonomo, e quindi di estendere i propri margini di libertà persino al di là di quel senso morale che dovrebbe costringerli a interessarsi vicendevolmente l’uno dell’altro. Una sorta, come ha detto qualcuno, di “liberi tutti e ciascuno per sé”, in cui traspare un modello di società che trasforma i diritti privati e le libertà prepolitiche in un privilegio antisociale da usare in maniera puramente strumentale. E tuttavia, a differenza di quanto affermato dalla cultura politicamente maggioritaria, che ha inteso sganciare la libertà dei cittadini da ogni forma di reciprocità obbligante per convertirla in una forma di individualismo egoistico a cui fanno da contraltare identità collettive per lo più immaginarie, a essere in gioco non è affatto la “rivoluzione liberale” proclamata dai suoi esponenti. Per potersi richiamare al titolo onorifico di “liberale” non basta riferirsi al termine “libertà” con ossessività martellante, se l’obiettivo politico trasparente è quello di gettare le basi di una democrazia carismatica e populista che con il liberalismo, comunque lo si voglia definire, non ha nulla a che fare. Quello che invece andrebbe preso sul serio è il termine “rivoluzione”, a condizione di valutarne le conseguenze per il sistema di limiti, vincoli e controlli che 2. C. Galli, L’irresistibile sopravvivenza dello spazio politico, “il Mulino”, 1, 2009, p. 15.

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costituisce l’architettura di una democrazia costituzionale. Perché di “rivoluzione”, in un certo senso, si tratta davvero, dal momento che l’obiettivo – oltretutto neppure dissimulato – è di introdurre una forma di democrazia plebiscitaria fondata sull’onnipotenza della maggioranza, una sorta di autoritarismo popolare o di dispotismo indiretto. E, infatti, ci si appella al potere costituente del popolo per sovvertire quelle stesse istituzioni di cui peraltro ci si serve per governare e che vengono sistematicamente delegittimate sotto i colpi di una rivoluzione conservatrice messasi al servizio di una modernizzazione anti-istituzionale. Questo modo post-costituzionale, quando non anti-costituzionale, di pensare la democrazia viene talvolta considerato come un effetto collaterale, forse sgradito ma inevitabile, del potere conferito ai cittadini di scegliere la coalizione destinata a governarli, come un trasferimento diretto e immediato in campo politico della legittimazione popolare concessa a chi viene scelto dagli elettori per esercitare l’azione di governo. In altre parole, la funzione pubblica concepita e attuata come una pratica che può e deve godere di larghi margini discrezionali sarebbe espressione di una valorizzazione della rappresentanza politica, esercitata in nome e in funzione di un potere costituente del popolo che non può e non deve trovare nei poteri costituiti limiti e ostacoli. Come per i giacobini, che concentravano nelle loro mani la sovranità del popolo, il potere di chi è reso onnipotente dall’investitura popolare “non deve insabbiarsi nelle pastoie di una forma positiva”,3 sottomettendosi alle forme e alle procedure delle istituzioni repubblicane. Come, prima ancora, in Rousseau, vi è il rifiuto di una qualsiasi legge fondamentale in grado di vincolare il sovrano: il popolo sovrano può tutto, tranne vincolare se stesso per il futuro. Questa pretesa valorizzazione della rappresentanza politica tende però a sovvertire proprio le istituzioni rappresentative, e cioè i 3. E.-J. Sieyes, Che cos’è il Terzo Stato? (1789), in Opere e testimonianze politiche, a cura di G. Troisi Spagnoli, Giuffrè, Milano 1993, vol. I, tomo I, p. 257. Va nello stesso senso l’articolo 28 della Dichiarazione dei diritti giacobina del 1793: “Un popolo ha sempre il diritto di rivedere, riformare, cambiare la propria costituzione”, e nella quale il “sempre” equivale a “in ogni momento” e “propria” che la costituzione va intesa come un puro atto di volontà del popolo sovrano.

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moderni parlamenti, nei quali il popolo, il corpo politico sovrano, distilla verso l’alto l’infinita pluralità degli interessi particolari ed entra così nella logica dei diritti e dei doveri della cittadinanza democratica. Un populismo che crea se stesso come un potere sovraordinato agli altri, che può dominare le istituzioni (i poteri costituiti) solo sottoponendole a continue forzature (in nome del potere costituente), che diviene strumento di consacrazione quotidiana del carisma egemone e che alla fine si riassume nella perfetta aderenza tra l’Eletto e il popolo finisce per dare vita a una forma di cesarismo regressivo che ha poco a che spartire con la dimensione costituzionalistica che si è data la nostra democrazia. La quale, non a caso, ha innestato sul ceppo della sovranità popolare elementi che provengono dalla tradizione costituzionalistica angloamericana, come il controllo di legalità, esercitato dalla magistratura anche sui membri della classe politica, e come il controllo di legittimità, esercitato dalla Corte costituzionale sugli atti di produzione giuridica promossi sia dal legislatore che dall’esecutivo. All’orientamento liberal-democratico che permea e struttura il nostro assetto costituzionale si oppone invece l’idea, elementare e distorsiva ma non per questo meno efficace, che il consenso popolare sia la sola ed esclusiva fonte di legittimazione del potere politico. Ciò è sufficiente per giustificare ogni tentativo di neutralizzazione dei contropoteri istituzionali ed extraistituzionali, e cioè dei poteri negativi o di controllo che impediscono all’esercizio assoluto (illimitato) del potere maggioritario di condurre all’autodistruzione della democrazia liberale. Alla vecchia e superata costituzione formale si oppone così una nuova e innovativa costituzione materiale, i cui tratti essenziali coincidono con l’esercizio diretto e costituente di una sovranità popolare finalmente libera di esprimersi senza i vincoli e gli ostacoli imposti dai poteri costituiti (regole e procedure), rompendo di netto con la mediazione inconcludente delle istituzioni, con la farraginosità di norme (spesso però garanzia di equità delle procedure) che sottopongono le decisioni a restrizioni considerate di difficile giustificazione, con quella stessa “certezza” del diritto che è intrinseca alla forma giuridica come tale. Tanto più che l’imme48


diata presenza del popolo nella propria omogeneità, che assicura la permanente eccedenza del potere costituente rispetto a ogni istituzione, avrebbe finalmente trovato l’occasione per manifestarsi in una singola persona empirica, l’Eletto, moderno Re taumaturgo cui spetta l’unzione suprema, permanente e inviolabile, della sovranità. 2. Ora, questo fenomeno di personalizzazione della rappresentanza si ritrova anche in altre democrazie, nelle quali la rappresentanza si è progressivamente concentrata nella figura del capo dello stato o del governo, incrementando il potere politico dell’esecutivo e ridimensionando o aggirando le procedure e le mediazioni parlamentari.4 Ma è solo nel nostro paese che l’aumento esponenziale, per ora più annunciato o perseguito che realizzato, dei poteri dell’esecutivo rischia di creare un cortocircuito tra il popolo e un potere di governo legittimato dal carisma che finisce per declassare il potere legislativo dal primato che le costituzioni moderne gli assegnano nella gerarchia dei poteri dello stato. E ciò per una lunga serie di ragioni. La prima va trovata nel populismo antiliberale che impronta il nostro sistema politico, e che per la maggioranza dei nostri concittadini sembra ormai divenuto senso comune. Stando all’immagine che ce ne offre la maggioranza, la democrazia politica non serve a dare rappresentanza alla pluralità degli interessi (e talvolta anche delle pulsioni) che dividono e gerarchizzano la società per orientarli, attraverso la mediazione parlamentare, all’interesse (presuntivamente) comune, ma a trasformare la scelta elettorale maggioritaria in un’investitura popolare che pone l’Eletto in condizioni di ridisegnare l’equilibrio dei poteri dello stato a proprio vantaggio. Il potere del popolo, ossia l’origine di ogni legittimità politica, si concentra nella sintesi folgorante di una figura che si fa portatrice del potere costituente, di un potere supremo che, 4. Non a caso vi è stato chi ha coniato l’espressione di entropie représentative per descrivere questo fenomeno. Cfr. anzitutto P. Rosanvallon, La contre-démocratie. La politique à l’âge de la défiance, Seuil, Paris 2006, ma anche B. Manin, Principi del governo rappresentativo (1997), il Mulino, Bologna 2010.

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diretta espressione organica di una volontà popolare dalla quale ricava una legittimazione assoluta, può agire anche al di là degli oneri imposti dalle forme giuridiche, dalle procedure, dalle istituzioni. Una figura in grado di esprimere la sovranità come plenitudo potestatis e che per questo vive le regole e il pluralismo istituzionale, l’indipendenza della magistratura e il ruolo del parlamento in particolare, come un freno, traendo dalla legittimità l’energia per forzare la legalità di là dei limiti e delle mediazioni che la democrazia liberale ha voluto imporre al dominio politico. L’idea dell’onnipotenza dell’Eletto quale incarnazione della volontà popolare, dell’Uno in cui si fondono e si trasfigurano le singole volontà che compongono un Tutto reso omogeneo e indistinto, è però strutturalmente anti-rappresentativa, dal momento che né la maggioranza né il suo capo possono pretendere di rappresentare la volontà del popolo intero. A meno di non richiamarsi al modo in cui i membri delle corporazioni medievali si servivano del latino impersonare, attribuendo al termine lo stesso significato che attualmente si attribuisce alla parola rappresentare, oppure di postulare un idem sentire fra il Capo e il popolo sulla base di una relazione diretta di uno-a-uno che scorge ed esalta nell’Eletto la presenza trasfigurata del popolo sulla scena politica nella sua immediata e omogenea pienezza identitaria. Eletto e popolo insieme, rappresentazione – non a caso diffusa e teatralizzata con operazioni di marketing pubblicitario realizzato dalle fabbriche mediatiche – più che rappresentanza, si trasformano in monadi, ciascuna delle quali crede o pretende, a seconda dei casi, di rispecchiare l’altra. Si tratta precisamente della declinazione della rappresentanza nel senso attribuito al termine da Carl Schmitt a proposito del rapporto, fondativo dello stato come tale, tra identità e rappresentanza: “rappresentare”, in questo caso, “significa rendere visibile e illustrare un essere invisibile”, cioè l’identità del popolo, la sua unità politica quale origine immateriale del potere, “per mezzo di un essere che è presente pubblicamente”.5 Ciò sposta il terreno della rappresentanza dall’ambito formale e proce5. C. Schmitt, Dottrina della costituzione (1928), Giuffrè, Milano 1984, p. 277.

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durale all’ambito dell’essere e dell’identità: non è più “una procedura regolata da norme ma qualcosa di ‘esistenziale’”,6 che fa risiedere l’unità politica nella riproduzione teatralizzata dell’Eletto, che inscena l’epifania del potere, piuttosto che sulla organizzazione delle procedure, sulle cosiddette regole del gioco, il complesso delle regole che devono servire a prendere le decisioni collettive, le decisioni che riguardano tutta la collettività, con il massimo del consenso e con il minimo della violenza. È certo vero che la teoria democratica moderna conosce numerose varianti dell’idea che il popolo costituisca una sostanza politica originaria, autonoma e omogenea. Ma il popolo del populismo, il popolo della concezione fascista e plebiscitaria che esclude il diverso dalla comunità degli omogenei, non è il popolo democratico, che include in modo paritario singoli e gruppi in uno spazio politico giuridificato. La democrazia liberale e costituzionale moderna è rappresentativa e non identitaria, nel senso che – dal momento che la volontà “collettiva” o “generale” non esiste, né il popolo costituisce una realtà omogenea e indifferenziata – è necessario anzitutto che la volontà popolare si articoli nella pluralità dei punti di vista che esprimono contrasti di interesse effettivi e reali all’interno dell’istituzione, ossia il parlamento, che nel dialogo trova la sua ragion d’essere. E che perciò resiste a ogni tendenza monistica a rappresentare il soggetto sovrano in uno dei poteri previsti dalla Costituzione, come è stato a suo tempo il legislativo e come attualmente si vorrebbe che fosse l’esecutivo. Occorre inoltre che il potere costituente accetti di convertirsi in potere costituito, e che la legittimità assuma così il profilo della legalità. Ciò serve a evitare ogni potere assoluto, sia quello del popolo sia quello di colui che ritiene di esserne l’emanazione o l’incarnazione. Come diceva Kelsen, la democrazia è un regime senza capi, poiché i capi tendono a esaltare la loro eccezionalità e a proporsi quali diretti interpreti della volontà e degli interessi popolari.7 6. H. Hofmann, Rappresentanza-rappresentazione. Parola e concetto dall’antichità all’Ottocento (2003), Giuffrè, Milano 2007, p. 5. 7. H. Kelsen, “Essenza e valore della democrazia” (1929), in La democrazia, a cura di M. Barberis, il Mulino, Bologna 1998, p. 127 sgg.

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È per questo che la moderna democrazia liberale costituzionale si muove nella dimensione del limite, della garanzia, dell’equilibrio: tutto ciò serve a impedire che la legge si esprima come puro atto di volontà della maggioranza. L’idea stessa di una costituzione creata da un potere costituente, che promana dalla volontà di esistenza politica collettiva del popolo e che si oppone alla necessità di istituzionalizzarsi nei poteri costituiti, comporta la non troppo remota eventualità che quella costituzione possa avere un “padrone”, qualcuno che in nome di quella energia costituente possa aspirare a occupare l’intero spazio costituzionale e perciò a imporsi, di fatto come maggioranza politica, alla società nel suo insieme. Si tratta di una eventualità che riproduce la tentazione ricorrente all’origine di tutte le demagogie populiste e autoritarie, ossia la scelta di optare per il governo degli uomini, quando non per il governo di un uomo solo, in questo caso il capo della maggioranza, in alternativa al governo delle leggi, percepite come un semplice ostacolo al dominio del potere sovrano costituente. Nella formula contemporanea della democrazia costituzionale è infatti contenuta l’aspirazione a un corretto equilibrio tra il principio democratico, che trova espressione costituzionale negli istituti della democrazia politica, e l’idea di tradizione costituzionalistica dei “limiti” della politica, da fissare mediante i controlli di legalità e di legittimità. Come scriveva Norberto Bobbio, “l’ideale antico del governo delle leggi ha trovato nel costituzionalismo moderno la sua forma istituzionale, e in definitiva la sua attuazione in una serie di istituti, ai quali un moderno stato democratico non può rinunciare senza cadere in forme tradizionali di governo personale, di quel governo in cui l’individuo è al di sopra delle leggi, o, con le parole dei classici, il governo è padrone delle leggi anziché esserne il servitore”.8 Il che, di questi tempi, significa spingersi al di là della democrazia parlamentare verso un esecutivo forte e legittimato dal carisma e dal potere dell’Eletto, libero di perseguire secondo una discrezionalità sempre più apertamente ri8. N. Bobbio, “Il buongoverno” (1982), in Teoria generale della politica, a cura di M. Bovero, Einaudi, Torino 1999, p. 155.

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vendicata i propri interessi particolari eludendo e violando, quando non apertamente rifiutando, l’obbligo di agire in modo regolato verso la collettività appellandosi a una volontà che di “generale” non ha ormai più nulla. 3. Ne sono prova tangibile i tentativi sistematicamente reiterati di dare vita a un vero e proprio Corpus iuris ad personam, destinato sia a garantire l’immunità penale dell’Eletto, sia a legalizzare la con-fusione tra sfera pubblica e sfera privata, tra sovranità e proprietà, tra i poteri politico-istituzionali e i poteri economici. In generale, tra i fattori che contribuiscono a mettere in crisi la rappresentanza politica, i fenomeni di collusione o confusione tra rapporti pubblici e rapporti privati giocano un ruolo fondamentale. Nel caso italiano si aggiunge l’identificazione personale dei due poteri. Il cosiddetto “modello neopatrimoniale”9 non è certo applicabile al solo caso italiano, e tuttavia il nostro paese può essere considerato al riguardo una sorta di case study a causa del macroscopico e tuttora irrisolto conflitto di interessi che ha concentrato in una stessa persona poteri di governo, poteri economici e finanziari e poteri mediatici. Talmente macroscopico che forse, più che di conflitto di interessi, sarebbe opportuno parlare di un eccesso privato che dilaga nel pubblico e travolge o condiziona ogni ordine giuridico-istituzionale, in linea, del resto, con quella visione del corpo sociale, concepito come mera somma di privatezze, che aveva a suo tempo trovato espressione nello slogan secondo il quale “la società non esiste”. La perdita della distinzione tra pubblico e privato ha unito i due poli sino a confonderli, dando vita a un impasto quotidiano tra partito e azienda, amministrazione pubblica e affari privati, denaro e politica che piega la legislazione, il codice e persino la Costituzione a un uso privato destinato a favorire interessi particolari e ristrettissimi, e crea un circuito di tensione istituzionale permanente che intacca i principî costitutivi del sistema democratico. Que9. G. Roth, Potere personale e clientelismo (1987), Einaudi, Torino 1990; cfr. anche l’introduzione all’edizione italiana di P.P. Portinaro, “Personalismo senza carisma”.

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sto uso privato dello stato, dei pubblici servizi creati per la collettività, testimonia di un’anomala regressione premoderna allo stato patrimoniale, su cui pesano inoltre evidenti connotati populisti. E che sta cominciando a delineare un ibrido istituzionale che unisce i tratti premoderni del patrimonialismo con quelli moderni del populismo. Quando al bene privato vengono sacrificati rilevanti beni collettivi, si verifica un fenomeno politico che non è riconducibile alla tradizionale degenerazione del rapporto tra politica ed economia, ovvero alla subordinazione dell’interesse pubblico a singoli interessi privati. Non si tratta più, infatti, dei legami corruttivi e concussivi che rientrano tra le fattispecie del clientelismo o della subordinazione della politica a interessi occulti e inconfessabili, ma che conservano tra sfera pubblica e sfera privata un qualche rapporto di distinzione. Non che queste fattispecie siano venute meno, ovviamente, ma la novità del discorso pubblico che proviene dalla cultura politica di maggioranza nasce dal fatto che trasferisce direttamente in campo politico la logica privatistica degli interessi personali. Si tratta piuttosto della diretta gestione politica di alcuni interessi personali per il tramite di una concezione e di una modalità proprietaria prima del partito, poi della coalizione di maggioranza e infine del governo. Il risultato di questo intrico di prepotere pubblico e privato è la creazione di una sovranità ad personam insofferente di limiti e controlli, e che spiega la volontà di trasformare una Costituzione democratica in populismo istituzionalizzato, presentando come presidenzialismo una sorta di leaderismo titanico che considera il comando conquistato una volta per tutte, senza verifiche e senza contrappesi. La degenerazione della rappresentanza democratica sembra così prodursi per effetto di spinte apparentemente divergenti. Da un lato per effetto di una proiezione del sociale sul privato per il tramite di un’illusoria coincidenza tra rappresentati e rappresentante, e ciò nella figura concreta dell’Eletto, nel quale trova espressione organica e diretta una volontà popolare che in lui vede rappresentata se stessa. Dall’altro per effetto di una proiezione del privato sul politico, per il tramite di un dilagare di interessi privati che favoriscono l’abuso del potere pubblico e piegano l’opera54


to delle pubbliche autorità al particolare piuttosto che all’universale. Spinte che tuttavia convergono nelle conseguenze, poiché il degrado della rappresentanza nella rappresentazione deriva in un caso e nell’altro da una politica populista fatta di gesti, di scena, di proclami, che trasforma la biografia del leader nella moderna ideologia di un conformismo a sfondo carismatico cui riesce di tenere insieme culture politiche e interessi sociali tutt’altro che omogenei. Questa estrema personalizzazione della rappresentanza crea oltretutto un circolo vizioso, nel senso che il potere mediatico serve a guadagnare e incrementare quello stesso consenso elettorale che viene successivamente impugnato per delegittimare ogni iniziativa critica proveniente dalla magistratura o da altri organi non elettivi dello stato. I poteri privati – economici, mediatici e finanziari – che servono a cavalcare l’onda di consenso maggioritario che legittima la conquista delle istituzioni, e i poteri pubblici, riconcentrati e verticalizzati intorno alla subordinazione volontaria a un demiurgo il cui potere è sovraordinato a ogni altro potere, si saldano a formare un’alleanza tetragona a ogni critica. L’incrocio tra populismo e concentrazione dei poteri dà così forma a una vera e propria autocrazia elettorale su basi plebiscitarie basata sulla identificazione tra il Sé dell’Eletto e la totalità della nazione. Si tratta di un processo che dà avvio a una democrazia dell’identità e non della rappresentanza democratica: identità di stato e popolo, di governanti e governati, di legge e volontà popolare. La rappresentanza diviene rappresentazione, culminante nell’acclamatio della figura singolare ed empirica dell’Eletto, in cui il popolo trova espressione nella sua immanenza immediata. È evidente che una forma politica declinata in questi termini non conosce i “partigiani amici” di cui parlava Machiavelli, ma solo “partigiani nemici”, né conosce “valori” politici che non siano polemici ed escludenti, tali cioè da implicare eccezione e decisione. Il che spiega la sua difficoltà nel distinguere tra maggioranza e minoranza, come avviene in occasione delle elezioni, e tra vincitori e perdenti, come avviene in caso di guerra. In una certa parte della vita pubblica si tende così a riprodurre una sorta di conventio ad excludendum quale struttura politicamente ultima dell’ordine 55


politico concreto e a riprendere, in forma (per ora) depotenziata, la logica antagonistica della politica quale rapporto amico-nemico. Se infatti chi “rappresenta” ritiene di rappresentare il Tutto, l’eterogeneo che non si lascia rappresentare non può che essere il “partigiano nemico”, estraneo alla cittadinanza condivisa e contro il quale andrebbero applicate misure esecutive extragiuridiche. Nonostante i ripetuti proclami in senso contrario, l’omogeneità prevale sulla libertà, come l’ossessione securitaria lascia facilmente trasparire e con la quale si insegue il miraggio della sicurezza mentre in realtà, escludendo l’Altro dal Tutto mediante infinite decretazioni e legislazioni, si promuove una generalizzazione indifferenziata della figura del Nemico e si spargono i semi di una insicurezza controproducente rispetto ai fini che si dichiara di perseguire. Ciò spiega anche l’allarmante frequenza con cui si fa ricorso alla decretazione d’urgenza, versione “giuridicamente corretta” dello stato d’eccezione, la caratteristica fondamentale – secondo Carl Schmitt – della sovranità. Non si tratta di uno stato d’eccezione reale, ma di uno stato d’eccezione creato intenzionalmente per rendere indistinguibili i profili dei veri conflitti, delle effettive linee antagonistiche. Nella produzione costante di stati d’emergenza fittizi, e nella dissoluzione della distinzione norma-eccezione, ogni dissenso viene trasformato in potenziale terroristico, in un fattore che minaccia dall’interno il corpo sano dell’organismo sociale. Come si è parlato di “emergenza permanente” per imporre logiche autoritarie e depotenziare i diritti, così si è voluto definire la situazione attuale come uno “stato d’eccezione permanente”, in cui la sospensione dell’ordine giuridico per volontà del sovrano, da misura provvisoria e straordinaria imposta da uno stato di necessità, diviene una “normale” pratica di governo – oltre che una vera e propria contraddizione in termini, poiché un’eccezione permanente, se elevata a paradigma, non è più un’eccezione, e tende anzi a confondersi o a coincidere con la regola. 4. Un terzo fattore di affermazione della democrazia identitaria, che si attua a spese della democrazia della rappresentanza, è co56


stituito dalla crisi dei partiti politici, ossia degli strumenti che dovrebbero servire ad assicurare la presenza politica indiretta dei cittadini e ad articolare discorsivamente la volontà popolare, che le sedi democratiche istituzionali provvedono successivamente a filtrare per successivi gradi di astrazione fino alla loro elaborazione in sede parlamentare. In una democrazia non identitaria i partiti dovrebbero fare in modo che la rappresentanza, invece di esaurirsi all’interno delle istituzioni, operi anche in ambito extraistituzionale, dando espressione linguistica ai problemi sociali, articolando interessi e bisogni e influenzando in tal modo la formulazione dei progetti legislativi e degli indirizzi politici. Nella democrazia identitaria che sta cominciando a delinearsi le derive incarnate dai nuovi leader svuotano i partiti della loro stessa ragion d’essere: a che serve un modello processuale di formazione della volontà popolare, che definisca i problemi, formi in maniera discorsiva l’opinione e la volontà democratica, li affronti secondo un ordine oggettivo di priorità e li proponga all’implementazione legislativa in maniera razionale, quando la volontà popolare può parlare con una voce sola e questa voce si identifica con quella dell’Eletto? A che serve mantenere in vita, e soprattutto finanziare, istituzioni anfibie che nascono e vivono al di fuori dello stato, quando nell’Eletto il popolo è finalmente in grado di vedere rappresentato se stesso, dal momento che la Sua volontà è una sola con quella del suo popolo? La verticalizzazione e personalizzazione del potere trasforma così i partiti in orpelli inutili, o li rende, quanto meno, sempre più “liquidi” e carenti di apparati organizzativi. Ora, è certamente vero che i partiti sono l’aspetto più moderno, ma anche più controverso, del governo della società. E che sia la teoria democratica, sia la dottrina della statualità, hanno nutrito per i partiti una diffidenza costante. Mentre la teoria democratica ha visto nei gruppi, nelle sette o nelle fazioni l’espressione di interessi frazionari e di parte, la dottrina della statualità li ha considerati come una fonte di potenziale pericolo per il mantenimento e la stabilità dell’unità politica. Al che si è sempre potuto opporre, d’altro canto, il fatto che essi hanno invece favorito, nel primo caso, l’estensione dell’area della cittadinanza de57


mocratica e che, nel secondo, hanno fornito ripetute iniezioni di vitalità allo stato. Se guardiamo al nostro paese, il dibattito sul ruolo e la natura dei partiti politici sviluppatosi all’epoca della Costituente può essere considerato largamente rappresentativo di queste ambivalenze.10 Da un lato i costituenti considerano i partiti come un’opportunità per trasformare il parlamento liberale ottocentesco, che poteva farne a meno perché espressione di un corpo elettorale socialmente e culturalmente omogeneo, in un moderno parlamento democratico, nel quale essi vengono chiamati a rendere concreta la sovranità popolare nel senso poi richiamato nel primo articolo della Costituzione. Dall’altro li concepiscono come uno strumento per organizzare, politicizzare e disciplinare il disordine provocato dai conflitti di interesse che agitano la società e per fornire al legislatore una corrispondente base di legittimità. Detto in sintesi: nella fase di assestamento della democrazia, ai partiti spetta il compito di mediare tra il potere costituente, che si è espresso nella Resistenza, nella lotta antifascista e nella scelta repubblicana, e i poteri costituiti, garanti dell’unità politica e istituzionale. Per questo è ragionevole sostenere che, al di là della disciplina, sia questa di diritto privato come di diritto pubblico, i partiti sono, in forza dell’articolo 49 della Costituzione, “soggetti di diritto costituzionale”. Ciò spiega sia il carattere istituzionale, e non puramente societario, che i costituenti affidano ai partiti, sia i successivi fenomeni della degenerazione che poi si dirà “partitocratica”. Lo stato reso democratico dai partiti e poi divenuto stato sociale è stato infatti occupato dai partiti mediante pratiche lottizzatrici e spartitorie, dovute in larga parte alla necessità di soddisfare le esigenze di apparati sempre più ridondanti. Sino al crollo finale, quando i cittadini, la cui socializzazione politica si era formata passando per altri canali e sull’onda emotiva degli scandali provocati dal malaffare e da una corruzione divenuta ormai endemica, hanno avvertito l’esistenza dei partiti come un freno allo sviluppo e alla libertà e ne hanno decretato la quasi completa scomparsa. La breve sto10. M. Fioravanti, Costituzione e popolo sovrano, il Mulino, Bologna 1998.

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ria della cosiddetta Seconda repubblica è però lì a dimostrare che una politica senza partiti è in realtà populismo: la crisi della democrazia rappresentativa e parlamentare è in diretto rapporto con la crisi dei partiti. E in questo vuoto il solo modello che emerge e che sembra reggere è quello carismatico, il partito del leader che si alza, non solo simbolicamente, sul predellino, il partito che è proprietà o diretta emanazione di un potentato economico al servizio di interessi patrimoniali privati. Non solo: tutto ciò non ha affatto spinto i partiti a ridurre la loro presenza nelle istituzioni. Il distacco progressivo dei partiti dalla società civile – che li ha trasformati in macchine di caccia al voto intorno al nome di alcuni leader – non ne ha ridotto le pulsioni predatorie nei confronti della cosa pubblica, ma ha pressoché azzerato il loro ruolo di cerniera tra popolo e istituzioni. “Leggeri” nella società, ma “pesanti” nelle istituzioni, i partiti hanno perduto la capacità di essere elementi centrali nella produzione del consenso, di rappresentazione in parlamento della realtà del paese. Con la loro crisi viene così meno il principio dell’esistenza del popolo sovrano dentro i poteri costituiti, e anzitutto dentro il parlamento. Ciò spiega il ruolo sempre più significativo dell’attivismo civile, che serve a scuotere un’opinione pubblica attivamente depoliticizzata da chi controlla la fabbrica delle opinioni a servizio della maggioranza e a svolgere un ruolo di supplenza rispetto all’inerzia dei partiti che siedono in parlamento. Il che ha certo un significato positivo, in quanto rivela quale sia la ricchezza immaginativa di cui è capace la società civile, ma ne ha anche uno negativo, poiché sotto altri aspetti una politica senza partiti è in realtà una politica al servizio di coloro che invocano il partito dell’Eletto, un partito padronale che può permettersi una narrazione ideologica confusa, contraddittoria e approssimativa poiché la sua identità si riassume tutta nel nome del capo. Se la democrazia non vuole ridursi a rappresentazione senza rappresentanza, la narrazione dominante che vuole il partito-non partito andrebbe perciò contrastata anzitutto sul piano ideale, recuperando il modello costituzionale che ispira la nostra Costituzione e per il quale il popolo non è per sua natura sovrano, come 59


nella tradizione giacobina, ma lo diviene per il tramite dei partiti politici, che rispecchiano le linee di frattura che dividono il popolo, ma ne ricompongono l’unità nella sola sede opportuna, il parlamento. La democrazia rappresentativa non si fonda soltanto sull’aggregazione maggioritaria delle preferenze quantificata dal numero dei voti, ma anche su una forma articolata di presenza politica indiretta che crea giudizio pubblico, opinione informata, e che conta non meno del voto stesso. Come la storia di questi ultimi anni sembra avere illustrato a sufficienza, una società civile senza partiti equivale a una società di mercato solcata da disparità e diseguaglianze sempre più accentuate, mentre una politica senza partiti equivale a populismo, alla transustanziazione del Popolo nella riproduzione visiva di un essere superiore, l’Eletto. Il reale e il rappresentato coincidono nella rappresentazione. Il che non è solo la fine della democrazia rappresentativa, ma anche – forse – della politica come tale: non occorre tirare in ballo l’utopia per ricordare che la politica si alimenta precisamente della non-coincidenza tra essere e dover essere, tra realtà fattuale e realtà ideale, e che la ricomposizione, inevitabilmente autoritaria, di questo scarto segna il declino della politica così come l’abbiamo conosciuta. E a cui subentra una politica condotta in nome di un cesarismo democratico che chiede al popolo di optare per la subordinazione volontaria all’Eletto, sulla scia di un autoritarismo popolare che, anche senza rievocare gli spettri del fascismo, appare comunque eversivo rispetto alla eredità istituzionale che lo ha proiettato in sede di governo e che si scontra con quell’idea di democrazia che dovrebbe essere costituente dell’identità civile del nostro paese.

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Il fascismo del manager MASSIMILIANO NICOLI

A noi non basta l’obbedienza negativa, né la più abietta delle sottomissioni. Allorché tu ti arrenderai a noi, da ultimo, sarà di tua spontanea volontà. George Orwell, 1984

Premessa Questo intervento (breve e sincopato – avverto subito il lettore) ammette come ipotesi che esista un elemento di fascismo che circola oggi nei luoghi di lavoro. Ipotesi difficile da confermare – sembrerebbe – in tempi in cui la valorizzazione del fattore “umano” è uno dei ritornelli delle teorie e delle pratiche concernenti l’economia aziendale e l’organizzazione di impresa. “Umane” sono le risorse, “umano” è il capitale. Di più, il lavoratore è una “persona” il cui “sviluppo” è decisivo per il successo dell’impresa. Le organizzazioni appiattiscono le proprie gerarchie, le relazioni di lavoro si fanno sempre più informali, il clima è friendly. Il capo è un leader, il manager è un coach che aiuta le persone a esprimere pienamente il proprio “potenziale”. L’impresa ha una mission e una responsabilità sociale, una vision e una carta etica. In libreria, i bestseller manageriali sono esposti accanto ai libri di psicologia e pedagogia, e i corsi universitari di gestione delle risorse umane popolano le facoltà di scienze della formazione. Persino la filosofia, in forma di consulenza, fa capolino nelle stanze del business. A cercare orbace e manganello – o almeno lo sguardo torvo di un capo autoritario à la Valletta – nei luoghi di lavoro, oggi, si finisce per trovare un pullover molto casual e delle slides di Powerpoint. E un team leader sorridente che ti regala un feedback sulla tua performance. Eppure, molto recentemente, dei collegamenti analogici sono stati fatti – e non senza ragioni – fra il lavoro sotto il comando del Duce e il lavoro senza padre né padrone – così parrebbe – di og-

aut aut, 350, 2011, 61-76

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gi. Per esempio, la recente vicenda dell’accordo imposto dall’amministratore delegato della Fiat Sergio Marchionne ai lavoratori delle carrozzerie di Mirafiori ha suscitato commenti in cui è stato esplicitamente evocato lo spettro del fascismo: un accordo che interviene in maniera pesantemente peggiorativa sulle condizioni di lavoro e contemporaneamente esclude dalla rappresentanza sindacale le organizzazioni che non lo firmano è una chiara manifestazione di “fascismo aziendale”. Tanto più che il cosiddetto accordo viene “presentato” sotto forma di ricatto (travestito da referendum): o si dice di sì alle condizioni dettate dall’azienda o la dura lotta per la sopravvivenza nel mercato globalizzato costringerà il management a trasferire altrove la produzione. Secondo Giorgio Cremaschi – dirigente dell’unica sigla sindacale che ha rifiutato di firmare l’accordo, la Fiom –, gli eventi di Mirafiori (e prima ancora di Pomigliano) non trovano alcun precedente storico che li eguagli per gravità, a meno di risalire fino all’accordo del 2 ottobre 1925 sottoscritto a Palazzo Vidoni da Mussolini, padronato industriale e sindacati fascisti e corporativi.1 Quell’accordo sanciva la fine delle commissioni interne aziendali elette dai lavoratori e il passaggio al regime dei fiduciari nominati dai sindacati firmatari. Ieri come oggi: fine della democrazia in fabbrica e rappresentanza concessa ai soli sindacati collaborativi. Facendo un passo indietro rispetto alla stringente attualità – mentre scrivo – dell’affaire Mirafiori, si può richiamare il discorso tenuto dallo stesso Marchionne al meeting di Comunione e Liberazione a Rimini, il 26 agosto 2010. L’amministratore delegato della Fiat parla al meeting poco dopo la sentenza del Tribunale di Melfi che imponeva all’azienda il reintegro di tre operai dello stabilimento lucano licenziati per “sabotaggio”. L’azienda aveva dato seguito alla sentenza reintegrando gli operai ma confinandoli in una “saletta sindacale”, per consentire loro – secondo i termini di legge – di godere dei diritti sindacali, ma non di riprendere il lavoro. A Rimini, in più di un passo del suo discorso, Marchionne inter1. G. Cremaschi, Sì, quello di Marchionne è fascismo aziendale, intervento sul sito web di “MicroMega”, 10 gennaio 2011, <http://temi.repubblica.it/micromega-online/cremaschisi-quello-di-marchionne-e-fascismo-aziendale>.

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viene in merito alle polemiche che quella decisione aziendale aveva suscitato, stigmatizzando i tre operai, e la Fiom che li sosteneva, in quanto rappresentanti di un modello ideologico che blocca lo sviluppo dell’azienda e del paese intero: “Non è possibile gettare le basi del domani continuando a pensare che ci sia una lotta tra capitale e lavoro, tra padroni e operai. Se l’Italia non riesce ad abbandonare questo modello di pensiero, non risolveremo mai niente”. E poco più avanti: “Quello di cui ora c’è bisogno è un grande sforzo collettivo, una specie di patto sociale per condividere gli impegni, le responsabilità e i sacrifici e per dare al paese la possibilità di andare avanti”.2 Niente di nuovo sotto il cielo dell’impresa, visto che le parole del “manager dei due mondi” rievocano – ricorda Vladimiro Giacché – il patto di Palazzo Chigi stipulato fra Confindustria e Confederazione generale delle corporazioni fasciste il 21 dicembre 1923, che sanciva “il principio che l’organizzazione sindacale non deve basarsi sul criterio dell’irriducibile contrasto di interessi tra industriale e operai, ma ispirarsi alla necessità di stringere sempre più cordiali rapporti tra i singoli datori di lavoro e i lavoratori, e fra le loro organizzazioni sindacali”.3 Si potrebbe continuare mettendo a confronto la linea di continuità che univa regime fascista e organizzazione taylorfordista del lavoro nell’idea di costituire una “élite manageriale scientifica” in grado di controllare e superare la lotta di classe,4 con la contiguità politico-culturale che avvicina Berlusconi e Marchionne in nome della gestione manageriale della cosa pubblica: laddove il manager subordina gli investimenti in Italia alla “governabilità” degli stabilimenti e alla flessibilità del lavoro, il capo del governo risponde promettendo la modifica in senso ultraliberista dell’articolo 41 della Costituzione.5 2. Il testo del discorso di Marchionne, inclusivo delle slides proiettate, è scaricabile in formato pdf dal sito del “Sole-24 ore”, <http://www.ilsole24ore.com>. 3. V. Giacché, Così parlò Marchionne, “alfabeta2”, 3, 2010. 4. Cfr. G. Maifreda, La disciplina del lavoro. Operai, macchine e fabbriche nella storia italiana, Bruno Mondadori, Milano 2007, pp. 186-189. 5. L’articolo 41 recita: “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica

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Detto questo, non è sul piano delle analogie con il fascismo storico che intendo discutere l’ipotesi che ho posto qui in premessa, quanto sul piano della differenza specifica del capitalismo cosiddetto postfordista e, soprattutto, delle relative tecniche di regolazione e controllo del lavoro. Un fascismo, quello del manager, a cui, se rivolgo lo sguardo a Pasolini, non esito ad aggiungere l’attributo “nuovo”. Un nuovo fascismo, allora, i cui sintomi si leggono, oltre che nelle parole e nelle pratiche di una figura manageriale estremamente significativa come quella di Sergio Marchionne, nel ruolo di dominio che la forma-impresa esercita a livello politico ed economico, e finanche nell’ambito dei modi di essere e di pensare, del modo di costituzione, cioè, della nostra soggettività. La cifra di questo dominio è l’annientamento del conflitto e dell’antagonismo nei luoghi di lavoro: sforzo antico quanto il capitalismo. La novità, quella differenza specifica del capitale postfordista in cui abita lo spettro del fascismo, sta nella tecnologia di potere – mai così efficace e pervasiva – attraverso la quale il sogno padronale di un capitale senza lavoro si sta (quasi) realizzando. Corpo Il proposito di narcotizzare il conflitto nella produzione capitalista non è certo farina del sacco dei nouveaux managers come Marchionne. Basta scorrere l’Organizzazione scientifica del lavoro di Frederick Winslow Taylor6 o l’autobiografia di Henry Ford7 per vedere quanto la “cordiale collaborazione” fra capi e sottoposti sia sempre stata l’obiettivo dichiarato del management d’impresa, fin dalla sua aurora: da lì in poi si potrà leggere la storia delle teorie e delle pratiche di organizzazione aziendale come l’incessante tentativo di fissare, una volta per tutte, le relazioni di potere nei luoghi di lavoro a vantaggio del capitale. pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”. Questa la proposta di modifica approvata dal Consiglio dei ministri il 9 febbraio 2011: “L’iniziativa economica è libera, ed è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge”. 6. F.W. Taylor, L’organizzazione scientifica del lavoro (1947), Etas, Milano 2004. 7. H. Ford, La mia vita e la mia opera (1922), Apollo, Bologna 1925.

