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351 luglio settembre 2011

Foucault e la “Storia della follia” (1961-2011) Premessa

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MATERIALI 1 Michel Foucault “Non esiste cultura senza follia” [1961]

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Frédéric Gros Nota sulla “Storia della follia” Daniel Defert L’altra scena della pittura Pier Aldo Rovatti “Sarai un malato di mente” (una risposta ai detrattori di Foucault) Mario Colucci La storia negata Pierangelo Di Vittorio Togliersi la corona. Foucault e Basaglia, storia di una ricezione “minore” Mauro Bertani Un’opera morale (e la storia della psichiatria)

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MATERIALI 2 Michel Foucault Storia della follia e antipsichiatria [1973] 91 Jean-François Bert, Philippe Artières Foucault 1970. “Storia della follia”, atto III Colin Gordon La “Storia della follia” in Inghilterra Alain Beaulieu Foucault e la “Storia della follia” in Nord America Valentín Galván La ricezione della “Storia della follia” in Spagna Cesar Candiotto, Vera Portocarrero Effetti della “Storia della follia” in Brasile

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rivista fondata da Enzo Paci nel 1951 direttore responsabile: Pier Aldo Rovatti redazione: Sergia Adamo, Paulo Barone, Graziella Berto, Deborah Borca (editing, deborahborca@libero.it), Silvana Borutti, Damiano Cantone, Mario Colucci, Alessandro Dal Lago, Rocco De Biasi, Giovanna Gallio, Edoardo Greblo, Raoul Kirchmayr, Giovanni Leghissa, Anna Maria Morazzoni (coordinamento, tel. 02 70102683), Ilaria Papandrea, Fabio Polidori, Rosella Prezzo, Pier Aldo Rovatti, Antonello Sciacchitano, Giovanni Scibilia, Davide Zoletto direzione: c/o il Saggiatore via Melzo 9, 20129 Milano collaborano tra gli altri ad “aut aut”: G. Agamben, H.-D. Bahr, R. Bodei, L. Boella, J. Butler, M. Cacciari, A. Cavarero, G. Dorfles, M. Ferraris, U. Galimberti, P. Gambazzi, S. Givone, A. Heller, F. Jullien, J.-L. Nancy, A. Prete, M. Serres, G.C. Spivak, G. Vattimo, M. Vegetti, P. Veyne, V. Vitiello, S. Žižek per proposte di pubblicazione: redazioneautaut@gmail.com Si fa presente che “aut aut” non pubblica recensioni e non accetta testi di ampiezza superiore a 40.000 battute (note e spazi compresi).

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Premessa

ono trascorsi cinquant’anni dal giorno di maggio 1961 in cui Michel Foucault, dopo molte peripezie, disavventure e smarrimenti, che avevano condotto il manoscritto dagli uffici di Gallimard al tavolo di Philippe Ariès presso le edizioni Plon, era riuscito finalmente a pubblicare la sua thèse. Un lasso di tempo sufficiente, crediamo, per cominciare a interrogarci sui destini di un libro iniziato nella lunga “notte svedese” a Uppsala, proseguito “al grande sole ostinato della libertà polacca” a Varsavia e concluso nella quiete indifferente di Amburgo, e per chiederci in particolare come mai questo libro, dalle vicende editoriali tormentate anche in seguito (solo di recente i lettori di lingua inglese hanno finalmente potuto leggere l’edizione integrale del testo, e solo nel 2011 il lettore italiano potrà finalmente disporre di un’edizione senza tagli e omissioni), si sia a sua volta registrato in maniera tanto controversa e contraddittoria nello spazio della nostra cultura e del nostro pensiero. Un lasso di tempo che ha scavato comunque la necessaria distanza storica a partire dalla quale ripensare criticamente la straordinaria inventività e produttività di un libro che, come ha scritto Georges Canguilhem, dovrà essere giudicato essenzialmente come “evento”, in ragione degli “effetti” che avrà prodotto. Effetti (o loro mancata produzione) che abbiamo voluto cominciare a cartografare con questo numero di “aut aut”. Ecco il dossier che, a proposito del grande libro del 1961, vor-

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remmo dunque innanzitutto riaprire, provando a riprendere i problemi suscitati da esso e che solo alcuni, all’epoca, anche se non tra i minori, avevano individuato. Per questo abbiamo pensato di organizzare il fascicolo secondo due linee di forza: la prima è quella costituita dalla ricostruzione dei principali dispiegamenti teorici e analitici del libro e dalla rievocazione di alcune delle questioni cruciali sollevate (senza escludere il ricordo o la testimonianza personale), l’altra è quella dei suoi effetti non (immediatamente) teorici, vale a dire le analisi di archivio e la documentazione sulla storia della psichiatria, unitamente alle ricadute sui movimenti e le organizzazioni di lotta a proposito della psichiatria e delle istituzioni psichiatriche. Il lettore troverà, accanto ad alcuni interventi che ricostruiscono l’architettonica generale del libro, le questioni teoriche da esso poste e alcuni dei problemi che da allora in avanti, e fino al termine della vita, Foucault non cesserà di approfondire, anche una prima ricostruzione di quella che si chiama, convenzionalmente, la “ricezione” del suo libro, per avviare poi una riflessione (qui solo accennata e ancora tutta da svolgere) su quanto annunciava Foucault – “un giorno forse non sapremo più esattamente quel che la follia ha potuto essere” – e che gli sviluppi delle neuroscienze, nelle loro ricadute e applicazioni terapeutiche, soprattutto farmacologiche, sembrano aver reso oggi attuale. Correlato a questo piano ve n’è poi un altro che ci è parso valesse la pena di esplorare. Quasi da subito, com’è noto, è cominciata infatti l’utilizzazione del libro da parte di chi farà della contestazione delle istituzioni psichiatriche, dei saperi che le legittimavano e del potere che le amministrava il proprio programma teorico e politico. Non senza “malintesi e controsensi”, come osserverà Robert Castel, ma era parte della posizione filosofica di Foucault – del resto esplicitamente dichiarata e rivendicata nella nuova prefazione per l’edizione del 1972 – affidare il destino di un pensiero, di un’opera, di un lavoro, a iniziare dai propri, all’insieme delle riprese, delle riattivazioni, delle utilizzazioni e persino degli stravolgimenti che di essi è possibile effettuare, in altri luoghi, in altri tempi, in altre forme. E proprio questo gioco complesso di relazioni che si sono intrecciate tra un’opera e la sua epoca, tra una forma di 4


riflessività, una teoria, le sue traduzioni sul piano delle pratiche concrete si è trattato di interrogare, chiedendoci quali “effetti” abbia prodotto la Storia della follia nella pratica di chi si occupa dei saperi che hanno investito l’esperienza della follia, in particolare nella pratica di chi tali saperi applica, facendone derivare conseguenze decisive – una diagnosi, una prescrizione, un trattamento, un internamento – per l’esistenza di chi viene loro affidato. È vero che dopo di allora Foucault non farà più uscire nessun libro esplicitamente dedicato alla questione psichiatrica, ma è altrettanto vero che due dei suoi corsi al Collège de France – quello del 1973-1974 dedicato a Il potere psichiatrico e quello dell’anno successivo dedicato a Gli anormali – sono incentrati sulla psichiatria e sulla sua storia, così come è vero che tutto il lavoro filosofico di Foucault comporterà un interminabile e costante confronto con la psichiatria, e più in generale con le discipline del campo “psy”, fino alle ultime opere e agli ultimi corsi. Inoltre Foucault ha continuamente accompagnato la propria produzione, tanto teorica quanto storica, ivi compresa quella relativa alla “cosa psy”, con una impressionante messe di interventi – brevi saggi, articoli, interviste – che costituiscono altrettanti atti (come ad esempio la conferenza del 1973 a Montréal, qui tradotta assieme a un’intervista a caldo rilasciata nel 1961) anche se non più sotto le specie della speculazione teoretica o dell’erudizione storica, bensì nella forma dell’attivismo militante, delle pratiche (anti)istituzionali vere e proprie (manifestazioni, partecipazione a iniziative collettive) che rappresentano il versante propriamente e direttamente politico dell’impegno di Foucault all’interno del campo “psy”. Philippe Artières, storico, lavora presso il Cnrs-Ehess. Presidente del Centre Michel Foucault, è autore (con M. Potte-Bonneville) di D’après Foucault. Gestes, luttes, programmes (2007) e curatore di Le groupe d’information sur les prisons. Archives d’une lutte, 1970-1972 (2001). Jean-François Bert, sociologo, lavora presso l’Institut interdisciplinare d’anthropologie du contémporain e collabora con il Centre Foucault. È autore di Introduction à Michel Foucault (2011). Con Philippe Artières annuncia per l’autunno 2011 la pubblicazione di un volume sulla Storia 5


della follia e di uno su cinquant’anni di ricezione del libro, presso le Presses universitaires de Caen e le Éditions de l’Imec. Alain Beaulieu, filosofo, insegna presso il Dipartimento di filosofia della Laurentian University a Sudbury (Canada), fa parte della redazione della rivista “Foucault Studies” e ha curato i volumi Michel Foucault et le contrôle social (2005) e Michel Foucault and Power Today (2006). Cesar Candiotto, filosofo, insegna presso la Pucpr (Pontifícia Universidade Católica do Paraná, Brasile) ed è l’autore del recente volume Foucault e a crítica da verdade (2010). Daniel Defert, filosofo e sociologo, ha insegnato presso l’Université Paris VIII. Nel 1984 ha fondato Aides. Di Foucault ha curato i quattro volumi dei Dits et écrits (1994) e le Leçons sur la volonté de savoir (2011). Valentín Galván, filosofo, insegna e collabora con l’Universidad de Cadiz. È autore di De vagos y maleantes. Michel Foucault en España (2010). Colin Gordon, filosofo e sociologo, lavora presso il Royal Brompton & Harefield Nhs Trust di Londra. Ha curato The Foucault Effect: Studies in Governmentality (1991). Frédéric Gros, filosofo, insegna all’Université Paris XII e presso lo Iep. Fa parte dell’équipe dei curatori dei corsi al Collège de France di Foucault, di cui ha curato Hermenéutique du sujet (2004), Le gouvernement de soi et des autres (2008), Le courage de la vérité (2010). È autore di Michel Foucault (1996) e di Foucault et la folie (1997). Vera Portocarrero, filosofa, insegna presso la Uerj (Universidade do Estado do Rio de Janeiro, Brasile), ha scritto Arquivos da loucura (2002) e As ciências da vida. De Canguilhem a Foucault (2009).

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Materiali 1 “Non esiste cultura senza follia” [1961] MICHEL FOUCAULT

i è sembrato che la follia sia stata un fenomeno di civiltà altrettanto variabile e fluttuante di ogni altro fenomeno culturale. E del resto è stato leggendo alcuni libri americani sul modo in cui certe popolazioni primitive reagiscono al fenomeno della follia che mi sono chiesto se non avrebbe potuto essere interessante vedere come la nostra cultura reagisce a tale fenomeno. Ci sono civiltà che l’hanno celebrata, altre che l’hanno tenuta a distanza, altre ancora che l’hanno curata, ma ciò su cui ho voluto insistere è precisamente il fatto che curare il folle non è la sola reazione possibile al fenomeno della follia. Credo infatti che tra i folli vi siano altrettante persone interessanti di quante se ne trovano tra quelle normali, e che allo stesso modo se ne trovino altrettante che sono poco o per nulla interessanti. Non esiste cultura senza follia, e quel che mi sono proposto di studiare è appunto il problema assolutamente generale dei rapporti che una cultura intrattiene con la follia, a partire dall’analisi di un caso preciso, vale a dire quello delle reazioni della cultura dell’età classica a un fenomeno, quello della follia, che sembrava opporsi radicalmente al razionalismo del XVII e del XVIII secolo. Credo che il XVII secolo rappresenti, appunto, una svolta: prima di allora, e in ogni caso fino agli inizi di quel secolo, all’incir-

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Trascrizione di un’intervista inedita con Nicole Brice del 31 maggio 1961 diffusa su France Culture.

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ca fino all’età barocca, il folle ha condotto un’esistenza interamente libera. Si trovava, in un certo senso, alla superficie della cultura, dove godeva di una presenza straordinariamente visibile. Vi erano le feste dei folli, c’era tutto un teatro dedicato alla follia, il folle a sua volta aveva un posto nella letteratura e vi era infine una vera e propria iconografia della follia, con Hieronymus Bosch e Brueghel tra gli altri. Si potrebbe quasi dire che il XVI secolo e gli inizi del XVII siano stati sovrastati dal tema della follia, così come la fine del XIV secolo e gli inizi del XV lo erano stati dall’ossessione della morte. All’epoca, la follia era un fenomeno talmente consolidato e riconosciuto che alcuni folli, e in particolare uno di loro di nome Bluet d’Arbères, hanno pubblicato le proprie opere, e altri hanno pubblicato i loro testi, testi assolutamente straordinari, anche se assolutamente illeggibili, che servivano come occasione di distrazione. Si trattava di poemi, storie, romanzi e in fondo, almeno fino a un certo punto, il Don Chisciotte di Cervantes può iscriversi in tutta questa grande tradizione della letteratura della follia o della letteratura sulla follia. Del resto credo che ogni famiglia, da sempre, abbia dovuto sopportare il fatto di ritrovarsi, al proprio interno, dei folli. Ogni villaggio, ogni quartiere, ogni città aveva i suoi folli, i quali erano accuditi, curati e, almeno in una certa misura, erano addirittura onorati. Ma personalmente ritengo, appunto, che il cambiamento dello statuto del folle sia iniziato a partire dal momento in cui la famiglia, nella sua forma borghese, ha cominciato ad assumere nella società un’importanza crescente. È infatti nel corso del XVII secolo, allorché le norme economiche della vita sono cambiate, all’epoca del mercantilismo, che il folle, personaggio ozioso che sprecava denaro e non rendeva nulla, è diventato una presenza terribilmente ingombrante. E mi sembra che la sensibilità sociale nei confronti della follia sia cambiata proprio in funzione di tali fenomeni economici. Attualmente la nostra è una cultura nella quale l’intero fenomeno della follia è stato confiscato dalla medicina. Per noi un folle è essenzialmente un malato di mente. E tuttavia ciò non è vero per ogni epoca. Il folle, nel XVII e XVIII secolo, non era un malato 8


di mente, bensì prima di tutto un asociale. E infatti i folli venivano internati insieme a molti altri asociali in istituzioni di varie specie. In Francia si trattava degli “Hôpitaux généraux”, dove venivano fatti lavorare. Li si utilizzava, ad esempio, all’interno di grandi imprese, nelle grandi manifatture dell’epoca, in cui venivano messi a fabbricare tele, corde e così via. I folli avevano, insomma, un ruolo reale nella vita economica. Ma anche tutto questo a un certo punto è cambiato, per molte ragioni. Prima di tutto, credo, per ragioni economiche, in particolare dal momento in cui ci si è accorti che tutte le grandi istituzioni in cui i folli venivano rinchiusi insieme agli oziosi, ai poveri, ai mendicanti, ai vagabondi, ai libertini, agli omosessuali, alle prostitute e così via, non corrispondevano in realtà a nessuna vera utilità. Ci si è accorti cioè che, al contrario, costavano denaro e sottraevano al mercato una manodopera che poteva essere utilizzata. A partire da quel momento tutte quelle istituzioni sono state soppresse, o piuttosto ne sono stati espulsi tutti coloro che non erano folli. Da allora sono i folli a occupare quelle istituzioni, il che significa che da allora saranno loro i soli a risiedere nei luoghi d’internamento che all’inizio, nel XVII e nel XVIII secolo, erano stati allestiti per molti altri tipi di individui. Credo che attualmente si sia verificato un fenomeno molto importante: dopo Nietzsche, dopo Raymond Roussel, dopo Van Gogh, e soprattutto dopo Artaud, la follia è ridiventata, o ha cominciato a ridiventare, ciò che era nel XV e nel XVI secolo, vale a dire un fenomeno di civiltà straordinariamente importante. E così come era accaduto nel XVI secolo e agli inizi del XVII, allorché alla follia era stato assegnato il compito di recare la verità, in un certo senso, di esprimerla drammaticamente, sembra che attualmente la follia ritrovi almeno un po’ di quella missione e che, dopo tutto, una parte della verità contemporanea, della verità della cultura contemporanea, sia stata proferita da individui che erano ai limiti della follia o che, come Roussel o Artaud, facevano della follia l’esperienza più profonda.

Traduzione dal francese di Valeria Zini

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Nota sulla “Storia della follia” FRÉDÉRIC GROS

el 1961 appare la Storia della follia, che costituisce la tesi di dottorato di Michel Foucault. L’opera si presenta come un’“antistoria” della psichiatria prima di essere riconosciuta, qualche anno più tardi, come un classico dell’antipsichiatria. Le storie classiche della psichiatria descrivevano, infatti, l’emergere di questa nuova scienza basandosi sul modello della rottura e della rivelazione scientifica. Alla fine del XVIII secolo, l’alienista Pinel avrebbe scoperto che i folli, considerati fino a quel momento dei criminali, delle persone possedute dal demonio, oppure delle bestie selvagge, e sottoposti ai trattamenti più degradanti (rinchiusi, incatenati), in realtà non erano altro che malati, ed era quindi necessario trattarli con umanità e dolcezza. In seguito all’introduzione di questo sguardo compassionevole e obiettivo (comprensivo) sulla follia, la psichiatria sarebbe passata di conquista in conquista, stabilendo dei quadri clinici definitivi e precisi, che descrivevano in maniera scientifica le forme, i tipi e le evoluzioni della malattia mentale. Foucault rifiuta per diverse ragioni questa visione da conquistatrice della psichiatria. Innanzitutto perché la follia non costituisce per lui, di primo acchito, un oggetto medico. La follia è originariamente una decisione culturale complessiva, un modo di definirci come uomini di ragione, rigettando i folli dall’altra parte della separazione. Il che significa immediatamente che l’impresa di conoscenza sulla follia poggia su questo primo gesto di esclusione, e ne sarebbe l’ultimo prolungamento. È il contrario rispetto alla sto-

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ria tradizionale della psichiatria, che fa apparire l’oggettivazione medica come liberatrice. Alla radice del nostro rapporto con la follia, c’è piuttosto un gesto di separazione, una maniera di escludere l’altro per liberarci della sua ossessione e per poterci definire all’interno di un’integrità culturale determinata. È in questo senso che il caso della lebbra durante il Medioevo rappresenta, per Foucault, una sorta di compendio della storia della follia, nella misura in cui ha messo in opera riti forti di purificazione e di esclusione. Non si tratta tuttavia di gettare discredito in maniera romantica alla presa scientifica sulla follia, bensì da un lato di ricollocarla storicamente, e dall’altro di comprenderne le poste in gioco e le implicazioni per la nostra identità moderna. La storia che scrive Foucault non è dunque una storia nel senso tradizionale della storia della scienza, vale a dire una storia degli errori clamorosi e delle scoperte folgoranti, una storia retrospettiva che si scrive a partire da verità contemporanee, per mettere poi in atto la selezione tra gli oscurantisti e i precursori. Foucault la definisce “archeologia”. Si tratta di scavare, di scoprire strati profondi sotto la superficie degli enunciati e delle istituzioni. Sono le “esperienze” di follia che vengono studiate da Foucault, considerando al contempo le pratiche sociali, i saperi medici e le manifestazioni artistiche e letterarie. Il Rinascimento così disegnerà il tema della follia come erranza: il folle si muove di città in città, è affidato a battellieri, è costretto a dimorare alle porte delle città, e così via. Si è spesso rimproverato a Foucault un eccesso di credulità: avrebbe cioè creduto realmente nell’esistenza della Nave dei folli, mentre si trattava solo di un tema letterario; avrebbe creduto poi al grande internamento dei folli nell’Hôpital général durante l’età classica, quando in realtà quest’ultimo non sarebbe stato così massivo e brutale come egli pretende, ecc. Ma occorre comprendere che, a livello di un’archeologia della follia, la rêverie culturale conta tanto quanto la pratica sociale accertata. Si tratta di ritrovare e di descrivere un fondo di esperienza, piuttosto che di stabilire scientificamente la realtà dei fatti. Si potrebbe qualificare come cosmica l’esperienza complessiva che il Rinascimento fa della follia, dato che questa condizione di erranza fondamentale, in cui è stato proiettato l’insensato, entra in ri11


sonanza con un tema potente: la minaccia della distruzione dei mondi, l’ossessione di una Natura, il cui ordine regolare non sarebbe che apparente, quando nel suo seno più profondo mostri senza età brulicano e minacciano l’invasione, il timore del caos compare dietro le apparenze regolate. È ciò che Foucault chiama la “coscienza tragica” della follia, della quale trova di nuovo, dopo un lungo oblio, una riapparizione contemporanea in Nietzsche e Artaud. Si vede inoltre molto bene, con questi esempi, che si tratta per Foucault di lasciar posto a un’esperienza artistica, letteraria della follia, e che fare della follia una malattia mentale, un puro oggetto medico, significa ridurre considerevolmente lo spazio che occupa e la posta in gioco che essa costituisce all’interno della nostra cultura. Dopo questo breve episodio del Rinascimento, Foucault dedica il maggior numero di pagine a descrivere l’esperienza classica della follia, descrizioni che furono all’origine di numerose polemiche, sia da parte degli storici (alcuni dei quali, come si è detto, mettono in questione l’idea stessa di un “grande internamento” della follia nel XVII secolo), sia da parte dei filosofi (si veda la polemica con Jacques Derrida a proposito dell’interpretazione di un passaggio delle Meditazioni di Descartes). In effetti Foucault mette in scena, con una solennità assai marcata, il momento del grande internamento: i folli, che erano vissuti fino a quel momento nell’erranza, sarebbero stati rapidamente rinchiusi entro le spesse mura dell’Hôpital général, assieme ai mendicanti e ad altri vagabondi, presto seguiti da tutto il gran popolo traviato della sragione (blasfemi, libertini ecc.). Ora, questo internamento presuppone per Foucault una nuova esperienza, e in ogni caso una percezione concreta del folle come personaggio, ormai concepito nell’orizzonte delle problematiche sociali (il disordine causato dalle popolazioni miserabili e senza lavoro che vagano nelle città) e delle pratiche politiche (l’istituzione di pratiche di internamento come misure di polizia, che sovente mettono fuori gioco l’istanza giudiziaria). Il folle non è più un personaggio inquietante, con un’aura mistica: diventa piuttosto un problema di natura sociale. Anche su questo punto gli psichiatri si sentiranno direttamente presi di mira, poiché si tratta dopotutto per Foucault di mostrare 12


che la distanza indispensabile all’obiettività scientifica è stata determinata da un lato dalla pratica poliziesca dell’internamento nei confronti del mondo della miseria (misura di ordine pubblico), e dall’altro dalla condanna morale della sragione, che hanno fatto sì che la follia si sia trovata alienata in compagnia delle grandi figure dell’infamia morale: omosessuali, dissipatori di patrimoni ecc. Questa stessa distanza che aliena il folle nelle fortezze della sragione e lo rigetta al di là di una separazione morale, è quella che, per la nostra cultura, lo rende visibile e conoscibile. Questa idea secondo la quale, tutto sommato, l’oggettività non è possibile che sul fondo di una condanna morale e di una pratica poliziesca, sarà considerata dalle scienze umane come una vera e propria provocazione, dal momento che tali scienze umane, al contrario, amano presentarsi come assolutamente neutre e totalmente disinteressate. Foucault fa ricorso al testo delle Meditazioni per sottolineare la rottura con il Rinascimento. Quando Descartes cerca dei motivi per dubitare, per giungere a verità assolutamente certe, rifiuta di considerarsi folle, anche se questa ipotesi potrebbe mettere in discussione molte evidenze accertate. Ma a partire dal momento in cui ragiono e penso è impossibile che io sia, allo stesso tempo, folle. Questa follia, che l’ironia di un Montaigne accettava di accogliere nel suo pensiero per inquietare una ragione troppo arrogante, è rigettata da Descartes fin da subito (“Ma costoro sono dei folli...”). Segno dei tempi: nello stesso momento, la società rinchiude i suoi folli. Lettura errata, dirà Derrida.1 Se Descartes rifiuta di accogliere l’ipotesi della follia, è precisamente perché gli appare troppo poco pericolosa: le preferisce il sogno, che mette radicalmente in causa la totalità della consistenza dell’Essere. Derrida, ribatte Foucault, non conosce che l’ordine astratto delle dimostrazioni.2 Ignora quello delle modificazioni soggettive imposte dal processo meditativo: è il soggetto impegnato nella meditazione che non può accettare di essere folle. Ma dietro le critiche e 1. J. Derrida, “Cogito e storia della follia”, in La scrittura e la differenza (1967), Einaudi, Torino 1971. 2. M. Foucault, “Il mio corpo, questo foglio, questo fuoco”, in Storia della follia nell’età classica (1972), Rizzoli, Milano 2005, pp. 485-509.

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le repliche a proposito della spiegazione di un frammento delle Meditazioni, tra Foucault e Derrida esiste una divergenza fondamentale nella concezione relativa allo statuto di un testo filosofico: deve essere letto soltanto a partire da un’ontologia della verità, o si può illuminarlo, come Foucault prova a fare, attraverso pratiche storiche a esso contemporanee? Nel XVII secolo il folle viene dunque stigmatizzato e respinto, denunciato come perverso e miserabile al contempo. Ma per Foucault occorre risalire da questa pratica sociale dell’internamento nell’Hôpital général all’esperienza centrale che la spiega. Nell’età classica, la follia è pensata come assenza di ragione, pura negatività, scandalo del puro vuoto. Costituisce l’altro lato della separazione immobile tra il Tutto e il Niente, tra il Giorno e la Notte, tra la Ragione e l’Assenza di senso: sono le tenebre che circondano Oreste al termine dell’Andromaca di Racine (“Ma quale spessa notte tutto a un tratto mi attornia”). È questa struttura dell’esperienza fondamentale a permettere inoltre di rendere conto dell’organizzazione classica delle terapie. Nessuna separazione tra cure fisiche e consolazioni morali, dal momento che la follia non viene considerata nell’alternativa disturbo neurologico/disturbo relazionale. A costituirla è un delirio fondamentale che scatena il ciclo delle passioni, in cui il corpo e lo spirito si implicano reciprocamente in un movimento a spirale. Il dualismo del (rimedio) fisico e del (trattamento) morale è moderno, tardivo. Esso presuppone che la follia venga posta nell’ambiguità tra la sua innocenza (va curata) e la sua colpevolezza (va punita). La follia infine diventa moderna quando non testimonia più della separazione netta tra la Verità e l’Errore, ma piuttosto della divisione, più confusa in ciascuno, della coscienza chiara e delle tenebre di una segreta natura. È quella che Foucault chiama l’esperienza “antropologica” della follia: quest’ultima diventa una malattia mentale, si definisce come l’alienazione di facoltà psichiche normali, si risolve in una disfunzione cerebrale. Essa non testimonia più di una fine dei mondi prossimi, non celebra più la separazione tra la Notte e il Giorno, ma segna la separazione tra il normale e il patologico negli uomini. 14


Con questo nuovo circolo, la follia è indefinitamente allontanata e riavvicinata a noi. Definitivamente allontanata, perché prigioniera di una cattura medica che la conosce solo privandola dei suoi prestigi e delle sue capacità di inquietare. Essa ormai non può più tradurre altro che la piattezza di determinismi psicologici. Prigioniera della sua definizione medica, verrà dominata nello stesso tempo in cui verrà conosciuta, e ad allontanarla da noi è il fatto di essere stata costituita in oggetto: è un oggetto della scienza. Ma si trova a essere contemporaneamente riavvicinata, perché questa follia parla di noi, o piuttosto accade che, tramite essa, noi diveniamo conoscibili a noi stessi. La follia così diventa umana, troppo umana. Per Foucault questa costruzione medica recente della follia (disturbo cerebrale, alterazione delle facoltà, disarmonia psichica) rimane retta, sostenuta – ben al di qua dei discorsi medici ma come ciò che li rende tutti possibili – da un’esperienza fondamentale, decisiva e nascosta, che si lascia intuire nel romanticismo e nel lirismo di Hölderlin e Nerval, un lirismo che qui va inteso come il momento in cui la soggettività perduta del poeta fa apparire l’oggettività del mondo. Già il Nipote di Rameau (lui che sapeva imitare tutto, i canti della natura e i contegni del bel mondo, lui che conosceva tutte le lingue e non era più nessuno a forza di essere tutti, ma lui che allo stesso tempo, alla fine della sua pagliacciata, si ritrovava solo e recluso, con un sorriso vuoto) aveva mostrato questo spettro, questo ventaglio che va da una soggettività assolutamente sguarnita all’oggettività tremolante delle apparenze. Il Nipote di Rameau di Diderot annuncia e apre l’esperienza moderna, lirica, della follia, perché in essa si rende evidente la simultaneità tra la solitudine definitiva del soggetto e la nascita del mondo. È questo rovesciamento non dialettico del soggettivo nell’oggettivo a dare luogo al lirismo. La follia è allora il rovesciamento della soggettività estrema nell’oggettività totale. Questa esperienza lirica, profonda, poetica, della follia viene spiegata e appiattita nel discorso medico. Essa si ritrova nella serie delle antinomie dei primi alienisti e nei paradossi monotoni de15


gli psichiatri. Sono tutti i temi di una scienza oggettiva del soggetto, di un male morale che viene percepito nei determinismi organici, del mostruoso come rivelatore del normale. Di modo che alla fine non bisogna domandare alla medicina le ragioni della follia di Nerval o di Hölderlin, ma andare piuttosto a cercare in loro l’espressione vivente di questa esperienza che dà ragione della possibilità culturale della medicina mentale. Queste tre grandi esperienze della follia (la follia come ossessione del caos cosmico, la follia come precisa separazione della Notte, la follia come punto di rovesciamento del soggettivo nell’oggettivo) sono ogni volta delle opere artistiche o letterarie a permetterci di coglierle nuovamente. Non si tratta dunque, secondo Foucault, di conoscere la follia, bensì di comprendere in virtù di quale esperienza la follia sia divenuta oggetto di conoscenza. Nel complesso la Storia della follia si presenta dunque come una requisitoria contro una razionalità scientifica che pretende di esaurire l’essere della follia. Michel Foucault ritornerà a occuparsi di follia nel 1973, più di dieci anni dopo la sua tesi. Nel frattempo, avrà scritto Nascita della clinica, Le parole e le cose e L’archeologia del sapere. Il suo corso del 1973-1974 al Collège de France ha per titolo Il potere psichiatrico. Foucault riprende il dossier sulla follia nel punto in cui si era fermato dieci anni prima: la figura di Pinel. E di nuovo si ripete lo stesso gesto di demistificazione: Pinel non ha liberato la follia costituendola come malattia, ma l’ha sottomessa a una nuova forma di potere. È in effetti l’analisi del funzionamento del manicomio che gli consente di mettere in campo il concetto di “disciplina”. L’ospedale viene descritto come un campo di forze, e la follia come un polo di resistenza. Guarire non significa più allora essere restituiti alla propria verità, ma sottomettersi a identità imposte dalle macchine di potere.

Traduzione dal francese di Francesco Paolella

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L’altra scena della pittura DANIEL DEFERT

a presenza della pittura nell’opera di Foucault ha suscitato interesse, soprattutto a partire dall’esegesi tanto estetica quanto filosofica di Las Meninas che apre Le parole e le cose. Si tende però a dimenticare che anche Storia della follia si apre con la descrizione della Nave dei folli di Hieronymus Bosch. L’edizione principale del 1961,1 poco tradotta, tranne che in Italia e in Giappone, e in Inghilterra solo nel giugno 2006, dunque scarsamente conosciuta, contiene lunghe digressioni su quadri di Bosch, Brueghel, Thierry Bouts, Dürer, Goya e Van Gogh. Tutto si svolge come se nell’opera di Foucault esistessero due modalità di discorso sulla pittura, una rottura a partire dal testo su Velázquez e il passaggio da una semantica esistenziale a un’analitica del significante, un significante di cui egli si libera a partire dagli anni settanta. Foucault introduce la presenza della follia nella società occidentale del XV secolo a partire dal quadro di Bosch che a sua volta illustra il canto XXVII del Narrenschiff di Brandt del 1492, e che esprime “la situazione liminare del folle all’orizzonte dell’inquietudine dell’uomo medievale”. La pittura e la letteratura “simbolizzano tutta un’inquietudine, apparsa improvvisamente all’orizzonte della cultura europea verso la fine del Medioevo”. Foucault sviluppa ampiamente l’argomento: “Fino alla seconda metà del XV

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1. M. Foucault, Storia della follia nell’età classica (1961), Rizzoli, Milano 1963 (la copertina riproduce la tavola 26 dei Capricci di Goya).

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secolo, o ancora un po’ oltre, il tema della morte è il solo a regnare sovrano. La fine dell’uomo, la fine dei tempi, prendono l’aspetto delle pesti e delle guerre. Ed ecco che, negli ultimi anni del secolo, questa grande inquietudine gira su se stessa; la derisione della follia prende il posto della morte e della sua serietà. Il terrore di fronte a questo limite assoluto della morte si interiorizza in una continua ironia, la vita stessa non è altro che fatuità, la follia è la morte già presente”.2 E ancora: “La sostituzione del tema della follia a quello della morte non segna una rottura ma piuttosto una torsione all’interno della stessa inquietudine. È sempre in causa il nulla dell’esistenza, ma questo nulla non è più considerato come termine esterno e finale, è riconosciuto dall’interno, come la forma continua e costante dell’esistenza”. In questa torsione, che è già soggettivazione per introdurre un concetto più tardivo, c’è sdoppiamento della follia: “Se la follia trascina ognuno nell’accecamento in cui si perde, al contrario il folle, il personaggio del folle, del grullo, del balordo nelle farse e nelle vecchie feste dei pazzi, assume sempre più importanza, ricorda a ciascuno la sua verità, organizzando una critica sociale e morale”. Foucault vede esprimersi questa fenditura sempre più accentuata nell’espressione della follia in una separazione sempre più netta tra la sua traduzione letteraria e la sua traduzione plastica: “Tra il verbo e l’immagine, la bella unità tende a sciogliersi [...] non c’è più un solo e identico significato che li accomuni”.3 Alla pittura va l’espressione della follia come esperienza tragica della finitudine e della morte, alla letteratura l’espressione dei folli come esperienza critica. “L’immagine ha ancora la vocazione di trasmettere qualcosa di consustanziale al linguaggio, ma bisogna riconoscere che, ormai, essa non dice più la stessa cosa”, mentre “attraverso i suoi valori plastici, la pittura s’immerge nell’esperienza che si allontanerà sempre più dal linguaggio, quale che possa essere l’identità superficiale del tema [...]. Il senso non si legge più a una percezione immediata, la figura in quanto tale ces2. Ivi, pp. 29-30. 3. Ivi, p. 32.

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sa di parlare.” “Da una parte Bosch, Brueghel, Bouts, Dürer, e tutto il silenzio delle immagini; è nello spazio della pura visione che la follia dispiega i suoi poteri, come forza primitiva di rivelazione e rivelazione che l’onirico è reale.” “Si dispiega nella pittura del XV secolo come la tragica follia del mondo.” “L’onirico è reale.” Non è possibile non sentire qui la continuazione dell’ampia meditazione di Foucault su Binswanger, Il sogno e l’esistenza, pubblicata nel 1954.4 Descrivendo l’altro quadro di Bosch, la Tentazione di Sant’Antonio, Foucault sviluppa una singolare esegesi: “Nella Tentazione di Lisbona, si è seduta di fronte a Sant’Antonio una di quelle figure nate dalla follia, dalla sua solitudine, dalla sua penitenza, dalle sue privazioni; un’esile fonte di luce rischiara questo volto senza corpo, pura presenza dell’inquietudine sotto le sembianze di un’agile smorfia. Ora è proprio questa sagoma da incubo a essere il soggetto e l’oggetto della tentazione; è questa ad affascinare lo sguardo dell’asceta”; “è la sua stessa natura [dell’uomo], quella che metterà a nudo l’inesorabile verità dell’Inferno”. “Il grillo [la figura semi-grottesca, semi-ferina che orna i salteri o i cornicioni delle cattedrali ] non ricorda più all’uomo, in forma satirica, la sua vocazione spirituale dimenticata. È la follia divenuta tentazione, tutto ciò che c’è in lui di impossibile, di fantastico, di inumano, come se venisse da una potenza insensata raso terra, è tutto questo appunto a conferirgli il suo strano potere. La libertà, anche spaventosa, dei suoi sogni, i fantasmi della sua follia hanno per l’uomo del XV secolo un potere d’attrazione più forte della realtà desiderabile della carne.” In numerose immagini il Rinascimento ha dato espressione a “quanto presentiva delle minacce e dei segreti del mondo”. Al contrario, nella letteratura ci si impegna a liquidare la follia; non è di essa che si parla, Erasmo distoglie lo sguardo da questa demenza, non è di queste forme insensate che ha voluto tessere l’elogio, ma della “dolce illusione che libera l’anima dalle sue penose preoccupazioni”. 4. M. Foucault, “Introduzione” (1954), in L. Binswanger, Sogno ed esistenza, SE, Milano 1993, pp. 11-85.

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Nelle prime pagine della Storia della follia, Foucault sviluppa una singolare analisi che è stata dimenticata a favore dell’internamento. È nella letteratura, nella filosofia, nella teologia, nelle Istituzioni cristiane di Calvino, in Johannes Tauler che si è sviluppato un discorso di dominio della follia, ben prima del suo internamento. “Da un lato avremo la Nave dei folli, col suo carico di volti forsennati, che sprofonda a poco a poco nella notte del mondo in mezzo a paesaggi che parlano della strana alchimia dei saperi, delle sorde minacce della bestialità, e della fine dei tempi.” Da un lato abbiamo Bosch, Brueghel, Thierry Bouts e Dürer e la tragica follia del mondo. Dall’altro Brandt, Erasmo e tutta la tradizione umanista, e qui la follia è compresa nell’universo del discorso. “Essa è racchiusa dentro il lavoro della ragione. Qui si trova disarmata. Cambia di scala: nasce nel cuore degli uomini, regola o sregola la loro condotta, il discorso mediante il quale si giustifica deriva solamente da una coscienza critica dell’uomo.” L’elemento tragico e l’elemento critico sono destinati a separarsi. Questa dissociazione dell’esperienza della follia oscura la nostra capacità di cogliere i rischi tragici che si sovrappongono, si intrecciano, che da antichi segni, simboli e saperi diventano mistero e sintomi di follia nella pittura. “Mentre Bosch, Brueghel e Dürer erano spettatori terribilmente terrestri e coinvolti nella follia che vedevano sorgere tutt’intorno a loro, Erasmo la scorge abbastanza da lontano per essere fuori pericolo. La follia non è più la familiare stranezza del mondo, essa è soltanto uno spettacolo ben noto per l’estraneo spettatore.” Ora questa mutazione, questa dissociazione storica dell’esperienza della follia non sprofonderà completamente; Foucault ritroverà le sue figure tragiche in alcune pagine di Sade o nell’opera di Goya. “Questa esperienza tragica persiste nelle notti del pensiero e dei sogni. La ritroviamo risvegliata nelle ultime parole di Nietzsche, nelle ultime visioni di Van Gogh.”5 Il nostro discorso, la sua medicalizzazione, non restituirà mai la totalità di un’esperienza ormai esplosa, sfaldata, della follia. 5. Id., Histoire de la folie, Plon, Paris 1961 (prima edizione), p. 37.

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La fascinazione che Foucault subiva dinnanzi al tragico delle ultime tele di Nicolas de Staël era forse ancora la percezione nella densità degli impasti, nel gelido dei bianchi muti, di quell’offuscamento dei segni che era cominciato con Bosch, l’investimento nella materialità stessa della pittura di un’esperienza ormai indicibile. Nelle pagine che Foucault dedica al seppellimento di un’esperienza tragica della follia nei segni ormai oscuri, sovrapposizioni di grafi, di grilli, di simboli ormai indecifrabili, di antichi saperi aboliti nella pittura, sono stato colpito dalla ricorrenza delle opposizioni fra la terra e il mondo, insistenza che non si comprenderebbe senza l’orizzonte da cui tutto questo proviene e che Foucault rifiuta, cioè Heidegger. In Foucault la pittura non è disvelamento ontico, la terra non sorge nell’opera, l’opera non rivela l’essere istituito nell’ente o un’origine, ma ripete sempre più oscuramente attraverso la storia il tragico di un’esperienza del limite, del vuoto, della morte, l’opera aggroviglia i segni di questo invisibile troppo visibile. “L’onirico è reale.” Qui si deve sentire l’eco di Binswanger. Parlando di Hölderlin6 e del legame tra la follia e l’opera, Foucault non evoca mai Heidegger ma, per rendere conto della follia come esperienza e non come sintomo, ricorre alla pittura trovando così una nuova occasione per criticare lo studio dedicato a Van Gogh da Jaspers. Ciò che la società ha classificato come sintomo di una determinata malattia mentale a proposito di tale opera resta per Foucault parte di questa lunga memoria investita in segni che sono ormai per noi oscuri o muti, nella materialità di segni che si sottraggono ai nostri discorsi su un’esperienza che ha perduto storicamente il proprio significato. C’è in questo un essere della pittura di cui Foucault non è più tornato a parlare dopo il suo studio su Las Meninas. È strano, ma è con un intervallo di pochi giorni che Foucault si trovò per la prima volta direttamente di fronte alla Tentazione di Lisbona e a Las Meninas al Prado. “Un giorno, a Madrid, ero 6. Id., “Il ‘non’ del padre” (1962), in Archivio Foucault 1. 1961-1970. Follia, scrittura, discorso, a cura di J. Revel, Feltrinelli, Milano 1996, pp. 59-73.

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stato affascinato da Las Meninas di Velázquez. Avevo guardato questo quadro molto a lungo, così, senza pensare di parlarne un giorno, né tantomeno di descriverlo, cosa che mi sarebbe sembrata derisoria e ridicola. E poi un giorno, non so più bene come, senza averlo rivisto, senza nemmeno averne osservato una riproduzione, mi è venuto voglia di parlare a memoria di questo quadro, di descrivere cosa conteneva. Dal momento in cui ho cercato di descriverlo, ecco che allora un certo colore del linguaggio, un certo ritmo, una certa forma di analisi soprattutto mi hanno dato l’impressione, la quasi-certezza, forse errata, di poter trovare proprio lì il discorso attraverso il quale potesse sorgere e misurarsi la distanza che ci separa dalla filosofia classica della rappresentazione e dal pensiero classico dell’ordine e della somiglianza. È così che ho cominciato a scrivere Le parole e le cose.”7 Così come c’è una serie Bosch, Brueghel, Goya, Van Gogh, esiste per me a partire da Las Meninas una nuova serie: Magritte, Klee, Kandinsky, Manet, Picasso.8 Per spiegare in cosa li vedo costituire una serie, prenderò le mosse da una strana ipotesi che Foucault formula per rendere conto della trasformazione tra le due versioni del celebre Questa non è una pipa di Magritte, quella del 1928 e quella dell’Aube, agli antipodi.9 Questi due quadri moltiplicano le incertezze tra due sistemi di rappresentazione: la rappresentazione plastica e la rappresentazione linguistica. Non è irrilevante ricordare che è in Tunisia che Foucault scrive questo omaggio a Magritte, il quale vuole essere una sintesi della pittura occidentale, nel momento in cui aveva appena concluso un corso sull’emergere della terza dimensione nella pittura del Quattrocento, in terra islamica, dove la fede ha condannato la raffigurazione e ha consentito al contrario lo sviluppo delle arti plastiche nello spazio della scrittura. Due principî – scrive Foucault – hanno regnato nella pittura occidentale dal XV al XX secolo: il primo stabilisce di separare la 7. Id., Michel Foucault-Claude Bonnefoy, intervista inedita, trascrizione p. 40, depositata negli archivi Foucault, Institut de la mémoire de l’édition contemporaine (Imec), Paris. 8. Cfr. Id., Les Ménines de Picasso, “Cahiers de l’Herne”, febbraio 2011, pp. 15-32. 9. Id., Questa non è una pipa (1973), SE, Milano 1988.

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rappresentazione plastica (che implica la somiglianza) e la rappresentazione linguistica (che la esclude); il secondo richiede di porre un’equivalenza tra il dato della somiglianza e l’affermazione di un legame rappresentativo. Foucault analizza a lungo queste dissociazioni tra sistemi di rappresentazione per arrivare a concludere che “la pittura ha cessato di rappresentare”. Volevo ricordare, nel momento in cui si celebrano i cinquant’anni della Storia della follia, la rottura tra vedere e dire fin dalle prime pagine del libro che si tende a collocare ancora da un lato sotto il segno della fenomenologia, e dall’altro del “grande internamento”, nel punto di articolazione tra discorsivo e non discorsivo. La grande separazione tra ragione e sragione comportava un’altra scena, che lo stesso Foucault ha designato, per ricoprirla subito, fin dalla prima pagina, con una drammaturgia sociale ma che mi ha sorpreso allorché, alcuni anni fa, mi sono nuovamente immerso nella lettura della Storia della follia. È il solo grande libro di Foucault che non gli ho visto scrivere e che da subito mi aveva liberato dalla fenomenologia di Merleau-Ponty in cui ero stato formato.

Traduzione dal francese di Valeria Zini

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“Sarai un malato di mente” (una risposta ai detrattori di Foucault) PIER ALDO ROVATTI

n un libro intervista del 2008, Giovanni Jervis, uno dei protagonisti della psichiatria critica italiana negli anni sessanta e settanta, dopo avere associato Franco Basaglia a Michel Foucault (entrambi elaborarono – dice – “una teoria dell’esclusione sociale e della manipolazione del consenso”1), viene invitato dal suo intervistatore (lo storico della medicina Gilberto Corbellini) a esprimere un giudizio sulle posizioni di Foucault, e risponde così: “Parlare di Foucault è difficile. È stato un intellettuale di grande statura e nessuno nega il suo ruolo nella cultura del Novecento; tuttavia le sue idee sono rimaste controverse e se lo prendi come filosofo della devianza non sono sicuro che il suo contributo sia stato del tutto positivo. Certo non si può negare una cosa: l’influenza del suo pensiero sulla cultura italiana è stata considerevole, e aspetta ancora oggi di essere esaminata con qualche cura. I suoi inizi furono un po’ in sordina: io ricordo che nel 1961 la sua Storia della follia suscitò qualche interesse anche al di qua delle Alpi ma, al tempo stesso, varie perplessità. Nella prefazione alla prima edizione francese egli sosteneva la tesi antipsichiatrica più tipica, cioè che la follia è un ricettacolo di verità; nell’insieme quel volume non era, come forse poteva sembrare, uno studio storico condotto con scrupolo di oggettività ma piuttosto una lunga dissertazione non pri-

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1. G. Corbellini, G. Jervis, La razionalità negata. Psichiatria e antipsichiatria in Italia, Bollati Boringhieri, Torino 2008, p. 95.

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va di un suo spirito battagliero, a carattere anti-cartesiano e antiilluminista”.2 Un po’ in sordina, la tesi antipsichiatrica più tipica, uno storico poco oggettivo, una posizione anti-illuministica... Ce ne sarebbe già abbastanza! Ma Jervis rincara la dose: parla di un radicalismo “elegante ma anche lievemente ossessivo”, di scarsa originalità, di civettamento con le avanguardie letterarie (surrealismo), di uno studioso cui certo premevano il documento d’archivio e la sua concretezza ma che era incapace di governare l’impulso alla forzatura “ideologica” dei fatti storici. Non tralascia di ricordare le critiche “pungenti” di Carlo Ginzburg, espresse all’indomani dell’uscita della Storia della follia, e conclude dicendo che “delusione” è la parola giusta per riassumere ciò che accadde dopo, quando inutilmente si attese che Foucault arricchisse il suo discorso di una “solida capacità teorica”, al punto che “uno psichiatra avvertito non poteva che constatare come Foucault trattasse i problemi della psichiatria in modo superficiale”.3 Ho conosciuto personalmente e ho potuto apprezzare, come tanti, Giovanni Jervis, da poco scomparso. Fu accanto a Franco Basaglia nella straordinaria esperienza di Gorizia, poi prese altre strade e si discostò dalla psichiatria, pur restando sempre una voce di sinistra molto ascoltata, perfino fastidiosa nella sua intolleranza critica verso le cosiddette ideologie. Un giorno qualcuno dovrà pure scrivere un libro serio sul suo tortuoso rapporto con Basaglia. Qui me ne servo solo come sintomo molto eloquente di un diffuso fraintendimento: di come, nella cultura italiana, abbia potuto prodursi una cattiva lettura della Storia della follia di Foucault: da subito e poi nei decenni successivi fino a oggi. Una lettura “cattiva”, essa sì completamente ideologica, che ha reso molto faticoso l’impiantarsi di quella “buona” lettura che, grazie anche allo stesso Basaglia, ha potuto comunque prendere piede e affermarsi nelle pratiche e nelle riflessioni. Soltanto adesso stiamo infatti scoprendo (e sembra proprio che ci siano voluti cin2. Ivi, p. 96. 3. Cfr. ivi, pp. 97 e 98.

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quant’anni!) quale sia stato l’impatto decisivo che il pensiero di Foucault ha avuto (e continua ad avere) sulla consapevolezza critica della società in cui tentiamo di navigare, spesso a vista. E come l’atto inaugurale di questo impatto, proprio le analisi sulla genealogia dell’idea di salute mentale, costituisse la rottura di tanti cliché ormai incistati, un gesto che rivoluzionava il potere dei pregiudizi e che forse arrivava con troppo anticipo sul mondo comune di pensare, intellettuali di sinistra compresi. Appunto, gli inizi avvennero “un po’ in sordina”, ma chi erano i sordi? Isolate orecchie filosofiche (Jacques Derrida, Maurice Blanchot, Michel Serres e pochi altri) compresero che con la pubblicazione della Storia della follia, nel 1961, si produceva un evento molto significativo ma, poiché Foucault non era precisamente un filosofo, lo stesso mondo filosofico, con poche eccezioni, girò le spalle come se la faccenda non lo riguardasse, e parlo soprattutto della Francia. Altrove nessuno prestò ascolto, e tutti si animarono solo qualche anno più tardi quando Jean-Paul Sartre stigmatizzò l’antiumanismo di Le parole e le cose (1966) e Foucault poté finalmente essere inserito in un contesto, cioè nella stagione dello strutturalismo. Quanto al mondo della psichiatria, e in particolare di quella psichiatria critica (sociale, comunitaria) che allora parlava soprattutto inglese, Foucault non vi trovò, durante l’intero decennio dei sessanta, alcuna cittadinanza. E se veniamo all’Italia, nell’Istituzione negata, che documenterà nel ’68 con grande clamore il lavoro di rottura compiuto da Basaglia e dalla sua équipe nel manicomio di Gorizia, non troviamo alcuna traccia della Storia della follia. E se poi andiamo anche a leggere gli scritti più teorici del Basaglia di quegli anni (di un Basaglia che introduceva nell’asfittico scenario della psichiatria istituzionale l’aria critica che gli proveniva dalle sue letture filosofiche, uno per tutti il saggio del 1965 Corpo, sguardo e silenzio4), vi troviamo soprattutto un certo esistenzialismo umanistico alla Sartre, cioè un’attenzione concentra4. Cfr. ora in F. Basaglia, L’utopia della realtà, a cura di F. Ongaro Basaglia, Einaudi, Torino 2005.

