355 luglio settembre 2012
Esercizi per cambiare la vita In dialogo con Peter Sloterdijk Premessa 3 Peter Sloterdijk Due risposte ad “aut aut” 4 Pier Aldo Rovatti Esercizi ma senza ascesi 7 Giovanni Leghissa L’esercizio come condizione di possibilità del soggetto (e della sua sparizione) 19 Marc Jongen La resurrezione dalla non–morte. Sloterdijk trainer dell’iperimmaginazione 37 Thomas Macho Tecniche di solitudine 57 Antonio Lucci L’incontro mancato. Il solipsismo aristocratico di Sloterdijk 79 Graziella Berto Perdere la testa. Ginnastica e filosofia 95 Edoardo Greblo Mi esercito, dunque sono 106 Tiziano Possamai La vita di Diogene e il busto di Apollo 117 Massimiliano Nicoli, Carla Troilo Ceci n’est pas un livre 129 Fabio Polidori Fine dell’esercizio 141 Elettra Stimilli Per una vita in debito 154 Dario Consoli La filosofia oltre l’esercizio immunitario 171 Martino Doni L’obbedienza della parola negli esercizi di Ignazio di Loyola 185
rivista fondata da Enzo Paci nel 1951 direttore responsabile: Pier Aldo Rovatti redazione: Sergia Adamo, Paulo Barone, Graziella Berto, Deborah Borca (editing, deborahborca@libero.it), Silvana Borutti, Damiano Cantone, Mario Colucci, Alessandro Dal Lago, Giovanna Gallio, Edoardo Greblo, Raoul Kirchmayr, Giovanni Leghissa, Massimiliano Nicoli, Ilaria Papandrea, Fabio Polidori, Rosella Prezzo, Pier Aldo Rovatti, Massimiliano Roveretto, Antonello Sciacchitano, Giovanni Scibilia, Davide Zoletto direzione: c/o il Saggiatore, via Melzo 9, 20129 Milano sito web: autaut.ilsaggiatore.com collaborano tra gli altri ad “aut aut”: G. Agamben, H.-D. Bahr, R. Bodei, L. Boella, J. Butler, M. Cacciari, A. Cavarero, R. De Biasi, G. Dorfles, M. Ferraris, U. Galimberti, P. Gambazzi, S. Givone, A. Heller, F. Jullien, J.-L. Nancy, A. Prete, M. Serres, G.C. Spivak, G. Vattimo, M. Vegetti, P. Veyne, V. Vitiello, S. Žižek per proposte di pubblicazione: redazioneautaut@gmail.com Si fa presente che “aut aut” non pubblica recensioni e non accetta testi di ampiezza superiore a 40.000 battute (note e spazi compresi).
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Premessa
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uesto fascicolo è dedicato all’esercizio filosofico e alle sue potenzialità di cambiare la nostra vita. Prende spunto da Peter Sloterdijk e soprattutto dal suo fortunato volume Devi cambiare la tua vita (2009, Raffaello Cortina, Milano 2010). Il fascicolo è sostanzialmente un dialogo critico a più voci con le ipotesi, anche provocatorie, contenute in questo libro (e nell’intero pensiero di Sloterdijk). Intervengono due studiosi, Marc Jongen e Thomas Macho, molto vicini a Sloterdijk. Prende anche brevemente la parola Sloterdijk stesso. Il grosso del fascicolo è comunque costituito da voci italiane, interne ed esterne al collettivo di “aut aut”, più o meno consonanti con le proposte filosofiche ma anche genealogiche (soprattutto una genealogia dell’ascesi), di Sloterdijk. Risuonano con insistenza i nomi di Nietzsche e di Foucault, e dello stesso Husserl (l’Husserl dell’epoché), nomi molto importanti anche nell’orizzonte complessivo di pensiero della rivista. Non siamo riusciti a ospitare qui tutti gli interventi pervenuti: alcuni compariranno nel prossimo fascicolo e ce ne scusiamo con gli autori. Giovanni Leghissa ha lanciato e organizzato la proposta (Leghissa ha recentemente lavorato per un periodo a Karlsruhe con Sloterdijk). Antonio Lucci (autore della monografia Il limite delle sfere, Bulzoni, Roma 2011) ha tradotto i saggi di Jongen e di Macho.