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Del resto, già nel contratto di compravendita della forza-lavoro è contenuto il rapporto di forza, il terreno della contrapposizione e della lotta. All’atto della stipula del contratto, il valore d’uso della forza-lavoro – per usare un linguaggio alquanto démodé – non passa immediatamente nelle mani del compratore; esso non è oggettivamente contenuto nella merce forza-lavoro, “ma viene soltanto dopo, come soggettiva estrinsecazione di una possibilità, di una capacità, di una potenzialità”.8 Il management deve disporre le condizioni affinché quel valore d’uso sia consumato aggiungendo valore, producendo plusvalore. “La forza-lavoro dunque non è soltanto lavoro in potenza, è anche capitale in potenza”,9 che passa all’atto nella valorizzazione capitalistica solamente a patto che quella soggettiva possibilità che è il valore d’uso della forza-lavoro si estrinsechi e si oggettivi nella produzione. Questo passaggio dalla potenza all’atto è il terreno irriducibile della contrapposizione, in cui si gioca la valorizzazione del capitale e lo sfruttamento del lavoro, ed è su questo passaggio che si situano le tecniche manageriali di assoggettamento così come le pratiche di resistenza e insubordinazione del lavoro. Nell’organizzazione taylorfordista, che informa la produzione capitalista su scala planetaria per quasi un secolo, le condizioni che il management dispone per consumare il valore d’uso della forza-lavoro ruotano attorno all’organizzazione scientifica della disciplina di fabbrica. Non è difficile riconoscere nel paradigma produttivo taylorfordista gli schemi disciplinari descritti da Michel Foucault in Sorvegliare e punire:10 la scomposizione microanalitica del lavoro nelle sue operazioni elementari, il controllo cronometrico del gesto, l’utilizzo esaustivo del tempo, la sorveglianza panottica che corre lungo tutta la linea del processo produttivo, la formazione di un sapere scientifico e, come tale, super partes (l’organizzazione scientifica del lavoro) che concerne il processo produttivo e le caratteristiche dei corpi che in esso si devono incastrare. A ciò si aggiunge una produzione discorsiva che si ap8. M. Tronti, Operai e capitale, DeriveApprodi, Roma 20062, p. 163. 9. Ivi, p. 164. 10. M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione (1975), Einaudi, Torino 1993.

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punta sulla soggettività del lavoro e spinge il proprio effetto di potere verso la sorgente dell’antagonismo, verso la “volontà” del lavoratore che attualizza il valore d’uso della forza-lavoro, reclamando la sua partecipazione e la sua complicità, chiedendogli di divenire capitale in atto: nascita delle psico-pedagogie del lavoro e prima apparizione sulla scena produttiva del fattore “umano” come oggetto di studio e bersaglio di un potere. Tuttavia, l’organizzazione taylorfordista non riesce a ridurre alla docilità quella “mano ribelle” del lavoro di cui parlava Marx nel primo libro del Capitale. Il tentativo di assorbire, addomesticandola, la soggettività del lavoratore si infrange contro la materialità della coercizione disciplinare. Il corpo resiste. Il tentativo manageriale di formare l’anima passando per il dressage dei corpi fallisce. L’architettura disciplinare taylorfordista è fratturata dalla separazione fra tempo di lavoro e tempo di non lavoro, ovvero tempo dell’alienazione e tempo della libertà. È la stessa pratica disciplinare a tenere separati, nella materialità del processo produttivo, lavoro e vita, e questa separazione si incarna: il corpo che lavora – uniformato, meccanizzato e assoggettato nella linea di produzione – e il corpo che si stacca dalla linea e vive il “fuori” della produzione. Ai tòpoi della fatica si contrappongono i luoghi della residenza, della socialità, delle forme di esistenza estranee alle logiche aziendali, fra le quali, per esempio, la militanza. Il capitale non sussume la vita nella sua interezza, e permane un “resto” di tempo vitale che sfugge alla presa del potere disciplinare. Alla temporalità brutale e feroce della linea di produzione si contrappone, come fratello e nemico irriducibile, il tempo di un’altra soggettivazione che può farsi pratica conflittuale, di lotta. Nonostante il suo impiego esaustivo, fino all’ultimo istante, resta del tempo nell’organizzazione scientifica della disciplina, resta il tempo per ribellarsi. È sul piano della materialità scandalosa del lavoro di fabbrica che risiede la vulnerabilità del capitalismo taylorfordista ed è lì che viene regolarmente attaccato. Il gioco fra “dentro” e “fuori” che la disciplina stabilisce nel momento stesso in cui si insedia al cuore dell’organizzazione del lavoro alimenta l’antagonismo che si fa beffe della “cordiale collaborazione” del catechismo mana66


geriale. Quel “fuori”, infatti, entra nella fabbrica e spesso, troppo spesso, la sconquassa. Anima, ovvero la rimozione del corpo Sul piano del controllo della forza-lavoro, il problema del capitale dopo il ciclo di lotte degli anni sessanta e settanta può essere condensato nella seguente domanda: come colonizzare la soggettività del lavoratore – come foggiarne l’anima – senza passare per la disciplina del corpo? La risposta è semplice e arcinota: il lavoro deve farsi sempre più immateriale. L’impresa deve liquefarsi, o diventare un gas, darsi un’anima – direbbe Deleuze11 –, assumere la consistenza impalpabile dello spirito. Almeno tre fattori intervengono per sollecitare e favorire la conversione immateriale dell’impresa: l’egemonia del neoliberalismo in ambito politico, la globalizzazione dei mercati in ambito economico, e il successo dei modelli giapponesi di organizzazione industriale per quanto riguarda lo specifico delle teorie e delle pratiche manageriali. È dal lavoro metalmeccanico (ancora una volta dal settore automobilistico: dopo Ford, la Toyota) che parte la svolta immateriale del capitalismo postfordista, da dentro il fuoco del lavoro materiale, quindi. La fabbrica snella giapponese, capace di contrarsi ed espandersi in tempi rapidissimi, di sintonizzarsi sulle volubili frequenze del mercato globale modulando senza tregua la produzione in base alle oscillazioni della domanda è il modello vincente da esportare e concettualizzare in Occidente. È un modello flessibile, e “flessibilità” è l’imperativo categorico del postfordismo, il mantra che percorre incessantemente, oltre che il discorso manageriale, quello economico e politico: flessibilità dei processi, flessibilità del lavoro. Sfortunatamente è anche un modello fragile, vulnerabile: per funzionare ha bisogno del massimo grado di partecipazione e collaborazione della forza-lavoro,12 e ciò rilancia il 11. Cfr. G. Deleuze, “Poscritto sulle società di controllo”, in Pourparler (1990), Quodlibet, Macerata 2000, p. 236. 12. Cfr. M. Revelli, “Introduzione”, in T. Ohno, Lo spirito Toyota (1978), Einaudi, Torino 2004; G. Della Rocca, V. Fortunato, Lavoro e organizzazione. Dalla fabbrica alla società postmoderna, Laterza, Roma-Bari 2006; G. Bonazzi, Storia del pensiero organizzativo, vol. 1. La questione industriale, Franco Angeli, Milano 2007.

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problema dell’efficacia del controllo manageriale; ne fa, per il capitale, una questione di vita o di morte. In passato, l’impresa prevaleva, sì, nel rapporto di forza, ma al prezzo di una dura lotta che lasciava sul suo campo più di qualche ferito (ciò che per i lavoratori, sul fronte opposto, costituiva un diritto). Ora l’impresa è condannata a realizzare il suo eterno sogno, il sogno (fascista) dello stato di dominio, a partire dall’occupazione della spontanea volontà del lavoratore. E siccome la via di accesso a quella volontà deve aggirare il corpo per attingere direttamente al non-luogo dell’anima, laddove di anima ce n’è poca, come nel lavoro materiale di fabbrica, si tratterà di produrla. Tanto per cominciare, si squalifica la materialità del lavoro avvolgendolo nella pellicola immateriale della “qualità”, del “miglioramento continuo”, della “comunicazione” e del “lavoro di squadra”, del “problem solving”, dell’“orientamento al risultato” e della “formazione permanente”. Si coinvolgono le popolazioni operaie in interventi formativi non solo addestrativi ma centrati piuttosto sulle dimensioni del “saper essere”, delle capacità relazionali, delle abilità organizzative, dell’“orgoglio del fare bene”, dell’“attenzione al cliente”, della “responsabilità” e dell’“interfunzionalità”.13 Mossa astuta: sembrerà a tutti che, finalmente, la brutalità disumana della disciplina taylorfordista abbia ceduto il passo a un arricchimento del lavoro di contenuti intellettuali e creativi, proprio ciò che la disciplina aveva prosciugato. Sembrerà quasi che gli operai non esistano più. Poi si costruisce una “cultura” aziendale integrata, collaborativa e a-conflittuale, fatta di mission e vision codificate in linguaggi dal registro profetico e suggestivo, per fare appello all’emotività, alla sfera intangibile dei valori, del sogno, delle immagini associate al marchio aziendale o alla merce prodotta. I manager, insieme a fitte schiere di consulenti delle più diverse specie, danno vita a sistemi cultural-aziendali di significati condivisi, di valori, 13. Cfr. L. Queirolo Palmas, Le fabbriche della formazione. Un’indagine sulla produzione delle risorse umane nella grande impresa industriale, L’Harmattan Italia, Torino 1996; A. Vitale, La talpa nel prato verde. Soggettività al lavoro alla Fiat di Melfi, Rubbettino, Soveria Mannelli (Cz) 2001.

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credenze, linguaggi, norme, cerimonie, narrazioni, finanche leggende e miti relativi agli “eroi aziendali”, presentandosi sempre più come “agenti del cambiamento” cui è demandato il compito di produrre nuove forme di “coscienza” e “filosofia” aziendali.14 L’impresa procede alla costruzione della propria “immagine organizzativa”, della propria anima bella, con la Corporate Social Responsibility o responsabilità sociale di impresa, insieme alla stesura delle carte etiche, per soddisfare tutti gli stakeholder, per mostrare che, anche se i capitali viaggiano come flussi luminosi da un continente all’altro, l’azienda si preoccupa dell’agio delle comunità locali in cui si insedia o solamente sosta. Il totem del capo autoritario, del tecnico che manovra un sapere organizzativo di ordine ingegneristico e gestionale, viene abbattuto e sostituito con la figura del leader carismatico, colui che accoppia savoir-faire tecnico-specialistico e virtù etica e politica, capitano coraggioso che fonda il proprio ruolo sulla capacità visionaria e profetica di intuire le mosse enigmatiche del mercato. Il manager insegna, delega potere (si chiama empowerment),15 disegna i contorni del destino dell’azienda, accede ai segreti profondi dell’economia globalizzata: ecco un nuovo funzionario della Verità. In più, aiuta i collaboratori a dare il meglio di sé, a cambiare se stessi, ad aumentare l’autostima, a “massimizzare” la performance: è un maieuta, uno psicologo, un allenatore. L’effetto atteso e prodotto da questi dispositivi manageriali prende il nome, nell’ambito del management delle risorse umane, di “contratto psicologico”. Il contratto giuridico contiene il rapporto di forza: non garantisce di per sé “quegli atteggiamenti di lealtà, flessibilità, orientamento al risultato”16 vitali per l’organizzazione postfordista. Serve un supplemento d’anima che rinforzi il vincolo con l’impresa, mentre il rapporto materiale di lavoro – in nome 14. Cfr. G. Morgan, Images. Le metafore dell’organizzazione (1997), Franco Angeli, Milano 2002, pp. 161-203. 15. Cfr. C. Piccardo, Empowerment. Strategie di sviluppo organizzativo centrate sulla persona, Raffaello Cortina, Milano 1995. 16. G. Costa, M. Gianecchini, Risorse umane. Persone, relazioni e valore, McGraw-Hill, Milano 2005.

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della flessibilità – si snellisce fino al limite dell’evaporazione. Il contratto psicologico attiene “al grado di implicazione emotiva che la persona stabilisce con l’organizzazione e i suoi membri”17 e passa per la stimolazione del “commitment”18 e della “identificazione organizzativa”:19 sovrapposizione e coincidenza del sé del lavoratore con il sé dell’azienda, “attaccamento emozionale”. L’impresa come oggetto d’amore, bersaglio del desiderio. Contemporaneamente, i saperi psico-pedagogici sulla soggettività del lavoratore proliferano nelle organizzazioni aziendali in una dispersione di declinazioni e consulenze, facendo dell’impresa il luogo dello sviluppo personale e della realizzazione di sé, la scena in cui la ricerca di “benessere” e “autenticità” degli individui converge con l’istanza aziendale di efficacia e performance. Le psico-tecniche manageriali postulano una struttura psichica monistica, compatta e a-conflittuale. Ogni disagio o difficoltà psicologica è spiegata in termini di pattern di comportamenti appresi che l’individuo, attraverso “pacchetti” di tecniche specifiche, semplici ed efficaci, è in grado di disapprendere e riprogrammare. Il sé è sempre accessibile, la sua performatività migliorabile, i suoi confini estensibili, secondo la tendenza naturale dell’essere umano a realizzarsi, superarsi, e ad attualizzare le sue potenzialità: la soggettività come oggetto di gestione manageriale.20 17. Ivi, p. 32 (corsivo mio). 18. Con commitment si intende il coinvolgimento emotivo, l’impegno affettivo, l’orientamento positivo e “proattivo” nei confronti dell’impresa che porta l’individuo ad agire nell’organizzazione anche indipendentemente dai “vantaggi estrinseci” che potrà ricavare dai suoi comportamenti, o persino in contrasto con i suoi stessi interessi personali. Cfr. ivi, p. 206. 19. L’identificazione organizzativa è considerata un fenomeno cognitivo che ha decisive implicazioni emotive. È un fenomeno cognitivo nel senso che “le persone producono la loro identificazione con un’organizzazione attraverso la riconciliazione delle somiglianze e delle differenze tra il proprio schema di sé e lo schema che hanno dell’organizzazione in cui lavorano”: è un fenomeno di sovrapposizione fra identità individuale e identità dell’organizzazione. L’implicazione emotiva che ne deriva è l’“attaccamento emozionale” all’azienda, un “obbligo morale a restare con l’organizzazione e a contribuirvi”, una tendenza a vivere i successi o i fallimenti organizzativi come propri, al punto che il distacco dall’organizzazione comporta necessariamente una qualche “perdita psichica”. M. Bergami, L’identificazione con l’impresa. Comportamenti individuali e processi organizzativi, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1996. 20. Cfr. V. Brunel, Les managers de l’âme. Le développement personnel en entreprise, nouvelle pratique de pouvoir?, La Découverte, Paris 2004; L. Bazzicalupo, Soggetti al lavoro, in L. Demichelis, G. Leghissa (a cura di), Biopolitiche del lavoro, Mimesis, Milano-Udine 2008.

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Del resto, il neoliberalismo è la cornice economica e politica in cui si dispiega il dominio della forma-impresa, e il fulcro teorico della razionalità di governo neoliberale è la nozione di “capitale umano” (Foucault docet). L’introduzione di questa nozione, a partire dall’ordoliberalismo tedesco e dal neoliberalismo americano, segna una “mutazione epistemologica” che cambia l’oggetto dell’analisi economica, e una penetrazione di quest’ultima in un ambito prima considerato non economico: il soggetto-lavoratore come portatore di un capitale individuale (fattori fisici e psicologici, attitudini, competenze, carattere, cultura ecc.) di cui il reddito costituisce la valorizzazione, mentre la formazione continua, l’ampliamento delle competenze e il continuo superamento di sé rappresentano l’investimento e il rischio d’impresa.21 Il lavoratore diviene un’impresa in sé in una società di unità-imprese, una società in cui il modello manageriale penetra nelle trame più minute, fin dentro il cuore della soggettività, nel foro interiore del rapporto di sé con sé, per fabbricare ciò che è stato definito “enterprising subject”,22 “sujet entrepreneurial”:23 il soggetto come costruzione imprenditoriale di sé sotto il comando del capitale. Con il management dell’anima sfuma la separazione fra lavoro e non lavoro, la linea di demarcazione fra dentro e fuori dell’impresa, al punto che persino i processi di soggettivazione saltano dentro il circuito della valorizzazione capitalistica. I dispositivi aziendali di gestione delle risorse umane modellano l’anima del lavoratore a immagine e somiglianza dell’impresa e delle sue figure immateriali. Se, diceva Althusser, l’ideologia interpella gli individui come soggetti, allora la tecnologia di potere manageriale li interpella come capitale. La “mutazione antropologica” del lavoro procede in progressione geometrica, e tutto ciò che tradizionalmente stava fuori dal “piano del capitale”, rappresentandone il limite e la minaccia, è ora assediato dalla spinta omologante del21. Cfr. M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France 1978-1979 (2004), Feltrinelli, Milano 2005, lezione del 14 marzo 1979, pp. 176-193. 22. Cfr. P. Du Gay, Consumption and Identity at Work, Sage, London 1996. 23. Cfr. P. Dardot, C. Laval, La nouvelle raison du monde. Essai sur la société néolibérale, La Découverte, Paris 2009.

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l’impresa. Nel modello di soggetto pieno, lucido, performativo, concorrenziale e competitivo cui i lavoratori (precari e ricattati) sono chiamati a coincidere non c’è spazio per l’antagonismo o per il conflitto, se non per quello che li pone l’uno contro l’altro. A questa altezza si colloca oggi il gesto fascista dell’impresa. Il problema è capire qual è il terreno della resistenza. Il ritorno del rimosso Nelle righe precedenti mi sono dimenticato di Sergio Marchionne, che avevo ampiamente citato in premessa. Poco male, è solo uno dei tanti significanti del discorso manageriale contemporaneo. Eppure è uno dei personaggi più emblematici, un protagonista politico della nostra attualità e, soprattutto, l’episodio del ritorno del rimosso che vorrei citare si verifica proprio nei suo paraggi – come dire, a casa sua. Allora voglio riprendere le sue parole prima di proseguire e concludere. Il discorso di Rimini è un eccellente condensato del linguaggio manageriale contemporaneo, dei suoi temi organizzativi, dei suoi effetti di potere (a partire dal titolo: “Saper scegliere la strada”). Marchionne si rivolge in particolare ai giovani e si presenta come un uomo che parlerà in modo “chiaro” e “diretto”, senza presunzione, senza formalismi, rifiutando il ruolo del “professore”, dell’“economista” o del “politico” e assumendo la più modesta posizione – dice – dell’“uomo di industria”. “Cambiamento” è la parola che ricorre più frequentemente nel suo discorso, praticamente in ogni passaggio. Occorre avere il “coraggio” e la “determinazione” di intraprendere i cambiamenti necessari per “stare al passo con la realtà”. Una realtà che coincide con il mondo globalizzato, “complesso” e “caotico”, in cui i problemi da affrontare “cambiano ogni giorno”. La continua variabilità, l’incessante “fermento” dell’ambiente e del mercato in cui viviamo richiedono una grande capacità di risposta, movimento, decisione – la capacità di adattarsi in “tempi brevissimi”, in “tempo reale” ai “movimenti dei mercati” –, e impongono “al sistema una flessibilità enorme”. Occorre tenere “un ritmo molto più veloce rispetto alla concorrenza” per superare le “sfide” poste dalla globalizzazione: il rit72


mo, la rapidità sono ciò che “fa la differenza tra vincere e soccombere”. Mantra della flessibilità. Se l’impresa deve palpitare in sincrono con i mercati, il paese deve vibrare in concerto con l’impresa, trasformarsi insieme a essa. Nel discorso di Marchionne, l’Italia corre i medesimi rischi, soffre degli stessi mali che affliggevano la Fiat prima della cura manageriale: la resistenza al cambiamento, l’immobilità, l’insufficiente spinta a “competere” e a “confrontarsi con il resto del mondo”. “Fabbrica Italia” è il nome del progetto industriale di Marchionne, e ciò che il paese deve fare per allinearsi con l’impresa – pena il decollo dell’azienda verso altri lidi – è “riconoscere la necessità di cambiare”, “aggiornare un sistema che garantisca alla Fiat di continuare a competere”, liquidare i “vecchi schemi”, i modelli che si ostinano “a proteggere il passato”, e volgere finalmente lo sguardo verso “nuovi orizzonti”. La visione del futuro è preclusa se non si libera l’occhio, una volta per tutte, dalla “lente deformata del conflitto”. Costruiscono un dominio e lo chiamano pace. La fusione fra Fiat e Chrysler è “un’integrazione culturale basata sul rispetto e sull’umiltà; un’integrazione che è una straordinaria fonte di ricchezza umana”. La mission dell’azienda, fin dall’antichità dei suoi natali, non ha tanto a che fare con la prosaica sfera della generazione di profitti e dividendi quanto piuttosto con la dimensione del “sogno”, nella fattispecie quello di “favorire la mobilità e la libertà delle persone”. I presupposti di “Fabbrica Italia” sono i valori che fondano l’agire manageriale: “correttezza”, “integrità”, “etica del business”. “Nobili intenzioni” animano il progetto aziendale e disegnano la “visione” che il manager deve tradurre in realtà. Il “segreto” della Fiat è la “forte carica di valori” delle persone che la compongono, il loro “senso di responsabilità”, il fatto di essere un’azienda fatta di “uomini e donne di virtù”. E via con le citazioni di scrittori e filosofi attraverso le quali Marchionne esibisce, arricchendoli con un surplus di colto umanismo, tratti della propria biografia e della cultura aziendale. “Viaggiare è una brutalità”, diceva Pavese, ma è necessario sottoporsi al cambiamento del viaggio per crescere in fretta, aggiunge Mar73


chionne. La necessità di adeguarsi con “coraggio” e “libertà” a “un mondo che cambia alla velocità della luce” è sostenuta parafrasando Hegel: “La conoscenza è come la nottola di Minerva. Arriva a cose fatte, quando la realtà è già passata”. Il discorso riminese si chiude con Machiavelli e la funzione pedagogica dell’uomo dalla virtù esemplare, quello che agisce con “decisione” e con “coraggio”, che non si tira indietro quando “si tratta di dare il buon esempio”. Cultura, valori, virtù. Marchionne insegna come stare al mondo: è una questione di superiorità morale e di accesso alla verità della globalizzazione. Ecce manager. Questa è la Weltanschauung manageriale ampiamente condivisa da tutti i “decisori politici”. Il mercato è il “luogo di veridizione” delle pratiche di governo,24 e il “manager globale” – che il mercato lo conosce bene – occupa il posto della Verità. Così, quando Marchionne sottopone il suo piano autoritario al referendum dei lavoratori, prima a Pomigliano, poi a Mirafiori, si aspetta un plebiscito. Glielo annunciano il governo, Confindustria, la “babele del Pd”, “l’entusiasmo di Cisl e Uil e le deboli reazioni della Cgil”,25 la solitudine della Fiom, glielo annuncia l’adesione acritica dei “liberi pensatori”, il consesso politico, economico, culturale e giornalistico che converge sul diktat aziendale in nome della metafisica della globalizzazione. Il ricatto di Marchionne, il suo scatto autoritario, è realmente comprensibile – a livello strategico – solo considerando il fatto che si innesta su un corpo sociale già accuratamente sterilizzato dalle infezioni dell’antagonismo. Si tratta di ridurre al silenzio, con un gesto di forza, gli ultimi rottami del passato, le sopravvivenze marginali del conflitto. Mutazione antropologica (postfordista) del lavoro e violenza autoritaria (se vogliamo, prefordista) per stroncare i resti di quella mutazione. Ecco il fascismo del manager. Ma una “minoranza profonda”26 a Pomigliano e una quasi maggioranza alle carrozzerie di Mirafiori qualche mese dopo urlano il proprio no. Chi sono? Sono gli ope24. M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France 1978-1979, cit., p. 40. 25. Centro per la Riforma dello Stato (a cura di), Nuova Panda schiavi in mano. La strategia Fiat di distruzione della forza operaia, DeriveApprodi, Roma 2011, p. 21. 26. Ivi, p. 28.

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rai inchiodati al proprio corpo stravolto dalla materialità insopprimibile del lavoro di fabbrica. Sono quelli che hanno lottato nel 2004 contro la metrica Tmc-2 e ora subiscono l’introduzione del World Class Manufacturing.27 Quelli che hanno vissuto l’intensificazione del lavoro, la nuova turnistica, la riduzione delle pause e l’aumento degli straordinari, l’accelerazione dei ritmi, la brutalità e l’assurdità del lavoro in linea di produzione. Quelli che già nello stabilimento Fiat-Sata di Melfi (la via italiana al toyotismo) avevano incorporato lo scarto fra i dogmi postfordisti della motivazione, della qualità, della cooperazione, della realizzazione di sé, da una parte, e dall’altra, la frustrazione, l’indifferenza, la fatica, la serialità del lavoro materiale di fabbrica, per di più impoverito e squalificato – lavoro che, sotto Taylor, Ford, Ohno,28 Romiti o Marchionne, asservimento feroce dei corpi era, e tale rimane. Il corpo antagonista del lavoro è ritornato sulla scena per annunciare un rifiuto senza condizioni. Le braccia si incrociano, poi la mano scrive “no” sulla scheda del ricatto. Non è un caso che quella parte di studenti e di precariato cognitivo che ancora non si è trasformata in capitale umano guardi a quegli uomini e a quelle donne dalle vene spezzate e la schiena diritta come “emblema della persistenza in vita”29 della soggettività del lavoro. Hanno trovato il terreno della resistenza. Come praticare il rifiuto del dominio della forma-impresa nel lavoro immateriale, senza corpo, in cui il management dell’anima dispiega la propria potenza omologante è la sfida politica da raccogliere per contrastare il fascismo quotidiano del capitale nei luoghi di la27. Il Tmc-2 (Tempi dei movimenti collegati – seconda versione) è una metrica del lavoro che riduce i tempi di esecuzione delle operazioni in linea di produzione fino al 20 per cento. Elaborata dalla Fiat già negli anni ottanta, è stata introdotta negli stabilimenti del gruppo prima a Melfi (1994), poi a Cassino (2001) e a Mirafiori, Pomigliano d’Arco, Termini Imerese (2003). Cfr. S. Iucci, Tempi duri, “Rassegna sindacale”, 34, 18-24 settembre 2003. Il modello organizzativo denominato World Class Manufacturing è un’evoluzione del sistema Toyota adottato dalla Fiat dal 2006. Prevede un costante investimento sull’elemento culturale dell’organizzazione tipico dei modelli postfordisti e, al contempo, una decisa intensificazione dei ritmi di lavoro in senso taylorista e fordista. Cfr. Centro per la Riforma dello Stato (a cura di), Nuova Panda schiavi in mano, cit., pp. 61-72. 28. Taiichi Ohno è unanimemente considerato il padre del Toyota Production System. Cfr. T. Ohno, Lo spirito Toyota, cit. 29. Centro per la Riforma dello Stato (a cura di), Nuova Panda schiavi in mano, cit., p. 28.

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voro. Esercitare il massimo di sospetto per tutte le metafisiche del lavoro immateriale, guardare di traverso le maschere del desiderio su cui fanno leva le pratiche manageriali di gestione dell’anima, ripartire dalla radicalità dei bisogni sociali, dal corpo vivente, dalla sua fragilità e dai suoi piaceri: mi sembrano indicazioni da tenere ben presenti.

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Autoimmunità, tardo-capitalismo, tecno-fascismo RAOUL KIRCHMAYR

1. Tardo-capitalismo e autoimmunità Se assumiamo che la nostra epoca mostra un tratto essenziale, cioè il nesso tra globalizzazione e nichilismo, la questione che occorre porre al presente riguarda la stessa possibilità che la democrazia possa avere un avvenire nel quadro di un mondo forgiato tecnicamente e su scala globale dal capitalismo. Se vi sarà un avvenire, questo non potrà che dischiudersi a partire dallo scioglimento di un nodo che, al contrario, pare stringersi ulteriormente, quello tra il dominio della tecnica, il capitalismo e le forme di tramonto del politico che disegnano lo scenario attuale. È difatti questa l’alleanza che pare non sciogliersi e che ci porta a chiedere se ciò che il XX secolo ci ha consegnato, perlomeno a quel “mondo occidentale” che si riconosce nel cosiddetto modello di democrazia liberale, non sia affatto l’eredità di una libertà concreta, ma un binomio costituito da una libertà astratta e da più o meno marcate forme di servitù, di dipendenza e di oppressione. Di fronte al saldarsi del connubio tra potere tecnico e sovranità politica si può avanzare l’ipotesi, dunque, che possa non essere la democrazia la forma di governo politico più adatta alla modernità tardo-capitalista, ruolo che potrebbe meglio svolgere una sua imitazione autoritaria in grado di far lavorare il binomio libertà astratta/servitù concreta, conservando cioè come apparenze tutte le forme del diritto borghese, ma piegate alla salvaguardia, più o meno violenta, di posizioni di forza e di dominio. È in questa prospettiva che si dovrebbe guardare al “berlusconismo” e al cosiddetto aut aut, 350, 2011, 77-91

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“caso italiano” che, per le loro caratteristiche e soprattutto per la loro ormai considerevole durata, paiono essere più che il risultato di un “laboratorio” in cui si sono incubate alcune tendenze dell’Occidente tardo-moderno. Molti discorsi giubilatori risuonati nel dibattito politico durante gli anni novanta – i quali, con la fine della Guerra fredda, avevano perlopiù proclamato la vittoria della liberal-democrazia e del sistema capitalista di produzione – appaiono oggi come precoci sintomi di una crisi del senso della democrazia più che quelli di un effettivo radicarsi di quest’ultima in aree geopolitiche non appartenenti all’Occidente. Costitutivamente ambigui, possiamo cogliere un diverso significato di tali discorsi, una volta ricontestualizzati nella cornice di un nichilismo reattivo, il quale si nutre, indifferentemente, tanto del repertorio “progressista” e illuministico quanto di esaltazioni imperialistiche e colonialistiche, tanto del mito della partecipazione popolare quanto dell’immaginario bellico. Dalla fine della Guerra fredda a oggi possiamo dire di sapere per esperienza e non solo più per annuncio, o profezia, quali forme può assumere la reazione delle forze che, con il declino del politico, mirano a imporre la conservazione dello status quo, cioè dei rapporti mondiali di dominio, sfruttamento delle risorse, accumulazione e circolazione del capitale. Lo scenario attuale è pertanto disegnato dall’orizzonte della violenza e del conflitto (nella forma esplicita della guerra e in quella implicita della competizione economica globale), mentre le retoriche ufficiali si nutrono di formule che occultano o denegano i processi in corso, con lo scopo di non incrinare la rappresentazione dominante della liberal-democrazia come unico modello di governo auspicabile e, al tempo stesso, quale fine politico universale cui tendere. Anche a un’osservazione rapida e di sorvolo, si può vedere come il nesso tecnica-sovranità abbia ampiamente trasformato il paesaggio politico e sociale nel corso del XX secolo verso una sempre maggiore interdipendenza dei sottosistemi locali – quelli che vengono pure chiamati i sistemi-paese – nel quadro globale. Inoltre, l’impatto della globalizzazione ha prodotto estese operazioni di 78


trasformazione interna degli stati-nazione, tant’è che da tempo ne viene descritta la tormentata senescenza di fronte al realizzarsi di un’economia-mondo dominata dal sapere tecnico. A dispetto del fatto che fosse il socialismo reale a essere etichettato con la formula di “esperimento di ingegneria sociale”, è lo stesso modello capitalistico ad avere condotto un processo di costruzione tecnica della società grazie a Umwelten che funzionano omeostaticamente e garantiscono così la loro stabilità sistemica attraverso la costante riduzione dell’impatto sull’intero sistema provocato dai fattori estranei, potenzialmente destabilizzanti e perfino distruttivi. Di fronte al paradosso generato dall’aumento di complessità del sistema e, parallelamente, dalla sua vulnerabilità, le risposte che il tardo-capitalismo occidentale è riuscito a dare sono state di tipo autoimmunitario,1 con le quali è emersa la contraddizione tra la “logica” del capitale, che preside al funzionamento del capitalismo globalizzato, e le singole architetture giuridico-politiche delle democrazie occidentali.2 Il processo autoimmunitario non riguarda che il sistema medesimo e il suo procedere per crisi interne che hanno lo scopo di consolidarlo: pur evocando, suscitando o attivando un’“esteriorità” (fino alla costruzione della figura del “nemico”, in modo da delimitare schmittianamente uno spazio politico), è grazie alla mobilitazione delle sue risorse interne che se ne garantisce il rafforzamento: così il sistema risponde aggressivamente ai fattori esterni – reali, presunti o artificiali – finendo per intaccare se stesso, ma pure accrescendosi.3 Da un punto di vista ottimistico esso potrebbe essere 1. L’emergere dell’autoimmunità in relazione alla sovranità, la risposta autoimmunitaria delle democrazie occidentali di fronte alla globalizzazione, il vincolo tra stato d’eccezione e logica autoimmunitaria ecc. sono temi che di recente si sono imposti nel dibattito sulle trasformazioni del pensiero politico. Cfr. per esempio J. Derrida, J. Haberman, Filosofia del terrore (2002), Laterza, Roma-Bari 2003 e, in un’altra prospettiva, R. Esposito, Bíos. Biopolitica e filosofia, Einaudi, Torino 2004. 2. Il caso cinese e, più in generale, di alcuni paesi dell’Estremo Oriente, come l’Indonesia, mette ampiamente in discussione l’assunto delle teorie politiche liberali e neoliberali che pongono l’interrelazione reciproca di economia di mercato e liberalismo giuridico-politico: infatti ciò che lo scenario ci mostra oggi è la possibilità che altre forme di governo, non democratiche, possano garantire sviluppo economico in senso capitalistico. 3. Ciò si traduce politicamente nei termini di una paranoia, alimentata dai media, verso tutto ciò che all’interno potrebbe essere esterno.

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visto come un caso particolare e anomalo di una supposta legge generale che descriverebbe l’espansione virtualmente ad infinitum del modello della liberal-democrazia capitalistica. Ma che accade se, invece di pensarla come una deviazione rispetto alla norma, l’autoimmunità viene considerata come la norma stessa o, meglio, come la sua verità? Secondo quest’altro punto di vista, dunque, che cosa viene intaccato e che cosa salvaguardato dai processi autoimmunitari? 2. One World e violenza del capitale Il mondo del capitale ha imposto una determinata configurazione del rapporto tra potere e techne, che si compendia nella nozione di sistema. Per sistema intendo una forma di organizzazione di elementi anche eterogenei tra loro secondo un principio d’ordine. Il principio d’ordine permette la costruzione di un mondoambiente (Umwelt) e necessita di regole e codici con cui il mondodella-vita (Lebenswelt) viene domesticato attraverso un’operazione di traduzione e riscrittura. Il suolo del mondo-della-vita viene dissodato, lavorato e reso adatto all’impianto di nuove forme di vita che, come protesi tecniche, sono funzionali alla conservazioneriproduzione del sistema complesso e dipendono dal principio d’ordine che lo regola. Il principio d’ordine è ciò che conferisce razionalità al mondo, il suo essere cosmos: può essere di natura filosofica (il bene), teologica (dio), politica (il sovrano), economica (il capitale). Storicamente il sistema del capitale si è dotato di apparati tecnici, dallo stato e i suoi organi fino alle odierne concentrazioni finanziarie e alle corporation globali. Le tecno-strutture producono un mondo-ambiente artificiale che avviluppa, inglobandola e trasformandola, la Lebenswelt.4 Alle tecno-strutture appartiene pure la sfera della comunicazione generalizzata, che aderisce come una pellicola al mondo-ambiente domesticato. Ogni messa-in-ordine della Lebenswelt, cioè ogni costruzione-delmondo, implica una violenza che è generata dall’imposizione del principio d’ordine razionale al mondo-della-vita “esteriore/estra4. Facendo tuttavia attenzione a riconoscere alla “struttura” il senso di “organizzazione interna” del sistema, e non un apparato estrinseco che si aggiunge a esso.