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ta sull’esperienza dell’“altro” come costitutiva dell’“enigma” della soggettività. Quest’ultima era la vera posta in gioco, teorica e pratica, della cultura che porta allo scoppio del ’68 (che – lo ricordo – fu un evento mondiale). Vi confluivano le pagine del “giovane” Marx sull’alienazione, gli effetti della Scuola di Francoforte (la Dialettica dell’illuminismo di Adorno e Horkheimer e i saggi di Marcuse), la Critica della ragion dialettica di Sartre, a produrre e alimentare la coscienza critica e politica non solo nei comparti umanistici delle università, ma in tutte quelle pratiche sociali di “liberazione” che unificarono un’intera generazione con un’osmosi intellettuale e un trascinamento reciproco senza precedenti (e senza una posterità altrettanto unificante). Foucault si collocava, all’apparenza, fuori da questo orizzonte: sembrava cancellare proprio ciò che interessava di più, cioè il significato e la condizione della soggettività repressa e negata. Di lui si conobbe quasi esclusivamente la sentenza ultranietzschiana che decretava la “morte dell’uomo” e che chiudeva Le parole e le cose. Nessuno si era precipitato a leggere la Storia della follia, e tanto meno fu indotto a farlo dopo che tale sentenza divenne l’etichetta del pensiero di Foucault. Niente di “marxiano” poteva venirvi attinto (da cui il rifiuto dello stesso Ginzburg) e quindi trovare ospitalità nel bagaglio critico di allora. Così la Storia della follia non sarebbe mai entrata nell’equipaggiamento mentale dell’intellettuale militante che progettava di costruire una società diversa. È curioso notare, nello stesso giudizio-sintomo di Jervis, la compresenza tra uno sguardo molto pesante sulle semplificazioni del ’68 e la ripetizione degli stessi motivi, della stessa sordità (quasi mezzo secolo dopo!), che caratterizzarono “da sinistra” il completo silenzio su Foucault, come se vivessimo ancora oggi in quel medesimo clima culturale e il tempo si fosse, per così dire, fermato. Per sbloccare un simile sguardo, alquanto schizoide, tuttavia molto diffuso e adesso sostenuto da una pretesa di scientificità, per cui la malattia mentale ha da essere semplice oggetto della medicalizzazione e va quindi sottratta a ogni “letterarietà” gra27


tuita, mentre la parola “follia” si è come evaporata o trasformata in un flatus vocis vuoto e solo ideologico, in un inciampo del linguaggio comune, bisogna avere la pazienza di mettere un po’ di ordine nella sequenza che vorremmo archiviare alla svelta, fingendo che il protagonista di tale sequenza non si identifichi con la parola chiave di tutto il pensiero (di tutta l’azione di pensiero) messo in campo da Foucault. Se cancelliamo il fatto che per lui, e fin dall’inizio, tutto si gioca attorno alle pratiche di potere e dunque alla questione del potere, rischiamo di accodarci a un colpevole elogio dell’ignoranza. Potere di escludere, potere della psichiatria e dello psichiatra sulla malattia mentale e dunque sulla follia stessa. Ci saranno ancora libri, saggi e fiumi di parole che discetteranno se Foucault sia stato un filosofo, uno storico o qualcosa d’altro. Chi ha tempo da perdere in ciò (e ripeto: non sempre è un’innocente perdita di tempo), si accomodi nei molti convegni e nelle varie palestre para-accademiche. Nessuno, però, potrà pretendere di negare (sarebbe un piccolo caso di revisionismo) che il “grande internamento” descritto da Foucault nel 1961 sia un dato di fatto storico e insieme una scena madre cui sono succedute, nel corso dei secoli, innumerevoli ripetizioni fino a oggi, quasi che l’isolamento e la separazione forzosa dei “diversi” rappresentino, per ogni società, una necessità inderogabile. Foucault ci racconta questo internamento, ne descrive le pratiche, e da qui comincia a pensare. La Storia della follia non parte da un’idea di uomo o di soggetto, ma da un insieme di pratiche unificate da un gesto di potere, e ci mostra come proprio da qui, come effetto di queste pratiche, si producano un’idea di uomo e di soggetto. Interessa poco sapere se agisca da filosofo o da storico. Interessa molto, invece, evidenziare e tenere ben fermo che all’inizio stanno precise dinamiche di potere e che il suo è un “no” a ogni filosofia della storia, a ogni filosofia che voglia cavalcare (o scavalcare) la storia. Il silenzio al quale viene ridotta la follia e il potente discorso della psichiatria sulla malattia mentale sono per Foucault la base della vicenda che ha il nome di “potere psichiatrico”, già tutta 28


implicita nella Storia della follia, poi esplicitata in numerose altre occasioni (è un tema mai abbandonato che attraversa la sua intera opera), e soprattutto analizzata nel corso tenuto al Collège de France tra il 1973 e il 1974, cui si collegano strettamente e cronologicamente l’altro corso sugli “anormali” e il notissimo dossier intitolato a Pierre Rivière. Dunque, eccoci nella prima metà degli anni settanta. Ronald Laing e David Cooper erano diventati nomi molto conosciuti. “Antipsichiatria” era la parola che accomunava un’onda culturale che si diffuse un po’ dovunque. Ci si chiedeva perché la “follia” avesse perso la sua voce e se era il caso di restituirgliela e anzi di valorizzarla, e come si poteva forzare la psichiatria istituzionale per rompere questo silenzio. Dopo Gorizia e una breve pausa, Basaglia aveva dato inizio alla propria “rivoluzione”, scardinando e aprendo il manicomio di Trieste. E fu allora che si cominciò finalmente a leggere la Storia della follia, accorgendosi del colossale equivoco culturale e teorico che l’aveva relegata nel dimenticatoio, come se il lavoro di Foucault non potesse incontrarsi con le politiche della soggettività che avevano riempito il pensiero del ’68. Adesso, erano proprio queste “politiche” che esigevano un’analisi del potere e della sua microfisica, e specificamente del “potere psichiatrico”, di cui Foucault aveva ricostruito nel ’61 la genealogia come avamposto di un dispositivo disciplinare che poteva trovare nella malattia mentale un esempio e un collettore valido per l’intera società. Fu chiaro a tutti che il manicomio era una posta in gioco che andava molto al di là dei problemi della psichiatria e della loro localizzazione, e che investiva l’idea stessa di società, l’idea stessa di potere, e dunque anche tutte le pratiche della cosiddetta “normalità”. Così Basaglia, l’uomo delle pratiche, scoprì Foucault e ne fece un importante alleato intellettuale (alleanza ben documentabile a partire dagli anni settanta), e così lo stesso Foucault si precipitò a leggere L’istituzione negata (subito tradotto in francese) e ne diede testimonianza nelle pagine che costituiscono il “riassunto” del corso sul potere psichiatrico e furono poi pubblicate in margine a 29


quelle lezioni.5 Strano riassunto, perché gli esempi tratti dalle esperienze contemporanee di critica radicale alla psichiatria sono evidentemente ulteriori rispetto alle analisi sulla nascita e lo sviluppo del potere psichiatrico nell’Ottocento e trovano scarso riscontro nelle lezioni. Più che un riassunto si tratta di un rilancio nel dibattito caldo del presente, un’“uscita” di Foucault dal suo stesso terreno di ricerca allo scopo di far capire a chi lo ascoltava che il fuoco della battaglia era lì, sotto gli occhi di tutti, e che lui lo sapeva bene. Poco prima, in una conferenza tenuta a Montréal nel maggio 1973 (tradotta in questo stesso fascicolo di “aut aut”), aveva anticipato le sue considerazioni sulle lotte in corso nell’ambito della psichiatria. Proprio nel momento in cui Foucault tira le somme della Storia della follia, a più di dieci anni di distanza, e lui stesso si colloca senza alcuna reticenza nello scenario delle lotte e delle pratiche in atto, nella convinzione che gli strumenti critici che ha in mano siano spendibili dai protagonisti di quelle lotte, e anzi siano indispensabili per nutrirle di un’adeguata analisi dei dispositivi di potere che esse vogliono intaccare, ecco prodursi la possibilità di un nuovo fraintendimento, i cui effetti arrivano fino a oggi. Foucault alleato dell’antipsichiatria. Foucault che vuole distruggere la psichiatria. Foucault, l’“ideologo” di una radicale cancellazione, che si batte per una cultura irrazionalistica, sessantottesca, antiscientifica. Capitolo chiuso, almeno per coloro che arriveranno molto più tardi e vi troveranno buoni motivi per riseppellire la Storia della follia ed esonerarsi dal leggere con attenzione la sua prosecuzione, cioè Il potere psichiatrico. È giusto chiedersi se l’“uscita” di Foucault, nelle pagine che ho ricordato (e alle quali, ora, vorrei riferirmi più nel dettaglio), non sia stata un po’ incauta o non abbastanza perspicua. Si può discuterne, ma è fuori discussione il fatto che la parola “antipsichiatria” circolava allora con un senso teorico-politico molto diverso da quello attuale. Allora indicava un fascio di pratiche di li5. Cfr. M. Foucault, Il potere psichiatrico. Corso al Collège de France (1973-1974) (2003), trad. di M. Bertani, Feltrinelli, Milano 2004, pp. 285-298.

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berazione, un orizzonte critico e politico dentro cui andavano ritagliate delle distinzioni (ed è quello che fa anche Foucault), ma che pure, nell’insieme, costituivano un terreno di sperimentazioni e di battaglie contro il controllo psichiatrico. Oggi il termine “antipsichiatria” è diventato a tal punto penalizzante da oscurare quelle stesse pratiche da cui era emerso e da coincidere con uno stigma culturale, confuso e astratto, tuttavia capace di minorizzare e perfino rifiutare un intero movimento di idee, estendendo le punte più radicali di esso a tutto il contesto e inghiottendo in una sorta di censura storica tanto il pensiero di Foucault quanto le pratiche di Basaglia. Entrambi verranno precipitati nel sacco dell’antipsichiatria sul quale applicare l’etichetta di idealismo velleitario e postromantico e di cui liberarsi alla stregua di un rifiuto tossico. Niente di più falso per chi ne sa qualcosa con cognizione di causa, eppure occorre difendersene per non rimanerne contagiati. Basaglia antipsichiatra fa sorridere, se non fosse che occorre ogni volta smontare lo stigma a suon di fatti e di effetti, magari solo per salvare il significato e l’importanza di quella legge che porta il suo nome e che da decenni si cerca di svilire e anche azzerare con ogni sorta di dossieraggi che talora rasentano l’infamia. E Foucault? A Foucault non si perdona lo smontaggio del dispositivo psichiatrico, il fatto di avere dato evidenza a quel discorso di potere che la ragione ha tenuto per secoli sul non discorso della follia, e su tutti quegli uomini e quelle donne che la parola “folli” ha radunato e rinchiuso per escluderli dal diritto di parola e da tutti i diritti di soggettività che vi si collegano. A Foucault non si perdona di aver dimostrato che la storia della follia è stata in realtà la storia di come si è steso un silenzio sulla follia, al posto della quale si è cominciato a far parlare la malattia mentale con le parole sempre più “scientifiche” del sapere medico. Quello che infine si imputa, allora, a Foucault è di aver reso evidente come quell’esperienza storica, sociale e umana che si chiama follia sia stata evacuata dai nostri regimi di verità, e sostituita da un sapere molto potente che si chiama medicalizzazione, dove appunto il potere è quello della medicina e del medico, mentre il non potere è sempre più dalla parte del “malato” e tendenzialmente, sull’inte31


ra società, si diffonde un paradigma, la medicalizzazione, che omologa non solo i “diversi” ma tutti i soggetti, compresi i normali, nella condizione della malattia e nella sottomissione al potere medico. Se è vero che di ciò si fanno le prove nell’addomesticamento storico della follia, e se questo è l’esito cui sospinge la violenza implicita nel potere psichiatrico, si capisce molto bene perché Foucault ha alimentato tante paure, rifiuti e censure. Ma andiamo a verificare come ha adoperato la parola “antipsichiatria” e quali sono i significati che vi ha affidato. Foucault comincia con il disegnare schematicamente due differenti tipi o fasi di un processo di de-psichiatrizzazione che prende piede alla fine dell’Ottocento, quando si iniziò a “‘pasteurizzare’ l’ospedale psichiatrico”.6 È la forma “asettica” della de-psichiatrizzazione: “L’ospedale può così diventare un luogo silenzioso, in cui la forma del potere medico si mantiene in quel che ha di più essenziale, ma senza che debba incontrare e affrontare la follia in quanto tale”.7 Ne seguiranno la psicochirurgia e la psichiatria farmacologica, ed eccoci d’un balzo nello scenario di oggi. Contemporaneamente si fa strada una seconda forma di depsichiatrizzazione, “di segno opposto” dice Foucault, improntata alla libertà discorsiva e alla “regola del divano”, leggi psicanalisi: qui si esce dallo spazio manicomiale e si mira a ottenere nel modo più “intenso” la produzione della follia “nella sua verità”, ma al tempo stesso viene ricostituito, pur spostandolo, il potere medico. Dunque Foucault pensa che la seconda grande mossa della de-psichiatrizzazione consista nella pratica della psicanalisi, e conferma i dubbi già palesati alla fine della Storia della follia: certo, bisogna “essere giusti con Freud” ma nella psicanalisi viene mantenuta l’“anima” della medicalizzazione, almeno fino a parola contraria. Poco dopo, nella Volontà di sapere (1976), Foucault renderà più robusta quest’“anima, vedendovi il risultato di un più di potere che viene da molto lontano e si deposita nella fabbricazione di un “individuo” capace di au6. Ivi, p. 294. 7. Ivi, p. 292.

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tosorvegliarsi attraverso il racconto di sé. Si scatenerà così un’aspra polemica, oggi non certo sopita. Nella sua ricostruzione, l’antipsichiatria emerge storicamente come una variegata reazione a queste due forme di de-psichiatrizzazione: restando all’interno dell’ospedale psichiatrico, tenta di trasferire al “malato” il potere e la verità della sua cosiddetta “malattia mentale”. Foucault non ha dubbi: ciò che qui entra in gioco non è “il valore di verità della psichiatria” ma la lotta contro l’istituzione manicomiale come protezione sociale verso il “disordine” provocato dai “folli” e quindi come terapia dell’isolamento necessario. Sono i vecchi precetti di Esquirol, contro i quali Foucault adopera proprio parole che prende da Basaglia: “Il puro potere del medico aumenta vertiginosamente – da Esquirol in poi – proprio perché diminuisce quello del malato che, per il fatto stesso di essere ricoverato in un ospedale psichiatrico, diventa automaticamente un cittadino senza diritti, affidato all’arbitrio del medico e degli infermieri, che possono fare di lui ciò che vogliono”.8 È su questa base che Foucault considera e differenzia le varie forme di antipsichiatria (citando Szasz, l’esperienza di Kingsley Hall, quella di Cooper nel famoso “padiglione 21”), cioè come tentativi di de-istituzionalizzazione e di lotta contro “il potere e il diritto assoluto della non-follia sulla follia”: l’obiettivo di tali lotte, per Foucault, è esplicitamente quello di “invalidare la grande trascrizione della follia nella malattia mentale” avviata nel secolo XVII. Siamo abissalmente lontani dall’idea di antipsichiatria che oggi viene fatta circolare in modo apertamente strumentale, per invalidare l’intero lavoro di Foucault schiacciandolo su un fondale di “irrazionalismo”. Ma quale irrazionalismo? Se ce n’è uno, si tratta invece della maschera di violenta “razionalità” che Foucault aveva denunciato lungo tutta l’analisi sviluppata nella sua Storia della follia, a partire da quelle prime righe della premessa (poi tatticamente messa da parte, ma di cui oggi possiamo valutare tutta l’importanza9) in cui dice che c’è un’“altra” follia che ha preso pie8. Ivi, p. 294. 9. Ho esaminato nello specifico la questione nel mio La follia in poche parole, Bompiani, Milano 2000, 20083.

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de storicamente vestendosi dei panni della normalità e della scientificità: la “follia della non-follia”, cioè la nostra, quella della psichiatria scientifica, almeno nella misura in cui essa crede di avere un comando assoluto sui folli e sul loro diritto di essere soggetti. Quest’“altra follia” si incarna nella forma singolare di un potere-sapere della “conoscenza” relativa alla condizione della follia e dei folli, e ricordo che l’obiettivo che Foucault si dà a partire dal ’61, e che mantiene fino alla conclusione del suo lavoro, è quello di dar corpo alla possibilità che la verità della follia si produca in forme diverse da un “rapporto di conoscenza”. Sarà magari insufficiente lo sguardo che Foucault rivolge alle lotte anti-istituzionali che stanno avvenendo attorno a lui, ma molto precisa è la direzione teorica e critica che assume, insomma la sua presa di partito storica, culturale e politica, alla quale aveva fornito una genealogia estremamente ricca e direi decisiva nella Storia della follia, e che sviluppa nel successivo Potere psichiatrico, negli interventi minori,10 ma anche laddove non parla direttamente di follia e psichiatria, cioè, in definitiva, nell’intero laboratorio della sua ricerca. (Basterebbe, poi, rispondere seriamente alla domanda: perché mai Foucault mette in atto una sorta di “identificazione” con la supposta follia di quell’oscuro contadino pluriomicida di nome Pierre Rivière?) Concludo con una preghiera rivolta ai detrattori di Foucault, di cui volevo far emergere qui la non innocente ignoranza e la cattiva coscienza, e ai quali mi sono specialmente rivolto con queste mie note, nella speranza che si degnino di leggerle se non altro perché si parla di loro. Li pregherei di meditare su alcune righe di Foucault, quando, alla fine di quel riassunto del corso sul Potere psichiatrico che ho ricordato, fa sentire la voce, quasi la personificazione di tale potere, che dice con estrema chiarezza al “malato mentale”: “Conosciamo abbastanza cose – cose che tu neppure sospetti – sulla tua sofferenza e sulla tua singolarità, per riconoscere che si tratta di una malattia; ma conosciamo abbastanza an10. Per averne un’idea cfr. M. Foucault, Follia e psichiatria. Detti e scritti 1957-1984, a cura di M. Bertani e P.A. Rovatti, Raffaello Cortina, Milano 2006.

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che tale malattia per sapere che su di essa e rispetto a essa tu non puoi esercitare alcun diritto. La nostra scienza ci permette di designare la tua follia come una malattia, e grazie a ciò noi, in quanto medici, saremo i soli a essere qualificati a intervenire e a diagnosticare in te una follia che ti impedisce di essere un malato come gli altri. Sarai, pertanto, un malato di menteâ€?.11

11. M. Foucault, Il potere psichiatrico, cit., p. 295.

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La storia negata MARIO COLUCCI

iamo negli Stati Uniti nel 1982 e, nel corso di un’intervista a margine di un seminario sulle tecnologie del sé,1 Michel Foucault, come sovente accade, si schermisce con la sua interlocutrice. Teme che le sue parole possano suonare con troppa enfasi. Sta parlando del proprio ruolo di intellettuale, definizione che lo imbarazza, perché di sé direbbe piuttosto che è “un insegnante”,2 con il quale discutere un lavoro fatto in comune: in fondo, il suo ruolo è “quello di far vedere alle persone come esse siano più libere di quello che pensano, e di mostrare loro come esse considerino vero ed evidente ciò che in realtà è stato costruito in un determinato momento della storia, sicché quella presunta evidenza può essere sottoposta a critica e distrutta”.3 Non è la prima volta che Foucault ribadisce con chiarezza che i nostri spazi di libertà sono più ampi di quanto percepiamo, semmai il problema sta nella nostra difficoltà a mettere in crisi i discorsi che riteniamo veri ed evidenti, e ancor di più talune istituzioni, dalla cui necessità bisognerebbe emanciparsi ricordando innanzitutto il loro statuto arbitrario e storicamente determinato. Questi discorsi e queste istituzioni possono essere criticate, nel momento in cui si accetta che

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1. R. Martin, Verità, potere, sé. Intervista a Michel Foucault, 25 ottobre 1982, in L.H. Martin, H. Gutman e P.H. Hutton (a cura di), Michel Foucault. Tecnologie del sé (1988), Bollati Boringhieri, Torino 1992, pp. 3-10. 2. Ivi, p. 3. 3. Ivi, p. 4.

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aut aut, 351, 2011, 36-49


la loro origine è frutto di una contingenza che c’è stata, ma che avrebbe anche potuto non esserci. Il compito che un intellettuale dovrebbe assolvere è proprio quello di “produrre un qualche mutamento nella mente delle persone”.4 Nel seguito dell’intervista il discorso va a cadere sulle sue opere e, in particolare, su Storia della follia: Foucault ricorda ancora, dopo più di vent’anni, il travaglio di quel libro, il fatto di aver praticato la sua ricerca all’interno di istituzioni tradizionali, come gli ospedali psichiatrici, dove aveva visto applicare tecniche per la cura della malattia mentale quali la neurochirurgia e la psicofarmacologia, fatte passare come necessarie. Anche lui all’inizio aveva accettato questo stato di cose, ma poi aveva incominciato a chiedersi perché fossero necessarie ed era entrato in “uno stato di prostrazione e di forte disagio personale”.5 Allora aveva deciso di lasciare l’ospedale psichiatrico e di iniziare a scrivere la storia di queste pratiche. Così aveva avuto origine il suo libro, dal rifiuto di accettare lo statuto di una realtà che si imponeva come naturale ma che era arbitraria. Gli psichiatri non glielo avevano perdonato: ricordare che i loro magnifici asili discendono dai lazzaretti è stato un delitto di lesa maestà, uno “psichiatricidio”. Ma allora, si domanda Foucault, che scienza è mai questa che non riconosce e non accetta la propria storia senza sentirsi attaccata?6 La polemica era già iniziata a Tolosa nel 1969, in occasione delle Giornate annuali di “Évolution psychiatrique”. Foucault aveva declinato l’invito alla partecipazione e il celebre Henry Ey, vero promotore del convegno, non l’aveva presa bene. In aperto dissidio con la Storia della follia aveva etichettato la posizione del suo autore come “psichiatricida”.7 Foucault era rimasto sorpreso, ma già il titolo scelto per il convegno gli sarebbe dovuto bastare come spiegazione: “Concezione ideologica di Storia della follia”. Per Ey e i suoi colleghi Foucault aveva iniziato una guer4. Ibidem. 5. Ivi, p. 6. 6. Ibidem. 7. H. Ey, Commentaires critiques sur l’“Histoire de la folie” de Michel Foucault, “Évolution psychiatrique”, Actes du colloque, Privat, Toulouse 1971, vol. 36, fasc. II, p. 257.

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ra ideologica contro la loro disciplina e bisognava combatterlo. Quale sarebbe la sua ideologia? La storia, o meglio un certo uso della storia, attraverso il quale egli è sospettato di voler invalidare la loro scienza: uso genealogico che rifugge dai finalismi e dalle progressioni accumulative, e procede per eventi e discontinuità; che è interessato non alla verità dell’origine, ma all’esteriorità dell’accidente.8 Foucault comprende che la psichiatria non ama la storia se non quando le restituisce un’idea di progresso e quando è costruita su una serie di immagini che abbiano “la funzione di illustrare l’età felice in cui la follia è infine riconosciuta e trattata secondo una verità davanti alla quale si era restati troppo a lungo ciechi”.9 Immagini che confortano, perché parlano di una stagione del risveglio, dell’arrivo della primavera della scienza dopo l’inverno dell’errore e del pregiudizio. La psichiatria si nutre di agiografie, di ritratti santificati, di racconti edificanti, come nel caso di Tuke o di Pinel. È l’unico passato che la soddisfa e che è disponibile ad accettare perché le narra di origini moralmente virtuose, del dissolversi della notte dell’ignoranza sotto il sole della scienza, del viaggio verso il trionfo finale di una verità che per troppo tempo non si è potuta o non si è voluta vedere. Di quale verità si tratta? Quella della follia infine riconosciuta come fatto di natura. Al termine del cammino gli psichiatri potrebbero finalmente incontrare la follia come malattia mentale. Ma Foucault li ferma a metà strada: considerando la follia un prodotto culturale più che un dato patologico, le attribuisce uno statuto di verità mutevole, frutto di processi storici, e ne demolisce implicitamente la presunta solidità naturale e scientifica. Non esiste una natura della follia che si mostra da sé per quello che è, esiste invece un discorso di verità che si incarica di definirla e che deve la sua forza solo al fatto di essere riuscito a prevalere. È evidente come questa conclusione distrugga la rispettabilità scientifica della psichiatria: l’origine delle sue pratiche, spesso coercitive, è as8. Cfr. M. Foucault, “Nietzsche, la genealogia, la storia” (1971), in Il discorso, la verità, la storia. Interventi 1969-1984, a cura di M. Bertani, Einaudi, Torino 2001, p. 48. 9. Id., Storia della follia nell’età classica (1961, 19722), Rizzoli, Milano 1976, p. 525.

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segnata a eventi contingenti che avrebbero potuto svolgersi diversamente da come si sono svolti oppure non accadere mai. Trascorrono i secoli, si accumulano i saperi, ma si scopre anche che l’oggetto di natura non è eterno, perché è la storia stessa che lo crea nella sua natura di oggetto.10 Questo vale a maggior ragione per la follia, che ha conquistato a fatica la sua realtà positiva, costituendosi come malattia mentale e integrandosi in un campo istituzionale accanto alle altre malattie.11 Tra storia e scienza si è aperto quindi un dissidio: la psichiatria si reputa scienza idonea a indagare la realtà fisica dell’oggetto follia; ma la storia le si mette di traverso quasi a voler confondere le acque con le sue idee di contingenza e di non permanenza della verità delle cose. Gli psichiatri si domandano a che cosa serva una storia così e se se ne possa fare a meno. Qui sta il paradosso: nel tentativo di emanciparsi dalla storia, la psichiatria dimentica che la sua costituzione come scienza è avvenuta proprio grazie a nozioni storiche. Infatti, quando la psichiatria prende congedo da un’idea di follia come errore del giudizio e distanza da una verità, abbraccia una teoria della degenerazione patologica della specie: la causa della follia andrà cercata in un’alienazione progressiva e irreversibile dell’uomo dalle sue origini, insorta con l’avvento della modernità e di un ambiente di vita artificiale, fatto di ritmi e di abitudini completamente opposti ai cicli, agli influssi e alle leggi della natura. In altri termini, la psichiatria alla ricerca di una natura della follia ritrova la follia come perdita della natura: “La follia è la natura perduta, è il sensibile sviato, la snaturalizzazione del 10. Dice Foucault: “La storia ha la funzione di mostrare che ciò che è non è sempre stato. La storia mostra, insomma, che le cose si sono sempre formate alla confluenza di incontri casuali, lungo il filo di una storia fragile e precaria, e proprio quelle cose che ci danno l’impressione di essere le più evidenti. Di ciò che la ragione sperimenta come propria necessità, o piuttosto di quel che le diverse forme di razionalità indicano come qualcosa che è loro necessario, di tutto ciò è perfettamente possibile fare la storia, nonché ritrovare gli intrecci di contingenze da cui procede. Tuttavia ciò non significa che tali forme di razionalità fossero irrazionali, bensì semplicemente che esse poggiavano su uno zoccolo fatto di pratica umana e di storia umana. E poiché sono state fatte, allora – a condizione che si sappia come sono state fatte – potranno essere disfatte”, Id., “Strutturalismo e post-strutturalismo” (1983), in Il discorso, la verità, la storia, cit., p. 322. 11. Cfr. Id., “L’etica della cura di sé come pratica di libertà” (1984), in Archivio Foucault 3. 1978-1985, a cura di A. Pandolfi, Feltrinelli, Milano 1998, p. 290.

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desiderio, il tempo privato delle sue misure, l’immediatezza smarrita nell’infinito delle mediazioni”.12 L’alienazione è l’allontanamento dell’uomo dalla sua pura natura originaria, dal suo contatto più profondo, dalla sorgente della sua vita. Ora è evidente come questa nozione di alienazione, in quanto processo degenerativo che si svolge in una temporalità umana e sociale, sia comprensibile solo se inquadrata all’interno di una prospettiva storica. Per fare scienza, la psichiatria ha bisogno di questa prospettiva, eppure finisce col nasconderla. Scrive Foucault: “Il concetto medico e psicologico di alienazione si libera totalmente della storia per diventare critica morale in nome della salute compromessa della specie”.13 Con un salto si sorvola la storia e si torna alla natura: il processo di presunta degenerazione dell’uomo rispetto a una pura naturalità delle origini viene congelato in un tempo bloccato, quello di un ordine morale borghese appena costituito ma che si pretende eterno e fissato una volta per tutte e rispetto al quale la follia suona come infrazione e minaccia. “Così la follia sfugge alla storicità del divenire umano, per assumere il suo significato in una morale sociale: essa diviene lo stigma di una classe che ha abbandonato le forme dell’etica borghese.”14 Adesso il percorso è chiaro: la naturalizzazione della follia, la nascita e lo sviluppo delle nozioni di patologia mutuate dalla medicina, l’avvento della diagnosi, si realizzano pienamente attraverso un distacco della scienza dalla storia, reso possibile da una moralizzazione della follia stessa, ossia da una sua caratterizzazione come contraria alla morale borghese, assunta come morale tout court.15 A suggello vengono poste due garanzie: il personaggio del medico e l’istituzione del manicomio. 12. Id., Storia della follia, cit., p. 417. 13. Ivi, p. 425. Riconosciamo, in questo passaggio di Foucault, una precoce anticipazione di temi biopolitici che saranno sviluppati soltanto diversi anni dopo. 14. Ibidem. 15. La teoria della degenerazione, elaborata da Morel nel 1857, è esemplare a questo proposito: essa mostra come una concezione morale della follia possa servire da base perfetta per una spiegazione medica e quindi per un progetto di naturalizzazione della malattia mentale. Il vantaggio immediato è di concedere alla psichiatria il riferimento a un corpo, che non

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Il primo va incontro a una radicale trasformazione, nel senso di un rafforzamento inusitato dei suoi poteri, a partire dalla stagione di Pinel e Tuke. Questo avviene non grazie a un sapere acquisito, ma a una statura morale, a un carisma, a una virtù attribuita. Il medico non offre garanzie scientifiche, ma integrità e rigore: quindi, se “può delimitare la follia, ciò non deriva dal fatto che la conosce, ma che la domina; e ciò che per il positivismo sembrerà oggettività non è che l’altra faccia di questo dominio”.16 Qualche anno dopo Foucault articolerà più precisamente questa apoteosi del personaggio medico17 nella figura dello psichiatra come “signore della follia”, portatore del diritto imprescrittibile della ragione sul delirio, la cui posizione di padronanza è sostenuta dalla pretesa di essere il depositario assoluto della verità sulla realtà.18 Il secondo si struttura come formidabile macchina disciplinare a baluardo di questa morale: “L’asilo ridurrà le differenze, reprimerà i vizi, cancellerà le irregolarità. [...] L’asilo si prefigge come scopo il regno omogeneo della morale, la sua estensione rigorosa a tutti coloro che intendono sfuggirvi”.19 I manicomi ricorderanno incessantemente alla psichiatria il suo statuto d’eccezione rispetto alla scienza medica. E quanto più la sensibilità asilare si arricchisce, tanto più la medicina le resta estranea.20 In Storia della follia Foucault non smette di ripeterlo: i luoghi infernali dell’internamento nascono prima delle nosografie e senza di queste. La percezione asilare e l’analitica medica restano fonti distinte e inconciliabili dell’esperienza psichiatrica. D’altronde, l’organizzazione stessa dello spazio manicomiale non è fatta sulla base della è il corpo individuale, substrato dell’anatomia patologica, ma un corpo allargato, si potrebbe dire un metacorpo, ossia il corpo costituito dai genitori, dagli avi, dalla famiglia e dall’ereditarietà. Cfr. M. Foucault, Il potere psichiatrico. Corso al Collège de France (1973-1974) (2003), Feltrinelli, Milano 2004, p. 235; Id., Gli anormali. Corso al Collège de France (19741975) (1999), Feltrinelli, Milano 2000, p. 280. 16. Id., Storia della follia, cit., p. 575. 17. Ivi, p. 573. 18. Cfr. Id., Il potere psichiatrico, cit., in particolare la “Lezione del 12 dicembre 1973” (pp. 118-135) e il “Riassunto del corso” (pp. 285-296). 19. Id., Storia della follia, cit., p. 562. 20. Cfr. ivi, p. 441.

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diagnosi, ma del comportamento degli internati. Non si tratta soltanto dello scontro tra il campo astratto di una teoria nascente e la quotidianità concreta dell’internamento; è invece la ferita insanabile di una follia divisa tra le parole di una scienza che tenta di classificarla come malattia e le voci che la follia stessa fa risuonare invano negli spazi chiusi in cui la nostra cultura l’ha alienata. L’internamento ha cambiato il volto della follia più del sapere della scienza, perché, “un lavoro più profondamente medico della medicina si stava compiendo proprio là dove la medicina era impotente, e dove i folli non erano dei malati”.21 Le pratiche che dominano la natura precedono di gran lunga le conoscenze che la decifreranno. In altri termini, è nei padiglioni chiusi dei manicomi più che nelle cliniche universitarie che si elabora il potere degli psichiatri, legato a un saperci fare con gli internati, con le loro aspettative, paure, illusioni e disinganni, nel sottile equilibrio delle concessioni e dei rifiuti, che peserà in maniera determinante sulla costruzione di una sensibilità morale. È questa sensibilità il fondamento nascosto della nostra moderna esperienza della follia, che lentamente organizza, in questo recinto e grazie a questi medici, un metodo di osservazione psichiatrico e la definizione stessa di una nuova disciplina scientifica. A questo punto porrei una domanda: oggi si può ancora leggere Foucault – magari in un programma di formazione professionale per operatori psichiatrici – per tentare una critica alla deriva scientista della psichiatria? Non è facile dare una risposta, ma bisogna ammettere che dimenticare questo percorso storico non può che avere effetti pesanti sulla verità stessa della psichiatria. Per quanto questa abbia cercato di fondarsi sul modello della medicinaconstatazione,22 in realtà non ha mai potuto staccarsi del tutto da un diverso funzionamento della sua verità, situazionale e contingente, che nasce nel momento in cui due attori, il medico e il ma21. Ivi, p. 443. 22. Inteso come metodo che permette di cercare la verità dovunque e sempre, attraverso il reperimento di segni e l’esecuzione di esperimenti universalmente ripetibili. Cfr. Id., Il potere psichiatrico, cit., in particolare la “Lezione del 23 gennaio 1974”, pp. 206-228.

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lato, attraverso la malattia, si trovano faccia a faccia sulla scena di un conflitto che è inscritto profondamente nella storia delle istituzioni psichiatriche. Scena di affrontamento in cui si oppongono soggetti con differenti posizioni di potere, ma che rappresenta anche l’occasione di un rapporto, uno scambio, una contrattazione, un riaggiustamento di equilibri. In fondo, essa ci illustra fedelmente la trama più profonda della verità della psichiatria: non certo metafisica perché legata alle necessità di ciò che è originario, ma più concretamente politica in quanto esposta alle opportunità e ai conflitti di ciò che è vivente. In che modo oggi è ancora possibile interrogarsi su questa verità psichiatrica? Come poter incidere sui meccanismi della sua produzione e sulle relazioni di potere che vi sono implicate? La psichiatria non affronta queste domande e preferisce far credere che appartengano a una stagione del passato, fatta solo di logori contrasti ideologici. Foucault invece non vuole chiudere gli occhi e per questo rende merito alle differenti forme del movimento antipsichiatrico, che, pur nei loro limiti e nella loro disomogeneità, hanno per prime posto il problema.23 Credo che sia importante ritornare sul significato e sulla storia del termine “antipsichiatrico”, perché si è trattato di un’etichetta così potente che ha finito persino per creare equivoci attorno al libro di Foucault. Non ha lo stesso valore del termine “psichiatricida”, anche se dobbiamo convenire che inizialmente i due termini sono stati omologati. Ma a cinquant’anni dalla pubblicazione di Storia della follia non c’è più nessuno interessato a definire Foucault come uno psichiatricida. Da questo punto di vista gli attacchi gli arrivano piuttosto dalla cappella degli storici24 e degli psicanalisti. Per gli psichiatri contemporanei Foucault non è più 23. Scrive Foucault: “Le relazioni di potere costituivano l’a priori della pratica psichiatrica: esse condizionavano il funzionamento dell’istituzione manicomiale, vi realizzavano la distribuzione del rapporto fra gli individui, determinavano e orientavano le forme dell’intervento medico. Lo specifico rovesciamento messo in atto dall’anti-psichiatria è consistito nel collocarli, al contrario, al centro del campo problematico e nel metterli in questione in via preliminare e fondamentale”, ivi, “Riassunto del corso”, p. 295. 24. È il caso del libro di Claude Quétel, Histoire de la folie. De l’Antiquité à nos jours, Tallandier, Paris 2009.

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un nemico, molti neanche lo conoscono o semplicemente se ne disinteressano e, quando pure lo hanno letto, non ritengono possa essere loro di qualche “utilità”. Alla ricerca dell’ultimo gene o del farmaco risolutivo, vivono il futuro come la bella stagione in cui l’impotenza terapeutica avrà fine. Il passato non è che il periodo oscuro della loro ignoranza. A che cosa serve una storia che ricordi loro di praticare una pseudoscienza? Il termine psichiatricida rimanda dunque a una polemica che i più ignorano. Non è così quando si impiega il termine “antipsichiatrico”: per quanto impreciso e attribuito a esperienze molto diverse fra loro, si riferisce a tutto un movimento di pensiero e di pratiche che ha scosso profondamente la psichiatria del secolo scorso e che ha influenzato fortemente la prima ricezione di Storia della follia, ancorché in una maniera incompleta e talora fuorviante.25 Foucault stesso ne era rimasto impressionato, soprattutto dopo il ’68, giungendo ad ammettere che in qualche modo il suo libro aveva funzionato da detonatore per impreviste lotte politiche.26 Sull’importanza di questo movimento, egli ha modo di tornare più volte27 con una prospettiva originale: nella nostra epoca l’antipsichiatria non può essere contrapposta alla psichiatria, ma va vista come una corrente che la attraversa e che si manifesta in “tutte le grandi scosse che hanno fatto vacillare la psichiatria a partire dalla fine del XIX secolo”,28 mettendo in crisi il suo potere e gli effetti di 25. Mi riferisco alla vicenda della traduzione inglese del 1965: l’opera appare, infatti, in versione ridotta e addirittura con un altro titolo, Madness and Civilization, nella collana diretta da Ronald Laing, “Studies in existentialism and phenomenology”, e con una prefazione di David Cooper, riscuotendo notevole successo nel movimento antipsichiatrico anglosassone. 26. Cfr. M. Foucault, “C’è una questione che mi interessa da molto tempo: quella del sistema penale” (1971), in La società disciplinare, a cura di S. Vaccaro, Mimesis, Milano-Udine 2010, pp. 23-26. Su questo punto mi permetto anche di rimandare al mio intervento Isterici, internati, uomini infami: Michel Foucault e la resistenza al potere, “aut aut”, 323, 2004, pp. 111-134. 27. Mi riferisco alla conferenza tenuta a Montréal nel 1973, pubblicata in questo fascicolo, che sarà ripresa con qualche variazione nel “Riassunto del corso” di Il potere psichiatrico, cit., pp. 285-296. L’argomento di questa conferenza sarà ripreso ancora una volta da Foucault in un testo pubblicato con il titolo La casa della follia in F. Basaglia et al. (a cura di), Crimini di pace. Ricerche sugli intellettuali e sui tecnici come custodi di istituzioni violente, Einaudi, Torino 1975, pp. 151-169. 28. M. Foucault, Il potere psichiatrico, cit., “Riassunto del corso”, p. 291.

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dominio prodotti sul malato, più che il suo sapere e gli effetti di verità prodotti sulla malattia. L’antipsichiatria nasce prima di Laing, Cooper e Basaglia, “allorché si è avuto il sospetto, e ben presto la certezza, che di fatto fosse Charcot a produrre la crisi d’isteria che descriveva”:29 nel tentativo di subordinare la malattia al potere medico, egli finisce col mettere in crisi questo stesso potere ingenerando il dubbio che si tratti di un fenomeno non patologico ma artificiale. Se sorge il sospetto che la malattia non sia un fatto naturale, ma solo l’effetto di un atto medico, tutte le illusioni della psichiatria crollano miseramente. Stavolta non è la storia a invalidare la natura della follia, ma l’apoteosi stessa del personaggio medico a incontrare il suo eccesso e la sua condanna. Perché tutto questo non abbia più a verificarsi, occorre asciugare il suo potere, semplificare la sua azione, deteatralizzarla, attraverso procedure dirette capaci di tenere insieme, senza manifestazioni eclatanti o suggestive, la diagnosi con la terapia, la conoscenza della malattia con il gesto che cura. La psicanalisi, la psichiatria farmacologica – e addirittura la psicochirurgia! – funzionerebbero ciascuna a suo modo, come una forma di “depsichiatrizzazione”, intesa come ammorbidimento della psichiatria e regolazione di quegli eccessi di potere medico, soprattutto nelle forme esteriori di tipo coercitivo, che rischiano di metterne in crisi la fragile credibilità di disciplina scientifica oggettiva. Ma non basta: questa regolazione di potere non fa altro che commisurare più precisamente l’azione terapeutica alla produzione di verità che ci si attende dalla malattia. Non c’è nessuna intenzione di mettere in questione tale potere. Al contrario, l’antipsichiatria propriamente detta, quella dei movimenti di contestazione degli anni sessanta e settanta in Inghilterra, Francia, Italia e negli Stati Uniti, si pone una questione più radicale perché, riconoscendo il modo in cui le relazioni di potere sono i preliminari indispensabili della pratica psichiatrica, capaci di condizionare il funzionamento istituzionale e determinare la forma dell’intervento medico, si interroga su come queste vadano messe in questione o addirittura rovesciate.30 29. Ibidem. 30. Cfr. supra, nota 23.

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Il rovesciamento avviene storicamente in modi differenti e di certo l’azione di Laing e Cooper non è la stessa che persegue Basaglia.31 Tuttavia, che si tratti, come in Inghilterra, di una messa alla prova del soggetto folle per realizzare una rottura epistemologica ed etnologica con la nostra cultura e razionalità sociale, oppure, come in Italia, di una messa tra parentesi di tutte le relazioni di potere che riguardano il malato nella sua condizione di escluso, in ogni caso ciò che le lotte dell’antipsichiatria lasciano intravedere è la possibilità di un’emancipazione dalla spiegazione di natura e dallo statuto di ordine medico che viene attribuito ai comportamenti, alle sofferenze, ma anche ai sentimenti e ai pensieri delle persone che attraversano l’esperienza della follia. Un affrancamento dalla conoscenza acquisita, scrive Foucault,32 ossia uno smontaggio del sapere della psichiatria, attraverso una messa in questione dei suoi metodi di produzione di una verità positiva sulla follia. La follia, invece, non si può che descriverla al negativo per tentare di dire ciò che essa non è: non è una teoria improvvisamente sbocciata nella testa degli psichiatri e poi applicata nei manicomi da loro costruiti,33 in altri termini non è la scoperta di un soggetto a costituirla, né può funzionare come spiegazione scientifica per giustificare a posteriori istituzioni preesistenti. Non ci si può neanche richiamare alla natura dell’essere umano per farla valere “come verità immediata e atemporale del soggetto”,34 perché la follia non è qualcosa che appartiene alla categoria degli universali an31. Basaglia è in disaccordo con l’etichetta di antipsichiatra e dichiara: “Io non sono un antipsichiatra perché questo è un tipo di intellettuale che rifiuto. Io sono uno psichiatra che vuole dare al paziente una risposta alternativa a quella che gli è stata data finora”; e ancora: “Intanto, io non faccio parte di nessun movimento antipsichiatrico e rifiuto nella maniera più categorica di essere un antipsichiatra. ‘Antipsichiatria’ non vuol dire niente, è come ‘psichiatria’. Io penso invece di essere uno psichiatra perché il mio ruolo è di psichiatra, e attraverso questo ruolo voglio fare la mia battaglia politica. Per me battaglia politica vuol dire battaglia scientifica, perché noi tecnici delle scienze umane dobbiamo edificare una scienza nuova che deve partire dalla ricerca dei bisogni di tutta la popolazione”, in F. Basaglia, Conferenze brasiliane (1979), Raffaello Cortina, Milano 2000, pp. 153 e 184-185. 32. Cfr. M. Foucault, Il potere psichiatrico, cit., “Riassunto del corso”, p. 296. 33. Cfr. Id., Nascita della biopolitica. Corso al Collége de France (1978-1979) (2004), Feltrinelli, Milano 2005, p. 41. 34. Id., “Foucault” (1984), in Archivio Foucault 3, cit., p. 251.

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tropologici, verso cui bisogna sempre opporre uno scetticismo sistematico.35 In definitiva, la follia non è un discorso necessario, o meglio non se ne può dimostrare la necessità, in funzione appunto di un’universalità, ma, al limite, è un discorso possibile: non uno fra tanti perché non tutti sono possibili, ma esattamente quel discorso, storicamente variabile ed esposto alle contingenze del tempo, che è stato costruito a partire da pratiche concrete. Sono queste pratiche che interessano Foucault, pratiche modellate dalla storia in seno alle quali un discorso sulla follia può prendere corpo; pratiche come modi di costruire l’esperienza, all’interno delle quali i soggetti e gli oggetti si costituiscono reciprocamente gli uni in rapporto agli altri36 e si ridefinisce il regime di verità di una determinata società e la struttura stessa della libertà umana. È evidente però, come dice Foucault in una delle sue ultime interviste,37che occorre andare oltre il classico principio di alienazione dell’uomo schiacciato sotto il peso di un potere sovrano: “In base a questa ipotesi, basterebbe far saltare i chiavistelli repressivi perché l’uomo si riconcili con se stesso, ritrovi la sua natura o riprenda contatto con la sua origine e restauri un rapporto pieno e positivo con se stesso”.38 I processi di liberazione sono certo la condizione storica e politica necessaria per spezzare uno stato di dominio che assoggetta i malati. Ma non bisogna condividere le stesse fantasie della psichiatria sul ritorno a un originario stato di natura. Bisogna parlare piuttosto di tutte quelle concrete pratiche di libertà che si instaurano immediatamente dopo i processi di liberazione e che riorganizzano le relazioni di potere fra soggetti.39 Foucault introduce la nozione di “giochi di verità”40 per indicare quegli intrecci e quegli sviluppi reciproci fra modi di sog35. Cfr. ivi, p. 250. 36. Dice Foucault: “Le ‘pratiche’, intese insieme come modo di agire e di pensare, offrono la chiave di intelligibilità per la costituzione correlativa del soggetto e dell’oggetto”, ivi, p. 252. 37. Id., “L’etica della cura di sé come pratica di libertà”, cit. 38. Ivi, p. 274. 39. Cfr. ivi, pp. 274-276. 40. Cfr. ivi, p. 282; cfr. anche Id., “Foucault”, cit., p. 250.

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gettivazione e modi di oggettivazione. I primi: con quale procedura e da quale posizione si diventa soggetto di conoscenza? I secondi: a quali condizioni e sotto quale statuto si diventa oggetto di conoscenza? Il processo di medicalizzazione della follia è esemplare al proposito: qui la posta in gioco è alta, perché non si tratta solo del modo in cui la psichiatria sviluppa il suo dispositivo di oggettivazione, ma anche di come il soggetto definito folle vi entra, occupa la sua posizione e costruisce il suo stile di soggettivazione.41 All’uscita da una concezione meramente coercitiva delle relazioni di potere, Foucault si spinge verso un’ipotesi di autoformazione del soggetto, per dimostrare che si tratta di una condizione di attività e non di mera passività, che porta il soggetto di continuo a costituire se stesso, in quanto folle o sano, in faccia al potere psichiatrico.42 Perché il soggetto “non è una sostanza. È una forma e, soprattutto, questa forma non è mai identica a se stessa”.43 Ebbene, rispetto a questa forma del soggetto e a come si costituisce, Foucault ricorda alla psichiatria quali sono le sue precise responsabilità di fronte alla storia e, implicitamente, le pone alcune domande che non possono più essere eluse: in che modo essa si prende cura della storia della sua verità, fatta dei meccanismi e delle circostanze contingenti, talvolta violente, in cui questa si produce? Come ripercorre la genealogia delle sue veridizioni, ossia delle forme che nel tempo vi hanno assunto i discorsi definiti come veri o come falsi e delle condizioni che hanno permesso loro di prevalere? La psichiatria non può negare la propria storia, bi41. Scrive Foucault: “Le relazioni di potere caratterizzano il modo in cui gli uomini sono ‘governati’ gli uni dagli altri; e la loro analisi mostra come, attraverso alcune forme di ‘governo’ degli alienati, dei malati, dei criminali, ecc., sia oggettivato il soggetto folle, malato, delinquente. Tale analisi non intende dunque dire che l’abuso di questo o quel potere ha creato dei folli, dei malati o dei criminali laddove non vi era nulla, ma che le diverse e particolari forme di ‘governo’ degli individui sono state determinanti nei differenti modi di oggettivazione del soggetto”, Id., “Foucault”, cit., p. 252. 42. Dice Foucault: “È vero, per esempio, che la costituzione del soggetto folle può essere effettivamente considerata come la conseguenza di un sistema di coercizione – è il soggetto passivo –, ma voi sapete benissimo che il soggetto folle non è un soggetto non libero e che il malato mentale si costituisce come soggetto folle proprio nei confronti e di fronte a colui che lo dichiara folle”, Id., “L’etica della cura di sé come pratica di libertà”, cit., p. 283. 43. Ibidem.

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sogna che ne senta il peso terribile e che oggi provi a bilanciarlo con una posizione etica, capace di controllare gli eccessi di governo sull’altro e di esercitare quel “minimo di dominio”44 nella sua cura che sia sostenibile all’interno di una pratica di libertà. Dovrebbe essere chiaro ormai che l’insegnante Foucault non ha alcuna intenzione di uccidere la psichiatria, vorrebbe solo che questa uscisse dalla prigione dei cosiddetti discorsi evidenti e che riprendesse a raccontare il suo farsi scienza senza trionfalismi e agiografie, per rendere finalmente visibili i suoi giochi di verità, le esistenze dei soggetti che vi si sono costituiti e le relazioni di potere che li hanno determinati.45 Forse così apprezzerebbe quella singolare curiosità critica che non cerca di conoscere solo ciò che conviene, ma che fa smarrire le proprie certezze e fa scoprire “in quale misura il lavoro di pensare la propria storia può liberare il pensiero da ciò che esso pensa silenziosamente e permettergli di pensare in modo diverso”.46

44. Dice Foucault: “In effetti, credo che consista in questo il punto di articolazione tra la preoccupazione etica e la lotta politica per il rispetto dei diritti, tra la riflessione critica contro le tecniche di governo abusive e la ricerca etica che permette di fondare la libertà individuale”, ivi, p. 292. 45. Cfr. ibidem. 46. Id., L’uso dei piaceri. Storia della sessualità 2 (1984), Feltrinelli, Milano 1984, pp. 13-14.

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Togliersi la corona. Foucault e Basaglia, storia di una ricezione “minore” PIERANGELO DI VITTORIO

volte un paesaggio si coglie meglio stando ai suoi margini. La prima scommessa di Foucault è stata questa: per porre il problema dei rapporti tra potere e sapere, non conviene analizzare una scienza dal profilo epistemologico “incerto” come la psichiatria, piuttosto che interrogare la fisica, la chimica o la matematica? Nel caso della psichiatria, il groviglio di rapporti che lega la sua pratica a una serie “di istituzioni, di esigenze economiche immediate, di urgenze politiche, di regolazioni sociali”, sembra rivelarsi con maggiore evidenza.1 Tuttavia, la decisione di occuparsi di scienze meno nobili come la psichiatria o la medicina ha squalificato la domanda posta da Foucault agli occhi di coloro cui era rivolta – gli intellettuali marxisti francesi –, i quali hanno pensato che si trattasse di un “problema politicamente senza importanza ed epistemologicamente senza dignità” (tranne qualche rara eccezione, come il “nietzschiano” Canguilhem).2 La ricezione della Storia della follia comincia con una porta in faccia, ed è questo fallimento a consegnarla sin dall’inizio a un destino “minore”.

A

Una scena di gelosia Passa qualche tempo, e il silenzio con cui l’opera era stata accolta e che aveva finito per “sviare” Foucault dalle sue originarie 1. M. Foucault, “Intervista a Michel Foucault” (1976), in Microfisica del potere. Interventi politici, Einaudi, Torino 1977, p. 3. 2. Ivi, p. 4.