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Due risposte ad “aut aut” PETER SLOTERDIJK
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l lettore spesso ha l’impressione che il luogo in cui lei compie i suoi esercizi sia il foglio di carta. Come se la scrittura – la scrittura filosofica – fosse una sorta di campo di battaglia nel quale si tratta di combattere l’inerzia della tradizione filosofica. Come se lei si sforzasse di introdurre fratture, interruzioni, scarti, distanze nella lingua della filosofia. Questa lotta contro i limiti del linguaggio filosofico – lotta che al tempo stesso mira a estenderlo – costituisce il modo in cui lei pratica l’esercizio dell’epoché? L’esercizio filosofico è innanzitutto e perlopiù un’attività di scrittura. Il vecchio adagio nulla die sine linea acquista nella scritturalità filosofica un senso preciso, poiché il pensatore che riprende i tratti del pensiero è di regola uno scrittore che mette di nuovo sulla carta delle righe già scritte, nella speranza che la ripetizione non rimanga semplicemente una copia inerte di ciò che già è stato pensato, ma conservi la matrice atta a produrre la variazione creativa. Per me la scrittura nella prosa filosofica implica una costante ricerca della consonanza con il pensiero. Dentro di me se ne sta seduto a vigilare un censore rigoroso che interviene sistematicamente contro tutti i possibili effetti inerziali della mera “discorsività”, costringendo l’autore a far passare ciò che deve essere detto attraverso il filtro di un continuo rinnovamento letterario. Si potrebbe chiamare questa procedura un esercizio volto a smontare la definizione di ogni concettualità che abbiamo già sempre a disposizione. Quan4
aut aut, 355, 2012, 4-6
do Nietzsche afferma che in ogni uomo si nasconde un bambino che vuole giocare, si potrebbe far notare in aggiunta che nello scrittore filosofo si nasconde un giovane uomo che seduce e vuole essere stimolato. Se si conducono assieme sotto un’unica istanza il bambino, il giovane uomo e il censore severo, sorge la figura di un allenatore sotto gli occhi del quale viene effettuato quell’esercizio che chiamiamo scrittura filosofica. Questo allenatore sorveglia la presa di distanza dal discorso ordinario e concede il nullaosta per la pubblicazione di una nuova pagina solo se in essa ogni inerzia discorsiva viene tolta e sussunta entro una nuova presenza discorsiva. Considero la filosofia una di quelle tecniche sintattiche di felicità che chiamiamo in vita quando nominiamo la parola letteratura. Alla fine di Devi cambiare la tua vita leggiamo: “Una struttura simile si chiama civiltà. Le sue regole monastiche vanno redatte ora o mai più. Esse codificheranno quelle antropotecniche che risultano conformi all’esistenza nel contesto di tutti i contesti. Voler vivere al loro cospetto significherebbe prendere la decisione di assumere, in esercizi quotidiani, le buone abitudini di una sopravvivenza comune”. A quali esercizi quotidiani, a quali buone abitudini pensa qui? Si tratta di un passo decisivo per i suoi interpreti, perché lei si riferisce alla dimensione della “sopravvivenza comune” – una dimensione che esclude la possibilità, per l’uomo che si esercita, di salvarsi da solo. Ciò che qui si vorrebbe interrogare, in altre parole, è la portata politica del suo pensiero. Effettivamente, è solo alla fine di una lunga digressione storica sull’idea di esercizio, attraverso l’antichità, il Medioevo e l’età moderna, che l’autore di Devi cambiare la tua vita mette sul tavolo le sue carte. L’imperativo assoluto che impone il cambiamento del modo di vivere oggi viene trasmesso attraverso la realtà planetaria della conditio humana. Nel 1883, grazie al sottotitolo del suo capolavoro profetico, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, Friedrich Nietzsche ha definitivamente trasposto a livello concettuale il genere letterario dei libri che veicolavano tale imperativo assoluto – sotto di esso infatti si possono comprendere 5