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neo” al sistema. Questo processo di appropriazione funzionalizzante dell’esteriorità/estraneità è, paradossalmente, il principale fattore stabilizzante attraverso una continua destabilizzazione degli equilibri sistemici. Se il capitalismo è violenza nella forma dell’autoconservazione e dell’accrescimento sistemici, occorre pensarla non più come una modalità di dominio dei soggetti e come coartazione delle loro libere volontà, ma piuttosto come una tendenza del sistema che mira a erodere, fino a cancellarla, la possibilità stessa che vi sia un “fuori” rispetto al “dentro”, il che significa la neutralizzazione o la distruzione di regole e codici che possono interferire con la “vita” del sistema nel suo complesso. Gli è perciò indispensabile fornire una visione irenica del suo funzionamento, mediante una costante rimozione e denegazione della violenza da esso prodotta, e una sua proiezione su figure-schermo indicate come potenziali fattori di instabilità che, sotto il profilo immaginario, il sistema crea. Rimozione, denegazione e proiezione indicano dunque dei processi ideologici con cui ha luogo l’autoconservazione e l’aumento del sistema. La sfera ideologica tende così a coincidere con lo stesso mondo-ambiente, dove l’esperienza è quadrettata, classificata, mappata, compresa in una media standard grazie alla quale è possibile determinare tanto i comportamenti più generali quanto le variazioni rispetto alla curva, per mezzo di una calcolata routinizzazione degli choc. Si tratta infatti di fabbricare soggetti docili attraverso un’opera costante di addomesticamento di credenze, abitudini e stili di vita. Ora, la natura aggressiva del sistema capitalistico non riguarda affatto la morale e la psicologia di quella che veniva chiamata “classe borghese”, e dunque il “carattere” sviluppato dall’homo œconomicus, ma è coessenziale all’imposizione del principio d’ordine che autoregola il sistema. Di questo, in verità, le culture, le psicologie e i comportamenti dominanti sono l’espressione quali sue declinazioni storiche e geografiche, per cui è possibile parlare di capitalismo e di società capitalistiche nazionali nei diversi momenti del loro sviluppo, e delle culture che esso ha prodotto e nelle quali si è riconosciuto, ivi comprese, perfino, 81


le diverse forme di critica e di smascheramento del suo funzionamento. L’emergere di nuove forme di fascismo, che proliferano nel tramonto delle categorie del politico, rivela la natura violenta del sistema capitalistico. Inoltre esse denunciano una volta di più il carattere astratto, tecnicistico ed estrinseco della democrazia tardo-moderna, pur affidandosi a essa come fonte del diritto e dunque come il principio stesso della loro legittimazione. 3. Principio d’ordine e tecno-fascismo Con il nome di “tecno-fascismo” intendo tutte quelle forme di governo che, nella tarda modernità, richiedono un’adesione fideistica al sistema, alle sue tecno-strutture e al suo principio d’ordine, cioè, più in generale, al mondo globalizzato nell’One world. Sono forme che fanno convivere il carattere politicamente conservativo-reazionario del sistema con il movimento rivoluzionario di crisi-assimilazione-incorporazione-espansione. La categoria di tecno-fascismo non è rigida, descrive tendenze e movimenti, curve e distribuzioni, più che una forma stabile o addirittura un’essenza del governo; assume come secondarie le definizioni che i sistemi si danno, poiché tali definizioni scontano la contraddizione tra processi reali e mistica del fondamento politico (ovverosia dei fini che il sistema dovrebbe realizzare). Perciò non è una categoria politica in senso stretto, poiché, se così fosse, essa incontrerebbe le stesse difficoltà cui va incontro, nel contesto presente, la semantica del lessico politico tradizionale. È una categoria che assume invece il nesso potere-techne come cuore della reductio ad unum che regola il funzionamento sistemico, pertanto dovrebbe avere il vantaggio di superare le dispute, più o meno nominalistiche, sulla definizione che viene data dei regimi politici. Il tecno-fascismo è un “nuovo fascismo” di cui possiamo cominciare a riconoscere i lineamenti ora, a vent’anni dalla fine della Guerra fredda. Sarebbe errato vedere in esso una riproposizione edulcorata dei fascismi storici, o una loro riedizione aggiornata in veste postmoderna, secondo due modalità dello stesso desiderio consolatorio, per il quale il passato non ritorna perché è passato, o, se ritorna, tutt’al più è in forma di commedia. 82


Qui, non solo occorre prendere seriamente l’aspetto di grottesca comédie con cui appare, ma serve pure affermare che con il tecno-fascismo si può assistere al ritorno di un passato che non è mai veramente passato: piuttosto esso costituisce un’eredità recente della storia dell’“umanità europea”, e che nulla esclude costituisca ancora uno strato attivo della nostra memoria storica collettiva. I fascismi prossimi venturi, così, sono dell’ordine del ritorno di contenuti psichici collettivi stratificati e depositati nei recessi della nostra eredità storica. Ciò che questo “ritorno del rimosso” porta alla luce è la cogenza del principio d’ordine sistemico, nella sua forza di imposizione violenta che avviene, oggi, con l’impiego di più raffinate tecniche di controllo e di ingegneria collettiva delle anime. Se i fascismi storici furono totalmente dipendenti dalle loro configurazioni storico-empiriche, ovvero dai fatti storici che portarono al loro successo in Europa tra le due guerre mondiali, qui il tecno-fascismo è inteso come reazione a una crisi di sistema interna a esso.5 Infatti, ciò che hanno mostrato i fascismi storici è stata una straordinaria capacità tecnica di modellamento del mondo sociale come progetto di salvaguardia e di ricomposizione del sistema che tuttavia legittimava le sue pretese storiche (e destinali) all’interno di una concezione della storia universale quale conflitto tra i differenti nazionalismi. I fascismi storici hanno rappresentato un “delirio” del sistema per eccesso autoimmunitario, perché hanno prodotto una reazione fuori misura di fronte alla crisi sistemica, e non certo perché avessero contestato il principio d’ordine capitalistico quale regolatore della tarda modernità dell’Occidente, nel corso del XIX secolo fino alla Prima guerra mondiale. Al contrario, è stata proprio la furia dei fascismi ad avere posto sotto attacco il principio: spinti dalla loro forza di sregolamento, essi suscitarono potenze ctonie, telluriche e “irrazionali”, chiamate a raccolta con lo scopo di conservarlo.

5. Da cui le frequenti analogie, nella pubblicistica corrente, tra le crisi d’inizio XXI secolo e la situazione del 1929.

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4. Tecno-fascismo e marginalità. L’“anomalia” italiana Il tecno-fascismo è un’intensificazione della risposta autoimmunitaria che ha luogo nelle aree periferiche o in via di marginalizzazione rispetto ai centri del sistema, cioè in quei punti della tecno-sfera dove è più intensa e massiccia la circolazione globale dei capitali. È infatti l’indebolimento di un sottosistema a creare la necessità di risposte autoimmunitarie standard più intense e frequenti, che possono manifestare così una tendenza storica. In questo modo sarà più semplice riconoscere che, se è possibile individuare una continuità tra i fascismi storici e le tendenze attuali dei tecno-fascismi, ciò sarà dato a partire dalla considerazione che il tecno-fascismo è un fenomeno geopolitico e geostorico con cui ne va del controllo territoriale da parte del sistema. Nelle società avanzate, il controllo territoriale è garantito dal funzionamento efficiente delle macchine (produzione economica, sicurezza, sfera dei media ecc.). Quanto maggiore è il grado di sviluppo di un sotto- o microsistema territoriale secondo i parametri sistemici, tanta minore violenza diretta e repressiva sarà necessario esercitare per conservarne il controllo. Così una transizione da una “democrazia autoritaria” al fascismo non sarà che un gradiente con cui è modificato lo status del sistema in senso più conservativo. Inoltre, quanto più l’istituzione di regimi fascisti avviene in aree marginali, tanto più tali regimi possono godere di una vita politica medio-lunga. Così, il tecno-fascismo si definisce principalmente mediante la qualità e la natura della risposta aggressiva fornita dal sistema per neutralizzare i fattori riconosciuti come eversivi o destabilizzanti. E in questo la mediasfera gioca un ruolo strategico come costruzione delle immagini del mondo, indispensabile per i processi di identificazione collettiva, di inclusione puramente virtuale delle masse, e dunque a una generale opera di psicagogia collettiva. Il tecno-fascismo mostra infatti una intensificazione dei processi di inclusione omologante e identitaria, risultando un continuatore sia della tradizione democratica e illuministica che persegue l’inclusione e mira ad ampliare la sfera dei diritti, sia della tradizione del pensiero autoritario e conservatore, per cui l’in84


clusione è passivamente subita da parte del soggetto e non è il risultato di un’azione volontariamente e liberamente perseguita. L’enfasi sul tratto identitario (etnico-linguistico, culturale e politico) è d’altronde tipica del fascismo, poiché ogni fascismo si nutre di una volontà di unificazione che mira a suscitare le differenze per risolverle nell’Uno: nel caso dei fascismi storici si trattava del corpo mistico dello stato, nel caso dei tecno-fascismi dell’adesione quasi religiosa al mistero del capitale. Il tecno-fascismo, quindi, contiene sempre in sé una metafisica e una mistica – perfino nelle forme più radicalmente secolarizzate e neociniche – che fungono da supplemento d’anima alla nuda efficacia del binomio potere-techne. Una volta che si sarà considerato il fascismo (tanto quello storico quanto le sue forme più aggiornate) come un fenomeno periferico, increspatura o turbolenza marginale rispetto ai centri del sistema, allora non sarà più necessario parlare di “anomalie”, poiché il comportamento apparentemente anomalo del sistema alla sua periferia si rivela una risposta autoimmunitaria standard che si scatena là dove (e quando) il sistema entra in crisi. A una rapida osservazione empirica non sfuggirà che i fascismi storici dovettero la loro affermazione a processi di consolidamento delle aree periferiche del sistema capitalistico – una sorta di “membrana” garantita da regimi dittatoriali e repressivi –, capace di conservare le istituzioni del capitale nei suoi “centri” (le “capitali” del mondo capitalistico: New York, Londra, Parigi, e in seguito anche quelle dei fascismi storici: Berlino, Tokyo, in misura minore Roma), e di salvaguardare gli interessi globali delle corporation. Nella logica della Guerra fredda ciò ha significato provocare delle crisi locali nelle aree periferiche a rischio, e quindi risposte autoimmunitarie nei sottosistemi locali (America latina e centrale, Europa mediterranea). Dopo il 1989, nel mondo ridisegnato dal crollo della cortina di ferro, è nuovamente mutato il rapporto tra aree centrali e periferiche, a causa della crescita molto rapida di alcuni paesi emergenti, un tempo facenti parte o dell’area comunista o dei paesi nonallineati. Secondo questa prospettiva, l’Italia sta subendo da al85


meno vent’anni una progressiva marginalizzazione geo-strategica nel quadro dei paesi occidentali.6 Di conseguenza, si può parlare di “anomalia” solo assumendo il punto di vista “centrale” del sistema e, pertanto, alla sola condizione di adottare come metro il modello del mercato e delle democrazie liberali quale “norma” (con il problema, non secondario, di avere posto come premessa indiscussa tale “norma”). Questo approccio rischia di disconoscere come la presunta “anomalia” sia del tutto funzionale alla logica di conservazione del sistema, fino ad arrivare al punto in cui lo stato, inteso come riproduzione molecolare del sistema, intacca se stesso e collassa per garantire risorse, se non vitali quanto meno utili, al sistema complessivo.7 Le turbolenze locali, dunque, possono senza dubbio portare alle disgregazioni e alle riconfigurazioni dei sottosistemi (si confronti per questo la carta politica dell’Europa prima e dopo il 1989) senza escludere possibili esiti catastrofici, allorquando le dinamiche autoimmunitarie prendono la forma di conflitti endemici generati dallo stesso corpo politico entrato in crisi. Se alcuni anni fa Alain Badiou si era chiesto di che cosa fosse il nome Sarkozy8 – per alcuni versi espressione di tendenze analoghe al berlusconismo italiano –, alla domanda circa chi o che cosa esprime Berlusconi, possiamo provare a rispondere che quel nome indica il sintomo di un processo autoimmunitario di un sottosistema periferico con cui è reso visibile il nucleo tecno-fascista del mondo tardo-capitalista. Hanno pertanto ragione coloro che, con maggiore o minore preoccupazione sulle sorti della democrazia a venire, considerano l’Italia come un “laboratorio” post-politico delle tendenze attuali. 6. Per una considerazione della riduzione del peso dell’Italia nello scenario internazionale e del suo riposizionamento rispetto ai tradizionali assi della politica estera italiana, vedi il numero monografico di “Limes”, 6, 2010, dedicato a Berlusconi nel mondo. 7. È in tale ottica che dovrebbe essere letto l’intero processo di privatizzazione dei beni dello stato che, avviato nel corso degli anni novanta, in una fase in cui la politica non ha rappresentato un contrappeso sufficiente agli interessi economici – tanto interni quanto esterni al paese –, ha portato alla dismissione e alla liquidazione di rilevanti attività economiche statali, e dei conseguenti interessi a esse collegate. 8. A. Badiou, Sarkozy: di che cosa è il nome? (2007), Cronopio, Napoli 2008.

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5. La democrazia come spettacolo (tecno-fascismo e media) Il crollo dei regimi socialisti dell’Europa dell’Est ha ampiamente dimostrato la forza dispiegata dai media occidentali, la televisione in primo luogo, che da oltrecortina si apriva come una finestra su un mondo cui non era possibile accedere se non in immagine. Il desiderio di libertà che mosse i popoli dell’Europa dell’Est, se era stato acceso, letteralmente, dall’ansia di una vita diversa, venne pure incanalato nell’alveo di un immaginario onirico prefabbricato altrove, con la conseguenza che l’anelito al cambiamento (del socialismo) si tradusse di fatto nell’accettazione dei “valori” del capitalismo. Quel caso esemplare ha mostrato come i media abbiano grandemente accresciuto la sfera d’efficacia del poteretechne, mediante la cattura del desiderio e la sua messa a regime capitalistica con cui viene data risposta alla domanda collettiva di cambiamento e di trasformazione. Il generale arretramento dei discorsi critici, emancipatori, perfino riformisti, se non addirittura rivoluzionari, deve essere messo in relazione con la sconfitta delle forze storiche di sinistra sul terreno della costruzione mediatica del mondo, dovuta alla sottovalutazione dei mezzi di comunicazione di massa non tanto come orientamento della pubblica opinione (tesi classica del pensiero liberale) quanto come opera costante di mitopoiesi con cui il capitale può rappresentarsi fantasmagoricamente come naturale: dal piano dei processi economici, alle forme tradizionali di legittimazione culturale (giurisprudenza, etica, politica, letteratura), a quello della visione universale del mondo (arte, spettacolo, comunicazione e media). La costruzione dell’immaginario è funzionale alla formazione, al consolidamento e alla conservazione del consenso di massa, poiché crea un soggetto collettivo – altrimenti frantumato – che si rispecchia nel mito identitario e così è in grado di prendere corpo. Tuttavia si tratta di un corpo collettivo instabile e volatile (“liquido”, direbbe Bauman), che trova la sua ragion d’essere politica solo grazie alla pressione esercitata dai media sui singoli atomi. Se la politica tradizionale prevedeva il conflitto o la conciliazione di in87


teressi particolari in nome di un più generale “bene comune” (o addirittura in nome di valori universali), il XX secolo ha visto una progressiva trasformazione del campo politico dell’Occidente sotto la spinta di interessi al contempo particolari e sovrastatali che si sono intrecciati con la moltiplicazione della potenza dei media. L’unico vero universalismo rimasto è di fatto quello del “mercato globale”. Perciò, senza una strategia per i media, non ci può essere efficace contrasto alla logica del capitale. Come la storia recente ha ulteriormente dimostrato, tertium non datur. L’abbandono del contrasto del capitalismo da parte della sinistra riformista occidentale nel corso degli anni novanta ha fatto da terreno di coltura per l’evidente regresso politico-culturale dell’inizio del XXI secolo, quando si è assistito alla recrudescenza dei discorsi populisti, razzisti, xenofobi e quando, in Europa, l’affermazione delle nuove destre politiche ed economiche ha ristrutturato in modo significativo la cornice politica e culturale nella quale ci troviamo. L’idea, perdente oltre che ideologica, di riformare il capitalismo per garantirne la sopravvivenza, si è al contrario dimostrata vincente per quelle forze che rivendicano apertamente l’eredità dei fascismi storici o ne ripropongono, in forma semplificata, alcune parole d’ordine che fungono da placebo rassicuranti di fronte ai grandi mutamenti globali. Va da sé che l’accesso alla sfera pubblica e mediatica di tali discorsi e la loro capacità di presa sulle masse non devono essere visti come un accidente, ma come la necessaria conseguenza di un’esigenza precisa: ridare stabilità immaginaria, mediante l’enfasi sulla sicurezza, a un mondo scosso da processi globali interamente riconducibili alle trasformazioni del tardo-capitalismo. I processi sono materiali e concreti, la risposta è immaginaria e mitopoietica. In essa consistono quei supplementi d’anima di cui il capitalismo necessita e che da esso vengono prodotti in continuazione, con un’operazione di ricombinazione kitsch di brandelli di memoria, di cascami di immagini e di discorsi che vanno a formare la stoffa di una “degenerazione reattiva”.9 Tale pout9. J. Derrida, Otobiographies. L’insegnamento di Nietzsche e la politica del nome proprio (1984), Il poligrafo, Padova 1993, p. 77.

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pourri che mescola, stravolgendola, l’eredità storica delle culture delle destre con il lessico della tradizione liberale e progressista,10 è virulento ed efficace, poiché delimita l’orizzonte del mondo che i media costruiscono, e rende perciò impossibile un’articolazione, interna al mondo così formato, dei discorsi e dei punti di vista, specie di quelli antagonisti. La vocazione dei media in questa fase tardo-capitalistica è dunque una vocazione totalitaria o neototalitaria che conserva superficialmente la possibilità di accesso e di critica, ma solo secondo modalità già previste e codificate che escludono per principio la messa in discussione degli stessi codici. È l’impero del format e del mainstream, per le immagini e i discorsi, a garantire la tenuta delle strutture e della logica del sistema. Il declino del “politico” – che si accompagna in questa fase storica al declino dello stato, dei suoi organi e delle sue istituzioni – si riverbera in un’identità collettiva come “pubblico di spettatori”. Gli individui sono indotti a non identificarsi più con il destino dello stato (cosa che aveva marcato invece i fascismi storici), ma ad assumere un’appartenenza labile i cui contenuti possono essere qualsiasi. Ciò che importa non è in nome di che cosa o a quale scopo si appartiene, importante è l’appartenenza in sé unita a un atteggiamento fideistico verso la capacità del sistema di fornire “beni” e “valori” a ciascuno. Il contratto sociale viene di fatto soppiantato da una fidelizzazione alle ragioni propagandate, e il ruolo del cittadino sostituito con quello del consumatore/utente. È in questo modo che gli apparati mediatici stanno dunque svolgendo una funzione di supplenza al politico: non propriamente sostituendolo, ma infettandolo, svuotandolo così delle sue prerogative e del suo senso storico. Con la conclamata debolezza del politico di fronte al potere 10. Il caso italiano è particolarmente significativo di questa deriva linguistica con cui è avvenuta l’appropriazione del lessico della tradizione progressista da parte della nuova destra. L’elenco è lungo e varrebbe la pena analizzare le trasformazioni semantiche, talvolta addirittura i rovesciamenti di senso, che caratterizzano la neolingua mediatica delle nuove destre. Mi limito qui a ricordare alcune parole, in primo luogo “libertà” (divenuta l’emblema di tutte le nuove destre populiste europee), poi “democrazia”, “riforma”, “diritto”, “differenza”, “riconoscimento” ecc.

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tecnico e mediatico, la risposta all’inquietudine delle masse finisce per non articolarsi più in termini di efficacia politica, ma sul piano della psicologia collettiva. I media offrono così un repertorio di immagini e parole funzionale a una mitologia postmoderna che semplifica la straordinaria complessità del nostro orizzonte simbolico e permette l’innestarsi di credenze che fungono da elementari schemi di comprensione della realtà. La contrapposizione (profetica) tra politicizzazione dell’estetica (rivoluzionaria e di sinistra) ed estetizzazione del politico (intrinsecamente reazionaria e fascista), annunciata quasi ottant’anni fa da Benjamin, si sta dunque risolvendo a vantaggio della seconda. È questo uno degli effetti più rilevanti legati al tramonto delle tradizionali categorie del politico: la traduzione costante e quotidiana di quest’ultimo in spettacolo. Perciò il caso italiano è per molti versi cruciale, dal momento che in Italia il potere sovrano si è configurato come effetto mediatico, prima e più di quanto non sia stato governo politico. Il caso italiano mostra tuttavia un paradosso interessante: all’aumentare della mediatizzazione del potere è seguita di pari passo una diminuzione dell’efficienza sistemica, fatta eccezione per quella strettamente necessaria alla conservazione del potere e degli interessi particolaristici di lobby e di potentati legati a doppio filo al governo. Dunque le ragioni del tramonto del berlusconismo come peculiare esempio di tecno-fascismo possono essere trovate nella contraddizione risultante dalla sproporzione tra la propaganda e l’efficacia della policy. La conseguenza è che la perdita della fiducia e la de-fidelizzazione dipenderanno da una crisi interna del berlusconismo come risposta inadeguata alla domanda di efficienza e di composizione degli interessi particolari. Occorre perciò guardarsi dal considerare la fine delle fortune politiche di Berlusconi come un tramonto del “berlusconismo”, il che sarebbe un altro modo di attribuire all’uomo doti e capacità di “individuo cosmico-storico”. Una volta che si saranno spente le luci sull’uomo, si aprirà l’autentico conflitto tra le tendenze dominanti, espressione del nichilismo globale, e quelle tendenze, oggi disaggregate e minoritarie, che vi si oppongono. La fine dell’avventura politica di 90


Berlusconi presenterà dunque il rischio, assai concreto, che alla domanda di efficienza segua una risposta “tecnica” e “impolitica” che, a dispetto della sua apparente “neutralità”, corrisponderebbe appieno alle esigenze sistemiche di liquidazione del politico e di una sua contemporanea conservazione come semplice spettacolo. La grottesca figura dell’imprenditore-politico potrebbe rivelarsi così, a posteriori, una figura-limite: in quanto “antipolitica”, essa potrebbe mostrare ancora, in realtà, come quel minimo di politico che era stata in grado di mobilitare fosse eccessivo per le esigenze delle tecno-strutture capitalistiche. La sua forza mediatica si potrebbe allora rivelare come il nocciolo della sua debolezza, poiché dal punto di vista sistemico generale l’affermarsi del berlusconismo non poteva che condurre al suo fallimento politico, in assenza di una strategia coerente e in sintonia con il dominante neoliberismo globale. Il suo successo consisterà invece nell’aver reso desiderabile al paese una svolta più netta verso un sistema tanto più efficiente quanto più rispecchiantesi in un simulacro di democrazia.

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Il fascismo nella nostra lingua PIER ALDO ROVATTI

a deformazione del linguaggio pubblico, della lingua comune e insieme della lingua privata, in una determinata contingenza storica e in una situazione sociale specifica, come è oggi la nostra, è un segnale significativo dell’involuzione autoritaria in corso. Segnale antico ma che nel Novecento ha conosciuto declinazioni di massa corrispondenti a progetti precisi di governo: così è stato per il nazismo hitleriano, che ne rappresenta l’esempio più vistoso e organizzato, così è accaduto anche nel fascismo mussoliniano e in altri regimi autoritari che hanno costellato il secolo. Da questo punto di vista, quella che stiamo vivendo adesso in Italia non sembra un’anomalia, piuttosto un fenomeno già studiato e catalogato sotto il nome generale di “propaganda”. Anzi, si presenta come un dispositivo planetario connesso strettamente alla cosiddetta globalizzazione e alla complessiva mutazione e omologazione delle forme di vita. Muovendo da qui, possiamo formulare un’ipotesi e individuare un compito analitico. L’ipotesi riguarda l’uso della parola “fascismo” come permanenza nella società attuale, e specificamente nella società italiana, di un carattere cui possiamo dare in modo non vago né improprio tale nome, anche se esso non è la riproduzione conforme di modelli autoritari del passato. Il compito analitico, sul quale si sta già lavorando da più parti, riguarda la descrizione delle differenze e delle specificità italiane che si concentrano in quella che possiamo chiamare “cultura berlusconiana” e che oggi è con evi-

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denza la cultura dominante nel nostro paese, risultato di oltre un decennio di governo di tipo populistico attraverso l’uso degli strumenti mediatici, e in particolare della televisione. Ritroviamo così l’anomalia italiana, ma soprattutto abbiamo a che fare con un laboratorio molto significativo al quale rivolgere un’attenzione speciale. Il fascismo nella lingua ha molte caratteristiche. La principale è la semplificazione dei discorsi che si realizza attraverso la riduzione delle parole disponibili per la comunicazione. Riduzione quantitativa e qualitativa: il numero delle parole si assottiglia decisamente e insieme si riduce in modo drastico lo spazio del significato attorno a esse. Tendenzialmente, ogni parola viene compressa in un significato unitario con effetti pratici molto rilevanti sulla libertà del discorrere. Accade, in un simile regime discorsivo, che non solo si hanno meno parole a disposizione ma anche che molte esperienze vissute importanti diventino mute poiché non ci sono più le parole che possano esprimerle. In realtà, accadono anche tante altre cose che hanno a che fare con la distorsione dei significati: infatti, il fascismo nella lingua, a uno sguardo storico, comporta una deformazione eterodiretta di molti significati che – alla lettera – costituisce un rovesciamento di senso o un suo evidente spostamento, come nel caso tipico delle parole “libertà” o “popolo”. Esistono vari studi su quanto è successo nella lingua tedesca negli anni del nazismo. Un testo di riferimento è LTI. La lingua del Terzo Reich. Taccuino di un filologo, scritto da Viktor Klemperer (e tradotto da Giuntina nel 1998). L’acrostico LTI si scioglie in Lingua Tertii Imperii, e Klemperer sottolinea come la lingua tedesca si attagli molto bene a questa fascistizzazione, grazie alla sua possibilità di costruire sempre nuove parole composte. Viene in luce, così, un ulteriore aspetto del fascismo nella lingua, che consiste nell’utilizzo di parole prima non esistenti, una batteria di neologismi che si deposita in una vera e propria neolingua. Al Taccuino (e ai precedenti Diari 1933-1945) di Klemperer si sono riferite alcune recenti riflessioni italiane, e in particolare il pamphlet Sulla lingua del tempo presente del giurista Gustavo Zagrebelsky.1 Ma 1. G. Zagrebelsky, Sulla lingua del tempo presente, Einaudi, Torino 2010.

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vorrei ricordare anche le osservazioni contenute nel saggio La manomissione delle parole dello scrittore Gianrico Carofiglio,2 lui pure sensibile al discorso giuridico. E, infine, l’analisi che Stefano Bartezzaghi fa della lingua adoperata da Berlusconi in Il nuovo, il solare, il vero nella semiotica del berlusconismo.3 Non è davvero un caso che tutti e tre, guardando al fascismo linguistico italiano di oggi, con l’occhio rivolto ai fascismi storici, rimandino a George Orwell e al suo straordinario 1984 (risalente al 1948). La società “oceanica” ideata genialmente dall’inglese Orwell, la società iperautoritaria del “grande fratello”, ha infatti come principale collante la trasformazione della lingua comune in una neolingua di stato, cui è dedicata l’“Appendice”: dieci pagine molto preziose per noi nelle quali sono trattati i principî di base dell’ocoparlare, vocabolo coniato dalla stessa neolingua, “parlare, esprimersi come un’oca”.4 Chi vorrebbe parlare come un’oca? Eppure, ecco l’arguta considerazione di Orwell: “Se le opinioni espresse in tal modo erano ortodosse, un simile termine veniva considerato un complimento, tant’è vero che quando il ‘Times’ intendeva rivolgere un caldo apprezzamento a un oratore del Partito, lo chiamava ocoparlatore arcipiùbuono”. Parlare come un’oca, a scatti, scandendo bene le poche sillabe. Il massimo sarebbe stato “far fluire il discorso articolato dalla laringe, senza alcuna implicazione dei centri cerebrali”.5 Via via sarebbero scomparse le parole astratte, cominciando da quelle provviste di un senso politico. Se la parola “libertà” veniva ora sostituita dall’aggettivo “libero” e la parola “uguaglianza” sopravviveva attraverso la forma aggettivale “uguale”, libero significava solo libero-da qualche cosa (“questo cane è libero da pulci”) e uguale aveva perso ogni significato intellettuale o morale 2. G. Carofiglio, La manomissione delle parole, Rizzoli, Milano 2010. 3. S. Bartezzaghi, Il nuovo, il solare, il vero nella semiotica del berlusconismo, “MicroMega”, 2, 2011, pp. 209-226 4. G. Orwell, 1984, Mondadori, Milano 2010, p. 317. Rimando anche alle pagine sul linguaggio senza soggetto nel volume di Massimo Recalcati (L’uomo senza inconscio, Raffaello Cortina, Milano 2010, pp. 322-324), in cui viene analizzata la neolingua di Orwell da una prospettiva psicanalitica (a propria volta, Recalcati rimanda al contributo di Rocco Ronchi in AA.VV., Forme contemporanee del totalitarismo, Bollati Boringhieri, Torino 2007). 5. G. Orwell, 1984, cit., pp. 316-317.

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(“tutti gli uomini hanno i peli”). Dunque, venivano evacuati dal discorso tutti i significati indesiderabili: “giustizia”, “morale”, “democrazia”, ma anche “scienza” e “religione” erano parole ormai dimenticate o addirittura cancellate, e con un unico nuovo vocabolo, “psicoreato”, si designava negativamente l’insieme dei significati messi fuori uso e ormai definitivamente banditi. La neolingua immaginata da Orwell, da una parte, impediva di pensare e dall’altra imponeva a tutti una sorta di pensiero unico veicolato da una sorta di stenografia tecnicistica senza oscillazioni di senso, da cui insomma era stata tolta ogni possibilità di giudizio personale e che di conseguenza mirava a una sempre maggiore contrazione dei vocaboli. Naturalmente Orwell aveva architettato la sua inquietante e satirica utopia linguistica soprattutto sulla scorta del modello storico della propaganda nazista. La domanda che dobbiamo farci oggi è allora la seguente: quanto è diversa quella neolingua di cui si è cominciato a parlare in Italia negli anni recenti (e che alcuni precursori come Pier Paolo Pasolini avevano lucidamente intravisto)? Domanda il cui presupposto – come ho già detto – è che tra le due neolingue sia verificabile un ponte che ne attesta la continuità e che ci autorizza a servirci, oggi come ieri, della parola “fascismo”, senza che sia neppure necessario declinarla nell’espressione “nuovo fascismo”. La cultura o sottocultura berlusconiana, innanzi tutto, non ha bisogno di alcun ministero della propaganda. L’attuale neolingua, ben poco utopistica, non è imposta o decisa da un comando autoritario, non viene calata forzosamente dall’alto mediante un progetto governativo di indottrinamento e lavaggio dei cervelli. Certo, possiamo spiarne, nei discorsi di Silvio Berlusconi, gli stereotipi più sintomatici (come fanno appunto Zagrebelsky e Bartezzaghi), e perfino i modelli da imitare, ma sarebbe un errore pensare che da lì discenda una strategia di governo, una tecnica mirata a svuotare le menti dei cittadini per asservirli linguisticamente. Sarebbe una rappresentazione della realtà che ci metterebbe fuori strada. La nostra neolingua (diciamo pure: il nostro “ocoparlare”) non viene imposta da alcun decreto. Essa non discende da un potere 95


sovrano, piuttosto ha a che fare con un potere microfisico. Se contiene una disciplinarità, è tuttavia un processo che si costruisce nel tessuto sociale stesso, all’interno della cultura condivisa. I soggetti parlanti non sono sottoposti a una violenza esplicita, bensì rappresentano l’effetto di uno standard che corrisponde ai modi e alle forme di vita di cui e in cui viviamo. Semmai accade il contrario: è la neolingua, largamente condivisa, che produce forme di soggettivazione e di soggettività. Nessuno ci obbliga a diventare i parlanti che stiamo diventando: siamo noi stessi a limitare e deformare lingua e parole in uno sforzo continuo di omologazione sociale da cui, forse, potremmo sfuggire ma al quale non vogliamo sfuggire. Possiamo dire che la violenza è strisciante e subdola, ma non possiamo negare che noi siamo dentro questo gioco, e che facciamo così poco per uscirne (mentre facciamo parecchio per alimentarlo) poiché consideriamo che, uscendone, avremmo molto da perdere in termini di identità, opportunità pubbliche, riconoscibilità sociale. I discorsi di Berlusconi intendono – nella loro stupefacente semplificazione e nella loro dichiarata banalità – essere lo specchio dell’Italia attuale, cioè corrispondere alla pancia della gente, rappresentarne gli egoismi individuali e il cinismo ad personam dilagante. Il punto decisivo della questione è che ci riescono. Quindi non ha alcun senso demonizzarli poiché ciò equivarrebbe a demonizzare un’intera cultura, quella che stiamo vivendo oggi e che ci attraversa anche se non lo desideriamo. Soltanto un esempio: il ruolo della menzogna nel gioco di verità in cui siamo. Anche Orwell riconoscerebbe che la menzogna è importante nel regime che lui immagina. Ma sono le bugie e gli inganni verbali che i governanti riversano sui sudditi per mantenerli nella loro condizione di schiavitù. Oggi, invece, il discorso menzognero (annunci, smentite, dichiarazioni palesemente contrastanti, bugie evidenti) funziona come un assist a vantaggio della furbizia di cui ciascuno dovrebbe armarsi nel proprio microcosmo relazionale. È fuorviante, perciò, credere che il linguaggio della politica sia così lontano dalla gente, menzogne comprese, visto che la cosiddetta gente soffre della propria ingenuità e tende chia96


ramente ad attrezzarsi, munendosi di una discorsività efficace in grado di produrre chance sociali. Piuttosto che limitarsi a stigmatizzare le menzogne pubbliche, che ovviamente la parte critica della società si adopera a smascherare, bisognerebbe interrogarsi sull’efficacia culturale che esse riescono ad avere e sul ruolo che noi stessi assegniamo, nei nostri propri discorsi, alla menzogna. La principale differenza, che caratterizza l’attuale fascismo nella lingua, è dunque che tale fascismo non è imposto dall’alto ma si produce nel tessuto stesso delle interazioni sociali: è la cultura che ciascuno di noi, volente o nolente, respira e abita. Questo scarto epocale non nasce però dal nulla: è l’effetto di una trasformazione complessiva addebitabile all’ingresso decisivo nelle nostre vite della comunicazione di massa. Tra Orwell e noi, dal dopoguerra a oggi, sta un tornante tecnologico, un sovvertimento radicale della produzione e della circolazione dei discorsi e della lingua stessa. Internet è entrato irreversibilmente nell’esistenza di ciascuno, a tutti i livelli, ed è ormai l’altra faccia della globalizzazione economica. Ma è la televisione, come fenomeno popolare e totalizzante, ad avere ormai assunto il ruolo di un autoritarismo dolce, pervasivo e perfino conciliante, e ad avere modificato l’uso “normale” della lingua. La cultura berlusconiana è una cultura televisiva (la vicenda della sua genesi è nota): il discorso pubblico si è formato a partire dal teleschermo che è diventato uno specchio sociale, non solo e non tanto per ciò che riguarda direttamente l’informazione, la comunicazione e il dibattito politico, ma in tutte le sue dimensioni di intrattenimento, evasione e spettacolo. Il risultato, sotto gli occhi e nell’esperienza comune degli italiani, anche di quei pochi che non vogliono saperne, è che tutti ormai parliamo una lingua televisiva. Se analizziamo tale lingua, che è soprattutto spettacolare e sportiva, non facciamo fatica a ritrovare in essa il tratto fascista proprio nella semplificazione del lessico e nella riduzione drastica degli scenari discorsivi ad alcuni semplici stereotipi di pensiero (lo chiamo impropriamente così anche se è palese che non si tratta più di pensiero, e neppure di pensiero unico, bensì di svuotamento 97


e annullamento del pensare).6 Nella semplificazione della lingua televisiva (una lingua ormai parlata dovunque, nei luoghi pubblici come in quelli privati, senza più bisogno che l’apparecchio televisivo sia lì, acceso) sono percepibili molte altre differenze che modificano il modello storico al quale ho accennato all’inizio. Ne ricordo un paio che mi sembrano significative: l’inversione di alcune parole chiave come, per esempio, la parola “amore”; e lo sdoganamento del linguaggio litigioso, volgare e perfino scurrile. La lingua televisiva può rappresentare il ping-pong rissoso, spettacolarizzato dai talk show (anche dai più seri – ricordo che l’Italia si distingue nel mondo per tale genere televisivo), ma è nella sostanza una lingua quasi sempre compiacente: dice a chi l’ascolta “ti voglio bene”, “sto pensando a te”. E lo ripete dalla mattina alla notte, con i saluti cordiali e i molti “grazie” di chi ha la funzione di annunciare e intrattenere tra un programma e l’altro, con gli spot pubblicitari che fanno desiderare le merci proponendo ogni volta cortocircuiti di godimento consumistico, fino all’edulcorazione della cronaca nei telegiornali di maggiore ascolto. Quando Berlusconi, nel 1994, “scende in campo” e la prima cosa che proclama è che lui “ama” l’Italia e gli italiani, non fa altro che servirsi a colpo sicuro della lingua televisiva già ampiamente proliferante, e continuerà incessantemente a farlo. Più che un amore a buon mercato è il filtraggio, attraverso una lingua ridotta all’osso, di uno schematico manicheismo: o di qua o di là, o con me o contro di me, o amore o odio, o bene o male. L’effetto è che l’opzione morale diviene uno schema elementare, senza più spazio per le sfumature e il giudizio critico. Un ulteriore effetto è che il confine (anche il confine linguistico) tra amore e odio diviene assai labile, sottilissimo. Nell’abbraccio amicale, il nemico è lì a un passo. La risonanza che si produce è ben visibile 6. Bartezzaghi si spinge oltre, nel finale del saggio sopra citato, vedendo nel berlusconismo la capacità ontologica di “fare esistere le cose”. Cito: “La tesi che si può finalmente azzardare è quella secondo cui nell’universo semiotico berlusconiano a essere ridotto non è tanto il linguaggio, ma il mondo. Non il sistema dell’espressione, come accadeva nella neolingua orwelliana o nell’LTI nazista, ma il sistema del contenuto, ovvero l’inventario stesso del dicibile e del comprensibile”. Un azzardo senz’altro da accogliere e sviluppare, anche se, francamente, mi inoltrerei con qualche cautela nel terreno della cosiddetta “ontologia”.

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nel linguaggio ordinario dove questa labilità emotiva (di un amore che può rovesciarsi subito in odio verso l’altro, sia pure vicinissimo a noi) si registra continuamente nella vita di ciascuno, come se il rigido schema bipolare rischiasse di esplodere a ogni momento. A ben vedere, la compiacente lingua televisiva non educa per nulla al sorriso e alla tolleranza: al contrario, sottraendo le parole del pudore e della relazionalità discorsiva, insegna l’intolleranza e lo scatto emotivo. Dando luogo a dinamiche di questo tipo, la lingua televisiva è essenzialmente una lingua assertiva, lontanissima da ogni sembianza di democrazia. Ne consegue lo sdoganamento della volgarità. Zagrebelsky conclude il suo pamphlet in questo modo: “Un nuovo conformismo alla rovescia. Oggi è politicamente corretto il dileggio, l’aggressione verbale, la volgarità, la scurrilità. È politicamente corretta la semplificazione, fino alla banalizzazione, dei problemi comuni. Sono politicamente corretti la rassicurazione a ogni costo, l’occultamento delle difficoltà, le promesse dell’impossibile, la blandizia dei vizi pubblici e privati proposti come virtù. [...] Cosicché le posizioni sono ormai rovesciate. Proprio il linguaggio plebeo è diventato quel ‘politicamente corretto’ dal quale dobbiamo liberarci”.7 Nell’insulto si condensa e si esprime la labilità dello schema manicheo: è la via breve attraverso cui un linguaggio stressato erutta il suo bisogno di assoluta semplificazione. Se tempo addietro veniva stigmatizzato il terrore semantico dinnanzi al tecnicismo e alla gergalità burocratizzata, oggi parliamo piuttosto di un gergo giovanilistico e infantilizzante, poco burocratico e molto offensivo. Il binomio televisione/politica, nutrito spesso dalla metafora calcistica dello scontro e di un perenne derby, tradotti nel linguaggio in modi sempre meno simbolici, ci ammaestra ogni giorno nell’arte dell’insulto, più o meno urlato, come forma di comunicazione normale. Qui è il punto; la normalizzazione della cosiddetta volgarità come maniera “corretta” del discorso pubblico. Di fronte alla quale non darei uno spazio prioritario alla reazione di tipo etico (pur comprensibile, e anzi visibile nell’uso quasi automatico di termi7. G. Zagrebelsky, Sulla lingua del tempo presente, cit., p. 58.