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aut aut, 351, 2011, 50-70


preoccupazioni lascia il posto a un frastuono per certi versi più sorprendente e difficile da gestire. La sua intenzione era quella di porre un problema ritenuto centrale, lo stesso che animerà le ricerche genealogiche negli anni settanta, muovendo però da una zona relativamente marginale del sapere. In modo inaspettato, i primi echi della Storia della follia giungeranno proprio dal mondo periferico della psichiatria, sottoposto nel frattempo, sia in Europa che negli Stati Uniti, a forti sollecitazioni critiche. Nell’intervento al I Congresso internazionale di psichiatria sociale, tenutosi a Londra nel 1964, Franco Basaglia dice che “la libertà di cui parlava Pinel era stata concessa in uno spazio chiuso, messa nelle mani del legislatore e del medico che dovevano dosarla e tutelarla”.3 Il rinvio alla Storia della follia è evidente, e dimostra l’elaborazione, da parte di Basaglia, di una riflessione più organica sul fallimento della psichiatria istituzionale e sui rapporti tra sapere e potere.4 Più tardi, nel 1971, nel corso di un’intervista dove annuncia la nascita del Gip (Groupe d’information sur les prisons), Foucault esprime dal proprio punto di vista, con franchezza, il contraccolpo della ricezione della Storia della follia da parte dei movimenti della cosiddetta “antipsichiatria”. Szasz, Laing, Cooper e Basaglia hanno visto nel suo libro una sorta di giustificazione storica e se ne sono impossessati. Malgrado le forzature e i malintesi, l’incontro c’è stato e bisogna prenderne atto. Un’esperienza probabilmente decisiva nel percorso di Foucault. Non solo perché lo ha portato a rendersi conto che la “critica” si produce sempre a cavallo tra le ricerche erudite e i movimenti di lotta, ma anche perché lo shock è stato tale da farlo letteralmente uscire fuori di sé: “Diciamo che sono un po’ geloso e che adesso vorrei fare le cose io stesso: invece di scrivere un libro sulla storia della giustizia, che in seguito sarebbe ripreso da altre persone che rimetterebbero praticamente in discussione la giustizia, vorrei cominciare da qui e 3. F. Basaglia, “La distruzione dell’ospedale psichiatrico come luogo istituzionalizzato” (1965), in Scritti, 2 voll., Einaudi, Torino 1981-82, vol. I, p. 249. 4. A. Pirella, “Michel Foucault in Italia, o la critica della psichiatria” (1992), in Il problema psichiatrico, Centro di Documentazione di Pistoia, Pistoia 1999, p. 115.

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poi, chissà, se vivo ancora e non sono finito in prigione, allora scriverò un libro…”.5 Alla fine il libro ci sarà. Ma Sorvegliare e punire esce nel 1975, dopo un lungo silenzio editoriale. In questo lasso di tempo, oltre all’insegnamento al Collège de France, Foucault svolge un’intensa attività militante a fianco dei detenuti per denunciare la loro condizione e porre l’attenzione sulla necessità di una trasformazione del sistema penale. Egli assume dunque la stessa posizione degli psichiatri révoltés che avevano accolto con entusiasmo il suo libro, e questo è sicuramente un primo, strano effetto della ricezione minore della Storia della follia. Più in generale, tutto ciò che ha a che fare con i processi di trasformazione della psichiatria nel XX secolo può essere posto sotto il segno di una storia minore. Parafrasando Deleuze e Guattari, si potrebbe dire che la “storia minore” è quella che una minoranza fa all’interno di una storia maggiore. Ovvero, su un altro registro, quella che racconta la storia a partire però da una particolare e specifica inquadratura. In tal senso, la storia dei processi di trasformazione della psichiatria potrebbe costituire una sorta di “buco della serratura” dal quale osservare la storia del XX secolo in generale. Un punto di vista sicuramente limitato, parziale, ma utile a focalizzare l’attenzione su alcuni “dettagli” in grado di rivelare l’insieme o, quanto meno, di farlo apparire sotto una luce diversa. Questa storia minore ha prodotto, in certi casi, effetti durevoli e significativi. Norberto Bobbio considerava per esempio la legge 180 come l’unica autentica “riforma” realizzata in Italia. Questa legge è stata possibile grazie ad alcune esperienze concrete di superamento del manicomio, in particolare quelle condotte da Basaglia a Gorizia e Trieste, attraverso le quali si è dimostrato che il problema della sofferenza psichica poteva essere affrontato in modo diverso. I manicomi rappresentano storicamente la risposta istituzionale all’idea di un’intrinseca “pericolosità” della malattia mentale. Questo giudizio è il punto di saldatura delle due dimensioni 5. M. Foucault, “Un problème m’intéresse depuis longtemps, c’est celui du système pénal” (1971), in Dits et écrits. 1954-1988, 4 voll., Gallimard, Paris 1994, vol. II, p. 209.

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contraddittorie tra le quali la psichiatria non ha smesso di oscillare: da un lato la sua vocazione terapeutica, dall’altro la sua funzione biopolitica, di garanzia della sicurezza e del benessere del corpo sociale. Decretando l’abolizione dei manicomi, la legge 180 non ha fatto altro che mettere tra parentesi il giudizio di pericolosità della malattia mentale: è questa la sua radicalità, che ha obbligato a “inventare” nuove forme di relazione terapeutica e di risposta sociale al problema della sofferenza psichica. In una congiuntura storica come quella attuale, dominata dall’ossessione per la sicurezza, la legislazione italiana funziona come un antidoto affinché i problemi di salute mentale non vengano immediatamente inclusi nella nebulosa del pericolo. Ed è proprio la relativa autonomia o, come direbbe Ernst Bloch, la “non contemporaneità” di questa storia minore a spiegare per quale ragione oggi un paese come l’Italia, tutt’altro che insensibile alle sirene della sicurezza, veda svilupparsi, in netta controtendenza rispetto a quanto accade in altri paesi europei, un movimento d’opinione per il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari. D’altra parte, una tematica come quella della sicurezza indica che la storia minore della psichiatria può rappresentare un osservatorio privilegiato per considerare problematiche più ampie e trasversali, offrendo un contributo significativo alla critica del presente. I corsi Il potere psichiatrico e Gli anormali, nonché una serie di importanti testi sulla psichiatria legale, sulle politiche di salute pubblica e sulla medicina sociale, dimostrano che l’interesse di Foucault per questi temi non si è mai esaurito, anzi è servito a mettere a fuoco una serie di questioni fondamentali, come la centralità della medicina nella razionalità politica di governo, la tensione tra i principî liberali e i dispositivi di sicurezza, i presupposti psichiatrici del razzismo di stato contro gli anormali, il rapporto tra diritto e normalizzazione nelle società contemporanee. Nella storia di per sé minore dei processi di trasformazione della psichiatria, la Storia della follia rappresenta a sua volta un semplice frammento, il tassello di un mosaico più ampio e non privo di una certa “grandezza”. Il 1961 è una data da ricordare, di quelle in cui gli astri si allineano disegnando costellazioni inedite. In 53


particolare, acquista uno speciale significato il fatto che, mentre a Gerusalemme si svolge il processo contro Adolf Eichmann e il mondo prova a lasciarsi alle spalle gli orrori del nazifascismo, si lanciano i dadi della grande stagione di rinnovamento della psichiatria che avrà luogo nel ventennio successivo. Il 1961 non è solo l’anno in cui esce la Storia della follia, ma anche quello in cui Basaglia arriva come direttore nel manicomio di Gorizia, dando inizio all’avventura che sfocerà nella legge 180 del 1978. E non finisce qui. Sempre nel 1961, vengono pubblicati altri libri importanti, tutti direttamente o indirettamente coinvolti nella “questione psichiatrica”: Asylums, la condizione sociale del malato di mente e di altri internati di Erving Goffman, Il mito della malattia mentale di Thomas Szasz, I dannati della terra di Frantz Fanon e La terra del rimorso di Ernesto de Martino. È come se le stelle si fossero date appuntamento a Gorizia: grazie all’iniziativa di Basaglia, che spinge con decisione sull’acceleratore del cambiamento, uno squallido manicomio di uno dei paesi più arretrati dal punto di vista psichiatrico si ritrova a essere il punto d’incontro e di “collisione” di una serie di analisi – storiche, sociologiche, politiche, antropologiche – nate da esigenze diverse e condotte in modo del tutto indipendente le une dalle altre. Il risultato è esplosivo, sia sul versante teorico che su quello pratico. Il volume L’istituzione negata, pubblicato nel 1968, farà conoscere a un vasto pubblico l’esperienza di Gorizia e consentirà di mettere la questione psichiatrica all’ordine del giorno delle preoccupazioni di carattere sociale e politico. Ma, come si noterà, il complesso mosaico della trasformazione della psichiatria comincia a comporsi lontano dai clamori del ’68, e affonda le sue radici addirittura nella Seconda guerra mondiale, se consideriamo che alcuni dei suoi protagonisti – Tosquelles, Bonnafé, Fanon, Basaglia – si sono “formati” nella resistenza al nazifascismo. Il profilo di un’epoca Dal 1961 è passato solo mezzo secolo, ma è come se fosse trascorsa un’era geologica. Sembra che tutto un mondo sia scomparso dall’orizzonte del possibile. Perciò è importante visualizzare questo 54


paesaggio, che un giorno fu possibile e che potrebbe quindi esserlo ancora, a beneficio soprattutto delle generazioni future. Un compito irrinunciabile, poiché si tratta di costruire una memoria della stagione storica nella quale la critica e le lotte, il lavoro su se stessi e l’impegno politico si sono intrecciati fino a formare il tessuto connettivo della vita quotidiana. A una qualche consapevolezza di questo compito bisogna collegare un ulteriore momento nella storia della ricezione minore che stiamo provando a delineare, una sorta di dettaglio nel dettaglio. Si tratta di una scena specificamente italiana, che si apre in una fase di gran lunga posteriore alla prima ricezione della Storia della follia. Intorno alla metà degli anni novanta, si assiste nel nostro paese a una notevole ripresa d’interesse nei confronti di Foucault, divisa essenzialmente in due tronconi: da un lato, c’è la tendenza, inaugurata dalla pubblicazione nel 1995 di Homo sacer di Agamben e che avrà la fortuna che sappiamo, a utilizzare la nozione di “biopolitica” come trampolino di lancio per l’elaborazione di nuove visioni filosofiche del mondo e della storia; dall’altro, c’è invece la tendenza, oggi sicuramente minoritaria, a far funzionare l’armamentario critico di Foucault in stretto collegamento con le esperienze di movimenti “specifici” come quello guidato da Basaglia. Anche le date confermano la simultaneità di questa biforcazione. Nel 1995, si tenne a Trieste un ciclo di seminari sul “pensiero” di Franco Basaglia, dalla formula significativa: promosso dal neonato Laboratorio di filosofia contemporanea diretto da Pier Aldo Rovatti, ebbe luogo presso la direzione del Dipartimento di salute mentale, nel parco di San Giovanni, già sede dell’ospedale psichiatrico chiuso vent’anni prima da Basaglia.6 La familiarità dello psichiatra veneziano con la filosofia – da Husserl a Sartre a Merleau-Ponty – è nota. Tuttavia, in quel particolare momento storico sembrò che l’esperienza trasformatrice di Basaglia potesse essere colta in tutta la sua portata soprattutto in relazione al pensiero di Foucault. Da questa “scoperta” nacque l’idea di sovrap6. Gli atti sono stati pubblicati con il titolo Follia e paradosso. Seminari sul pensiero di Franco Basaglia, Edizioni “e”, Trieste 1995.

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porre i profili dei due intellettuali, gemellandoli e facendoli funzionare all’interno di un’unica prospettiva. Questo tipo di ricezione, al tempo stesso differita e ancipite, è stata possibile grazie ad alcune condizioni favorevoli. La prima è che nella Trieste dell’inizio degli anni novanta le pratiche basagliane possedevano ancora l’intensità immediata di una forma di vita. La seconda è che, più o meno nello stesso periodo, si verifica una fortunata congiuntura editoriale: nel 1994, vengono infatti pubblicati i quattro volumi dei Dits et écrits, con i loro formidabili indici, veri e propri motori di ricerca che consentono di muoversi in lungo e in largo nel corpus foucaultiano; poi, a partire dal 1997, cominciano a uscire i corsi al Collège de France, la cui pubblicazione permette di allargare lo sguardo sul lavoro di Foucault, sbloccando in particolare la ricezione delle sue ricerche in ambito “psy”, rimasta fino ad allora confinata alla Storia della follia. Dalla metà degli anni novanta, il gioco di specchi tra Foucault e Basaglia ha funzionato come un efficace volano critico, trovando espressione in diverse pubblicazioni, seminari e convegni.7 A distanza di quindici anni, è forse possibile tentare un primo bilancio di questa ricerca. Innanzitutto, va riconosciuto che essa presuppone uno stile di pensiero di tipo “analogico”: due singolarità, peraltro abbastanza eterogenee, come quelle di Foucault e di Basaglia, sono state innestate l’una sull’altra e fatte funzionare come parti di un unico meccanismo. Più precisamente, il dispositivo analogico è consistito nell’operare un “montaggio” tra gli strumenti critici messi a disposizione da Foucault – quelli già noti e quelli che si aggiungevano man mano che uscivano i corsi al Collège de France – e le esperienze pratiche di Basaglia. La critica foucaultiana aiutava a mostrare le poste in gioco più generali delle esperienze di Basaglia, mentre le esperienze basagliane offrivano un riscontro storico concreto alle analisi di Foucault. A un livello più profon7. Cfr. in particolare Pensare la follia, numero monografico di “aut aut”, 285-286, 1998; P. Di Vittorio, Foucault e Basaglia. L’incontro tra genealogie e movimenti di base, ombre corte, Verona 1999; M. Colucci, P. Di Vittorio, Franco Basaglia, Bruno Mondadori, Milano 2001; “Il soggetto che non c’è / Le sujet qui n’est pas. Michel Foucault 1984-2004”, Convegno internazionale organizzato da M. Colucci, J.-F. Rochard e P.A. Rovatti, Università di Trieste, Trieste 5-6 novembre 2004.

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do, il risultato era che il piano della critica e quello dell’esperienza non potevano più essere distinti, quindi assegnati in modo esclusivo all’uno o all’altro, dal momento che la macchina analogica produceva in modo incessante la loro “ibridazione” reciproca. A partire dall’incontro con la Storia della follia, è dunque possibile seguire il fitto gioco di rimandi tra Foucault e Basaglia, e mostrare in che modo le principali nozioni dell’analitica foucaultiana entrino in risonanza con le sperimentazioni di Basaglia. La prima nozione, fondamentale perché riguarda il funzionamento del manicomio, è quella di “disciplina”. Nel Potere psichiatrico, Foucault descrive il manicomio come il luogo nel quale, attraverso una serie di manovre e di tattiche, si lavora ad annullare il delirio e ad assoggettare la follia attraverso la somministrazione intensiva di un principio di “realtà”. Il segreto di ogni follia è in fondo di “credersi re”. È la pretesa di imporre in modo tirannico le proprie certezze contro tutto e contro tutti. Per questo, sconfiggere il delirio significherà in primo luogo tagliare la testa al folle sovrano che, come una sorta di doppio malefico, rischia di mandare in rovina l’unica sovranità legittima, quella del soggetto pensante, razionale.8 Tutto il percorso di Basaglia, dalla trasformazione del manicomio di Gorizia alla distruzione di quello di Trieste, può essere invece visto come una contromanovra esemplare rispetto a questo tipo di logica. Basaglia “tradisce” in primo luogo la vocazione disciplinare della psichiatria, ritenendo fondamentale investire sulla forza della follia, piuttosto che continuare ad annullarla o a neutralizzarla: solo nel delirio e, al di là di esso, nell’oscura contestazione degli internati che denunciano la loro condizione di esclusi, si possono trovare le tracce di una “soggettività” senza la quale non è possibile instaurare un’autentica relazione terapeutica, né avviare un reale processo di emancipazione. Per quanto riguarda poi la nozione di “biopolitica”, basti ricordare che Basaglia ha percepito i pericoli insiti nel passaggio dal modello della gestione disciplinare degli individui a quello della ge8. M. Foucault, Il potere psichiatrico. Corso al Collège de France (1973-1974) (2003), Feltrinelli, Milano 2004.

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stione biosicuritaria delle popolazioni, addirittura prima che Foucault cominciasse a usare questo termine a metà degli anni settanta. Nel 1969, durante un soggiorno come visiting professor presso il Community Mental Health Center del Maimonides Hospital di Brooklyn, a New York, Basaglia ebbe modo di verificare personalmente il funzionamento dei nuovi dispositivi di salute mentale istituiti dall’amministrazione Kennedy. Le analisi che ricaverà da questa esperienza, non solo contraddicono l’immagine stereotipata del militante ossessionato dalla distruzione del manicomio, ma indicano la capacità di cogliere l’“anima” normalizzatrice e sicuritaria della psichiatria, al di là delle metamorfosi istituzionali che hanno caratterizzato la sua storia fino all’avvento della “salute mentale”.9 La tematica del “governo” è l’asse intorno al quale ruotano le ricerche dell’ultimo Foucault. Il liberalismo è l’arte di governare gli uomini entro determinati limiti, corrispondenti ai principî su cui esso si fonda. La sfida di ogni governo liberale consiste nel tenere insieme il rispetto di tali principî, in particolare quello delle libertà individuali, con la necessità di garantire la sicurezza delle popolazioni. La volontà prometeica di conciliare tali esigenze contraddittorie, facendo quadrare il cerchio, si concretizza di volta in volta in una strategia di “gestione” che consente al governo di esercitarsi in deroga ai principî che lo sostengono. Da questo punto di vista, ogni governamentalità liberale porta in sé una “trasgressione” di carattere gestionale: la possibilità di governare gli uomini al di là e al di fuori di ciò che rende il governo stesso legittimo. Un governo “di fatto” tende a supplire il governo “di diritto”. All’indomani della Rivoluzione francese, il problema della follia si presenta come un’importante sfida di governo: come garantire la sicurezza della società pur rispettando le libertà che il nuovo diritto borghese garantisce agli individui? Il management alienista emerge nel momento stesso in cui gli psichiatri si dimostrano disponibili a risolvere questa antinomia, accettando di ge9. F. Basaglia, “Lettera da New York. Il malato artificiale” (1969), in Scritti, cit., vol. II, pp. 96-104.

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stire il problema della follia “costi quel che costi”, ossia anche al prezzo di pervertire il contratto terapeutico che li lega ai malati, e di erodere i principî giuridico-politici su cui si fonda il loro mandato sociale. La vera originalità di Basaglia è consistita nell’aver operato una rottura radicale rispetto alla tradizione terapeuticogestionale della psichiatria, dall’alienismo alla comunità terapeutica: non si può continuare a ridurre il problema dei malati di mente a una logica gestionale, delegandolo completamente a un gruppo di esperti che usano il loro statuto scientifico e la loro vocazione terapeutica per neutralizzare le brucianti contraddizioni che lo attraversano; è invece necessario che la società si interroghi sul suo modo di governare i malati di mente, a partire dal riconoscimento delle eccezioni giuridiche e degli eccessi di potere che ne hanno da sempre caratterizzato la gestione, sia disciplinare che biopolitica. In questo modo, il problema della malattia mentale diventa un banco di prova per le società che si pretendono “liberali e democratiche”.10 L’estremo punto di convergenza tra Foucault e Basaglia si trova probabilmente nel ruolo che entrambi riservano alla dimensione “etica”. Ciò che vi è di radicale in qualsiasi esperienza, non è tanto il suo pedigree teorico o ideologico, quanto il suo “differenziale etico”. Non si può trasformare il mondo senza trasformare se stessi, sostiene Basaglia in una delle conferenze tenute in Brasile nel 1979.11 Ed è la medesima stoffa “spirituale” che Foucault, negli ultimi anni della sua vita, metterà alla base di ogni impegno intellettuale e politico, trovandone i presupposti storici prima nella cultura ellenistico-romana della “cura di sé”, poi nell’ethos filosofico di Socrate e dei cinici.12 In particolare, sembra che Fou10. Su Frantz Fanon come “modello” di rottura rispetto alla tradizione terapeutico-gestionale della psichiatria, cfr. F. Basaglia, Il problema della gestione, in Id. (a cura di), L’istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico (1968), Baldini & Castoldi, Milano 1998, pp. 370-380. 11. F. Basaglia, “Alternative nel lavoro in salute mentale” (1979), in Conferenze brasiliane, Raffaello Cortina, Milano 2000, pp. 187-204. 12. Cfr. M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France (1981-1982) (2001), Feltrinelli, Milano 2003, e Id., Le courage de la vérité. Le gouvernement de soi et des autres II. Cours au Collège de France (1984), Gallimard-Seuil, Paris 2009.

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cault, in un momento caratterizzato dal riflusso dell’impegno politico e dall’avanzata del modello neoliberale, abbia intuito che le pratiche di soggettivazione, i modi di condotta, gli stili di esistenza sarebbero diventati una delle principali scommesse “politiche” del nostro tempo. Questa insistenza sulla dimensione etica o spirituale – il lavoro di sé su se stessi necessario per avere accesso a un percorso di verità – apre la possibilità di una nuova ricezione di movimenti come quello di Basaglia, la quale potrebbe a sua volta gettare una luce diversa sugli anni sessanta-settanta in generale. Rileggere questa stagione anche dal punto di vista delle sue implicazioni etiche, invece di privilegiare sempre e unicamente le sue connotazioni teorico-politiche, potrebbe servire a trasmettere la sua “memoria” alle nuove generazioni, le quali hanno sicuramente più familiarità con le prime che con le seconde. Ma servirebbe anche, e al tempo stesso, a usare questa memoria come un’arma politica nella battaglia di cui l’etica costituisce oggi una delle principali poste in gioco. La possibilità di accostare e far funzionare insieme Foucault e Basaglia è stato un modo di resistere a una difficoltà che si avvertiva in misura crescente: quella di collegare – in modo orizzontale e nel segno di una certa reciprocità – il mondo della ricerca erudita con quello delle pratiche militanti. L’analogia è sempre una tensione tra lo stesso e il differente. Inoltre, nel caso di Foucault e Basaglia, grande è la distanza che separa i loro profili intellettuali. Ma che cosa succederebbe se, nonostante tutto, accostandoli essi combaciassero come i frammenti di un vaso rotto? Otterremmo un assemblaggio che è qualcosa di più di una semplice somiglianza. Vedremmo emergere, come in un mosaico ritrovato, il profilo di un’epoca. Un paesaggio, quello del ventennio anni sessanta-settanta, caratterizzato dal continuo intrecciarsi delle ricerche e delle pratiche, dei libri e delle lotte, lungo la doppia direttrice della trasformazione di sé e della trasformazione del mondo. Parliamo di un contesto storico nel quale un filosofo come Foucault e uno psichiatra come Basaglia potevano d’un tratto scoprirsi “gelosi” l’uno dell’altro: ossia pieni di “zelo” nei confronti di ciò che era loro estraneo, disposti accettare il rischio di divenire altri 60


da sé, di alterarsi in un inedito percorso di verità. Ma che ne è oggi di questo paesaggio che un giorno fu possibile? Lo scollamento tra il mondo della ricerca e quello delle pratiche è tale da non essere più nemmeno percepito con disagio. Ognuno pretende di essere sovrano a casa propria. La gelosia non è più di scena, poiché tutti ritengono di “bastare a se stessi”. E i richiami al “realismo” e al “razionalismo” sono sempre più spesso l’espressione di un desiderio di re. Si respira un clima di reazione, di restaurazione e, quel che è peggio, non è solo il refrain di destra contro il ’68, causa di tutti i mali. Fior fiore di intellettuali di sinistra ostenta la volontà di saldare i conti con la stagione critica degli anni sessanta-settanta: il momento felice nel quale, liberi dalla paura, molti abdicarono alle pretese di sovranità del “soggetto”, per sperimentare nuove possibilità di relazione con se stessi e con gli altri. Oggi il postmoderno viene considerato il ricettacolo dei peggiori vizi del nostro tempo – il relativismo e il nichilismo – e viene usato come un’ingiuria per squalificare chi rifiuta di rimettersi la corona o lo fa in un modo ritenuto troppo timido. Ma la sensazione è che in realtà si butti l’acqua sporca per liberarsi del bambino, ossia della postura critica ereditata, per esempio, da personaggi come Foucault e Basaglia. Questo tipo di operazioni non è privo di malizia, e talvolta non esita a ricorrere alla manipolazione. Nel libro La razionalità negata, il cui titolo è un evidente calco polemico sull’Istituzione negata, Giovanni Jervis, che fu nell’équipe di Basaglia a Gorizia, evita l’attacco frontale, preferendo una manovra di aggiramento per raggiungere il suo scopo. Il ritratto che propone di Basaglia è quello di uno psichiatra, non particolarmente originale né sul piano scientifico né su quello istituzionale, ma tutto sommato onesto e armato di buone intenzioni. Il problema nascerebbe nel momento in cui si imbatte in Foucault: il “cattivo maestro” per eccellenza che finirà per trascinarlo nelle nebbie irrazionalistiche dell’antipsichiatria, un po’ come Lucignolo convince Pinocchio a seguirlo nel paese dei balocchi. In questo modo, Basaglia viene squalificato due volte, e all’ennesima potenza: se alla fine si trova all’inferno, non è per “meriti” persona61


li, ma solo per essersi fatto ammaliare da una maschera del diavolo. Sembrerebbe dunque che il vero bersaglio di Jervis sia Foucault, e in un certo senso è così. Al tempo stesso è però chiaro che viene preso di mira Foucault per infliggere un colpo mortale alla “figura” di Basaglia, privandola di ogni residua aura di eccezionalità e di grandezza, anche nel male o nell’errore. Ci siamo soffermati su questo episodio solo perché rientra in qualche modo nella storia delle ricezioni minori che costellano la pubblicazione della Storia della follia. Jervis cita infatti il libro Foucault e Basaglia, a conferma della convergenza e dell’intreccio di influenze tra il filosofo francese e lo psichiatra italiano.13 Inutile dire che questo libro insiste però soprattutto sulla “reciprocità” di questo incontro, ed è perciò agli antipodi dell’idea, sostenuta in modo più o meno esplicito da Jervis, secondo la quale Basaglia si sarebbe fatto “plagiare” dal malefico Foucault. Ognuno ha il diritto di servirsi dei libri come crede, fermo restando l’uguale diritto di chi li scrive a prendere eventualmente le distanze dal modo in cui vengono usati. Follia e sovranità La ricezione della Storia della follia è un fronte ampio e articolato. Quella che ha visto protagonisti i movimenti di trasformazione della psichiatria è una ricezione “minore”, ma questo non vuol dire che non abbia avuto la sua importanza, rilevata peraltro dallo stesso Foucault in varie occasioni. È per questo che il problema della ricezione della Storia della follia può essere colto in tutta la sua portata solo rispondendo alla seguente domanda: a quali “condizioni” l’incontro con i movimenti di trasformazione della psichiatria è stato “possibile”? E per cominciare, possiamo considerare casuale o secondario il fatto che quest’opera, pur essendo scritta da un filosofo, abbia l’aspetto di un lavoro storico? Perché è proprio così – come un libro di storia, non di filosofia – che psichiatri come Basaglia lo hanno letto e se ne sono appropriati. 13. G. Corbellini, G. Jervis, La razionalità negata. Psichiatria e antipsichiatria in Italia, Bollati Boringhieri, Torino 2008, p. 95, nota 8. La nota potrebbe essere stata inserita in sede di lavoro redazionale, ma questo non cambia la sostanza del problema.

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Il problema è che lo stile di pensiero di Foucault risulta strettamente intrecciato con l’epoca di cui oggi percepiamo il vuoto, e che dobbiamo provare a trasmettere, a “memorizzare”. Una delle caratteristiche fondamentali di tale epoca è di avere drasticamente ridotto le pretese di sovranità del soggetto filosofico, o più in generale della conoscenza, a vantaggio di uno stile critico che favorisse, da un lato, il rapporto orizzontale tra la ricerca erudita e i movimenti di lotta, dall’altro, una mobilitazione sagittale degli intellettuali negli ambiti specifici di loro competenza.14 Come dice Robert Castel, anch’egli coinvolto in questo processo di destituzione critica del soggetto della conoscenza, l’intellettuale specifico è colui che “abbandona la tradizionale posizione della sovranità teoretica, attraverso la quale l’intellettuale si presenta come il rappresentante dell’universale nella storia”, e in tal modo “può e deve creare alleanze con i gruppi sociali, mettendo il suo ‘capitale specifico’ al servizio di obiettivi pratici”.15 Si coglie così la portata propriamente “etico-politica” del divenire minore che ha caratterizzato il percorso di molti intellettuali negli anni sessantasettanta. Foucault e Castel condividono uno stile di ricerca “genealogico”: un particolare modo di mettere l’interrogazione filosofica – che fu già quella di Nietzsche – alla prova della documentazione e delle analisi storiche.16 Ma nella misura in cui la critica genealogica segna il divenire minore del soggetto filosofico, d’un tratto diventa possibile e necessario “raddoppiare” il piano della ricerca erudita con quello delle pratiche militanti. Foucault è estrema14. Sull’attualità degli intellettuali “specifici”, nonostante la ricorrente nostalgia per gli intellettuali “universali” ai quali si chiede una filosofia, una visione del mondo, cfr. M. Foucault, Intervista a Michel Foucault, cit., pp. 3-28. 15. R. Castel, The two readings of “Histoire de la folie” in France, in A. Still, I. Velody (a cura di), Rewriting the History of Madness. Studies in Foucault’s “Histoire de la folie”, Routledge, London-New York 1992, p. 67. 16. Sulla flessione del ruolo dell’intellettuale verso il lavoro dello storico, inteso come colui che offre “strumenti di analisi” piuttosto che dare consigli o indicare la strada da seguire, cfr. M. Foucault, “Potere-corpo” (1975), in Microfisica del potere, cit., p. 144. Castel, pur rivendicando una diversa postura rispetto al problema della follia, indica nel “metodo genealogico” il punto di convergenza con Foucault (cfr. É. Gardella, J. Souloumiac, Entretien avec Robert Castel, “Tracés. Revue de Sciences humaines”, 6, 2004, pp. 103-112).

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mente chiaro a questo riguardo: la critica “effettiva”, quella che storicizzandosi si dimostra capace di produrre determinati effetti, nasce dall’accoppiamento tra questi due piani ed è impensabile al di fuori di esso.17 In tal senso, la “stagione delle genealogie” può essere vista come una lunga catena di innesti e montaggi analogici tra le ricerche e le lotte. Inoltre, Foucault è stato più che mai esplicito, non solo nel rifiutare di imporre un principio di unificazione, una “corona” teorica alle sue ricerche “frammentarie e disperse”, ma anche nell’ipotizzare che proprio “le teorie avvolgenti e globali” avessero avuto un effetto “inibitore” sulla critica diffusa di istituzioni, pratiche e discorsi sviluppatasi in quegli anni.18 Non è forse un caso allora se, rileggendo L’anti-Edipo di Deleuze e Guattari come un manuale di esercizi spirituali, sorta di “Introduzione alla vita non fascista”, egli abbia messo in cima alla lista il seguente precetto: “Liberate l’azione politica da ogni forma di paranoia unitaria e totalizzante”.19 A proposito della ricezione francese della Storia della follia, tralasciando la mancata accoglienza da parte dell’intellighenzia marxista, Castel fa riferimento all’esistenza di “due letture”: una accademica, riconducibile alla tradizione francese dell’epistemologia e della storia delle scienze (Brunschwicz, Cavaillès, Bachelard, Canguilhem), e una militante, successiva al maggio ’68 e riconducibile invece a una diffusa sensibilità antirepressiva. Foucault stesso sarebbe stato consapevole di questa duplicità, senza sentirsi obbligato a prendere posizione a favore dell’una o dell’altra. Secondo Castel l’essenziale è comprendere che tali letture non sono in opposizione tra loro, se considerate appunto a partire dalla metamorfosi dell’intellettuale che, abbandonato lo scettro dell’universale, s’immerge nell’hic et nunc dei processi di trasformazione e di lotta.20 È anche vero d’altra parte che in varie occasioni Castel ha

17. Cfr. M. Foucault, “Bisogna difendere la società”. Corso al Collège de France (19751976) (1997), Feltrinelli, Milano 1998, pp. 16-17. 18. Ivi, p. 15. 19. M. Foucault, “Prefazione” (1977), in Archivio Foucault 2. 1971-1977. Poteri, saperi, strategie, Feltrinelli, Milano 1997, p. 243. 20. Cfr. R. Castel, The two readings of “Histoire de la folie” in France, cit.

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preso le distanze dal “romanticismo” che a suo avviso caratterizzerebbe l’approccio di Foucault al problema della follia. E non si può certo negare che la riflessione foucaultiana, nel periodo che va dalla Storia della follia a Le parole e le cose, è impregnata di un pathos heideggeriano, cioè al tempo stesso anti- e iper-filosofico, successivamente abbandonato. Una svolta sollecitata o favorita dall’incontro, intorno al ’68, con i movimenti di lotta nei manicomi e nelle prigioni, e sfociata nella stagione “matura” delle genealogie negli anni settanta. Avremmo insomma a che fare con due modi diversi di considerare la questione psichiatrica da parte di Foucault, corrispondenti a due fasi successive del suo pensiero. Questo spiegherebbe inoltre perché Castel, dopo la pubblicazione del corso Il potere psichiatrico, del cui contenuto pare non fosse a conoscenza, abbia in qualche modo rivisto il suo giudizio, riscontrando in Foucault un approccio più “oggettivo”, quindi più simile al proprio, rispetto al problema della follia.21 Interessante a tale proposito il gesto che lo stesso Foucault compie nella lezione introduttiva di questo corso: prendendo le distanze da certe “ingenuità” dell’antipsichiatria, coglie l’occasione per fare anche “autocritica” e mettere in discussione alcuni presupposti della Storia della follia. Avendo ormai a disposizione la quasi totalità dei corsi al Collège de France, si può tuttavia affermare senza tema di smentite che c’è almeno un aspetto rispetto al quale Foucault non è mai arretrato, e che concerne precisamente il rapporto tra l’esperienza della follia e la sovranità del soggetto della conoscenza. Foucault riprende da Georges Bataille il tema delle “esperienze limite” – la follia, la morte, il crimine – storicizzandolo: per lui si tratta di analizzare, nell’ottica di una storia del sapere e della verità in Occidente, come e a quale prezzo tali esperienze siano state ridotte a “oggetti della conoscenza”.22 L’esperienza limite è una tragica prova della finitezza, l’“infimo interstizio” che si apre come una ferita agli estremi limiti del sapere contestando la sua chiusura. È quello che resta 21. Cfr. É. Gardella, J. Souloumiac, Entretien avec Robert Castel, cit. 22. D. Trombadori, Colloqui con Foucault, Castelvecchi, Roma 1999, p. 59.

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della libertà quando tutto sembra definitivamente compiuto, lo “strano sovrappiù” che deborda l’orbita di un umanismo – l’uomo universale ed eterno – scavandone infinitamente la tenuta.23 Questa possibilità minore della libertà apre un dissidio etico radicale: esposta al suo “senza prezzo”, al suo consumo inutile, alla sua perdita senza recupero e senza redenzione, la libertà contesta se stessa, mettendo in discussione la sovranità del soggetto autonomo e razionale in cui essa avrebbe da sempre dovuto realizzarsi. In un certo senso, è come se una folle sovranità non avesse mai smesso di sfidare, nell’esistenza e nella storia umane, la sovranità legittima e padrona di sé. Se non si percepisce che Foucault è stato sin dall’inizio abitato da questa “sfida”, è probabile che si fallisca globalmente la sua ricezione. Certo, la Storia della follia è anche il monumento “speculativo” di tale contestazione: riflessa nello specchio di una galleria di figure “eroiche” – Hölderlin, Nietzsche, Nerval, Van Gogh, Artaud ecc. – funziona paradossalmente come un’estrema fonte di legittimazione filosofica. Le cose cambiano quando, con l’emergere dei movimenti di lotta nei manicomi e nelle prigioni, la contestazione si “storicizza”: le libertà minori fanno irruzione sulla scena politica mettendo Foucault nelle condizioni di giocare fino in fondo la sua destituzione come soggetto filosofico.24 Per quanto detto, è tuttavia evidente che la sfida alla sovranità filosofica doveva essere già stata lanciata, altrimenti l’incontro con questi movimenti non avrebbe avuto luogo, e la Storia della follia può essere in effetti vista come l’espressione inaugurale della “tensione” tra la riflessione filosofica e l’indagine storica inerente al pensiero di Foucault. Se la caratteristica principale di tale pensiero è di aver messo al centro del discorso la documentazione storica facendo scivolare l’enunciazione filosofica verso i margini, d’altra parte è chiaro che qualcosa di fondamentale si decide in questi margini, essendo in gioco il modo di intendere la verità e i suoi rapporti con il soggetto. Quando Foucault dice che la “critica” si 23. M. Blanchot, L’infinito intrattenimento (1969), Einaudi, Torino 1977, p. 229. 24. Cfr. P. Di Vittorio, Libertà “minori”: un diritto all’insocievolezza?, in AA.VV., Viaggio nella modernità, numero monografico di “Antasofia”, 3, 2004.

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pone al tempo stesso all’interno e all’esterno della filosofia, intende evidenziare il doppio movimento che caratterizza la sua precaria posizione di frontiera: nel momento stesso in cui l’interrogazione filosofica si dispiega nell’esteriorità storica, essa si ripiega “polemicamente” su se stessa, rimettendo in discussione la pretesa di un rapporto privilegiato con la verità. La prima sfida di Foucault è stata quella di strapparsi alla propria identità filosofica (fenomenologia, hegelismo, marxismo umanista), acquisita durante la formazione universitaria. L’appello a “liberarsi di se stessi” ha significato per lui in primo luogo il tentativo di sradicare il presupposto di un soggetto regnante sulla verità come un sovrano sul proprio territorio. Operazione dolorosa che apre nel pensiero una ferita insuturabile, e il cui programma si trova esposto nella Prefazione alla trasgressione, dove è appunto in gioco l’autodistruzione del soggetto filosofico, sperimentata prima da Nietzsche e poi da Bataille agli estremi limiti del sapere assoluto hegeliano. Nonostante le svolte e le metamorfosi, la “possibilità del filosofo pazzo” enunciata in questo testo del 1963,25 riecheggia limpidamente nella folle sovranità dei cinici, cui Foucault dedicherà l’ultimo corso al Collège de France concluso poco prima della morte nel 1984. La sfida della sovranità, che percorre tutta la riflessione foucaultiana, si organizza come un sistema a più livelli, le cui principali coordinate sono: la destituzione del soggetto della conoscenza, la follia come principio di alterazione della sovranità e il nesso tra soggettività e verità. In un celebre passaggio della Storia della follia, Foucault afferma che il percorso del dubbio cartesiano testimonia che il “pericolo” della follia è stato scongiurato, essendo essa stata esclusa dall’orbita nella quale il soggetto possiede di diritto la verità: l’uomo può essere folle, non il pensiero in quanto “esercizio della sovranità da parte di un soggetto”.26 Questo argomento viene

25. M. Foucault, “Prefazione alla trasgressione” (1963), in Scritti letterari, Feltrinelli, Milano 1971, p. 66. 26. Id., Storia della follia nell’età classica (1961, 1972), Rizzoli, Milano 2001, p. 53.

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puntualmente ripreso nell’Ermeneutica del soggetto, dove Foucault analizza il nesso che nel mondo ellenistico-romano lega la filosofia alla “spiritualità”, intesa come lavoro di sé su se stessi necessario per avere accesso alla verità. A differenza di quanto avverrà successivamente – prima con la teologia poi con il cosiddetto “momento cartesiano”, che spezzeranno questo nesso – la spiritualità antica postula che “la verità non è mai concessa al soggetto con pieno diritto”. Questo vuol dire, non solo che essa non è una proprietà del soggetto, ma che il soggetto, se non rimette radicalmente in discussione il proprio essere, se non diventa “altro da sé”, se non si altera, se non si trasforma, non sarà mai “capace di verità”.27 Che la follia, a causa della sua assurda e ingannevole pretesa di sovranità, rappresenti per il soggetto moderno una minaccia di alterazione in grado di minare le fondamenta stesse del suo incondizionato diritto alla verità, lo si capisce dai passaggi già ricordati del Potere psichiatrico, nei quali Foucault torna a menzionare Descartes citando i suoi due esempi della follia (“prendersi per un re” e “avere un corpo di vetro”).28 Infine, nel Coraggio della verità, ecco irrompere sulla scena Diogene, il Socrate impazzito. L’ultimo corso di Foucault è dedicato a un penetrante ritratto dei cinici: formidabili atleti morali che con il loro “dire vero” contestano ogni forma di sovranità legittima – sia essa politica, filosofica o scientifica – e lanciano una sfida etica che, attraversando i secoli, giunge fino a noi come la chance di un “altro” modo di fare filosofia, o di un “divenire minore” della filosofia stessa. Come si vede, il punto sul quale Foucault non arretra, anzi avanza costantemente, riguarda in modo più o meno diretto la questione del cogito cartesiano che scatenò la nota polemica con Derrida. Si dice che Foucault non amasse le polemiche. Ma per quanto paradossale ciò possa sembrare, questo atteggiamento potrebbe spiegarsi a partire dalla natura profondamente polemica di quello che “restava” di filosofico in lui. Ipotesi che proprio l’inesauri27. Id., Ermeneutica del soggetto, cit., pp. 17-21. 28. Id., Il potere psichiatrico, cit., pp. 37-38.

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bilità della polemica con Derrida potrebbe confermare, se si comprende che l’oggetto del contendere era precisamente il problema della sovranità filosofica. C’è un “altro” modo di essere filosofi? Si può restare filosofi pur rinunciando alla propria sovranità, cioè alla pretesa di un rapporto privilegiato con la verità? Come si fa questo gesto di destituzione e qual è il suo prezzo, o il suo eventuale beneficio? Sono queste le domande che percorrono in filigrana l’opera di Foucault, formando la piega nella quale si concentra la tensione tra il dentro (filosofico) e il fuori (storico). Ciò che Foucault rimprovera a Derrida è la “profonda interiorità filosofica” del suo lavoro, l’incapacità di concepire “qualcosa di anteriore o di esterno al discorso filosofico”.29 Al principio secondo il quale “non c’è fuori testo”,30 egli contrappone un “principio di esteriorità” consistente nel “passare fuori del testo”, nel porsi nella dimensione storica e nel “ritrovare la funzione del discorso all’interno di una società”.31 L’evento discorsivo non è mai testuale, dal momento che “si disperde tra istituzioni, leggi, vittorie e sconfitte politiche, rivendicazioni, comportamenti, rivolte, reazioni”.32 Ritroviamo qui, non solo le ragioni che hanno fatto preferire a Foucault una scienza dubbia come la psichiatria per porre il problema (filosofico) dei rapporti tra potere e sapere, ma anche tutti gli elementi del vero incipit della Storia della follia, le poche linee che aprono il capitolo sul grande internamento, subito dopo il commento delle Meditazioni di Descartes criticato da Derrida: “Più di un sintomo lo tradisce [l’evento per cui la follia è stata esiliata dalla verità], e non tutti derivano da un’esperienza filosofica o dallo sviluppo di un sapere. Quello di cui vorremmo parlare appartiene a una superficie culturale assai vasta. Esso viene segnalato con molta precisione da una serie di date e, insieme con queste, da un complesso di istituzioni”.33 29. Id., “Réponse à Derrida” (1972), in Dits et écrits, cit., vol. II, p. 284, e Id., “Il mio corpo, questo foglio, questo fuoco” (1972), in Storia della follia, cit., p. 486. 30. J. Derrida, Della grammatologia (1967), Jaca Book, Milano 1989, p. 182. 31. M. Foucault, Leçons sur la volonté de savoir. Cours au Collège de France 1970-1971, Gallimard-Seuil, Paris 2011, p. 192. 32. Ivi, p. 187. 33. M. Foucault, Storia della follia, cit., p. 54.

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In nome della nozione di evento discorsivo, Foucault rifiuta il principio che non c’è fuori testo, vedendo nel suo richiamo all’interiorità l’ennesima, estrema conferma della sovranità filosofica. È significativo che oggi si possa rifiutare lo stesso principio, ma in nome questa volta di un risoluto appello alla sovranità filosofica. Come se il problema non fosse più togliersi la corona, ma rimettersela.34 Il paesaggio è decisamente cambiato.

34. M. Ferraris, Ricostruire la decostruzione, Bompiani, Milano 2010.

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Un’opera morale (e la storia della psichiatria) MAURO BERTANI

Non scrivo un libro perché sia l’ultimo, ma per far sì che altri libri siano possibili, e non necessariamente scritti da me. Michel Foucault

ompito del pensiero, ha detto una volta Michel Foucault, è rendere difficili i gesti troppo facili. Compito tanto più complicato e drammatico quando si ha a che fare con le cose che, a loro volta, sono le più difficili. E occuparsi della follia è di certo una di quelle, forse la più difficile di tutte. Il lavoro instancabile compiuto da Foucault nella forma del dissodamento e della ricostruzione delle modulazioni molteplici, variabili, eterogenee, della complicata trama di discorsi e di pratiche a partire da cui gli uomini si sono curati della follia – anche se in genere di quella degli altri – può essere ricondotto, forse persino ridotto, al tentativo di rompere le evidenze accecanti e le certezze troppo sicure di sé affinché gesti appunto troppo facili – internare un uomo, soffocarne o sequestrarne la parola, sospenderne i diritti, somministrargli un farmaco, fissarne l’identità, poco importa se definita come patologica – ritornino a essere difficili. Tutte le conoscenze che sull’enigma della follia si sono costruite, tutti i saperi che sul tentativo di ridurre, se non di abolire, il rapporto “tra l’uomo e i suoi fantasmi, il suo impossibile, il suo dolore senza corpo, la sua carcassa durante la notte” si sono formati, tutti i discorsi che sullo sforzo di rischiarare, se non di cancellare, l’oscura appartenenza dell’uomo alla sragione, si sono edificati, prima e più radicalmente di quanto essi fossero già in grado di fare da soli, Foucault li ha costretti a interrogarsi su di sé – ovvero a compiere quell’esercizio critico, e autocritico, che rappresenta, da almeno due secoli a