i discorsi di Buddha, l’Avesta, il Vecchio e il Nuovo Testamento, come pure il corpus platonico. Buckminster Fuller, d’altro canto, alla fine degli anni sessanta del secolo scorso nel suo Operating Manual for Spaceship Earth ha tratteggiato l’orizzonte della futura etica globale. Devi cambiare la tua vita sfocia in un’etica della co-immunità, che articola le regole della coesistenza concreta di società umane massificate, animate da una profonda volontà di vita, entro un ambiente finito, e cerca di farlo al di là della metafisica classica e dell’astratto universalismo dell’Illuminismo. Questa etica della co-immunità da un lato si fonda sull’“imperativo energetico” a suo tempo formulato da Oswald Spengler, e dall’altro riprende la formulazione ecologica dell’imperativo categorico che troviamo in Hans Jonas. La nozione di co-immunità porta a espressione il punto di vista secondo cui lo sviluppo delle strutture immunitarie collettive, sino a ora limitato a livello nazionale o imperiale, non basta più per rispettare le esigenze di reciprocità poste da quella comunità transnazionale, connessa globalmente e operante sincronicamente, chiamata umanità. Non penso di dire niente di eccessivo se affermo che in questo imperativo è contenuto l’impulso per il futuro lavoro intellettuale, morale e politico che dovremo fare nel corso del secolo a venire.
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Esercizi ma senza ascesi PIER ALDO ROVATTI
1. Deserti tascabili In quel suo libro straripante, provocatorio, trasparente ed enigmatico a un tempo, esaltante quanto deludente, e dunque a suo modo del tutto eccezionale, che si intitola Du mußt dein Leben ändern (2009, Devi cambiare la tua vita, Raffaello Cortina, Milano 2010, 566 pp.), Peter Sloterdijk insiste sui “deserti tascabili”. Si chiede che fine abbiano fatto i luoghi di ritiro nell’epoca della modernità e oggi stesso, prendendo spunto (cfr. p. 271 sgg.) dalle “eterotopie” di Michel Foucault. La sua corposa e disseminata analisi dell’implosione della “secessione etica” ha i tratti di una diagnosi impietosa: la modernità avrebbe assorbito ogni “altrove” producendo un processo di completa esternizzazione di ogni ascesa verticale: la “santità” dell’antico ritiro diventa la fitness, intesa come cifra della cultura e della società contemporanea. L’ascesi e la conversione lasciano comunque delle tracce nella “moderata pendenza” che si mantiene nella globale de-spiritualizzazione di oggi, una specie di caricatura della verticalità perduta, affogata nella performance e nella sua tendenza quasi parossistica al “virtuosismo” individuale. È comunque ancora percepibile – dirà poi Sloterdijk – qualcosa come un “aleggiare”, il che per lui significa che gli “angeli” non sono stati del tutto sterminati. I “deserti tascabili” sono innanzi tutto dei luoghi fisici, delle nicchie si direbbe, sopravvivenze degli antichi ritiri, dove talora il deserto era letterale. Può essere un libro, suggerisce Sloterdijk, ma gli esempi possono moltiplicarsi: la carrozza di un treno, l’abiaut aut, 355, 2012, 7-18
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tacolo dell’auto, un segmento all’apparenza insignificante della routine quotidiana, un angolo della propria casa. Certo, la società del turismo e del consumo, in cui siamo, ha costruito un variopinto mercato di deserti tascabili già predisposti e a basso costo, snaturando l’idea stessa di deserto, esteriorizzandola in forma di merce acquistabile: tuttavia, facendolo, ne riconosce l’esigenza ormai massificata senza riuscire a estinguerla. Infatti ciascuno – e, azzarderei, senza eccezione – continua a procurarsi pause e silenzi nelle maniere più disparate e personali, anche in mezzo al traffico, alla folla e al rumore dominante. Se il deserto è diventato una metafora (o un’offerta per vacanze dello spirito), esso è rimasto un’esperienza di vita, concrete parentesi di pensosità cui nessuno davvero rinuncia, neppure il più orizzontalizzato degli uomini. Ma che c’entra l’ascesi? Nietzsche ci ha addestrato a fiutarvi subito l’equivoco di