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ni come plebeo o volgare). Ritengo che, prima di rappresentarci lo scenario di un declino morale, si tratti di localizzare il gesto fascista, appunto il fascismo che ha fatto irruzione nei nostri discorsi come normalità, comportamento quotidiano ormai ovvio. I tempi, nel senso delle quantità di tempo che abbiamo a disposizione, sono diventati strettissimi. La regola televisiva, in forza della quale il conduttore del dibattito taglia la parola di bocca al parlante, o la notizia di un telegiornale viene compressa in un minuscolo segmento temporale, è ormai una regola sociale non scritta della conversazione. Nelle comuni relazioni conversative, comprese quelle che avvengono tra le pareti domestiche, è ormai abitudine diffusa che i parlanti si tolgano reciprocamente la parola, come se ciascuno avesse già inteso tutto dalle prime sillabe e si sdoppiasse nel ruolo del conduttore che interrompe il discorso con un “quello che tu dici è chiarissimo”. Ci annoiamo ad ascoltare e abbiamo perso l’arte di qualunque pazienza, dato che le uniche parole che ci preme di udire sono infine le nostre. Da qui la precipitazione, il passaggio precoce all’atto linguistico insultante, cui deleghiamo telegraficamente un’intera sequenza di pensiero. Con il contraccolpo di investire di senso il gesto urlato o l’invettiva, e di disinvestire di senso, perfino di rimuovere come inessenziale, l’argomentazione o il racconto articolato delle nostre ragioni. È facile riconoscere qui quella che prima ho chiamato violenza strisciante, ed è altrettanto agevole vedervi all’opera un dispositivo di potere che premia il più arrogante e punisce il più paziente. E, se questo può essere uno spaccato, come credo, delle dinamiche linguistiche che ormai hanno preso piede nella vita di ogni giorno, appare del tutto chiaro che tale “cultura” può a sua volta venire alimentata e usata come atmosfera di un governo autoritario, senza ricorrere a eclatanti sospensioni della legalità democratica. Se il fascismo ha preso dimora nella lingua della vita ordinaria, allora si tratterà, per i governanti, semplicemente di soffiare sul fuoco per farne scaturire, in modo consensuale, le regole di un regime opaco, ispirato appunto alla retorica dell’amore verso il popolo e dove la parola “libertà” funziona soprattutto come difesa a oltranza della sfera privata. 100


Atlante occidentale-orientale Premessa

indubbio che negli ultimi anni il tema del confronto e del cosiddetto “dialogo” tra le culture – a cominciare da quelle distribuite lungo l’asse che da Occidente porta a Oriente e viceversa – stia ricevendo un’attenzione crescente, ed è facile pronosticare che questa tendenza sia destinata velocemente a incrementarsi. I motivi di un simile interesse sono certo svariati. A noi è sufficiente elencarne almeno tre. Innanzitutto questo “asse” sembra costituire il luogo più adeguato dove iscrivere e misurare in vivo il profilo complessivo di quello “sguardo concettuale” che caratterizza la nostra tradizione. Quale “ambientazione” migliore, infatti, della linea mobile orientale-occidentale per saggiare, in concreto, valenze, limiti, aporie di coppie sempre più “infuocate” e all’ordine del giorno come identità/differenza, sé/altro, simile/diverso, dal momento che essa è stata la stessa, emblematica, scena adoperata da Hegel per dimostrare che il viaggio storico-concettuale dello Spirito “a Est” potesse soltanto fare tappa, perché era necessariamente “a Ovest” – nella cultura europea, l’unica “saputa” – che doveva concludersi? La traiettoria Occidente-Oriente costituisce così il luogo simbolico per eccellenza dove mettere in risalto il ripensamento critico, lo smascheramento, la decostruzione e la decomposizione (oltre che l’arroccamento difensivo) di questo modello di razionalità (e i nomi sono, per esempio, quelli di Adorno, Freud, Lacan, Lévinas, Derrida, Bateson, Foucault, Deleuze) in vista di nuove for-

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me, di altre immagini, più sensibili e porose, di pensiero, ma anche il “luogo” dove verificare sul campo la novità reale veicolata da queste forme “alternative” (e i nomi sono, per esempio, quelli di Said, Spivak, Clifford, Panikkar, Jullien). Il primo effetto prodotto da tale scena è dunque quello di un’apertura. Il senso delle cose non coincide unicamente con il modo con cui esso viene concepito ad Atene, Roma, Heidelberg o Parigi. Non parla solo greco o tedesco. Non percorre solo certi circuiti categoriali. La traiettoria orientale-occidentale riflette innanzitutto un aumento di superficie e di voci. Al tempo stesso è innegabile che a determinare l’attualità di questa linea sia stata (e continui a essere) soprattutto l’urgenza con cui un insieme di fattori extrateoretici si è imposto all’attenzione generale. Il flusso crescente di umanità migranti, l’espansione di poteri tecno-scientifici e dei “nuovi” media, l’affermazione su scala mondiale del capitalismo (delle sue “leggi” e del suo modo di “vivere”), la sistematica – e di fatto irreversibile – devastazione ambientale sono fenomeni che hanno definitivamente sgretolato l’apparente compattezza delle precedenti ripartizioni geoculturali, ponendoci dinnanzi a una proliferazione di molti Orienti e di molti Occidenti, piccoli, mescolati e addossati gli uni agli altri, sparsi ovunque. Si parla così di “relazione totale” (Édouard Glissant), di “relazione sistemica” (Sloterdijk), per indicare che i contatti sono ormai simultanei, che “ciò che accade altrove si ripercuote immediatamente qui”, ovvero che la relazione non è più qualcosa che mette in comunicazione due poli definiti che la circoscrivono dall’esterno o una linea di percorrenza effettiva che va “da”-“a”, ma una medianità complessiva che ha assorbito tutto al suo “interno”, una soglia di soglie priva di “contorni”. In questo secondo caso, la scena della traiettoria orientale-occidentale, risolvendosi in un insieme di correlazioni e passaggi, continui ma istantanei, in incessante proliferazione ma simultanei, produce un effetto di contrazione, di addensamento: qualcosa che stimola e insieme travalica qualunque profondità di sguardo e di parola, che infatti si riducono, mentre quello che sfugge si fa comunque sentire premendo sull’uno e sull’altra (anche se si conosce una sola lingua – dice Glis102


sant –, si deve scrivere ormai “in presenza di tutte le lingue del mondo”). Proprio dal rilevamento di questa generale modalità “puntiforme” assunta dal visibile e dal dicibile sorge infine un terzo motivo di attualità della scena in questione. Tale modalità stabilisce che saremmo ormai alle prese con una realtà radicalmente trasformata, tutta incentrata sul presente, dove ci possiamo misurare solo con cose in procinto di svanire. Di qui l’incontestabile e inarrestabile tendenza all’evanescenza delle parole (e delle argomentazioni), alla loro perdita di credibilità, al loro uso ridotto e incoerente, senza memoria né aspettative. Le lingue odierne sarebbero tutte affette da una sicura marca involutiva (che ne sovverte la trama). Una marca, tuttavia, enigmatica, ambigua, di non facile classificazione, ricca forse anche di spunti promettenti. Perché se essa indica il ritmo sincopato, regressivo e semplificante della comunicazione mediatica, che investe ormai anche il linguaggio quotidiano e lo sconnette da un sapere tradizionale sempre più inaccessibile o inservibile, essa indica pure quello stato di autoirretimento, di autosvuotamento che ogni linguaggio raggiunge quando è spinto al limite estremo e dunque alla sottigliezza massima delle sue possibilità espressive. Convergendo tra loro, questi due sensi darebbero luogo alla “tempesta perfetta” della nostra involuzione linguistica (“tempesta” da cui, come è noto, è proibito uscire, pena l’immediata distruzione, sebbene salvarsene, guadagnando l’occhio interno del ciclone, sia comunque un’impresa improbabile). L’incontro orientale-occidentale in questo caso rifletterebbe la tendenza a scomparire del mondo, l’effetto di vuoto, di dissolvimento che il suo odierno eccesso di “pieno” produce, finendo con il costituire così il segno di anonimia e di spaesamento impresso sulla condotta quotidiana di chiunque (“mondo interiore”, perciò, incluso). L’Atlante qui proposto si avvale precisamente del gioco incrociato di queste tre immagini, apertura contrazione svuotamento, del loro continuo rimando interno. Non è difficile notare, infatti, come ciascuna di esse predomini a turno nei saggi qui presenti. Così, nel contributo di Pasqualotto, uno dei primi in Italia a essersi 103


interessato del tema, si valorizza la zona nevralgica posta “tra” Oriente e Occidente come chiave di sfondamento per ripensare la presunta evidenza di due blocchi culturali divisi e contrapposti. E mentre il saggio di Rana P.B. Singh, professore di Geografia culturale alla Benares Hindu University, appare un canto di dolore per la corrosiva occidentalizzazione dell’India, i contributi di Serres e di Sciacchitano costituiscono entrambi due modi diversi di valutare positivamente la “sparizione” di un certo modello storico del “mondo”, mentre il saggio di Kirchmayr ben illustra la problematica difficoltà, ma anche la necessità, di tracciare la mappa di una scena contemporanea letteralmente infigurabile. [P.B.]

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Vishva darpana. East-West atlas. Note sull’immagine del Mondo / il resto PAULO BARONE

a come si è svuotato il mondo! Come ci appare rapido e abbreviato. Riflesso nei mille scatti fotografici, nei piccoli filmati in continua produzione, nei testi concisi della comunicazione o dell’informazione quotidiana che rimbalzano dai satelliti e transitano attraverso i circuiti televisivi, la rete, i blog, i giornali. Nei passi veloci con cui procede, nelle telegrafiche citazioni con cui si racconta, nei modi convulsi con cui senza sosta cambia pelle, o sotto i colpi della povertà e delle guerre vede miriadi di forme umane migrare, il mondo perde consistenza e misura. Le cose, pressate da ogni lato, si consumano di colpo, dissolvono presto il loro fiato, si restringono e vanno rapidamente fuori uso. Mentre escono di scena macchiano di sangue o di nero quel tanto che basta, ma spesso per sempre, ora un albero, ora un corso d’acqua, ora un lembo di terra o d’aria. Cose che, una volta macchiate, a loro volta si piegano e si ritirano per sempre. Nell’Ulisse James Joyce usa qualche volta l’espressione di “lieve volantino accartocciato”.1 Ecco un’immagine appropriata del mondo contemporaneo. La profondità e l’altezza che si assottigliano a semplice superficie. La superficie che si trasforma in una

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Questo testo nasce come relazione al convegno Culture, Religion, Philosophy and Literature Revisited tenutosi a Mumbai (India), nel settembre del 2009, presso la K.J. Somaiya Bharatiya Sanskriti Peetham. 1. J. Joyce, Ulisse (1922), trad. di G. de Angelis, Mondadori, Milano 1970, p. 337.

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pagina su cui scrivere o da calpestare. La pagina che si consuma, si restringe e si riduce in un fogliettino striminzito, non più riciclabile. Come “lieve volantino accartocciato”, il mondo lascia vuota, lacunosa, desolata l’immagine in cui compare. Da quest’ultima infatti decade per spostarsi in un angolo, rannicchiato, ai margini della scena. Un mondo contratto, ridotto. Sottile e fragile, di carta. Logoro e dismesso, come una cartaccia che si appallottola e si getta via dopo averla usata. Un mondo che fluttua in uno spazio vuoto, senza meta, ormai divenuto lo scarto, il resto di se stesso. Un resto alla deriva nel vuoto. Carl Gustav Jung, tra i primi a evidenziarlo, notò nell’espressione di Joyce e nell’Ulisse in generale questi stessi elementi,2 e li indicò come segni eloquenti di ciò che capitava all’inconscio della “psiche moderna”: l’arte e la letteratura portavano anticipatamente e creativamente allo scoperto un modo di sentire oscuro, ma ormai nell’aria. “La noia della natura”, sostiene Jung, “il desolato fischiare del vento sulle rocce delle Ebridi, il sorgere e il tramontare del sole nel Sahara, il mormorio del mare”, con accanto i “resti di una storia giovanile”, le “rovine della storia spirituale in generale.”3 Insomma la detronizzazione e il sovvertimento di tutto “un mondo antico”. Ciò che si prefigurava era una visione radicalmente disarticolata, “sensoriale”, delle cose, concentrata soltanto sulla memoria fotografica delle “diecimila superfici” e delle “centomila ombreggiature della vita”,4 ma ciascuna di esse presentata nel loro misero e nudo “essere-così”,5 quasi nel rifiuto, dunque, di confluire in una qualunque ulteriore articolazione di senso. Jacques Lacan6 e la sua scuola confermano questa idea junghiana e ne delucidano i contorni. L’arte, rivelatrice dell’inconscio del nostro tempo, mostra, nelle sue produzioni più recenti, di avere radicalizzato la tendenza a privilegiare lo scarto, il residuo – soven2. C.G. Jung, L’“Ulisse”: un monologo (1932), trad. di P. Santarcangeli e M.A. Massimelli, in Opere, vol. X, tomo I, Boringhieri, Torino 1985. 3. Ivi, p. 386. 4. Ivi, p. 382. 5. Ivi, p. 386. 6. Cfr. J. Lacan, Il seminario. Libro XXIII. Il Sinthomo 1975-76 (2005), trad. di A. Di Ciaccia, Astrolabio-Ubaldini, Roma 2006.

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te lo scarto del corpo – quale cifra essenziale della realtà. Le composizioni di certe installazioni artistiche contemporanee (quelle di Christian Boltanski, per esempio) riproducono scene di vita qualunque attraverso l’assemblaggio di oggetti anonimi, insignificanti, quotidiani, molto spesso palesemente già usati (da qualcuno e in un modo che non conosceremo mai), altre volte montati in serie. A contraddistinguerle è l’impossibilità di essere ricomprese in un contesto che ri-dia loro (il) significato (originario) o in un nuovo, più alto, ordine di senso (futuro, ideale). L’inconscio del nostro tempo riflette così il volto andato perduto per sempre, che va sempre perdendosi delle cose, che manca di significato, che non produce senso. Ad apparire è un mondo non più organizzato da un principio simbolico, ma dominato invece da una “pura contingenza” che slega i singoli aspetti delle cose in momenti enigmatici e tra loro irriducibili. Un mondo segnato non più dal potere “condensante” della metafora, quanto piuttosto dalla debole forza della metonimia che pone i molteplici aspetti della vita semplicemente “uno accanto all’altro”,7 per contiguità, per mera “vicinanza”, proprio come degli scarti accumulati alla rinfusa. Insomma, di nuovo, “un resto alla deriva nel vuoto”, il mondo come un “lieve volantino accartocciato”. Ecco, dunque, l’immagine che – in netta discontinuità con il passato – caratterizza l’inconscio del nostro tempo, alla quale dovremo perciò sempre più abituarci e con cui dovremo sempre più fare i conti. Proprio il fatto di provenire dall’inconscio, tuttavia, ci impedisce di considerarla in senso puramente negativo, conclusivo, statico. Non nasconde forse già ora una “nuova” logica delle cose – volatilità, sensorialità, contingenza, metonimia? Forse potrebbe esserci d’aiuto un Atlante, allestito con questi quattro criteri provvisori, dove sviluppare la piccola immagine del mondo che l’arte ha intercettato nell’inconscio. Joyce stesso fa muovere l’immagine. Il “lieve volantino accartocciato”, come un “canotto” fra i fianchi giganteschi delle navi, “veleggia verso est”,8 va verso Oriente. Un’indicazione preziosa. 7. M.H. Brousse, Arte, avanguardia e psicoanalisi (2005), “Attualità lacaniana”, 7, 2008, pp. 61-72. 8. J. Joyce, Ulisse, cit., p. 337.

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Volatilità Per arrivare a comprendere come il mondo sia divenuto un “volantino accartocciato” (e come tale potrebbe inaugurare una fase in cui esso sussiste solo in quanto “resto” di se stesso) occorre fare un passo indietro. La percezione abituale, minacciata dal dissolversi del mondo conosciuto, ha probabilmente esasperato la persuasione che le cose siano per lo più delle forme isolate, dai contorni netti e ben delineati, dai volumi rotondi e predefiniti che si modificano solo a seguito degli urti e dei colpi subiti dall’ambiente circostante o a esso restituiti. Tuttavia, questa idea di grandezze autosufficienti e autoevidenti che sono messe di fronte a una realtà esterna già data – dunque l’idea di una correlazione diretta, lineare, automatica tra due termini – si è rivelata semplicemente insostenibile. L’illusione che si produce quando da un processo complesso si estrae e si assolutizza solo un momento e si oscura tutto il resto. Per la psicanalisi, e per molti autori a essa coevi, si tratta soprattutto del frutto dell’età moderna, ovvero dell’assolutizzazione della “personalità oculare” dell’Io, della sua coscienza e del suo modo “smemorato” di disporre le cose: come se il mondo coincidesse con dei contenuti acquisiti solo individualmente e solo in quel preciso istante. C’è qualcosa, invece, che corrode questo regime di visibilità. Una sabbia finissima di forze che, come un orlo invisibile, dilata e sfrangia quei contorni lineari, così artificialmente confezionati, e ne altera la meccanica di fondo. Non ci sono cose che, come una tabula rasa, fronteggino direttamente la “realtà esterna”. Secondo Jung quest’orlo è costituito da “una nube di immagini cangianti e di infinite iridescenze”,9 che avvolge ogni cosa senza darlo a vedere e ne filtra, devia, deforma, indirizza, favorisce gli incontri e le esperienze. Accanto a un alone più chiaro e tangibile formato da elementi sfuggenti ma comunque individuali (l’inconscio personale), il grosso più invisibile e oscuro di questa nebbia di immagini proviene da un “deposito” attivo (l’inconscio col9. C.G. Jung, Spirito e vita (1926), trad. di A. Vita e G. Bollea, in Opere, vol. VIII, Boringhieri, Torino 1976, p. 352.

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lettivo) di tracce ereditarie di “innumerevoli milioni di anni”, di sedimentazioni mnestiche di “tutte le vite dei progenitori”: un “vortice”, una “corrente infinita”,10 una “matrice” di immagini mai state coscienti prima. Immagini perciò che non si possono né dimenticare né ricordare come quelle individuali. Tali immagini originarie, archetipiche, ci sono radicalmente “estranee”, sono il “fuori” al fondo del nostro “dentro”, un “fuori” in cui siamo immediatamente collocati e da cui siamo continuamente influenzati, commossi, stimolati. Mentre, volenti o nolenti, le “traduciamo”, la “realtà esterna” perde la sua presunta evidenza, trasformandosi in un’immagine momentaneamente cristallizzata del “fuori” inconscio. Ogni esperienza che compiamo all’esterno, infatti, è sempre, parallelamente e ben più significativamente, dice Jung, “un’irruzione in un alveo antico ma fino a quel momento inconscio”.11 Questa “nube di immagini” sovverte perciò quella correlazione astratta e dicotomica tra mondo interno e mondo esterno. Le forme delle cose sono aperte, in divenire. Pulsano, si accendono, si intrecciano, scompaiono e poi riappaiono modificate. L’inconscio collettivo, che dà loro il ritmo, è un’origine che riguarda tutti, ma non ha un contenuto determinato. Essa è uno “stomaco vuoto”, per usare un’espressione di Lévi-Strauss. Certo, la storia di una specifica tradizione culturale retroagisce su di essa, polarizzandone l’influsso: e allora questa tradizione sarà inconsciamente assillata dalla tendenza scartata. In ogni caso, l’inconscio collettivo fa muovere. Jung se ne servì per relativizzare la “coscienza occidentale” ed entrare in contatto con la “sfera orientale”. Non solo con l’Oriente reale, ma simultaneamente – secondo il suo metodo – con l’immagine orientale che preme “fuori” nell’inconscio. La sabbia finissima che orla le cose è un fattore di dislocazione, di diffrazione, di rilevazione dei molteplici anacronismi in gioco, della memoria multipla che ci concerne, con una stringente vocazione interculturale. Proprio in virtù di tale vocazione, Jung propose la seguente correlazione: la 10. Id., Il problema fondamentale della psicologia contemporanea (1931), trad. di P. Santarcangeli, in Opere, vol. VIII, cit., p. 376. 11. Id., Energetica psichica (1928), trad. di S. Daniele, in Opere, vol. VIII, cit., p. 63.

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nebbia di immagini da cui siamo avvolti corrisponde ai samskara della tradizione indiana.12 Termine difficilmente traducibile, formato dalla radice verbale kr-, fare, agire, e dal prefisso sam-, insieme, esso è stato reso in modi diversi:13 formations mentales, dispositions acquises (Madeleine Biardeau), tendances subsconscientes, complexes (Lilian Silburn), coefficienti (Raniero Gnoli), constructions psychiques (Jean Filliozat), Triebkräfte (Helmuth von Glasenapp), karmisches Gestalten (Nyanaponika Bhikkhu), compositions, composant (André Bareau). In generale, comunque, i samskara designano le tracce, le orme, i resti lasciati dal passaggio di ogni genere di accadimento e immagazzinati nella memoria inconscia delle cose come delle predisposizioni o dei condizionamenti latenti, pronti, al momento opportuno, a ripresentarsi e a germogliare di nuovo. Apparentati ai samskara troviamo così leshya, che per i jaina indicano le diverse sfumature di colore che restano attaccate all’essere vivente al seguito dei suoi atti. Anushaya, la pellicola che continua ad aderire alle pareti di un recipiente ormai svuotato, che per i buddhisti rappresenta lo stato latente delle passioni (klesha). Vasana, l’odore che per hindu e buddhisti continua a impregnare un oggetto dopo che tutte le sostanze profumate ivi presenti si sono dileguate. Secondo questa idea pan-indiana insomma – che delicatamente ma senza tentennamenti mette in relazione ogni cosa con tutte le altre, ogni tempo con tutti gli altri –, qualcosa di impalpabile, qualcosa di volatile – un aroma, una fragranza, una risonanza – resta proprio quando non c’è più niente che rimanga.14 Un resto nel vuoto. “Resto” e “vuoto” sono del tutto compatibili. Veleggiando verso est, potremmo avvederci che per l’inconscio del nostro tempo il mondo è certamente in stato di permanente decomposizione, ma il vuoto in cui sopravvive è ricco di (quasi) invisibili, volatili “biglietti accartocciati”. Questi “resti” – sam12. Id., La psicologia del Kundalini-yoga. Seminario del 1932 (1996), trad. di L. Perez, Bollati Boringhieri, Torino 2004, p. 115. Molto utile a riguardo è H. Coward, Jung e il pensiero orientale (1985), trad. di L. Paoli e M.I. Wuehl, Vivarium, Milano 2005. 13. L. Kapani, La notion de samskara, De Boccard, Paris 1992, vol. I, p. 173. 14. Cfr. ivi, pp. 252-253.

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skara, odori, risonanze – sarebbero insomma il tessuto “aereo” con cui sin d’ora il mondo si va ricomponendo, restando tuttavia quello che è: vuoto. Possiamo abituarci all’immagine di un mondo composto esclusivamente di vasana e pellicole trasparenti? Per questo scopo abbiamo bisogno di un Atlante. Esso si costituisce a partire dal girovagare del volantino joyciano stabilizzando una traiettoria fra le molte possibili: quella da ovest verso est. Una traiettoria in vista di un resto, segnata da un doppio “fuori”: il fuori dell’Oriente reale congiunto con il fuori dell’immagine orientale che ci assilla dal nostro inconscio. Sensorialità Nessuno sguardo diretto né chissà quale sofisticato sistema di registrazione è all’altezza del compito. Per cogliere un’immagine del genere occorre una sottile opera di montaggio che dia luogo a un atlante vivente. La nozione di samskara respinge l’idea di entità isolate e circoscritte (la tabula rasa) e privilegia piuttosto l’idea di assemblaggio, mediazione, messa in relazione, interdipendenza. Come tale essa rivela una spiccata ambivalenza di fondo. Nel loro aspetto “attivo”, germinativo questi residui tendono a riprodurre circostanze identiche o simili a quelle che li hanno generati, alimentando così l’ordinario flusso delle cose (samsara), dove, senza saperlo, tutto ci illude – compattezza dell’Io, identità, intenzionalità, svolgimento razionale degli eventi, progresso storico – e, conseguentemente, tutto si perde. Non trattati o mal-trattati, insomma, lasciati allo stato di “seme” (bija), i samskara configurano una condizione di asservimento, di assoggettamento. Soltanto “disattivati”, abbrustoliti, arrostiti, essi costituiscono al contrario un’interruzione del flusso samsarico e dunque un fattore di liberazione, di emancipazione. Ecco perché la semplice constatazione del fatto che il mondo è divenuto un “volantino accartocciato” non è sufficiente. Essa rischia sempre di confondere il “volantino” con il “campo di rovine” e di condividerne la cifra equivoca. Una rovina – il cui culto è forse il segno più emblematico dell’Occidente – è infatti sempre potenzialmente carica della malinconia per quello che non c’è più o del desiderio di poterlo ritro111


vare. Come il “frammento”, essa rischia di alludere costantemente all’intero da cui proviene, di non poter prescindere dalla continuità con esso. Occorre perciò “trattare” la rovina, arrestando, spezzando la concatenazione lineare in base a cui ogni evento è spiegato da quello precedente e rinviato a quello successivo, e dunque rompendo con il modello storico di accumulazione cronologica dei fatti, interrompendo il movimento luttuoso alimentato dal fondo della rovina. Come i samskara-semi vengono bruciati e disattivati, le rovine – che i “volantini accartocciati” possono sembrare – vanno ulteriormente demolite, arrestando quel movimento storico-temporale e concettuale di restaurazione che esse generano.15 Solo a questo punto i volantini si trasformano in “resti”, in qualcosa che sta fermo, immobile. In quiete. Non si tratta di una condizione di azzeramento definitivo. Walter Benjamin vi ha visto “il segno di un arresto messianico dell’accadere”, giacché “il Messia tronca la storia” e “non compare alla fine di uno sviluppo”, e dunque in questo segno messianico ha visto un’opportunità di redenzione e di salvezza per le tracce, altrimenti soppresse, del mondo e della sua storia. Una volta colpita, la storia si concentra, rende contemporanei passato presente e futuro, e si scinde in immagini. In questa dialettica, che Benjamin definisce im Stillstand, “in stato di quiete”, sarà poi compito dello storico autentico cercare di “trattenere” tali immagini, di “salvarle”. In modo analogo, bruciare i samskara-bija, le tracce in procinto di germogliare, non significa necessariamente una liberazione definitiva dalle tracce. (Si brucia qualcosa e si ottiene cenere, ma se si brucia cenere si ottiene ancora cenere. La cenere, indissolubile, è infatti uno dei più noti segni del brahman.) Si può essere liberi e ancora in vita. Non a caso si parla di jivanmukta, di “liberato in vita”, e la seguente similitudine ben illustra la sua posizione: il jivanmukta è come un vaso che, svuotato delle spezie un tempo contenute, rimanga tuttora impregnato del loro aroma, delle loro vasana. Questi aromi, questi odori – è evidente – non potranno essere impiegati per cucinare, né per qualunque al15. Mi permetto di rimandare al mio Spensierarsi. Raimon Panikkar e la macchina per cinguettare, Diabasis, Reggio Emilia 2007.

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tro uso.16 Bruciati i semi, demolite le rovine, fermata la storia, restano adesso i volantini accartocciati, le tracce di odore, le risonanze degli accadimenti del mondo, tutti finalmente senza impiego. Stanno in un “vaso vuoto” appositamente realizzato con un po’ di cenere di brahman e intarsiato da qualche scheggia messianica. Un vaso vuoto, un Atlante, dedicato solo alle rimanenze, capace di trattenerle senza rivolgere loro alcuna richiesta, in una condizione mezza liberata e mezza redenta. L’Atlante orientale-occidentale, per esporre, deve funzionare come un laboratorio. Contingenza Il fatto di parlare di “liberazione in vita” e di “redenzione delle immagini” indica chiaramente che la dialettica in stato di quiete conserva al suo interno un grado ridotto, ma pur sempre un certo grado di distanza e differenza. Se guardiamo al tantrismo e allo shivaismo non dualista del Kashmir, tuttavia, ci accorgiamo che questa persistenza non costituisce un difetto, un segno di incompletezza, come per la maggior parte dei sistemi classici dell’India, ma una caratteristica specifica. Un modo leggermente diverso di considerare la riunificazione. Laddove l’Advaita Vedanta o lo Yoga classico si ripromettono di trasformare in un “mare d’olio” le fluttuazioni mentali, sciogliendovele dentro come “bambole di sale”, lo shivaismo realizza piuttosto la riunificazione di riposo e movimento grazie a un’oscillazione rapidissima, una vibrazione (spanda), un passaggio al limite, grazie a cui l’opposizione si indetermina e si rende indistinguibile, senza soppressione di un polo a favore dell’altro.17 Un fremito, una pulsazione infinitesimale è l’essenza che anima l’universo e il contrassegno della coscienza suprema. Vibrazione che certe ripartizioni intellettuali e andature mentali congelano e che le irruzioni emotive – paralizzando o facendo esplodere l’abitudine men16. Cfr. A. Pelissero, Il riso e la pula, Edizioni dell’Orso, Torino 1998. 17. Cfr. M. Hulin, Le principe de l’ego dans la pensée indienne classique. La notion d’ahamkara, De Boccard, Paris 1978. Cfr. anche G. Boccali, R. Torella (a cura di), Passioni d’Oriente, Einaudi, Torino 2007; G. Kaviraj, Selected Writings, Indica Books, Varanasi 2006; A. Padoux, Comprendre le tantrisme, Albin Michel, Paris 2010.

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tale – scongelano.18 Il tantrismo shivaita estende questa capacità di scongelamento anche a una precisa dottrina dell’esperienza estetica.19 Dinnanzi a una scena teatrale o durante la lettura di una poesia chiunque ha l’opportunità (non la certezza) di sperimentare il rasa, il sapore, e il dhvani, la risonanza,20 che – portando al limite le opposizioni emotive della vita ordinaria come l’opposizione tra il letterale e il metaforico della lingua – sospendono (per intensificazione), in una eco di quiete (shantarasa), le procedure e le diciture abituali delle cose: a mezza via tra l’esperienza mistica autentica e definitiva e il ripristino delle precedenti, ordinarie, consuetudini, a metà strada tra una kundalini 21 non del tutto raddrizzata, ma nemmeno ancora addormentata (a mezza via tra Oriente e Occidente). Questo chiarisce come i resti, le tracce, i volantini non siano un materiale inerte, accumulato in una pace mortale, perché la loro è un’immobilità “vibrante”. E se è vero che offrono al mondo una consistenza mediana, intermedia, tra gli opposti (come l’estetica kashmira), tale medietà sarebbe sottile come un capello, evanescente, fuggevole, precaria, ai limiti dell’an-estetico. Il vaso-vuoto del jivanmukta non potrebbe serbarli con placida sicurezza, una volta per tutte. Così come la grande opera di Benjamin sui passages (il Passagenwerk) – che doveva risvegliare la coscienza collettiva del XIX secolo attraverso l’insolita conformazione dei “passaggi” di Parigi, dove coesistevano interno ed esterno, casa e strada – è, di fatto, esposta al rischio di non trattenere le immaginidialettiche che balenano solo “nell’attimo del pericolo”; e così come il grande e incompiuto atlante per immagini (il Bilderatlas) Mne18. Cfr. Vasugupta, Gli aforismi di Shiva, a cura di R. Torella, Mimesis, Milano 1999; R. Gnoli (a cura di), Testi dello Shivaismo, Boringhieri, Torino 1962; Abhinavagupta, Luce dei Tantra, a cura di R. Gnoli, Adelphi, Milano 1999. 19. R. Gnoli, The Aesthetic Experience According to Abhinavagupta, Chowkhamba Sanskrit Series Office, Varanasi 1968; M. Paranjape, S.Visuvalingam (a cura di), Abhinavagupta: Reconsiderations, Samvad India, New Delhi 2006. 20. Anandavardhana, Dhvanyaloka, a cura di V. Mazzarino, Einaudi, Torino 1983. 21. Kundalini costituisce una manifestazione microcosmica dell’energia primordiale (della shakti) ed è rappresentata come un serpente arrotolato e addormentato al fondo della colonna vertebrale, nel perineo. “Svegliare” kundalini – lo scopo del praticante – significa farla ascendere attraverso una serie di stazioni (chakra) sino al suo raddrizzamento definitivo.

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mosyne di Aby Warburg – che doveva illustrare la memoria storica dell’Occidente incrociando tra loro differenti schemi iconografici per far riemergere antiche cariche energetiche (le formuledel-pathos) apparentemente sepolte – finisce col trovarsi di fronte a un “groviglio di serpenti vivi”, a una “storia di fantasmi per adulti”, in maniera analoga il nostro Atlante orientale-occidentale, dinnanzi al crepitare intermittente dei resti del mondo, non può che registrare il suo continuo fallimento, la sua continua caduta della loro messa a fuoco. Si tratta di una “macchina scenica” davvero speciale, che funziona al meglio solo cadendo e ricadendo, come in una piccola danza della pioggia.22 Vicinanza Un atlante della memoria, dunque: ma per ricordare, per vedere e dire, infine, che cosa, se del mondo prova a trattenere, al di là delle rovine (da demolire) e dei “semi” (da bruciare), solo aromi, odori e risonanze, ovvero un mucchietto di “qualcosa” di quasi-intangibile, un quasi-nulla, per giunta liberato dalla necessità di muoversi all’interno di qualunque concatenazione storica, temporale, linguistica, culturale? Rimanendo senza-impiego – immobili – è come se i resti rimanessero senza punti di riferimento, senza-memoria, fuori-contesto. Al tempo stesso, aromi, odori, sfumature sono pur sempre la propaggine più estrema e sottile, l’esito ultraresiduale che le cose scomparendo, venendo meno, lasciano di se stesse. “Scomparsa” qui vorrebbe anche dire: vite soppresse, violate, sfruttate. Di più: momenti (all’interno di una stessa vita) perduti, mancati, troncati. Ma anche: circostanze semplicemente passate, dileguate. Modi insignificanti di essere, insomma, che qualunque concatenazione storico-culturale occulta. Momenti di disumanità che qualunque tradizione “dimentica”. Circostanze specifiche che la lingua generalizza e dissolve. Più che senza-memoria, allora, è come se i resti ne rovesciassero la trama ed eviden22. Accanto a Benjamin, a Warburg e alla linea Jung-Lacan, concorrerebbero alla formazione provvisoria del nostro Atlante una linea Joyce-Broch, una linea Proust-Beckett, una Bergson-Jankélévitch, una Spinoza-Deleuze, insieme a quella shivaita (e a Paul Celan). Linee sintetiche, magnetiche, incrociate fra loro, da considerarsi in questa sede “sotto traccia”.

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ziassero le fratture, i colpi a vuoto, le cancellature, di storia, tempo e lingua. La concatenazione di questi ultimi cesserebbe di avvenire e verrebbe così disarticolata. Il fluire disattivato, deposto e scomposto negli innumerevoli modi di essere disumani, passati, perduti. Ecco allora che ogni aroma, ogni sfumatura – grazie alla sua speciale posizione eccentrica – sarebbe in condizione di incorporare, di tenere vicino e raccolto, di ricordare l’insieme slegato dei momenti di sparizione che l’ha generata e da cui proviene. Di tenere vicino il ghiaccio del loro essere-svaniti, di ricordare il buio della loro dimenticanza. Raggiungendo la sfumatura, le cose guadagnerebbero il loro (paradossale) stato di reintegrazione. Questo spiega perché dire “casa, ponte, fontana, porta” (alla Rilke) non sarebbe sufficiente per salvarle. Dirle così interromperebbe anzitempo il processo di scomposizione, che deve invece giungere sino alla loro sfumatura per potersi sganciare dalla catena di dicibilità e re-incorporarla disarticolata. Nella sfumatura, scomposizione e reintegrazione, distruzione e salvazione s’incrociano delicatamente e nessuno conosce il momento esatto del loro bilanciamento, né la sua durata. Fare la sfumatura sarebbe comunque una mossa poetica: come dice Paul Celan, la poesia “viene fuori dalla lingua e si pone a fronte [gegenüber] della lingua”, in un luogo dove “la sinonimia diviene impossibile”.23 Fuori e a fronte del linguaggio – ma anche fuori e a fronte di ogni storia, di ogni tradizione culturale –, i resti acquisirebbero uno status analogo ai “fenomeni originari”, ai goethiani Urphänomene, che, per la loro posizione di relativa “estraneità” e discontinuità, possono inaugurare un ciclo storico a-venire. Come pronunciare allora i resti-sfumature senza slogare il significato e senza fare del linguaggio un insieme di balbettii, di cinguettii, di ronzii? E cosa mostrare di un mondo, il nostro mondo presente – composto esclusivamente da un cumulo consistente di odori, aromi, risonanze che tengono momentaneamente incorpo23. P. Celan, Der Meridian. Endfassung, Entwürfe, Materialien, a cura di B. Böschenstein e H. Schmull, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1999, p. 104. Cfr. anche il bel saggio di C. Miglio, Vita a fronte. Saggio su Paul Celan, Quodlibet, Macerata 2005.

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rati i processi di sparizione da cui provengono –, se non la sua utopia? Il nostro Atlante potrebbe presentarci un mondo del genere solo nella forma di un disegno infantile, di una Kinder-Landkarte, di una “carta geografica per bambini” (Paul Celan),24 come certe mappe del Paradiso medievali o di Benares, dove un meridiano – “immateriale come la lingua, eppure terrestre”, “qualcosa di circolare”25 come un mandala – tiene infinitamente vicini dei luoghi, dei fenomeni originari altrimenti dispersi e comunque introvabili sulle mappe correnti. Per questa speciale qualità del suo materiale, il nostro Atlante – costruito poeticamente – sarebbe così, in senso lato, un vero e proprio Atlante politico, dove sviluppare i balbettii originari presenti in tutte le lingue di oggi: artistici, musicali, religiosi, scientifici, giuridici, filosofici, psicologici, architettonici, paesaggistici. E come centro, fra i tanti forse possibili, questa nostra carta geografica infantile avrebbe proprio Benares, che durante la dissoluzione cosmica – si narra – concentra se stessa e tutte le cose in un punto (bindu), e quindi – aperta come un ombrello – si lascia intravvedere come un “alone nel cielo”26 (o, come direbbe Celan, alla stregua di un Atemkristall, di un cristallo di fiato).