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aut aut, 351, 2011, 71-90

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questa parte, ciò che è più proprio della riflessività e della coscienza di sé di una modernità che si è venuta sviluppando contemporaneamente alla costituzione di un sapere psicologico e psicopatologico. E lo ha fatto proprio perché era convinto che quei saperi e quei discorsi potessero sussistere – come del resto possono vivere una società, o addirittura un individuo – solo nel e grazie al lavoro effettuato su se stessi, in virtù dell’esercizio di una critica permanente su di sé e sulle istituzioni, gli apparati, i dispositivi, di cui si sono dotati. Era insomma a questo lavoro del pensiero su se stesso, all’interno di una scena nella quale il pensiero è una forza accanto ad altre forze che entrano in gioco, si mettono a rischio, affrontano dei pericoli, che Foucault aveva ridato, dopo Nietzsche, ma in altro modo, il nome antico di genealogia – e addirittura, come si era arrischiato a dire in qualche rara occasione, di “genealogia della morale”. Non è un caso, allora, se un giorno, introducendo l’edizione americana dell’AntiEdipo, Foucault ha scritto che si trattava di “un libro di etica”, anzi del “primo libro di etica apparso in Francia da ormai molto tempo”. Stava parlando di un libro e di un’etica singolari. Quel che però lì Foucault non diceva è che quel libro era stato a sua volta reso possibile anche dal libro che lui aveva scritto dieci anni prima. Qui vorremmo allora sostenere che quel libro è un libro morale, forse persino un libro di morale, e addirittura un libro che è opera di “un moralista”, come a Foucault (secondo una fonte apocrifa) accadde di definirsi una volta. Ma un moralista di tipo nuovo, il quale, piuttosto che “farci la morale” – com’è accaduto da quando questa è stata ridotta, come avevano già denunciato, ciascuno a suo modo, Kant e Nietzsche, alla semplice enunciazione normativa di un codice che ha finito con l’identificarsi con “tutti i precetti antichi e moderni”, con la Legge, infine addirittura con il diritto –, ha immaginato le forme possibili di una “rivoluzione morale”. Una rivoluzione a partire dalla quale fosse nuovamente possibile immaginare una pratica della democrazia in cui l’esperienza della sragione avrebbe potuto trovare un suo luogo, magari instabile, incerto, provvisorio, ma pur tuttavia aperto a una modulazione agonistica, a un affrontamento inter72


minabile, nel quadro dei rimaneggiamenti incessanti, perché indecidibili, dei nostri “giochi del vero e del falso”. Vi sono libri il cui singolare destino è quello di diventare qualcosa di più e di diverso da un libro. Si tratta di quei libri che trasformano i nostri modi di percepire e di pensare, e insieme i nostri modi di essere e di vivere. Libri che modificano la concezione che ci facciamo di un oggetto o di un problema, e che con una necessità altrettanto rigorosa implicano che i gesti con cui ci accostiamo a loro, i rapporti che intratteniamo con essi, non siano più i medesimi. Per molti, la thèse pubblicata nel 1961 è stato uno di questi libri, punto di partenza di tutte le sue indagini successive. Il problema che lì poneva ritorna infatti, sia pure diversamente formulato, anche nelle ultime lezioni al Collège, dove è possibile sentire riecheggiare ancora una volta la vocazione e l’intenzionalità morale di un’opera esorbitante e “sragionevole” come la Storia della follia, con cui Foucault aveva inteso porre alla cultura contemporanea una questione filosofica – metafisica, se si vuole – e un’interrogazione etica. La prima è quella delle “radici calcinate del senso”, come scriveva nella prefazione originaria, ovvero quella della sragione e della follia (prima della loro dissociazione) come limite assoluto, punto di fissione e sprofondamento di ogni senso e di ogni significato, rovescio incontornabile di ogni verità e principio di rimessa in questione della nostra libertà (e delle concezioni che ce ne facciamo). Di qui veniva il progetto di una “storia dei limiti – di quei gesti oscuri, necessariamente dimenticati non appena compiuti, attraverso i quali una cultura rigetta qualcosa che di lì in poi rappresenterà per essa qualcosa come l’Esteriore”. Limiti – e spostamento dei limiti – che sono parte del regime di verità che decide della natura (democratica oppure no) del nostro vivere politico; gesti con cui ci proteggiamo, o crediamo di proteggerci, dal tragico che sussiste al di là di ogni dialettica e al di qua di ogni ragione. La questione etica è quella che Foucault legava al gesto inaugurale di Descartes che tracciava il partage tra ragione e follia e che implicava, egli diceva, una “scelta etica”. Una scelta liberamente compiuta, una “scelta fondamentale come condizione del73


lo stesso esercizio della ragione”, il cui esito sarebbe stato dapprima l’esclusione e poi la trasformazione della follia in qualcosa che, dopotutto, “non è che follia”, passibile di studio scientifico e oggetto di misure di simple police, ridotta, come oggetto di sapere, al rango di malattia mentale e investita di tutte le inquietudini ma a titolo di problema di semplice gestione sanitaria e di ordinario controllo sociale. Una scelta, inoltre, che veniva effettuata in assenza di quel lungo esercizio meditativo, inscritto nella remota storia dell’epimeleia heautou, capace di produrre la trasformazione e la trasfigurazione del soggetto stesso, tale per cui l’accesso alla verità non comporta più la messa in gioco del soggetto che vi accede, non implica più la “prova” (la messa alla prova) di sé e della verità, poiché la sua forma è diventata quella della scienza, da cui sono state espulse quelle che chiamerà, anni dopo, le “condizioni di spiritualità”. In cui, infine, l’uomo “normale” potrà leggere in forma rovesciata, è stato detto, tutte le proprie verità. Nel libro del 1961 Foucault cominciava insomma a interrogare le pretese di verità dei discorsi che si sono voluti scientifici e le loro condizioni di possibilità, ma per far emergere il fatto che la lunga deviazione attraverso le strutture della reclusione mostra che quanto si era offerto come accesso alla positività del sapere medico non era altro che la fragile rete delle razionalizzazioni collocate alla superficie della storia, che da quella storia tutta una serie di esperienze e di modi di costituzione di sé erano stati definitivamente estromessi, e che il problema del soggetto della scienza, della conoscenza vera, aveva preso il posto del soggetto dell’azione retta e della condotta libera – tale per cui di quella libertà potrà anche, all’occorrenza, essere privato. Foucault ha dunque innanzitutto tentato di mandare all’aria le evidenze e le certezze, anche quelle apparentemente marginali relative alla storia (qui di un sapere che aspira a diventare scienza) per consentirci di “distaccarci da noi stessi”, come dirà nel 1984, e mettere così “in trappola la nostra cultura” con gli strumenti di quella stessa cultura. La Storia della follia non ha infatti nulla a che spartire con le storie tradizionali della psichiatria. Tutte queste sono organizzate intorno a una definizione medico-clinica della ma74


lattia mentale, partono dall’identificazione della natura della follia, da ciò che oggi sappiamo – o presumiamo di sapere – della sua essenza, dalla definizione positiva della sua verità attuale, per ricostruire poi il cammino che ha condotto, da un’apprensione oscura, ingenua e immediata della follia, alla positività della scienza, a un sapere elaborato all’interno di un’istituzione che ne ha consentito la descrizione, l’analisi e in sovrappiù il trattamento, rendendo possibile ricondurre la follia allo sregolamento morale, all’alterazione delle facoltà, al disturbo dello psichismo e oggi, infine, al disfunzionamento della dinamica neuronale. Mentre le storie tradizionali del sapere psichiatrico raccontano il cammino che ha consentito di passare dagli errori, confusioni e travisamenti del passato alle nostre verità, rese possibili dai lumi della scienza medica, per Foucault si è trattato invece di ricostruire il modo in cui ogni epoca elabora il proprio archivio della follia, ovvero la percepisce, la enuncia, la prende in carico, e così facendo finisce col costruirla. A tal fine, ha scritto Foucault, era necessario restare i più prossimi e fedeli possibile all’esperienza della follia così come si è espressa in un’epoca, di rispettarne la singolarità e l’irriducibilità, senza riportarla fin da subito al sapere medico che ne abbiamo attualmente, senza interpretarla alla luce dei codici che sono i nostri oggi. Ma così facendo, ovvero tracciando la genealogia dello stesso sapere attuale sulla follia, viene minata la pretesa della psichiatria di valere come sapere scientificamente consistente capace di dare una definizione fondata e oggettivamente valida della follia, destinata ad autorizzare ogni presa su di essa. Si mostrano piuttosto le nervature, le faglie, le dimensioni molteplici che surdeterminano il sapere psichiatrico e lo orientano segretamente. L’obiettivo politico (e non polemico) di Foucault è stato quello di mostrare che nella sua storia non è all’opera solo un processo di razionalizzazione crescente della sua grammatica e delle sue procedure, anche operative, ma innanzitutto un processo di oggettivazione della follia in malattia che non può essere ridotto alla semplice liberazione di una verità positiva. Ecco perché il libro del 1961 ritorna con insistenza sul gesto – sui gesti ripetuti – del 75


partage che viene istituito come gesto di fondazione e di origine assoluta di un discorso, di una pratica e di un sapere. È infatti a quel gesto (e alle sue ripetizioni) che Foucault imputa l’atto che dissocia – in forme sempre rinnovate, come in un gioco di permutazioni in perenne tensione e trasformazione – senso e non senso, logos e delirio, ragione e sragione, ed è solo a partire di lì, sosteneva Foucault, che diventa possibile avviare l’impresa di una conoscenza positiva della follia, con tutto il suo carico di arbitrarietà, parzialità, e ovviamente anche violenza, ma insieme anche con tutto un gioco di relazioni, agonismi, antagonismi possibili e indecidibili che sono la vera posta in gioco, nella ricostruzione di Foucault, di quanto avviene in quello spazio chiuso, ma in cui non si cessa di circolare – al suo interno, e dall’interno all’esterno e viceversa – che è il manicomio. La genealogia della psichiatria a cui Foucault non ha smesso di dedicarsi poggia dunque su un vero e proprio partito preso filosofico e morale. La Storia della follia non mira infatti a mostrare in che modo, dopo secoli di menzogne, errori, travisamenti, illusioni, la follia sarebbe diventata ciò che in fondo sarebbe sempre stata, vale a dire malattia mentale. Quella che Foucault chiama un’“archeologia dell’alienazione”, e che sviluppa attraversando una messe enorme di materiali – l’archivio della follia non è costituito solo dagli enunciati medici, ma anche dalle disposizioni amministrative, dalle deliberazioni istituzionali, dalle tesi filosofiche, dalle decisioni politiche e dalle misure di police –, mira a ritrovare qualcosa come le “esperienze fondamentali” fatte dall’Occidente in relazione alla follia. A partire dall’esperienza del Rinascimento, ove la follia è appresa a partire da una coscienza cosmica e tragica al contempo, in cui si rinviene l’agitazione sfrenata di visioni che alludono a un “altro mondo” – che è la figura simmetrica del “mondo altro” a cui si riferirà nelle sue analisi finali sui cinici – e in cui la follia pone al nostro mondo, nella sua manifestazione apparente, fragile, provvisoria, il problema della sua verità – una verità su cui instancabilmente si concentrerà l’intera ricerca foucaultiana, fino alla “vita di verità” intravista nell’epimeleia cinica. Ma è solo a partire dall’età classica che la follia co76


mincia a essere percepita come delirio, parola vuota, priva di senso, e l’esistenza di chi la proferisce come priva di utilità e persino pericolosa. La follia diventa così negatività pura, sullo sfondo di un mondo che sta per essere trasformato dall’avvento di un modo di produzione, quello capitalistico, alle prese con il problema della forza-lavoro e del controllo di popolazioni che resistono all’inquadramento disciplinare. Proprio per questo la follia, confusa all’interno della vasta plaga della popolazione sragionevole, si è trovata confinata nelle grandi strutture dell’esclusione e della reclusione, in cui comincerà ad annodare oscure e spaventose parentele. Non senza, tuttavia, che abbia cominciato a porre alla ragione la questione di ciò che assicura il mantenimento del suo linguaggio in una struttura, appunto, razionale. Da tale interrogativo che mina le certezze della ratio la cultura occidentale uscirà solo nel momento in cui si compie, all’alba della nostra modernità, la trasformazione della follia in malattia mentale, ovvero comincia a essere appresa come disorganizzazione intellettuale, alterazione dello psichismo, disfunzionamento dell’apparato cerebrale, ma sullo sfondo di un disordine che resta un disordine morale. La follia è diventata, a quel punto, affare di appropriazione medica che, se pure ne consente il governo e il controllo all’interno di quelle strutture d’ordine che sono i manicomi, pone comunque il problema, diceva Foucault, delle conseguenze del fatto che l’uomo abbia potuto costituirsi come oggetto di sapere a partire dalle figure della sua perdita, e che in particolare sia stato possibile elaborare il paradigma della normalità a partire dalle manifestazioni dell’anomalia. È stato infatti solo quando è iniziata l’analisi dell’uomo alienato che hanno cominciato ad apparire, egli sosteneva, le definizioni dell’uomo normale (esattamente come avverrà per la clinica medica). Ma allora la follia esiste? Ed è possibile conferirle un preciso statuto ontologico? Per Foucault la costituzione di un soggetto avviene a partire da come è potuto innanzitutto apparire dall’altro lato di un partage normativo, diventando oggetto di conoscenza a titolo di folle, malato, delinquente, per mezzo di pratiche (di saperi, istituzioni, politiche) che sono quelle della psichiatria o del77


la medicina clinica o della penalità. E ciò comporta alcuni principî di metodo. Come dirà nel 1978, si tratta di lasciare da parte come oggetto primo, originario, sempre già dato, la nozione di follia intesa come universale, che l’analisi – medica, filosofica, sociologica, storica – utilizza per rendere conto dell’effettiva pratica psichiatrica. Per Foucault si tratta, al contrario, di partire da tale pratica così come essa si esercita, e al contempo così come essa riflette su di sé e si dota di certe forme di razionalità, per vedere come possa costituirsi un certo numero di cose sul cui statuto occorrerà ulteriormente interrogarsi. Insomma, invece di partire dagli universali come griglia di intelligibilità obbligatoria per un certo numero di pratiche concrete, Foucault decide di partire da tali pratiche concrete per poi sottoporre, in un certo senso, gli universali al vaglio di queste. Non si tratta di storicismo, aggiungeva però subito, nella misura in cui quest’ultimo assume gli universali come dati, partendo dai quali tenta di vedere in che modo la storia li moduli, li modifichi e giunga infine a confermarli oppure a rigettarli come privi di valore. Foucault suppone, piuttosto, che gli universali non esistano, ma non tenta di stabilirlo a partire dall’esame della storia per verificare se essa restituisca qualcosa come la follia e, una volta verificato che non vi troviamo nulla di simile, giungere alla conclusione che la follia non esiste. Il metodo di Foucault consiste, al contrario, nel supporre che gli universali non esistano, per chiedersi, a partire da tale assunzione, quale storia dei differenti eventi, delle differenti pratiche, delle differenti strategie di presa in carico, trattamento, cura, governo (strategie che, almeno in apparenza, si organizzano intorno a qualcosa che si suppone sia la follia) diventa possibile. Non si tratta, dunque, di “interrogare gli universali utilizzando come metodo critico la storia, ma di partire dalla decisione dell’inesistenza degli universali per chiedersi quale storia sia possibile fare”. In una prospettiva di questo genere, dire che la follia non esiste non significa affatto affermare che essa non sia niente. “Mi si è fatto dire che la follia non esisteva, quando il problema era per me esattamente il contrario.” La follia è ciò che il discorso che di essa parla ne dice, ne ha detto e ne dirà, e questo, per uno con78


vinto che l’oggetto non possa essere separato dai quadri storici e formali attraverso i quali ne prendiamo atto e dai discorsi per mezzo dei quali ne parliamo, non significava affatto che essa possa essere ridotta a un puro nulla. Significa piuttosto che il manicomio, così come tutto l’arsenale clinico, teorico, psicopatologico e terapeutico, costituisce una macchina per produrre dei folli in nome e grazie a una scienza medica della malattia mentale. Come mostrano gli ultimi tre capitoli della terza parte del libro, è però innanzitutto in virtù dell’iscrizione in un orizzonte e in una prospettiva di carattere morale che la psichiatria si è potuta costituire come sapere, come terapeutica, come istituzione. Una volta liberata dalle antiche prossimità e identificazioni (col mondo della miseria, del peccato, del crimine), la follia, divenuta oggetto di un progressivo investimento da parte dello sguardo medico, e di una nuova localizzazione nello spazio dell’internamento manicomiale, è diventata un’entità del tutto nuova. Si è trattato, secondo Foucault, dell’effetto di una gigantesca operazione terapeutica deliberatamente configurata come “trattamento morale” che, attraverso tutta una serie di tattiche e di tecniche – dalla minaccia all’umiliazione, dalla sorveglianza al disciplinamento, dal giudizio alla sottomissione – intende realizzare la rieducazione delle passioni, il controllo degli impulsi e l’addomesticamento degli istinti, attraverso cui si mira a ridurre la forza scatenata della follia in modo che il folle sia condotto a riconoscere di essere colpevole della sua stessa libertà – di ciò che lo rende, in verità, non libero (come ripeterà ancora un secolo e mezzo dopo Henry Ey, solo in parte rettificato da Jacques Lacan quando scrive che l’essere dell’uomo non sarebbe davvero tale se “non portasse in sé la follia come limite della sua libertà”) e alla fine “responsabile” di essa. È così, sosteneva Foucault, che il folle è diventato estraneo a se stesso, alienato. E soltanto nello spazio chiuso dell’internamento potrà avvenire la dolorosa presa di coscienza del suo stato di folle, uno stato che dovrà essere avvertito come colpa e anomalia patologica, da riconoscere come tale e come tale da verbalizzare e confessare. Solo a queste condizioni il folle potrà intraprendere il cammino della guarigione: accettando – nel79


l’angoscia e attraverso una continua e inquieta endoscopia e un attivo controllo di sé – l’identità che il medico gli conferisce e che dovrà riconoscere come la propria. In questo l’alienistica rivela la sua vocazione morale e politica: da un lato, autenticare medicalmente la reclusione di chi minaccia e turba l’ordine pubblico; dall’altro, allestire il dispositivo della normalizzazione intesa come la condizione essenziale di una moralizzazione, destinata a estendersi all’insieme del corpo sociale. Per via di questa sua iscrizione originaria negli apparati dell’amministrazione dello stato la storia della psichiatria appartiene pertanto, sosteneva Foucault, alla storia dell’organizzazione politica della città e risulta strettamente legata alle tecnologie della moderna moralità. Il manicomio emerge infatti da subito come struttura che, a causa delle sue caratteristiche architettoniche, istituzionali, burocratiche, è incaricata di far regnare “l’oscura legge dell’ordine integrale e totale”, ove si mettono in atto tutte le misure necessarie a rimuovere i fattori del disordine sociale e morale. In questo, si potrebbe dire, il manicomio e la psichiatria sono stati un laboratorio formidabile, che ha contato innanzitutto in relazione all’esperienza del governo delle anime e delle condotte degli uomini – e oggi delle nostre democrazie – e che in particolare ha reso possibile l’operazione simmetrica e complementare di caratterizzare sempre più in termini patologici i fenomeni della marginalità sociale, della differenza etnico-razziale e dell’antagonismo politico, come Foucault mostrerà nei suoi corsi al Collège de France nella prima metà degli anni settanta. A lungo la psichiatria, infatti, si è occupata di entità, gruppi sindromici e intere categorie nosografiche per cui l’anatomia patologica non mostrava alcuna eziologia organica fondata; eppure, ciò non ha impedito di denunciare come follia i sintomi manifestati e di ritenere in larga parte incurabili e croniche le patologie in questione. Il che significa che il suo principio di realtà – diceva Foucault – la psichiatria l’ha trovato altrove rispetto alla presunta solidità fattuale del suo oggetto: nella pericolosità e nella gravità sociale dei comportamenti di individui che improvvisamente si scostano dalla normalità. Nel sottile crinale che separa la normalità dall’irruzione im80


provvisa dell’anomalia, e quindi della patologia, la psichiatria ha cercato a lungo l’elemento destinato a supplire all’inconsistenza anatomo-patologica del suo oggetto. Solo che si trattava di un elemento la cui realtà, per Foucault, è squisitamente politico-morale. Il che ha consentito al dispositivo psichiatrico di svolgere un ruolo decisivo anche nell’allestimento di discorsi e saperi che permetteranno di mettere a punto e di applicare all’intera popolazione quella che Foucault chiamerà la “biopolitica”. In essa e attraverso di essa, la psichiatria trova quel “corpo” che non trovava nei singoli folli, come dirà in Il potere psichiatrico. L’utilità marginale (ma tutt’altro che secondaria) di tale operazione sarà l’estensione del campo di intervento della psichiatria, che non si limiterà più a individuare – a supporto delle operazioni di police – i soggetti pericolosi, ma potrà così aprirsi alle grandi politiche sanitarie dell’igiene delle popolazioni, al grande programma medicopolitico incentrato sul partage tra le razze, che sarà uno dei grandi laboratori del razzismo contemporaneo. E oggi il campo psichiatrico, psicopatologico, psicoterapeutico, si va ulteriormente e indefinitamente estendendo, nell’attesa che si perfezioni il processo destinato a riportare la verità degli individui al fondamento biochimico della plastica neuronale. Oggi, infatti, l’assistenza psichiatrica si è dislocata e riorganizzata secondo nuovi modelli, incentrati attorno all’ipotesi preventiva e terapeutica, ben prima del rigetto nel manicomio, forse diventato addirittura superfluo. Le frontiere iniziali del manicomio sono diventate incerte, mentre la psichiatria è sempre più chiamata a occuparsi della salute mentale dell’intera popolazione, fino alla prescrizione di regole d’esistenza sotto la cauzione di un sapere, quello psichiatrico, sempre più sottoposto all’imperio delle neuroscienze. E non a caso stiamo assistendo alla nascita di una disciplina, la neuroetica che, poggiando sulle acquisizioni delle neuroscienze, intende operare un radicale rinnovamento della filosofia morale e formulare risposte totalmente nuove alle domande tradizionali dell’etica, iscrivendosi così a pieno titolo nel quadro complessivo della riflessività occidentale sui modi e le forme della conduzione di se stessi – comprese le più estreme, radicali, ai limiti della cancellazione di sé. 81


Tutti i grandi cicli dell’indagine foucaultiana potrebbero allora essere intesi come un tentativo di leggere le ragioni dell’inflessione che i legami tra libertà, verità e stilizzazione dell’esistenza – nel cui volume si sono dispiegate le diverse forme della soggettività, ivi compresa la soggettività “sragionevole” – hanno assunto, dando luogo a una storia in cui il ruolo della morale è stato ridotto, per l’essenziale, a quello di una forza che ha prodotto disciplinamento, controllo, assoggettamento, normalizzazione, obbedienza: quella dell’Altro al Medesimo, all’interno delle peripezie di un’identità che il lavoro genealogico si dedicherà appunto a disfare, come avviene nella Storia della follia; quella di una “coscienza morale che agisce nell’io”, sotto forma di giudice severo e di censore implacabile, per mezzo di una “tendenza alla sorveglianza e alla punizione” che Freud attribuiva al Super-io e che Sorvegliare e punire sosterrà essere il prodotto di un “fuori” che fabbrica i nostri corpi e le nostre anime, per giungere infine a mostrare come la psicologia sia diventata ormai “la nostra sola morale”. E si potrebbe continuare. Fino alla constatazione contenuta in Le parole e le cose secondo cui per noi “moderni” non vi sarebbe più alcuna “morale possibile”, dal momento che ha cessato di esistere, diceva Foucault, non appena il pensiero è fuoriuscito da sé diventando un’azione che non solo prescrive, delinea un futuro, indica cosa si debba fare, esorta o annuncia, ma non può inoltre “impedirsi di liberare e di asservire”. Nel libro del 1966 Foucault aveva infatti formulato la diagnosi seguente: “A parte le morali di carattere religioso, l’Occidente ha probabilmente conosciuto solo due forme di etica: quella antica (nella forma dello stoicismo o dell’epicureismo), la quale si articolava sull’ordine del mondo […]; quella moderna che, al contrario, non formula alcuna morale, e questo nella misura in cui ogni imperativo è già collocato all’interno del pensiero e del suo movimento per recuperare l’impensato”. Il pensiero moderno, concludeva Foucault, “non ha mai potuto proporre una morale”, ma non per difetto o incapacità, bensì per via dei caratteri specifici della modernità filosofica, per l’essenziale ormai subordinata ai procedimenti e al regime discorsivo inaugurato dalla “ragione scientifi82


ca”. La cosa fondamentale (per “l’esperienza moderna”) è infatti che il pensiero risulta essere, “per sé medesimo e nello spessore del proprio lavoro, a un tempo sapere e modificazione di ciò che esso sa, riflessione e trasformazione del modo d’essere di ciò su cui esso riflette”. Il pensiero moderno, sosteneva Foucault, non ha dunque bisogno di morale, poiché in sé e come tale è già un’azione, che instaura l’uomo nel sapere di cui la scienza è la forma compiuta e razionale, dotata di caratteri capaci di assorbire, in qualche modo, la morale rendendola vana e forse persino superflua. Il pensiero è cioè diventato, in se stesso, al livello della sua esistenza, “fin nella sua forma più aurorale”, un’azione, un “atto rischioso”. Di fronte a cui, ma soprattutto all’interno del quale, la sola posizione ed esperienza possibile – per noi che viviamo ormai “al di fuori di ogni promessa e in assenza di virtù”, per noi che non consideriamo neppure più desiderabile, e figuriamoci praticabile, la rivoluzione, come Foucault non si stancava di ricordarci agli inizi degli anni settanta – sembra essere quella della “spiritualità, della trasformazione dell’essere del soggetto a opera del soggetto stesso”, come dirà in L’ermeneutica del soggetto, e quella del coraggio, del coraggio della verità. Che implica una disposizione etica nei confronti dell’alterità, della differenza, della sragione, della follia che ne è la modulazione. E un lavoro, instancabile e interminabile, capace di “introdurre una differenza significativa nel campo del sapere”, sola condizione per avere accesso “a un’altra figura della verità”. Non è un caso, allora, che alla fine della vita proprio questa continui a essere la posta in gioco decisiva del suo lavoro. E ancora l’ultimo corso, giunto al termine di un ciclo che invece si era proposto di mostrare come vi siano state nella storia altre strade, altre possibilità, altri eventi, e come pertanto, correlativamente, altre esperienze attendano di essere intraprese, altre eventualità di essere percorse, altre costruzioni di essere tentate, proprio a questo mirava: scavare la differenza nel nostro pensiero, mostrare che noi, e la nostra attualità, siamo differenza. Lo schema che in quest’ultimo corso Foucault delinea ci consente da un lato di riscrivere integralmente la storia della morale e della riflessività etica in Occidente, e dall’altro di delineare l’intera vicenda foucaultiana 83


sub specie moralis. Nel primo caso mostrando come l’etica della parresia, e dell’epimeleia in cui si iscrive, abbia dato luogo, accanto a una “catartica della verità”, accanto all’insieme delle condizioni “spirituali” necessarie affinché il soggetto sia capace di rendersi soggetto di verità, ovvero capace di accedere alla verità, anche a un’etica del coraggio, del coraggio della verità, con la “lotta per la verità” che essa implica, con gli affrontamenti e i pericoli reali che essa comporta. Si delinea così un “modo di vita”, una “forma di vita”, che è “prova” costante – questo era per Foucault l’esperienza –, esame, esercizio e verificazione permanente del bios che introduce un principio di sovversione radicale rispetto a tutta quanta la tradizione della filosofia morale che si è definita nel volume delineato dal discorso profetico, da quello della saggezza e da quello del sapere, in cui sarà la “vera vita”, sperimentata come “vita altra”, a essere il criterio del discorso vero. Nel secondo caso, consentendoci di leggere la vicenda del “professore al Collège de France” come innestata in maniera non arbitraria o contingente su quella del “militante”, con le sue battaglie, le sue prese di posizione, le prove, gli scontri e i pericoli che aveva scelto di affrontare. Altrettante esperienze della sragione, forse, grazie a cui si trattava di spostare ulteriormente il limite, la soglia, del nostro essere non “a distanza dalla follia, ma nella distanza della follia”. È nel contesto del progressivo sviluppo della sua “piccola storia della verità” in Occidente, come l’aveva chiamata, che Foucault colloca, alla fine degli anni settanta, l’apertura del cantiere sulla governamentalità, nel quale a essere messo a tema è il problema del “governo degli uomini per mezzo della verità” (come dirà nel corso del 1980), dove il governo consisteva, egli diceva, nel “condurre la condotta degli uomini”, nel dirigere i loro gesti, le loro azioni e soprattutto i loro pensieri, e che è un’azione, una pratica, che non può essere svolta senza compiere “delle operazioni nell’ordine del vero”. E già a partire dal primo corso al Collège è proprio l’insieme delle procedure di “estrazione” della verità che Foucault comincia a studiare. E in particolare è attraverso l’esame dell’aveau che Foucault comincia a indagare il “doppio senso della parola ‘soggetto’”: soggetto “all’interno di una rela84


zione di potere, soggetto in una manifestazione di verità”. L’aveau quale si definisce progressivamente all’interno del sacramento penitenziale nel cristianesimo primitivo è ciò che gli consente di porre il problema storico della costituzione di un rapporto tra governo degli uomini e “atti riflessi di verità” attraverso cui si delinea quello che chiamerà il “cristianesimo come morale”, per l’essenziale incentrato su un regime di verità “ancorato alla soggettività”, ovvero in cui il governo degli uomini funziona in base a un atto di verità in cui il soggetto è al contempo l’attore, l’operatore dell’aleturgia, il testimone-spettatore e l’oggetto, ovvero colui che dice, nell’atto stesso con cui manifesta la sua obbedienza, non solo ciò di cui è stato testimone o ciò che ha fatto, ma anche chi egli sia, che è l’ingiunzione fondamentale con cui Foucault fa cominciare una nuova epoca della civiltà occidentale e di cui la messa in atto delle tecniche del trattamento morale – la confessione e il riconoscimento della propria follia – sarà uno dei terminali. Comincia proprio allora una lunga indagine che porterà Foucault a indagare il regime in virtù del quale gli uomini sono stati obbligati a stabilire, rispetto a se stessi, un rapporto di conoscenza permanente, a braccare al fondo di se stessi tutti i segreti che vi abitano e che sfuggono loro, e infine a manifestare tali verità “segrete e individuali” attraverso degli atti – atti di verità, appunto – che avranno degli effetti, così vorremmo, di liberazione – e forse di salvezza – che consentiranno di stabilire tra sé e se stessi un nuovo tipo di rapporto, quello che ci ha trasformato in “bestie da confessione”, dirà in La volontà di sapere. Se la confessione e il riconoscimento della (propria) follia sono la condizione morale della guarigione, secondo l’alienistica agli inizi della vicenda della psichiatria, Foucault si dedicherà in seguito a farne la genealogia, studiando le pratiche penitenziali, attraverso cui giunge a mostrare come per mezzo degli atti previsti da tali rituali, l’anima sia sottoposta a un processo di trasformazione che la costituisce, da un lato, come soggetto di conoscenza, ma dall’altro anche come oggetto di obbedienza che passa attraverso una serie di prove che hanno come terreno elettivo “un gioco che è quello del puro e dell’impuro” e che è il fondamento della nuova morale che sta nascendo, al cui 85


centro si troverà ormai, come sola via d’accesso alla verità, la purificazione, ovvero l’esercizio permanente di una vigilanza, di un’autoauscultazione e di un’ascesi sulla parte di impurità destinata a restare in fondo al peccatore. Di qui il carattere essenziale della soggettività inaugurata dal cristianesimo, ovvero il timore su se stessi, il timore intorno a ciò che si è, e che fonderà un nuovo rapporto di sé con se stessi, un certo tipo di esercizio di sé su se stessi e un certo tipo di verità che il peccatore dovrà incessantemente scoprire e sorvegliare al fondo di se stesso, a partire da cui diventerà possibile tutta una nuova serie di pratiche di governo dell’anima e dei corpi fondate sull’obbedienza, e che Foucault aveva posto al centro anche delle sue analisi precedenti sull’esperienza della follia. Non è un caso, allora, che il ciclo finale della ricerca foucaultiana si concluda con una lunga meditazione sull’esperienza più folle e scandalosa della storia della filosofia, quella cinica, alla cui singolare e talora bizzarra posterità rinvenuta nell’esperienza rivoluzionaria, in quella artistica, o ancora in quella sragionevole del nipote di Rameau, vengono dedicate pagine che dovranno essere riprese un giorno. I cinici mostrano infatti che quello della verità non è solo un problema di adeguazione tra discorso e referente, tra parole e cose, tra significante e significato, bensì anche, e soprattutto di bios philosophikos, ovvero di una vita che manifesta la verità attraverso la forma conferita alla vita stessa che diventa “vera vita”. Vale a dire una vita nella verità e una vita per la verità. I cinici traducono tale esigenza nella forma della protesta, della ribellione, della rivendicazione incondizionata nei confronti dei governanti, della città, degli altri uomini, di una parresia intesa come libertà di azione, di vita e di parola. I cinici si pongono infatti sulla linea sottile e difficile che sta tra l’accettazione della necessità dell’ordine del mondo e il rifiuto di tutto ciò che impedisce agli uomini di vivere una vita di verità. Su quel confine incerto e difficile si tratta, per i cinici, di fare la prova permanente del pensiero in atto, di combattere le parole vuote attraverso l’uso delle parole come di armi e di mettere in atto gesti e pratiche di vita capaci di essere, agli occhi degli altri uomini, manifestazione e persino scandalo della verità. Essi riducono la vita alla sua struttura 86


elementare, a ciò che esiste prima di ogni nomos e di ogni regola generale, significato, convenzione, e la verità alla sua manifestazione più elementare, semplice, persino triviale. Il sapere cinico è infatti un sapere bellicoso, diceva Foucault, un sapere di lotta, il cui armamentario e le cui esigenze sono ridotti all’essenziale: il cinico è povero, nudo, tiene discorsi di volta in volta adatti alla circostanza e alle relazioni strategiche sussistenti, ma a tale inedia materiale fa da contraltare la sua assoluta signoria morale e spirituale. È insomma come se i cinici avessero dato vita a un compendio di tutta quanta la morale antica, distillandone le virtù essenziali, corrispondenti alle quattro figure fondamentali della verità – ciò che non è nascosto, non dissimulato; ciò che non è mescolato ad altro, puro; ciò che è conforme alla legge (naturale); ciò che risulta inalterabile e identico a sé – e che tutti, per via della loro evidenza e semplicità, potevano mettere in atto unicamente grazie alla volontà e all’ascesi, ma dando inevitabilmente luogo a una sorta di rovesciamento iperbolico che le trasforma in pratiche e in comportamenti eccessivi, fino alla derelizione – o alla follia. Avremo così – ed è impossibile non riconoscere qui alcune delle figure che hanno scandito le manifestazioni della sragione esaminate dalla Storia della follia – l’impudicizia, la povertà fino all’umiliazione, l’animalità, la sovranità alterata e miserabile, frutto della prescrizione che illustra la vita del cinico, “l’alterazione della moneta (paracharattein to nomisma)”, sostituire l’effigie della moneta corrente con un altro volto. Ciò significa introdurre un radicale principio di contestazione, una specifica forma di discordanza, un particolare tipo di dissonanza: per il cinismo non si tratta più di stabilire semplicemente un qualche genere di conformità, una corrispondenza, tra le prescrizioni della verità e i caratteri del proprio comportamento. Il cinico mette in atto quello che pensa e quello che enuncia come verità, ma al contempo, in quello e con quello che dice non si limita a enunciare delle verità (teoriche o dottrinali), bensì compie degli atti: di interpellazione, interrogazione, contestazione, messa in discussione, persino aggressione, poiché tenta di fare del discorso la superficie da cui traluce il contenuto di verità, di far sì che il vero si manifesti direttamente nel87


la vita, negli atti e nei comportamenti del soggetto. Ma accanto al bios alethes, il dir vero del cinico funzionerà anche come ricusazione delle supposte verità del mondo e degli uomini, dei valori politici e morali considerati ovvi ed evidenti, richiamando a un’altra verità, capace di dar vita a un altro modo di vivere. Il dir vero cinico richiama gli uomini alla capacità della verità di intervenire nella vita e di trasformarla. Ma lo fa deformando e rovesciando tanto il logos quanto il bios, con la conseguenza di provocare la trasvalutazione di tutti i valori, compresi quelli elaborati dalla filosofia. Il cinismo mostra così che la vita non dovrà esitare di fronte a nulla, non dovrà temere di sconvolgere ordini, valori, norme, anche a rischio di diventare occasione di scandalo e di disgusto. Cercando di far sì che le norme del vero trapassino nel bios, che i logoi veri divengano effettivamente etopoietici, la stessa verità cambia, assumendo un volto inatteso, persino mostruoso e aberrante. Il cinico infatti fa l’esperienza di una libertà e di un’indipendenza assolute (rinunce, povertà, erranza) che finisce col rovesciarsi nel suo opposto (elemosina e schiavitù); vive in assoluta conformità alla sola legge riconosciuta, quella di natura, e finisce col fare dell’animalità la regola della propria vita; pratica un’autosufficienza e una padronanza di sé che si erge come l’autentica sovranità, solo che si tratta di una sovranità di derisione e miseria. Insomma, il cinismo ha posto a tutta l’antichità una domanda radicale e fondamentale, che a proposito dei rapporti tra soggettività e verità è all’origine di una posterità che si manifesterà in movimenti politico-sociali, esperienze religiose, espressioni artistiche, esistenze sragionevoli: “La vita, per essere veramente la vita di verità, non dovrà forse essere una vita altra, una vita radicalmente e paradossalmente altra?”. Domanda simmetrica e complementare all’interrogazione metafisica platonica, allorché aveva postulato l’esistenza di un altro mondo come condizione di possibilità della verità nel sapere e nel logos. Platonismo e cinismo sarebbero così alle origini di un duplice movimento – che appare in forma condensata e contratta nella posizione cartesiana a proposito della follia – del pensiero occidentale, quello fondato sull’“esperienza metafisica del mondo” e quello che ha a che fare con l’“esperienza stori88


co-critica della vita” per il quale “non può esserci instaurazione della verità senza una posizione essenziale dell’alterità: non può esserci verità se non nella forma dell’altro mondo e della vita altra”. Portando al culmine la filosofia, mostrando la verità con la propria vita, il proprio corpo, la propria condotta, i cinici avrebbero dunque realizzato la forma più radicale di parresia, quella per la quale si tratta di fare del bios il punto di manifestazione più intenso e radicale dell’aletheia, che per parte sua diventa puro evento, irruzione dell’inattuale nel presente, scandalo e sollevamento, in una relazione consustanziale e necessaria con il rischio e il pericolo, laddove il coraggio cessa di essere un’attitudine virtuale e si trasforma in postura, condotta e verità fisica. La sola forma di coraggio che io conosca è quella fisica, ha detto una volta Foucault, e di esso egli darà prova in mille circostanze. Ci potremmo allora chiedere se, con l’analisi del coraggio parresiastico, Foucault non abbia cercato di fornirci una genealogia indiretta di alcuni aspetti del suo lavoro filosofico, delle sue poste in gioco e del suo militantismo, dopo essere intervenuto sulla nascita dell’homo psychologicus a partire da quella parte di ombra irriducibile che è rappresentata dalla sragione, sull’assenza d’opera che accompagna “la grande opera della storia” e che, nella forma di un affrontamento interminabile e di una lotta incessante che spostano di continuo il “limite”, decide della nostra esperienza della democrazia. Un’opera su cui quell’“opera” morale che è la Storia della follia ha fatto un certo giorno irruzione. I suoi effetti durano ancora – non fosse altro per via di tutto ciò che abbiamo fatto per difendercene. Ma si tratta, occorre ricordarlo, infine, di un’opera che ha assunto la forma dell’analisi storica. E l’analisi storica, sosteneva Foucault, serve a “fare le differenze” nel nostro pensiero, mostrando che le parole, e con esse i saperi, le pratiche, le istituzioni, e le forme di vita, che vi si correlano, non conservano sempre lo stesso significato e lo stesso valore, e pertanto non sono neppure condannate a ripeterlo. La storia, infatti, è ciò che può schiudere la possibilità che si produca una trasformazione. La storia ci dice come siamo diventati quello che siamo, ma anche che sarebbe possibile – a ogni istante – diventare diversi da quello che siamo. 89


Riscoprire, attraverso la cura di sé, il soggetto etico ha significato per Foucault riaprire la possibilità di inventare nuove forme di soggettività e nuove modalità di (r)esistenza, ha significato rendere possibile una nuova e diversa articolazione con la politica, tale per cui ridivenga attuale, in un tempo in cui tutto sembra favorire l’apparizione di nuove servitù, trasformare noi stessi e diventare capaci di proferire una parola libera e vera. Una parola che magari non sarà capace di rimarginare ferite o sanare quell’“insondabile dolore” che Foucault aveva posto come sola definizione decente della sragione, ma almeno non ci farà vergognare troppo di noi stessi. Oggi, diceva alla fine Foucault, la cura di sé potrebbe allora prendere il nome dell’“indocilità riflessa”, cioè una modalità di resistenza che passa attraverso tutto un lavoro di rielaborazione e di analisi di ciò a cui si oppone: la sua forma potrebbe essere quella di un impegno politico-filosofico volto a disfare le nostre identità e a inventare nuove forme di vita. Un’“invenzione” grazie a cui lo sguardo su noi stessi, sugli altri, sulla sofferenza e sulla differenza, ne uscirebbe forse trasformato. Come invitava già a fare Spinoza quando scriveva che poiché è “legge suprema di natura” che ciascuna cosa si sforzi di persistere per quanto può nel proprio stato, ne segue che ciascun individuo ha “pieno diritto a esistere e a operare così come è naturalmente determinato. E qui noi non riconosciamo alcuna differenza tra gli uomini e gli altri individui della natura, né tra gli uomini dotati di ragione e gli altri che ignorano la vera ragione, né tra gli stolti, i pazzi e i sani”. Foucault ha rimpiazzato la natura, le leggi di natura, con la storia, gli eventi della storia, insieme ai discorsi, ai saperi, alle conoscenze che li hanno preparati, accompagnati, e talvolta ne sono stati la fragile giustificazione, per rendere possibile che vengano gridati “tutti i nomi della storia”, come voleva Nietzsche: per qualcuno di avere finalmente un nome, per qualcun altro di non averne più nessuno, prima di svanire comunque in un silenzio rispetto a cui la pretesa di proferire un’ultima e definitiva parola – su noi stessi e su quella “stranezza” che ancora fatichiamo a ritenere “legittima” – non solo rivelerà di non essere nulla più di un’illusione, ma avrà mostrato anche la propria profonda indegnità. 90


Materiali 2 Storia della follia e antipsichiatria [1973] MICHEL FOUCAULT

i presento a voi gravato dal peso di due difetti, di due mancanze. Quella di essere influenzato e quella di non essere né psichiatra né antipsichiatra; a dire il vero, rimpiango non tanto il fatto di non essere psichiatra, quanto piuttosto di non essere antipsichiatra, perché ho l’impressione che qui si stia delineando una sorta di investimento teorico che deve cingere d’assedio i temi e le pratiche dell’antipsichiatria, e io non sono sicuro di trovarmi nella posizione migliore per essere colui che respingerà questi attacchi. Sono soltanto uno storico e vorrei, come storico, cercare di spiegarvi in che modo vedo la nascita di questa antipsichiatria. Lo farò di certo con una competenza inferiore a quella, ammirevole, che è appena stata espressa dal dottor Ellenberger. Come lui, anch’io penso che non esista un’antipsichiatria, ma piuttosto degli antipsichiatri, e su questo punto concordo pienamente con lui; tuttavia tra le nostre analisi ci sono forse alcuni punti di divergenza. Adotterò un punto di vista che probabilmente vi sembrerà troppo lontano, e che non è nemmeno storico, bensì quasi etnologico. Comincerò dicendo quanto segue: credo che, in realtà, l’idea se-

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Trascrizione della conferenza tenuta da Foucault a Montréal il 9 maggio 1973, nel quadro del colloquio organizzato da Henri F. Ellenberger dal titolo “Faut-il interner les psychiatres?”. Si tratta della trascrizione della registrazione della conferenza, di cui non esiste una versione scritta. La prima versione del testo francese è recentemente apparsa in “Cités”, fuori serie, 2010; una seconda versione è apparsa nel recente “Cahier de l’Herne” dedicato a Foucault e pubblicato nel febbraio 2011.

aut aut, 351, 2011, 91-107

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condo cui la verità sarebbe universale, eterna, che vi sia verità ovunque e sempre, e che dappertutto attorno a noi la verità incomba, ci attenda, sia presente in silenzio, passiva e addormentata, aspettando il momento in cui getteremo lo sguardo su di essa e infine la risveglieremo, l’idea che la verità e l’universale coincidano, sia un’idea da filosofi, dunque un’idea da studiosi che ha avuto corso lungo l’intera storia di quello che potremmo chiamare il nostro imperialismo culturale. E tuttavia se consideriamo la trama, la fibra della nostra società, della nostra civiltà, delle nostre istituzioni, ci accorgiamo che in fondo abbiamo sempre, anche in uno stadio avanzato, delle tecniche, dei rituali, delle istituzioni che hanno la funzione di determinare, di isolare momenti specifici o luoghi differenziati, a partire dai quali la verità potrebbe infine rifulgere: come se, alla fin fine, la verità non fosse propria di ogni luogo, né di ogni tempo, ma dovessero esserci luoghi in cui la verità esplode e appare, momenti in cui la verità può essere colta, momenti in cui viene alla luce. Esiste dunque tutta una geografia culturale della verità. E c’è nelle nostre società, o per lo meno c’è stata, nella società, una geografia delle sedi profetiche. I filosofi greci si chiedevano perché, appunto, si ritenesse che la verità dovesse parlare a Delfi e, dopotutto, noi abbiamo ancora, nelle chiese e nelle università, dei luoghi che chiamiamo “cattedre”, da cui si suppone che la verità parli. Anche la cella del monaco, l’isolamento monastico, costituivano a loro volta una modalità di predisporre un determinato luogo geografico in cui la verità avrebbe potuto prodursi. C’è stata inoltre una sorta di cronologia della verità. Consideriamo nel pensiero medico, a partire da Ippocrate, la nozione assai singolare di crisi; che cos’è stata per secoli la crisi nel pensiero medico dell’Occidente? La crisi è stata il momento, è stata definita come il momento in cui la vera natura della malattia si sarebbe infine potuta manifestare, in cui l’evoluzione effettiva della malattia si sarebbe delineata. Il momento della crisi era quello della decisione, quello in cui viene effettuata la separazione tra la vita e la morte. E il ruolo del medico, rispetto alla crisi, non era 92


quello di chi, in un certo senso, interveniva e la risolveva, ma era piuttosto quello dell’organizzatore, di colui che, ponendosi accanto alla crisi, parallelamente a essa, la spiava, l’appoggiava, la sosteneva, la favoriva; attraverso un certo numero di artifici, un certo numero di tecniche, quasi di incantesimi, egli permetteva alla crisi di essere il momento in cui la verità si sarebbe infine prodotta. Si potrebbe dire, allo stesso modo, che anche nelle pratiche giudiziarie, per secoli, si è cercata la verità, ma non tanto attraverso il sistema dell’inchiesta, bensì attraverso un sistema che era quello della prova; si organizzava una sorta di rituale, al contempo un luogo e un momento, in cui si pensava che la verità avrebbe potuto prodursi e avrebbe potuto farlo in modo folgorante, prodursi come una folgore. Era infatti il Giudizio di Dio a dover decidere chi avesse ragione e chi fosse nel vero! Esisteva dunque, in un certo senso, tutta una geografia, tutta una cronologia differenziata della verità. In altre parole, la verità non è sempre stata concepita come l’elemento stesso dell’universale. Nella nostra cultura, anzi, è durata per secoli, e forse non si è ancora spenta, l’idea secondo cui la verità è un evento che si produce, e che si produce in certi luoghi e in certi momenti. Si potrebbe quasi dire – lo dico con cautela e a titolo di semplice ipotesi – che il momento in cui l’idea secondo cui la verità è un evento che si produce semplicemente in certi luoghi e in certi momenti, ha cominciato a essere seriamente messa in discussione, mi sembra, con le grandi tecniche legate alla navigazione, vale a dire quando si è stati obbligati a inventare strumenti grazie ai quali fosse possibile individuare, scoprire, definire, formulare la verità in un qualunque luogo e in un qualunque momento. La nave, luogo senza luogo, perduto in uno spazio infinito, che deve a ogni istante determinare la propria situazione, rappresenta, in un certo senso, l’immagine stessa, il problema stesso che si trova al cuore della nostra società: in che modo, ovunque e da qualsivoglia punto di vista, cogliere la verità? Il grande problema della navigazione è stato il momento fondamentale della rottura, non tanto nella coscienza scientifica, ma in quella che chiamerei la tecnologia della verità. 93


Questa però era solo una parentesi. In ogni caso se si pone il problema in termini di tecnologia della verità, il problema del rituale, del procedimento, grazie al quale far esplodere la verità, si incontra evidentemente fin da subito il problema dell’ospedale. Parlando di ospedale, non intendo solo l’ospedale psichiatrico, ma l’ospedale in generale. Quali erano nel XVIII secolo le funzioni dell’ospedale? Ebbene, credo che fossero precisamente due. Una specie di funzione in qualche modo moderna per l’epoca, propria dell’ospedale del XVIII secolo, era appunto quella di costituire un luogo di osservazione in cui la verità era in un qualche modo già presente, tutta quanta dispiegata, e si offriva allo sguardo di chiunque. L’ospedale, nel XVIII secolo, era in fondo l’analogo di un giardino botanico; doveva infatti essere un luogo in cui tutte le malattie potevano essere osservate, caratterizzate, confrontate, differenziate, raggruppate in famiglie, classificate ecc. L’ospedale era il giardino botanico del male; era, se volete, l’erbario vivente dei malati. Sotto un altro aspetto, e secondo la sua funzione non più moderna ma, se volete, arcaica, l’ospedale nel XVIII secolo doveva esercitare un’azione diretta sulla malattia. Il ruolo dell’ospedale era quello di permettere alla malattia di produrre la sua verità, non solamente di mostrarla, ma di farla esistere come un evento. In effetti, in quell’epoca si ammetteva che il malato, a partire dal momento in cui lo si lasciava nel suo ambiente, nella sua famiglia, con chi lo circondava, con il suo regime, i suoi pregiudizi, le sue abitudini, le sue illusioni ecc., non potesse che essere colpito, fondamentalmente, da una malattia complessa, aggrovigliata, contorta, una sorta di falsa malattia, mentre si riteneva che solo in quella sorta di spazio di purificazione e di decantazione costituito dall’ospedale la malattia potesse produrre, finalmente, la sua vera natura, potesse esplodere in piena luce mostrando il suo volto autentico. Dunque, l’ospedale era il luogo di osservazione della verità della malattia, ma al contempo anche il luogo di produzione della malattia; ed era un fattore di produzione della verità della malattia. Ebbene, io credo che questa ambiguità dell’ospedale o questa duplice funzione dell’ospedale nel XVIII secolo si ritrovi ancora a lungo, e che fin verso il 1860, vale a 94


dire quasi un secolo fa, l’intera pratica, l’intera teoria della specializzazione, direi persino più in generale l’intera concezione della malattia fossero governate da questa specie di gioco, di ambiguità, di equivoco o di surdeterminazione. In un certo senso, le funzioni dell’ospedale in cui risiede uno dei grandi problemi del pensiero medico del XIX secolo sono governate dal problema seguente: la terapia deve forse consistere essenzialmente nel sopprimere il male dal momento in cui appare, oppure bisogna, al contrario, che la terapia attenda lo sviluppo, la produzione del male nella sua verità, per poter agire? Stava qui tutto il problema dell’alternativa tra i sostenitori dell’attesa e i fautori dell’intervento. Vi era anche un altro problema: se è vero che esistono malattie autentiche e poi malattie che sono malattie di malattia, malattie aberranti, malattie deformate, non si può forse ammettere alla fine che esista una sola malattia fondamentale di cui tutte sarebbero derivazioni e come forme indirette e secondarie? In questo consiste fondamentalmente la disputa che si è svolta tra Broussais e i suoi avversari, all’inizio del XIX secolo. Si pone anche il problema di sapere cosa sia in fondo la vera malattia. Che cos’è una malattia normale? La malattia normale è forse quella che, spontaneamente, guarisce o quella che fatalmente conduce alla morte? La questione affrontata da Bichat è proprio il problema della malattia tra la vita e la morte. Infine, potete vedere come tutti i grandi problemi teorici della medicina, nel XIX secolo, siano ancora dominati fondamentalmente dal ruolo ambiguo della pratica ospedaliera. La scomparsa dei problemi è poi dovuta, evidentemente, alla prodigiosa semplificazione che la biologia di Pasteur ha introdotto in tutto questo. A partire dal momento in cui Pasteur ha determinato qual era l’agente patogeno, il giorno in cui Pasteur ha fissato questo agente responsabile della malattia come un organismo singolare, allora la biologia di Pasteur ha permesso che l’ospedale diventasse un luogo in cui non doveva più svolgersi la produzione della malattia e in cui bastava, da una parte, diagnosticare la malattia, cioè dire cosa essa fosse, e dall’altra interdire a livello stesso di questo agente il momento produttivo della verità della malattia; quel momento poteva essere eluso. 95