qualcosa di “malaticcio”, e Sloterdijk – che può ben definirsi nietzschiano – prende a cuore la questione. Per iniziare, basta chiarire un punto: per lui il termine greco askesis significa soprattutto (e correttamente) “esercizio”, e in ciò si incrocia ancora con l’uso che ne fa Foucault nelle sue tarde incursioni nell’ethos antico. Da parte sua, Sloterdijk, con evidenza, carica questa nozione fino a usarla come un operatore essenziale e universale. Ricordo che il sottotitolo del libro è Sull’antropotecnica: più che un sottotitolo è la linea guida della sua riflessione sul nostro presente. Quando, però, tutto diventa significativamente esercizio e tecnica di vita, lo scenario si riempie di nuovi problemi: non tutti gli esercizi sono virtuosi, molti sono “maligni” e perfino tossici, e allora bisognerà mettere in campo una difficile arte della distinzione per tentare di smascherare l’incessante produzione di false ascetiche. Ma cosa può essere “salvato” come appartenente a quell’aleggiare angelico? È utile, per questo salvataggio, rimettere al lavoro la “verticalità” (che corrisponde, alla fine, con l’aspirazione al meglio)? L’ascetica, insomma, ha ancora un’incidenza? E se sono “i poeti” (e più in generale l’eccentricità residua dell’arte) ad annunciare, per così dire, la buona novella, che cosa resta da fare ai cosiddetti filosofi ai quali Sloterdijk ovviamente si appella? Ecco alcune delle domande che Devi cambiare la tua vita in conclusione rilancia al lettore, compresa quella sonoramente 8
implicita nel titolo stesso. Domande cui si accompagna, a lettura di libro avvenuta, un senso di disagio che si estende dalla sensazione di non aver compreso fino in fondo una proposta, sicuramente importante, al dubbio che in essa si annidino e proliferino alcune ambiguità che si tratta di portare allo scoperto. Come se Sloterdijk stesso fosse preso in un’oscillazione tra il mantenere il suo sguardo nello scadimento dell’attuale società della fitness e il rivolgersi indietro a un patrimonio ascetico non completamente inghiottito dalla modernità. L’esercizio/esperimento da eseguire consisterebbe, allora, nel valutare quanto la sua eccezionale performance possa funzionare per noi alla stregua di un deserto tascabile. 2. Il mondo della vita? Un risultato modesto È l’affermazione che leggiamo nelle pagine dedicate a Husserl della lunga conferenza Stato di morte apparente (tenuta a Tübingen nel 2009, Raffaello Cortina, Milano 2011). Nel chiedersi se è tutto qui il risultato del “radicalismo” della fenomenologia (cfr. p. 61), Sloterdijk si rivela molto scettico dell’approdo al quale Husserl conduce il suo “osservatore disinteressato”, degno per lui di miglior sorte rispetto a un deludente rifluire nel mare della Lebenswelt. Con la conseguenza, implicita ma chiara, di un complessivo deprezzamento dell’itinerario più tardo della filosofia di Husserl, documentato nelle pagine della Crisi delle scienze europee. Poiché, invece, è proprio da qui che ha preso le mosse la più efficace tra le eredità che la fenomenologia ha prodotto in Italia, si tratta di vedere bene quali sono le poste in gioco. Personalmente, ho incontrato la fenomenologia all’inizio degli anni sessanta attraverso le lezioni di Enzo Paci ed è sotto gli occhi, in ogni caso, che la rivista “aut aut” (appunto, questa che state leggendo) ha rappresentato, da noi, il maggior laboratorio della cosiddetta fenomenologia concreta. Dunque, occorre assolutamente in questa sede fare un po’ di chiarezza. Fin da subito era evidente che la fenomenologia proponeva un esercizio, anzi era essa stessa un esercizio che faceva leva sull’epoché (un’epoché decisamente deintellettualizzata) per promuovere un cambiamento radicale dello sguardo e una trasformazione complessiva dell’idea e della pratica 9
L’esercizio come condizione di possibilità del soggetto (e della sua sparizione) GIOVANNI LEGHISSA