24. Cfr. P. Celan, Der Meridian, in Gesammelte Werke, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1986, vol. III, pp. 187-202. 25. Ivi, p. 202. 26. J.P. Parry, Death and cosmogony in Kashi, in R.P.B. Singh (a cura di), Banaras (Varanasi). Cosmic Order, Sacred City, Hindu Traditions, Tara Book Agency, Varanasi 1993, p. 105.

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Tra Oriente e Occidente GIANGIORGIO PASQUALOTTO

栢 1. Questa antica grafia del carattere cinese che significa “tra” è particolarmente interessante, perché rende in modo efficace l’idea di uno spazio aperto tra due stipiti di una porta o di una finestra, indica cioè una soglia, un luogo di passaggio, non una cosa o uno stato di cose. Non solo: la piccola forma quadrangolare posta in basso tra i due segni che evocano gli stipiti rappresenta il sole, e quindi la luce. Come a dire che lo spazio di ogni passaggio deve essere luminoso e illuminante: deve avere una luce ma anche portare luce a chi lo effettua. È ovvio che tutto questo non trapela dalle tre lettere della parola “tra” né da quelle di qualsiasi altra parola appartenente a lingue con trascrizioni fonetiche. Pertanto il contenuto dinamico attivato dall’antico carattere cinese non emerge nell’espressione “tra Oriente e Occidente” che induce invece l’idea che vi sia un preciso luogo mediano tra due luoghi, altrettanto precisi, denominati “Oriente” e “Occidente”. In realtà il confine tra questi due luoghi non è né fisso nello spazio né stabile nel tempo, ma si rivela come una linea mobile e tratteggiata che dipende in gran parte dalle propensioni, dagli interessi e dalle intenzioni di coloro che provano e hanno provato a effettuare il passaggio. L’idea che Oriente e Occidente siano due realtà autonome con un’identità ben definita nello spazio e consolidata nel tempo, è frutto di un comodo espediente per accontentare l’immaginazione e semplificare la comunicazione, ma non può affatto pretendere di riferirsi a due “cose” esistenti in modo autonomo e per118

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manente. In effetti, anche dal punto di vista geografico “oriente” e “occidente” sono solo due semplici convenzioni indispensabili per la mappatura della superficie terrestre e per l’orientamento di qualsiasi itinerario. Ma, al di là di queste loro funzioni convenzionali, non è possibile attribuire a esse alcuno statuto di realtà: infatti, dato che il moto apparente del sole intorno alla Terra compie un giro completo nell’arco delle ventiquattro ore, ciascun punto del cielo è sempre, contemporaneamente, “orientale” e “occidentale”. Ora, tentare di sciogliere questa ambiguità sostituendo “Oriente” con “Asia” non sarebbe affatto risolutivo: infatti è vero che con “Asia” possiamo indicare quella parte della Terra che confina a nord col mar Glaciale artico, a sud con l’oceano Indiano, a est con l’oceano Pacifico; ma, quando dobbiamo indicare il suo confine occidentale, siamo costretti a mostrarci molto meno sicuri: tale confine è segnato dall’Europa, dal mar Nero e dal mar Rosso, oppure dai monti Urali, dal mar Caspio e dal mare Arabico? A questo dubbio generale di carattere geografico si accompagna quello relativo alla questione particolare, sempre molto dibattuta ma ancora oggi non del tutto risolta, di annoverare o no la Russia come parte integrante della storia e della civiltà europee.1 Dal punto di vista culturale il carattere convenzionale e instabile dei concetti di “Oriente” e “Occidente” è ancora più forte: basterebbe a questo proposito ricordare che fino al XX secolo i paesi balcanici sono stati considerati “Oriente” o, all’opposto, che a lungo si è pensato alla civiltà e alla lingua colta dell’India, il sanscrito, come fattori determinanti le origini della civiltà europea.2 1. A questo proposito sarebbe interessante considerare la Russia come spazio “eurasiatico” nel senso di ponte o cerniera tra Europa e Asia, al contrario di quanto hanno pensato gli esponenti dell’ideologia nazionalistica dell’Eurasia, giunta oggi alle inquietanti proposte nazi-bolsceviche di A. Dugin: Eurasia. La rivoluzione conservatrice in Russia (1994), Nuove Idee, Roma 2004; L’idea eurasiatista, “Eurasia”, 1, 2004, pp. 7-23; La visione eurasiatista, “Eurasia”, 1, 2005, pp. 7-24; Intervista, “Eurasia”, 2, 2007, pp. 145-147. Su Dugin cfr. A. Ingram, Alexander Dugin: Geopolitics and Neo-fascism in Post-Soviet Russia, “Political Geography”, 8, 2001, pp. 1029-1051. Sulla complementarietà tra follie imperialiste russe e statunitensi cfr. D. Chaudet, F. Parmentier, B. Pelopidas, L’empire au miroir. Stratégies de puissance aux ÉtatsUnis et en Russie, Droz, Paris 2007. 2. Sulle vicende per nulla lineari che hanno segnato il sorgere della distinzione tra Europa e Oriente cfr. il classico lavoro di F. Chabod, Storia dell’idea di Europa, Laterza, RomaBari 1961.

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A rafforzare la natura problematica di stabilire che cosa costituisca “Oriente” e “Occidente” dal punto di vista culturale vi sono poi le importanti considerazioni svolte rispettivamente, da Said in Orientalismo e da Buruma e Margalit in Occidentalismo, lavori in cui si dimostra come “Oriente” e “Occidente” sono categorie inventate, rispettivamente, dagli occidentali e dagli orientali.3 Non solo: pur sforzandosi di considerare vera e legittima l’esistenza di chiare e stabili linee di demarcazione tra Oriente e Occidente, si dovrebbe tuttavia riconoscere all’interno di queste enormi aree geografiche la presenza e la vastità di espressioni culturali estremamente diverse: all’interno dell’area geografica convenzionalmente definita “Asia” o “Oriente”, si è prodotta un’immensa costellazione di culture e civiltà, nella quale hanno assunto un ruolo preminente le culture e le civiltà della Persia, dell’India e della Cina, ma hanno avuto una loro luminosa e originale presenza anche quelle dell’Asia centrale, del Nepal, del Tibet, dell’Indocina, dell’Indonesia, della Corea e del Giappone. Per cui, a ben guardare, sarebbe opportuno sostituire il termine “Oriente” con quello di “Orienti”. Altrettanto ovvia è la constatazione che, all’interno di ciò che denominiamo “Occidente”, si sono prodotte e sviluppate formazioni culturali estremamente differenziate, per cui si dovrebbe parlare di “Occidenti” e non più di “Occidente”: a questo proposito basterebbe pensare al fatto che quella che denominiamo “cultura europea” ha le sue radici non solo nella civiltà greca, ma anche in tre forme di monoteismo (giudaismo, cristianesimo e islam), assai lontane, certo, dal politeismo pagano dei greci ma anche assai diverse tra loro. Eppure, nonostante queste evidenze, si deve registrare che ancora oggi vive e vegeta l’idea che si rappresenta un Oriente non solo diverso, ma addirittura opposto all’Occidente. Questa idea ha 3. E. Said, Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente (1978), Bollati Boringhieri, Torino 1991 e I. Buruma, A. Margalit, Occidentalismo (2004), Einaudi, Torino 2004. Cfr. anche C.A. Breckenridge, P. van der Veer (a cura di), Orientalism and the Post-colonial Predicament. Perspectives on South Asia, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 1993. Sui meccanismi mediante i quali si sono costruite le tradizioni si vedano gli importanti lavori di F. Squarcini, Tradens, Traditum, Recipiens, SEF, Firenze 2008; e di G. Leghissa, Incorporare l’antico. Filologia classica e invenzione della modernità, Mimesis, Milano 2008.

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le sue radici profonde e tenaci in alcuni poderosi sforzi fatti dai greci in alcuni periodi della loro storia per distinguersi dai troiani e dai persiani. A emblema di questa antica contrapposizione potrebbe essere preso il sogno di Atossa cantato nei Persiani di Eschilo: “Mi parve che due donne ben vestite / l’una abbigliata d’abiti persiani / l’altra di pepli dorici, apparissero, / cospicue assai più che le donne d’ora / per la statura, splendide, sorelle. L’una abitava in Grecia (era la terra / assegnata dal fato), l’altra in Asia. / Mi parve che facessero baruffa”.4 È lo stesso Eschilo a sottolineare, pochi versi più in là, che i greci si distinguono dai persiani perché “non c’è nessuno a cui siano schiavi o sudditi”. A rinforzo di questa differenza si schiera Ippocrate che reputa gli asiatici dotati di miti costumi, ma ritiene che ciò sia dovuto al dispotismo, forma politica invisa ai greci: “La maggior parte dell’Asia è governata da re, e dove gli uomini non sono padroni di se stessi, autonomi, ma dipendono da un padrone, non pensano ad addestrarsi alla guerra, ma fanno di tutto per non sembrare bellicosi”.5 Chiarissimo appare poi questo conflitto a Erodoto, il quale, però, a proposito delle guerre di Troia, ricorda le responsabilità dei greci: “Comunque, fino a quel momento, fra greci e barbari non c’era stato altro che una serie di reciproci rapimenti; a partire da allora invece i maggiori colpevoli sarebbero diventati i greci: essi infatti cominciarono a inviare eserciti in Asia prima che i persiani in Europa. [...] Da allora e per sempre i persiani avrebbero guardato con ostilità a tutto ciò che è greco. In effetti essi considerano loro proprietà l’Asia e le genti barbare che vi abitano e ben separate, a sé stanti, l’Europa e il mondo greco. Da allora, sempre, tutto ciò che è greco è da loro considerato nemico. Poiché i persiani considerano l’Asia e i popoli che vi abitano come cosa loro; con l’Europa, invece, e con il mondo greco in particolare, ritengono di non aver nulla in comune”.6 Da allora si può di4. Eschilo, I persiani, Sansoni, Firenze 1988, p. 7. 5. Cfr. Ippocrate, Arie acque e luoghi, Marsilio, Venezia 1990, p. 115. 6. Cfr. Erodoto, Le Storie, I, 4. È da ricordare che l’approccio di Erodoto fu “pluralista”, non riconoscendo a nessun popolo il diritto di proclamarsi superiore a un altro: “Se si chiedesse a tutti gli uomini di scegliere fra tutte le usanze le migliori, ciascuno, dopo aver ben ri-

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re che, nell’immaginario dell’Occidente, l’Oriente, anche quello più vicino, divenne sinonimo di “luogo della barbarie”: per esempio, ai bizantini e poi agli ottomani vennero certo riconosciuti i caratteri di estrema raffinatezza ma contemporaneamente anche quelli di estrema crudeltà e di decadenza; e poi i russi vennero visti per secoli – prima dalla propaganda di molte corti europee, poi da quella del nazismo e del fascismo, ma addirittura dall’opinione pubblica di non pochi paesi democratici occidentali – come barbari rozzi e violenti, capaci solo di comandare in modo brutale o di obbedire in modo servile. Con l’India e con l’Estremo Oriente le cose, seppur in modi diversi, non sono andate molto meglio: si pensi alle diverse forme di propaganda coloniale messe in campo dall’Impero britannico,7 e in genere dalle diverse potenze coloniali, soprattutto durante il XIX secolo, per denigrare tutte quelle civiltà dove non era nato né il cristianesimo, né il capitalismo, né le rivoluzioni scientifiche. Gli esempi contrari, rappresentati nella storia del pensiero occidentale da Montaigne,8 Montesquieu, Voltaire, Leibniz ecc., non sono riusciti a capovolgere o almeno a modificare i pregiudizi contro i popoli non europei, pregiudizi che animano e alimentano ancora oggi molte tendenze dell’opinione pubblica occidentale.9 flettuto, indicherebbe le proprie, tanto sarebbe convinto che i propri costumi siano i migliori in assoluto; perciò non è naturale deridere simili cose, a meno di essere in preda alla follia” (ivi, III, 38). Sui rapporti tra Grecia e Persia cfr. C. Riedweg (a cura di), Graecia Maior. Kulturaustauch mit Asien in der archaischen Periode, Schwabe, Basel 2009. 7. Si pensi, per esempio anche ad alcune versioni “democratiche” dell’ideologia imperialista britannica, come quella di James Mill, History of British India, Baldwin, Cradock and Joy, London 1818. 8. “Chaque homme porte la forme entière de l’humaine condition” (M. de Montaigne, Essais, 1580-95, Flammarion, Paris 1979, libro 3, cap. 2, p. 20). Montaigne rappresenta la pietra miliare di ogni discorso che voglia affrontare la questione della barbarie senza pregiudizi. Memorabile resta a tale riguardo la sua osservazione del fatto “che ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi” (M. de Montaigne, Saggi, Mondadori, Milano 1970, vol. I, libro I, cap. XXXI, p. 272). Sull’importanza del discorso di Montaigne sulla presunta inferiorità dei popoli “primitivi” cfr. M. Gauchet, La condition politique, Gallimard, Paris 2005, pp. 91-180 e P. Slongo, Governo della vita e ordine politico in Montaigne, Franco Angeli, Milano 2010, pp. 150-154. 9. L’opposto puramente speculare di queste posizioni avverse agli Orienti lo si trova nelle varie forme di esotismo: cfr. per la chinoiserie E. Eerdmans, The International Court Style: William & Mary and Queen Anne: 1689-1714, The Call of the Orient, Rizzoli Publications, New York 2006; per il giapponismo S. Wichmann, Giapponismo (1980), Fabbri, Milano 1981; e per l’indomania T.R. Trautmann, Aryans and British India, University of California Press, Berkeley 1997.

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Ora, senza addentrarci a smontare analiticamente i momenti storici e le motivazioni ideologiche di questa avversione di fondo degli Occidenti contro gli Orienti, è importante far affiorare le radici di questa millenaria vicenda di incomprensioni, di tensioni e di scontri. Una delle radici che in questo lavoro di scavo si impone immediatamente all’attenzione è quella rappresentata dalla civiltà greca che da duemilacinquecento anni costituisce il pilastro centrale che sorregge la presunzione di superiorità della civiltà europea. Ebbene, non appena si considera un po’ più da vicino questa radice, altrettanto immediatamente si è costretti a constatare che essa non è affatto compatta e unitaria, ma articolata e plurale: infatti, la cultura della Grecia classica e pre-classica fu il prodotto di varie e successive contaminazioni, intersezioni e sovrapposizioni che ci impediscono di poter parlare di un suo carattere stabile e univoco. Basti ricordare il fatto che la configurazione etnica della Grecia classica fu in generale il risultato della fusione tra pelasgi, i più antichi abitanti dei territori ellenici, e gli indoeuropei, una stirpe a sua volta plurale, di origine nordica, che a ondate successive tra il XIX e il XIII secolo a.C., invase tali territori fondendosi con le stirpi originarie. In particolare, alle origini della civiltà greca troviamo un duplice influsso, quello miceneo e quello minoico, per molti versi antitetici: mentre il primo trasmise un’organizzazione della vita incentrata sull’agricoltura, il secondo ne trasmise una fondata sul commercio, con tutti i corollari che queste due diverse forme di vita comportarono, dalle tecniche di governo ai sistemi di difesa, dall’architettura all’urbanistica.10 Fin dalle origini, dunque, la civiltà greca si connotò per una sua intrinseca complessità di elementi e fattori contrastanti che in seguito, soprattutto a partire dal VII secolo a.C., riuscì a bilanciare e 10. Cfr. M. Finley, La Grecia. Dalla preistoria all’età arcaica (1970), Laterza, Roma-Bari 1972; R. Bianchi Bandinelli (a cura di), Storia e civiltà dei Greci, Bompiani, Milano 1979; J.-P. Vernant, Mito e società nell’antica Grecia (1974), Torino, Einaudi 1981; O. Murray, La Grecia delle origini (1980), il Mulino, Bologna 1988; M. Weber, Storia economica e sociale dell’antichità (1891), Editori Riuniti, Roma 1981, cap. II, § 4; M. Austin, P. Vidal-Naquet, Economie e società nella Grecia antica (1972), in M. Vegetti (a cura di), Marxismo e società antica, Feltrinelli, Milano 1977, pp. 205-230; S. Settis (a cura di), I Greci. Storia, cultura, arte, società, Einaudi, Torino 1996.

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a far convivere evitando eccessivi traumi, senza tuttavia mai ottenere una configurazione univoca e stabile. 2. Questa complessità variabile riscontrabile nelle origini etniche della civiltà greca non poteva risparmiare le espressioni dello “spirito”: le origini della religione,11 dell’arte12 e del pensiero13 greco appaiono infatti altrettanto variegate e complesse, assai lontane da quell’immaginario “olimpico” con cui in epoca moderna ci si è voluti rappresentare in modo unitario l’intera cultura greca.14 Un colpo mortale a questa illusione “olimpica” fu dato da Nietzsche, in particolare con il suo libro La nascita della tragedia, nel quale recuperava la figura del dio Dioniso come testimonianza del fatto che la cultura greca fu a lungo attraversata da un impulso che riconosceva nell’irrazionale, nell’inconscio e nella trasgressione elementi e fattori decisivi per la vita e per l’arte, non semplicemente opposti all’impulso verso la forma, la razionalità e l’ordine rappresentati dalla figura del dio Apollo.15 Un aspetto particolare e particolarmente delicato che si incontra nei tentativi di definire “Oriente” e “Occidente” come due ambiti autonomi e affatto separati, se non addirittura opposti, è quello che emerge quando si affronta il problema di stabilire se in “Oriente” si sia data filosofia o, addirittura, se l’“Oriente” abbia

11. Cfr. M.P. Nilsson, Geschichte der griechischen Religion, Beck, Munchen 1941; W. Burkert, La religione greca di epoca arcaica e classica (1977), Jaca Book, Milano 2003. 12. Si vedano, per esempio, in architettura, le notevoli diversità tra lo stile dorico e quello ionico, derivanti entrambi da influssi “stranieri”; ovvero, nella scultura, gli influssi orientali del periodo “dedalico”. 13. Cfr. J.-P. Vernant, Le origini del pensiero greco (1962), Editori Riuniti, Roma 1976. 14. J.J. Winckelmann, Il bello nell’arte. La natura, gli antichi, la modernità (1755-68), a cura di C. Franzoni, Einaudi, Torino 2008. 15. L’intuizione di Nietzsche è stata in vari modi ripresa ed elaborata: cfr., a titolo esemplare, E.R. Dodds, I Greci e l’irrazionale (1951), La Nuova Italia, Firenze 1957; C. Diano, Forma ed evento, Neri Pozza, Vicenza 1952; G. Colli, La sapienza greca, Adelphi, Milano 1977, vol. I. Del resto, per convincersi che la cultura greca non è affatto riducibile a una sua rappresentazione “olimpica”, basterebbe rileggere quanto cantò Omero a proposito di Apollo (cfr. “Inno III”, in Inni omerici, a cura di F. Càssola, Mondadori-Valla, Milano 1975); o ricordare l’importanza che vi ebbe il culto dei misteri (cfr. Le religioni dei misteri, a cura di P. Scarpi, Mondadori-Valla, Milano 2002).

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pensato.16 È certo assai arduo sostenere che l’Oriente non abbia pensato, tuttavia spesso ci si è chiesti se l’Oriente abbia pensato negli stessi termini dell’Occidente, ossia in modo da poter parlare di una filosofia orientale. Ebbene, pur ammettendo di giungere – come ha fatto finora la maggior parte delle nostre “storie della filosofia” – all’affrettata conclusione che si possa parlare genericamente solo di “pensiero” orientale ma non di “filosofia” orientale, quali sarebbero le cruciali differenze che legittimano tale conclusione? Inoltre: pur ammettendo che la filosofia sia solo occidentale, sarebbe necessario comprendere che cosa si vuole intendere con questo termine. A tale riguardo la situazione appare tutt’altro che semplice e lineare anche se si vuol restare all’interno della filosofia occidentale. Infatti, il termine philosophous compare già in Eraclito,17 ma non possiamo essere sicuri del significato che il grande pensatore di Efeso voleva attribuire a tale termine, anche per il fatto che, nei frammenti rimasti, questo termine compare una volta soltanto. È invece con Pitagora che possiamo avere una connotazione più ricca e precisa di che cosa si potesse intendere con il termine philosophia. Secondo Giamblico, infatti, “Pitagora fu il primo a dare alla filosofia questo nome, definendola aspirazione alla sapienza e in un certo senso amore per essa, laddove per lui la sapienza era scienza della verità degli Enti. Per Enti intendeva ciò che era immateriale, eterno e soltanto agente, vale a dire incorporeo”.18 A questa idea di filosofia come “amore del sapere” sembra implicitamente rifarsi Platone quando nel Simposio ricorda come il filosofo, in quanto amante del sapere, si distingue sia dagli dei, i quali non amano il sapere perché già lo possiedono, sia dagli ignoranti, i quali “non amano la sa16. A questo riguardo risulta fondamentale il recente e innovativo lavoro di E. Holenstein, Atlante di filosofia (2004), Einaudi, Torino 2008, dove si mostra che una “geografia della filosofia” è altrettanto se non più necessaria di una “storia della filosofia”, se non altro perché costringe a infrangere presupposti e pregiudizi in base ai quali in qualche area della terra (a ovest come a est) si è tentato più volte di arrogarsi il diritto di detenere il monopolio della filosofia. 17. Cfr. DK 22. B. 35 (I presocratici, Rizzoli, Milano 1991, pp. 210-211; I presocratici, a cura di C. Diano e G. Serra, Mondadori-Valla, Milano 1980, pp. 38-39). 18. Giamblico, La vita pitagorica, XXIX, a cura di M. Giangiulio, Rizzoli, Milano 1991, pp. 314-315 (cfr. anche VIII e XII, pp. 167 e 185).

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pienza, né desiderano diventare sapienti [perché] ritengono di possedere già tutto a sufficienza”.19 Ma già con Aristotele l’idea e il significato di philosophia cambiano molto e connotano, prima di tutto, la “scienza della verità”.20 Se, quindi, non si riesce a stabilire una nozione univoca nemmeno per il significato di philosophia all’origine della storia della filosofia occidentale, con quali argomentazioni si potrebbe sostenere un’identità precisa della filosofia occidentale contrapposta a un generico “pensiero” orientale? Non solo: tale presunta identità chiusa attribuita alla philosophia greca potrebbe venire smantellata anche andando a verificare i debiti, riconosciuti dagli stessi greci, nei confronti del sapere orientale.21 Del resto, è ormai assodato che, pur senza compromettere in alcun modo il tasso di originalità della cultura e della filosofia greche, è doveroso ammettere l’esistenza di importanti e “felici” condizionamenti che esse hanno ricevuto dall’Oriente, in particolare dalla Mesopotamia, dall’Egitto e dalla Fenicia.22 Inoltre e in generale, non si dovrebbe mai dimenticare che ogni definizione di “filosofia” che pretenda di essere definitiva non è, per ciò stesso, filosofica, perché “la nozione di filosofia è già un problema filosofico”.23 In ogni caso, anche se si accettasse la definizione originaria, tutta e solo greca, di filosofia come “ricerca o amore della saggezza”, si sarebbe costretti a riconoscere che tipi di filosofia intesa in tal senso si sono avuti anche in Cina e in India: in Cina almeno a partire dai grandi dibattiti dell’epoca degli Stati combattenti (480-221 a.C.), quando si sviluppò un’enorme tensione di “ricerca della saggezza” anche se interessata più a una saggezza pratica (etico-politica) che a una saggezza “teoretica”, preoccupata di attingere qual19. Platone, Simposio, La Nuova Italia, Firenze 1982, 204 a. 20. Aristotele, Metafisica, Laterza, Roma-Bari 1965, II, 1, 4, p. 64. 21. Cfr. Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, I, 22; Plutarco, Iside e Osiride, 34, 314 c; Simplicio, Commento al De Coelo, 522, 14; Erodoto, Storie, I, 170; Aezio, Placita Philosophorum, I, 3,1 e IV,1,1; Proclo, Commento a Euclide, 65, 3. 22. Cfr. M.L. West, La filosofia greca arcaica e l’Oriente (1971), il Mulino, Bologna 1993; R.B. Onians, Le origini del pensiero europeo (1951), Adelphi, Milano 1998. 23. R. Panikkar, L’esperienza filosofica dell’India (1997), Cittadella, Assisi 2000, p. 44.

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che verità eterna.24 Un’equivalente tensione alla ricerca è rintracciabile in India, benché le sue intenzioni siano state prevalentemente metafisiche, più che pragmatiche; tanto è vero che, nello studio della filosofia indiana, ogniqualvolta “perveniamo ai diversi dars ´ana, o scuole di filosofia, troviamo sforzi poderosi e tenaci per giungere a un pensiero metodico”.25 A questo punto quali sarebbero i caratteri che renderebbero la filosofia un prodotto esclusivamente greco? Almeno da Hegel in poi, si è continuato a ripetere che il fattore che renderebbe la filosofia greca unica nella storia del pensiero umano sarebbe il metodo razionale che la emancipa da discorsi e riflessioni di tipo religioso.26 Ora, se questa opinione poteva avere qualche legittimità ai tempi di Hegel, in cui le fonti delle filosofie orientali erano note solo in modo assai limitato e confuso, oggi che si è andati ben oltre quei limiti e quelle confusioni, tale opinione non può vanta24. Su questo si veda l’ottima “Introduzione” di A. Cheng, in Storia del pensiero cinese (1997), Einaudi, Torino 2000, pp. 5-25, la quale va ben oltre le troppo semplici parole con cui Marcel Granet aveva sentenziato che “la Cina antica, più che una Filosofia, ha avuto una Saggezza” (M. Granet, Il pensiero cinese, 1934, Adelphi, Milano 1971, p. 3). Sui motivi che consentono di poter parlare di pensiero e perfino di “filosofia” cinese cfr. R.E. Allison (a cura di), Understanding the Chinese Mind. The Philosophical Roots, Oxford University Press, New York 1989. 25. S. Radhakrishnan, La filosofia indiana (1923-27), As´ram Vidya¯ , Roma 1993, p. 9. C’è anche chi è giunto alla conclusione che “la speculazione filosofica cominciò in India prima che in Grecia” (Maulana Abul Kalam Azad, Il significato della filosofia, in S. Radhakrishnan, Storia della filosofia orientale, 1952, Feltrinelli, Milano 1962, p. 17). Uno dei più significativi contributi al riconoscimento della dignità filosofica del pensiero indiano è stato quello di A. Schweitzer, Les grands penseurs de l’Inde. Études de philosophie comparée, Payot, Paris 1936, ricordato e valorizzato in Italia da S. Marchignoli, “Mistica” indiana, “etica” europea? A partire da A. Schweitzer, “Paradigmi. Rivista di critica filosofica”, 61, 2003, pp. 55-72. Ma si veda anche il più recente, importantissimo lavoro di G. Bugault, L’Inde pense-t-elle?, PUF, Paris 1994. Sul confronto della filosofia indiana con quella europea si veda soprattutto l’eccellente lavoro di W. Halbfass, Indien und Europa: Perspektiven ihrer geistigen Begegnung, Schwabe, Stuttgart-Basel 1981 (edizione in lingua inglese rivista e accresciuta India and Europe. An Essay in Philosophical Understanding, Suny, Albany 1988); ma anche J.L. Mehta, India and the West. The Problem of Understanding, Scholar Press, Chico (Cal.) 1985; e G.J. Larson, E. Deutsch (a cura di), Interpreting Across Boundaries: New Essays in Comparative Philosophy, Princeton University Press, Princeton (N.J.) 1988. 26. Cfr. G.W.F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia (1826), La Nuova Italia, Firenze 1930, vol. I, p. 133. Per una breve discussione sui pregi e i limiti della posizione hegeliana, cfr. E. Berti, “Introduzione”, in M.L. West, La filosofia greca arcaica e l’Oriente, cit., pp. 9-19. Un ottimo lavoro sistematico sulle posizioni di Hegel nei confronti del pensiero orientale è quello di D. De Pretto, L’Oriente assoluto, Mimesis, Milano 2010.

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re alcun diritto di essere presa sul serio: basta leggere gli scritti di Confucio, Mozi, Mencio e Xunzi per accorgersi che essi non furono né interni né tangenti ad alcun ambito di interessi e di valori religiosi, ma orientati a trovare idee universali di carattere etico, utili per fondare modi di convivenza umana regolati da un’armonia immanente.27 Oppure è sufficiente ricordare il contenuto di carattere strettamente logico e linguistico dei dibattiti che hanno segnato il periodo degli Stati combattenti, ovvero tenere presenti le fondamentali concezioni cosmologiche sviluppatesi attorno alla polarità yin-yang e alla teoria delle Cinque fasi (wu xing). Lo stesso tipo di considerazioni potrebbe esser fatto valere per le tradizioni di pensiero dell’India: infatti la prospettiva che le costringe a presentarsi tutte come varianti di un unico pensiero religioso risulta affatto riduttiva, al punto da lasciare fuori importanti scuole filosofiche dotate di prospettive orientate in senso prevalentemente logico, o materialista o empirista.28 Un altro luogo comune in base al quale solo il pensiero greco avrebbe il diritto di fregiarsi del titolo “filosofico” è quello secondo cui il suo oggetto di studio comprenderebbe la totalità delle cose esistenti alla luce di un principio unico di spiegazione. In questo caso smantellare la supponenza che regge tale opinione è operazione fin troppo facile: basti pensare infatti alle idee cinesi di dao o di qi, oppure a quella hindu di A¯ tman-Brahman, per accorgersi che esse costituiscono dei formidabili “perni” speculativi, equivalenti sia sul piano ontologico che su quello ermeneutico a quelli occidentali di physis e di “Essere”. Si è poi consolidato un ulteriore luogo comune sul quale si pre27. Per converso, se si accettasse l’idea della netta separazione tra filosofia e religione, si dovrebbe coerentemente concludere che l’intera nostra filosofia medievale non avrebbe nulla a che fare con la filosofia e che non avrebbero dignità di filosofi tutti coloro che in seguito hanno in qualche modo e misura trattato il problema di Dio! 28. Per una prospettiva orientata in senso logico basti pensare al testo di Gautama, Nya¯ya Su¯tra, As´ram Vidya¯, Roma 1994; e a quello di Kana¯da, Vais´esika Su¯tra, Quattro Venti, Urbino s.d. Su queste scuole non può essere ignorato il fondamentale studio dell’italiano L. Suali, Introduzione allo studio della filosofia indiana, Mattei, Pavia 1913. Sull’importanza di ricordare come la tradizione culturale indiana non sia stata né soltanto spiritualista né soltanto metafisica, cfr. le recenti precisazioni di A. Sen, Laicismo indiano (1993-97), Laterza, Roma-Bari 2004; Id., L’altra India (2005), Mondadori, Milano 2005.

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tenderebbe di dimostrare la natura assolutamente originale del pensiero greco rispetto ai pensieri orientali: tale originalità si fonderebbe sulla sua predilezione per la pura teoria, ossia per la contemplazione disinteressata della verità. Questo luogo comune si basa soprattutto su un celebre passo di Aristotele che dice: “Se gli uomini hanno filosofato per liberarsi dall’ignoranza, è evidente che ricercarono il conoscere solo al fine di sapere e non per conseguire qualche utilità pratica”.29 Ora, pur trascurando che l’opinione di Aristotele si presenta in forma di ipotesi da verificare, resta il fatto che gran parte della filosofia greca – a cominciare da porzioni cospicue del pensiero dello stesso Aristotele – è pronta a smentire tale ipotesi, in quanto mostra di non essere stata affatto immune da interessi di carattere pratico (che, ovviamente non vanno confusi con quelli di carattere tecnico): basti pensare alle riflessioni di Socrate o dei Sofisti, o a quelle delle grandi scuole filosofiche dell’età ellenistica e del neoplatonismo, tutte forme di pensiero e di dottrina che potrebbero trovare in Oriente precisi e profondi motivi di corrispondenza proprio attorno alla centralità dell’interesse pratico.30 Purtroppo questa serie di pesanti pregiudizi sui quali si è costruita l’opinione secondo la quale la filosofia sarebbe solo occidentale, non soltanto grava sulla storiografia filosofica, ma anche infetta i giudizi di alcuni tra i maggiori pensatori del Novecento. Si prenda come esempio il caso di Heidegger. Trascurando il senso dell’eccezionale frammento di Eraclito in cui si dice che “comune a tutti è il pensare [xynòn esti pasi to peronei]”,31 Heidegger non riconosce alcuna dignità filosofica a ciò che i pensatori orientali hanno prodotto. Il suo modo di porsi nei confronti del pensiero orientale è già tutto nel breve ma eloquente inciso presente in questa frase: “Lo stile dell’intera filosofia europeo-occi29. Aristotele, Metafisica, cit., I, 2, 982b. 30. Per verificare la centralità degli interessi pratici all’interno della filosofia greca cfr. soprattutto M. Foucault, Volontà di sapere (1976), Feltrinelli, Milano 1983; Id., L’uso di piaceri (1984), Feltrinelli, Milano 1984; Id., La cura di sé (1985), Feltrinelli, Milano 1985; P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica (1981), Einaudi, Torino 1988; M. Vegetti, L’etica degli antichi, Laterza, Roma-Bari 1989. 31. Eraclito, I frammenti e le testimonianze, Mondadori-Valla, Milano 1980, p. 11, fr. 10.

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dentale – ma non ce ne sono altre, né in Cina, né in India – è determinato dalla duplicità ‘(l’)essere-essente’”.32 Tracce di un simile pregiudizio eurocentrico sono riscontrabili perfino in Jaspers, molto più disposto di Heidegger a considerare l’importanza di pensieri prodotti da popoli extraeuropei. Soffermandosi sulle differenze generali tra Asia ed Europa, Jaspers riprende le teorie di Lasaux e di Viktor von Strauss sul periodo assiale, e ciò gli impedisce di cadere nella tentazione di stabilire una gerarchia delle civiltà al cui vertice porre quella occidentale. Anzi, egli individua all’interno dell’Occidente la presenza necessaria dell’Oriente: “Tuttavia, l’Asia diviene essenziale per noi solo quando ci chiediamo: che cosa, malgrado tutta la preminenza europea, è andato perduto per l’Occidente? In Asia si trova quanto ci manca e ha per noi un’importanza essenziale!”.33 Nonostante questo inequivocabile riconoscimento dell’importanza delle civiltà asiatiche per la formazione e per l’esistenza stessa dell’Occidente, Jaspers non si dimostra ancora del tutto libero da quei pregiudizi la cui origine può essere fatta risalire a Hegel: “Le eterne caratteristiche dell’Asia: la forma di esistenza dispotica, l’assenza di storia e di decisione, la stabilizzazione dello spirito nel fatalismo”.34 È peraltro doveroso riconoscere che Jaspers, malgrado questi cedimenti a radicati e illustri luoghi comuni, mostra di essere consapevole che tali “immagini” sono in effetti “false e ingiuste” e che “l’antinomia Europa-Asia non può essere metafisicamente ipostatizzata”.35 È poi incredibile riscontrare che alcuni pregiudizi che alimentano certi luoghi comuni siano presenti anche in un pensatore come Löwith, che ha dedicato notevole attenzione al pensiero dell’Asia, e del Giappone in particolare.36 Nell’articolo del 1960 intitolato Note sulla differenza tra Oriente e Occidente, Löwith si sfor32. M. Heidegger, Che cosa significa pensare? Qual è l’essenza della tecnica moderna (1954), Sugar, Milano 1971, p. 94 (corsivo mio). 33. K. Jaspers, Origine e senso della storia (1949), Edizioni di Comunità, Milano 1965, p. 97. 34. Ivi, p. 98. 35. Ivi, p. 99. 36. Cfr. K. Löwith, “La mente giapponese” (1943), in Scritti sul Giappone, Rubettino, Soveria Mannelli 1995, pp. 25-47. È da notare subito, con rammarico, come il sottotitolo di questo articolo riveli tratti di un eurocentrismo mai sopito: “Un quadro della mentalità che per dominare dobbiamo comprendere”.

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za di capire che cosa oggi significhi “Occidente” in contrapposizione a “Oriente”: “Che significa ora però ‘occidentale’, se il cosiddetto Occidente si nutre di tradizioni tanto diverse come il paganesimo greco e romano, il cristianesimo latino e la tecnologia moderna? [...] Altrettanto in discussione rispetto all’unità e alla continuità della tradizione cristiana, lo sono quelle della tradizione orientale, al punto che l’opposizione schematica tra Oriente e Occidente merita una revisione di fondo”.37 Consapevole, al pari di Jaspers, che non ha senso contrapporre Oriente a Occidente, come se si trattasse di due realtà culturali compatte e perfettamente definite, Löwith dimostra pertanto di potersi aprire a una considerazione critica del problema del confronto tra pensieri d’Oriente e d’Occidente. In particolare, Löwith giunge a riconoscere nei filosofi giapponesi contemporanei un impegno, nello studiare e nel comprendere il pensiero europeo, molto più forte e costante rispetto a quello dei filosofi europei nello studio e nella comprensione del pensiero giapponese. Tuttavia, in generale, egli mostra di non essersi affatto emancipato da alcuni dei più tradizionali luoghi comuni: “Lo spirito orientale, in particolare quello d’impronta buddista, ignora questo atteggiamento astraente e oggettivante nei confronti del sé e del mondo, s’immerge immediatamente nella totalità dell’essere o nel ‘nulla’, vi si sprofonda, senza porsi di fronte al tutto onnipervasivo in modo logico per articolarlo, esplicitarlo, portarlo al linguaggio in modo dialogico e dialettico. La saggezza orientale classica è quindi qualcosa d’altro dalla filosofia greca e dalla scienza europea”.38 Gli aspetti positivi dell’atteggiamento di Löwith nei confronti dei pensieri asiatici sembrano qui sparire di colpo e di netto. Evidentemente non ha letto nemmeno distrattamente alcun passo del Canone pa¯li, né alcun altro successivo testo buddista: se l’avesse fatto, la sua intelligenza gli avrebbe sicuramente impedito di giungere a tali giudizi che non fanno che ripetere la vecchia critica hegeliana alle forme asiatiche di sapere. In particolare, l’accusa dell’assenza nel pensiero orien37. Id., “Note sulla differenza tra Oriente e Occidente” (1960), in Scritti sul Giappone, cit., p. 62. 38. Ivi, pp. 92-93.