Mi scuso per aver aspettato tanto a parlare di quello che deve essere l’oggetto specifico del mio discorso, vale a dire l’ospedale psichiatrico e il problema dell’antipsichiatria. Mi sembra, tuttavia, che questo breve richiamo fosse un po’ necessario per arrivare a comprendere in modo adeguato la posizione del folle e quella dello psichiatra all’interno della storia stessa dello spazio ospedaliero. Credo che esista una correlazione storica tra questi due fatti, che cercherò di mostrare. Ancora nel XVIII secolo, la follia non costituiva oggetto permanente e regolare dell’internamento. E durante questo stesso periodo oppure almeno sino alla fine del XVIII secolo, la follia non era percepita tanto come un disturbo del comportamento, un modo di agire come non si deve, una sorta di perturbamento delle passioni. Non era questo la follia nel XVIII secolo, nell’epoca in cui, appunto, non la si internava. La follia era essenzialmente un certo modo di giudicare male, di percepire male, di ingannarsi. La follia era vista essenzialmente come fondata sull’errore. E, dopotutto, nei confronti della follia si era tanto tolleranti, o relativamente tolleranti, se volete, quanto lo si poteva essere nei confronti dell’errore; la follia faceva parte di tutte le chimere del mondo, e la si internava solamente quando diventava estrema o pericolosa. Capite bene come in quel momento, se è vero che la follia era essenzialmente una forma di errore, in quelle condizioni l’internamento non fosse possibile. Quali erano di fatto le condizioni per poter guarire la follia o sopprimere quel momento di errore? Evidentemente non poteva essere la tecnica consistente nel rinchiudere il malato in uno spazio artificiale come l’ospedale. I luoghi terapeutici, i momenti terapeutici, i rituali grazie ai quali poter guarire dovevano appartenere a un ordine completamente diverso da quello dell’ospedalizzazione. Oppure si ricollocava, si cercava di ricollocare il malato nella natura stessa poiché, dopotutto, la natura non è altro che il volto visibile della verità. Dunque, ricollocare il malato nella natura, farlo viaggiare, costringerlo a fare passeggiate, indurlo a una vita ritirata, organizzare per lui una condizione di riposo, soprattutto allontanarlo dal mondo artificiale e vano della città, della lettura, dei romanzi, delle passioni, 96


costituiva tutto l’arsenale terapeutico fondamentale nel XVII e nel XVIII secolo. E del resto, nel XIX secolo, se ne ricorderà ancora Esquirol poiché, quando organizzerà i suoi grandi ospedali psichiatrici, raccomanderà che tutti i padiglioni si aprano su un vasto giardino. Il giardino rappresenta la natura come luogo di guarigione della follia, a partire dal momento in cui essa diventa furiosa. Inoltre, l’altro grande momento rituale terapeutico era costituito dall’esatto contrario della natura, dalla natura rovesciata, ovvero dal teatro, vale a dire dall’organizzare attorno all’errore del malato un mondo fittizio, elaborato, in modo tale che alla fine il malato, all’interno di questa commedia che si rappresentava per lui e che egli doveva appunto accettare poiché assomigliava alla sua follia, si trovasse come in un labirinto, ricondotto finalmente in ultima istanza alla verità e alla realtà. Arrivava a liberarsi dall’errore per mezzo del meccanismo stesso della commedia che si allestiva attorno a lui, e anche in questo caso Esquirol non dimenticherà la lezione, poiché raccomanda proprio che, quando si ha a che fare con un malinconico, gli si faccia credere di trovarsi preda di una serie di processi innumerevoli, così da stimolare la sua energia e il suo gusto di combattere. Dunque, vedete che la pratica dell’internamento era in fondo assolutamente contraddittoria rispetto all’idea stessa che ci si faceva della follia nel XVIII secolo. La pratica dell’internamento comincerà nel XIX secolo, in un momento ben preciso, quello appunto in cui la follia sarà avvertita meno nel suo rapporto con l’errore che non in quello con la condotta regolare e normale. Sarà la nozione di normalità, di comportamento normale, a costituire il correlato teorico della pratica dell’internamento. La follia sarà definita all’inizio del XIX secolo non come giudizio perturbato ma come disturbo nel modo d’agire, nel modo di volere, nel modo di avere passioni, di provare sentimenti, nel modo di prendere decisioni, e così via: la follia cesserà di iscriversi lungo il grande asse verità-errore-coscienza, per iscriversi lungo un asse completamente diverso: quello passione-volontà-libertà. È il momento di Hoffbauer, è il momento di Esquirol: “Ci sono sicuramente degli alienati il cui delirio è appena visibile”, dice quest’ultimo, “ma non 97


c’è alcun alienato le cui passioni, le cui affezioni morali non siano disordinate, pervertite o annientate. L’attenuazione del delirio non è dunque una guarigione certa se non quando gli alienati ritornano alle loro destinazioni normali”. E allora, in queste condizioni, se è vero che la follia è essenzialmente lo sconvolgimento dell’asse o dei due poli: passione-azione-libertà-volontà, se è proprio questo, quale sarà il processo di guarigione? Il ritorno alla verità? Niente affatto. Piuttosto un altro tipo di ritorno, e ancora una volta vi cito Esquirol: “Il ritorno alle destinazioni normali nei loro giusti limiti”. Il desiderio di rivedere gli amici, di rivedere i propri figli, le lacrime della sensibilità, il bisogno di aprire il proprio cuore, di ritrovarsi in mezzo alla propria famiglia, di riprendere le proprie abitudini, ecco, secondo Esquirol, cosa caratterizza davvero la guarigione. E allora, in queste condizioni, cosa potrà provocare un simile ritorno? Di certo, non la riscoperta della verità. Ciò che potrà permettere questo ritorno alla norma, al modo normale di agire e di sentire sarà proprio l’ospedale. Inteso non come luogo di osservazione, ma piuttosto come luogo di affrontamento tra, da una parte, la passione e la volontà perturbate del malato e, dall’altra, la passione e la volontà ortodossa del medico e del personale ospedaliero. L’ospedale diventa dunque il luogo all’interno del quale si organizzerà il faccia a faccia, lo choc inevitabile e, a dire il vero, auspicabile di una volontà malata che potrebbe peraltro restare benissimo impercettibile poiché non delira, e di una volontà retta che è quella del medico. L’ospedale sarà dunque questo luogo di affrontamento, questo luogo di lotta, questo luogo di opposizione, e ci sarà guarigione quando da questa lotta, da questo conflitto, da questa opposizione uscirà qualcosa come la vittoria della volontà retta, vale a dire il dominio del medico e l’assoggettamento del malato. Vi cito ancora Esquirol: “Bisogna applicare un metodo perturbatore, spezzare lo spasmo con lo spasmo. Lo spasmo del malato con lo spasmo del medico. Bisogna soggiogare il carattere arcaico di certi malati, vincere le loro pretese, domare il loro impeto, spezzare il loro orgoglio; tuttavia, si deve eccitare e incoraggiare l’altro”. Si allestisce così, come potete vedere, la fun98


zione molto singolare dell’ospedale psichiatrico nel XIX secolo. L’ospedale psichiatrico del XIX secolo conserverà sicuramente, porterà con sé il modello dell’ospedale che possiamo chiamare generale, vale a dire che sarà anch’esso il grande recinto botanico in cui le specie delle malattie vengono suddivise nei famosi padiglioni, inquadrate, disposte secondo i piani di Esquirol, quella sorta di grandi padiglioni che fanno pensare a un vasto orto di rape e di carote, ma, nello stesso tempo, l’ospedale sarà lo spazio chiuso per un affrontamento, sarà il luogo di un agone, sarà un campo istituzionale in cui si svolge una gara, non tra la verità e l’errore ma tra la vittoria e la sottomissione. Il grande medico del manicomio, che si tratti di Leuret, o di Charcot, o di Kraepelin, è colui che può dire la verità sulla malattia, grazie al sapere che ha su di essa, ma è al contempo colui che può produrre la malattia nella sua verità e che può sottometterla nella realtà grazie al potere che la sua volontà esercita sul malato stesso. Tutte le tecniche o le procedure messe in atto nei manicomi del XIX secolo, che si tratti dell’isolamento, dell’interrogatorio privato o pubblico, dei trattamenti di punizione, come la doccia, il trattamento morale (incoraggiamenti, rimostranze ecc.), la disciplina rigorosa, il lavoro obbligatorio, le ricompense ai malati docili, i rapporti preferenziali tra il medico e il tal malato, le relazioni di vassallaggio, di possesso, di appropriazione, di domesticità, talvolta persino di servaggio tra il malato e il medico, tutto questo, come potete vedere, ha la funzione di fare del personaggio del medico il padrone della follia, colui che l’ha fatta apparire nella sua verità, mentre essa si nasconde, mentre tenta di restare sommersa e silenziosa, e al contempo colui che la domina e che, dominandola, la addomestica, la riassorbe, la fa tacere dopo averla sapientemente scatenata. Il fatto è che, storicamente, se considerate l’ospedale non psichiatrico, nel XIX secolo potete vedere un’evoluzione o piuttosto una grande rottura, che può essere ricondotta al nome di Pasteur. A partire da questa grande rottura, l’ospedale generale, l’ospedale cosiddetto medico è tale per cui la funzione di produzione della malattia è interamente schivata, elusa, stemperata. Al contrario, durante lo stesso periodo, sempre nel corso del XIX secolo, si può 99


vedere come l’ospedale psichiatrico assuma una direzione completamente opposta, poiché attorno al personaggio del medico, di cui Charcot può evidentemente rappresentare il nome simbolico per eccellenza, si incentra la funzione di produzione della malattia, di messa in luce della malattia, di scatenamento della malattia, di lotta con la malattia, di dominio della malattia, ed è questa funzione che si esalterà nell’ospedale psichiatrico proprio all’epoca in cui sta scomparendo nell’ospedale generale. E dunque possiamo contrapporre al nome di Pasteur quello di Charcot. L’ipotesi che vorrei ora avanzare è questa: mi sembra che la crisi sia stata aperta e, di conseguenza, l’età dell’antipsichiatria sia cominciata quando si è avuto il sospetto, trasformatosi presto in certezza, che il grande padrone della follia, colui che la faceva apparire e scomparire, Charcot, era colui che non produceva la verità della malattia ma che ne fabbricava l’artificio. Il giorno in cui si è scoperto che Charcot fabbricava a richiesta le celebri grandi crisi di isteria, ci si è accorti che la Salpêtrière non era il luogo in cui si compiva la tenzone tra la ragione e la follia, ma quello in cui si fabbricava, attraverso oscuri rapporti di potere, qualcosa che doveva sedurre così tanto il medico, e che era la crisi della donna isterica. Ebbene, quel giorno è cominciata, io credo, una crisi che doveva condurre all’antipsichiatria. Confrontiamo questo evento con quello della storia di Pasteur. Cosa rappresenta Pasteur? Molto semplicemente, l’uomo che ha detto ai medici: “State attenti, sulle vostre celebri mani, le vostre mani bianche, le vostre mani di verità, che mostrano la malattia là dove si trova, voi recate dei volgari piccoli germi che sono apportatori della malattia”. Questa imposizione dei guanti ai medici è stata una ferita narcisistica che i medici hanno perdonato a Pasteur solo dopo molto tempo. Bene, dirò cosa è capitato a Charcot in un’epoca non tanto lontana da quella di cui parlo; la scoperta che Charcot stesso fabbricava la sua malattia, fabbricava le sue malate, è stata, come credo, un altro grande trauma. Ma, mentre i medici propriamente detti hanno potuto superare la loro ferita narcisistica e ricondurla al livello della tecnostruttura, della provetta e del laboratorio, la psichiatria invece, davanti alla crisi 100


che si era così aperta, non ha potuto incontrare nient’altro che il problema dell’antipsichiatria. Mi sembra, in ogni caso, che tutte le grandi scosse che hanno colpito la psichiatria dalla fine del XIX secolo non abbiano tanto messo in questione il sapere dello psichiatra, ma abbiano soprattutto messo in questione, più che il suo sapere, più che la verità di quello che diceva, il potere dello psichiatra e il modo in cui lo psichiatra non tanto enuncia o non enuncia la verità della malattia ma produce la malattia, in virtù dell’esercizio stesso del suo potere. E da Bernheim a Laing o a Basaglia in questione è stato il modo in cui il potere del medico risultava implicato nella verità e, inversamente, il modo in cui la verità, enunciata dallo psichiatra, poteva essere fabbricata o compromessa o truccata dal potere. Cooper ha detto: “La violenza è al cuore del nostro problema”, e Basaglia: “La caratteristica fondamentale di queste istituzioni: fabbrica, ospedale, scuola, manicomio, è una separazione netta tra coloro che hanno il potere e coloro che non ce l’hanno”. Tutte le grandi riforme, non solo della pratica psichiatrica ma, credo, anche del pensiero psichiatrico sorto attorno al problema del rapporto di potere, tutte le grandi riforme, tutte le grandi crisi, tutti i grandi dibattiti sono altrettanti tentativi per spostare, per smascherare, per eliminare, per annullare, per disarmare questo rapporto di potere. Tutta la psichiatria moderna è fondamentalmente attraversata dall’antipsichiatria, e chiamo e intendo con antipsichiatria – cercando di darne una definizione di cui non dico che sia vera né che sia rigorosa ma almeno che sia comoda – tutto ciò che rimette in questione il ruolo di uno psichiatra, che un tempo era incaricato di produrre la verità della malattia nello spazio dell’ospedale. Ebbene, in queste condizioni credo che si possa parlare di “antipsichiatri” e, per terminare, vorrei proporvene una breve tipologia che, ancora una volta, non coinciderà affatto con quella certamente molto più esatta che il dottor Ellenberger ci ha presentato. Credo che ci siano, in fondo, tanti tipi di antipsichiatria quante sono le possibilità di modificare il rapporto di potere che esiste e che è stato storicamente instaurato tra lo psichiatra, il malato e la produzione della follia nella sua verità. 101


In primo luogo, chiamerei “antipsichiatria” la pratica che – all’interno del dibattito a tre termini: psichiatra, malato, produzione della malattia nella sua verità – consiste nel cercare di ridurre quanto più possibile l’ultimo di questi elementi, vale a dire la produzione della follia nella sua verità, per lasciare in un certo senso l’uno di fronte all’altro, nella loro nudità, il malato e il medico. Ridurre la produzione della follia e portare al contrario al loro maximum di intensità i rapporti di dominio tra lo psichiatra e il malato è il tipo di rapporto che troviamo, credo, nella psicochirurgia o nella psicofarmacologia, che tuttavia non vengono inserite abitualmente, come so bene, nella rubrica antipsichiatrica. Ma credo che anche queste tecniche, nella misura in cui cercano di manipolare e di contenere il grande problema dei rapporti di potere, di semplificarli sopprimendo uno dei termini, debbano essere integrate alla grande crisi dell’antipsichiatria aperta dall’epoca di Charcot. Nella psicochirurgia, nella psicofarmacologia si tratta, in qualche modo, di “pastorizzare” l’ospedale psichiatrico, di ottenere nel manicomio lo stesso effetto di semplificazione che Pasteur aveva imposto negli ospedali. Si tratta di articolare direttamente l’una sull’altra la diagnosi e la terapia, la conoscenza della natura o dell’origine o del supporto organico della malattia e la soppressione delle sue manifestazioni; di conseguenza, il momento di produzione della malattia nella sua verità, il momento della prova, quello della malattia che emerge, che giunge al suo compimento, non deve assolutamente risultare in una pratica di tipo farmacopsicologico o psicochirurgico. L’ospedale può diventare allora un luogo silenzioso in cui la forma del potere medico si mantiene nel suo senso più rigoroso senza dover mai incontrare la follia in quanto tale. Il malato e il medico si trovano faccia a faccia, una volta messa tra parentesi la follia. Chiamerò questa forma asettica, asintomatica dell’antipsichiatria una antipsichiatria o una psichiatria a produzione zero. In secondo luogo, un’altra forma di antipsichiatria è quella che consiste nell’agire non tanto sopprimendo il momento della produzione quanto piuttosto, al contrario, cercando di rendere più intensa possibile questa produzione della follia, adattando i rap102


porti di potere tra medico e malato a questa stessa produzione, sovrapponendo in qualche modo esattamente i rapporti di potere medico/malato all’attività produttrice di follia. Dunque, in queste condizioni, in queste forme dell’antipsichiatria, si sopprimono tutte le forme esteriori di tipo coercitivo: quella politica, quella amministrativa, quella istituzionale del potere dello psichiatra. Ci sono solo il malato e lo psichiatra che stabiliscono un’intesa, in un certo senso, in un rapporto più libero che è quasi contrattuale, in modo che i loro incontri, i rapporti d’amore, di desiderio, persino di potere che s’intrecciano tra loro siano esattamente organizzati in funzione della produzione della follia nella sua verità, e di essa soltanto. È in qualche maniera il modello a cui obbediscono la psicanalisi e, più in generale, tutte quelle che potremmo chiamare le psicoterapie di ispirazione psicanalitica. Qui, in questa specie di meccanismo, il medico non interverrà più come istanza di autorità autonoma, che pesa dall’esterno sul malato; non sarà più con le sue domande, le sue minacce, la sua disciplina che il medico svolgerà un ruolo, ma in un certo senso con il suo silenzio. Il silenzio è la famosa disposizione spaziale della cura psicanalitica ed è esattamente rappresentativo di quel singolarissimo rapporto che inaugura l’invisibilità del medico. Di conseguenza, la follia nella sua verità potrà trovare lì il suo luogo, ma resta nondimeno che questa presenza muta e insistente dietro il malato, la natura stessa della consultazione, il prezzo pagato per essa, i conseguenti imperativi economici e sociali di cui tutta la psicanalisi è intessuta investiranno in qualche modo di rapporti di potere, che sono rapporti politici, quello che era solamente un principio di produzione della malattia nella sua verità. L’adeguazione postulata tra il lavoro del transfert e l’esborso di denaro nella cura psicanalitica o psicoterapeutica è ciò che consente di supporre che in quelle procedure il potere del medico non ecceda mai il movimento con il quale la follia emerge nella sua verità. Potrei dire, se volete, che con la psicanalisi o le psicoterapie abbiamo un’antipsichiatria in cui rapporto di potere e prova di produzione sono sovrapposti con grande esattezza. 103


Terza forma di antipsichiatria è quella che, al contrario, verterà sull’illusione del personaggio medico. Illusione del personaggio medico e transfert, del malato solamente, del potere di produrre la follia e la verità della follia. Ebbene, in quella forma di antipsichiatria e, beninteso, in quella di Laing e di Cooper, la follia non è più ciò che il malato deve confessare, deve mostrare, deve manifestare su ingiunzione del medico, che sia per effetto dell’insistenza delle sue domande o dell’ostinazione del suo silenzio. Per prodursi, la follia non aspetta l’ingiunzione muta o loquace del medico; è piuttosto il compito che il malato deve eseguire, ciò attraverso cui deve passare, ciò a cui deve tendere. In un certo senso, si potrebbe dire, ed è stato detto, che simili tecniche riconducono dopotutto a concezioni mediche molto vecchie. Cosa significa questa idea secondo cui il malato deve attualizzare, drammatizzare lui stesso le sue virtualità di follia se non riprendere un po’, in fondo, quelle vecchie tecniche di teatralizzazione che si trovavano nel XVII secolo? Di fatto, io credo che se ne sia molto lontani. L’antipsichiatria di Laing e di Cooper assomiglia solo esteriormente a quelle procedure teatrali, nelle quali si trattava di entrare in un certo senso furtivamente nella follia del malato ricorrendo all’astuzia, per far sì che ne uscisse al più presto. Nella psicoterapia, secondo Laing e Cooper, si tratta al contrario di fare in modo che sia il malato stesso a poter entrare nella propria follia, all’interno della propria follia, fino in fondo alla propria follia. Egli deve farne l’esperienza fino ai suoi limiti estremi e solo alla fine deve uscirne, proprio nella misura in cui sarà andato fino in fondo. Non si dovrebbe dire, non si dovrebbe più farlo, che le tecniche di Laing e Cooper riprendono la vecchia idea secondo cui, dato che le malattie hanno una natura e un percorso proprio, il solo intervento del medico consiste nel non intervenire, nel lasciar fare e nel lasciare libero corso alla natura stessa della malattia. Infatti, se si leggono i testi di Laing e Cooper, si può vedere come non sia mai in questione lo svolgimento naturale o specifico della malattia. Si tratta piuttosto di una specie di compito che il malato che vuol guarire si attribuisce. E, come emerge molto chiara104


mente nel testo a proposito di Mary Barnes, il malato che vuol guarire assegna a se stesso il compito di andare proprio fino in fondo all’esperienza della follia. Si tratta di fare questa immersione volontariamente e non di lasciar avvenire un percorso naturale; si deve fare volontariamente questa immersione come unica uscita da una situazione in cui la follia si è trovata a essere precisamente, per il soggetto, la sola forma possibile di esistenza. Nell’illusione del personaggio medico, il confronto è solo di conseguenza tra il malato e la produzione della follia. Ma quale sarà allora il ruolo degli altri? Il ruolo degli altri è importante, ma degli altri non in quanto sono medici, in quanto detengono un’autorità qualunque, o per il loro sapere, o in quanto rappresentanti di una normalità; il ruolo che gli altri si trovano a dover svolgere è piuttosto quello di partner all’interno e al limite di questa esperienza. All’interno di questa esperienza, nella misura in cui gli altri diventeranno personaggi sui quali si articoleranno i desideri o i fantasmi del malato. Non sarà all’interno dell’opposizione malato/medico, anomalia/conformità, folle/non-folle che svolgeranno un ruolo; al contrario, lo svolgeranno all’interno stesso della follia. E, d’altra parte, essi resteranno sempre ai limiti della follia, in quanto partner, in un certo senso testimoni, che, con la loro comprensione, il loro atteggiamento, la loro capacità di analizzare, di verbalizzare ciò che accade, autenticano, convalidano in questo modo, agli stessi occhi di colui che fa questa esperienza terrificante, ciò che sta accadendo, conferiscono un’autenticazione all’esperienza in corso. Vedete che in questa forma di antipsichiatria, come è praticata da Laing e Cooper, è dunque in questione l’illusione del polo del potere medico, è in questione la demedicalizzazione dello spazio in cui si produce la follia. Un’antipsichiatria, di conseguenza, in cui a essere ridotto a zero è il rapporto di potere. E certamente, come vedete, il problema posto da tale demedicalizzazione della follia, questa organizzazione di una prova di follia nella quale il potere medico sarebbe ridotto a niente, ebbene questa demedicalizzazione non implica semplicemente, credo, un rimaneggiamento istituzionale degli istituti psichiatrici. Si tratta 105


senza dubbio di qualcosa di più di una semplice rottura epistemologica, forse anche più di una rivoluzione politica. La questione dovrebbe essere posta in termini di rottura etnologica. Forse non è semplicemente il nostro sistema economico, e nemmeno la nostra forma attuale di razionalismo, ma piuttosto tutta la nostra immensa razionalità sociale, così come si è intessuta storicamente a partire dai greci, ciò che attualmente contrasta con la tendenza a convalidare al cuore stesso della nostra società un’esperienza di follia che sarebbe prova di verità senza controllo del potere medico. Non dobbiamo stupirci, dunque, se è vero che solo una rottura etnologica permetterebbe di convalidare e di far posto nella nostra società a qualcosa come quelle prove di follia senza potere medico; non dobbiamo stupirci del fatto che le ricerche di Laing si orientino ora verso la rimessa in questione del nostro etnocentrismo. È nella logica stessa della ricerca. Infine, quarto tipo di antipsichiatria è quella che consisterebbe non esattamente nel supporre, come fanno Laing e Cooper, che il rapporto di potere possa essere eluso, possa essere messo tra parentesi, forse in qualche modo annientato di colpo. Al contrario, è un’antipsichiatria che considera che i rapporti di potere non sorprendono la follia dall’esterno sotto il solo volto del medico o dell’amministratore, ma che in fondo i rapporti di potere hanno intessuto l’intera esistenza del malato e hanno intessuto la sua follia. Di conseguenza, è proprio il far emergere e al contempo la distruzione – la distruzione politica di tutti quei rapporti di potere, tanto quelli che hanno reso possibile la follia quanto quelli che si esercitano contro la follia –, è questa distruzione di tutti i rapporti di potere a dover costituire il compito dell’antipsichiatria. Credo che sia questo a permettere di situare in tale vastissimo panorama le ricerche di Basaglia o quelle che sono condotte attualmente in Francia da persone come Guattari. E vedete che, infine, se si considerano ora queste ultime due forme di antipsichiatria che sono quelle a cui si riserva abitualmente il termine antipsichiatria – la psicofarmacologia, da una parte, e la psicoterapia analitica, dall’altra, non entrano in generale nella rubrica antipsichiatria –, se si considerano dunque queste ul106


time due forme, vedete che alla fine da una parte esse implicano entrambe, con Laing e Cooper, una rottura etnologica con tutto il nostro sistema di civiltà, mentre dall’altra l’antipsichiatria di Basaglia e Guattari implica un lavoro politico: un lavoro di lotta e di azione politica che cerca di sciogliere tutti i rapporti di potere che tramano, che intessono la nostra esistenza. Rottura etnologica e lotta politica. È senza dubbio in questa alternativa che attualmente si trovano prese non solo le correnti dell’antipsichiatria ma tutti i tentativi di qualunque genere che possiamo intraprendere e che si devono appunto intraprendere per cambiare le forme della nostra soggettività, vale a dire, infine e in ultima istanza, le condizioni della nostra esistenza attuale.

Traduzione dal francese di Valeria Zini

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Foucault 1970. “Storia della follia”, atto III JEAN-FRANÇOIS BERT PHILIPPE ARTIÈRES

e la discussione della tesi di dottorato di Foucault nel 1961, con la sua pubblicazione presso Plon con il titolo di Folie et déraison: histoire de la folie à l’âge classique, segna il primo atto della storia della sua “follia”, come Foucault stesso amava definirla, la riproposizione, fin dal 1963, in edizione tascabile e in versione ridotta, ne costituisce il secondo. Molto diffusa, la seconda edizione circolò ampiamente fra gli studiosi di scienze umane e sociali, diventando l’oggetto di letture tanto fra gli storici quanto fra i filosofi. Questi due momenti della ricezione, l’una accademica e controversa – occorre tenere presente l’accoglienza gelida di una parte della commissione d’esame –, l’altra attenta invece al progetto foucaultiano, ma inquieta per alcune delle sue proposte, contribuirono a fare di Foucault una figura importante del pensiero contemporaneo degli anni sessanta. D’altra parte, il filosofo non è risultato estraneo a questo riconoscimento, impegnandosi con forza e costanza a promuovere la tesi del suo lavoro, facendola conoscere laddove gli sembrava necessario, intervenendo a seminari, pubblicando articoli, replicando punto per punto ai suoi detrattori (si vedano le sue repliche a Lawrence Stone, George Steiner, o a Jean-Marc Pelorson per la Francia). Lungi dal lasciarsi la sua tesi alle spalle, Foucault non smetterà di difenderla e di riprenderla nei suoi cantieri: Nascita della clinica era costituita, dirà, “dai resti della Storia della follia”, l’indagine su Roussel ne sarà una sorta di appendice… Se per una

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aut aut, 351, 2011, 108-122


certa fase Le parole e le cose sposterà l’attenzione, a causa dell’immenso successo riportato al momento della sua pubblicazione e per via della proposta foucaultiana di un’“archeologia delle scienze umane”, all’inizio degli anni settanta la “follia” torna invece al centro della scena. Questa volta all’insaputa del suo autore, come lui stesso sottolineerà nella prefazione alla riedizione, resa necessaria da una nuova ondata di lettori. Foucault sarà trasformato in teorico francese dell’antipsichiatria. Un libro recuperato dai suoi contemporanei A partire da questo momento la Storia della follia è legata a una nuova forma di sensibilità sociale, che verte sulla rimessa in causa del funzionamento generale delle istituzioni terapeutiche. Gli ospedali psichiatrici vengono investiti dall’ondata di contestazioni del Maggio ’68. Assemblee generali fanno coesistere per la prima volta in uno stesso luogo, al di fuori dello stretto contesto terapeutico, sovente nella biblioteca degli ospedali, se non direttamente i malati e il personale di cura, perlomeno i medici primari e gli infermieri. Sarebbe un errore tuttavia fare del ’68 un momento di rottura nell’aggiornamento della psichiatria francese. Questa istituzione non ha atteso la fine degli anni sessanta per mettere in questione le sue pratiche e l’illusione, ancora radicata in alcuni operatori del settore, di un certo umanesimo terapeutico. La creazione presso l’ospedale di Saint Alban, a partire dal 1940, della psicoterapia istituzionale, che consiste in una ridefinizione profonda delle relazioni fra i malati, il personale curante e il mondo esterno, è stata seguita da una prima messa sotto accusa della struttura dell’ospedale psichiatrico.1 Nei primi anni sessanta questo processo ha un’accelerazione: il 15 marzo 1960, tramite una circolare ministeriale, viene avviata la politica di “settore”, che implica un cambiamento profondo nell’organizzazione delle cure. La psichiatria deve ormai affrontare i bisogni della popolazione, tentando di organizzare una risposta terapeutica che prenda in con1. J. Oury, Psychiatrie et psychothérapie institutionnelles, in P. Kaufmann (a cura di), L’apport freudien: éléments pour une encyclopédie de la psychanalyse, Bordas, Paris 1983.

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siderazione l’ambiente sociale nel quale evolve il malato. Ma queste contestazioni alla psichiatria proseguiranno ben dopo gli “eventi” del Maggio. Fino alla fine degli anni settanta gli antipsichiatri manterranno la speranza di un cambiamento, certamente dell’istituzione in se stessa, ma anche della società nel suo complesso, che viene giudicata responsabile di aggravare la condizione psicologica degli individui. Anche quando, dal 1972 in poi, lo spirito gauchiste comincia perdere la sua influenza, l’antipsichiatria francese continua a pesare nel dibattito politico e sociale, denunciando gli internamenti abusivi, le condizioni disumane di vita nei manicomi, le conseguenze a lungo termine dei neurolettici, ma anche, a partire dal 1973-1974, la “fliciatrie” (polizia psichiatrica), o come la chiamava Roger Gentis “psychoflicage” (psicopolizia), uno dei peggiori effetti della legge del 1838, dal momento che permette l’internamento di persone che soffrono di disturbi mentali senza ricorrere alla procedura dell’interdizione giudiziaria. Gli anni sessanta sono segnati, inoltre, da una modernizzazione dell’insegnamento di psicologia clinica. Gli studenti di medicina sono obbligati a seguire questo insegnamento già dal primo anno del loro corso di laurea. Fino al 1966, e a seconda delle università, sono previste ogni anno fra le 25 e le 100 ore di lezione di psicologia medica, in cui vengono affrontati più di ventisei argomenti, fra cui la psicoterapia, la farmacopea o ancora la relazione medico-malato. Il ’68 accelera questo processo di riforme, poiché è in quel periodo che viene istituzionalizzata l’emancipazione della psichiatria dalla neurologia. Tuttavia le ricadute reali sull’organizzazione e sul funzionamento dell’istituzione psichiatrica non sono state quelle che molti avevano sperato allora: non più il darsi del tu, non più la condivisione dei saperi, non più la solidarietà fra i pazienti e i curanti. I gruppi di lavoro non statutario scompaiono e l’impermeabilità tra i servizi riprende. Le critiche all’istituzione vengono tenute in considerazione. Nel momento in cui esce anche la Storia della follia, vengono pubblicati diversi saggi sulla psichiatria, sulle sue pratiche e sulla sua storia. Quello stesso anno Jean-Charles Pagé, ricoverato al Saint Jean de Dieu, il più grande ospedale 110


psichiatrico del Québec, pubblica Les fous crient au secours. La sua testimonianza, di rara violenza, l’anno seguente determina la creazione di una Commissione di studio sugli ospedali psichiatrici, voluta dal governo del Québec.2 Sempre nel 1961 Frantz Fanon pubblica per Maspero I dannati della terra. Fanon si mostra ipercritico nei confronti del sapere psichiatrico, sottolineando come quest’ultimo possa essere utilizzato quale strumento di dominazione, ma soprattutto come mezzo di legittimazione e di giustificazione delle posizioni di dominio esistenti. Fanon non faceva che riprendere una critica che aveva già mosso dieci anni prima in Le syndrôme nord-africain, un saggio uscito sulla rivista “Esprit” nel 1952, in cui egli tenta di far emergere il carattere asimmetrico della relazione medico-malato, ma soprattutto il rapporto sapere-potere proprio della psichiatria, che predispone la diagnosi e prende la decisione dell’internamento.3 Nel 1965 Jean Oury, Roger Gentis, Horace Torrubia e Félix Guattari danno vita alla Société de psychothérapie institutionnelle. Un anno più tardi, lo stesso Guattari avvia le pubblicazioni della rivista “Recherches”, il cui numero speciale del giugno 1967, intitolato Programmation, architecture et psychiatrie, affronta la questione architettonica e urbanistica, tentando di riflettere sull’ubicazione degli edifici di cura e accoglienza nella città. Lo stesso anno Fernand Oury e Aida Vasquez fanno uscire, sempre per i tipi di Maspero, Vers une pédagogie institutionnelle, lavoro nel quale si battono esplicitamente contro la moltiplicazione delle istituzioni “concentrazionarie” e “gerarchiche” che strutturano la società contemporanea nel suo insieme. In termini di pubblicazioni, il 1968 è altrettanto importante. L’anno si apre, in gennaio, con il Li2. Sul lavoro di questa commissione, cfr. P. e E. Koechlin, Corridor de securité, Maspero, Paris 1974. 3. Lo stesso anno la rivista “Esprit” pubblica un numero speciale dal titolo Misère de la psychiatrie, curato da Albert Béguin, con contributi di Paul Sivadon, Georges Daumézon, François Tosquelles e altri. Nella sua introduzione, Albert Béguin non lascia alcun dubbio sull’oggetto di quel numero, un’introduzione che, sotto tutti gli aspetti, coincide con quanto Foucault dirà qualche anno più tardi: “Se è vero che ogni civiltà sposta i limiti di tolleranza al di là dei quali essa pone l’alienazione mentale, deve essere pure vero che una civiltà si giudica, in parte, dalla definizione che essa si dà, consapevolmente o meno, della follia, e dal genere di impegno che essa stessa le consacra” (“Esprit”, 12, 1952, p. 783).

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vre blanc sur la psychiatrie, scritto da un gruppo di psichiatri e testimonianza di una psichiatria impegnata, risolutamente orientata verso l’attività di prevenzione e di insegnamento. La posta in gioco di un simile libro bianco è di preparare la psichiatria ai futuri cambiamenti strutturali, fra cui l’aumento del numero di psichiatri privati e l’avvento di un nuovo imperativo economico ed etico circa la cura e la presa in carico dei malati. Il 1968 si chiude con la traduzione francese di Asylums (uscito negli Stati Uniti nel 1961). La violenta denuncia dell’universo manicomiale e dell’istituzione psichiatrica da parte del sociologo Erving Goffman dimostra che quella stessa istituzione non deve niente alle ragioni mediche. A partire dal 1969 la critica dell’istituzione psichiatrica è affrontata in diverse riviste, fra cui “Études freudiennes”, il numero 46 (febbraio-marzo 1969) della rivista “Partisans” (intitolato Garde-fous, arrêtez de vous serrer les coudes),4 un dossier della rivista “Présences” dal titolo Feux croisés sur l’hôpital psychiatrique; infine, nei primi due numeri della rivista “Topique” vengono pubblicati articoli di Robert Castel e di Jacques Donzelot dedicati alla questione del processo di moralizzazione attuato dalla psichiatria a partire dalla legge del 1838. Inoltre, dal 1969 la traduzione dei principali testi teorici degli antipsichiatri internazionali vede un’accelerazione. Si può ricordare la traduzione di La politica dell’esperienza di Ronald D. Laing, L’istituzione negata di Franco Basaglia e Psichiatria e antipsichiatria di David Cooper. Un libro, quest’ultimo, entrato immediatamente in risonanza con le principali tesi avanzate nel 1968 sulla famiglia, perché Cooper mostra come essa sia prima di tutto uno strumento di condizionamento ideologico, con il compito di rafforzare il potere della classe dominante.5 Per la prima volta l’istituzione, ma anche la pratica psichiatri4. Numero che sarà ripubblicato nella collana “Petite Collection” di Maspero. Per François Gantheret e Jean-Marie Brohm l’istituzione psichiatrica, più di ogni altra, è un’impresa poliziesca e carceraria. Si tratta di sapere “quale ruolo giocano queste istituzioni nel capitalismo moderno e come le contraddizioni vi si iscrivono o vi si mascherano”. 5. Su questa lettura di Cooper, si veda la reazione di Pierre Fédida nella sua recensione dell’ottobre 1969 per “Critique”, dal titolo Psychose et parenté (Naissance de l’antipsychiatrie), pp. 870-895.

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ca, vengono interrogate prendendo le mosse da una prospettiva politica chiaramente dichiarata. La riflessione che guida gli antipsichiatri non si limita al solo campo delle malattie mentali, o al tentativo di distruggere radicalmente la pratica psichiatrica a partire dalla denuncia del suo ruolo sociale, ma ormai si estende alla struttura e al funzionamento della società nel suo complesso. Gli ambienti psichiatrici francesi affrontano anche la questione del ruolo sociale della psichiatria e, più in particolare, quello che svolge nelle pratiche di normalizzazione della società. Gli attacchi violenti di Vladimir Boukovski in Une nouvelle maladie mentale en URSS: l’opposition (pubblicato da Seuil nel 1971) contro il meccanismo psichiatrico russo, regno dell’arbitrio, del segreto e dell’uso incontrollato della farmacopea, costituiscono soltanto uno dei numerosi aspetti di questa critica al ruolo degli ospedali speciali russi nella repressione politica. Basta ricordare la reazione di Jean-Marie Domenach in una delle sue cronache su “Esprit” per comprendere fino a che punto questo problema tocchi un aspetto centrale nei tentativi di contestazione della psichiatria: “Immaginiamoci per un momento Marcellin che fa internare, in ospedali psichiatrici che dipendono dal suo ministero, Marchais o Rocard – e immaginiamo le proteste”.6 Anche “La chronique des événements en cours”, rivista samizdat russa, uscita fra il 1968 (dopo l’internamento abusivo dello scrittore cristiano Guénnady Mikhailovitch Chimanov) e il 1982, tenterà di svelare gli strumenti della repressione politica, portando a conoscenza del pubblico il funzionamento di questi ospedali speciali russi. Foucault antipsichiatra? È in questo quadro generale di riconfigurazione della psichiatria francese che la Storia della follia trova spazio all’inizio degli anni settanta. Per Jean-Pierre Rumen, Foucault ha innegabilmente giocato un ruolo nello sviluppo della teoria “anti-psy” in Francia, in

6. J.-M. Domenach, Les hôpitaux prisons, “Esprit”, gennaio 1972, pp. 59-63. Dello stesso periodo si può citare il numero di “Esprit” (luglio-agosto 1971) intitolato Les opposants en URSS isolés ou internés.

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particolare per aver mostrato che la risposta del corpo sociale al problema della follia è sempre di ordine politico.7 Nel 1972 la tesi di Foucault diventa un testo di riferimento riconosciuto nel mondo universitario. In un lavoro dal titolo L’introduction du changement dans un hôpital psychiatrique public, il sociologo Jean-Olivier Majastre si occupa dell’eliminazione dalla scena sociale degli attori devianti, e dell’impermeabilità sempre più importante delle frontiere normative, utilizzando congiuntamente i testi di William Caudill, di Erving Goffman e di Foucault. Assieme ad Asylums, la Storia della follia permette di denunciare la realtà del manicomio, l’universo carcerario dell’assistenza psichiatrica, così come la natura del trattamento della malattia mentale. I due autori fanno letteralmente esplodere l’ideologia dell’ospedale quale macchina per curare, fantasma terapeutico e soprattutto luogo in cui una società nega le proprie contraddizioni, volendo rappresentarsi a ogni costo come una società sana. Foucault precisa in tre occasioni il modo in cui Folie et déraison ha ottenuto uno statuto particolare nell’ambito dei diversi movimenti antipsichiatrici, in Francia e all’estero. Una prima volta, nel 1974, egli ricorda di aver scritto la Storia della follia senza sapere dell’esistenza dell’antipsichiatria: “Ho scritto la Storia della follia un po’ alla cieca, preda di una sorta di lirismo dovuto a esperienze personali. Sono legato a questo libro, certamente, perché l’ho scritto, ma anche perché è servito da toolbox a persone differenti le une dalle altre, come gli psichiatri dell’antipsichiatria britannica, come Szasz negli Stati Uniti, come i sociologi in Francia: lo hanno sfogliato, hanno trovato un capitolo, una forma di analisi, qualcosa che è servito loro per andare oltre”.8 7. “Michel Foucault ha dimostrato la correlazione fra la struttura socio-economica e le forme di assistenza: il grande internamento sopravviene con l’età classica. I fomentatori del disordine, quelli che non seguono la via tracciata dalla volontà di dio e del re, quelli che siano ladri, oziosi o menti alienate, sono punibili soltanto con questa misura; una volta rinchiusi, si saprà bene farli lavorare. Ecco la logica della correzione attraverso la coercizione, idea certamente antica ma ancora spesso attuale” (J.-P. Rumen, Psychiatrie, antipsychiatrie et politique, “La nef”, 42, 1972, p. 41). 8. M. Foucault, “Carceri e manicomi nel congegno del potere” (1974), in Follia e psichiatria. Detti e scritti 1957-1984, Raffaello Cortina, Milano 2005, pp. 73-74.

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Un anno più tardi, sempre in un’intervista, Foucault afferma di non conoscere “l’opera di Laing e Cooper […]. Il mio libro è stato pubblicato in Francia nel 1960. I primi libri di Laing e Cooper devono essere usciti verso il 1958-1959, ed è Cooper che ha tradotto il mio libro in inglese. Sono lavori contemporanei ma noi ci ignoravamo reciprocamente. È interessante: Szasz e Bettelheim lavoravano negli Stati Uniti, Laing e Cooper in Gran Bretagna, Basaglia in Italia; hanno tutti sviluppato i loro lavori in funzione delle loro rispettive pratiche mediche. In Francia non è un medico ad aver realizzato questo lavoro, ma uno storico come lo sono io. Sarebbe interessante sapere perché l’antipsichiatria non è stata ripresa dai medici francesi se non in seguito. Ma dopo il 1960 c’è stato questo fenomeno di persone che non si conoscevano, ma che lavoravano nella stessa direzione”.9 Ritornando per l’ultima volta, nel 1980, sulla ricezione della Storia della follia fra gli psichiatri e gli antipsichiatri francesi, Foucault delinea in breve una storia della psichiatria e della contestazione di quest’ultima in Francia: “Già un po’ prima della guerra, e soprattutto dopo, c’è stato fra gli psichiatri stessi tutto un movimento di rimessa in questione della pratica psichiatrica. Questi giovani psichiatri, dopo il 1945, si erano lanciati in analisi, riflessioni, progetti, per cui ciò che veniva chiamato ‘antipsichiatria’ avrebbe potuto nascere in Francia nei primi anni cinquanta. Se non avvenne, secondo me lo si deve alle seguenti ragioni: da una parte, tanti di questi psichiatri erano molto vicini al marxismo, se non proprio marxisti, e furono perciò indotti a concentrare l’attenzione su quanto avveniva in Urss e quindi su Pavlov e la riflessologia, su una psichiatria materialista e tutto un insieme di problemi teorici e scientifici che non poteva certo portarli lontano. […] Dall’altra parte, credo che molti siano stati rapidamente spinti, a causa del loro statuto di psichiatri, cioè in gran parte quello di funzionari, a mettere in questione la psichiatria nei termini di una difesa sindacale. Così, queste persone che per capacità, inte9. Id., “Asili. Sessualità. Prigioni” (1975), in Archivio Foucault 2. 1971-1977. Poteri, saperi, strategie, a cura di A. Dal Lago, Feltrinelli, Milano 1997, pp. 176-177.

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ressi e per la loro apertura su tante cose, avrebbero potuto far emergere i problemi della psichiatria, sono state condotte in vicoli ciechi. Di fronte all’esplosione dell’antipsichiatria negli anni sessanta, da parte loro ci fu un atteggiamento di rigetto sempre più marcato, che assunse anche toni aggressivi. Fu in quel momento che il mio libro venne messo all’indice, come se fosse il vangelo del diavolo. So che in certi ambienti si parla ancora della Storia della follia con incredibile disgusto”.10 In questo panorama abbastanza preciso dell’antipsichiatria, Foucault è molto attento a rappresentare la grande diversità teorica e pratica di questi movimenti, così come i principali fondamenti epistemologici su cui si sono formati. Viene fornita un’informazione cronologica importante: la nascita dell’antipsichiatria sarebbe stata parallela alla scrittura della Storia della follia. In effetti, le prime pratiche “anti-psy” si sono avute in Gran Bretagna nel 1962, anno in cui Cooper crea il “padiglione 21”, unità sperimentale per schizofrenici, che prefigura la Philadelphia Association del 1965, e che gli permise di radicalizzare i principî di non direttività e di comunità terapeutica. Per quanto riguarda Thomas Szasz, psichiatra e psicanalista americano, egli pubblica negli anni cinquanta numerosi lavori critici nei confronti dell’istituzione a cui apparteneva. Denuncia in particolare l’utilizzo della psichiatria come strumento di controllo sociale, comparando il ruolo dello psichiatra verso i devianti a quello degli inquisitori verso gli eretici (Il mito della malattia mentale. Fondamenti per una teoria del comportamento individuale, del 1961). Interrogato nel 1976 su questo libro, Foucault insiste sul fatto che la storia della psichiatria ricostruita da Szasz “mette allo scoperto la funzione sociale della medicina in una società di normalizzazione”, ma che soprattutto, e con un’eco di ciò che Foucault stesso contava di fare nel 1961, Szasz afferma che “la pratica attraverso cui si individuava un certo numero di persone, e per cui venivano sospettate, isolate, interrogate e ‘riconosciute’ come stregoni, questa tecnica 10. M. Foucault, “Entretien avec Michel Foucault” (1978), in Dits et écrits, Gallimard, Paris 2001, vol. II, pp. 879-880 (una prima versione era uscita in D. Trombadori, Colloqui con Foucault, 10/17 cooperativa editrice, Salerno 1981, pp. 45-46).

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di potere messa in atto durante l’Inquisizione, la si ritrova (trasformata) nella pratica psichiatrica”.11 Sul versante italiano, già negli anni sessanta, e a fianco dell’esperienza di Gorizia condotta da Basaglia, sono portate avanti altre esperienze di trasformazione istituzionale, per esempio a Varese e a Perugia. Occorre notare anche che Foucault insiste su un’importante differenza fra queste diverse impostazioni dell’antipsichiatria: ossia il fatto che in Francia la critica all’istituzione è stata principalmente sostenuta dalle scienze sociali. Affermando ciò, Foucault fa evidentemente riferimento al sociologo Robert Castel,12 al quale si deve la traduzione francese di Asylums nel 1968, ma si può anche leggere un riferimento ai lavori dei membri del Cerfi13 (Centro di studi, ricerche e formazione istituzionali), animato da Félix Guattari, che raggruppa un collettivo di ricercatori in scienze sociali che si dedicano alla critica degli apparati di stato, delle istituzioni, del potere e delle burocrazie dei partiti politici.14 Anche in questo caso si può vedere una certa contiguità con il percorso politico di Foucault quando creerà il Gip nel 1971.15 L’antipsichiatria anglosassone, di ispirazione sartriana, trova in Francia diverse risonanze fra cui quella di Maud Mannoni che denuncia le “polizie dell’adattamento” fra lo psichiatra, il suo folle e la malattia; anche Roger Gentis stigmatizza i muri degli ospedali psichiatrici, e Jean Oury lacanizza la sua psicoterapia istituzionale. Ciò potrebbe far dimenticare che Foucault, nello stesso periodo, è stato utilizzato da tutta una serie di professionisti della psichiatria, ma anche da militanti e malati, in maniera implicita e privata piuttosto che esplicita e accettata. 11. Id., “L’estensione sociale della norma” (1976), in Follia e psichiatria, cit., p. 129. 12. M. Foucault, R. Castel, Résistances de la médecine et démultiplication du concept de santé, Dossier di ricerca sulle resistenze della medicina e sulla demoltiplicazione del concetto di sanità, 1977. 13. Nel 1966 Guattari crea la Federazione dei gruppi di studio e ricerca istituzionali (Fgeri), con coloro che in seguito andranno a formare il Cerfi. 14. Cfr. L. Murard, F. Fourquet, Histoire de la psychiatrie de secteur, “Recherches”, 17, 1975. 15. Foucault condivide qualche ricerca con questo gruppo, fra cui la missione sulla ricerca “Le strutture d’igiene mentale nelle nuove città”, nell’ambito delle attività del ministero delle Aree urbane, dell’equipaggiamento, dell’edilizia e del turismo.

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La “Storia della follia” come guida per l’azione politica I tentativi di mettere in crisi la vita quotidiana dell’ospedale, come le sue regole più comuni di funzionamento, all’inizio degli anni settanta sono legati all’esperienza del Gip (Gruppo di informazione sulle prigioni), che, con un richiamo alle realtà della prigione, cerca di far sapere “chi ci entra, come e perché ci entra, qual è la vita dei reclusi e, allo stesso modo, quella del personale di sorveglianza, come sono gli edifici, l’alimentazione, l’igiene, come funzionano il regolamento interno, il controllo medico, i laboratori”.16 In questa lotta contro l’istituzione carceraria, Foucault gioca un ruolo importante per il suo impegno. Egli stesso nota, d’altra parte, l’importanza di mettere in crisi, oltre alla prigione, altre istituzioni di tipo carcerario come il manicomio. Tuttavia, alcune specificità rendono difficile questo lavoro: “A differenza delle rivolte dei detenuti, il rifiuto dell’ospedale da parte del malato avrà senza dubbio più difficoltà ad affermarsi come rifiuto collettivo e politico. Il problema è di sapere se i malati sottoposti alla segregazione manicomiale possano ergersi contro l’istituzione e denunciare infine la separazione stessa che li ha designati ed esclusi in quanto malati mentali”.17 È a questo genere di problemi che devono far fronte i gruppi di lotta contro la psichiatria manicomiale, come il Gia (Gruppo di informazione sui manicomi), fondato nel 1971. La nuova politica di settorizzazione viene d’altra parte ampiamente accusata di riproporre, nel quadrillage delle popolazioni che essa sottintende, gran parte della situazione manicomiale. In questo quadro inestricabile, quali sono le possibilità? Distruggere il manicomio? Rifiutare il ruolo dello psichiatra, con il rischio di rendere questi trattamenti inefficaci? La creazione del Gia, dopo quella del Comitato d’azione sanità, gruppo in origine composto da giovani medici psichiatri e da paramedici, arriva a sconvolgere totalmente l’istituzione con azioni di sostegno ai malati, ma anche con una rimessa in causa delle pratiche empiriche e scientifiche prodotte dall’isti16. Cfr. P. Artières et al., Le GIP, archives d’une lutte 1970-1972, Éditions de l’Imec, Paris 2003. 17. M. Foucault, “Par-delà le bien et le mal” (1971), in Dits et écrits, cit., vol. I, p. 1101.

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tuzione psichiatrica. È denunciando sistematicamente gli scandali della psichiatria istituzionale – più in particolare quelli legati alla legge del 1838 – che il Gia tenta di ripensare l’ospedale psichiatrico, non solo trasformandolo, affinché esso si integri “meglio” alla società moderna – come certi psichiatri si attendevano con la politica di settore –, ma cercando di mettere deliberatamente in crisi questa istituzione nelle sue fondamenta epistemologiche, storiche, giuridiche e mediche. Dopo essersi rapidamente diffuso tramite gruppi di quartiere, che è un modo per opporre una lotta locale alla settorizzazione delle cure, il Gia innesca una modifica nei rapporti di forza all’interno dell’istituzione psichiatrica. La peur change de camp è il titolo di uno dei loro fascicoli. Altri orientamenti sono pure attivi e utilizzano Foucault. “Psychiatrie et lutte des classes”, il cui numero zero compare nel dicembre 1973; “Gardes-fous”, che a partire dal febbraio 1974 ha l’ambizione di lottare contro la psichiatria e di suscitare una lotta generale contro l’oppressione esercitata dallo stato di classe; “Le journal de l’Aerlip” (l’associazione per lo studio e la redazione del libro bianco sulle istituzioni psichiatriche), mensile che esce tra il febbraio 1976 e il dicembre 1978 e che opta per una contestazione del potere medico e del sistema curante-paziente nel suo complesso. Divisi politicamente, questi gruppi condividono almeno due cose: il fatto di considerare la psichiatria come una violenza psichica che ha la funzione di escludere colui che non si conforma alle norme e, secondo i più radicali, il fatto di considerare la follia e i comportamenti devianti non una malattia mentale, ma una forma di rivolta contro le norme della società.18 Hanno l’ambizione di diffondere strumenti di lotte necessarie affinché tutti – curanti e internati – possano combattere assieme le forme di oppressione sostenute dall’istituzione psichiatrica. La maggioranza dei riferimenti a Foucault in questi gruppi19 rimane implicita ma 18. Cooper aveva già potuto dimostrare che il malato schizofrenico è colui che viene investito dal malessere familiare. Il ruolo dello psichiatria è di tentare di comprendere perché sia stato relegato a un comportamento psicotico. 19. Per avere un panorama più completo del posto occupato da Foucault in questo campo della psichiatria e soprattutto della contestazione di quest’ultima, a tali riviste si dovrebbero aggiungere anche “Recherches”, “Marges” e i “Cahiers pour la folie”.

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testimonia di una comunità reale, che si interroga almeno su tre punti specifici, che sono poi tre esigenze di trasformazione del paradigma psichiatrico nel suo insieme. 1) Per prima cosa, il fatto di leggere la “follia” come un fenomeno di esclusione sociale, rappresentativo di una certa forma organizzativa della società. Il malato mentale è anzitutto un escluso, un uomo senza diritti, vittima di un rifiuto. In termini generali, essi indicano come cause della follia la società, le diseguaglianze (scolastiche, di tempo libero, di libertà), lo sfruttamento di una classe sull’altra, così come il funzionamento sempre più autoritario e repressivo del sistema capitalistico. Nel suo mensile, l’Aerlip presenta la follia come il prodotto dello stato economico e politico della società occidentale. Si tratta di dimostrare che la malattia mentale – più che la follia – è anzitutto il prodotto della trasformazione “del malessere di vivere di un soggetto da parte di una serie di istituzioni sociali (medicina, psichiatria, giustizia, sicurezza sociale, grande stampa), le quali attribuiscono a quel soggetto uno statuto, un posto, un’identità socialmente identificabili, controllabili e rimodellabili. Questo malessere di vivere ha dei rapporti molto stretti con il sistema sociale e i suoi costumi, che bloccano ciascuno nel suo intimo”.20 2) A essere fermamente criticato è anche l’aspetto repressivo dell’internamento psichiatrico. Se Foucault ha effettivamente mostrato l’esistenza di una correlazione fra la struttura economica e le forme di assistenza, l’ambizione chiaramente manifestata dalla rivista “Psychiatrisés en lutte” è quella di puntare, seguendo questa prospettiva, alla modifica della legge del 1838 e “alla distruzione del sapere psichiatrico come sapere specializzato […] in quanto rappresenta un’amministrazione e dei rapporti politici particolari per la sua posizione di agente al servizio della classe dominante”.21 La psichiatria è una questione a un tempo amministrativa e medica, nella quale le pratiche sono rudimentali e i cambiamenti deboli. 20. “Le journal de l’Aerlip”, 3, 1976. 21. “Psychiatrisés en lutte”, 2, 1975, p. 2.

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3) Infine, un’ultima zona di transazione riguarda l’incapacità della psichiatria di essere in buoni rapporti con la propria storia. Si tratta in ogni caso della versione sostenuta dalla rivista “Psychiatrie et lutte des classes”, la quale ricorda come il solo modo di spiegare i rivolgimenti attuali della psichiatria – in particolare la politica del settore – sia quello “di comprendere la storia delle istituzioni psichiatriche, il posto che la borghesia accorda alla follia, il ruolo che la stessa borghesia fa giocare ai lavoratori della salute mentale, a partire dalla costituzione del capitalismo nel XVII secolo, fino al suo apogeo nel XIX secolo e al suo declino attuale”.22 Tale ritorno sulla storia dell’istituzione psichiatrica presuppone anche una critica della nozione di malattia mentale e della sua dimensione classificatoria. Per concludere, occorre domandarsi, come Foucault stesso, a suo tempo, fece, perché e come l’“archeologia” foucaultiana della follia abbia trovato uno spazio importante fra critiche anche radicali della psichiatria, dello psichiatra, dell’ospedale o ancora della politica di settore. “Quando avevo cercato di fare la Storia della follia,” dichiara Foucault nel 1977, “avevo cercato di raccontare quel che era accaduto fino all’inizio del XIX secolo; ora, gli psichiatri hanno inteso la mia analisi come un attacco contro la psichiatria […]. Perché un’archeologia della psichiatria funziona come antipsichiatria, mentre un’archeologia della biologia non funziona come un’antibiologia?”23 La ragione di ciò sta senza dubbio nella reale “forza” sovversiva della sua archeologia. Foucault, in effetti, cerca di indagare i limiti della malattia mentale, prendendo in contropiede i diversi discorsi ufficiali sulla follia, come per esempio quello di Henry Ey o, soprattutto, quello sostenuto allora da Henri Baruk. Secondo questi psichiatri, Foucault negherebbe la malattia mentale come fatto medico e il suo sguardo sulla follia appare come una dottrina nichilista che mette deliberatamente in questione certi valori fondamentali quali la verità, il progresso e soprattutto la ragione. 22. “Psychiatrie et lutte des classes”, 00, 1973, p. 2. 23. M. Foucault, “I rapporti di potere passano all’interno dei corpi” (1977), in Discipline, Poteri, Verità. Detti e scritti 1970-1984, Marietti, Genova-Milano 2008, p. 102.

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Lo scopo comune ai gruppi di contestazione e all’approccio di Foucault è il tentativo di produrre degli effetti politici sotto forma di cambiamenti nelle pratiche. Per il Gia si tratta di far uscire dall’ospedale psichiatrico tutti coloro che hanno una minima possibilità di sopravvivere all’esterno. Per “Psy en lutte”, come aveva fatto in precedenza il Gip, si tratta di informare i pazienti sui rischi di certi trattamenti come la terapia chimica, ma anche sui trattamenti, talvolta violenti, contro l’alcolismo. Una denuncia che deve passare necessariamente per la raccolta di testimonianze di psichiatrizzati sugli effetti provocati dai farmaci, ma anche di informazioni possedute dal personale di cura. Nel numero 13-14 di “Psy en lutte”, la rivista si impegna per “un controllo collettivo e permanente sui trattamenti, per la conoscenza da parte dell’interessato del trattamento applicato e degli eventuali effetti secondari. Il diritto di rifiutare un farmaco, il diritto di essere informati, di entrare in possesso di una prescrizione chiara e non cifrata, l’abolizione dei trattamenti irreversibili”. Infine come cambiare le condizioni di vita degli internati dentro l’ospedale, come restituire loro almeno i diritti che hanno perduto entrandovi? In che modo far penetrare più società esterna all’interno dell’istituzione e, di rimando, come far oltrepassare ai pazienti il recinto del manicomio per accedere a un maggior numero di spazi pubblici? Rendendo per la prima volta ambigua la pratica psichiatrica, mostrando come tale pratica non abbia un oggetto stabile, l’originalità dell’utilizzo di Foucault nel cuore dei movimenti di contestazione – che non sono mai riusciti a federarsi e ad avviare una lotta globale contro il sistema – non risiede tanto nel riutilizzo del contenuto delle sue teorie, ma nella capacità che avevano allora queste riviste di mobilitare il pensiero di Foucault secondo le urgenze della pratica.