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a quando Kant ci ha suggerito che per capire cosa possiamo conoscere bisogna anche chiedersi di cosa è capace il soggetto che conosce, ne sono successe di tutti i colori. Per alcuni, è più che sufficiente chiedersi come è fatto il soggetto. Una volta risolta questa questione, la domanda sullo statuto della soggettività perde poi ogni significato, in quanto ciò che la filosofia mette sotto la rubrica “soggetto” finisce sotto quella “strutture cognitive”. Se vogliamo dare un senso cronologico alla questione, da Johannes Müller in avanti1 questa linea di pensiero ci ha portati dritti verso i meandri oscuri delle neuroscienze (oscuri non perché il programma di ricerca di queste ultime sia poco chiaro o poco persuasivo, ma oscuri perché nel cerebro non c’è luce, se non quella, di vario colore, che appare sui monitor del brain imaging). Non meglio se la passa la nozione di soggetto all’interno di quei programmi di ricerca che, pur partiti bene, nel senso che volevano tener conto della centralità del soggetto, si sono poi ridotti a considerare la sola componente culturale o langagière della soggettività. Si comincia col dire che il soggetto trascendentale ha bisogno di scoprire le forme simboliche, perché queste non sono solo un prodotto della storia, ovvero della multiforme attività 1. Sull’importanza di Johannes Müller, padre degli studi di neuroscienze, ovvero di quella naturalizzazione del trascendentale che Kant, nella lettera a Samuel Thomas Soemmering del 10 agosto 1795, sconsigliava di intraprendere, si veda M. Hagner, B. Wahrig-Schmidt (a cura di), Johannes Müller und die Philosophie, Akademie, Berlin 1992.
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umana di sensemaking, ma sono anche ciò entro cui si muove il soggetto stesso, sono insomma ciò che rende possibile per un soggetto comprendere la mutevolezza del proprio rapporto con la datità del mondo. Da Lazarus in poi2 si è dunque percorsa con profitto la pista che porta a segnalare tutta la produttività del culturale, dello storico, del socialmente costruito. Si è però giunti a decretare la totale immersione del soggetto – che di tutta questa produttività è responsabile – nel mare di segni da esso stesso inscritti in quell’archivio che accoglie enciclopedie, manuali per la falconeria, testi ispirati da qualche divinità, monumenti letterari e artistici, sistemi giuridici, ricettari, trattati di buone maniere, fino all’ultimo catalogo dell’Ikea. Va decisamente meglio se ci si rivolge a due autori che nella loro opera si sono costantemente confrontati con le difficoltà che una ripresa creativa della nozione di soggetto comporta: Derrida e Foucault. Grazie a loro, oggi sappiamo una volta per tutte che il soggetto è sì fondamentale, ma non per questo fonda alcunché. Tanto la decostruzione derridiana quanto la genealogia foucaultiana ci permettono infatti di cogliere come sia bassa e impura l’empiria dei processi di soggettivazione – e precisamente questa bassa empiria non autorizza a porre la soggettività al di fuori delle pratiche che essa è chiamata a giustificare. I soggetti costruiscono la storia di cui sono protagonisti utilizzando materiali che trovano pronti, di cui non possono rendere conto all’interno di una teoria pura. In questa direzione si muove il discorso di Derrida da un lato sull’iterabilità come condizione di possibilità del categoriale, ovvero sulla scrittura come quasi-trascendentale, dall’altro sulla necessità di tener conto, all’interno della filosofia, della nozione di desiderio di provenienza freudiana e lacaniana. Ho appena nominato due aspetti apparentemente irrelati, ma, assieme, essi permettono a Derrida di circoscrivere uno scenario filosofico in 2. Moritz Lazarus può ben essere considerato il padre di quella tradizione delle Kulturwissenschaften che oggi, con intenti diversi ma senza grandi innovazioni sul piano epistemologico, viene continuata per esempio dai Postcolonial e Cultural Studies. Si vedano alcuni dei saggi raccolti in M. Lazarus, Psicologia dei popoli come scienza e filosofia della cultura. Scritti, a cura di A. Meschiari, Bibliopolis, Napoli 2008.