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tale di capacità analitiche e dialettiche non avrebbe retto un solo attimo non appena si fosse confrontata con pensatori buddisti come Fazang39 e come Na¯ga¯rjuna,40 nei quali l’acutezza analitica e la potenza dialettica sono prese talmente sul serio da venire condotte agli estremi limiti del dicibile. Il riconoscimento dei requisiti filosofici a varie forme del pensiero orientale è ormai un dato di fatto che non può più essere misconosciuto né trascurato da chiunque voglia comprendere senza pregiudizi i contenuti espressi in tali forme di pensiero. Tuttavia, tale riconoscimento sembra oggi non essere più sufficiente. Non solo: esso può costituire l’occasione per ripensare in modo radicale molti problemi cruciali che impegnano il pensiero umano al di là di ogni confine geografico e di ogni limite storiografico. Si potrebbe allora far valere nei confronti del pensiero indiano il senso di quanto ha scritto Graham a proposito del pensiero cinese: “Prendere sul serio il pensiero cinese non significa limitarsi a riconoscere la razionalità di una sua parte (rifiutando l’appellativo di ‘filosofia’ a tutto il resto), e a scoprire qualcosa di importante per noi nella poesia del Laozi o nei diagrammi dell’Yijing. Lo studio di quel pensiero implica un nostro costante coinvolgimento in cruciali questioni di filosofia morale, quali i rapporti tra filosofia e storia della scienza, la decostruzione di schemi concettuali prestabiliti, i problemi del rapportare il pensiero alla struttura linguistica e il pensiero correlativo alla logica”.41 In consonanza con questa osservazione di Graham appare quella di Jullien: “Interessarsi della cultura cinese non come fuga dall’Occidente (da se stessi e dalla propria cultura d’origine) né per ingenua tentazione dell’esotismo o misticismo dello straordinario, ma semplicemente per 39. Cfr. Fazang, Trattato sul Leone d’Oro, a cura di S. Zacchetti, Esedra, Padova 2000, dove lo spessore speculativo di tale opera viene posto particolarmente in rilievo, oltre che nel “Commento” di S. Zacchetti (Verso il “Leone d’oro”, pp. 15-143), anche nel saggio di M. Ghilardi, La dialettica tra Oriente e Occidente. Hegel e il Buddhismo Huayan: un’ipotesi di comparazione, pp. 237-261. 40. Na¯ga¯rjuna, Il Cammino di mezzo, a cura di M. Meli, Unipress, Padova 2004, dove lo spessore speculativo dell’opera viene messo in risalto dal “Commento” di E. Magno (pp. 153-273). 41. A.C. Graham, La ricerca del Tao. Il dibattito filosofico nella Cina classica (1989), Neri Pozza, Vicenza 1999.

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scelta speculativa e per vivere un’esperienza dello spirito”.42 Questa “esperienza dello spirito” può essere sperimentata innanzitutto mediante la pratica di una filosofia intesa come comparazione nella quale il confronto tra Oriente e Occidente non parta col considerare queste due realtà come blocchi monolitici contrapposti, ma si incentri piuttosto sui movimenti del pensiero richiesti da quel “tra”.43 È in questa prospettiva che riteniamo abbia avuto senso avviare una serie di ricerche all’insegna del concetto di “simplègadi”, il quale rinvia a un mito la cui importanza si ripresenta ogni volta che si ha a che fare con qualche forma di opposizione, sia essa tra vero e falso, tra bene e male, tra innovazione e tradizione, ovvero, nel nostro caso, tra Oriente e Occidente.44 Questo mito, presente con nomi diversi in tempi diversi e in diverse civiltà, racconta come sia possibile passare indenni tra due forze contrarie (metaforicamente rappresentate da scogli cozzanti, foglie taglienti ecc.) pronte a schiacciare o a tagliare chi tenta di passare in mezzo. Alla luce di questa immagine delle simplègadi, il termine “tra”, presente nell’espressione “tra Oriente e Occidente”, non rinvia pertanto a una posizione consolidata in mezzo a due oggetti altrettanto consolidati, ma esprime il movimento del passare: un movimento in cui si trasformano non solo i soggetti che passano, ma anche le realtà tra cui passano.

42. F. Jullien, Processo o creazione (1989), Pratiche, Parma 1991, p. 267. 43. Per considerare questa comparazione al di là di ogni presunta superiorità sia occidentale che orientale, cfr. J.J. Clarke, Oriental Enlightenment. The Encounter Between Asian and Western Thought, Routledge, London 1997; F. Dallmayr, Beyond Orientalism. Essays on Cross-Cultural Encounter, Suny, Albany 1996; G. Pasqualotto, Il Tao della filosofia. Corrispondenze tra pensieri d’Oriente e d’Occidente, Pratiche, Parma 1989; Id., Illuminismo e illuminazione. La ragione occidentale e gli insegnamenti del Buddha, Donzelli, Roma 1997; Id., Dalla prospettiva della filosofia comparata all’orizzonte della filosofia interculturale, “Simplègadi”, 26, 2005, pp. 3-27. 44. Cfr. G. Pasqualotto (a cura di), Simplègadi. Percorsi del pensiero tra Occidente e Oriente, Esedra, Padova 2002; e Id., East & West. Identità e dialogo interculturale, Marsilio, Venezia 2003.

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Rovine e tradizioni nell’India contemporanea RANA P.B. SINGH

Il passato in pratica Nonostante le eccezionali innovazioni scientifico-tecnologiche e la loro applicazione in nome dello sviluppo, oggi il genere umano affronta una crisi a più livelli. All’idea fondamentale di “progresso e sviluppo”, formulata alla luce del percorso positivista, riduzionista, empirico e antropocentrico imboccato in Europa nel XVII secolo, oggi appare preferibile una visione alternativa del mondo, nel segno dell’interconnessione e dell’olismo, specialmente nell’ottica di una coesistenza armoniosa e di una pace globale. Adottando una visione sacrale del mondo si delinea un principio unitario di interconnessione cosmica che conduce alla ricerca di un ordine universale, di un significato dell’esistenza, di una cosmologia ecologica. È possibile individuare un senso di sacro all’interno di una strategia di sviluppo alternativo? Tendiamo a occuparci del presente immediato ed evitiamo questioni più profonde che potrebbero avere peso in un futuro lontano, eppure non va dimenticato che il futuro si crea dal presente, il quale a sua volta si collega al passato. L’interpretazione della realtà è dettata a volte da una visione scientifica che si basa sulla spiegazione causale, ma nonostante ciò a essa si associa anche una spiegazione umanistica dei significati, in cui emerge quel senso di sacralità e armoniosa coesistenza che domina per esempio nella filosofia giapponese del Kyosei. Titolo originale: Ruins and Rubrics in Contemporary India: Some Lessons for Envision.

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aut aut, 350, 2011, 134-147


Durante il processo di sviluppo iniziato con l’indipendenza del 1947, in India si è sostenuta la cultura del consumismo, dell’ineguaglianza, dello sfruttamento delle risorse naturali, della crisi dei valori umani, dell’immoralità, dell’ingiustizia e dell’insicurezza sociali, della perdita di coesione, dell’individualismo, dell’egocentrismo, del materialismo, della violenza, dell’inquinamento ambientale, della perdita di modelli di vita tribali e tradizionali, della disoccupazione, e via dicendo. Di solito la colpa di tutto ciò si attribuisce a quel processo imperialista che nella storia recente ci ha plasmato, senza considerare i difetti imputabili a noi stessi, quelli che ci siamo tramandati e che ancora oggi mettiamo in pratica. Normalmente, lo sviluppo di un paese avviene soltanto all’interno del dispositivo economico, ma in India si è raggiunto il punto in cui la libertà della società e l’indipendenza economica sono a rischio. Gli artigiani delle zone rurali, la cultura tribale, le donne e i braccianti poveri hanno perso il proprio status e il ruolo che avevano nella gestione della base sociale e nel mantenimento dell’armonia all’interno della comunità. Ambienti naturali sono stati rovinati dall’introduzione forzata di piani di sviluppo a ritmo speditamente moderno: grandi dighe, stabilimenti di industria pesante, sviluppo urbano incontrollato sono tutte iniziative in linea con un pensiero occidentale che abbiamo adottato senza valutare criticamente se si adattavano alle caratteristiche dei nostri territori. Le vittime di tale processo si ritrovano a vivere in baraccopoli, in campi profughi o a vagare da un luogo all’altro nella speranza di una riabilitazione e di una vita migliore. E per quanto esse siano oggetto di studio, è raro che si mettano a loro disposizione risorse concrete che gli permettano di vivere una vita dignitosa. Da cittadino attento e sensibile vorrei scrivere della mia epoca e cultura, di cosa sia l’India oggi, delle sue radici e di come stia cercando di costruirsi un futuro. Questo vuole essere un racconto sull’intensa storia “interiore” dell’India – la sua infinita storia politica –, e vorrei partire da un’analogia che si basa sul grande poema epico Ramayana:

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Su ordine del re Rama, suo fratello Lakshmana fece visita al demone Ravana, ferito a morte da Rama e sul punto di esalare l’ultimo respiro. Ravana era il più grande esperto di scienze diplomatiche e di governo, e Lakshmana lo implorò di fornirgli qualche insegnamento prezioso sull’uso della diplomazia e per una sicura guida di governo. Ravana disse: “Qualsiasi sistema di governo imposto – che sia democratico o dittatoriale – è immateriale; ma di grande importanza è il modo in cui lo si presenta. Devi ingannare la gente in modo che sia sempre confusa. Se dei gruppi leveranno le loro voci per protestare, convincili che ti stai adoperando per cercare un accordo tra le diverse ideologie e istituisci una commissione che formuli un piano. Continua in questo modo per almeno cinque anni. Poi prendi altro tempo per rivedere e valutare i progressi fatti; formula altri progetti e prendi impegni formali per altri cinque anni. Assicurati che la gente non abbia modo di sapere quale forma di governo la guidi. Segui questi consigli e comanderai la grande India in eterno. Ricorda che la cultura di questo paese ha una profonda fede nel futuro, nella speranza e nella tolleranza! Tienilo a mente e comandali”. Il demone Ravana morì poco dopo. È da allora che con fogge e sembianze diverse Rama e Lakshmana sono il presidente e il primo ministro dell’India.1 Le istituzioni coinvolte nello sviluppo, sia a livello statale che nazionale, si limitano a gestire la distribuzione di fondi tra le diverse agenzie di governo, esercitando un ruolo solo marginale nella reale integrazione del processo di sviluppo a favore di una coesistenza armoniosa e di una società equa. Il perseguimento di interessi politici e personali ha la priorità rispetto allo sviluppo del paese. Se è vero che “piccolo è bello” non sempre è un bene, bisogna anche dire che i “grandi progetti” non sono sempre un male – dipendono dal contesto e dalla loro sostenibilità sul territo1. Cfr. R.P.B. Singh, “Development in India: Appraising self-retrospection”, in Geographical Thoughts in India: Snapshots and Vision for the 21st Century, Cambridge Scholars, Newcastle 2009, pp. 394-422.

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rio. È una condanna il fatto che in “India l’indigeno a volte è lo straniero e lo straniero a volte è l’indigeno”.2 Abbiamo abbandonato una concezione etica della Terra in quanto madre che ci nutre e della quale dobbiamo prenderci cura, come ampiamente raccontato nel Prithvi Sukta (Inno alla Terra) dell’Atharva Veda, risalente all’incirca al XV secolo a.C. Per molti versi abbiamo invece accettato l’ideologia cristiana di una visione materialistica della Terra come risorsa da sfruttare, una visione che ora fa parte della nostra cultura e dalla quale è difficile affrancarsi. Col tempo, assieme al processo di sviluppo, la popolazione indiana ha accettato corruzione, inflazione, aumento dei prezzi, piaghe sociali come il sistema delle doti e delle caste, quali parti integranti della propria vita e della propria cultura. Ogni indiano le critica; tuttavia ne facciamo parte e siamo responsabili della loro fioritura. Contemporaneità e stili di vita Il paese oggi affronta una crisi culturale che investe la maggior parte dei suoi settori e, come conseguenza dell’avanzare dello sviluppo, i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Si sa che qualunque buona idea sia inserita nei programmi di sviluppo per l’India, il problema principale resta la sua mancata attuazione. La crisi culturale ed etica che il paese affronta oggi è più pericolosa di qualsiasi forma di inquinamento: la cultura dell’individualismo, del consumismo, la passione smodata per i profitti materiali sono parte del mondo in cui viviamo. Il mondo politico oggi affronta lo scenario drammatico di un crollo culturale, caratterizzato da immoralità e mancanza di identità culturale. L’attuale scena politica indiana è dominata dagli scandali del sistema politico, dalla criminalizzazione della politica, dalla politicizzazione dei criminali e dall’amoralità della condotta politica, al punto che tra la gente si dice che soldi [cash], crimine, corruzione, collettività e caste sono le armi fondamentali per una vittoria politica in India. Le esortazioni di Ronald Segal3 sono un 2. G.J. Larson, India’s Agony over Religion, Suny Press, Albany (N.Y.) 1995, p. 144. 3. R. Segal, The Crisis of India, Penguin, Harmondsworth 1965, p. 309.

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avvertimento: l’India avrà mai un governo indiano abbastanza audace da governare nell’interesse delle masse silenziose? E, in caso contrario, per quanto tempo ancora le masse resteranno in silenzio? Come fare per ripulire questo sistema politico? Come risolvere il problema dell’“inquinamento morale”? Che fine ha fatto la nostra filosofia del karma (la giusta azione) e del dharma (il giusto dovere)? Rispondere è difficile. La democrazia non dovrebbe forse essere delle persone, gestita dalle persone e per le persone? Oggi invece si fa politica sulle loro spalle, ignorandole e il più possibile lontano da esse. La democrazia in India ha fallito sul fronte di un’offerta di un governo stabile e di un’economia equilibrata. Il grido delle masse si esprime chiaramente nella poesia La via della vita: Da una parte e dall’altra innumerevoli persone, ma le persone sono vittime dell’isolamento. Dall’alba al tramonto si trascinano come pesi, ma diventano il sepolcro dei loro corpi. Ovunque sentieri che passano e scompaiono, ma ovunque persone vittime di persone. Ogni giorno vivere e ogni giorno morire, ma sperare e aspettare l’arrivo di una nuova luce. Il destino della vita è di correre da una parte all’altra fino all’ultimo respiro alla ricerca di consolazione. Quanto afferma lo scrittore Shashi Tharoor4 può essere letto come una sentenza sulla situazione indiana: “Il motivo per cui l’India è sopravvissuta a tutte le pressioni e le tensioni che l’hanno tormentata per cinquant’anni (dopo l’indipendenza) e che ha indotto così tanti a predire il suo imminente disfacimento, è che non è mai mancato il consenso su come governare senza consenso”. È un concetto molto difficile da capire e interiorizzare, ma non impossibile. Quello che affrontiamo è anche uno scontro tra culture, come illustrato dalle parole di Hari Dam: 4. S. Tharoor, India. From Midnight to the Millennium (1997), Penguin Books, New Delhi 2000, p. 6.

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Voi vivete nel tempo; noi viviamo nello spazio. Voi siete sempre in movimento; noi siamo sempre a riposo. La religione è il nostro primo amore; ci dilettiamo nella metafisica. La scienza è la vostra passione; la fisica vi emoziona. Voi credete nella libertà di parola; per essa vi battete. Noi crediamo nella libertà del silenzio; ci immergiamo nella meditazione. Sicurezza in se stessi è la chiave del vostro successo; l’abnegazione di sé è il segreto della nostra sopravvivenza. Voi siete spinti ogni giorno a volere sempre di più; a noi fin dalla culla viene insegnato a volere sempre meno. La joie de vivre è il vostro ideale; il dominio delle passioni è il nostro obiettivo. Al tramonto della vita, voi vi ritirate a godere dei frutti del vostro lavoro; noi rinunciamo al mondo e ci prepariamo per l’aldilà.5 Con il suo sciovinismo imperialista, nel descrivere due mondi irrimediabilmente diversi, il poeta premio Nobel Rudyard Kipling (1865-1936) fece un’affermazione ritenuta essere al centro della mentalità orientalista: Ah, l’Oriente è l’Oriente, e l’Occidente è l’Occidente, ed essi non si incontreranno mai, finché Terra e Cielo staranno al cospetto del grande soglio donde Dio giudica; ma Oriente, Occidente, Confine, Razza e Stirpe cessano di esistere quando due uomini forti si trovano faccia a faccia, anche se vengono dalle estremità della terra! (da The Ballad of East and West) La divisione in fazioni è il tratto principale della politica indiana, a livello nazionale, statale e regionale. Populismo elettorale, ricat5. K. Raine, All Roads Lead to India, “Resurgence”, 183, 1997, p. 711.

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ti, maneggi e compravendita di voti sono espedienti comunemente usati dai politici per ottenere un posto al governo e goderne poi i frutti in termini di potere, influenza e benessere. Si è toccato il livello più basso e ogni giorno si registrano scandali e truffe. Da un’indagine giornalistica, tra il 1948 e il 1997 l’ammontare delle maggiori truffe e scandali in India si aggirava intorno ai 20.428,7 miliardi di rupie (ovvero 544,77 miliardi di dollari), il che significa 21.503,8 rupie (573,4 dollari) a persona (cfr. “Amar Ujala”, quotidiano di Allahabad, 4 febbraio 1998). Secondo un’altra stima, tra il 1947 e il 2009, la somma delle truffe in India ha raggiunto i 72.933,1 miliardi di rupie (1527,40 miliardi di dollari), cioè 55.255 rupie (1182 dollari) a persona; e tra il 1947 e gennaio 2011 si sono raggiunti i 280.800 miliardi di rupie (ovvero 6171,43 miliardi di dollari). In ognuno di questi casi gli imputati erano politici e ministri dei governi dei singoli stati e di quello nazionale, ma sono le masse a doversene fare carico. È facile essere felici ma difficile essere semplici! Il paese è all’inseguimento di una grande rivoluzione sociale, di una rivoluzione della coscienza di massa per combattere la corruzione e i mali della società, e per affermare i simboli dell’onestà e della cultura del lavoro. Nel recente passato abbiamo perso di vista la linea di demarcazione tra giusto e sbagliato, morale o immorale, così come la fondamentale realizzazione del dharma (il giusto dovere), e questo ci ha portato a concepire l’onestà come una malattia psichica. I politici e i burocrati sono i principali responsabili di questa situazione, ma chi sarà capace di estirparla? Secondo il pensiero gandhiano l’unica strategia possibile è una grande rivoluzione sociale attraverso la realizzazione di sé (svachetana). Tuttavia, il problema di fondo rimane irrisolto. Come far sì che essa venga accettata e attuata dalle masse? L’eredità britannica e un ritratto dell’India Discriminazione razziale, senso di superiorità, collocazione geografica migliore ed egemonia culturale sono la cornice concettuale a sostegno della teoria “l’Oriente è l’Oriente, l’Occidente è l’Occidente” di Kipling, secondo cui “il destino ultimo dell’In140


dia è di essere schiava sotto la guida esperta dell’imperialismo britannico; non c’è alternativa”. La piattaforma dell’imperialismo culturale fu ulteriormente rafforzata, seppure con toni più sfumati, in romanzi come Kim (1901) di Kipling e Passaggio in India (1924) di E.M. Forster, ma nonostante ciò le narrazioni e le immagini delineate da questi due scrittori godono tuttora del favore di molti autori – a cinquant’anni di distanza dall’indipendenza. Questa controversia aiuta a tracciare un sentiero nel nostro spazio – mosaico di luoghi coesistenti –, in cui dobbiamo cercare il modo per abitare e dialogare con la nostra gente e la nostra cultura. Sarà un reale contributo per capire l’Oriente “interno” che si ispira all’Occidente “esterno”. È chiaro che Kipling credeva profondamente nell’impero e nella supremazia britannica, ma era anche consapevole dei pericoli insiti nel governare l’India. In Kim, Kipling cercò di avvertire il mondo, il suo mondo, del crescente potere in mano alla popolazione indiana, e della sua pazienza e capacità di aspettare il momento giusto per chiedere la restituzione del proprio paese. In un tale contesto è discutibile far apparire Kipling come un potenziale razzista. In ogni caso, la sua ambivalenza nei confronti dell’impero britannico gli consente di dare un’immagine dell’India che va al di là dei tipici limiti di prospettiva. Molti critici di Kipling, come Edward Said6 e Richard Cronin,7 hanno cercato di riesaminare le questioni dell’ibridazione e dell’egemonia culturale nei suoi testi, alla luce del fatto che Kim fu scritto in un momento in cui il nazionalismo indiano era particolarmente vivace e diede avvio a un dibattito critico sulla colonizzazione britannica del subcontinente indiano. Ma per Kipling quella fu un’epoca di mutamenti nei rapporti tra impero e colonia, un’epoca in cui il dominio britannico era messo apertamente in discussione. In Kim, Kipling cerca di decostruire il passaggio di potere tra colonizzatore (l’Occidente) e colonizzato (l’Oriente), e di conseguenza in tutto il testo l’autore mantiene un senso di persistente eterogeneità culturale fa6. E.W. Said, Kim: The Pleasures of Imperialism, “Raritan”, 7, 1987, pp. 27-64. 7. R. Cronin, The Indian English novel: Kim and Midnight’s Children, “Modern Fiction Studies”, 33, 1987, pp. 201-213.

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cendo slittare la focalizzazione dall’impero alla costruzione dell’impero. L’idea di una riconciliazione tra Oriente e Occidente è stato uno dei principali messaggi di Rabindranath Tagore (1861-1941) nella sua critica al nazionalismo e nelle tesi a favore dell’internazionalismo. In Sikshar Milan8 Tagore mostra di apprezzare l’Occidente per essere riuscito a risolvere le vicissitudini umane quali la fame, la malattia e la morte, mentre l’Oriente era focalizzato sul raggiungimento di uno stato di salvezza e beatitudine spirituale. Tuttavia, per Tagore è più importante sviluppare un’armoniosa interazione tra l’India e la tradizione occidentale del sapere. Occidente e Oriente dovrebbero imparare l’uno dall’altro: la scienza occidentale saprà risolvere i bisogni materiali degli uomini, mentre gli insegnamenti spirituali dell’Oriente saranno veicolo di pace e gioia. Nella sua lettera del 1921 al Mahatma Gandhi, Tagore esprime chiaramente il suo pensiero: “Noi sappiamo che anche l’Oriente ha molti insegnamenti da offrire, e che esso ha la sua responsabilità nel non permettere che la sua luce venga spenta. Arriverà il momento in cui l’Occidente si renderà conto di avere in Oriente una casa in cui trovare cibo e ristoro”. Seguendo lo spirito dell’antica etica indiana dell’Isha Upanishad, in una lettera a Mahadeo Desai, segretario di Gandhi, datata 21 settembre 1921, Tagore spiega ulteriormente: “Nella gara della vita dell’epoca moderna l’Oriente ha perso perché ha trascurato di coltivare la scienza del finito; l’Occidente invece è trascinato in un conflitto di passioni e dall’incontrollabile moltiplicazione delle cose perché ha perso il rispetto per il culto dell’infinito. La salvezza dell’umanità sta nell’incontro tra Oriente e Occidente in una perfetta armonia di verità”. Come è ovvio, quale messaggero della riconciliazione tra Oriente e Occidente, Tagore non godette di grande successo tra i suoi contemporanei, le sue idee di unità e riconciliazione furono fraintese e scatenarono reazioni avverse, ma oggi, nel XXI secolo, andrebbero senza dubbio rivalutate. In India, nel contesto della discussione teorica, il postcolonia8. R. Tagore, Sikshar Milan (The Union of Cultures), in Lectures and Addresses, Rabindra Rachnavali, Vishvabharati, Santiniketan 1921.

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lismo è letto come un costrutto eurocentrico, il post-tradizionalismo è ritenuto troppo naïf e il postmodernismo una cornice di pensiero ancora più moralista e idealista. Ma almeno alcune interpretazioni postmoderne di sviluppo restituiscono un chiaro senso di impegno morale e di responsabilità. Quale membro del popolo indiano, sono un sostenitore delle idee di David Lehmann: “Un’egemonia esperta, in cui i poveri del mondo diventano campioni da analizzare in laboratorio, continuamente classificati, catalogati e manipolati da una comunità estremamente arrogante e assetata di potere [...] che scruta il pianeta da un panopticon dotato di aria condizionata”.9 In primo luogo dobbiamo coltivare il senso di realizzazione di noi stessi e la volontà di essere direttamente coinvolti nell’aiutare i poveri. La teoria è lo strumento e la pratica è il risultato di una ricerca interiore; ci serve un’unità tra le due. Si deve sostenere un sistema di educazione morale basato sull’etica antica (religione, nel senso di impegno morale) e sull’uso di metodi locali. Ma questo richiede il rafforzamento di una democrazia dal basso, fondata sulla ricostituzione della società in unità più omogenee. Proposte per uno stato “multi-religioso” (come la biodiversità) non sono nuove. Fu un triste momento della storia intellettuale prendere atto che “dopo l’Indipendenza, quando la classe dirigente indiana si modellava sul calco della sua controparte appena rimossa, qualsiasi enfasi su ‘echi dell’antica India’ venisse sempre interpretata come un atto di fondamentalismo indù”. Seguendo l’analogia della “via mediana” del buddismo, l’India deve trovare un equilibrio all’interno del suo profondo sistema di valori per generare un’etica culturale a servizio dell’identità nazionale, per far fronte alla pressione postmodernista e postcoloniale, e specialmente alla minaccia tecno-economica ed etica di provenienza occidentale. Una sintesi tra “l’imperativo morale” di stampo conservatore, il “capitalismo democratico” liberale e “un modello socialista di equità ed empowerment” potrebbe essere adot9. D. Lehmann, An Opportunity Lost: Escobar’s Deconstruction of Development, “Journal of Development Studies”, 33, 1997, p. 577.

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tata come strategia di sviluppo alternativo. In particolare, tralasciando la questione di quale percorso di sviluppo vada imboccato, il governo deve rendersi conto che in futuro un’economia di libero mercato e di liberalizzazione avrebbe anche effetti pericolosi sul progresso del paese in rapporto alle sue risorse, alla sua gestione e alla sua cultura. È il valore etico la forza morale che conduce a un’esistenza sostenibile, al progresso, al mantenimento e al perdurare degli esseri umani. La vita e l’operato di Gandhi possono essere un riferimento in un approccio postmoderno all’ambiente, soprattutto in relazione ai suoi principî di ahimsa (nonviolenza) e aparigraha (non-possesso). In My Socialism, Gandhi scrive: “Devo confessare che non faccio alcuna distinzione tra economia ed etica. Un’economia che danneggia il benessere morale di un individuo o di una nazione è immorale, e quindi colpevole”.10 La luce etica e nativa I problemi di riscaldamento globale, la carenza di acqua dovuta alla deforestazione, il continuo sfruttamento delle risorse naturali e delle diversità della Terra sono alcuni dei risultati dello “sviluppo insostenibile” e della crescita economica. Non dovremmo imboccare la strada indicata da Gandhi? Egli non ha mai smesso di correggere se stesso per il raggiungimento della perfezione morale e spirituale, cercando al contempo di fare del suo meglio per riformare le istituzioni e le pratiche sociali. Nel 1932 scrisse: “Io non ammetto sconfitta ma solo la speranza, con la grazia di Dio, di sciogliere il cuore più duro e, pertanto, di continuare a tendere verso il perfezionamento di me stesso”.11 Sono queste le problematiche più attente all’autoanalisi, alla ricerca interiore, alla realizzazione di sé e alla volontà e all’azione per un efficace miglioramento della qualità della vita a tutti i livelli, locale, naziona10. M.K. Gandhi, My Socialism, Navajivan Publication House, Ahmedabad 1959, pp. 33-34. 11. Id., The Collected Works of Mahatma Gandhi, 100 voll., Publication Division, Ministry of Information and Broadcasting, Government of India, New Delhi 1958-94, vol. 50, p. 451.

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le e globale; sono questi la filosofia e l’obiettivo di base di un’“educazione” più vicina al pensiero gandhiano. Ci stiamo lentamente rendendo conto che ridurre la povertà o muoverci verso uno sviluppo sostenibile non è solo una questione economica o tecnica, o di mezzi finanziari adeguati. Sono tutti aspetti importanti, ma raggiungere tali obiettivi richiede anche un risveglio interiore, una profonda trasformazione dell’uomo – un percorso educativo già segnato da Gandhi. Se ignoriamo Gandhi “lo ignoriamo a nostro rischio e pericolo”, come disse una volta Martin Luther King. Oggi la crisi del mondo occidentale, ormai diffusasi ben al di là di esso sino a diventare di natura globale, non è più una novità e già negli anni venti del Novecento qualche pensatore illuminato aveva inquadrato il problema proponendo delle soluzioni. Tra questi il più autorevole fu René Guénon (1886-1951), che con i suoi scritti e il suo invito all’azione richiamò l’attenzione del mondo. Il suo messaggio si dimostra estremamente significativo nell’indirizzarci verso una comprensione di come Oriente e Occidente possano insieme rendere il mondo un luogo più abitabile, umano e armonioso. Il razionalismo aggressivo e il materialismo della cultura occidentale postcristiana sono diventati un fenomeno diffuso in tutto il mondo, un fenomeno che non corrode più solo le fondamenta filosofiche e culturali dell’Occidente, ma intacca e altera anche forme di spiritualità e metafisica orientali, suscitando reazioni fondamentaliste in tutto il mondo e che, con la diffusione di Internet, esercita un’influenza senza precedenti. E così oggi l’Oriente arde dal desiderio di superare l’Occidente in materialismo, mentre l’Occidente si abbruttisce in una degenerazione morale e spirituale. Va detto che tra la cristianità tradizionale e le religioni orientali si sono verificati fruttuosi scambi prima impensabili, guastati tuttavia dall’incessante tentazione di cedere a un sincretismo distorto. In tale contesto, Oriente e Occidente di Guénon,12 se lo leggiamo prestando attenzione agli eventi degli ultimi decenni, chiarisce esattamente il problema. Esso 12. R. Guénon, Oriente e Occidente (1924), Luni, Milano 1993.

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contiene una diagnosi della fondamentale “anomalia” della civiltà occidentale a confronto con le tradizionali civiltà orientali, suggerisce le strade che l’Occidente potrebbe percorrere per avvicinarsi ai principî metafisici che ha in gran parte abbandonato, e delinea il possibile ruolo in questo processo di una restaurata classe intellettuale. È evidente che Oriente e Occidente oggi non sono più gli stessi che erano ai tempi di Guénon. Alla fine degli anni venti, nella sua opera fondamentale, La crisi del mondo moderno,13 egli denuncia con molta lucidità la natura della “deviazione occidentale”, che consiste nella perdita di tradizioni, nell’esaltazione dell’agire a scapito della conoscenza, in un individualismo rampante e in un generale caos sociale. Ciononostante Guénon era decisamente favorevole a una sintesi tra il pensiero occidentale e orientale. Usando il misticismo orientale e la mitologia come metafora, Guénon ha cercato di collegare le cause originarie della crisi moderna con quanto narrato nelle antiche favole indù. La dottrina induista riguardante il ciclo umano di progressione del tempo (manvantara) è divisa in quattro periodi, che rappresentano altrettanti stadi durante i quali la spiritualità primordiale si fa gradualmente sempre più oscura. Questi periodi richiamano quelli delle antiche tradizioni occidentali noti come Età dell’oro, dell’argento, del bronzo e del ferro. Noi ora siamo nel quarto periodo, che gli indù chiamano Kali Yuga o “epoca buia” (ovvero “epoca delle sofferenze”), e che si caratterizza per la sua lontananza dal principio e dalla fonte della prosperità umana. E dunque per la sua oscurità, il suo materialismo e lo stato di caos. Tale dottrina è l’esatto opposto della concezione moderna di progresso. Guénon rintraccia la causa di questa opposizione nell’abbandono da parte dell’Occidente della mentalità tradizionale che è stata in gran parte conservata in Oriente, e ne vede la soluzione in un ritorno alla tradizione da parte dell’élite intellettuale occidentale. Nell’ambito di un’ampia adesione a movimenti come la New Age, l’Ecospiritualità ecc., le argomentazioni di Guénon sono di vitale im13. Id., La crisi del mondo moderno (1927), Arktos, Carmagnola (To) 1991.

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portanza per rivalutare e trasformare l’etica globale in una sintesi armoniosa tra Oriente e Occidente. Pensiamo a un’etica globale, ovvero a un consenso di base attorno a valori condivisi, standard definitivi e condotte individuali. Costruiamo dei “ponti”. Dotiamoci di un pensiero universale, di una visione globale, di una condotta regionale e di un’azione locale, ma sempre con giudizio. Il mio è un appello per una visione cosmica, un umanesimo globale e una realizzazione del sé. Potremmo definirlo “un armonioso sviluppo umano verso la sostenibilità”?

Traduzione dall’inglese di Karen Tomatis

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Una nuova cultura umana, generica e naturale MICHEL SERRES

otto la dolce pressione dell’etnologia si sono sciolti i limiti spaziali d’oc e d’Occidente; per suo tramite abbiamo appreso le culture dei popoli senza scrittura, esclusi dalla storia dalla decisione regale di quest’ultima di autodatarsi a partire dallo scritto. Mentre le tradizioni orali prevalgono in numero sull’eccezione scritta, questa, da molti millenni, non si è curata di ridurne la frattura numerica. Valicando una frontiera più severa di quella che, dopo Pascal, sbarra i Pirenei, non viaggiamo più soltanto di lessico in lessico, ma fra le tribù di tradizione senza traduzione. Un tempo neppure ascoltate, cento civiltà riprendono vita e valore. Praticando, grazie a queste scienze davvero umane, una nuova forma di conoscenza, dunque di tolleranza, noi le rispettiamo. Ancora meglio, esse ci stimolano a rivisitare umilmente la nostra. Primo atto, che riguarda lo spazio, più disparato e vicino di quanto lo immaginiamo. Ora assistiamo a un secondo atto, ancora più decisivo. Perché ha a che fare con la durata. Sotto la pressione di tutte le scienze dure, i limiti temporali della mia seconda cultura1 si rivelano di una strana strettezza. La sua sedicente universalità aveva, al più, cinquemila anni. La nuova cul-

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Le pagine che seguono sono la traduzione, per gentile concessione dell’autore e dell’editore, di M. Serres, Écrivains, savants et philosophes font le tour du monde, Le Pommier, Paris 2009, pp. 117-134. 1. Nel volume Serres si riferisce a cinque culture: la cultura rurale, la cultura umanista, la cultura locale, la cultura informatica e la quinta cultura, generica e naturale, alla quale sono dedicate queste pagine. [N.d.T.]