Traduzione dal francese di Francesco Paolella

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La “Storia della follia” in Inghilterra COLIN GORDON

econdo quanto sono riuscito ad appurare, l’opera e il pensiero di Michel Foucault hanno avuto, sull’antipsichiatria inglese e/o sui movimenti radicali di riforma o contestazione delle istituzioni psichiatriche, un’influenza diretta e specifica piuttosto modesta. Foucault aveva conosciuto molto bene David Cooper a Parigi negli anni settanta; aveva preso parte a dibattiti pubblici sia con Ronald Laing sia con Cooper, ciascuno dei quali aveva contribuito – il primo attraverso una sollecitazione inviata all’editore, il secondo con una prefazione all’edizione inglese – alla traduzione della Storia della follia. Per la doxa radicale di quegli anni gli scritti di Laing, Cooper, Szasz, Goffman e Foucault facevano parte di una stessa costellazione, vennero cioè visti, non senza qualche ragione, come se fossero in stretta relazione gli uni con gli altri. E tuttavia, né Laing né Cooper furono mai, in alcun modo, dei seguaci, da un punto di vista intellettuale, di Foucault. Lo stesso Foucault pare abbia attraversato la Manica solo una o due volte in vita sua, e queste visite, almeno stando a quel che ne sappiamo, non sembrano avere incluso contatti con gruppi antipsichiatrici o militanti. Così come in Francia Foucault era stato cordialmente detestato dai leader riformisti che facevano riferimento al marxismo nella psichiatria francese del dopoguerra, allo stesso modo il suo lavoro venne ferocemente attaccato, sul piano ideologico e su quello politico, dall’influente scrittore della nuova sinistra trockista Peter Sedgwick, nel suo libro Psycho Politics (1982). In esso Sedgwick

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sosteneva che concezioni “politicamente corrette” della malattia mentale, come quelle di Foucault, R.D. Laing e Thomas Szasz, avrebbero potuto essere utilizzate dalle forze di destra per ridurre l’assistenza. Psichiatri clinici progressisti come David Ingleby, uno dei sostenitori più importanti del movimento della “psichiatria critica”, mostrarono un prudente rispetto per alcuni aspetti dell’opera di Foucault, ma – forse comprensibilmente – considerarono che per i propri progetti e programmi non offriva un sostegno diretto. In questo caso – come del resto in quello di Franco Basaglia – la critica interna della psichiatria attinse ad altre e più antiche risorse filosofiche, come la fenomenologia e l’esistenzialismo, da Jaspers a Binswanger e Sartre, più familiari e probabilmente più congeniali al riformismo degli operatori rispetto alle ricerche di Foucault. In uno dei grandi compendi inglesi del nuovo pensiero militante, The Dialectics of Liberation, basato su una conferenza pubblica del 1967, Cooper e Laing condivisero il palco con Goldmann, Marcuse e Stokely Carmichael: in quell’occasione Foucault risultava assente dalla scena. Non appena la chiusura dei manicomi e i tagli ai servizi sociali iniziarono a trasformare i pazienti psichiatrici in senzatetto che vagabondavano per le strade delle città, polemisti di sinistra come Sedgwick e Andrew Scull accusarono immediatamente la critica nichilista di Foucault di essere tra le principali responsabili di queste nuove miserie. Nel frattempo, soprattutto in seguito alla pubblicazione di Sorvegliare e punire, come successe in Francia, i temi del grande internamento e dell’arcipelago carcerario venivano percepiti sempre più come fattori di disturbo e privi di utilità dai difensori (nella maggior parte trockisti) della rivoluzione proletaria e dagli architetti althusseriani delle nuove norme teoriche. Allo stesso modo, le posizioni critiche espresse da Foucault sulla psicanalisi, nelle sue prime opere come in quelle più tarde, risultavano inaccettabili per i lacaniani, nonostante l’influenza di Lacan, enorme sul femminismo e nel mondo universitario, non avesse avuto, almeno in apparenza, ripercussioni o applicazioni radicali nel campo della psichiatria istituzionale. Sauf erreur, non c’è mai stato un equivalente inglese di un itinerario come quello di Félix Guattari. 124


Alla fine degli anni settanta (se mi si concede di fare riferimento a un’esperienza aneddotica di carattere personale) provai con modesto successo a capire se c’era stato qualche contatto inglese con il Réseau internazionale di alternativa alla psichiatria proprio allora in via di costituzione. A Parigi incontrai, nella cerchia di Michel Foucault, Françoise Castel, psichiatra ed esponente francese di punta del network, oggi scomparsa, che accompagnai e assistetti, in qualità di interprete, allorché partecipò a una conferenza presso la London School of Economics nei primi anni ottanta. I partecipanti inglesi presenti all’incontro (Porter, Cooter, Jordanova) erano storici sociali senza un esplicito interesse nei confronti delle politiche e delle pratiche psichiatriche contemporanee nel Regno Unito, o in qualsiasi altro luogo. Come ho spiegato altrove, le loro posizioni liberali di sinistra erano inoltre ostili alle analisi di Foucault sulla storia della follia (almeno in relazione a ciò che essi ritenevano si potesse applicare al caso storico inglese).1 È opportuno, allora, prendere in esame alcune tra le obiezioni principali che gli rivolsero, e considerarne il valore alla luce del sapere storico attuale. Sia pure con alcune varianti, i rilievi e le critiche principali rivolte a Foucault da parte di tutti i suddetti autori sono all’incirca gli stessi e li possiamo raggruppare intorno a tre rubriche: a) il “grande internamento” del XVII secolo di cui parla Foucault2 non è esistito in Inghilterra; b) inoltre Foucault ha trascurato il ruolo delle case di cura private dedicate al ricovero dei folli, che sarebbero invece i veri precursori delle istituzioni psichiatriche; c) nell’Europa medievale, infine, la “Nave dei folli”3 non può essere considerata il canovaccio della follia, e del resto non è nemmeno mai esistita. Qui cercheremo di esaminare gli elementi essenziali di tali critiche, le poste in gioco che le sottendono, le discussioni che hanno suscitato, e quelle che ancora potrebbero suscitare. 1. C. Gordon, La réception de l’“Histoire de la folie” chez les historiens et les géographes: l’exemple anglo-saxon, in P. Chevallier, T. Greacen (a cura di), Folie et justice: relire Foucault, Erès, Toulouse 2009. 2. M. Foucault, Storia della follia nell’età classica (1961, 1972), Rizzoli, Milano 1976, parte I, cap. II, “Il grande internamento”, p. 67 sgg. 3. Ivi, parte I, cap. I, “Stultifera navis”, p. 13 sgg.

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Dobbiamo innanzitutto osservare che la maggior parte di questi autori, critici nei confronti della Storia della follia, contestano a Foucault solo quella parte dei suoi materiali storici relativa alla storia d’Inghilterra. L’errore che innanzitutto rimproverano al filosofo francese è quello di aver proposto una storia che voleva essere, in un certo senso, una storia generale della follia e che, in realtà, risulta per lo più, se non esclusivamente, fondata e calcata sulla storia di un solo paese, la Francia. E in effetti Foucault scrive esplicitamente che il “grande internamento” dei vagabondi, dei poveri e degli indigenti, folli compresi, sarebbe stato decretato e imposto nel giro di qualche anno, nel corso del XVII secolo, non solo in Francia, ma in tutta Europa, e in particolare in Inghilterra. Inoltre, lo fa citando tutta una serie di tappe e di date, distribuite tra il XVI e la fine del XVIII secolo, nonché di leggi e di istituzioni inglesi appartenenti a questo ambito: bridewells, poorhouses e workhouses. Ciò nonostante, i critici gli contestano innanzitutto il fatto che l’Inghilterra, in realtà, non avrebbe mai conosciuto un sistema di internamento autoritario, massivo, centralizzato e omogeneo, come quello degli Hôpitaux généraux decretato in Francia nel 1656; inoltre, che a quell’epoca non ci sarebbe stata, in Inghilterra, una politica esplicita, e ancor meno compiuta, di internamento sistematico dei folli. Era senz’altro normale che una storia francese della follia si occupasse del funzionamento e degli effetti del dispotismo regio francese, della sua luogotenenza di polizia e delle sue lettres de cachet. Ma per l’appunto, e proprio per questa stessa ragione, una simile storia non poteva servire come modello per la storia di altri paesi, e comunque non certo per la storia inglese. Tale prospettiva, in effetti, non era minimamente attraente per quei giovani storici inglesi di tendenze politiche liberali che, a partire dagli anni ottanta, si proponevano di scrivere una storia delle origini contraddittorie della modernità sociale in Inghilterra. Essi pensavano infatti a una società di mercato, dove le opinioni circolano e le libertà si affermano, a una società dei consumi e di nuovi servizi che includa anche il commercio relativo al trattamento e alla tutela dei folli – ambito di intervento per imprese e impren126


ditori privati studiato da Porter, Scull e altri (e su cui Foucault, invece, avrebbe secondo loro mantenuto il silenzio) e che costituisce quel che già all’epoca veniva chiamato “the mad-business”. In Inghilterra, dunque, nel periodo indicato da Foucault (e suo malgrado) ci sarebbe stato solo un “piccolo internamento”. A tale riguardo, su questo punto specifico, liberali e neomarxisti si trovarono perfettamente d’accordo. In un certo senso si potrebbe allora dire che, se in Francia la Storia della follia è stata considerata una sorta di ingiuria ideologica nei confronti della fede rivoluzionaria e repubblicana (per la quale il gesto di Pinel che libera i folli dalle catene era parte integrante del patrimonio di idee del 1789), al di là della Manica la storia di Foucault è stata rifiutata perché ritenuta estranea, fin dalle sue premesse, ai presupposti del regime inglese, fondato dalla Gloriosa rivoluzione del 1688. Ma che pensare, allora, di tale critica? Foucault per primo è stato in più occasioni pronto a criticare se stesso; in varie circostanze ha preso le distanze nei confronti di ciò che in seguito avrebbe riconosciuto come difetti metodologici del suo primo libro importante;4 era, senza infingimenti, pronto a rivederlo, o a vederlo corretto da altri, alla luce delle ricerche ulteriori. Solo una volta, malvolentieri, accettò l’obbligo di rispondere a una critica virulenta che gli era stata rivolta dallo storico Lawrence Stone.5 E di fatto, una lettura appena un po’ attenta della Storia della follia (meglio se in una versione non mutilata e ridotta) obbliga a riconoscervi la presenza di un’analisi ben più sottile, più sfumata, più empiricamente documentata e ricca di quel che fanno credere le ricostruzioni sommarie e caricaturali elaborate da Stone, Scull, Porter e altri. Quanto alla verità della realtà storica dell’internamento, ci si deve rammentare che lo stesso Foucault si diceva sorpreso dal fatto di avere scoperto, molto tempo dopo avere scritto 4. “Mi sembra che [nella Storia della follia] ci siano alcune cose del tutto criticabili […][poiché ho] fatto lì riferimento implicitamente o esplicitamente […] a nozioni che mi appaiono oggi come serrature arrugginite, con le quali non sarebbe possibile andare molto avanti”, M. Foucault, Il potere psichiatrico. Corso al Collège de France (1973-1974) (2003), Feltrinelli, Milano 2004, pp. 24-26. 5. Id., “Scambio con Michel Foucault” (1983), in Follia e psichiatria. Detti e scritti 19571984, Raffaello Cortina, Milano 2006.

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il suo libro, quanto il tema stesso di una storia dell’internamento restasse una questione delicata, o addirittura vietata, per un pubblico comunista – peggio ancora se si trattava degli internamenti psichiatrici. È evidente – e Foucault lo sapeva bene – che non tutti i folli si sono ritrovati internati tra il XVII e il XVIII secolo, né in Francia, né in Inghilterra. Ciò nonostante, è stato calcolato che la cifra totale dei posti disponibili in Inghilterra verso il 1780 nelle workhouses e nelle poorhouses si aggirava attorno ai novantamila, e cioè, all’incirca, l’uno per cento della popolazione, vale a dire la stessa percentuale dei parigini internati, secondo Foucault, sulla base del decreto regio del 1656. Sappiamo che, sia in Francia sia in Inghilterra, tali istituzioni accoglievano in mezzo ai poveri in grado di lavorare, ai malati, ai fanciulli e ai vecchi, anche dei folli. E se anche si trattava di una pratica aleatoria, sicuramente poco sistematizzata, caratterizzata, come tutto lo stato inglese, da una delega dei poteri a livello locale, era purtuttavia una pratica che testimoniava come, in mezzo a tutte le libertà di cui si fregiava all’epoca il “free-born Englishman”, andasse annoverata anche la temibile libertà di internare. Cosicché divenne necessario chiedere al legislatore e ai funzionari dello stato di regolare e di porre un freno a tale libertà. È importante aggiungere che all’epoca in cui le citate reazioni a Foucault vennero formulate, il lavoro e gli scritti di Basaglia erano poco conosciuti e scarsamente tradotti in Inghilterra – una situazione che purtroppo non si modificò di molto nel periodo immediatamente successivo. Gli scritti di Robert Castel, in particolare L’ordine psichiatrico, che prolungavano la genealogia foucaultiana delle istituzioni psichiatriche all’interno di un contesto critico consapevolmente alleato con i movimenti di contestazione degli anni settanta, sono stati riesaminati a fondo in Inghilterra da un giovane sociologo di talento, Peter Miller – il quale dovette poi scoprire l’impossibilità di coltivare simili interessi nelle università inglesi dell’epoca, diventando piuttosto un esponente di rilievo degli studi sulla governamentalità nel campo delle scienze finanziarie e amministrative. Tuttavia, piuttosto che deplorare e incolpare (alla maniera di 128


un Perry Anderson) la radicata timidezza e il conservatorismo della cultura nazionale britannica – sinistra compresa – per la mancanza di una risposta inglese al libro di Foucault, bisognerebbe forse chiedersi perché la Storia della follia ha potuto non essere stata percepita, in quell’epoca e in quelle circostanze, come un libro assolutamente necessario. Infatti, la stessa idea di una “psichiatria democratica” (se accettiamo che sia in qualche modo il corrispettivo pratico della prospettiva critica di Foucault), l’idea di una riforma o addirittura dell’abolizione della psichiatria istituzionale, hanno rappresentato una componente fondamentale della realizzazione di una civiltà democratica. Ma alla ristretta cerchia britannica di coloro che neppure conoscevano Basaglia o non consideravano Foucault politicamente importante, questa stessa idea è forse sembrata addirittura impensabile in un contesto come quello inglese. Senza contare che paradossalmente proprio il modello britannico di riforma psichiatrica – la comunità terapeutica sviluppata in Scozia da Radcliffe-Brown – aveva ispirato il pensiero e l’esperienza di Franca e Franco Basaglia. Rispetto al discorso tipicamente italiano dei Basaglia sulla miseria del sottosviluppo italiano, con la radicalità senza precedenti delle loro proposte per affrontare quella miseria, l’Inghilterra, o meglio la Scozia aveva fornito loro il modello di una pratica psichiatrica avanzata, anche se poi li deluse la mancanza di un più generale programma rivoluzionario. A tutto questo si deve aggiungere il fatto che già nei primi anni sessanta la critica del manicomio era ormai un’idea ben consolidata presso l’opinione della maggioranza degli inglesi, e sicuramente nella politica ufficiale. Il manifesto più celebre e memorabile di tale critica venne formulato all’epoca da un esperto di studi classici di formidabile talento, un erudito nietzschiano, destinato a esercitare un ruolo turbolento e controverso nella vita pubblica, che si trovava inoltre in una condizione particolarmente favorevole per tradurre in pratica tale critica: Enoch Powell, all’epoca ministro della Sanità nel governo conservatore di Macmillan. In un discorso tenuto nel 1961, egli si pronunciò infatti a favore di “niente di meno che l’eliminazione della gran parte degli 129


ospedali psichiatrici di questo paese così come esistono attualmente”. “Si tratta di un’impresa colossale, ma non tanto per le nuove misure materiali che implica, quanto piuttosto per la pura inerzia della mente e la difficoltà di superarla. Sono là, isolati, maestosi, imperiosi, sorvegliati dalla gigantesca torre serbatoio con il suo camino, svettano inequivocabili dominando il paesaggio circostante – quei manicomi che i nostri padri costruirono con tale immensa solidità per esprimere le idee dei loro tempi. Non sottovalutate neppure per un istante il loro potere di resistere ai nostri assalti.” Nei decenni successivi alla traduzione della Storia della follia, la parte allora conosciuta dell’opera di Foucault ha avuto un’influenza continuativa e diffusa in Inghilterra, come in altri paesi, su un’ampia area della cultura critica e intellettuale. Oggi, la sua influenza su coloro che si occupano di psichiatria può esercitarsi tanto attraverso Sorvegliare e punire, La volontà di sapere o Il potere psichiatrico, quanto attraverso la Storia della follia, o meglio attraverso la traduzione integrale del libro che è finalmente apparsa, dopo un lungo ritardo, solo nel 2006. In qualche occasione i suoi effetti sugli individui e sulle iniziative avrebbero potuto essere più specifici ed efficaci. Forse movimenti come “psychiatric survivors” o “mad pride”, o le attività di autoaffermazione e quelle militanti degli “psichiatrizzati” e degli utenti dei servizi terapeutici, che sono stati uno degli elementi più importanti e originali nella scena psicopolitica inglese recente, e alcuni dei tentativi tuttora in corso da parte di coloro che continuano a cercare di inventare strutture alternative di cura e solidarietà, sarebbero stati più difficilmente concepibili, se cinquant’anni fa Foucault non avesse ideato un modo di considerare le storie intrecciate della ragione e della sragione, collocandolo sotto l’egida di Fureur et mystère di René Char: “Compagnons pathétiques, qui murmurez à peine... Un mystère nouveau chante dans vos os. Développez votre étrangeté légitime”. È comunque incoraggiante constatare che il libro di Foucault ha continuato a ricevere un’attenzione creativa da parte di una giovane generazione di studiosi impegnati che stanno lavorando sul130


la base di nuovi paradigmi di ricerca. Un geografo britannico come Chris Philo, docente a Glasgow, ha consacrato un libro di settecento pagine alla geografia storica degli spazi riservati ai folli in Inghilterra a partire dal Medioevo. Nel corso di questa storia egli dialoga di continuo con l’opera di Foucault (rinviando, per mezzo di una documentazione molto ricca, a talune delle controversie che abbiamo evocato sopra), considerando il proprio lavoro come qualcosa che fa parte di una interrogazione insieme contemporanea ed etica, che valuta le pratiche e le istituzioni in funzione delle loro capacità di “includere” e di “escludere”.6 Nel lungo capitolo dedicato al Medioevo, Philo trova dei punti di accordo con l’approccio di Foucault: condivide lo stesso riconoscimento dell’importanza dei pellegrinaggi e dei luoghi sacri per i malati mentali (Saint Thomas Becket, la cui tomba a Canterbury era una delle mete dei pellegrini di Chaucer, era in particolare celebre per le sue cure della follia). Philo è inoltre d’accordo con Foucault nel sottolineare la simbolica dell’acqua nell’immaginario medievale (importanza dei laghi e dei pozzi, con i loro eremiti e santi guardiani, come luoghi di cura); a cui egli aggiunge, all’interno di una discussione appassionante, i boschi come luoghi di frequentazione, rifugio e ospitalità per i folli. Philo ha inoltre raccolto una ricca documentazione sullo statuto di vagabondo frequentemente conferito ai folli nel corso dell’epoca pre-moderna, e cita un passo del grande poema inglese del XIV secolo, The Vision of Piers Plowman, il quale esige che le persone agiate accolgano e offrano sostentamento a quei viandanti dementi (“lunatic lollers”) che attraversano il paese e che il poeta considera come depositari di un’ispirazione e persino di una missione divina. Alla fine del suo studio Chris Philo giunge alla conclusione (a mio avviso erronea, ma qui la cosa poco importa) secondo cui il Medioevo sarebbe per Foucault l’età primigenia delle relazioni im6. C. Philo, A Geographical History of Institutional Provision for the Insane from Medieval Times to the 1860s in England and Wales: The Space Reserved for Insanity, Edwin Mellen Press, Lewiston-Queenston 2004. Si veda, dello stesso autore, Review Essays: Michel Foucault, “Psychiatric Power: Lectures at the Collège de France 1973-1974”, “Foucault Studies”, 4, 2007, pp. 149-163, disponibile all’indirizzo <http://rauli.cbs.dk/index.php/foucault-studies>.

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mediate e “caotiche” tra follia e non-follia. Dopo aver tracciato la curva storica dell’ascesa e del declino di un certo ordine psichiatrico, egli evoca la speranza di una nuova età “caotica”, capace di garantire una gamma differenziata di luoghi, di pratiche e di relazioni, se possibile di natura più “inclusiva”, per individui che si suppone siano affetti da qualche disturbo o malattia mentale.

Traduzione dall’inglese di Davide Bertani

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Foucault e la “Storia della follia” in Nord America ALAIN BEAULIEU

americanizzazione di Foucault è stata favorita anche dalla pubblicazione relativamente rapida dei suoi testi in inglese così come da numerose visite negli Stati Uniti e in Canada. Se ci si attiene alla “Cronologia” compresa nel primo volume di Dits et écrits, Foucault ha visitato il Nord America diciassette volte, per lo più invitato a presentarvi seminari e conferenze, alcune delle quali restano inedite. Tra il 1970 e il 1980, Foucault si è recato negli Stati Uniti o in Canada ogni anno (a eccezione del 1978), e in quattro occasioni lo ha fatto per due volte. Foucault apprezzava in particolare gli scambi con gli studenti e i colleghi californiani esprimendo un certo entusiasmo per i movimenti di controcultura e le pratiche minoritarie della regione di San Francisco. Divenuto una vera star del pensiero contemporaneo, Foucault attrae platee che rasentano talvolta un migliaio di persone, e in certi casi i suoi interventi danno luogo a sovraffollamenti, in particolare a Berkeley nel 1980, quando deve intervenire la polizia. Verso la fine della sua vita, Foucault pensava addirittura di abbandonare quel luogo di sapere istituzionalizzato che era il Collège de France per l’ambiente libertario e rivoluzionario dei campus californiani, di cui apprezzava la libertà di parola e la prossimità con gli studenti.1 Segnalo,

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1. Per la letteratura minore dedicata ai periodi trascorsi da Foucault sulla costa occidentale americana, si veda in particolare: K. Gandal, S. Kotkin, Foucault in Berkeley, “History of the Present”, 1, 1985, pp. 6 e 15 (quattro numeri di questa rivista californiana redatta da un gruppo di lavoro che si occupa del pensiero di Foucault sono apparsi tra il 1985 e il

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inoltre, che la Biblioteca Bancroft dell’Università della California a Berkeley conserva una parte degli archivi che testimoniano dei numerosi soggiorni di Foucault sulla costa occidentale americana.2 Da Montréal a Berkeley passando per New York e Toronto, il territorio nordamericano ha offerto un luogo d’espressione privilegiata al pensiero di Foucault che, a sua volta, si è ispirato ai modi di vita d’oltreoceano in particolare per rileggere la tradizione liberale e sviluppare la sua etica della cura di sé. Nel corso dei periodi passati in Nord America, Foucault ha avuto l’occasione di discutere e di simpatizzare con diversi movimenti di attivisti (gay, Black Panthers, indipendentisti del Québec), ma tutto sommato i suoi interventi sono stati condotti principalmente nei campus, in contesti accademici. Ricordo infine che importanti biografie sono state redatte dagli americani David Macey e James Miller.3 La deistituzionalizzazione È molto singolare che Foucault non abbia commentato i processi di deistituzionalizzazione manicomiale. Forse si deve comunque leggere una critica della pretesa neutralità delle politiche di deistituzionalizzazione nell’enunciato secondo il quale i meccanismi dei sistemi disciplinari “hanno una certa tendenza a deistituzionalizzarsi” per “ circolare liberamente”.4 Bisogna anche dire che nella maggior parte dei paesi industrializzati si assiste all’attiva1988); M. Wohlsen, Foucault at Berkeley. A University Transformed, “Illuminations. Berkeley’s online magazine of research in the arts and humanities”, marzo 2005, <www.illuminations.berkeley.edu>; J. Miller, La passione di Michel Foucault (1993), Longanesi, Milano 1994, cap. 10: “La scrittura di sé”, p. 363 sgg.; D. Eribon, Michel Foucault (1989), Leonardo, Milano 1991, cap. “Lo zen e la California”, p. 367 sgg. 2. Si veda a questo proposito il mio articolo Les archives de Foucault à Berkeley sul sito del Portail Foucault <http://michel-foucault-archives.org/spip.php?article 385>. Una versione inglese è apparsa in “Foucault Studies”, 10, 2010, <http://rauli.cbs.dk/index.php/foucault-studies/article/view/3126/3297>. 3. D. Macey, The Lives of Michel Foucault, Pantheon, New York 1993; J. Miller, La passione di Michel Foucault, cit. L’opera di Miller ha suscitato vivaci controversie in quanto stabiliva una relazione tra l’opera di Foucault e la vita di un “soggetto patologico” irresponsabile alla ricerca di esperienze-limite che l’avrebbero condotto in particolare a trasmettere volontariamente l’Hiv ai suoi partner di San Francisco. A questo proposito, si veda R. Reid, Foucault en Amérique: biographème et Kulturkampf, “Futur antérieur”, 23-24, 1994, pp. 133165. 4. M. Foucault, Sorvegliare e punire (1975), Einaudi, Torino 1976.

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zione delle politiche di deistituzionalizzazione delle cure psichiatriche a partire dagli anni ottanta.5 È il caso del Canada, in cui il governo federale è coinvolto nell’organizzazione delle cure sanitarie ma in cui la normativa sulle politiche della salute (in particolare mentale) è di competenza della giurisdizione provinciale. I ministeri provinciali producono a intervalli regolari documenti di riflessione che sono spesso redatti da comitati interdisciplinari composti da medici, psichiatri, universitari, fruitori dei servizi, familiari, e in cui vengono discusse questioni tecniche come l’accesso ai servizi, la prevenzione, i programmi offerti ecc., lasciando uno spazio minimo (se non nullo) a una critica che rimetta in causa per esempio certi preconcetti ministeriali sulla salute o ancora il ruolo centrale attribuito allo psichiatra.6 Le province canadesi offrono un regime pubblico di assicurazione sanitaria universale (visite mediche gratuite) che lascia tuttavia sempre più posto a un sistema “a due velocità”, in cui le persone con più mezzi possono procurarsi servizi sanitari in tempi più rapidi, cosa che ha soprattutto il vantaggio di ridurre le liste d’attesa nelle urgenze, e l’inconveniente di favorire le ingiustizie sociali. Negli Stati Uniti, la situazione è sensibilmente diversa poiché prevale la privatizzazione delle cure sanitarie. Ci sono sicuramente state, public e county hospitals gestiti con i fondi pubblici, ma gli ospedali psichiatrici subiscono gli effetti della deistituzionalizzazione da molto più tempo di tutti gli altri paesi del G8, poiché queste politiche sono state decise subito dopo la Seconda guerra mondiale, in particolare con la creazione nel 1946 del National Institute for Mental Health (Nimh), che cerca di promuovere le cure psichiatriche comunitarie, cosa che porta a eliminare le degenze negli ospedali psichiatrici e a creare, nel 1963, i Community Mental Health Centres 5. E. Corin et al., Sortir de l’asile? Avis sur les services de santé mentale de la France, de la Grande-Bretagne, de l’Italie et des États-Unis, Publications du Québec, Québec 1986; H. Dorvil et al., Défis de la reconfiguration des services de santé mentale, Gouvernement du Québec, Québec 1997; Collectif, Indicateurs sociosanitaires: Allemagne, Canada, États-Unis, France, Québec, Royame-Uni. Comparaisons internationales. Évolution 1980-1994, France/Québec 1998. 6. Si veda per esempio per il Québec: Plan d’action en santé mentale 2005-2010 (disponibile online).

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(Cmhc), amministrati dallo stato federale e incaricati di assicurare, tra l’altro, la prevenzione, le cure e l’integrazione sociale degli ex pazienti psichiatrici. Ben presto si capisce che non ci sono risorse sufficienti e che i Cmhc non sono in grado di rispondere adeguatamente al loro mandato. La soppressione dei letti riservati ai pazienti psichiatrici (dagli anni cinquanta più del 70 per cento dei letti è stato cancellato), a cui si aggiungono il dominio dell’American Psychiatric Association (Dsm), l’influenza dell’industria farmaceutica e la mancanza di risorse nelle comunità, provoca come conseguenza lo spostamento di un gran numero di persone con disturbi mentali dagli ospedali alle carceri. I fattori che hanno condotto alle politiche di deistituzionalizzazione delle cure nell’ambito della salute mentale e alla soppressione delle degenze negli ospedali psichiatrici sono molteplici. Tra questi bisogna annoverare la scoperta e la commercializzazione, negli anni cinquanta e sessanta, dei neurolettici, il cui effetto è attenuare alcuni sintomi e permettere ad alcune persone affette da disturbi mentali di reinserirsi nella società. Ma il prezzo che si paga a livello esistenziale e a livello sociale è enorme: effetti secondari, stigmatizzazione, dipendenza dall’industria farmaceutica, normalizzazione dei comportamenti ecc. Inoltre il contesto neoliberale ha favorito la privatizzazione dello stato. Il problema in questo caso è che ci troviamo di fronte a un disimpegno dello stato che usa le somme risparmiate con la soppressione delle degenze nei dipartimenti psichiatrici per altri scopi (per esempio, per sanare il suo deficit finanziario...) anziché far affluire questo denaro nella comunità d’accoglienza. Le raccomandazioni di istanze ufficiali come l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) che considerano gli aspetti sociali (avere una casa, un lavoro ecc.) come condizioni fondamentali della salute degli individui e delle popolazioni, e inoltre, sicuramente, la critica della segregazione manicomiale degli anni sessanta e settanta (Goffman, Basaglia, Laing, Szasz, Foucault, Pagé7 ecc.) hanno potuto avere un effetto sulle 7. Sulla scia di Goffman e affini, anche se in modo indipendente rispetto a loro, il libro dell’ex paziente psichiatrico Jean-Charles Pagé, Les fous crient au secours (Éditions du jour,

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politiche di deistituzionalizzazione, benché senza dubbio più indiretto. Dobbiamo essere contenti del fatto che le politiche di deistituzionalizzazione danno alle persone affette da disturbi mentali l’opportunità di vivere al di fuori dei muri dell’ospedale, di trovare una casa e di inserirsi nel mercato del lavoro? In parte sì, ma, per una parte ancora più ampia, la neutralità e il carattere umanitario delle politiche di deistituzionalizzazione sono solo apparenti, poiché lo smantellamento dei manicomi lascia posto non solo a nuovi dispositivi di sapere-potere (dal manicomio alla prigione, il Dsm, l’industria farmaceutica ecc.), ma anche a nuove tecniche di controllo più sottili, creando così una sorta di mondo manicomiale extra muros. Foucault preannuncia questa società di gestione dei rischi potenziali e ne descrive i meccanismi senza tuttavia renderli espliciti. Come parte di queste nuove tecniche di controllo, si può menzionare la pianificazione urbanistica, che spesso limita l’allestimento degli organismi comunitari specializzati nella salute mentale ad aree strategiche, per esempio nelle periferie dei villaggi o delle città così da rendere più omogenea agli spazi abitati dalla gente benestante cosiddetta normale la tecnica di ramificazione degli ospedali psichiatrici nella comunità, che permette agli ospedali di estendere i loro tentacoli e di conservare budget di funzionamento simili a quelli che precedono la deistituzionalizzazione gestendo centri territoriali, o allestendo reti di coordinamento interdisciplinare, in cui, in linea di principio, tutti dovrebbero trovarsi su un piano di uguaglianza (utente, operatore sociale, psicologo, famiglie ecc.), mentre di fatto la voce dello psichiatra continua a dominare le discussioni.8

Montréal 1961), paragona gli ospedali psichiatrici alle prigioni. Quest’opera ha avuto un impatto politico più forte in Québec, dove ha comportato l’allestimento della Commissione di studio degli ospedali psichiatrici, e in seguito una riforma delle pratiche (decentramento, carattere reversibile dei problemi di salute mentale ecc.). 8. Per una descrizione più dettagliata delle tecniche di controllo sorte dalle politiche di deistituzionalizzazione rinvio al mio testo Normalizzazione uscito in R. Brandimarte et al. (a cura di), Lessico di biopolitica, manifestolibri, Roma 2006, pp. 196-200.

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Intellettuali simpatizzanti Nelle università nordamericane ci sono tre livelli di ricezione di Foucault. 1) Innanzitutto, i Cultural Studies e i Literary Studies, che trovano un prolungamento negli ambiti delle scienze storiche e politiche, si sono appropriati in modo originale del pensiero di Foucault. Nel corso degli anni settanta viene fondata la scuola del New Historicism che comprende queste diverse correnti, e ha il suo organo ufficiale nella rivista “Representations”.9 Il New Historicism segna la sua presenza all’interno dei dipartimenti di letteratura, fortemente politicizzati, prima di proliferare tra la sinistra culturale nel corso degli anni settanta e ottanta.10 Difendendo una politica radicale, la nuova scuola californiana del New Historicism ingaggia una lotta contro i discorsi dominanti, in particolare per una migliore integrazione dei gruppi minoritari negli ambienti universitari.11 2) Si deve inoltre menzionare l’interesse di carattere più specificamente filosofico per l’opera di Foucault. Numerosi esponenti nordamericani della filosofia continentale12 si sono fatti interpreti dei rapporti spesso complessi e polemici di Foucault con le diverse correnti del pensiero e le grandi figure storiche. 3) Infine, gli studi di Foucault trovano un’accoglienza favorevole negli Stati Uniti e in Canada tra gli specialisti delle scienze sociali arrivando ad arricchire la critica nordamericana già ben con9. Nello stesso periodo compaiono sulla costa orientale americana numerose riviste di controcultura, tra cui “Semiotext(e)”, “Glyph”, “Diaspora”, “Boundary 2”, che hanno fortemente contribuito alla diffusione della French Theory. 10. É. Fassin, La chaire et le canon. Les intellectuels, la politique et l’Université aux ÉtatsUnis, “Annales ESC”, 2, 1993, pp. 265-301. 11. J.-C. Barat, Le post-structuralisme français aux États-Unis. Greffe ou rejet?, “Lettres actuelles”, 10, 1996, pp. 34-41; G.G. Harpham, Foucault and the New Historicism, “American Literary History”, 2, 1991, pp. 360-375; R. Reid, Foucault in America: Biography, “Culture War” and the New Consensus, “Cultural Critique”, inverno 1996-1997, pp. 179-211. Segnaliamo inoltre il dossier Le crépuscule de l’Europe sur les campus américains uscito su “Le Messager européen”, 5, 1991, pp. 95-158. 12. L’elenco sarebbe troppo lungo. Ci limitiamo a ricordare, per il periodo degli anni settanta e ottanta, Hubert Dreyfus e Paul Rabinow (Università della California a Berkeley), Gary Gutting (Università di Notre-Dame), David Couzens Hoy (Università della California) e Sylvère Lotringer (Università della Columbia).

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solidata del controllo sociale. Qui ci occuperemo appunto di questa terza via d’accesso degli scritti di Foucault in Nord America, attraverso ricerche che condividono con Foucault alcune preoccupazioni e affinità intellettuali. Prenderemo in esame i casi di Szasz, Goffman, Scheff, Hacking e di alcuni storici americani della psichiatria. Capita spesso di vedere citati, all’interno di una stessa frase, i nomi di Foucault e di Thomas Szasz (Dipartimento di psichiatria della State University di New York) in compagnia di altri difensori della cosiddetta “antipsichiatria” come Basaglia, Goffman e Laing. Però, anche se questi autori condividono una critica comune della segregazione del manicomio e delle pratiche psichiatriche, hanno sviluppato procedimenti così diversi tra loro che i confronti possono a volte sembrare artificiali. Lo stesso aggettivo “antipsichiatrico”, che serve a unificare questi autori, resta molto vago. È riservato agli psichiatri? Oppure possono farne uso legittimamente anche filosofi, storici e sociologi? Gli “antipsichiatri” non cercano forse di riformare la psichiatria, anziché contrastarla radicalmente? Tutto questo resta spesso impreciso, e in realtà pochissimi autori qualificati come “antipsichiatri” hanno rivendicato questa etichetta. Nel caso di Foucault e Szasz, bisognerebbe opporre un filosofo-storico della psichiatria a un medico-psicanalista diventato professore di psichiatria. Sarebbe sbagliato credere che le loro ricerche si sviluppino in modo strettamente collegato: entrambi gli autori pubblicano la loro opera principale dedicata alla psichiatria nel 1961 (The Myth of Mental Illness13 nel caso di Szasz) ma, tutt’al più, la critica foucaultiana del sapere-potere psichiatrico risulta talvolta complementare a quella rivolta da Szasz all’ideologia della salute mentale. Dobbiamo anche dire che la storia della psichiatria proposta da Szasz (la moderna presa in carico della salute mentale come nuova Inquisizione) trova motivazioni nell’im13. T. Szasz, Il mito della malattia mentale (1961), il Saggiatore, Milano 1966. Szasz ha dedicato alla follia circa trenta opere.

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presa di Foucault;14 le costruzioni storiche di Szasz restano tuttavia meno elaborate, tanto sul piano metodologico quanto sul quello storico. Fondamentalmente, si può dire che i due concordano relativamente agli aspetti pseudoscientifici della psichiatria denunciando l’istituzione psichiatrica come mezzo di controllo. Su altri punti, Foucault e Szasz sono su posizioni opposte: la difesa dei valori umanistici da parte di Szasz (che nel 1973 accetta il premio di “Umanista dell’anno” assegnato dall’American Humanist Association), così come la sua promozione della psicoterapia per le persone con disturbi mentali, restano estranee alle posizioni di Foucault. Szasz peraltro testimonia una maggiore sensibilità per la realtà vissuta dei pazienti e adotta posizioni più definite su poste in gioco concernenti l’attualità della salute mentale: difende il libero mercato delle droghe, prende posizione a favore dell’abolizione dell’ospedalizzazione coatta,15 contro l’accertamento delle competenze mentali degli accusati, contro l’intervento dello stato sulle questioni legate all’eutanasia ecc. Diversi organismi ufficiali americani della salute mentale (American Medical Association, American Psychiatric Association, National Institute of Mental Health) hanno respinto una delle tesi principali di Szasz relativa al “mito” della malattia mentale che invece, secondo questi organismi, può essere oggettivata e trattata medicalmente. Foucault, che potrebbe schierarsi con Szasz su quest’ultima questione, ha commentato però da un punto di vista critico altri aspetti delle ricerche di Szasz.16 Sebbene accolga favorevolmente alcune analisi storiche di Szasz e si rallegri persino nel constatare che il suo libro sulla follia ha potuto essere utilizzato come “scatola per gli attrezzi”17 (senza tuttavia 14. Si veda in particolare Id., I manipolatori della pazzia. Studio comparato dell’Inquisizione e del Movimento per la salute mentale (1970), Feltrinelli, Milano 1972, in cui Foucault si trova citato due volte. 15. Nel 1970 Thomas Szasz fonda con altri, e in particolare con Erwing Goffman, la American Association for the Abolition of Involuntary Mental Hospitalization (Aaaimh). L’associazione è stata sciolta nel 1980. 16. M. Foucault, “L’estensione sociale della norma” (1976) e “Stregoneria e follia” (1976), in Follia e psichiatria. Detti e scritti 1957-1984, Raffaello Cortina, Milano 2006, pp. 129-134 e 135-138. 17. Id., “Carceri e manicomi nel congegno del potere” (1974), in Follia e psichiatria, cit., p. 73.

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precisare in che modo), Foucault rifiuta l’idealizzazione fatta da Szasz di una medicina privata non sottoposta al trattamento istituzionale, fondata sul modello di apprendistato esistenziale fornito dalla psicoterapia e di cui il paziente fa uso su base volontaria. Per Foucault, questa medicina privata che si presume “depsichiatrizzata”, umanista e libera rispetto al potere dello “stato terapeutico”,18 costituisce solo un’alternativa ingenua alla normalizzazione degli individui, perché non tiene conto della ridefinizione del potere come esercizio e, in definitiva, continua ad alimentare il monologo della ragione. Erving Goffman è un sociologo di origine canadese che ha insegnato nelle università di Chicago, Berkeley e Pennsylvania. Anche il libro che lo ha reso celebre, Asylums,19 è uscito nel 1961. Dunque, non c’è alcuna influenza dell’opera di Foucault su Asylums, l’unico libro di Goffman interamente dedicato all’istituzione del manicomio. La descrizione del manicomio come “istituzione totale” ha però molto in comune con la critica foucaultiana del 1961 al sapere psichiatrico di esclusione, e forse ancora di più con il panottismo caratteristico delle società moderne, che sarà presentato più tardi in Sorvegliare e punire. Da una parte come dall’altra, si studia un’istituzione per renderla paradigmatica rispetto al funzionamento di una serie di altre istituzioni: prima che Foucault stabilisse i legami di somiglianza tra il funzionamento disciplinare di prigioni, fabbriche, scuole, caserme e ospedali,20 Goffman aveva presentato prigioni, monasteri e collegi come luoghi che funzionano in un modo autoritario simile a quello dei manicomi. Capita che Foucault renda omaggio ad Asylums, ma – proprio come avrebbe fatto per Szasz – si preoccupa di segnare una certa distanza rispetto al lavoro di Goffman.21 Nelle sue conver18. T. Szasz, Ideology and Insanity. Essays on the Psychiatric Dehumanization of Man, Anchor Books, New York 1970; Id., The Therapeutic State, Prometheus Books, New York 1975. 19. E. Goffman, Asylums. Le istituzioni totali. La condizione sociale dei malati di mente e di altri internati (1961), Einaudi, Torino 1968. 20. M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p 271. 21. Id., Dits et écrits, Gallimard, Paris 1994, vol. III, pp. 802-803 e vol. IV, pp. 38-39, 277, 590. Ian Hacking presenta il procedimento archeologico di Foucault e quello interpersonale di Goffman come complementari in Between Michel Foucault and Erwing Goffman: Between Discourse in the Abstract and Face-to-face Interaction, “Economy and Society”, 3, 2004, pp. 277-302.

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sazioni, Foucault spiega la difficoltà di assimilare la sua concezione della disciplina alla descrizione delle istituzioni totalitarie fornita da Goffman. Mentre Asylums s’interessa esclusivamente delle norme inserite nelle istituzioni moderne (in particolare psichiatriche) o ereditate dalla modernità, Foucault sostiene che i meccanismi di controllo oggi non sono più completamente moderni, nella misura in cui hanno la tendenza a uscire dalle istituzioni. Questo regime deistituzionalizzato della disciplina interessa particolarmente Foucault, come si vedrà meglio nel suo lavoro successivo dedicato al biopotere e alla governamentalità. Per questa ragione Foucault può apprezzare la ricerca di Goffman sostenendo però che l’aspetto più decisivo per la “storia del presente” non è tanto la reclusione imposta ai devianti negli istituti di correzione quanto i rischi potenziali o virtuali gestiti all’esterno di queste istituzioni. Asylums è di gran lunga l’opera più radicale di Goffman. Per quanto ne sappiamo, i testi di Foucault non vengono mai discussi da Goffman. Thomas Scheff22 ha insegnato al dipartimento di sociologia dell’Università della California. La sua “labeling theory”, che denuncia la validità scientifica delle classificazioni psichiatriche, si richiama più al procedimento terapeutico di Szasz e al metodo sociologico di Goffman (con i quali intreccia un dialogo) che non alla prospettiva storico-filosofica di Foucault (al quale non si riferisce quasi mai). Inoltre, il ruolo centrale attribuito da Scheff alle emozioni nello sviluppo umano resta estraneo al metodo archeologico di Foucault. Esiste certamente una critica comune delle imprese di normalizzazione psichiatrica, ma l’influenza di Foucault su Scheff è quasi nulla. Possiamo notare che gli studi di Scheff hanno motivato l’esperienza ormai celebre di David Rosenhan,23 il quale, nel 1973, fa internare un gruppo di pseudopazienti all’interno di diversi ospedali psichiatrici negli Stati Uniti; anche se l’équipe di Rosenhan confessa la simulazione ai membri del per22. Si veda in particolare T.J. Scheff, Being Mentally Ill. A Sociological Theory, Aldine Pub. Co., Chicago 1966; Id. (a cura di), Labeling Madness, Prentice-Hall, Englewood Cliffs 1975, pp. 14-16. 23. D.L. Rosenham, On Being Sane in Insane Places, “Science”, 70, 1973, pp. 250-258.

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sonale ospedaliero, questi restano convinti che si tratti di pazienti reali e mantengono una diagnosi di schizofrenia, costringendoli in alcuni casi ad assumere antipsicotici, il che rinforza la “labeling theory” di Scheff, ma anche l’ipotesi foucaultiana del carattere arbitrario della distinzione tra ragione e sragione. Il filosofo canadese Ian Hacking ha insegnato nelle università di Princeton, Cambridge, Stanford e Toronto prima di diventare professore onorario al Collège de France, dove ha occupato la cattedra di filosofia e di storia dei concetti scientifici dal 2001 al 2006. Benché formato alla filosofia delle scienze, manifesta un interesse per il metodo archeologico di Foucault, che applica in modo originale per studiare casi ripresi dalla psichiatria, in particolare le personalità multiple e i viaggiatori folli.24 In Rewriting the Soul, Hacking s’interessa di un periodo circoscritto (1972-1992) nel corso del quale le diagnosi di personalità multipla in Nord America sono passate da una dozzina a seimila. Quella di personalità multipla è una diagnosi ufficiale di malattia mentale, distinta dalla schizofrenia e legata a un disturbo della memoria, che viene classificato nel Dsm con il termine di “disturbo di personalità multipla”, e in seguito “disturbo dissociativo dell’identità”. Hacking vede in questa patologizzazione l’indizio di un cambiamento di paradigma rispetto allo studio e alla storia della memoria, cosa che ha certamente anche un’incidenza sulla “fabbricazione della persona”. Hacking arriva a parlare in modo originale di una “mnemo-politica dell’anima” che aggiunge all’“anatomopolitica del corpo” e alla “bio-politica delle popolazioni” foucaultiane per farne i tre poli di sviluppo delle relazioni di saperepotere. In Mad Travelers, Hacking s’interessa a un’altra “malattia mentale transitoria” (presumendo che la personalità multipla sia solo episodica, come era stata per esempio l’isteria al tempo di Charcot), vale a dire la “follia della fuga”, che fu ampiamente diagnosticata in Francia verso la fine del XIX secolo. I “grandi camminatori” che a volte percorrono distanze senza scopo appa24. I. Hacking, La riscoperta dell’anima. Personalità multipla e scienze della memoria (1995), Feltrinelli, Milano 1996; Id., I viaggiatori folli. Lo strano caso di Albert Dadas (1998), Carocci, Roma 2000. Si veda inoltre Ontologia storica (2002), Ets, Pisa 2010.

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rente furono allora per un breve periodo massicciamente categorizzati come folli e talora imprigionati per vagabondaggio. Il filosofo analitico spesso ha la meglio sull’attivista in Hacking che sembra a tratti più interessato a definire e distinguere le categorie epistemologiche del “reale” e del “socialmente costruito” che non a fare dei suoi scritti strumenti utili per possibili lotte. Tuttavia, i casi particolari che egli analizza si iscrivono nel prolungamento delle archeologie foucaultiane. Inoltre Hacking è uno dei rari intellettuali nordamericani che abbiano realizzato studi veramente originali a partire dai lavori dedicati da Foucault alla psicologia e alla follia. Al di là dello stimolo che offre ai dibattiti relativi all’antipsichiatria e alle idee che ha ispirato alla sociologia della salute mentale, l’opera del 1961 apre un nuovo campo di studi nelle scienze sociali: la storia della psichiatria americana. Certamente numerosi storici hanno cercato di demolire l’insieme degli argomenti della Storia della follia (tornerò su questo punto nel prossimo paragrafo) ma altri, ancora più numerosi, hanno riconosciuto un proprio debito verso Foucault, come ispiratore delle prime storie critiche e sistematiche della psichiatria americana. Pensiamo qui a studi come quelli affrontati in particolare, negli anni che seguono l’uscita e la traduzione di Storia della follia, dagli storici nordamericani Norman Dain, David J. Rothman, Gerald N. Grob, John G. Howells, Georges Rosen e André Paradis.25 Critiche e risposte alle critiche I successi nordamericani della French Theory26 non devono occultare la forte resistenza al pensiero foucaultiano che si è mani25. N. Dain, Disordered Minds. The First Century of Eastern State Hospital in Williamsburg, Virginia: 1776-1866, University Press of Virginia, Charlottesville 1971; D.J. Rothman, The Discovery of the Asylum, Little Brown, Boston 1971; G.N. Grob, Mental Institutions in America. Social Policy to 1875, Free Press, New York 1973; J.G. Howells, World History of Psychiatry, Brunner/Mazel, New York 1974; G. Rosen, Madness in Society. Chapters in the Historical Sociology of Mental Illness, University of Chicago Press, Chicago 1968; A. Paradis (a cura di), Essais pour une préhistoire de la psychiatrie au Canada (1880-1885), Université du Québec, Trois-Rivières 1977. 26. F. Cusset, French Theory. Foucault, Derrida, Deleuze & Cie et les mutations de la vie intellectuelle aux États-Unis, La Découverte, Paris 2003.

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festata con particolare vivacità nella parte orientale del continente (senza tuttavia voler ricondurre a un’essenza unitaria questa zona territoriale). È così che George Steiner qualifica Foucault come il “mandarino del momento” sulla “New York Times Book Review”,27 Michael Walzer (Princeton, New Jersey) associa il pensiero politico di Foucault a un “gauchismo infantile”,28 Charles Taylor (Università McGill, Montréal), che peraltro ammira le costruzioni storiche di Foucault, arriva a considerarlo come un anarchico,29 Noam Chomsky (Mit, Massachussetts) critica garbatamente le posizioni antiumaniste di Foucault,30 per non parlare di tutti gli assalti scagliati sulla scia della teoria critica della società americanizzata che riducono il pensiero di Foucault a una forma di irrazionalismo. Le prime recensioni americane della Storia della follia (tradotto nel 1965 in versione ridotta con il titolo Madness and Civilization)31 sono tiepide. Quella apparsa sulla “New York Times Book Review”32 elogia la finezza e l’originalità dell’opera criticando però al contempo lo stile irritante di certe analisi considerate eccessivamente astratte. Un’altra recensione, redatta dallo storico americano Peter Gay (Yale University, Connecticut), apparsa sulla rivista neoconservatrice “Commentary”,33 si mostra più incisiva attaccando l’opacità di una scrittura pretenziosa che deve essere neutralizzata in nome di una certa forma di repressione necessaria allo sviluppo umano e di una ragione essenziale alla conquista della libertà. La strada era aperta... e numerose altre critiche segui27. G. Steiner, The Mandarin of the Hour: Michel Foucault, “New York Times Book Review”, 8, 28 febbraio 1971, pp. 8 e 28-31; M. Foucault, “Les monstruosités de la critique” e “Foucault répond”, in Dits et écrits, cit., vol. II, rispettivamente pp. 219-223 e 239-240. 28. M. Walzer, The politics of Michel Foucault, in D.C. Hoy (a cura di), Foucault. A Critical Reader, Blackwell, Cambridge 1986, pp. 51-68. 29. A. Beaulieu, A Conversation with Charles Taylor, “Symposium”, 1, 2005, p. 116. 30. M. Foucault, N. Chomsky, “De la nature humaine: justice contre pouvoir”, in Dits et écrits, cit., vol. II, pp. 471-512 (trad. Della natura umana, DeriveApprodi, Roma 2005). 31. M. Foucault, Madness and Civilization, trad. di R. Howard, Vintage Books, New York 1965. Si deve attendere più di quarant’anni prima che appaia una traduzione inglese integrale: History of Madness, trad. di J. Murphy e J. Khalfa, Routledge, London-New York 2006 (con prefazione di Ian Hacking). 32. E.Z. Friedenberg, Sick, Sick, Sick?, “New York Times Book Review”, 22 agosto 1965. 33. P. Gay, Madness and Civilization, “Commentary”, 4, 1965, pp. 93-96.