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tura, la quinta, infine naturale, ne conta quindici miliardi. Il sottofondo cronologico nascosto, sul quale i nostri bambini oggi apprendono, si approfondisce al punto che il riquadro che coltivavamo un tempo si confonde ormai per la sua piccolezza. Per giungere così a un’estensione in cui il pensiero respira infine ampiamente, le cosiddette scienze dure si imbatterono, quasi contemporaneamente, in una scoperta semplice; esse inventarono tutte, di recente, delle procedure di datazione; ogni disciplina seppe immergere i suoi oggetti in un tempo ritmato da stadi misurati con precisione. Tutto si data e anche si autodata. Le cose dell’universo e del mondo, i viventi e l’uomo esistono, insieme, come luoghi di memoria che credevamo con arroganza che appartenessero soltanto a noi o che noi soli sapessimo creare. Da ciò lo spiegamento di una cronologia in cui le cose stesse e i loro saperi nascono, mutano, possono scomparire; da ciò la costituzione, lenta e di nuovo disparata, di quello che ho chiamato il Grande Racconto: casuale e contingente quando procede, come ogni racconto, con colpi di teatro e metamorfosi, esso conosce un certo ordine quando lo si racconta retrospettivamente. Così possiamo raccontarlo grazie a un’altra scoperta semplice e legata alla prima; a una a una, tutte le scienze inventarono che le cose attorno a noi scrivono allo stesso modo e anche meglio di noi – a volte esse leggono anche –, di modo che sapere consiste nel decifrare i mille e uno codici sotto i quali le cose, inerti e viventi, hanno inciso, esse stesse e su esse stesse, in sé e per sé, i loro propri linguaggi. Un tempo i piccoli racconti della storia minuta si riferivano a partire da testi scritti in uno stretto gruppo di lingue; oggi, al contrario, il Grande Racconto si codifica in alfabeti multipli, non necessariamente umani, meravigliosamente antichi: nell’irraggiamento cosmologico, le macchie galattiche, i buchi neri, la caduta delle meteoriti, il magnetismo delle rocce, le placche tettoniche e gli strati di falesie, i calcari del Cambriano, le anche fossili di Lucy, le pieghe delle molecole, il Dna delle specie... In tutto, ma anche in noi, si inscrive questo racconto. Lo leggiamo ricevendo in pieno il colpo portato dalle scienze dure ai nostri narcisismi: non siamo più i soli a parlare o a scrivere, tutte le cose del 149


mondo lo fanno. Di colpo, esse entrano nella nostra casa. Le nostre antiche culture opponevano le culture con la scrittura alla natura senza scrittura; la nuova accoglie le culture senza scrittura e la natura con la scrittura. Nuova confluenza. Mentre la storia, vernacolare, nazionale o mondiale, sosteneva con la sua ossatura temporale e spaziale le due culture in via di estinzione, il Grande Racconto sostiene la nuova cultura delle mille circostanze di una durata colossale. Gli uomini non si trovano di fronte a un mondo strano o assurdo, ma nascono e vivono della sua evoluzione. Nella cultura antica il sapere escludeva i racconti; per quella attuale questo racconto include i saperi. Così le cose della natura entrano nella casa delle culture. Non vi è che un solo habitat. Pace nel conflitto delle facoltà: non dobbiamo più festeggiare soltanto l’allargamento caotico e contingente del tempo o la federazione a mosaico e variopinta degli spazi, dobbiamo bere anche alle nozze, universitariamente inattese, delle cosiddette scienze e delle lettere, il cui divorzio resterà soltanto un corto e sciocco intermezzo nella nostra storia. Da un lato, i suddetti scienziati acquisiscono tecniche un tempo dette umaniste: leggono, decodificano, datano, raccontano; essi pagano questa entrata nella cultura con una nuova miscela di caso e di necessità. Dall’altro, cambiando memoria, gli storici acquisiscono un tempo immenso la cui proiezione sul loro tempo cambia anche i loro oggetti. Infatti, come gli eruditi leggono i caratteri greci, arabi o cinesi, cento lingue, dunque cento maniere di sapere, così anche gli scienziati decifrano cento lingue: le bande colorate della spettrografia, le pieghe alfa o beta delle molecole, la lingua aritmetica dei corpi semplici, le quattro lettere della genetica... A ogni disciplina il suo linguaggio, il suo codice locale, non soltanto quello della specialità, come una volta, ma quello delle cose stesse. Differenti e varie quanto le regioni del mondo dalle quali provengono, queste lingue descrivono, di converso, un cielo terribilmente multiplo, una Terra terribilmente complessa, paesaggi terribilmente variati, carni terribilmente implicate. Le molteplicità invadono i vecchi schemi semplicisti, saturi ormai di singolarità. 150


Una diversità di fondo caratterizza la natura come anche le culture. Queste varietà a cespuglio nello spazio e nelle lingue corrispondono alla contingenza caotica nel tempo del racconto, così chiamato per le sue impreviste biforcazioni e le sorprese delle sue metamorfosi. Da ciò il nuovo stile di queste scienze dette un tempo dure, la loro andatura più dettagliata che generale, più paesaggistica che liscia, più a cespuglio che semplificata, più individuale che astratta, più informatizzata che geometrica, a un tempo meglio, meno bene e, in ogni caso, più informata sulla Rete che nelle biblioteche... in breve, più procedurale che dichiarativa. Istoriato, il reale risponde ai nostri saperi istoriati sulla Rete. Così il nostro tempo cognitivo inclina verso il disparato degli individui piuttosto che verso la semplicità delle classi, verso le singolarità più che verso i concetti. Da ciò la china verso un racconto ramificato piuttosto che la salita verso delle leggi. Il vecchio quadrato: schemi, principî, classi, eccezione eccellente della perizia... si trova oltrepassato dal nuovo quadrilatero: paesaggi, racconti, individui, molteplicità torrenziale dell’informazione disponibile sulla Rete. Scompare la semplicità, dal lato della natura, del naturalismo. Nuova tanto per gli spazi quanto per i tempi, questa quinta cultura diviene allora propriamente generica, ovvero propria della specie. Formata alla pluralità delle cose codificate, inerti, vitali o umane, essa non può trascurare i particolarismi delle culture precedenti, attaccate l’una a Quercy o alla Guyenna, l’altra al Mediterraneo o all’Occidente... ma essa ride scherzosamente di quello che alcuni chiamavano con arroganza il mondo abitato. Contingente e variopinta, essa conduce pure all’idea che le nostre stesse differenze contribuiscono a comporre, nel tempo, un racconto comune: comune agli uomini e alle cose del mondo; l’intero universo, esse e noi compresi, discendiamo, tremanti di sorpresa, da un big bang, possibile o probabile... la Terra e la vita vengono, senza dubbio, dalla concrezione bollente e dal raffreddamento dei pianeti... ed ecco il seguito del racconto: dopo Homo erectus, Homo sapiens uscì dall’Africa e vi restò... Secondo questo scenario, oggi proba151


bile, tutto ciò si collega, infatti, come una novella per bambini: passando senza dubbio per Suez centomila anni fa, certi umani si espansero sul pianeta in cui molte costrizioni climatiche, le fonti del nutrimento e in più le diverse relazioni che essi inventarono all’occasione condizionarono la diversità che vi osserviamo. Come? Lo sappiamo soltanto per frammenti, attraverso l’opacità di questi millenni. Ma dal lato delle culture la complessità del naturalismo si cancella molto. Perché i paleoantropologi alla Coppens giocano ormai alla cavallina sul dorso degli etnologi alla Lévi-Strauss. La cultura generica immerge le sue differenze in un racconto comune che le scavalca con la sua unità contingente. Laddove i predecessori elevavano muri, essa comincia a costruire ponti, fragili e flessibili. Certo, esiste un mosaico caotico di eccezioni, ma il Grande Racconto delle erranze di Homo sapiens tenta di dispiegarle in una durata che freme alle biforcazioni. Viator, egli non cessa di passare da una parte all’altra delle frontiere e così fa esistere, come in retroazione, un mondo comune, cose e umani insieme; attraverso le più elevate montagne o i mari più larghi, egli o i suoi predecessori non cessano di aprire valichi o di passare alcuni stretti, già attraversati, nell’occasione di questa o quella circostanza, dai loro avi. Riprendo dunque il racconto. Erectus, poi sapiens, al di qua dei Pirenei, passarono al di là; partiti dapprima al di qua di Suez, arrivarono al di là, in Eurasia; giunto al di qua del mare di Arafura, Sapiens vogò, sessantamila anni fa, al di là, sulle coste dell’Australia; poi, arrivato al di qua di Bering, toccò, circa ventimila anni fa, al di là, l’Alaska, per discendere lungo le Montagne Rocciose e le Ande. Attenzione: riferisco soltanto un racconto probabile, soggetto a rettificazioni. Attenzione: gli scenari possono variare, ma la forma del racconto rimane costante. Questo tempo contingente ha prodotto, almeno in parte, lo spazio variopinto delle culture formatesi al suo passaggio? A questa durata, a questa estensione corrisponde una verità mescolata di dubbi, ovvero, del tutto correttamente, un racconto. Come in ogni mosaico, la sagoma generica, a un tempo immensa e caotica, supera le frontiere dei pezzi frantumati del vecchio puzzle tracciato da mille frontiere. Il 152


tempo del Grande Racconto gioca il ruolo di una cellula staminale per la diversità delle culture? Una volta tracciato, invariante per tutti, questo Grande Racconto – non dubito che da esso sgorghino, come da una nuova sorgente, mille ispirazioni letterarie, artistiche, filosofiche... – possiamo intenderlo non importa dove, non importa in quale lingua; o insegnarlo, in lingue vernacolari, dalle Nuove Ebridi alla Lapponia; o apprenderlo, in lingue scientifiche, negli anfiteatri della Sorbona o di Stanford. Ne ho proposto il programma nelle ultime pagine di L’incandescent.2 L’ondata dei suoi flussi temporali lambisce i bordi dello spazio, anche le creste pirenaiche, care a Blaise Pascal; prende la sua origine nel racconto dell’universo, segue l’evoluzione vitale e viene ricevuto in lingua universale. Intendo nuovamente con ciò non una lingua unica, ma cento traduzioni che possono essere intese e comprese da mille e una persona; a seconda del dettaglio scelto, ciascuno può eseguire, per dirla o udirla, nella coppia dialetto regionale-gergo di specialista. Posso esprimerla velocemente per i miei nipoti, a fumetti, mentre altri si appesantiscono su una certa prova tecnica che descrivono in dettaglio con articoli difficili. Non dubito infine che le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione delle quali ho parlato a volte, non diano già un supporto elettivo a questa cultura, come, per parlare velocemente, la scrittura umana inventò, tre millenni fa, quello della seconda cultura e i media non interattivi quello della quarta. La loro velocità di esecuzione si pone quasi all’altezza della vecchia economia di pensiero permessa dall’astrazione. Viviamo un secolo di Luce, nella sua chiarezza, certo, ma in più nella sua velocità. Grazie alle matematiche, il concetto di cerchio permette di pensare d’un colpo un’infinità di anelli; inversamente, per meglio comprendere d’un colpo milioni di forme rotonde, passiamo attraverso questo cerchio astratto che ho chiamato dichiarativo. Dato che l’elettronica ormai permette di giovarci più a lungo dell’individualità, 2. Cfr. M. Serres, L’incandescent, Le Pommier, Paris 2003, pp. 350-351. [N.d.T.]

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senza costantemente munire il concreto anche di un ponte tramite degli schemi, la cultura prende lo stile del paesaggio, dettagliato, a cespuglio, procedurale, che talvolta ho descritto. Essa lo deve anche all’elaboratore elettronico. Le tecniche dell’elaboratore ci immergono, d’altra parte, in uno spazio tanto nuovo quanto il tempo nel quale ci fanno vivere quelle della datazione. Si pensi al senso dell’indirizzo. Quello, usuale, della posta si riferisce a coordinate di tipo cartesiano e a una distanza misurata tanto bene dalla geometria come dalla politica desueta: essa segna il paese, la città, la via, un numero. Niente di notevole ci proviene ormai più dalla posta. Ogni messaggio ci arriva sul telefono cellulare o sulla posta elettronica, i cui indirizzi si enunciano con cifre o lettere, in breve con un codice – come qualsivoglia altra cosa del mondo –, senza più alcun riferimento a qualche spazio così misurato. Scioccamente si ripete dappertutto che così si accorciano le distanze, come se abitassimo sempre lo spazio in cui in effetti un tempo la bicicletta e l’aereo accorciarono le distanze percorse a nuoto o a piedi. No, la Rete e il telefono cellulare trasferiscono le nostre vite e le nostre relazioni in uno spazio senza rapporto con quello antico. I geometri direbbero: ai vecchi tempi dei reticoli, abitavamo uno spazio euclideo, cartesiano, metrico, quello dei portolani e dei mappamondi, quello dei globi terrestre e celeste, mentre oggi frequentiamo uno spazio topologico, senza distanza né misura, non più quello degli arpedonatti, ma quello di Riemann e dei coloristi. La parola indirizzo, d’altra parte e grazie alla sua origine – rex, rectus –, si riferisce al re e al diritto: la polizia e il doganiere accedevano così alla tana in cui scovare il delinquente o il contribuente. L’indirizzo ci traccia. Il mutamento che descrivo non ha luogo nella stessa metrica, con nuove distanze in rapporto agli stessi riferimenti, come quando una volta traslocavamo, ma esso ci fa cambiare veramente di spazio. Siamo saltati in topologia. Cosa diviene, allora, il diritto, quando la linea retta diviene omeomorfa a una serpentina e la sfera a un berretto frigio? Spuntano allora all’orizzonte un’altra polizia, altre giurisprudenze, la desuetudine del re154


gime dei partiti e dei rappresentanti. Una cultura emergente implica politiche inattese. La pratica della referenza, infine, non concerne soltanto lo spazio abitabile o politicizzato, ma anche, tra le altre cose, il sapere. La perizia un tempo giocava sull’accesso; lo scienziato, l’erudito, lo storico... godevano di una conoscenza elettiva delle fonti per aver frequentato i laboratori, le università, le biblioteche, i buoni libri, società di colleghi..., essi impilavano allegramente note a piè di pagina e bibliografie, l’armatura e la corazza difensive della persona seria che ricopia. Ben referato, un buon libro cita i buoni indirizzi. Questa perizia sta morendo nello stesso tempo in cui l’università agonizza. I motori di ricerca, che operano nello spazio topologico, la rimpiazzano, mentre, attraversando il vecchio spazio metrico, l’antico erudito prendeva la linea più corta del metrò, oppure l’aereo, per andare a consultare il catalogo di una rara biblioteca. Tanto usate quanto le stelle delle quali riceviamo ancora la luce, ma delle quali l’astrofisica mostra l’antichità dell’estinzione, le nostre istituzioni obbligano ancora lo studente a prendere il treno, caro, per andare negli anfiteatri, zeppi, a ricevere, nella maggior parte dei casi molto male, un sapere disponibile gratuitamente a casa sua, in sovrabbondanza, sulla Rete. Aperta alla specie, la cultura generica apre un tempo comune alle genesi degli uomini e delle cose del mondo e si trasporta verso un altro spazio, qualitativo, in cui ormai abitiamo, con esse, ma la cui novità la filosofia e la politica hanno compreso ancora poco. Avendo la sua topologia digerito la contingenza come aveva fatto la durata rispetto all’ominizzazione, la sua accozzaglia di colori esalta il corpo e i paesaggi. Paesaggi, infatti. Ecco innanzitutto per il corpo. Dato che parlo di tempo, ecco la sua età. Consultando lo stato civile e le statistiche demografiche, la stimo, oggi, con meno di un secolo di speranza di vita. Tento tuttavia di calcolare meglio, datando la sua durata con la precisione ora acquisita. Se la lingua che parliamo affinò conoscenze e arti lungo gli ultimi quattro secoli e anche i tre millenni in cui si scambiarono i suoi antenati, i nostri archi plantari du155


rano nel rinvigorirsi nel corso delle erranze dei nostri avi dalla loro uscita dall’Africa, centomila anni fa; le nostre rotule si formarono tra gli ancheggiamenti di Lucy, da poco discesa verso la savana arborea, e la nostra passeggiata di ieri, intorno a tre milioni di anni fa; il Dna e le molecole che le nostre cellule fabbricano hanno cominciato a duplicarsi tre miliardi e ottocento milioni di anni fa, quando la vita apparve sul nostro pianeta; ma gli atomi che le compongono, azoto e carbonio, si forgiarono nella fornace delle galassie in preda al raffreddamento, più di dieci miliardi di anni fa. Immergendo dunque i nostri organi verso i loro costituenti si affonda attraverso la nostra carne un cronometro le cui gradazioni corrispondono molto bene, dettaglio per dettaglio, alle epoche dell’universo, alla formazione della Terra che ci circonda e all’evoluzione dei viventi che errano nel nostro ambiente. Il passato del nostro corpo oltrepassa non soltanto la nostra nascita e quella dei nostri vicini genitori, ma anche la sottigliezza della storia appresa a scuola, della scrittura e delle parole tratte dalle culture che precedono. Tuttavia, niente di più vicino né di più concreto di esso. Ignoriamo l’età dei suoi componenti e l’esistenza, in esso, di strati temporali tanto spessi quanto quelli delle cose stesse. Ecco delle proporzioni e un’armonia fino a ieri impensate. La datazione della mia età mi permette di valutare a un tempo l’antichità del mio corpo e quella di queste cose, dimenticate tutte e due, ma soprattutto la loro congruenza. La mia età segue il tempo della loro associazione. Non soltanto le cose circolano in mezzo a noi o abitano la nostra casa, ma si immergono in me per fare il mio corpo. Non soltanto il mio pensiero intende, anche se difficilmente, questa spanna di tempo, ma, formato di elementi nati con l’universo, o costituiti, lentamente e contingentemente, con il nostro pianeta, che accompagnano anche l’evoluzione dei vivi, il mio corpo vi si radica e ne vive. Ecco tre luoghi di memoria sincronici al dettaglio. Il mio ambiente si compone di cose delle quali si compone il mio corpo: esse discendono dallo stesso tempo. Ecco che scopro una nuova Umwelt; o, meglio, ecco materializzati i trattini dell’essere-al-mondo. Non so cosa ne è dell’essere, non so cosa ne è del mondo, ma i dettagli del mio corpo ne seguono le relazioni. 156


Formidabilmente arcaico e tuttavia nuovo, il corpo della nuova cultura trova in sé il mondo formidabilmente arcaico. Correggiamo Blaise Pascal: né lo spazio né il tempo si inabissano nella mia carne; essi la sondano, la formano, essa li misura, li sonda, quasi meglio del mio pensiero, spesso perduto nell’intuizione difficile di tali durate. L’universo non mi annienta, certi suoi dettagli mi attraversano. Inversamente, i numerosi decenni delle mie primavere intrecciano questi stessi dettagli oggettivi e, così singolarizzandoli, li soggettivizzano. Umanizzando dieci dettagli della vecchia natura detta inumana, questa quinta cultura fa nascere un nuovo Ominescente. Firmerà egli il Contratto naturale? Meglio, egli lo incarna, in sé. Apprendere queste cose ci induce a riscrivere la storia. Ecco i suoi paesaggi. Noialtri occidentali ci inorgogliamo, talvolta a giusto titolo, per il nostro gusto per l’esplorazione. Amiamo, da curiosi, cambiare orizzonte. Vedemmo mai, in effetti, accostare alle rive d’Europa navi venute da un’altra cultura al fine di visitarci? Inversamente, almeno a partire da Ulisse, il cui vascello si lanciò verso i mari e i mondi noti e ignoti, i nostri antenati non cessarono di tracciare sul mappamondo circuiti audaci: Pitea di Marsiglia verso nord, Vasco de Gama a sud, Marco Polo a est, Cristoforo Colombo e Jacques Cartier verso ovest, senza dimenticare il periplo di Ammone intorno all’Africa o Livingston e Stanley, la cui coppia seguì separatamente nella savana e nella foresta d’Africa le tracce dei tour operator arabi dell’epoca. Più o meno ardito, ciascuno di questi esploratori descrisse dieci paesi esotici, e raccontò i suoi incontri con nativi, indigeni o aborigeni, anche selvaggi, in breve creature con strani corpi, costumi e religioni. Questi choc culturali non si svolsero sempre senza violenza; vi si mescolarono la paura, spesso legittima, l’odio, il disprezzo, meno comprensibili, lo sfruttamento e il crimine, imperdonabili. In breve, si trattava di alterità; ancora e sempre la differenza. Una domanda assillava le parole e le coscienze: nel corso di questi spostamenti, chi si incontrava? Davvero donne e uomini? Come noi, lo credete? Impregnati ormai di etnologia, di etica e di po157


liticamente corretto, divenimmo fieri – tardi, è vero – di insegnare, se non di praticare la tolleranza. Ma la domanda rimaneva. Ora, per la prima volta, disponiamo di una risposta, almeno vaga: muniti di un Dna datato allo stesso modo, indiani d’America, aborigeni australiani, eschimesi, abitanti delle isole Figi, inuit, armagnacchi e borgognoni... discendono dal piccolo gruppo di Sapiens uscito dall’Africa centomila anni fa, secondo questo scenario che i miei colleghi esperti dicono probabile. I nostri antichi esploratori e noi stessi, viaggiatori, ritroviamo dunque dei cugini, la cultura, il corpo e la pelle dei quali diversificarono a motivo di dure costrizioni, temporali e locali, dell’ambiente. Non abbiamo bisogno di morale né di un testo altamente giuridico e proclamato solennemente per credere che siamo fratelli, ormai lo sappiamo. Ciò non ci apporterà necessariamente la pace, poiché dappertutto bruciano odî tra gemelli nemici, ma almeno cancelliamo dalla storia il termine incontro per sostituirlo con la parola ritrovarsi. Ah! Non ci eravamo più visti da centomila anni! Poco strano se ci somigliamo così poco! Vi ricordate dei nostri antenati comuni? Poco strano se ci assomigliamo! Sì, con un nuovo contatore del tempo il nostro corpo cambia la sua visione del mondo, questo risultato recente trasforma, in più, la nostra visione dell’uomo e della nostra storia, erronea. Chi siamo? Da dove veniamo? Queste vecchie domande della filosofia, un tempo senza risposta e tanto difficili da documentare che molti tra noi, scoraggiati, hanno cessato di porsele, trovano ormai delle soluzioni, temporanee, certo, perché relative allo stato corrente delle ricerche, ma poste in un processo di indagine in cui la loro probabilità cresce, decresce, non cessa di gestirsi... riferibili, almeno, in forma di racconto. Venuti originariamente dall’Africa, senza dubbio inseguiamo la mondializzazione da centomila anni. Errando oggi per quattro continenti, ritroviamo fratelli e sorelle; tornati sul primo, incontriamo madri e padri. La nostra storia si sbagliava. La riscriveremo? Gli esploratori non andavano dritto davanti a loro, ma tornavano. La storia, certo, ma anche l’etnologia mancavano di sottofondo cronologico. Antenati comuni si rivelano attraverso il Grande Racconto della 158


nostra emergenza e delle nostre erranze attraverso il globo. L’ominizzazione della nostra specie migratoria e mondializzata ci disperse dappertutto, a partire da una fonte probabile, stirpe o culla ubicate – ne discutiamo appassionatamente, ne discuteremo ancora a lungo – verso il Rift del Kenya, verso i Grandi laghi, forse verso il Ciad, in ogni caso verso il centro dell’Africa. Vi restammo milioni di anni, poi emigrammo lentamente verso “il Capo”, a sud, e verso l’Egitto, a nord, infine uscimmo dal continente per espanderci in tutte le latitudini. Nuovo scenario: che mi accampi nelle vicinanze del circolo polare, in mezzo agli inuit o in una tribù di australiani... trovo in me ormai l’audacia di avanzarmi verso di loro per dire loro, sorridendo: felicissimo di rivedervi; ci lasciammo sessanta o centomila anni fa, ve ne ricordate? Ho passato, in effetti, lunghe serate, dalle parti di Alice Springs, a raccontare questa storia a degli aborigeni che scoppiavano a ridere, a loro volta, nell’ascoltare un europeo cantare infine come loro miti di escursioni. Essi mi rispondevano: lo sappiamo da sempre, noi che diciamo che in un tempo originario, che noi chiamiamo il Sogno, strani viventi si espansero dappertutto creando cose e relazioni. E in Africa, con risate ancora più squillanti, tento di dire: trovate che sia cambiato dopo milioni di anni? Toubab, nostro piccolo bisnipote... rispondono. Porterò loro il mio nuovo libro, perché ne sorridano. Immergendo i nostri corpi, le nostre intenzioni e i nostri gruppi in un nuovo spazio, la cultura generica sveglia la memoria gigantesca delle cose del mondo, dei viventi, degli altri, di me, del mio corpo. Chi siamo? Parti disparate e totali dell’evoluzione. Degli io un noi che questi racconti assemblano, in mezzo alle cose.

Traduzione dal francese di Gaspare Polizzi

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Quel che resta del mondo ANTONELLO SCIACCHITANO In quanto scienza speciale, la psicanalisi è del tutto inadatta a formare una concezione del mondo, ma deve assumere quella della scienza. Sigmund Freud, Lezione XXXV (1932) Le monde est en décomposition, Dieu merci. Le monde, nous le voyons ne plus tenir, puisque même dans le discours scientifique il est clair qu’il n’y en a pas le moindre. Jacques Lacan, Encore (1972)

el Dialogo sopra i massimi sistemi a Semplicio, preoccupato che la nuova scienza non sconvolgesse il mondo filosofico tradizionale, Salviati ricordava “ché quanto alla scienza stessa, ella non può se non avanzarsi”.1 Avanza, la verità scientifica, perché è una costruzione non già definitivamente costruita, ma procede nel tempo da uno stadio di minore a uno di maggiore completezza, rimanendo tuttavia incompleta. Ma l’avanzamento non avviene nel vuoto. Una verità avanza, una retrocede, l’una lasciando il posto all’altra. Che ne è della verità scientifica della nozione di mondo? ci si chiede allora. Come vede la verità del mondo la scienza? È una verità che avanza o retrocede? In quanto segue, sulla decadenza della nozione metafisica di mondo mi limito a interrogare tra le più recenti due filosofie: il daseinanalismo alla Heidegger e lo psicanalismo alla Lacan, peraltro affini per la comune genealogia logocentrica. Il filosofo mette a tema l’immagine del mondo, per annunciare il possibile superamento filosofico della metafisica tecnoscientifica dell’ente. Lo psicanalista circoscrive un luogo – il registro immaginario – dove l’immagine del mondo si configura come correlato oggettivo della vita psichica soggettiva. Il mio interesse è qui di cercare di capire che cosa ne sarebbe del registro immaginario

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1. G. Galilei, Dialogo sopra i massimi sistemi (1632), in Opere, a cura di F. Flora, Ricciardi, Milano-Napoli 1953, p. 391.

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quando nella costruzione soggettiva decadesse il riferimento alla nozione di mondo.2 Se cade il velo immaginario e narcisistico della rappresentazione del mondo, cosa si svela? L’immagine del mondo Mundus est fabula è il titolo del libro che Cartesio tiene in mano nel ritratto del 1647 di Jan Baptist Weenix. Nell’Epoca dell’immagine del mondo di Heidegger, la fabula diventa imago. “Immagine del mondo, in senso essenziale”, precisa il filosofo, “significa quindi non una raffigurazione del mondo, ma il mondo stesso concepito come immagine”.3 Il mondo è la rappresentazione degli enti. “Il tratto fondamentale del Mondo Moderno è la conquista del mondo risolto in immagine”.4 Da una parte c’è il soggetto, dall’altra il mondo come enciclopedia – entificata – di enti. Il mondo è l’ente, immaginato come oggetto. Secondo Heidegger non sarebbe impossibile concepire l’oltrepassamento dello stadio – tecnoscientifico – del soggetto che immagina il mondo come oggetto. Per ora saremmo nel mondo “provvisorio” (ma consistente) del confronto tecnoscientifico tra soggetto rappresentante e oggetto rappresentato. Si può arrivare (siamo già arrivati?) al disfacimento della porzione più consistente del registro immaginario? Il suo nocciolo duro, perché narcisistico, costituito proprio dalla nozione di mondo, sta per essere “liquidato”, cioè reso liquido? Cosa troveremmo alla sua dissoluzione? Il giudizio di dio affrescato da Michelangelo? Forse non si può arrivare all’estinzione completa dell’immaginario, quindi di mondo, perché l’immaginario alimenta i meccanismi di difesa del soggetto rispetto all’oggetto. L’immaginario, e con esso tutto il mondo in quanto rappresentazione, difende il soggetto dall’oggetto – vedremo presto quale e perché richieda un 2. Oggi viviamo in un mondo globalizzato, si dice, con tutte le contraddizione del caso. Questione: sono queste delle contraddizioni epistemiche, interne a una nozione di per sé antinomica, come argomenta Kant nel Critica della ragion pura, o ci sta sotto un reale “conflitto ontologico” nel senso di scontro di ontologie, anzi di civiltà? 3. M. Heidegger, Sentieri interrotti (1950), trad. di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 88. 4. Ivi, p. 99.

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“meccanismo di difesa” nel senso freudiano. Per Heidegger il meccanismo di difesa si chiama metafisica. Precisamente, è la metafisica dell’epoca tecnoscientifica. Psicanaliticamente parlando, questa definizione di metafisica mi torna. Storicamente, ho qualche perplessità sulla possibilità di parlare di una “cosa” come la tecnoscienza. Ma se, per assurdo, fosse possibile estinguere l’immaginario, cosa resterebbe dopo la catastrofe del mondo? La mia congettura è che resterebbe lo spazio per pensare gli oggetti, che prima erano solo immaginati, rappresentati, vorgestellt, messi davanti, cioè proiettati sullo schermo soggettivo. In realtà, si assiste all’espansione gigantesca – riesig, è un termine heideggeriano ricorrente – del registro immaginario, cioè del mondo. È un registro, quello mondano o immaginario, che si autoalimenta all’infinito, sfuggendo a ogni possibile unificazione o autocentratura. Secondo Paulo Barone al giunto immaginario-reale vige il tempo della “polvere”, che domina lo spazio estetico della caducità.5 È un’ambientazione, quella della polvere, familiare al matematico, già dai tempi dell’Arenarius di Archimede, che immaginava di riempire di sabbia la sfera delle stelle fisse. Esisterebbe, infatti, anche per Cantor, un infinito oltre l’infinito discreto. Sarebbe l’infinito “pulverulento” della continuità, senza elementi individuabili come tali, infinitamente divisibile, infinitamente inafferrabile. È ancora un mondo? A ciascuno il suo mondo Per il filosofo la scienza è coestesa all’immaginario. È l’immaginario individuale che si trasforma in collettivo, grazie alla Kulturarbeit, direbbe Freud. Ha un soggetto? Forse solo l’ombra di un subjectum che, “sottratto alla rappresentazione, si fa tuttavia innanzi nell’ente”,6 attestando così il suo essere nel mondo. Per Lacan la vicenda oggettivante della scienza ha esiti più radicali. “La scienza è un’ideologia della soppressione del sog5. P. Barone, L’età della polvere. Giacometti, Heidegger, Kant, Hegel, Schopenhauer e lo spazio estetico della caducità, Marsilio, Venezia 1999. 6. M. Heidegger, Sentieri interrotti, cit., p. 100, nota 13.

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getto.”7 Il giudizio dello psicanalista sulla scienza non è meno severo di quello del filosofo, per il quale notoriamente “la scienza non pensa”. La verità è che di fronte alla produzione scientifica sia il filosofo sia lo psicanalista sono imbarazzati come un pesce con una mela, si dice in Francia. Cosa imbarazzava Lacan? La divisione, attribuita a Cartesio, tra sapere e verità. La verità evapora in grembo a dio, che la conserva e la garantisce. Al soggetto resta in mano il sapere scientifico: un mucchio di cenere, deboli certezze condizionate e probabilistiche. Ma senza verità non c’è soggetto, afferma il filosofo. Il soggetto, infatti, è l’effetto ultimo di una catena eziologica, che parte dalla verità – la causa prima8 – e arriva a lui grazie al linguaggio, i cui significanti funzionerebbero da cause seconde.9 Secondo Lacan, in epoca scientifica non solo il mondo, ma anche il soggetto, già prima di concepire un’immagine del mondo, svanirebbero per lasciare posto al reale asoggettivo. Non mi addentro nella dottrina lacaniana che, strumentalizzando Freud, tenta il repêchage del soggetto nella rete del simbolico. L’autonomia del simbolico, inteso come luogo della Legge e della Verità (con le maiuscole), mi sembra una vecchia proposta – per dirla con termine benevolo – logocentrica.10 Logocentrismo (la verità della e nella parola) e determinismo (la legge della causa e dell’effetto) hanno smesso di correre il campo del sapere occidentale dai primi del Novecento e forse anche prima.11 Da fenomenologo qual era Lacan non capiva molto di scienza e non registrò il fenomeno.12 Tuttavia, da autentico soggetto della scienza, Lacan dimostrò di saper lavorare con la propria ignoranza. Aveva grandi esempi 7. J. Lacan, “Radiophonie” (1970), in Autre écrits, Seuil, Paris 2001, p. 437. 8. Cfr. Id., “La chose freudienne” (1955), in Écrits, Seuil, Paris 1966, p. 416, e Id., “La science et la vérité” (1965), in Écrits, cit., p. 869. 9. Id., “Position del l’inconscient” (1960), in Écrits, cit., p. 830. 10. Logocentrismo significa tecnicamente che la verità è necessaria, se è enunciata. 11. Pietre miliari dell’antideterminismo furono in termodinamica il teorema H di Boltzman e in biologia l’Origine delle specie di Darwin. Il tema è sviluppato in Il caso domato da Ian Hacking, che scrive la storia della statistica come nucleo originario della biopolitica. 12. Lacan orecchiava la scienza. Ebbe un orecchio di riguardo per la topologia, perché, dopo Leibniz e Riemann, fu un suo connazionale, Poincaré, a portarla a maturazione.

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alle spalle, certo. Darwin non sapeva cos’è una specie e inventò l’origine delle specie. Cantor non sapeva cos’è un insieme e inventò la teoria degli insiemi. Freud non sapeva cos’è il sapere e inventò la teoria dell’inconscio, che è un sapere che non sa di sapere. Salito sulle spalle di questi giganti, Lacan riuscì a “vedere” la domanda giusta: cosa resta dopo la doppia afanisi di mondo e di soggetto? L’oggetto, residuo mondano Come insegnano sia Heidegger sia Lacan, la domanda giusta contiene la risposta giusta. Che, in questo caso, separa definitivamente lo psicanalista dal filosofo. Estinto il mondo come luogo degli enti rappresentati, non resta l’essere in quanto esserci – dove, poi? Dopo l’epoché del mondo e del suo soggetto non resta la “schiarita” o la “radura” del Dasein. Non resta l’ombra chiara del mondo. Non resta neppure il mondo virtuale, duplicato o surrogato mondano, noto oggi con vari nomi: Web, Internet, Facebook. Resta l’oggetto.13 È diverso. Qui l’orecchio del filosofo si tura. A sentire parlare di oggetto, immagina gli oggetti ontologici delle varie ontologie regionali, che sono il modo oggi più gettonato di mercificare la filosofia. Devo tranquillizzare il filosofo. La doppia epoché del soggetto e del mondo, cui alludo, non produce la serie degli oggetti del capitalismo, quotati in Borsa ed esposti nei centri commerciali. Il risultato della doppia estinzione di cui parlo è l’avvento dell’oggetto della scienza: l’infinito e la sua pratica. Che, poi, è la vera ragione per cui l’orecchio del filosofo si tura. Dai tempi degli antichi greci il filosofo non ama sentir parlare di oggetto infinito. L’infinito è una contraddizione in termini, in quanto su di esso non fa presa il principio per cui la ragione è ragionevole: il principio di ragion sufficiente. Il secondo libro della metafisica aristotelica è tutto dedicato a questo argomento: se esi13. Anche il cosiddetto mondo virtuale dei nostri pc è un oggetto. È una delle tante versioni possibili dello spazio scopico della sguardo. È il caso limite del “doppio cieco”, in cui né il soggetto si vede né è visto dall’altro. Bisognerebbe riscrivere la fenomenologia di Merleau-Ponty sotto il titolo Invisibile e invisibile (sic).

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stesse l’infinito, la catena delle cause dovrebbe risalire indefinitamente all’indietro di causa seconda in causa seconda, senza arrivare mai a mettere le mani sulla causa prima – il motore immobile o dio.14 Ancora oggi si parla di regressione all’infinito per dire che un argomento non regge, essendo poco meno che contraddittorio. Allora, per difendersi dall’aporia – che in realtà non esiste, essendo l’artefatto della presupposta ragione sufficiente – il filosofo inventa la nozione di mondo come luogo della rappresentazione degli enti, i quali sono finiti e limitati, quindi non lo inquietano.15 Se poi il filosofo si chiama Heidegger, sospende anche gli enti e trova l’essere dell’apertura o della schiarita (Lichtung). Meccanismi di difesa dall’infinito, dicevo. Dicevo anche che lo psicanalista non è filosofo. Con timore e tremore lo psicanalista riesce a pensare qualcosa dell’oggetto infinito della scienza. Da questo punto di vista Lacan è esemplare. Lungo un percorso tortuoso e poco raccomandabile riesce a pensare prima il soggetto e poi l’oggetto della scienza. Il soggetto della scienza è il soggetto del dubbio che transita dall’incertezza alla certezza, magari solo probabilistica. Non abita il linguaggio, come per il filosofo, ma il non-sapere freudiano, che, prima di essere organizzato come un linguaggio, è una formazione epistemica sui generis, fatta da un sapere negativamente autoreferenziale, in quanto non si sa di sapere. Un residuo di inquietudine anima tuttora il discorso lacaniano sull’oggetto. Il linguaggio deterministico un po’ démodé, ereditato da Freud, non la esorcizza del tutto. Lacan non lo chiama “oggetto infinito”. Lo chiama oggetto a, causa del desiderio. Stranamente, il simbolo algebrico non inquieta l’umanista più di tanto. Gli permette di parlare della “cosa”, inanellando sciocchezze insieme a intuizioni geniali. A volte l’oggetto a sembra l’oggetto originariamente perduto, addirittura contro la concezione freudiana 14. L’assioma aristotelico è: “Non esiste moto di un corpo che non sia messo in moto da un altro corpo”. Il principio di inerzia cartesiano cancella questa mitologia... da biliardo. 15. La quieta rappresentazione viene talvolta improvvisamente sconvolta dallo tsunami dell’oceano infinito nel porto sicuro delle rappresentazioni finite. Un caso emblematico fu Il disturbo di memoria di Freud nel 1904 sull’acropoli di Atene, descritto come dissolvenza – naufragio – della rappresentazione.

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dell’oggetto ritrovato; altre volte sarebbe l’oggetto residuale, come il profumo svanito dalla boccetta, di cui parlano i pensatori indiani. In questa seconda eventualità dietro il “resto” non è difficile vedere che l’infinito abita la “cosa”. Non solo in modo metaforico o latente, ma effettivo. Anche Hegel conosceva la matematica delle serie infinite, da cui traeva ispirazione per una Grande Logica.16 Quelle “buone”, cioè le serie sommabili, hanno resto finito, che è la somma di infiniti termini a partire da un certo punto della serie in poi. L’oggetto infinito “buono” sarebbe un resto finito, che tuttavia consentirebbe lo scivolamento infinito del desiderio lungo la catena dei significanti.17 L’homme pense avec son objet Parafraso l’intero passo del Seminario XI di Lacan,18 che mi sembra pertinente: “Il rocchetto con cui gioca il nipotino di Freud non è la madre ridotta a una pallina [...] ma è un piccolo qualcosa del soggetto, che si stacca da lui, pur rimanendo ancora suo, ancora trattenuto”. L’oggetto del desiderio non è oggettivo, ma soggettivo. Gli psicanalisti hanno inventato il brutto neologismo oggettuale.19 “È il caso di dire, imitando Aristotele, che l’uomo pensa con il proprio oggetto.” Aristotele avrebbe detto che l’uomo pensa con la propria anima.20 “È con il proprio oggetto che il bambino salta le frontiere del proprio dominio, trasformato in pozzo. È con il proprio oggetto che incomincia l’incantesimo. [...] A questo 16. Quando si dice la maturità. Prima dei quarant’anni, nella Fenomenologia dello Spirito, il filosofo del sapere assoluto aveva sbeffeggiato la matematica euclidea. Curiosamente, erano i tempi in cui i matematici cominciavano ad avanzare sul terreno delle geometrie non euclidee. In realtà, le critiche di Hegel a Euclide, per l’arbitrarietà delle sue figure, erano pertinenti. 17. Serie infinite, somme finite: non è un paradosso. Già Torricelli aveva scoperto che le superfici di rotazione delle iperboli di secondo grado hanno superficie infinita ma racchiudono un volume finito. Non si possono verniciare ma riempire di vernice. 18. J. Lacan, Le Séminaire. Livre XI. Les quatre concepts fondamentaux de la psychanalyse (1964), Seuil, Paris 1973, p. 60. 19. L’oggetto è oggettivo ma non oggettivabile. Fenomenologicamente si presenta come frammento del soggetto, qui come rocchetto trattenuto dal filo dei significanti. In realtà, è il soggetto un frammento trascurabile dell’oggetto. 20. “L’homme pense avec son âme, ça veut dire que l’homme pense avec la pensée d’Aristote”, J. Lacan, Le Séminaire. Livre XX. Encore (1972), Seuil, Paris 1975, p. 102.

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oggetto daremo ulteriormente il suo nome nell’algebra lacaniana: la piccola a.” Dove finisce l’infinito in questo caso? Nell’eterna ripetizione dell’identico, che Freud, analizzando il gioco del Fort-Da del nipotino, trasferisce dall’ontologia di Nietzsche alla propria metapsicologia, iscrivendolo come effetto della pulsione di morte. Come tanti ormai,21 credo che la metapsicologia freudiana delle pulsioni sia da abbandonare in quanto costruzione prescientifica. Ne discuto nel prossimo paragrafo. È da conservare, invece, l’intuizione di oggetto infinito come correlato del soggetto finito, che in Freud non è esplicita, ma anima tutta la sua speculazione sull’inconscio. In questa logica è l’oggetto infinito che trasforma il soggetto finito nel caso unico e irripetibile. “Caso”, tuttavia, non da intendere nel senso medico di caso clinico, espressione particolare di un’entità morbosa generale, eziologicamente determinato da un certo insieme di agenti patogeni (batteri, virus, geni, traumi, agenti chimici, ambiente). Il soggetto finito è il caso singolo, reso singolare dall’oggetto infinito. Di oggetti infiniti ce ne sono infiniti, forse più delle loro possibili narrazioni. Sono tanti e diversi. È ciascuno di loro che rende singolare il soggetto corrispondente, differenziandolo da ogni altro soggetto possibile: un caso più unico che raro.22 L’uomo pensa con il proprio oggetto, è un pensiero da analista. Solo dalla radicale esperienza d’analisi poteva affiorare un pensiero così poco filosofico, contro la stessa formazione filosofica del pensatore – nel caso fenomenologica. Infatti, in analisi si constata che è all’oggetto che – talvolta estaticamente – il soggetto pensa, se e quando tenta di concepire la propria singolarità. Non 21. A cominciare da Jung. Secondo Jakov Levi, alla teoria “ebraica” delle pulsioni, Jung sostituisce la teoria occidentale degli archetipi. Forse, più che ebraica, la teoria delle pulsioni è aristotelica, per non dire ippocratica. 22. Qui si spalanca una speculazione en abîme. Se gli oggetti sono più che infiniti, mentre i soggetti sono solo semplicemente infiniti, quindi di meno, esisteranno oggetti senza contropartita soggettiva? Se sì, come parlarne? E chi ne parlerà? Tentativo di risposta: ne parla l’artista. L’artista produce oggetti che “avranno” un soggetto. Chi trovò un modo per descrivere in modo altamente letterario la soggettivazione finita da parte dell’oggetto infinito fu un grande psicanalista italiano, Elvio Fachinelli, che ne registrò le tracce nel suo ultimo libro, La mente estatica (Adelphi, Milano 1989). “Mente estatica” significa mente oggettuale. Come sanno i mistici, l’esperienza estatica dell’oggetto porta il soggetto fuori dal mondo.