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rono, formulate principalmente tra gli specialisti della salute e gli storici. Nell’ambito delle scienze della salute, il medico newyorkese Gerald Weissmann non era affatto convinto che le persone affette da disturbi mentali possano trarre beneficio dalla critica foucaultiana delle istituzioni psichiatriche.34 La storia della follia proposta da Foucault sarebbe non solo rappresentativa e vittima delle derive antiautoritarie del gauchismo degli anni sessanta, ma anche in parte responsabile della libera circolazione per le strade di New York degli schizofrenici che, fuori del controllo psichiatrico, diventano preda della violenza e delle aggressioni arrivando a mettere in pericolo la loro vita. Weissmann disapprova dunque la critica mossa da Foucault al progetto filantropico di Pinel. Nonostante l’interesse di alcuni medici americani per una considerazione storica della psichiatria,35 la posizione “assolutista” di Weissmann è rappresentativa di quella sostenuta dalla grande maggioranza degli psichiatri in America e altrove. L’American Psychiatric Association si pronuncia ampiamente in questo stesso senso pubblicando il documento ufficiale che sottolinea il fallimento delle politiche di deistituzionalizzazione e la necessità di rinforzare la legge sui trattamenti coatti.36 Contro questo tipo di critiche bisogna ricordare, da una parte, che sono le persone cosiddette “normali” a risultare le più pericolose e che, dall’altra, la mancanza di leadership dei “professionisti” della salute e della classe politica è responsabile dell’insuccesso della deistituzionalizzazione.37 Ma le critiche più sostanziali sono state presentate dagli storici. Le più perspicaci tra esse sono state formulate da Andrew Scull 34. G. Weissmann, Foucault and the Bag Lady, “Hospital Practice”, agosto 1982, pp. 28-39. 35. Pensiamo qui ai lavori dello psichiatra newyorkese George Mora: The History of Psychiatry: Its Relevance for the Psychiatrist, “American Journal of Psychiatry”, 126, 1970, pp. 957-967; The History of Psichiatry: A Cultural and Bibliographical Survey, “International Journal of Psychiatry”, 2, 1966, pp. 335-355; Psychiatry and Its History: Methodological Problems in Research, C.C. Thomas, Springfield (Ill.) 1970. 36. R.H. Lamb (a cura di), The Homeless Mentally Ill. A Task Force Report of the American Psychiatric Association, American Psychiatric Association, Arlington (Virg.) 1984. 37. N. Scheper-Hugues, Has deinstituzionalization failed? Caveats and lessons from the US and Italy, in E. Corin et al. (a cura di), Anthropological Perspectives in Psychiatry, Girame, Montréal 1987, pp. 167-177.

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(Università della California),38 Lawrence Stone39 (Princeton University) oltre che da H.C. Erik Midelfort40 (Università della Virginia). Nel 1990, la rivista “History of the Human Sciences” pubblica due importanti numeri dedicati all’opera di Foucault sulla follia, con contributi di Scull e Midelfort.41 Lawrence Stone rimarrà il solo storico americano a cui Foucault abbia risposto attraverso la “New York Review of Books”. Stone gli rimprovera la mancanza di rigore storico e anche l’eccessiva svalutazione dei Lumi. Foucault a sua volta obietta a Stone l’attribuzione di alcune tesi che non sono le sue e respinge la critica di inesattezze storiche.42 Questa risposta può sorprendere se si tiene conto di un altro aspetto del lavoro di Foucault che riguarda la finzione e che non viene affrontato nella lettera che Foucault indirizza a Stone. In cosa consiste la mancanza di correttezza storica? Numerosi argomenti proposti dagli storici riguardano il fatto che si recludessero i folli e che una certa attenzione della medicina esistesse prima del “Grande internamento” presentato da Foucault come uno spartiacque proprio del XVII secolo. Ora, Foucault non nega questo, ma gli sembra corretto presentare da un punto di vista storico l’internamento come una spiccata tendenza europea che si è sviluppata nel XVII e XVIII secolo. Alcuni storici denunciano la “roman38. A. Scull (a cura di), Madhouses, Mad-Doctors and Madmen. The Social History of Psychiatry in the Victorian Era, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 1981; Id., Social Order/Mental Disorder. Anglo-American Psychiatry in Historical Perspective, Routledge, London 1989; Id., Scholarship of Fools. The Frail Foundations of Foucault’s Monument, “The Times Literary Supplement”, 23 marzo 2007, pp. 3-4. 39. L. Stone, Madness, “The New York Review of Books”, 16 dicembre 1982, pp. 28-36; si tratta di una recensione di quattro opere sulla follia che comprende diverse critiche rivolte a Foucault. 40. H.C.E. Midelfort, Madness and civilisation in early modern Europe: A reappraisal of Michel Foucault, in B.C. Malament (a cura di), After the Reformation, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 1980, pp. 247-265. 41. “History of the Human Sciences”, 1 e 3, 1990. Si veda inoltre G. Gutting, Foucault and the history of madness, in Id. (a cura di), The Cambridge Companion to Foucault, Cambridge University Press, Cambridge-New York 1994, pp. 47-70; A. Still, I. Velody (a cura di), Rewriting the History of Madness. Studies in Foucault’s Historie de la Folie, Routledge, New York 1992. 42. M. Foucault, An Exchange with Michel Foucault, “New York Review of Books”, 31 marzo 1983, pp. 42-44, poi ripreso in Dits et écrits (trad. “Scambio con Michel Foucault”, in Follia e psichiatria, cit., pp. 259-264).

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ticizzazione” della follia riferendosi alle analisi di Foucault fondate su opere di carattere estetico come il poema di Brandt Narrenschiff, la Nave dei folli di Bosch, il Don Chisciotte di Cervantes, le opere teatrali di Shakespeare o ancora Il nipote di Rameau di Diderot. Altri argomenti della critica storica vertono poi sul fatto che Foucault pretende di parlare in nome della cultura europea pur basando il suo discorso principalmente su esempi francesi, cosa che lo porterebbe a sovrainterpretare dei documenti d’archivio per rendere, per esempio, più omogenei gli interventi di Tuke e di Pinel. Infine, certi storici rimettono in questione la realtà empirica di certi fatti – come la nave dei folli o la liberazione dalle catene degli alienati a opera di Pinel – su cui Foucault basa la sua dimostrazione. La posta in gioco principale di questi dibattiti concerne il valore scientifico da attribuire al lavoro storico di Foucault. Su questo punto, Foucault presenta due prospettive. In primo luogo c’è l’invenzione del “metodo archeologico” attraverso il quale aspira a fornire coordinate rigorose alle indagini storiche. Foucault invoca un simile scrupolo di rigore storico nella sua risposta a Stone. Ma Foucault comprenderà anche che la pratica della disciplina storica come scienza non è forse così importante per esprimere il suo pensiero. Più precisamente, e più “ontologicamente”, la verità si dispiega per Foucault su due livelli: quello dei fatti e quello della finzione. Ci sono dunque, da una parte, delle verità fattuali e, dall’altra, degli effetti di verità che, benché fittizi, possono contribuire a cogliere il passato in modo tale da trasformare il presente. La realtà si presenta, di conseguenza, come una mescolanza complessa tra fatti e finzioni, cosa che non costituisce un dato originario per la coscienza degli storici. Foucault scrive: “Io mi rendo conto molto bene di non aver mai scritto altro che finzioni. Non voglio dire tuttavia che questo sia estraneo alla verità. Mi sembra che sia possibile far agire la finzione dentro la verità, indurre effetti di verità con un discorso di finzione, e fare in modo che il discorso di verità susciti, fabbrichi qualcosa che ancora non esiste, dunque ‘finga’. Si ‘finge’ una storia a partire da una realtà politica che la rende 148


vera, si ‘finge’ una politica che non esiste ancora a partire da una verità storica”.43 Bisogna allora ritenere che i momenti di rottura epistemologica (“Grande internamento” del 1657 e liberazione dei folli a opera di Pinel nel 1794) non siano oggettivamente determinanti per la storia della psichiatria? La citazione precedente potrebbe farlo pensare. Se è così, è perché l’intento principale di Foucault, contrariamente a quel che vogliono credere gli storici, non consiste nell’accumulare saperi teorici, ma piuttosto nell’iniziare delle lotte sul terreno della pratica. Foucault è arrivato peraltro a percepire se stesso più come un “artificiere” che non come un intellettuale puro, e i suoi libri più come delle “bombe molotov”44 che non come saperi costituiti. Questo valore di “effetto di verità” attribuito retrospettivamente all’opera del 1961 è chiaramente espresso nel corso di un’intervista del 1978 apparsa inizialmente sulla rivista “aut aut”: “In realtà, quel che voglio fare – e in questo risiede la difficoltà del tentativo – è operare una interpretazione, una lettura di un certo reale, tale per cui, da un lato, questa interpretazione possa produrre degli effetti di verità, e, dall’altro, questi effetti di verità possano diventare degli strumenti nell’ambito di lotte possibili […]. Quel che cerco di far apparire è una realtà di lotte possibili. Era già così nella Storia della follia”.45 Insomma, sarebbe sbagliato cercare di correggere la Storia della follia mostrando le sue lacune sul piano storico-scientifico. Uno dei suoi elementi di forza risiede piuttosto nella capacità di far giocare il regime della finzione nella realtà, in modo tale che questo gioco possa contribuire a generare delle lotte in grado di scuotere la distinzione tra ragione sana e folle sragione. Ma si deve anche dire che nell’opera del 1961 Foucault tendeva forse a sopravvalutare il posto e il ruolo della finzione nella realtà. In questo sen-

43. Id., “I rapporti di potere passano all’interno dei corpi” (1977), in Discipline, Poteri, Verità. Detti e scritti 1970-1984, Marietti, Genova-Milano 2008, p. 103. 44. Id., Les confessions de Michel Foucault, “Le Point”, 1° luglio 2004, p. 57. Questo testo non è stato ripreso in Dits et écrits, cit. 45. Id., “Precisazioni sul potere. Risposte ad alcuni critici” (1978), in Discipline, Poteri, Verità, cit., pp. 117-118.

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so, una critica di orientamento comunista come quella mossa da Peter Sedgwick46 deve essere presa sul serio: essa rimproverava a Foucault di non aver considerato i fattori economici per spiegare la storia della psichiatria. Non c’è alcun dubbio che gli obiettivi economici contemporanei che mirano a una riduzione della spesa pubblica costituiscano una, se non la principale delle motivazioni sottese ai provvedimenti delle politiche di deospedalizzazione che alimentano una certa ideologia di destra in cui lo stato è deresponsabilizzato. Secondo Sedgwick (che si unisce alla critica di Weissmann citata sopra), i movimenti antipsichiatrici, e in particolare Foucault, avrebbero contribuito a legittimare una tale ideologia conservatrice. Lo spirito di Foucault Al contrario dello studio sulle carceri, al suo reportage sulla rivoluzione iraniana o anche alle prove di sostegno verso qualche rifugiato politico (Klaus Croissant, “Boat people” ecc.), dove le inchieste e le rivendicazioni sono condotte direttamente sul campo o attraverso i media, le analisi foucaultiane sulla follia restano ampiamente storiche, e tutti gli studi di casi particolari si riferiscono a figure del passato (Herculine Barbin, Pierre Rivière, Nietzsche, Van Gogh, la rassegna di personaggi del corso Gli anormali ecc.). Pur avendo ispirato la creazione del Gruppo di informazione sui manicomi, Foucault non ha militato per la restituzione della libertà a nessuno di coloro che erano classificati come malati mentali, così come non ha manifestato a favore della chiusura di nessuna istituzione psichiatrica. Il suo attivismo rispetto alla follia è rimasto, in definitiva, solo intellettuale. Questo tuttavia nulla toglie al valore del suo discorso che, benché talvolta speculativo e a tratti “finzionale”, è stato e continua a essere una fonte d’ispirazione non solo per i ricercatori degli ambienti accademici (sociologi della salute mentale, storici della psichiatria ecc.), ma anche per attivisti, persone alle prese con disturbi di salute men46. P. Sedgwick, Psycho Politics. Laing, Foucault, Goffman, Szasz and the Future of Mass Psychiatry, Harper & Row, New York 1982.

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tale o survivors (come si dice negli Stati Uniti) del sistema psichiatrico. La Storia della follia fornisce una legittimazione storica alle lotte contro il sapere-potere psichiatrico, in particolare sul territorio nordamericano che è per eccellenza quello della “scientificizzazione” in psichiatria. Questa impresa di scientificizzazione della salute mentale è evidentemente problematica, non fosse altro che per il fatto ben noto che una parte importante degli autori del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (Dsm), pubblicato dall’American Psychiatric Association mantiene stretti legami con l’industria farmaceutica.47 L’antipsichiatria nordamericana e il riferimento spesso più intuitivo che non intellettualmente fondato a Foucault da parte degli operatori sociali intervengono come segnali di resistenza a questi rapporti incestuosi. Fuori dalle mura del manicomio, le reti d’informazione e di resistenza nordamericane si sono organizzate dotandosi di riviste (“The Radical Therapist”, “Santé mentale au Québec” ecc.), di associazioni nazionali talvolta su base volontaria che operano nel settore della salute mentale (Association canadienne de santé mentale, National Alliance on Mental Illness, National Association of Psychiatric Survivors ecc.), di centinaia di organismi senza scopo di lucro nell’ambito della salute mentale su scala più locale (si veda per esempio Folie/Culture),48 di movimenti diretti da survivors dei servizi psichiatrici (si veda per esempio il caso di Leonard R. Frank,49 co-fondatore del Network Against Psychiatric Assault), e dei centri di ricerca che hanno dedicato una parte o la totalità del loro lavoro alle questioni legate alla salute mentale (Groupe de recherche sur les aspects sociaux de la santé et de la prévention, National Institute of Mental Health, Centre for Addiction and Mental Health ecc.) Particolarmente attivi in Nord America a partire dagli anni settanta e ottanta, ed eredi del metodo conflittualista nello studio 47. L. Cosgrove et al., Financial Ties between DSM-IV Panel Members and the Pharmaceutical Industry, “Psychotherapy and Psychosomatics”, 75, 2006, pp. 154-160. 48. <www.folieculture.org>. 49. <www.mindfreedom.org/personal-stories/frankleonardr>.

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del controllo sociale, queste reti, il cui elenco è lungi dall’essere esaustivo, si riferiscono solo raramente al lavoro di Foucault, ma contribuiscono a mantenere ben vivo il suo spirito. Una parte rilevante delle persone che le hanno animate vi diranno di aver letto Foucault e di ispirarsi a diversi livelli dei suoi studi. Lo spirito di Foucault, il suo senso della liberazione, il suo appello alle lotte contro i dispositivi di sapere-potere, il suo senso critico ecc. possono costituire uno dei denominatori comuni e dei fondamenti di queste reti. Esse hanno certamente contribuito a far cadere alcuni tabù rispetto alla malattia mentale, ma ci insegnano anche che sulla follia continuano a esistere parecchi atteggiamenti e credenze errate. Conclusione Non si dovrebbe allora sopravvalutare l’impatto dell’opera di Foucault in Nord America, ma nemmeno negare la sua eredità. Sarebbe sbagliato presentarla come un vettore importante delle trasformazioni sociali, poiché queste si innescano o si sviluppano in modo indipendente rispetto all’opera di Foucault. La critica americana dell’istituzione del manicomio non ha dunque aspettato Foucault, come testimoniano gli studi di Goffman e Szasz; le politiche di deistituzionalizzazione hanno risposto molto di più a un bisogno economico di riduzione delle spese che non ad argomenti filosofici; e i movimenti di resistenza all’istituzione psichiatrica spesso non hanno che una conoscenza frammentaria e puramente intuitiva del pensiero di Foucault. L’impatto più notevole si fa sentire negli ambienti accademici, in particolare nel lavoro di Hacking e presso alcuni storici della psichiatria americana. Questa forza può anche essere percepita come un difetto, nella misura in cui il procedimento foucaultiano nell’opera del 1961 soffre di una certa mancanza di rapporto diretto con la pratica psichiatrica, cosa che non hanno mancato di rimproverargli alcuni medici e psichiatri. Ma uno dei principali contributi della Storia della follia sta non tanto nella sua capacità di rinnovare concretamente la pratica medica quanto nella problematizzazione dei rapporti di sapere-potere inerenti all’istitu152


zione medica, più specificatamente psichiatrica, che diventano sempre più tentacolari nelle comunità. Per questa ragione crediamo che, lungi dall’appartenere al passato, quest’opera conservi un’attualità e contenga argomentazioni che meritano di essere esplorate e rivisitate insieme alle altre opere e agli altri testi di Foucault. Questo può consentire di analizzare meglio le nuove tecniche di controllo della vita delle persone classificate come malati mentali, in particolare i meccanismi di normalizzazione che sono stati attivati sulla scia delle politiche di deistituzionalizzazione e che ci ricordano che i dispositivi di sapere-potere hanno capacità di adattamento infinite.50

Traduzione dal francese di Valeria Zini

50. L’autore desidera ringraziare il Consiglio di ricerca in scienze umane del Canada per il sostegno finanziario offerto durante la redazione del presente articolo.

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La ricezione della “Storia della follia” in Spagna VALENTÍN GALVÁN

Tardofranchismo, transizione politica e rinnovamento filosofico Questo saggio sulla ricezione della Storia della follia nell’età classica di Michel Foucault analizza le letture e i lettori in ambito accademico ed extra-accademico. Le differenti interpretazioni sono inquadrate all’interno del campo intellettuale che si consolidò a partire dalla fine della dittatura fino alla generazione filosofica della democrazia. L’accoglienza dell’opera foucaultiana ha coinciso con una tappa fondamentale della nostra storia, inseparabile dalla transizione politica. Durante quel periodo avvennero importanti cambiamenti politico-sociali, eventi che si svilupparono con una notevole sfasatura tra il Maggio francese (dalla restrizione alle possibilità di vita imposta dalla società dei consumi nelle democrazie liberali) e le aspettative della sinistra spagnola (la rottura con il regime dittatoriale come occasione per una rivoluzione politica e sociale). Da questa prospettiva si scorge, in modo più chiaro, l’origine e lo sviluppo delle diverse utilizzazioni della Storia della follia, senza trascurare le condizioni sociali degli interpreti e dei lettori, “profani e accademici”, né gli ambiti di ricezione dei testi: “intellettuale e politico”. Analizzeremo quindi i fronti di rinnovamento filosofico che segnarono la “transizione filosofica spagnola”. A partire dagli anni sessanta e settanta, oltre alla coesistenza dei “filosofi analitici e dialettici”, irruppe con entusiasmo un terzo gruppo di giovani filosofi di difficile collocazione, indicati come esponenti della filoso154

aut aut, 351, 2011, 154-172


fia ludica o nichilista,1 neonietzschianesimo,2 filosofi strutturalisti o filosofi poststrutturalisti.3 Carlos París presentava, complessivamente, queste correnti di pensiero come “filosofie di opposizione” alla metafisica scolastica: “Emergono dapprima forme di un pensiero nuovo iniziate con il movimento della filosofia della scienza; poi, con lo sviluppo della filosofia della prassi, con la ricezione e la discussione di idee marxiste; in seguito con la presenza analitica nel nostro paese e, infine, per citare la corrente più recente, con la cosiddetta ‘filosofia ludica’”.4 Il marxismo ha definito la “filosofia analitica” un’impaziente metafisica linguistica, offuscata dai problemi del significato e i rigori della propria ragione al servizio degli interessi della concezione borghese del mondo. Lo stesso Valeriano Bozal giustificava la nascita della “filosofia ludica o postnietzschiana” come parte integrante dell’ideologia borghese, motivandola con l’incapacità e la frustrazione dell’università e con la dubbia utilità della cultura e degli intellettuali a modificare il panorama politico spagnolo. Tali circostanze favorirono “un tipo di pensiero in apparenza totalmente alternativo e anarchico, ma in realtà facilmente assimilabile dal sistema. L’integrazione e quindi l’inutilità di questa tendenza sta nel suo carattere piccolo-borghese”.5 I “filosofi neonietzschiani”, da parte loro, rifiutarono sia la “filosofia dell’analisi” per l’eccessivo formalismo scientista sia il dogmatismo scolastico della “filosofia dialettica”. Fernando Savater riteneva decisivo, nel fiorire della tematica nietzschiana, “l’astio contro le filosofie pacificate che venivano impartite nelle aule universitarie e i loro superamenti progressisti, come la tediosa cantilena analitica o il rosario dei marxisti”.6 Pur essendoci molte differenze nella cosiddetta “filosofia ludi1. V. Bozal, Filosofía e ideología burguesas en España, “Zona Abierta”, 3, 1975, pp. 89-108. 2. J.L. Abellán, “El neonietzscheísmo”, in La industria cultural en España, Cuadernos para el diálogo, Madrid 1975, pp. 215-221. 3. J.L. López Aranguren, Debate sobre la nueva filosofía española, “El País”, 3, 1977, pp. I-II. 4. Intervista a Carlos París, Democracia y libertad en la vida universitaria, “Zona Abierta”, 3, 1975, p. 193. 5. V. Bozal, Filosofía e ideología burguesas en España, “Zona Abierta”, 3, 1975, pp. 105-106. 6. F. Savater, El pensamiento negativo: del vacío a los mitos, in M.A Quintanilla (a cura di), Diccionario de filosofía contemporánea, Sígueme, Salamanca 1976, p. 341.

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ca”, sia nella versione ludico-carnevalesca di Eugenio Trías sia in quella nichilista di Fernando Savater, entrambe le correnti non furono allora comprese a causa della loro improvvisazione e inefficacia. Ancora una volta, l’impegno rivendicato dalla filosofia marxista – avvalorata dalla dittatura come ideologia nemica – era evidente: “Cammino mistico per giovani entusiasti privilegiati; parole e parole piene forse in questo caso delle migliori intenzioni, ma inutili ‘qui e ora’ per gli stessi obiettivi che i loro autori – in genere senza confessarlo – pensavano comunque valesse la pena raggiungere – perché la loro è certamente una filosofia etica”.7 La ricezione in filosofia: Eugenio Trías Nel 1967 troviamo il primo riferimento bibliografico a un’opera di Foucault, ossia la recensione di Lluis Font8 di Le parole e le cose, pochi mesi dopo l’edizione originale francese.9 L’articolo è interpretabile come un segno dello “scandalo” suscitato dalla tesi foucaultiana sull’annuncio della “morte dell’uomo”. Le parole e le cose – tradotto in spagnolo nel 1968, fu dunque letto prima, e non solo in Spagna, della Storia della follia,10 tradotta nel 1967 ma passata sotto silenzio. L’opera archeologica foucaultiana fu introdotta in Spagna da Eugenio Trías.11 Nel 1968 uscì il suo articolo El loco tiene la pala7. E. Díaz, Notas para una historia del pensamiento español actual (1939-1973), Cuadernos para el diálogo, Madrid 1974, pp. 246-247. 8. P. Lluis Font, Michel Foucault: Les mots et les choses, “Convivium”, 24-25, 1967, pp. 161-165. 9. Gallimard, Paris 1966. 10. Per quanto riguarda le edizioni va ricordato che Folie et déraison. Histoire de la folie à l’âge classique, Plon, Paris 1961, fu ristampato varie volte: nel 1964 presso l’Union Générale d’Éditions, in versione ridotta; nel 1972 da Gallimard, in versione integrale, in cui vengono eliminati i primi due termini del titolo originale e inclusi tre nuovi lavori: una Prefazione e due Appendici, “La folie, l’absence d’œuvre” (già pubblicata in “La Table Ronde”, 196, 1964, pp. 11-21) e “Mon corps, ce papier, ce feu” (in polemica con Jacques Derrida, originariamente in “Paideia”, 11, 1972); infine nel 1978, di nuovo da Gallimard, senza le appendici citate. In spagnolo, Historia de la locura en la época clásica, trad. di J.J. Utrilla, Fondo de Cultura Económica, Méjico 1967, si basa sull’edizione Plon. La seconda edizione, del 1976, contiene anche i due testi dell’edizione Gallimard del 1972. 11. Eugenio Trías, per molti anni ha occupato la cattedra di Estetica e composizione alla Scuola di architettura di Barcellona. Attualmente è ordinario di Storia delle idee all’Università Pompeu Fabra. Nel 1995 ha ricevuto il premio internazionale Friedrich Nietzsche.

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bra12 e, tre mesi dopo, una versione ampliata dal titolo Presentación de la obra de Michel Foucault.13 Trías era considerato, negli anni settanta, uno strutturalista che aveva reinterpretato pensatori come Foucault, Derrida, Lévi-Strauss, Lacan, Althusser, Godelier ecc., che faceva derivare più o meno implicitamente dai pionieri Marx, Nietzsche e Freud,14 ritenendo propria dello strutturalismo la rilettura dei “filosofi del sospetto”,15 secondo l’espressione di Ricœur. L’oblio dell’autore di Maladie mental et personnalité16 e Maladie mental et psychologie17 fu dovuto al trattamento della follia. In entrambi i testi veniva riconosciuta la natura specifica della malattia mentale, malattia dell’uomo nella sua relazione con il mondo e la realtà sociale, il cui oggetto di studio era appannaggio della psicologia. Nella Storia della follia, invece, il problema era proprio la psicologia, in quanto la malattia mentale diventava una forma relativa della ragione, frutto di una costruzione storica artificiale. Foucault non pretese cioè di definire la follia senza studiare da quali pratiche e procedure si era costituita, interrogandosi piuttosto sulla storia politica della sua verità.18 La prima opera, secondo Serrano González, rimase estranea alle sue indagini successive: “Malattia mentale e personalità si colloca su una posizione più o meno ‘antipsichiatrica’, a partire dalla quale è in grado di 12. E. Trías, El loco tiene la palabra, “Destino”, 1628, 14 dicembre 1968, p. 66. 13. Id., Presentación de la obra de Michel Foucault, “Convivium”, 30, febbraio 1969, pp. 55-68; ripubblicato, col titolo “El loco tiene la palabra”, in Filosofía y carnaval, Anagrama, Barcelona 1970, pp. 11-31. Una versione ampliata è stata pubblicata in Filosofía y carnaval y otros textos afines, Anagrama, Barcelona 1971 (19843). 14. Id., Nietzsche, Freud, Marx: ¿revolución o reforma?, in M. Foucault, Nietzsche, Freud, Marx, trad. di A. González Troyano, Anagrama, Barcelona 1970, pp. 7-20. Discussione al VII Colloque de Royaumont (luglio 1964), “Nietzsche, Cahiers de Royaumont, Philosophie”, 6, 1967, pp. 183-200. 15. E. Trías, Estructuralismo, in M.A. Quintanilla (a cura di), Diccionario de filosofía contemporánea, cit., p. 138. 16. M. Foucault, Maladie mental et personnalité, PUF, Paris 1954; trad. di E. Kestelboim, Enfermedad mental y personalidad, Paidós, Buenos Aires 1961. [Cfr. Malattia mentale e personalità, “Scibbolet”, 1-3, 1994-1996, N.d.T.] 17. M. Foucault, Maladie mentale et psychologie, PUF, Paris 1962; ristampato nel 1966. [Cfr. Malattia mentale e psicologia, Raffaello Cortina, Milano 1997, N.d.T.] 18. A.B. Serrano González, “Una historia política de la verdad”, in Herculine Barbin llamada Alexina B. presentado por Michel Foucault, Editorial Revolución, Madrid 1985, pp. 159-181.

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affermare alcune cause reali e concrete della malattia mentale […]. Difficilmente si ritroverà in Foucault una lettura in chiave così dialettica, e si comprende ora perfettamente la ragione per cui l’autore in seguito rinnegò quest’opera”.19 L’interpretazione di Eugenio Trías è invece decisamente diversa. Nel progetto foucaultiano egli distinse due ambiti di indagine: quello “archeologico” che collega Storia della follia, Nascita della clinica e Le parole e le cose; e un altro, basato sulla concezione della “sragione”, che portava alle ultime pagine della Storia della follia, all’opera su Raymond Roussel e ad alcune pagine di Le parole e le cose. Per comprendere tale progetto teorico bisognava mettere in relazione l’ultimo capitolo di Malattia mentale e personalità con la prefazione della Storia della follia, dove Foucault tracciava un programma che intendeva applicare in opere successive. La Storia della follia veniva avvicinata, come ispirazione, al modello freudiano; essa esaminava l’origine stessa dei meccanismi scoperti nell’inconscio di un individuo occidentale consapevole, non però dal punto di vista di un’antropologia generale – come fece Freud –, bensì da una situazione antropologica precedente e differente. Si trattava per Foucault di analizzare, all’interno della nostra cultura occidentale, le condizioni di possibilità di una serie di premesse che la psicanalisi aveva presupposto come date. Per esempio, la separazione tra vita onirica e vita vigile, la divisione tra vita infantile e vita matura, o la costituzione di un alienato mentale in base alla struttura “inclusione-esclusione”. Il filosofo di Poitiers rese così possibile il costituirsi di una psicologia delle malattie mentali che volesse essere empirica, oggettiva e positiva, e che lo portò a formulare la seguente ipotesi: se l’intenzione era di produrre la scissione tra “incluso” ed “escluso” in tutti i campi della cultura occidentale, “non sarà forse la ‘struttura inclusione-esclusione’ a reggere l’intera cultura dell’Occidente, quella che ne è alla base e che spiega tanto la sua storia quanto le sue specifiche produzioni?”.20 19. Id., “La obra de Michel Foucault: una historia de la verdad”, in Michel Foucault. Sujeto, derecho, poder, Universidad de Zaragoza, Zaragoza 1986, pp. 9-10. 20. E. Trías, “La filosofía sin el hombre”, in La filosofía y su sombra, Seix Barral, Barcelona 1968, p. 103.

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Dunque, nella Storia della follia vengono indagate l’origine e le trasformazioni del contenuto della struttura alienazione-normalità. Il risultato fu la definizione di due tipi di anormalità: la “sragione” degli insensati dei secoli XVII-XVIII e l’“alienazione mentale”, smascherando così il discorso ingannevole della psichiatria nel suo particolare monologo della ragione sulla follia. La follia, priva di linguaggio dopo la fine del Rinascimento, avrebbe recuperato la parola con la psicanalisi per trasformarsi in una nuova astuzia della ragione. Dato che prima la cultura occidentale era scissa in due settori che non comunicavano tra loro, la ragione e la sragione, ne conseguì un unico discorso possibile per parlare della follia, quello dei presunti “saggi”.21 Una volta provvisto di linguaggio, il folle prese la parola nello scambio tra ragione e follia attraverso l’opera critica di Nietzsche, Artaud, Sade, Roussel o Goya: “Il folle, a partire (e non prima) del XVII secolo ‘manca di linguaggio’, il suo discorso risulta incomprensibile […]. Ma, in ogni caso, il suo messaggio non riguarda ‘l’altro mondo’ dei normalirazionali. Il suo discorso non inquieta, non è mai stato una contestazione […] Questo essere escluso e destinato alla reclusione, questo mero ‘oggetto’ dello psichiatra inizia a parlare, a esprimersi e a inquietarci con un messaggio inedito. E quel che è più pericoloso: un tale messaggio comincia a essere udito, inteso e assimilato”.22 Le “opere della follia” di questi folli illustri hanno mostrato l’altra faccia dei valori dell’Occidente, il suo risvolto d’ombra, il suo grado zero,23 evidenziando il carattere intermediario e sacerdotale dell’opera foucaultiana tra i due mondi separati della ragione e della follia.24 Bisogna notare che la presentazione della Storia della follia, come tesi di dottorato alla Sorbona, si accompagnava alla thèse mineure per una nuova edizione dell’Antropologia di Kant. La pre21. Id., “El retorno de las sombras”, in Filosofía y carnaval, cit., pp. 56-60. 22. Id., “El loco tiene la palabra”, in Filosofía y carnaval, cit., pp. 26-27. 23. Il riferimento all’ipotesi del “grado zero della follia”, presente nella prefazione della prima edizione francese, non si ritrova nelle edizioni successive. Si veda M. Morey (a cura di), Sexo, poder, verdad. Conversaciones con Michel Foucault, Cuadernos Materiales, Barcelona 1978, pp. 239-260. 24. E. Trías, “Arqueología de la cultura occidental”, in Filosofía y carnaval, cit., pp. 32-55.

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fazione venne pubblicata con il titolo Anthropologie du point de vue pragmatique,25 il che ha reso ancora più inspiegabile l’oblio di Foucault dell’opera kantiana, in particolare del suo contributo alla storia della costituzione della follia che fece da ponte tra Cartesio e Nietzsche. Miguel Morey ha espresso la sua sorpresa per questa omissione, considerato l’interesse dimostrato da Kant per il discorso della follia e la sragione, traendo la sua classificazione da concetti psichiatrici, e il suo rifiuto della medicina nel trattamento e nella medicalizzazione della follia.26 La ricezione dell’antipsichiatria e la “Storia della follia”: Ramón García e gli psichiatri progressisti Nel periodo precedente al movimento antipsichiatrico furono pubblicate due opere fondamentali: Asylums di Erving Goffman27 e appunto la Storia della follia. Entrambi i libri, usciti nel 1961, erano noti, fino ad allora, esclusivamente in ambito accademico. Lo stesso Foucault si sorprese del silenzio con cui fu accolta la sua opera: non troviamo infatti alcuna reazione nelle pubblicazioni della sinistra francese prima del 1966 o 1967; ebbe invece un’effettiva ripercussione e fu in auge nel successivo sviluppo del movimento antipsichiatrico. I punti focalizzati da Foucault e le sue problematiche ebbero scarsa risonanza fino agli eventi del Maggio ’68. Con la rivolta studentesca si produsse uno spostamento fondamentale attorno alla tematica del potere: “Michel Foucault ritrovò in questi movimenti molti dei problemi che aveva precedentemente analizzato e che, con il Maggio ’68, assunsero uno statuto politico. Un esempio importante: la contestazione psichiatrica”.28 25. Il lavoro di tesi, dal titolo “L’anthropologie de Kant” consistette nella traduzione e nelle note alla Anthropologie in pragmatischer Hinsicht di Kant. Si tratta di due volumi dattiloscritti, il secondo dei quali è un breve prologo pubblicato col titolo Anthropologie du point de vue pragmatique, Vrin, Paris 1964 (ristampato nel 1970). [Cfr. I. Kant, Antropologia dal punto di vista pragmatico, Einaudi, Torino 2010, N.d.T.] 26. M. Morey, “El solar y la grieta”, in Lectura de Foucault, Taurus, Madrid 1983, pp. 37-75. 27. E. Goffman, Asylums. Essays on the Social Situation of Mental Patients and Other Inmates, Doubleday-Anchor, New York 1961; trad. di M.A. Oyuela de Grant, Internados. Ensayos sobre la situación social de los enfermos mentales, Martínez de Murguía, Madrid 1970. [Cfr. Asylums, Einaudi, Torino 1968, N.d.T.] 28. M. Morey, “Introducción a Michel Foucault”, in Id. (a cura di), Sexo, poder, verdad. Conversaciones con Michel Foucault, cit., p. 48.

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Al di là delle influenze del Maggio francese, le indagini di Goffman e Foucault furono divulgate anche dalla psichiatria anti-istituzionale: Asylums venne pubblicato in Italia a cura di Franco e Franca Basaglia e in Francia da Robert Castel, mentre la traduzione inglese, Madness and Civilization, uscì nella collana diretta da Ronald Laing,29 con la prefazione di David Cooper. Anche il nostro autore si avvicinò ai movimenti dell’antipsichiatria, come dimostrano i corsi al Collège de France Il potere psichiatrico30 e Gli anormali,31 La casa della follia nel volume collettivo Crimini di pace32 e i suoi contatti con il “Gruppo internazionale della mappa della vergogna”.33 In Spagna, lo psichiatra Ramón García34 presentò i primi testi antiautoritari e antipsichiatrici, precisamente nella prefazione all’Istituzione negata35 e nell’introduzione a ¿Psiquiatría o ideo29. Cfr. J.L. Fábregas, J. Calafat, Política de la psiquiatría (Charlando con Laing), Editorial ZYX, Madrid 1976. 30. Cfr. il riassunto del corso M. Foucault, Le pouvoir psychiatrique (Corso al Collège de France 1973-1974), pubblicato nell’Annuario del Collège. In spagnolo ne fu pubblicata una sintesi col titolo “Psiquiatría y Antipsiquiatría”, in M. Foucault, La vida de los hombres infames, trad. di J. Varela e F. Álvarez-Uría, La Piqueta, Madrid 1990, pp. 69-82. Per consultare il testo completo si veda, El poder psiquiátrico, trad. di H. Pons, Akal, Madrid 2005. 31. Cfr. il riassunto del corso M. Foucault, Les anormaux (Corso al Collège de France 1974-1975), pubblicato nell’Annuario del Collège. Per lo spagnolo, cfr. “Los anormales”, in M. Foucault, La vida de los hombres infames, cit., pp. 83-91. Cfr. anche Hay que defender la sociedad, trad. di J.F. Vega, Almagesto, Buenos Aires 1992, pp. 9-17. 32. M. Foucault, La casa della follia, in F. Basaglia, R. Castel, E. Goffman, T. Szasz et al., Crimini di pace. Ricerche sugli intellettuali e sui tecnici come addetti all’oppressione, Einaudi, Torino 1975; cfr. la traduzione spagnola di C. Valcarce, La casa de la locura, in F. Basaglia et al., Los crímenes de la paz, Siglo XXI, Méjico 1977, pp. 135-150. 33. Il “Gruppo internazionale della mappa della vergogna” era costituito da persone di vari paesi: gli italiani F. e F. Basaglia, M.G. Giannichedda, D. Casagrande; i francesi R. Castel, C. Bec, F. Castel, S. Tomkiewicz; il tedesco E. Wulf; e gli spagnoli A. Roig e R. García. Su questa rete cfr. R. García, “El ayer y el hoy de la psiquiatría española (1965-1993)”, in Historia de una ruptura. El ayer y el hoy de la psiquiatría española, Virus, Barcelona 1995, pp. 27-130. 34. Ramón García ha studiato medicina e psichiatria all’Università di Saragozza e Barcellona. Ha insegnato psicologia all’Università catalana, fino al suo licenziamento nel 1968 per motivi politici. Ha lavorato all’Hospital mental de la Santa Cruz di Barcellona, da cui fu espulso nel 1973, e poi all’Hospital psiquiátrico di Bétera (Valencia). È stato membro fondatore del “Colectivo crítico para la salud mental”. 35. R. García, A. Serós, L. Torrent, “Una experiencia frente a la ciencia”, prefazione a F. Basaglia, F. Basaglia (a cura di), La institución negada, trad. di J. Pomar, Barral Editores, Barcelona 1972, pp. 7-17 (ed. originale: L’istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico, Einaudi, Torino 1968).

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logía de la locura?.36 Entrambi i testi sono un riepilogo delle discussioni avviate dai Basaglia e raccolte dalla sue équipe attorno alle esperienze psichiatriche sviluppate nell’ospedale psichiatrico di Trieste. Nei due scritti introduttivi Ramón García faceva riferimento alle pratiche di un gruppo internazionale di psichiatri, proponendo la necessaria e urgente partecipazione e comunicazione degli ospedali psichiatrici spagnoli alla semiclandestina “Coordinadora psiquiátrica”, un coordinamento nato nel 1971 come movimento di solidarietà alle lotte sul lavoro all’ospedale psichiatrico di Oviedo: “L’ospedale psichiatrico è un centro di regime di custodia o carcerario destinato a ‘raccogliere’, come si sente dire ogni giorno, quelli che non si adattano alle norme sociali stabilite e non partecipano al processo produttivo […]. Affermando che l’ospedale psichiatrico è un’istituzione manipolatrice non facciamo che affermare ciò che abbiamo vissuto nella nostra pratica”.37 Senza una precisa organizzazione, il Coordinamento riunì alcuni psichiatri critici e i lavoratori insoddisfatti dei centri psichiatrici. Nelle loro rivendicazioni essi denunciarono, fondamentalmente, l’esclusione sociale del malato mentale, la privazione dei suoi diritti elementari, la violenza e l’oppressione cui erano sottoposti, il regime di custodia e gerarchico dei manicomi così come le dubbie e controverse diagnosi cliniche. Il Coordinamento psichiatrico parve perdere nella pratica la sua ragion d’essere e cadde in un lungo letargo fino a quando, nel 1973, la lotta dei lavoratori dell’Instituto mental de la Santa Cruz (a Barcellona) riprese con estrema forza. Si concluse definitivamente a metà del 1975, quando fu organizzato l’ultimo incontro, a Santiago de Compostela, in occasione di un altro conflitto, che riguardava questa volta l’ospedale psichiatrico di Conxo. A partire dai testi Malattia mentale e personalità e Storia della 36. R. García, “Ideología de la locura y locuras de la ideología”. Il testo è l’introduzione a una raccolta di lavori di F. Basaglia et al., ¿Psiquiatría o ideología de la locura?, a cura di R. García, Anagrama, Barcelona 1972, pp. 17-18. 37. Documento redatto da alcuni degli ex lavoratori dell’ospedale psichiatrico di Oviedo licenziati nel 1971. Cfr. Sección antipsiquiatría, “El Viejo Topo”, 4, gennaio 1977, p. 34.

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follia, Ramón García denunciò la mancanza di comunicazione esistente tra “uomo ragionevole e folle”. Scissione e violenza accentuate nella pratica psichiatrica dell’istituzione manicomiale e comprovate nei concetti di diagnosi, tecnica terapeutica, cura e più nettamente in quello di malattia. La psichiatria come potere classificatorio aveva creato, nella concezione della malattia, la partizione tra normale o inclusione e patologico o esclusione.38 Il nuovo ordine manicomiale si rifletteva nello psichiatra – nel suo ruolo di escludente –, nell’istituzione – come luogo di esclusione –, e decisamente nel malato – come soggetto escluso. Medicina e psichiatria, come mediatrici del potere istituito, non pretendevano di confinare la follia con la sola finalità di escluderla bensì di rinchiuderla attraverso il suo trattamento, in modo da poter organizzare la violenza necessaria per dominare, controllare e addomesticare il folle. Nella Storia della follia il manicomio era identificato con uno spazio giudiziario dove si accusa, si giudica, si condanna e si punisce la follia, sebbene all’esterno essa sia innocente. Il potere del medico-psichiatra fu stabilito da un contratto sociale che ne fece il garante della norma e delle sue funzioni: “Dalla fine del XVIII secolo il certificato medico è diventato quasi obbligatorio per internare i folli all’interno stesso del manicomio; se si richiede la professione medica, è come garanzia giuridica e morale, non come titolo scientifico”.39 Il processo di addomesticamento della follia fu appoggiato, alla sua nascita, dall’ideologia medica, essendo decisivo per il suo riconoscimento sociale – in un’epoca positivista e borghese – il contratto che legava la psichiatria ai poteri politici. Da allora gli psichiatri si unirono esplicitamente alle forze dell’ordine pubblico per ridurre brutalmente al silenzio la parola del folle. Ramón García non si riconobbe però sotto le etichette dell’antipsichiatria o della psichiatria critica, né seppe “dare un nome a 38. R. García, “Una experiencia frente a la ciencia”, in F. Basaglia et al., La institución negada, cit., pp. 7-17. 39. R. García, “Orden manicomial y reeducación de la violencia”, in F. Basaglia, L. Carrino, R. Castel, J. Espinosa, A. Pirella e D. Casagrande, Psiquiatría, antipsiquiatría y orden manicomial, introduzione e cura di R. García, Barral Editores, Barcelona 1975, pp. 13-29.

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questa critica”.40 Preferì parlare delle esperienze vissute in relazione alle istituzioni psichiatriche, pur giustificando, attraverso la sovrapposizione foucaultiana di “sapere e potere”, la sua dura contestazione al dominio come critica dell’autorità nelle sue varie istituzioni: la famiglia, la scuola, l’università, l’esercito, il manicomio, la chiesa, il carcere e, “in ultima istanza, lo stato, quella che ci impone tutte le altre”.41 Possiamo ugualmente vedere confermata l’influenza e la ricezione della Storia della follia in altri psichiatri progressisti come González Duro,42 González de Chávez, Guillermo Rendueles,43 Alicia Roig, Julián Espinosa44 e Carmen Sáez Buenaventura.45 A partire dall’Illuminismo, con la riforma delle carceri e delle istituzioni di correzione e asilo, si pose la necessità di edificare luoghi speciali per rinchiudere i folli e disfarsi di personaggi che producevano disturbo sociale. In seguito, il medico prese possesso delle istituzioni destinate alla custodia del folle, garantendo tecnicamente l’internamento e appropriandosi delle funzioni di arbitro per decidere chi si trovava fuori o dentro la “norma”. La psichiatria si alleò allo stato giuridico, introducendo così uno dei suoi ruoli caratteristici fino a oggi, la figura del medico legale.46 Il trattamento psichiatrico usò un pretesto medico per ricoprire una funzione etico-politica di controllo di partico40. Si veda l’allegato n. 6, “Psiquiatría y antipsiquiatría”, e n. 8, “Manifiesto fundacional del Colectivo crítico para la salud mental”, in R. García, Historia de una ruptura. El ayer y el hoy de la psiquiatría española, cit., pp. 197-199 e pp. 205-209. L’allegato n. 6 fu ripreso nel 1987 dal quotidiano “El País”. 41. M. Morey, J. Sarret, ¡Abajo la autoridad!, intervista a Ramón García, “El Viejo Topo”, 39, dicembre 1979, p. 27. 42. Si veda l’epigrafe di González Duro, “Historia de la locura”, in Locura, sociedad y psiquiatría (Prologo), in J.L Fábregas, A. Calafat, Política de la psiquiatría (Charlando con Laing), cit., pp. 7-33; e dello stesso autore, Psiquiatría y sociedad autoritaria, Akal, Madrid 1978. 43. G. Rendueles Olmedo, “La genealogía del sujeto: Foucault”, in La locura compartida, Belladona, Gijón 1993, pp. 15-23. 44. J. Espinosa, El nacimiento de los manicomios, in F. Basaglia et al., Psiquiatría, antipsiquiatría y orden manicomial, cit., pp. 33-51. 45. C. Sáez Buenaventura, M. Bugallo, V. Corcés, L. Doria, J. García González, M. González de Chávez, S. Lamas, V. Pereira, Conflictos y lucha psiquiátrica en España, Dédalo, Madrid 1978. 46. E. González Duro, “Del manicomio a la alternativa popular”, prefazione a E. Mora, Salud, poder y locura, Fundamentos, Madrid 1982, pp. 23-46.

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lari devianti sociali: “In realtà, la psichiatria agisce come una struttura di potere-sapere, che definisce, concettualizza, classifica, controlla e corregge la follia di persone deboli ed emarginate, in accordo con gli interessi e i valori di una società ‘normalizzata’ e ‘normalizzante’, valori che corrispondono a quelli dell’ideologia dominante”.47 Alla fine del 1979 si tenne il XV Congresso dell’Associazione spagnola di neuropsichiatria (Aen).48 Fin dalla sua fondazione l’Aen, erede e continuatrice dei neuropsichiatri repubblicani, fu una delle associazioni più progressiste, quanto a impostazione ed effettivo funzionamento dell’assistenza psichiatrica. Va ricordato l’intervento di González de Chávez al congresso: “Gli splendidi lavori Storia della follia nell’età classica, Nascita della clinica, Sorvegliare e punire e Storia della sessualità meritano maggiore attenzione di quelli dei professionisti progressisti della salute mentale. Foucault è uno dei più intelligenti e interessanti pensatori del nostro tempo e ha dedicato gran parte dei suoi sforzi per descrivere la logica istituzionale della società odierna con alcune analisi sorrette dalla conoscenza storica degli ultimi tre secoli”.49 Tale giudizio sull’opera di Foucault si distinse nella generale ignoranza e indifferenza dei medici psichiatri lì riuniti, visto che in nessuna delle altre relazioni, raccolte e pubblicate successivamente in un volume di oltre seicento pagine, è presente alcun riferimento alla sua opera. Le riviste alternative: “Ajoblanco” e “El Viejo Topo” Durante la transizione assistiamo a un’importante fioritura di pubblicazioni critiche e di editoriali, soprattutto da parte della sinistra alternativa, che possiamo interpretare come legate alle aspettative di rottura rivoluzionaria che per molti spagnoli coincisero con 47. E. González Duro, El aparato psiquiátrico, “El Viejo Topo”, settembre 1979, p. 22. 48. Per conoscere l’evoluzione e le relazioni esistenti tra il Coordinamento psichiatrico e l’Aen si veda G. Rendueles Olmedo, De la Coordinadora Psiquiátrica a la Asociación Española de Psiquiatría: De conspiradores a burócratas, in V. Aparicio Basauri (a cura di), Orígenes y fundamentos de la psiquiatría en España, Editorial libro del año, Madrid 1997, pp. 287-309. 49. M. González de Chávez, Historia de los cambios asistenciales y sus contextos sociales, in Id. (a cura di), La transformación de la asistencia psiquiátrica, Mayoría, Madrid 1980, p. 40.

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il crollo del franchismo. Le numerose pubblicazioni e riflessioni teoriche, tecniche e politiche furono il mezzo di espressione di un combattivo e crescente movimento di lavoratori della salute mentale, che in quegli anni attuarono un importante sforzo per cambiare il contesto e gli schemi di riferimento della propria pratica professionale. Alla fine del 1976 “Ajoblanco” e “El Viejo Topo” inauguravano “sezioni di antipsichiatria”.50 La rivista anarchica “Ajoblanco”51 riteneva che bisognasse permettere “alla follia di esprimersi liberamente”, rafforzando così il suo lato contestatore in modo analogo a quanto si faceva in Francia, a partire dal 1969, nella rivista “Cahiers pour la folie”. La nota di presentazione della sezione di antipsichiatria non poteva essere più incalzante: “È necessario”, con allusione a Foucault, “che i folli prendano la parola per intensificare il contatto diretto, spontaneo e vitale di tutti coloro che hanno avuto un qualche incontro con la psichiatria in qualità di pazienti mentali – nevrotici, schizofrenici, omosessuali, psicopatici, tossicomani ecc. – e che comunichino esperienze e vissuti esprimendo, al tempo stesso, le proprie grida di protesta”.52 Dal “Viejo Topo”53 l’antipsichiatria fu definita come un insieme di movimenti che, da diverse prospettive, intendevano dare una risposta pratica alla violenza della psichiatria, mettendo in discussione le basi teoriche su cui si fondava. Furono pubblicate varie interviste ai rappresentanti del “movimento antipsichiatrico”, come David Cooper, Ivan Illich, Giovanni Jervis e Franco Basaglia, al fine di divulgare “i contenuti principali della teoria e della 50. Sección antipsiquiatría, “Ajoblanco”, 16, 1976, pp. 46-47; Sección de antipsiquiatría, “El Viejo Topo”, 4, gennaio 1977, pp. 29-40. 51. Rivista di filiazione anarchica, edita a Barcellona, aperta ai collettivi naturisti e all’autogestione nei quartieri, fabbriche e scuole, e ai movimenti sociali antipsichiatrici e carcerari. Il primo periodo di “Ajoblanco” va dall’ottobre 1974 al maggio 1980. 52. Sección antipsiquiatría, “Ajoblanco”, 16, novembre 1976, p. 46. Si veda anche Antipsiquiatría, “Ajoblanco”, 18, gennaio 1977, pp. 36-37. 53. Di particolare rilevanza fu il contributo della rivista “El Viejo Topo”, pubblicazione di critica alla cultura dominante, con articoli e traduzioni di intellettuali di prestigio europei e spagnoli. Il primo numero uscì nell’ottobre del 1976 e l’ultimo (della prima fase) nel luglio del 1982, sotto la direzione del filosofo e giornalista Francesc Arroyo.