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si tratta né di autoreferenzialità narcisistica né di riflessione speculare o rappresentante. L’oggetto infinito non si rappresenta. Nell’estasi oggettuale il soggetto non fa altro che “singolarizzarsi” nel momento stesso in cui riconosce l’oggetto singolare del desiderio.23 Il soggetto è l’alter ego dell’oggetto, il suo inadeguato e sempre provvisorio rappresentante.24 È l’oggetto, che trasforma l’ego in soggetto, assoggettandolo – lui, una formazione narcisistica e immaginaria – a quella che sembra la legge oggettiva del desiderio, ma in realtà è la sua peculiare singolarità soggettiva. Di mondo non si parla in analisi. Si parla della dialettica – finalmente una parola filosofica! – tra soggetto e oggetto. In effetti, quello di mondo è un concetto troppo astratto, perché valga la pena di perdere tempo e denaro per parlarne. In analisi il mondo vola via dal discorso come un “foglietto accartocciato”. Un resto, uno scarto, magari una favola, con tutto l’immaginario che si trascina dietro. Cacca, pipì, latte, voce, sguardo, niente, fallo... lista impensabile In realtà, per lo psicanalista tutte quelle dette fin qui sulla destituzione dell’immagine del mondo sono banalità. Infatti, la psicanalisi non ha una propria concezione del mondo, come afferma Freud nell’ultima Vorlesung del 1932. Tuttavia, Freud predicava bene ma razzolava male. Non costruì un’immagine del mondo esterno, ma del mondo interno, sì. Costruì una metapsicologia della vita psichica, che a mio avviso è da dimenticare – dicevo. L’affermazione non è polemica come sembra. Gli attori della vita psichica freudiana sono le pulsioni, die Triebe, maschili in tedesco. Le pulsioni sono i nostri miti, diceva 23. Il riconoscimento oggettuale è sempre incompleto. Tra soggetto finito e oggetto infinito non c’è adeguamento; c’è “singolarizzazione”, come tento di dire. L’oggetto infinito rende il soggetto finito singolare. 24. Il capovolgimento rispetto al discorso metafisico classico è totale. Non è il soggetto a rappresentare l’oggetto, ma è il soggetto a essere un rappresentante dell’oggetto. Il soggetto rappresenta la rappresentazione. In proposito Freud conia il neologismo Vorstellungsräpresentanz. (Qui divergo dalla vulgata lacaniana che materializza la Vorstellungsräpresentanz nel significante.)

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Freud.25 Non poteva dire meglio. Le pulsioni non sono istinti biologici, selezionati darwinianamente; sono cause aristoteliche, piovute nella vita psichica del soggetto dal cielo della metafisica classica, quasi come la nozione di mondo.26 Le pulsioni sessuali sono cause efficienti. I loro effetti sono soddisfazioni sessuali parziali. La pulsione di morte è la causa finale. Il suo telos è mantenere nell’apparato psichico un livello di eccitazione minimo, scaricando all’esterno attraverso la coazione a ripetere l’eccesso di energia apportato dal trauma. Nel suo complesso la dottrina delle pulsioni è una mitologia del corpo o, come dice Freud in una delle rare occasioni in cui si atteggia a cartesiano, le pulsioni “sono un concetto limite (Grenzbegriff) tra psichico e somatico”.27 Questa mitologia – una biologia fantastica – si organizza poi sotto la penna di Freud nell’eziopatogenesi di conflitti, rimozioni, difese e altre nozioni di chiaro stampo medico. I traumi sessuali causano l’isteria come il bacillo di Koch causa la tubercolosi. Da dimenticare. In alternativa alla metapsicologia ippocratica di Freud, si potrebbe costruire una metapsicologia dell’oggetto infinito, sfruttando un carattere proprio della struttura infinita. La quale è non categorica, come proponeva Oswald Veblen nel 1904.28 Non categorica significa che della stessa struttura si possono dare modelli o presentazioni non equivalenti. Il modello numerabile, come abbiamo accennato sopra, non equivale al modello continuo. I numeri servono a contare, i tratti continui a disegnare. Trasferendo questo discorso alla psicanalisi, il modello “voce” non equivale al modello “sguardo”. Il primo è una combinatoria numerabile di infinite armoniche, pesate con pesi diversi da voce a voce; il secondo è lo spazio continuo in cui il soggetto è immerso e da cui è 25. “La dottrina delle pulsioni è per così dire la nostra mitologia”, S. Freud, “Neue Folge der Vorlesungen zur Einführung in die Psychoanalyse. XXXII Vorlesung” (1932), in Gesammelte Werke, vol. XV, Fischer, Frankfurt a.M. 1999, p. 101. 26. La metafisica aristotelica si basa sulla fisica ingenua dove un corpo non si muove, se non è mosso da un altro corpo; un effetto non esiste, se non esiste la causa. 27. S. Freud, “Triebe und Triebschicksale” (1915), in Gesammelte Werke, vol. X, Fischer, Frankfurt a.M. 1999, p. 214. 28. O. Veblen, A System of Axioms for Geometry, “Transactions of the American Mathematical Society”, 5, 1904, pp. 343-384.

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guardato senza potersi guardare. E così via per gli altri oggetti “pulsionali”: dalla cacca alla pipì, dal seno al fallo, senza dimenticare il niente, tutti oggetti che non formano un insieme, tanto meno un mondo – “lista impensabile”, diceva Lacan.29 I modelli oggettuali dell’infinito costituiscono una classe non unificabile dall’esterno in un concetto. Von Neumann e Gödel parlavano in proposito di classi proprie, cioè classi che non sono elementi di altre classi (metaclassi). Si avvista così un territorio – una terra promessa – che sarebbe il luogo di una possibile psicanalisi scientifica. Tutta ancora da inventare. Alla fine di questa analisi, ci accorgiamo che l’innovazione scientifica, e il suo prolungamento psicanalitico, sono abitati da una “volontà d’oggetto”, che assomiglia molto alla volontà corporea. Sarebbe questa la reale cosa in sé, contrapposta da Schopenhauer alla rappresentazione, che resta sempre immaginaria o fenomenologica.30 Il nostro Lacan ha parlato pochissimo di corpo. Freud ne ha esplicitato qualcosa di più sin dai tempi del Progetto di una psicologia scientifica, come luogo di origine dell’eccitazione endogena dell’apparato psichico, ma poi ha perso il bandolo nella misera31 dottrina delle pulsioni. Si tratta di affrontare un argomento difficile che, come corrente sotterranea, anima tutto il discorso precedente. Intendo il tema del corpo soggettivato, che è il punto di ancoraggio più enigmatico e riposto del discorso scientifico. Questo punto, anch’io sono costretto a lasciarlo ai margini, indicandolo come principio di una particolare estetica: l’estetica del falso, la cui verità si estrinseca nell’“avanzarsi” dagli affetti – falsi – alle idee – meno false.32 29. J. Lacan, “Subversion du sujet et dialectique du désir dans l’inconscient freudien” (1960), in Écrits, cit., p. 818. 30. Pur di non perderlo, il fenomenologo raddoppia l’immaginario mondano in “mondo naturalistico” e “mondo della vita”, dimenticando l’aforisma nietzschiano che “la vita non è un argomento” (Gaia scienza, 121). 31. Misera in senso tecnico, perché spiega tutto e il contrario di tutto, quindi irrilevante. 32. Bisogna tornare a Spinoza, che con la sua teoria degli affetti è il vero precursore di Schopenhauer e Freud. Gli affetti animano il corpo di falsità, cioè di rappresentazioni imperfette delle idee vere pensate in modo perfetto solo da dio. Ne ho presentato un primo possibile abbozzo di teoria psicanalitica in A. Sciacchitano, Il corpo pensante, “aut aut”, 330, 2006, pp. 73-93. Forse ancora più che per l’oggetto, la topologia è necessaria per pensare il

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“Avanzarsi” In versione medica o scientifica, la teoria psicanalitica non guadagna la nozione di mondo. L’unico guadagno della speculazione psicanalitica è il galileiano avanzarsi. Non c’è il mondo ma c’è l’avanzamento, che peraltro è poca cosa. Non esiste, infatti, il progresso che immaginavano gli illuministi. Da un certo punto di vista, nella scienza non esiste affatto progresso della verità o se esiste è relativo. È vero che si è fatta più matematica e più fisica nell’ultimo secolo che negli ultimi millenni. La biologia ha cominciato in ritardo ma sta recuperando. Tuttavia non c’è nessun progresso scientifico in termini di verità assoluta. Le verità scientifiche, infatti, sono e rimangono verità condizionali del tipo se A, allora B. A è l’assioma teorico o il dato d’esperienza, da cui la teoria parte per dedurre il teorema B. Ma la verità incondizionata di B ci sfuggirà sempre. Quel che possiamo realizzare è una serie di verità relative di B, aumentando gli assiomi o le esperienze a suo carico. Non sapendo nulla, B ha la probabilità di ½ di essere vera; sapendo A1, la probabilità che A1 implichi B sale a ¾, sapendo A1 e A2, la probabilità dell’implicazione congiunta sale ancora a 7/8, e così via “avanzando”, senza mai toccare l’1 della certezza a cui tende, come Achille alla tartaruga. La verità – quella umana, non quella divina – è par provision, diceva Cartesio. Non abita questo mondo. In questo mondo, dal punto di vista psicanalitico, si danno solo modelli parziali e non confrontabili dell’oggetto infinito del desiderio. Insomma, lo spazio della verità mondana ha cambiato indirizzo. Si è trasferito dallo spazio del mondo allo spazio estetico della caducità – una transizione dallo spazio al tempo, forse più epistemico che cronologico. Conclusione scettica? Deriva mistica? Rimando al citato testo di Barone chi voglia affrontare dal punto di vista di questa alternativa la destituzione dell’immagine del mondo. Ma anche il breve testo di Freud sulla Caducità, un altro raro luogo cartesiano corpo, ponendo a suo fondamento topologico la nozione di punti limite (o di accumulazione), come equivalenti scientifici (meno antropomorfi) delle zone erogene di Freud.

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di Freud, scritto in piena Grande guerra (1916), sulle soglie di quella che sembrava la catastrofe del mondo – e il peggio doveva ancora venire – avrebbe una sottile morale da insegnare. Un’etica minima, alla Rovatti, né mondana né mondiale. Forse un’etica alla Sisifo, alla Camus. Concludeva Freud: “Wir werden alles wieder aufbauen, was der Krieg zerstört hat, vielleicht auf festern Grund und dauerhafter als vorher”. “Ricostruiremo tutto ciò che la guerra ha distrutto, forse su basi più solide e durature di prima”.33 Alles... was, “tutto ciò che”, perché non tradurlo “mondo”? Superato il lutto per la perdita, potremmo ricostruirlo, questo mondo, questo “tutto”, magari con minori pretese di categoricità. Perché cos’altro è la psicanalisi, se non il lavoro del lutto per la perdita del mondo? Perdita grave? Forse non più di tanto, se si è perso solo un frammento di ideologia, come suggeriva il compianto Panikkar. Magari perdita compensata dalla prospettiva di un nuovo oggetto, quello più solido e duraturo della scienza – l’infinito.

33. S. Freud, “Vergänglichkeit” (1916), in Gesammelte Werke, vol. X, cit., p. 361.

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Atlante del disastro RAOUL KIRCHMAYR

1. I greci avevano attribuito ad Atlante un compito essenziale: sorreggere la volta celeste, affinché questa non cadesse sulla Terra, e inoltre muovere il firmamento, facendolo ruotare attorno alla Terra. È grazie alla sua opera che vi sono astri nel cielo, che il loro movimento – riflesso del movimento del dio – è regolare e intelligibile, e che, infine, le stelle offrono, una volta raggruppate in costellazioni, dei punti di riferimento stabili per l’orientamento. Con questa sua funzione Atlante esce così dal mito e, come ordine (cosmos) di ciò che è visibile (ouranos), da figura diventa strumento per organizzare metodologicamente l’osservazione e la conoscenza, mutandosi, per via di metafora, in mappa o, anche, in sfera. Atlante presiede così all’ordinata rappresentazione grafica del cosmo, a una cosmografia che consente ai greci di dare rigore scientifico allo studio dei movimenti dei corpi celesti. Se da un lato è solo per ausilio mnemonico che l’astronomo riunisce le stelle in figure e rappresenta queste ultime mediante immagini, dall’altro lato, tuttavia, la storia della cultura occidentale mostra un continuo sovrapporsi, fino talvolta alla confusione, del piano scientifico con quello immaginario e mitologico. Così su quelle immagini caricate simbolicamente, una volta “essenzializzate” in figure mitologiche, corrispondenti alle costellazioni, e in divinità-pianeti, corrispondenti alle “stelle erranti”, il pensiero magico proietta qualità e potenze demoniche che si credeva fossero in grado di determinare gli eventi del mondo terrestre, secondo una corrispondenza tra microcosmo e macrocosmo. aut aut, 350, 2011, 173-184

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È noto che con le sue ricerche sulla storia dell’astrologia Aby Warburg avesse dedicato grandi sforzi a questo tema, per cercare di venire a capo tanto delle vicende storiche del conflitto tra pensiero razionale, scientifico, da una parte, e pensiero magico, mitopoietico, dall’altra, quanto della funzione psicologica che le immagini delle costellazioni e dei pianeti assumono in determinati periodi della storia della cultura. Egli si era interessato alla permanenza in età rinascimentale dell’immaginario astrologico antico, una forma esemplare di ciò che aveva chiamato Nachleben, la “sopravvivenza” delle antiche divinità nel contesto religioso, storico-culturale e psicologico del cristianesimo. Ciò che lo aveva attirato era stato il recupero delle figurazioni greche delle divinità celesti in contrapposizione alle diverse e molteplici stratificazioni che su di esse avevano impresso le culture ellenistico-alessandrina, persiana, araba e perfino indiana. Come aveva documentato, queste ancora dominavano l’universo simbolico e immaginario del Medioevo occidentale, e le loro tracce continuavano a essere visibili nel Cinquecento, secondo quanto dimostrano le figure degli affreschi del Ciclo dei mesi, dipinte da Francesco Cossa, che decorano la sala dei giochi di Palazzo Schifanoja a Ferrara.1 Nel suo fondamentale contributo Warburg metteva in rilievo l’apparentemente oscura simbologia delle tre strisce parallele con cui l’affresco era stato composto, e che invece risultava perspicua una volta riconosciuto che la striscia centrale raffigura gli dèi astrali, mentre quella superiore mostra gli dèi olimpici e quella inferiore le vicende della vita del duca Borso d’Este.2 L’interpretazione della striscia mediana svolta da Warburg spiccava, rispetto ai metodi coevi di spiegazione delle opere e di individuazione del loro significato, per almeno una caratteristica: essa procedeva mediante il ricorso a uno schema dinamico che aveva il vantaggio di unire storia e geografia e grazie al quale gli era stato possibile costruire una mappa geografica e temporale dei tragitti che la sovrabbondante simbologia dei decani aveva percorso lungo un ar1. A. Warburg, Arte e astrologia nel palazzo Schifanoja di Ferrara (1912), Abscondita, Milano 2006. 2. Ivi, p. 15.

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co di secoli. Più specificamente, in tale mappa si tracciavano alcune direttrici che, avendo la loro origine in Grecia, giungono in Oriente – in Persia e in India – e percorrono dei cammini che, attraversando il mondo ellenistico e, da qui, prendendo la via del mondo arabo, giungono fino all’Europa medievale, attraverso la Spagna e la Sicilia.3 Si tratta, cioè, di “migrazioni internazionali”4 che, ci indica Warburg, devono essere ricostruite a ritroso per poter individuare i molteplici strati iconologici che vanno a comporre l’insieme, in apparenza eterogeneo, degli affreschi. Questa impresa interpretativa, in altri termini, non poteva che trovare collocazione all’interno di una rinnovata concezione dell’atlante delle immagini della cultura occidentale. Ed è infatti sotto il segno e la figura di Atlante che Warburg in seguito avrebbe inteso condurre il progetto di Mnemosyne.5 Dovendosi confrontare con le contraddizioni che si aprivano tra il repertorio figurativo – nel quale gli dèi pagani erano entrati in scene di genere – e l’immaginario collettivo – che li considerava come rappresentanti di demoni astrali –, Warburg era stato dunque condotto a elaborare ipotesi più coerenti circa il reticolo simbolico di cui è intessuta la storia dell’arte occidentale, che trovava nell’astrologia una “pericolosa avversaria della libera creazione artistica”.6 Per questo, egli era stato “costretto a scendere nelle regioni semioscure della superstizione astrologica”,7 con lo scopo di restituire chiarezza alla simbologia astrologica nonostante l’opacità generata dalla distanza, geografica e temporale, tra le origini remote dei culti astrolatrici e il punto d’arrivo dei movimenti migratori delle credenze impresse e tramandate in immagini. Insomma, il senso della simbologia degli affreschi di Palazzo Schi3. Ivi, pp. 16-20; cfr. E. Gombrich, Aby Warburg. Una biografia intellettuale (1970), Feltrinelli, Milano 2003, pp. 182-183, e naturalmente l’intera raccolta di F. Saxl, La fede negli astri. Dall’antichità al Rinascimento, a cura di S. Settis, Bollati Boringhieri, Torino 2007. 4. A. Warburg, Arte e astrologia, cit., p. 46. 5. Sulla concatenazione Atlante-atlante-sfera-globo e sui problemi di riconoscimento della figura di Atlante legata al progetto di Mnemosyne, cfr. D. Stimilli, L’impresa di Warburg, “aut aut”, 321-322, 2005, pp. 97-116. 6. A. Warburg, Arte e astrologia, cit., p. 11. 7. Ibidem.

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fanoja aveva resistito fin lì alla spiegazione, perché non era stato preso in carico l’intero movimento migratorio che, storicamente, aveva portato tali simboli all’interno di una corte italiana rinascimentale conservandone così la provenienza, nonostante le successive stratificazioni con cui essi erano stati rimaneggiati. Da qui la necessità di estendere il “campo di osservazione a Oriente”.8 Grazie a tale operazione, che era dunque una sorta di messa in prospettiva geo-storica delle immagini, Warburg poteva individuare gli innesti della cosiddetta Sphæra barbarica sul corpo delle dottrine greche e l’influenza delle culture orientali nelle forme di rappresentazione degli astri. 2. Il lavoro di ricostruzione genealogica dell’astrologia antica e della sua ricomparsa nella cultura rinascimentale compiuto da Warburg aveva tratto le sue principali coordinate da Sphæra, l’opera pionieristica di Franz Boll, che aveva guidato pure le ricerche sull’astrologia di Fritz Saxl.9 L’esigenza, affermata da Warburg, di ampliare metodologicamente il campo d’osservazione era infatti già stata esplicitata da Boll, il quale aveva postulato che “Oriente e Occidente non devono più essere separati” (“Orient und Occident sind nicht mehr zu trennen”),10 pena l’incomprensibilità dei movimenti che avevano permesso la sopravvivenza delle antiche divinità associate alle costellazioni. In altre parole, per Boll e Warburg la ricostruzione delle tappe storiche con cui il sapere astrologico si era stratificato fino alla cultura dell’Europa rinascimentale, richiedeva fin dall’inizio il riconoscimento dell’interdipendenza tra Oriente e Occidente, senza il quale sarebbe stata vana qualsiasi operazione di rintracciamento dei prestiti, delle interferenze, delle sovrapposizioni tra una cultura e l’altra. È solo attraverso questo lavoro preventivo di chiarificazione che diventava possibile ricostruire il significato culturale dell’operazione con8. Ivi, p. 16. 9. E. Gombrich, Aby Warburg, cit., pp. 167 e 173. Cfr. anche S. Settis, “Introduzione”, in F. Saxl, La fede negli astri, cit., pp. 17-18. 10. F. Boll, “Die Erforschung der antiken Astrologie” (1908), in Kleine Schriften zur Sternkunde des Altertums, Koehler und Amelang, Leipzig 1950, p. 1, citato in S. Settis, “Introduzione”, cit., p. 18.

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dotta dagli artisti del Cinquecento, con la quale avviene la “reintegrazione”11 delle figure greche, una volta depurate delle stratificazioni posteriori, come accade nel caso delle tre incisioni di Dürer studiate da Warburg.12 In esse è infatti visibile la forma che assume il rapporto tra pensiero e superstizione, con il prevalere di uno spirito scientifico che tuttavia reca con sé – nelle immagini astrali caricate simbolicamente – l’ombra della mentalità magica arcaica. Che Dürer restituisse in foggia greca le immagini delle divinità, rappresenta agli occhi di Warburg una vittoria della ragione nella lotta contro le credenze astrologiche e demoniche. In primo luogo, il processo di costruzione di una nuova mitologia che si rifà alla classicità si esprime in una rinnovata relazione tra la carta astronomica e la raffigurazione, dove i due poli del pensiero logico e del pensiero mitico-magico si trovano imbricati, ma non sono più confusi l’uno con l’altro. In secondo luogo, la migrazione delle immagini fino in Germania o, come si è visto, alla corte estense comporta pure il loro mutamento essenziale, poiché le divinità cessano di essere nazionali per diventare cosmopolite. Come scrive Saxl, “nelle loro vene scorre ora sangue greco-latino, orientale e germanico”.13 Ciò significa che l’Atlante orientale-occidentale delineato da Warburg non poteva che essere un atlante dei flussi e delle migrazioni, nel quale venivano collocate tanto le nuove rappresentazioni della sfera celeste – ovvero il sistema di orientamento che l’uomo del Rinascimento, da Keplero in poi, avrebbe costruito sulla scorta di una rinnovata mentalità scientifica – quanto le tradizionali rappresentazioni astrologiche di pianeti e costellazioni – che accompagnano come un doppio la nascita della moderna astronomia. Il senso delle immagini degli astri torna a risplendere, dunque, una volta riconosciuto quel movimento in cui le divinità pagane esiliate diventano addirittura dei viaggiatori, superano i confini e, pur cambiandosi d’abito, non celano la loro prove11. Il termine è di Warburg, ripreso da E. Gombrich, Aby Warburg, cit., pp. 170 e 174. 12. Cfr. A. Warburg, “Divinazione antica e pagana in testi ed immagini dell’età di Lutero” (1920), in La rinascita del paganesimo antico, La Nuova Italia, Firenze 1978, pp. 309-390. Su questo punto cfr. E. Gombrich, Aby Warburg, cit., p. 166. 13. F. Saxl, La fede negli astri, cit., p. 419.

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nienza: “I decani indiani di Abu Ma’šr, che dominano la regione mediana a Palazzo Schifanoja, hanno infatti rivelato [...] che un cuore greco batte sotto le varie vesti di cui si sono coperti i pellegrini nei loro viaggi pieni di traversie attraverso tempi, popoli e ambienti”.14 Tra esse figura senza dubbio anche Atlante, emblema antico eppure nuovo di un’età di scoperte geografiche e astronomiche. Che Warburg faccia accompagnare Mnemosyne da Atlante indica non solo che per lui la sua epoca era in grado di vedere nuovamente e assimilare quei simboli alla misura della capacità di visione, ma che per quanto esiliati e costretti ad assumere altre sembianze, gli dèi pagani apparivano ancora, come la luce intermittente di stelle lontane ormai morte. 3. Nel 1957 Adorno pubblicò un saggio il cui titolo originale suonava The Stars Down to Earth – che potrebbe essere tradotto letteralmente con La caduta delle stelle sulla terra – in cui presentava l’elaborazione dei risultati ottenuti da una ricerca empirica. L’oggetto della ricerca erano le rubriche di astrologia di alcune pubblicazioni popolari americane, ovvero le forme e i linguaggi assunti dalla contemporanea “epidemia astrologica”.15 Lo studio aveva lo scopo di mostrare come la credenza nell’astrologia fosse incoraggiata dall’industria culturale e avesse un suo preciso scopo, consistente nel veicolare in modo surrettizio, attraverso il mezzo della fede negli astri, alcuni “messaggi” che lasciano trasparire una loro razionalità se studiati con lo strumentario della psicanalisi applicata agli studi sociali. In particolare, l’analisi evidenziava come il contenuto di tali messaggi convergesse verso l’accettazione passiva della verwaltete Welt, cioè del “mondo amministrato tecnicamente”.16 La ricerca che Adorno aveva condotto su quella che si potrebbe chiamare l’ideologia astrologica17 nella società tardo-moderna 14. A. Warburg, Arte e astrologia, cit., p. 40. 15. T.W. Adorno, Stelle su misura. L’astrologia nella società contemporanea (1975), Einaudi, Torino 2010, p. VII. 16. Cfr. ivi, p. 122. 17. Ivi, p. 131.

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e dei consumi – anzitutto la società americana, ma lo spettro potrebbe essere ampliato fino a comprendere l’intero Occidente – aveva infatti rivelato come la credenza in un rapporto tra il microcosmo delle vite e dei destini individuali e il macrocosmo dei moti degli astri non fosse solamente una sorta di sopravvivenza del pensiero magico nell’orizzonte del mondo industriale, ma nascondesse pure una fiducia recondita in un ordine sovraindividuale del quale gli astri non erano più altro che i pallidi luogotenenti. Ciò che infatti l’astrologia trasmette, secondo Adorno, è un apprendimento all’uniformità degli individui e all’ubbidienza che essi maturano verso una presunta struttura pseudo-razionale del mondo rivelata a ciascuno dagli oroscopi, i quali consentono di orientarsi nella vita quotidiana, in forme però unicamente adattive: “L’astrologia [...] contiene una implicita metafisica dell’adattamento”.18 In realtà, osserva Adorno, sono le parole d’ordine della società industriale e della sua logica utilitaristica quelle che vengono impiegate come messaggio, tanto che all’individuo è impartita una vera e propria morale spicciola basata sul calcolo, la convenienza, l’ubbidienza, il rispetto della gerarchia ecc., che da una parte aiutano a integrarsi in un mondo conflittuale ed essenzialmente ostile, dall’altra parte assoggettano alla logica che lo governa. Ciò che gli oroscopi traducono in termini di credenza è dunque l’aspettativa che il mondo sia ordinato e che esso possa essere prevedibile mediante un’adesione fideistica nella corrispondenza tra macrocosmo e microcosmo, tra i moti degli astri e i destini individuali. I decreti giornalieri degli oroscopi vengono incontro a una necessità molto umana, quella di potersi orientare in un universo di simboli e di codici che sfuggono al controllo di ciascuno: quanto più l’individuo è consegnato alla solitudine, e atomizzato dal corso del mondo moderno, tanto più esso sente la necessità di affidarsi a una forma industriale di divinazione, la quale fondamentalmente ha la funzione di rassicurarlo di fronte all’aleatorietà degli eventi: il mondo è un cosmos e non un chaos, gli eventi che ri18. Ivi, p. 22.

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guardano ciascuno possono essere previsti perché un grande Altro simbolico regola il corso delle cose – benché tali regole non siano del tutto accessibili né, quindi, comprensibili. Ora, se inseriamo la ricerca di Adorno in una prospettiva più ampia, di una critica della cultura che accolga metodologicamente gli apporti della psicanalisi e assuma i fenomeni “irrazionali” come oggetto di studio, operiamo così uno scavalcamento dei confini disciplinari, di sociologia della cultura, che lo stesso Adorno aveva imposto al suo lavoro. Teniamo conto, inoltre, delle preoccupazioni warburghiane circa il rapporto di polarizzazione reciproca tra la ragione e le potenze demoniche simboleggiate da pianeti e costellazioni. In questo modo, il nesso tra la secolarizzazione delle credenze astrologiche e la verwaltete Welt si presenta più denso e significativo. Se ne può ricavare una duplice indicazione: la prima è che gli ancestrali culti astrologici intessono la cultura di massa occidentale in una versione mondanizzata e secolarizzata, e benché privati del loro significato religioso, essi adempiono da un lato a una funzione mitopoietica e ipnotica, e dall’altro mostrano alcuni tratti della struttura ideologica dell’occidente tardo-moderno. La seconda è che in termini di psicologia delle masse essi conservano la loro capacità di presa, perché quotidianamente riescono a sopperire a un bisogno di orientamento e di pre-visione che deve essere situato in una regione al di qua della razionalità scientifica. Perciò essi appaiono più come un sintomo del generale disorientamento che come un’espressione residuale di una mentalità arcaica che permane nel cuore delle società secolarizzate: se si tratta di un ritorno del rimosso, questo avviene nel contesto di una piena assunzione dell’orizzonte secolare e non come una resistenza a esso. “Oggi non ci occupiamo più di astrologia: non guardiamo più il cielo, poiché le stelle hanno perso il loro significato religioso insieme alla loro natura demonica”, aveva scritto Saxl.19 Tuttavia, per quanto in un certo senso vera, questa affermazione deve essere corretta circa la sua premessa e l’ordine logico dell’argomento: 19. F. Saxl, La fede negli astri, cit., p. 184.

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oggi noi continuiamo a occuparci di astrologia, proprio perché il nostro cielo è disabitato da dèi e demoni e di quegli astri non ne è più nulla. Nell’attuale credenza astrologica e nella persistenza di ansie millenaristiche che, insufflate dai media, gonfiano l’attuale immaginario collettivo occidentale, possiamo riconoscere dei fenomeni rivelatori del nostro tempo: “Vogliamo indagare l’astrologia per trovare che cosa indica come ‘sintomo’ di alcune tendenze della nostra società e anche di tendenze psicologiche tipiche che questa società esprime”.20 Se l’indagine di Adorno chiama in causa la capacità di presa immaginaria dell’astrologia sulle pulsioni inconsce, mi pare che essa richieda tuttavia un’ulteriore distinzione tra una forma di credenza ingenua, come quella che presiede al pensiero magico arcaico, che ritroviamo negli antichi culti astrolatrici e di cui Warburg si era messo sulle tracce sopravviventi agli inizi della cultura moderna, e una credenza per così dire “di secondo grado”, che fruttifica negli interstizi della mentalità scientifico-razionale e che contraddistingue le odierne forme di irrazionalità collettiva, dando luogo a “una ‘superstizione secondaria’ ampiamente sottratta al controllo critico dell’individuo e offerta in modo autoritario”.21 Adorno, in questa prospettiva, aggiunge un tassello significativo alla comprensione del moto di caduta degli astri dal loro firmamento mitologico e alla conseguente odierna scomparsa di Atlante: il mondo si è finalmente fatto globo e non ha più bisogno di una divinità che lo sorregga, poiché esso si sorregge da sé, iuxta propria principia. Solo che tali principia hanno dovuto accogliere in sé il caso e l’indeterminazione. Allora, nelle credenze astrologiche viene trovata (o ritrovata) una forma persuasiva di orientamento in un mondo in cui è piuttosto l’alea a governare. L’astrologia come impulso di massa e il tramonto dell’atlante come forma di un ordine cosmico che garantisce l’orientamento vanno perciò di pari passo, tracciano la medesima curva che disegna l’abbandono del mondo da parte degli antichi dèi prima e il 20. T.W. Adorno, Stelle su misura, cit., p. 120. 21. Ivi, p. 8. Il concetto di “superstizione secondaria” è impiegato già nella “Introduzione” al saggio, ivi, p. VI.

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ritrarsi del dio cristiano poi. Perché, al di là di ciò che Warburg cercava e si sforzava di riconoscere, ovvero la sopravvivenza degli dèi, questi ultimi hanno effettivamente abbandonato il mondo. Consegnato agli umani, esso è diventato una macchina senza fini,22 da cui gli individui dipendono per il senso delle loro esistenze. Il disastro come perdita del riferimento mitopoietico alle stelle (dunque a un cosmos che si mostra mediante esse) è pertanto del tutto coerente con il contemporaneo “mondo amministrato” di cui parla Adorno. L’astrologia agisce così come un’“ideologia della dipendenza”23 che conforta per la scomparsa dell’orizzonte del senso. La credenza nelle stelle funge da supplemento d’anima: se vi è del senso, questo può essere trovato in una versione edulcorata e light degli antichi culti astrologici, senza però l’adesione a quell’ordine delle cose, stabilito dalla religione, in cui essi trovavano dimora e di cui erano espressione. Al suo posto c’è un mondo tecnicamente ed economicamente ordinato, che ha tanto più bisogno di stelle (stars) quanto meno esse possono dare senso alla vita di ciascuno – un moltiplicarsi di stars la cui aura di seconda mano nasconde a malapena la loro natura troppo umana. È in un mondo siffatto che le stelle sono scomparse dal firmamento, e non indicano più né rotte né cammini, mentre hanno acquisito i tratti della vita volgare dello star system, pallido riflesso della potente forza mitopoietica dell’antichità. Senza più demoni incarnati nelle figure dei pianeti, e privi di una stella che guidi il cammino nella storia verso un avvenire, o – per altri versi – una redenzione, la nostra condizione è quella segnata dalla scomparsa degli astri, letteralmente dal disastro del nostro eterno presente. 4. Fuori dalla raffigurazione mitologica di Atlante, e dunque fuori dalla metafora dell’atlante come mappa che garantisce l’orientamento, ciò che pare delinearsi nei nostri tempi, in cui è sempre più difficile alzare gli occhi al cielo, è uno scioglimento del nesso che legava il reperimento astronomico dell’Oriente, la mappatura del firmamento – che ci permette di collocarci sulla terra – e la 22. Che, per Adorno, “sembra effettivamente muoversi verso l’autodistruzione” (ivi, p. 123). 23. Ivi, p. 122.

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sopravvivenza degli antichi dèi. Detto altrimenti, ciò che il nostro tempo mondano e secolarizzato ha sciolto, forse definitivamente, il reticolo simbolico tra cielo e terra, divini e mortali, lo schema che Heidegger chiama la “quadratura” (Geviert). Tale reticolo non solo era a garanzia di una memoria tramandata e che poteva essere riattivata storicamente affinché fosse possibile una Erörterung del nostro presente (il pensiero come Andenken in Heidegger, ma anche la ricerca come Mnemosyne nell’ultimo Warburg), ma costituiva inoltre una sorta di matrice dalla quale potevano essere generate nuove mappe. Per quanto disarticolata la quadratura, rimane l’esigenza di orientamento cui la scienza non corrisponde – avendo potentemente contribuito a dissolvere il cosmo deterministico del passato – e cui la techne adempie solo nella misura del calcolabile. La caduta degli astri consegna tale esigenza al mercato della superstizione, che a sua volta soddisfa il bisogno di orientarsi in un mondo senza più riferimenti celesti. Il compito che ci attende pare molto paradossale: pensare un Atlante che non sorregga più alcun firmamento e che non muova più le stelle, poiché delle stelle non è rimasta che polvere luminescente, una stardust che, se è senza dubbio polvere,24 rischia pure di mostrarsi solo come cenere. È in questa direzione che interrogherei la questione della polvere e della cenere, in contrappunto con quella della luminosità, della chiarezza e della trasparenza delle immagini. Nella prospettiva che ho cercato di indicare qui, si tratterebbe di riconoscere una genealogia della cenere in cui questa si darebbe quale resto di un processo storico-culturale (la scomparsa del firmamento mitico, in cui trovava posto Atlante) e, al tempo stesso, quale sintomo del disastro (l’odierna “costellazione” globale che disgiunge, unendoli, l’Occidente dall’Oriente). Per ipotesi, la cenere non sarebbe altro che polvere stellare che ha perduto la sua luminescenza, una polvere grigia quale ultimo residuo di un tempo che pare senza promessa né speranza. Occorre ormai abbandonare l’idea che si possa ritrovare un orientamento grazie 24. Per una ricognizione sul tema filosofico della polvere, cfr. P. Barone, L’età della polvere, Marsilio, Venezia 1999.

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alle antiche sferæ, mentre si tratta, invece, di ritrovare il cammino in un mondo che si è polverizzato divenendo, al presente, globus. La sfera contemporanea cancella la destra dalla sinistra, e ogni asse che distingue, dividendoli, l’Oriente dall’Occidente diventa puramente convenzionale e arbitrario. Quale Atlante sarebbe in grado di sopportare la leggerezza richiesta da una tale messa in questione della separazione? Certo non più una divinità riemersa dai flutti della storia e sopravvissuta alla sua cacciata dai cieli dei divini. Forse, piuttosto, un Atlante smemorato che regge dubbioso una sfera tra le sue mani, giocando con essa, quasi trastullandosi, circondato da una sottile polvere di stelle, che nulla ci assicura non sia altro che polvere o cenere. In quale ulteriore figura dovrebbe dunque trasformasi l’Atlante della nostra classicità, per poter rappresentare un simile globo, dove Oriente e Occidente sind nicht mehr getrennt, eppure non ricadono entrambi in un’unità indifferenziata? Pensare un simile atlante del disastro: non sarebbe questo un compito alla misura del nostro tempo di migrazioni e di disorientamento?

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348 ottobre dicembre 2010

Georges Didi-Huberman Un’etica delle immagini Premessa PER UN’ETICA DELLE IMMAGINI Georges Didi-Huberman Rendere un’immagine Laura Odello Nota sulla politica delle sopravvivenze Raoul Kirchmayr Abitare il visibile Pietro Montani Apertura e differenza delle immagini Andrea Pinotti Pazienza del dissimile e sguardo pontefice Antonio Somaini Montaggio e anacronismo Ludger Schwarte Etica dello sguardo. Didi-Huberman e la visione tattica Emanuele Alloa Il pensiero fasmide RIPENSARE WARBURG Georges Didi-Huberman Epatica empatia. L’affinità degli incommensurabili in Aby Warburg Davide Stimilli Il pentimento di Warburg Sigrid Weigel La “dea in esilio” di Warburg Paulo Barone Un groviglio di serpenti vivi Bibliografia di Georges Didi-Huberman

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349 gennaio marzo 2011

Il postcoloniale in Italia Premessa

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