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pratica antipsichiatriche”.54 E una serie di testi su temi quali la violenza della psichiatria, il diritto alla follia, la critica del potere, la normalità e il suo razzismo, la famiglia, l’istituzione psichiatrica e la sua funzione sociopolitica ecc., che rimandavano alle opere di Basaglia, Cooper, Gentis, Reich, al Collettivo socialista di pazienti (Spk) di Heidelberg, Deleuze, Guattari, Castel. Si citavano anche, di Foucault, Malattia mentale e personalità e il saggio La casa della follia.55 Sia le interviste sia gli autori e i titoli citati volevano stimolare i lettori a un approfondimento e a una conoscenza della problematica psichiatrica che non poteva risolversi solo a livello scientifico, ma che esigeva un dibattito pubblico, il cui significato e la cui natura dovevano in primo luogo essere compresi dagli utenti. In entrambe le riviste si poteva riconoscere la “moda antipsichiatrica” che includeva i testi di Foucault come vicini agli orientamenti dell’antipsichiatria. La risposta alla partecipazione popolare richiesta da “Ajoblanco” e “El Viejo Topo” non si fece attendere. Fu creato un “Colectivo de locos”56 che denunciava la propria condizione nella relazione con l’istituzione psichiatrica, la quale considerava i folli come colpevoli della loro malattia. Il Collettivo rivendicava il diritto alla follia che la società doveva assumere, affermando anche che gli stessi malati potevano trovare le loro “proprie soluzioni”. Successivamente prese il nome di “Colectivo para la salud mental”57 ed entrò a far parte della “Rete internazionale di alternativa alla 54. Si vedano: El orgasmo es revolucionario (intervista a D. Cooper), “El Viejo Topo”, 16, gennaio 1978, pp. 17-20; S. Ruotolo, Ivan Illich: destruir las instituciones, “El Viejo Topo”, 17, febbraio 1978, pp. 45-48; M. Morey, J. Sarret, Entrevista con G. Jervis: la locura es la caricatura de la libertad, “El Viejo Topo”, 27, dicembre 1978, pp. 8-13; Entrevista con F. Guattari: ¿qué es la adolescencia?, “El Viejo Topo”, 43, aprile 1980, pp. 47-50; Entrevista con F. Basaglia: Elogio del manicomio, “El Viejo Topo”, 45, giugno 1980, pp. 17-21. 55. Queste sono le opere citate con i loro rispettivi autori: L’istituzione negata di F. Basaglia; Psichiatria e antipsichiatria, La politica dell’orgasmo e La morte della famiglia di D. Cooper; Contro l’istituzione totale di R. Gentis; La rivoluzione sessuale di W. Reich; Spk (Sozialistisches Patientenkollektiv, 1970); L’anti-Edipo di G. Deleuze e F. Guattari; Malattia mentale e personalità e La casa della follia di M. Foucault; Per una critica dell’istituzione psichiatrica di R. Castel. Cfr. Sección de antipsiquiatría, “El Viejo Topo”, 4, gennaio 1977, pp. 29-40. 56. Por un colectivo de locos, “Ajoblanco”, 21, aprile 1977, p. 47. 57. Colectivo para la salud mental e Hacia la salud mental. Desmixtificación de la antipsiquiatría, “Ajoblanco”, 34, giugno 1978, pp. 56-57.

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psichiatria”, istituzione nella quale si distinse Castel come uno degli ispiratori della rete europea. Ci fu anche un “Colectivo de psiquiatrizados en lucha”,58 probabilmente l’unico luogo aperto a tutte le forme di psichiatria non repressiva, alternativa o di antipsichiatria, che funzionò a partire dal 1974 e fu diretto dagli psichiatri González Duro e M.P. Marina. L’esperienza di questa vera e propria comunità terapeutica fu qualcosa di inedito in Spagna non solo per il suo regime aperto, ma perché in essa convissero uomini e donne.59 L’origine del “Colectivo de psiquiatrizados en lucha” fu la “necessità perentoria e urgente che la voce del folle si diffondesse il più possibile nella società; che il folle fosse conosciuto, che sparisse l’immagine che spaventa il presunto sano, quell’immagine che deforma il folle e ne fa un essere di terza categoria”.60 Fin dagli inizi, questi gruppi di psichiatrizzati erano in contatto con le varie reti e nel 1977 si unirono al famoso gruppo di Trieste. A Oviedo si svolsero alcune “Giornate di psichiatria alternativa”, organizzate in collegamento con la rete europea da un comitato di studenti di medicina e psicologia, alle quali parteciparono, tra gli altri, G. Rendueles, J.L. Fábregas,61 González Duro, E. Mora,62 E. Venturini e González de Chávez. In quelle giornate fu rivendicato un cambiamento radicale nella psichiatria affinché questa “non fosse più fonte di repressione né di segregazione, ma di liberazione, integrazione e comunità”.63

58. Psiquiatrizados en lucha, “Ajoblanco”, 30, febbraio 1978, pp. 46-47. Si veda anche, II Manifiesto del Colectivo de psiquiatrizados en lucha, “El Viejo Topo”, 47, agosto 1980, pp. 7273; E. González Duro, “Colectivo de psiquiatrizados en lucha”, in Treinta años de psiquiatría en España. 1956-1986, Ediciones Libertarias, Madrid 1987, pp. 191-197. 59. E. González Duro, M.P. Marina, Hospital de día de Madrid: autocrítica de una alternativa, “Ajoblanco”, 43, marzo 1979, pp. 58-61. Cfr. E. González Duro, “La reforma y los conflictos psiquiátricos”, in Treinta años de psiquiatría en España. 1956-1986, cit., pp. 121-154. 60. Colectivo de psiquiatrizados en lucha, in J. López Linage (a cura di), Grupos marginados y peligrosidad social, Campo Abierto, Madrid 1977, pp. 60-63. Questo collettivo nacque da alcune riunioni convocate al Colegio de Madrid col nome di “Alternativas a la asistencia psiquiátrica”. 61. J.L. Fábregas, Institución y encubrimiento de la tortura, “Ajoblanco”, 32, marzo 1978, pp. 52-54; A. Roig, J.L. Fábregas, E. Mora, Por una psiquiatría alternativa, “El Viejo Topo”, 15, dicembre 1977, pp. 18-23. 62. Si veda E. Mora, Salud, poder y locura, cit. 63. Jornadas de psiquiatría alternativa, “El Viejo Topo”, 27, dicembre 1978, p. 74.

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La sociologia: Fernando Álvarez-Uría e altri Alla fine degli anni settanta, Fernando Álvarez-Uría concluse il suo dottorato alla Facoltà di sociologia di Paris VIII (Vincennes). Sia i corsi di Foucault sia le analisi condotte da Castel e Donzelot furono determinanti per le sue successive ricerche genealogiche. Castel fu il relatore della sua tesi di dottorato, basata sulla metodologia foucaultiana e incentrata sulle relazioni di potere-sapere, in particolare negli ambiti della medicina e delle istituzioni di reinserimento sociale. Nel 1983 pubblicò il saggio Miserables y locos. Medicina mental y orden social en la España del siglo XIX 64 che Castel65 apprezzò molto. Álvarez-Uría denunciava il manicheismo della borghesia nel suo intento di contrapporre ragione e follia, costruendo la chimera della razionalità per accreditare il pericolo del manicomio. La borghesia lo trasformò in gabinetto privilegiato di osservazione e sperimentazione dei socialmente pericolosi, con l’obiettivo – nel trattamento dei malati mentali – di produrre soggetti inoffensivi. Furono creati manicomi come laboratori sociali per controllare gli indesiderabili, il che facilitò la produzione di dispositivi disciplinari e di normalizzazione degli individui, legittimati dai medici alienisti, la cui razionalità nel suo agire in nome di un sapere scientifico divenne indiscutibile.66 Al di là della rumorosa moda dell’antipsichiatria, Álvarez-Uría lamentava come le trasformazioni della psichiatria in ambito sociale fossero state minime, soprattutto quando la scienza medica svolse un ruolo decisivo nella generalizzazione del controllo sociale della popolazione. Le applicazioni genealogiche di questo autore rappresentano probabilmente l’uso migliore della “scatola degli attrezzi”, per utilizzarla in indagini empiriche legate in modo critico e politico al presente.67 Quale apporto imprescindibile al64. F. Álvarez-Uría, Miserables y locos. Medicina mental y orden social en la España del siglo XIX, Tusquets, Barcelona 1983. 65. R. Castel, “Prólogo”, in F. Álvarez-Uría, Miserables y locos, cit., pp. 7-13. 66. F. Álvarez-Uría, Las instituciones de “normalización”. Sobre el poder disciplinario en escuelas, manicomios y cárceles, “Revista de Pensamiento Crítico”, 1, maggio-giugno 1994, pp. 41-49. 67. Si vedano i seguenti lavori di Fernando Álvarez-Uría: Poder médico y orden burgués. Análisis socio-histórico de las condiciones de aparición de la medicina moderna, “Cuadernos

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la conoscenza dell’opera foucaultiana vanno menzionati i contributi delle edizioni La Piqueta, in particolare la collana “Genealogia del potere” diretta dai sociologi Julia Varela e appunto Fernando Álvarez-Uría, e inaugurata con la raccolta di testi foucaultiani dal titolo Microfisica del potere.68 José Luis Peset ha invece rivelato lo stretto legame tra medicina e diritto, “due facce della stessa medaglia”. In Ciencia y marginación. Sobre negros, locos y criminales69 ha dimostrato come la cooperazione tra il medico e il giurista ha aumentato la dipendenza tra psichiatria e diritto. Dalla fine del XVIII secolo la nascente borghesia, conscia del pericolo sociale che, nel processo di urbanizzazione, comportava l’elevato numero di folli, produsse infatti una ferrea disciplina attorno al folle che agevolò l’incontro tra la medicina e il diritto, tra i progressi scientifici e la repressione giuridica crescente.70 Il medico, che aveva dimostrato il suo potere di riportare il malato mentale alla ragione, si pose come giudice supremo e reggente nel manicomio.71 I poteri medico-psichiatrici erano stati incrementati per la tranquillità dell’ordine borghese fino alla comparsa di Freud e della psicanalisi, ed erano sinonimi di prestigio, potere e cura. Anche Serrano González sottolineò code Realidades Sociales”, 13, maggio 1977, pp. 5-25; Contra el poder, el saber y la verdad, “Cuadernos de Realidades Sociales”, 14-15, gennaio 1979, pp. 181-186; De la policía de la pobreza a las cárceles del alma, “El Basilisco”, 8, luglio-dicembre 1979, pp. 64-71; Los visitadores del pobre. Caridad, economía social y asistencia psiquiátrica en la España del siglo XIX, in AA.VV., De la beneficencia al bienestar social. Cuatro siglos de acción social, Siglo XXI, Madrid 1985, pp. 117-146. E con Julia Varela, El cura Galeote asesino del obispo de Madrid-Alcalá, La Piqueta, Madrid 1979; Las redes de la psicología. Análisis sociológico de los códigos médico-psicológicos, Libertarias/Prodhufi, Madrid 1986; Sujetos frágiles. Ensayo de sociología de la desviación, FCE, Madrid 1989; e la cura dell’edizione spagnola della Vita degli uomini infami di Foucault. 68. Edizione originale: M. Foucault, Microfisica del potere. Interventi politici, a cura di A. Fontana e P. Pasquino, Einaudi, Torino 1977; edizione spagnola: Microfísica del poder, a cura di J. Varela e F. Álvarez-Uría, La Piqueta, Madrid 1978. 69. J.L. Peset, Ciencia y marginación. Sobre negros, locos y criminales, Editorial Crítica, Barcelona 1983. 70. J.L. Peset, M. Peset, “Medicina y derecho”, in Lombroso y la escuela positivista italiana, Instituto Arnau de Vilanova, CSIC, Madrid 1975, pp. 77-138. 71. Si vedano i lavori di R. Bercovitz, La marginación de los locos y el derecho, Taurus, Madrid 1976; J.A. Belloch Julbe, El enfermo mental no delincuente: ideología y “praxis” en una perspectiva judicialista, “Clínica y análisis grupal. Revista de psicoterapia y psicología social aplicada”, 10, maggio-giugno 1978, pp. 25-46.

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me la Storia della follia avesse smascherato il connubio tra diritto e medicina, “struttura semigiuridica” che aprì la strada a una precisa delimitazione delle manifestazioni del potere.72 Conclusioni La ricezione del pensiero foucaultiano, e in particolare della Storia della follia, abbraccia ambiti tanto diversi come la filosofia, la sociologia, la psichiatria, la storia, il diritto, la psicologia, il giornalismo ecc. Per comprendere meglio questa dialettica di appropriazione occorre tenere ben presente il sommovimento che la transizione politica comportò. Considerata la trama sociale e politica in cui si inserirono le differenti letture, si rese possibile un incontro tra il “mondo del testo” e il “mondo del lettore” attraverso l’incrocio di autori e discorsi, con la particolarità che la maggioranza degli interpreti accademici scrivevano anche in luoghi extra-accademici. A differenza dell’ermeneutica, che interpreta la lettura come una relazione meramente comunicativa, nel nostro caso si tratta di campi di forza dove, in certo qual modo, il significato dei testi ricevuti è “reinventato” e inscritto nelle lotte sociali e politiche. Un uso, a volte anche distorto, da parte dei commentatori per adattarle ai propri interessi e obiettivi, all’interno delle battaglie nel campo intellettuale nel tentativo di trovare nuove esegesi per creare un “Foucault spagnolo”. Il filosofo Eugenio Trías sottolineò che il proprio particolare punto di partenza freudiano era stata la Storia della follia, che intendeva separare l’inconscio sotteso al sapere. Tale intento venne a intrecciarsi col progetto strutturalista e le influenze di Lévi-Strauss e Lacan, come notiamo nei suoi primi saggi: La filosofia y su sombra e Filosofia y carnaval. Fernando Álvarez-Uría impiegò invece la metodologia foucaultiana per denunciare la relazione esistente tra la frenologia e l’ordine sociale borghese, osservando come gli eccessivi poteri della psichiatria avessero permesso di privare l’individuo di ogni diritto, e come “la psichia72. A.B. Serrano González, “La acción normalizadora”, in Michel Foucault. Sujeto, derecho, poder, cit., pp. 81-112.

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tria fosse una cosa troppo seria per lasciarla in mano unicamente agli psichiatri”. Anche gli psichiatri critici attuarono una lettura della Storia della follia sia improntata all’accademismo dei loro congressi sia alla ricezione extra-accademica, che aveva la sua esplicita collocazione nella lotta degli internati. Ancora una volta, una teoria e una pratica legate allo scontro politico. Furono nobilitati, ufficializzati autori e temi extra-accademici, che assunsero veste accademica a mano a mano che scomparivano le pubblicazioni della sinistra alternativa, mentre questi “giovani interpreti” riuscivano a far valere le proprie strategie in ambito accademico, acquisendo posizioni di potere e di prestigio e introducendo, all’interno stesso dei curricula ufficiali, quelli che prima erano dei corpi estranei. In queste interpretazioni apprezziamo ancora di più la fecondità della “scatola degli attrezzi foucaultiana” messa a disposizione dei movimenti sociali, che fecero un uso politico e rivendicativo della Storia della follia, mettendo in gioco aspetti prima marginalizzati dalla tradizione filosofico-accademica: i manicomi e gli ospedali.

Traduzione dallo spagnolo di Rosella Prezzo

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Effetti della “Storia della follia” in Brasile CESAR CANDIOTTO VERA PORTOCARRERO

n questo testo abbiamo provato a tracciare un profilo della ricezione critica in Brasile della Storia della follia di Michel Foucault. La prima parte presenta alcune varianti dell’interpretazione interna del libro. In questo caso, abbiamo scelto di analizzare le articolazioni tra l’archeologia e l’epistemologia delle scienze umane, la questione delle diverse interpretazioni della querelle con Derrida, l’ambivalenza della posizione di Foucault su Freud e la psicanalisi. La seconda parte dell’articolo mostra invece in che modo la Storia della follia – così come le lezioni sulla medicina sociale tenute da Foucault a Rio de Janeiro – abbia ispirato un gruppo significativo di studiosi che all’epoca elaboravano, nel solco della strategia archeologica, una ricerca sugli ospedali e sui manicomi brasiliani. Mostreremo inoltre in che modo questo e altri libri degli anni sessanta e settanta furono utilizzati come tante “cassette degli attrezzi” dal movimento antipsichiatrico e antimanicomiale.

I

Varianti interpretative Diverse pubblicazioni a carattere filosofico hanno fatto riferimento al primo grande libro di Foucault considerandolo come una fonte, un oggetto di analisi o di discussione, ma anche di critica. Secondo Salma Tannus Muchail, Foucault costruisce delle storie pensandole filosoficamente. Una delle questioni che appaiono sullo sfondo di tali storie è quella dell’articolazione tra “l’Altro e lo Stesso”. L’analisi della follia è inscritta precisamente in questa pro-

aut aut, 351, 2011, 173-189

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spettiva; non indica un oggetto uniforme, “connaturato a una verità essenziale la cui identità è sempre la stessa, ma innanzitutto un fatto dalle mille sfaccettature, le cui verità sono storicamente prodotte e differenti. […] La storia mostra le sue molteplici facce, ciascuna delle quali rappresenta l’‘altro’ all’interno dello ‘stesso’”.1 Le tante fisionomie di questo “altro”, che attraversano la nostra cultura e la vita di ciascuno, mostrano che la follia è più un fatto di cultura che di natura. In Brasile la Storia della follia fu anche al centro di analisi più specifiche, come quelle riguardanti la polemica tra Foucault e Derrida intorno alle pagine dedicate a Descartes. Il libro uscito nel 2001, Três tempos sobre a história da locura [Tre tempi sulla storia della follia], curato da Maria Cristina Franco Ferraz, riunisce i testi Cogito e storia della follia (di Derrida), Il mio corpo, questo foglio, questo fuoco (di Foucault) ed Essere giusti con Freud (di Derrida), offrendo al lettore un panorama completo delle divergenze tra i due pensatori. Altri studi recenti hanno ugualmente messo l’accento su questa controversia. In Verdad y acontecimiento en Michel Foucault [Verità ed evento in Michel Foucault], Cesar Candiotto ha sottolineato in che modo la verità della malattia mentale andasse riferita innanzitutto al concetto di evento e a quello, derivato, di eventualizzazione (nel caso specifico l’eventualizzazione dell’internamento del folle), ancor prima che alla storia del sapere psichiatrico.2 Mettere la follia alla “prova dell’eventualizzazione” significa descrivere i meccanismi di potere e le forme di sapere che hanno reso possibile l’emergenza della verità della malattia mentale; tale gesto suppone inoltre la rottura delle evidenze a partire dalle quali la malattia mentale è pensata come costante storica o attributo antropologico del folle. La presunta evidenza secondo la quale i folli sono sempre stati riconosciuti come malati mentali è discutibile. L’idea che la verità accade tra cesure stori1. S.T. Muchail, “Mesmo e o Outro: Faces de história da loucura”, in Foucault simplesmente, Loyola, São Paulo 2004, p. 48. 2. C. Candiotto, Verdad y acontecimiento en Michel Foucault, in J. Labastida, V. Aréchiga (a cura di), Identidad y diferencia. El pasado y el presente, Siglo XXI, México 2010, vol. II, pp. 507-518.

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che sempre contingenti fu infatti uno degli elementi della controversia che si scatenò tra Foucault e Derrida. Quando si riferisce al sapere classico inaugurato dal cartesianesimo, Foucault mostra che secondo Descartes la follia è irragionevolezza. Nell’epoca della ragione, lungo il cammino che porta alla certezza del cogito, Descartes aveva ammesso che i sogni e gli errori dei sensi ci ingannano, ma che alla fine del percorso del dubbio metodico tali ostacoli sono incorporati al soggetto pensante. Con la follia, al contrario, accade qualcosa di diverso. Indipendentemente dalla sua apprensione da parte del sapere o da qualsiasi giudizio di valore, essa deve essere esclusa dal soggetto razionale. Nella conferenza pronunciata al Collège philosophique il 4 marzo 1963, intitolata Cogito e storia della follia,3 Derrida affermava che quando Descartes identifica nel cogito essere e pensiero, mostra che la follia è la possibilità più intrinseca della ragione spinta ai suoi limiti. Nella sua risposta a Derrida,4 Foucault parte da un presupposto: non si può rendere conto dell’avvento storico e molteplice dell’esclusione della follia nell’età classica, o del suo oblio in quella moderna, facendone unicamente una questione di interpretazione interna alla filosofia cartesiana. A Foucault interessa l’eventualizzazione dell’esclusione del folle, e non il suo inquadramento in un sistema filosofico, fosse anche quello cartesiano. Derrida non riesce a comprendere la sua tesi perché pensa secondo i canoni di uno stile di pensiero molto comune nella Francia dell’epoca, per cui qualsiasi conoscenza, intesa come discorso razionale, deve mantenere necessariamente una relazione essenziale con la filosofia, che è il fondamento della sua legittimazione e la sua stessa ragion d’essere. La filosofia si troverebbe contemporaneamente al di là e al di qua degli eventi, perché tutto ciò che accade emerge già avviluppato in essa. Foucault sostiene invece che la verità della malattia mentale appartiene all’ambito dell’evento e non riguarda una presunta appartenenza originaria: il suo concetto deriva dalla sto3. Pubblicata inizialmente nella “Revue de métaphysique et de morale”, 3-4, 1964, e in seguito in La scrittura e la differenza (1967), Einaudi, Torino 1971. 4. M. Foucault, “Il mio corpo, questo foglio, questo fuoco”, in Storia della follia (1972), Rizzoli, Milano 1976.

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ria della cultura occidentale, e le sue origini risalgono al momento in cui quest’ultima decise di operare una separazione tra colui con il quale si identifica e colui che esclude dal suo interno e che continua a minacciare la sua identità costitutiva. Una delle tesi più caratteristiche della Storia della follia è infatti che la verità positiva della malattia mentale, in seguito oggettivata dalla psichiatria del XIX secolo, ha come condizione di possibilità l’evento ricorrente – dagli antichi ai moderni – dell’esclusione del folle. In se stesso, tale evento non è né vero né falso. Semplicemente, esso entra nel campo del vero quando diventa oggetto di contestazione, e produce nell’ordine del discorso una separazione tra quelli che detengono la ragione e quelli di cui non resta altro che un mormorio squalificato. Un punto di vista differente viene elaborato da Roberto Machado. In Ciência e saber. A trajetória de arqueologia de Michel Foucault [Scienza e sapere. La traiettoria archeologica di Michel Foucault], del 2006,5 così come nel celebre articolo del 1988 Archéologie et épistémologie,6 la Storia della follia è letta come un’archeologia della percezione. Secondo Machado, uno dei presupposti metodologici del libro del 1961 consiste nel mostrare che le percezioni della distinzione sociale tra ragione e sragione nell’Europa occidentale, a partire dal XVII secolo fino ai giorni nostri, precedono le teorie nel definire la follia. Non si tratta di una conoscenza unitaria e omogenea, ma di una percezione eterogenea, di una molteplicità di modi di conoscenza della follia che la società francese ha istituito a partire dal XVII secolo. Rendere indipendente l’archeologia dei rapporti di forza che si istituiscono attorno al folle nelle istituzioni di reclusione dalla storia dei discorsi sulla follia è un modo di rivedere la tradizionale storia della psichiatria intesa come passaggio lineare da una percezione sociale a una conoscenza scientifica della follia. Per sottolineare la specificità del metodo archeologico, Ma5. R. Machado, Ciência e saber. A trajetória de arqueologia de Michel Foucault, Jorge Zahar Ed., Rio de Janeiro 2006 6. Id., Archéologie et épistémologie, in AA.VV., Michel Foucault philosophe (Rencontre internationale, Paris, 9, 10, 11 janvier 1988), Seuil, Paris 1989, pp. 15-32.

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chado mostra le convergenze, le divergenze e gli spostamenti che l’opera di Foucault effettua rispetto ad alcuni concetti basilari dell’epistemologia storica francese. Di fronte all’esigenza di oggettività e neutralità della conoscenza scientifica vigente all’epoca, l’epistemologia storica di Bachelard e Canguilhem si fonda sull’idea che la costituzione storica delle scienze è il prodotto di continue rettificazioni e rotture. All’idea di continuità storica nelle scienze, tale epistemologia contrappone la nozione di discontinuità storica; alla nozione di progresso, risponde con i concetti di ricorrenza e normatività scientifica, dal momento che l’attualità della scienza è l’istanza normativa che giudica il passato convalidandolo o rettificandolo. Insistendo sullo specifico carattere ipotetico e mutabile delle analisi archeologiche e genealogiche – onde evitare di intenderle come una parola definitiva, un cammino ultimativo verso la verità, un metodo universale7 –, Machado sostiene che l’idea foucaultiana di discontinuità archeologica non corrisponde a quella dell’epistemologia storica, pur essendole nello stesso tempo debitrice. L’epistemologia storica identifica discontinuità e rotture, limitandole all’ambito delle scienze naturali. Al contrario, il metodo archeologico elegge come campo di studi un complesso eterogeneo di pratiche e saperi che, in un’epoca data, assume una serie di posizioni differenti rispetto al medesimo oggetto. L’analisi di tale oggetto, la follia, evidenzia che l’emergenza delle cosiddette “scienze” umane – psichiatria, psicologia, psicanalisi – è un processo strutturalmente legato alla storia delle pratiche di riduzione del folle al silenzio. Ciascuna di queste pratiche corrisponde a differenti modi di percepire la follia in una determinata epoca, indipendentemente dalla conoscenza scientifica. La psichiatria, anche se vuole rendere conto delle condizioni di possibilità della percezione e della conoscenza moderna della follia, rappresenta sempre un “compromesso tra due aspetti eterogenei: una ‘analitica medica’ e una ‘percezione asilare’”.8 È per questo che Foucault preferisce la storia della follia a quella della psichiatria. 7. Id., Ciência e saber, cit. 8. Id., Archéologie et épistémologie, cit., p. 20.

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Machado riconosce comunque che il rovesciamento effettuato da Foucault implica una difficoltà metodologica: quando si dice che la follia è un sapere confiscato dalla razionalità, si ammette implicitamente che la follia detiene una verità propria e originaria, progressivamente ridotta al silenzio dalla razionalità occidentale a partire dal XVII secolo. Occorre dunque sapere qual è il criterio di normatività usato da Foucault quando dice che si tratta di una “espropriazione”. Quella raccontata da Foucault sarebbe in effetti la storia di una grande menzogna, giacché essa mostra il lato negativo dell’espropriazione da parte della razionalità della follia come sapere, considerata nel libro positivamente attraverso il criterio della percezione del folle. In Brasile, diversi sono poi stati i tentativi di mettere in relazione la Storia della follia con la psicanalisi. Autori come Joel Birman9 ed Ernani Chaves10 hanno provato a mostrare il rapporto ambivalente che il libro intrattiene con il sapere fondato da Freud. La tesi della presunta esistenza di una verità originaria ed essenziale della follia, e l’idea di una sua progressiva espropriazione da parte della razionalità, a partire dalla nosografia classica fino alla psichiatria del Novecento, possono funzionare come una cartina di tornasole per mostrare l’importanza attribuita da Foucault alla psicanalisi. In effetti, se il discorso psichiatrico considera il mormorio della follia come sprovvisto di senso, la psicanalisi al contrario si è posta l’obiettivo di liberare tale mormorio dai divieti ancora presenti nel XIX secolo. Tuttavia, la liberazione operata dal discorso freudiano è relativa e onerosa, perché conserva intatto, all’interno della teoria e della pratica psicanalitica, il potere che la psichiatria attribuiva al medico. Freud rompe con Pinel ed Esquirol, ma nello stesso tempo rappresenta il culmine della tradizione da essi incarnata, dal momento che la terapia psicanalitica si concentra interamente nelle mani del medico. È proprio in questo aspetto della critica a Freud che Ernani 9. J. Birman, A psicanálise na berlinda, in G. Castelo Branco, V. Portocarrero (a cura di), Retratos de Foucault, Nau, Rio de Janeiro 2002. 10. E. Chaves, Foucault e a psicanálise, Forense Universitária, Rio de Janeiro 1988.

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Chaves individua alcuni limiti dell’approccio foucaultiano, esposti nel libro Foucault e a psicanálise. Secondo Chaves, la valorizzazione eccessiva del piano della percezione nella Storia della follia impedisce di rendere conto dei concetti psicanalitici, essendo questi collocati sul piano della conoscenza. Ciò vuol dire che il fatto di preferire l’analisi della percezione della follia allo studio dei concetti psicanalitici avrebbe impedito a Foucault di spiegare tali concetti a partire dalle percezioni analizzate. Foucault afferma che uno dei meriti di Freud è di aver operato “la violenza sovrana di un ritorno”,11 trattando la follia sul piano del suo linguaggio, ricostituendo gli elementi di un’esperienza cancellata dal positivismo psichiatrico. Il felice ritorno effettuato dalla psicanalisi freudiana consiste in una possibilità di “dialogo con la follia” che attribuisce al “mormorio” del folle una modalità positiva e specifica di linguaggio, uno statuto di “sapere”.12 Per Foucault, tuttavia, il recupero freudiano della follia come linguaggio rappresenta ugualmente uno dei limiti della critica di Freud alla psichiatria. Per capire questo aspetto è necessario rifarsi al testo di Foucault intitolato La follia, l’assenza d’opera. Dopo aver affermato che ogni società impone dei limiti con l’istituzione di divieti d’azione e di linguaggio, Foucault mostra che, nell’età classica, la follia è inclusa fra i divieti di linguaggio: essa è dunque “il linguaggio escluso – quello che contro il codice della lingua pronuncia parole senza significato (gli ‘insensati’, gli ‘imbecilli’, i ‘dementi’), o quello che pronuncia parole sacralizzate (i ‘violenti’, i ‘furiosi’), o quello ancora che fa passare significati interdetti (i ‘libertini’, i ‘testardi)”.13 Secondo Foucault, la riforma della psichiatria promossa da Pinel non fa nient’altro che sanzionare definitivamente questo linguaggio vietato. Freud sospende i divieti di linguaggio che l’età classica ha imposto alla follia – ed è qui la svolta, positiva, impressa dalla psicanalisi. Ma operando questa sospensione Freud avrebbe paradossalmente creato un ulteriore divieto, che consiste nel consi-

11. M. Foucault, Storia della follia, cit., p. 378. 12. Ibidem. 13. Id., “La follia, l’assenza d’opera”, in Storia della follia, cit., p. 632.

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derare la follia come un “linguaggio strutturalmente esoterico”. La follia è tale perché incomprensibile ai codici psichiatrici e medici; ma anche perché circoscrive un “surplus muto”,14 passibile di molteplici interpretazioni e significati che solo essa può spiegare. Per la psicanalisi la parola del folle è un linguaggio doppio: in quanto parola manifesta, questo linguaggio racchiude una molteplicità di significati, ma il problema è che solo essa può decifrare ciò che enuncia. Ora, se solo la follia detiene il codice della sua interpretazione, allora il suo linguaggio non dice nulla dei codici istituiti. Lingua e parola formano una riserva di senso e non dicono nient’altro che la loro relazione muta. Secondo Foucault, la psicanalisi può sì sciogliere alcune forme di follia ma non riesce a udire le voci della sragione, dal momento che il medico, in quanto figura alienante, continua a giocare un ruolo chiave nella cura psicanalitica. Quest’ultima “non può né liberare, né trascrivere, né, a maggior ragione, spiegare quel che c’è di essenziale in questo lavoro [della sragione]”.15 Il problema è che il folle, trasformato in malato mentale, è considerato come un oggetto, mentre il medico è il soggetto, poiché si fa carico di un processo di disalienazione. Nella figura del medico l’alienazione diventa disalienazione. È in lui che il potere di “cura” si concentra interamente. Ernani Chaves considera problematica questa continuità quasi indifferenziata tra Pinel e Freud. Quel che Foucault chiama alienazione, in realtà va spiegato con il concetto psicanalitico di transfert. Quali sono dunque le differenze fondamentali tra la psicanalisi e la psichiatria così come emergono in relazione al concetto di transfert? In primo luogo, la necessità postulata dalla psicanalisi di distruggere il transfert, in ragione del suo carattere provvisorio; in secondo luogo, l’idea che in psicanalisi – al contrario che in psichiatria – non si trasmettono solo sentimenti socievoli, ma anche ostili. Nel processo psicanalitico, il transfert deve essere scoperto, analizzato, ma anche superato; esso è un supporto fondamentale della cura, nel senso che può es14. Ivi, p. 631. 15. Id., Storia della follia, cit., p. 581.

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sere utile al processo terapeutico, ma nulla più. Ne consegue che non è possibile ridurlo a una semplice suggestione, come voleva Foucault, giacché esso non si produce in una situazione di alienazione totale, ma in un affrontamento continuo tra medico e paziente. Si tratta dunque di una battaglia tra medico e paziente, e non semplicemente di un potere mistico o taumaturgico del medico. Quest’ultimo deve conoscere minuziosamente tutte le strategie del paziente per aiutarlo nel processo di cura. La definizione del concetto di transfert in psicanalisi, modellata prendendo le distanze dalla psichiatria, indica che non è possibile ammettere, se non con una certa cautela, quella “continuità” vaga tra Pinel e Freud suggerita da Foucault. Probabilmente tale continuità ha molta più ragione di essere se si considera un altro degli aspetti sottolineati da Foucault: la psicanalisi, nonostante i suoi sforzi, non sfugge all’imprigionamento morale che, nell’età classica, distingueva ragione e sragione, riunendo intorno alla figura del medico le figure parentali tipiche della società borghese come, per esempio, quella del padre. Nonostante la pretesa di farsi carico di una conoscenza oggettiva della malattia mentale, psichiatria e psicanalisi adottano nel processo di cura un procedimento di tipo morale che riproduce le strutture della società borghese e i suoi valori. “Ciò che si definisce pratica psichiatrica è una certa tattica morale contemporanea risalente alla fine del XVIII secolo, conservata nei riti della vita manicomiale e ricoperta dai miti del positivismo.”16 Se si considera che, in diverse occasioni, Freud prese spunto dalla questione della relazione medico-paziente per assumere una posizione critica nei confronti della psichiatria; se si considera inoltre che, nella psicanalisi, non è il medico a produrre il transfert, dato che il suo compito consiste nello scoprirlo e indirizzarlo affinché il processo di cura non sia compromesso; se si pensa infine che il transfert è un semplice supporto temporaneo della cura e per questo deve essere superato; allora è probabile che Freud e la psicanalisi abbiano rappresentato un momento di rottura con la psichiatria. 16. Ivi, p. 579 (traduzione modificata).

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Chaves riconosce comunque che uno dei meriti della ricerca di Foucault consiste nel mettere la psicanalisi alla prova di una revisione critica delle sue posizioni: si tratta di non lasciarle la possibilità di trasformarsi in un nuovo dogma, e di evitare che lo psicanalista diventi un tecnico onnipotente. Nella Storia della follia, così come in una serie di altri scritti contemporanei, la posizione di Foucault sulla psicanalisi appare paradossale: elogiativa, quando ascolta e interpreta la follia; critica, quando tale interpretazione implica un “transfert” di poteri dal paziente verso il medico. Risonanze nella ricerca e nelle pratiche A partire dalla fine degli anni settanta emerge in Brasile anche una lettura della Storia della follia basata su un certo malumore nei confronti della riduzione dell’attività filosofica a mero commento dei filosofi, ma anche sul desiderio di appropriarsi della ricerca foucaultiana prendendo in considerazione la congiuntura politica e teorica dell’epoca. L’emergenza di questo tipo di lettura, che si contrappone al commento, testimonia che è possibile servirsi liberamente del pensiero di un grande filosofo come Foucault per rendere conto dell’esteriorità della filosofia e articolare la propria ricerca con la realtà politica, attraverso la ricerca d’archivio.17 In L’archeologia del sapere (1969), la descrizione dell’archivio dispiega le sue potenzialità a partire dai discorsi che hanno smesso di appartenerci. La sua soglia d’esistenza è data dalla cesura che ci separa da quel che non possiamo più dire. Il suo luogo si fonda su uno scarto rispetto alle nostre pratiche discorsive. L’archivio è una regione privilegiata: si trova vicino a noi, e nondimeno differisce dalla nostra attualità. Esso è il tempo che costeggia il nostro presente, dominandolo e facendolo apparire nella sua alterità. Posto al fuori di noi, l’archivio è ciò che ci delimita. La ricerca d’archivio non dev’essere considerata come un principio universale di metodo, ma – e ciò vale per il pensiero foucaultiano in generale –, 17. V. Portocarrero, Arquivos da loucura. Juliano Moreira e a descontinuidade histórica da psiquiatria, Fiocruz, Rio de Janeiro 2002.

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occorre farne sempre un uso particolare, localizzato. Essa deve fondarsi sulla seguente domanda: di quali spazi disponiamo oggi per comprendere il presente articolando resistenza, invenzione, sperimentazione? A quali condizioni è possibile porre oggi la questione di come aggirare le forme di potere e di sapere sempre più estese nelle quali siamo presi, abbozzando delle alternative alle varie forme di esclusione e reclusione, la cui crisi si trascina a partire dal XIX secolo?18 In Brasile, le ricerche storico-filosofiche di questo tipo si sono orientate verso il campo della salute. A partire dalla fine degli anni settanta questi lavori, sviluppatisi non solo in ambito universitario, hanno avuto un’influenza singolare sulla traiettoria della riforma della psichiatria brasiliana, giocando un ruolo importante nel consolidamento di questo processo, ma anche nella produzione di ricerche pionieristiche sulla psichiatria e sulle sue istituzioni. Tali ricerche hanno prodotto effetti concreti nell’ambito dei servizi e nella cultura in generale, tanto che il nostro paese sta diventando una delle scene più importanti della trasformazione della salute mentale. Si tratta di studi sulla follia, sul rapporto salute/malattia mentale, sulla soggettività e sul comportamento umano, che provano a teorizzare e costruire nuove strategie sociali e tecniche per far fronte alla follia, alla malattia e alla sofferenza umana. Questa tendenza fu introdotta, tra gli altri, da Roberto Machado e Jurandir Freire Costa.19 Sensibili a questo stile di ricerca e alla problematica delle discontinuità storiche – considerate tanto sul piano dei saperi, quanto su quello delle pratiche sociali – abbiamo provato ad analizzare le trasformazioni della psichiatria brasiliana a partire da un lavoro su Juliano Moreira.20 In questa prospettiva abbiamo elabo18. V. Portocarrero, Genealogia, arquivo e invenção, in A.F. Cascais, J.L. Leme, N. Nabais (a cura di), Lei, segurança e disciplina – trinta anos depois de Vigiar e Punir de Michel Foucault, Centro de Filosofia das Ciências da Universidade de Lisboa, Lisboa 2009. 19. J.F. Costa, História da psiquiatria no Brasil, documentario, Rio de Janeiro 1976. 20. “Juliano Moreira fu uno dei più importanti psichiatri brasiliani dell’inizio del XX secolo. Tra il 1903 e il 1930 fu direttore generale dell’Assistenza agli psicopatici del distretto federale. Ottenne la promulgazione di una legge di riforma dell’assistenza agli alienati. A Rio de Janeiro rimodellò l’antico Hospício Pedro II privandolo delle sbarre, abolendo l’uso de-

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rato un’ipotesi: a partire dalla fine del XIX secolo, la psichiatria brasiliana ha attraversato una serie di metamorfosi.21 Una delle maggiori fu appunto la riforma psichiatrica di Juliano Moreira, nel momento in cui si produsse una serie di rotture con la psichiatria dominante che, fino a quel momento, si era basata sulle teorie di Esquirol, a carattere morale, e sulle pratiche di isolamento asilare. Un altro esempio è quello della psichiatria brasiliana degli anni sessanta, epoca in cui il progetto di medicalizzazione della società viene sistematicamente problematizzato all’interno dello stesso discorso psichiatrico. Nel corso del XX secolo, in Brasile si comincia a parlare del rischio che la psichiatria possa riprodurre in forme inedite gli schemi di assoggettamento degli individui, dotandosi di un corpus concettuale più scientifico e di pratiche di assistenza meno centrate sull’internamento. Si tratta, da un lato, dell’emergere di critiche che mirano a denunciare l’inefficacia del sistema psichiatrico, la cui base resta l’isolamento – intra o extra muros –, nonostante la sua intenzione dichiarata di costituire un nuovo modello teorico e assistenziale; dall’altro, dell’apparizione di una molteplicità di nuovi saperi e pratiche che tentano di risolvere problemi come la iatrogenia e la cronicizzazione indotte dall’internamento e da strategie istituzionali finalizzate unicamente alla gestione della vita di una popolazione stigmatizzata come mentalmente malata. In questo campo, il contributo di Foucault è nel contempo limitato e tangibile: le sue ricerche aiutano infatti a pensare le mutazioni delle politiche pubbliche, delle strategie dello stato e della sfera legislativa, le metamorfosi dei dispositivi di sicurezza e gli effetti di potere della scienza e del sapere in generale. È per questo che la Storia della follia ha avuto un’influenza tanto considerevole in Brasile, paese in cui questo libro cominciò a essere letto non solo da medici, psichiatri e fun-

gli strumenti di contenzione e installandovi un laboratorio. Creò nel 1911 la Colônia de Engenho de Dentro, instaurò il ricovero volontario dei pazienti e l’assistenza eterofamiliare. Nel 1919 inaugurò il primo manicomio giudiziario in Brasile” (V. Portocarrero, Juliano Moreira e a metamorfose da psiquiatria brasileira, “Conceito”, 1, autunno 2005, p. 67, nota 1). 21. V. Portocarrero, O dispositivo da saúde mental. Uma metamorfose na psiquiatria brasileira, tesi di dottorato, Universidade Federal do Rio de Janeiro, 1990.

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zionari dello stato, ma anche da filosofi, scienziati sociali, psicologi, psicanalisti e tecnici – lettura che si estese in seguito alle indagini foucaultiane sulle forme in cui il potere (disciplinare e biopolitico) si esercita nella nostra società e sulla relazione di immanenza tra tali forme di potere e i saperi.22 La Storia della follia ispirò principalmente un gruppo di studiosi di Rio de Janeiro, che ne introdussero le tesi in un dibattito sulla psichiatria avviato dagli operatori della salute mentale. A questo dibattito presero parte anche i pazienti psichiatrici: è il caso, per esempio, delle proposte di riforma della Colonia Juliano Moreira, nel corso degli anni ottanta. Il contributo di Foucault a questo movimento è dunque dovuto agli intellettuali che lessero il suo libro o assistettero alle sue conferenze. Se le sue idee furono prese così sul serio nel movimento di trasformazione della psichiatria brasiliana, fu certo a causa della forza del pensiero di Foucault, ma anche delle critiche severe dei suoi avversari, fossero essi difensori della psichiatria tradizionale, fondamentalmente organicista, o intellettuali della sinistra marxista critici del concetto foucaultiano di potere. In Brasile, una delle tendenze più rilevanti ispirate al libro di Foucault è stato il movimento della cosiddetta “antipsichiatria”. Robert Castel ha mostrato che David Cooper usava la parola “antipsichiatria” per indicare una strategia di rottura reale nei confronti dell’istituzione psichiatrica in Inghilterra.23 Il termine antipsichiatria si generalizzò nel corso di dibattiti e contestazioni, mentre l’organizzazione concreta della medicina mentale divenne il bersaglio di un radicalismo critico nei confronti della psichiatria tradizionale, considerata paradigmatica dell’autoritarismo insito nell’esercizio del potere. Un potere dalla struttura arcaica e rigido nella sua applicazione, implicante un dislivello assoluto tra colui che agisce e colui che subisce l’azione. Questo radicalismo fu tuttavia poco in sintonia con gli obiettivi dei tecnici della salute 22. Ipotesi sviluppate in Sorvegliare e punire (1975), in La volontà di sapere (1976), nelle conferenze sulla medicina sociale e in quelle pronunciate a Rio negli anni sessanta, successivamente riunite nel volume A verdade e as formas jurídicas (Nau, Rio de Janeiro 1999). 23. R. Castel, La gestion des risques. De l’anti-psychiatrie à l’après-psychanalyse, Minuit, Paris 1981.

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mentale, e restò ai margini dei processi di riorganizzazione effettiva delle pratiche dell’epoca. A nostro avviso, la Storia della follia ebbe una grande risonanza nell’antipsichiatria perché articolava la teoria con le pratiche scientifiche e, soprattutto, con una forma di esperienza morale e sociale della follia. La sua influenza in questo ambito fu dovuta, da un lato, al fatto che questo libro proponeva un’analisi storica del contesto sociale, morale e simbolico dell’esclusione della sragione, dell’internamento e dei vincoli imposti dalla ragione scientifica e politica; dall’altro, all’ipotesi che la follia è una forma relativa di ragione: entrambe si trovano in un rapporto di reversibilità permanente in cui la follia trattiene la ragione per giudicarla e dominarla, e la ragione, per converso, ritrova nella follia la sua effimera verità. Come afferma Foucault, la follia diventa una delle forme della ragione perché acquista senso e valore unicamente nel campo di quest’ultima. Il tentativo foucaultiano di comprendere in che modo si costituirono storicamente i privilegi della riflessione critica e, soprattutto, in che modo l’esperienza della follia fu confiscata dalla ragione, ma anche l’idea di una psichiatria che, in quanto monologo della ragione, non conosce la follia ma la domina, sono state di un’importanza indiscutibile per questo movimento. Per Foucault, a partire dalla fine del XIX secolo, i movimenti che scossero la psichiatria privilegiavano il potere e l’effetto dell’azione del medico sul paziente più che il suo sapere, o meglio, la verità di quel che diceva della malattia. Tutte le grandi riforme della pratica e del sapere sono, in fondo, altrettanti tentativi di mascherare le relazioni di potere o di annullarle. A partire dagli anni sessanta, si è cominciato a mettere in discussione la maniera in cui il potere del medico è implicato nella verità di ciò che dice e, inversamente, il modo in cui la verità può essere fabbricata e compromessa dal suo potere – questioni evocate anche nei lavori di Cooper, Laing e Basaglia, nomi che in Brasile sono spesso associati a quello di Foucault.24 24. P. Amarante, N.I. Soalheiro, As instituições da desinstitucionalização. Reflexões foucaultianas para a construção de uma prática da liberdade, in A. Veiga-Neto et al. (a cura di), Cartografias de Foucault, Autêntica, Belo Horizonte 2008.

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Possiamo allora dire che Foucault ha contribuito all’antipsichiatria nella misura in cui le sue analisi spiegavano il funzionamento del potere all’interno del pensiero psichiatrico, considerato come portatore di una neutralità scientifica. In realtà questo movimento era diffuso ed estremamente eclettico, esso riuniva ipotesi e stili di pensiero diversi come quelli di Cooper, Basaglia e Foucault, ed è anche il motivo per cui il termine “antipsichiatria” resta un po’ confuso. I legami tra l’antipsichiatria e Foucault possono essere individuati in Brasile a partire dagli anni sessanta. Le analisi del concetto di potere furono introdotte nel discorso psichiatrico brasiliano attraverso il pensiero di Foucault e quello della sinistra marxista. Questo provocò, insieme ad altri elementi, una metamorfosi nel corpus teorico e nei testi normativi della pratica dell’assistenza psichiatrica, ma anche l’importazione di una serie di nozioni provenienti da regioni differenti del sapere, che non si limitavano al campo della salute mentale. Il nuovo discorso nasce dalla confluenza di una molteplicità di teorie legate reciprocamente in una forma poco chiara, che prendono in prestito conoscenze dall’esperienza italiana, dalla psichiatria di settore francese, dalla comunità terapeutica inglese, dalla psichiatria comunitaria americana e dall’antipsichiatria. La formulazione di progetti pratici comuni dissimula la profondità delle divergenze teoriche di queste differenti correnti. Con l’avvento dell’antipsichiatria, o ancora, delle psichiatrie cosiddette “alternative”, la psichiatria brasiliana cominciò a essere discussa principalmente come scienza umana e strategia di assoggettamento e oggettivazione della vita degli individui e della popolazione. Tali critiche annunciarono la rovina della psichiatria come istanza terapeutica e si realizzarono in differenti modi. Oggi questo dibattito si concentra piuttosto sulla relazione tra le forme di dominazione psichiatrica e la società, con una particolare attenzione al perfezionamento degli psicofarmaci e alle tecniche di psicoterapia, che incidono direttamente sul corpo e sui fattori psicologici della malattia mentale. Si tratta di saperi e pratiche che mirano a costruire nuove strategie e tecnologie con l’obiettivo di trasformare i modi in cui lo stato sociale si fa carico de187


gli individui assorbiti dal sistema previdenziale, siano essi malati mentali o semplicemente devianti privi di risorse. A partire dalla metà del XX secolo, si analizzano e mettono in pratica nuove modalità di cura che tentano di sfuggire ai dilemmi scaturiti dall’antico sistema manicomiale e di custodia, costituendosi come un nuovo momento della psichiatria brasiliana. Il proliferare di queste proposte è all’origine della presenza, nella psichiatria brasiliana, di diverse tendenze: quella risalente alla fine del XIX secolo, introdotta da Juliano Moreira, che possiamo definire tradizionale, e quelle accomunate dall’ideale di un’alternativa al modello tradizionale. L’antipsichiatria deve la sua importanza alla radicalizzazione della possibilità di anti-istituzionalizzazione della follia e di deospedalizzazione della malattia mentale, articolate con pratiche ancora timide che mettono l’accento sul trattamento in ambulatorio. L’obiettivo di queste strategie critiche non è, semplicemente, di influenzare in un senso o nell’altro le politiche di salute mentale, o ancora di proporre un’organizzazione più razionale delle istituzioni e della scienza: esse mirano piuttosto a produrre una nuova discontinuità radicale nella psichiatria brasiliana. Si tratta, più propriamente, del tentativo di stabilire nuovi rapporti di forza all’interno dei processi di esclusione e normalizzazione degli individui nella nostra società; dell’invenzione e della sperimentazione di nuove forme di resistenza all’attuale configurazione di saperi e pratiche. Siamo di fronte a una grande sfida, giacché, in gran parte, questa configurazione continua a consistere pericolosamente nell’estensione della cura psichiatrica a tutto lo spazio sociale, anche se in una forma più complessa e sottile. Se ripercorriamo il quadro storico che abbiamo tracciato in forma succinta – resta un’enorme quantità di elementi che non abbiamo esposto qui: si pensi ai concetti e agli aspetti teorici della psichiatria, all’organizzazione concreta delle nuove forme di assistenza psichiatrica, o ancora alle forme di medicalizzazione e normalizzazione degli individui e della società, all’eugenismo, al razzismo –, e se consideriamo che questo quadro ci permette di fare una diagnosi del presente, allora possiamo affermare che la ma188


lattia mentale continua a essere un meccanismo di esclusione e che la nostra società continua a fabbricare la follia secondo modalità di volta in volta più scientifiche. Non è possibile dimenticare che lo sviluppo scientifico e tecnologico degli ultimi anni è stato estremamente sofisticato e, soprattutto, che si è verificato a un ritmo estremamente accelerato. I farmaci e le condizioni di produzione dell’attività diagnostica e prognostica si sono sviluppati in una forma inaudita. In questo senso, si può ben dire che i paria del presente non sono più reclusi in navi che navigano in acque lontane, ma vivono ormai in spazi di esclusione che si trovano all’interno stesso della società: nelle istituzioni, nelle proprie case, nelle strade. Probabilmente, non possiamo ancora tracciare una nuova discontinuità storica, nonostante la velocità dell’informazione e dei progressi tecnologici, anche perché non disponiamo del distanziamento minimo necessario per questo tipo di analisi.

Traduzione dal portoghese (del Brasile) di Alessandro Manna e Juliana Veras

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Archivio Enzo Paci A oltre trent’anni dalla morte di Enzo Paci, con il moltiplicarsi degli studi e delle iniziative legate alla sua opera, l’Archivio chiede a chi ha scritto e scriva su Enzo Paci di voler gentilmente inviare copia del proprio lavoro all’Archivio stesso. Lo scopo evidente è quello di riunire e fare conoscere lavori e ricerche, e i loro autori, per favorire altri studi. Nello stesso ternpo si intende garantire la presenza di una collezione completa di scritti di e su Enzo Paci nel luogo che ne conserva manoscritti e biblioteca. L’invito si rivolge anche a chi abbia scritto una tesi di laurea o una dissertazione di dottorato su Enzo Paci e/o sul contesto culturale in cui si è mossa la sua attività. Al momento la collezione è parziale e sembra utile completarla. Si potrà in questo modo compilare anche un elenco degli studiosi interessati. Inoltre si è avviata l’acquisizione e la catalogazione dell’epistolario. Chiediamo pertanto a chi sia in possesso di lettere di Enzo Paci di collaborare, inviandoci fotocopia delle lettere; se ne ha tenuto copia e non ha nulla in contrario, sono benvenute anche fotocopie delle lettere del corrispondente. L’indirizzo al quale inviare il materiale è: Archivio Enzo Paci via Beato Angelico 5 20133 Milano Ringraziamo tutti anticipatamente e raccomandiamo di accludere al materiale anche il proprio recapito.


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