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cui la nozione di soggettività si pone non come figura coestensiva con quella di fondazione, ma come punto cieco della riflessione filosofica, come sfondo da cui proviene la richiesta di una continua chiarificazione; questa richiesta va mantenuta nella sua apertura – da qui il carattere interminabile della decostruzione, in questo simile all’analisi freudiana – in modo tale da impedire che la discorsività filosofica occupi il luogo della fondazione e se ne appropri; se tale appropriazione avesse luogo, infatti, la filosofia si renderebbe complice di quella violenza (solitamente associata al mito e al dogma) che stabilisce genealogie, filiazioni, fratellanze, appartenenze e inclusioni di varia natura. Foucault, dal canto suo, ci insegna che il soggetto si costituisce confrontandosi con quella rete di discorsi che descrivono, classificano, studiano e, direttamente o indirettamente, guidano le pratiche individuali e collettive. La verità che può dire su di sé, quindi, va non solo conquistata attraverso una chiarificazione intellettuale, che si combatte sul terreno delle discipline e della loro gerarchizzazione all’interno dell’enciclopedia dei saperi, ma va anche strappata alle istanze di potere che hanno il compito di gestire la circolazione di quegli stessi discorsi. In Foucault la sottolineatura del ruolo giocato dalle pratiche in vista di una comprensione dei processi di soggettivazione è certo più marcata che in Derrida, tuttavia non deve sfuggire che per entrambi gli autori la posta in gioco della teoria risiede non solo e non tanto nella capacità di maneggiare complessi di concetti, quanto piuttosto nell’esibizione del fatto che la stessa teoria è una pratica immersa in una rete di altre pratiche e che in virtù di tale immersione può essere usata quale parte integrante di un progetto di emancipazione. Ora, è precisamente questa impossibilità di distinguere il momento in cui comincia la teoria da quello in cui finisce la pratica ciò che caratterizza in modo peculiare la soggettività di cui Sloterdijk ripercorre il cammino. Tradizionalmente, il discorso filosofico tende a non insistere troppo sul fatto che la sfera pratica e quella teoretica sono interconnesse; anzi, si è sempre voluto minimizzare il fatto che il soggetto capace di riflessione – o di epoché – coincide con quell’animale parlante che agisce nel mondo e fa un sacco di cose 21
La resurrezione dalla non–morte. Sloterdijk trainer dell’iperimmaginazione MARC JONGEN
1. Il soggetto dell’esercizio Nella prefazione alla sua raccolta di saggi Signatura rerum Giorgio Agamben nota che spesso il lavoro di un filosofo dà conto del suo metodo prima che egli lo faccia esplicitamente.1 Questa affermazione è valida per ciò che lo concerne, ed è valida anche per Peter Sloterdijk. Il suo libro del 2009, Devi cambiare la tua vita, il cui sottotitolo si riferisce all’ampio territorio dell’antropotecnica, contiene, leggermente dissimulata in un ricco materiale storiografico, l’autodescrizione fino a oggi più chiara ed estesa di Sloterdijk in quanto filosofo. Quando il pensatore (quale esempio paradigmatico di un soggetto di cultura avanzata) viene qui descritto come un praticante, un mind-builder, che attraverso un training permanente contrasta lo “spirito di gravità” al fine di scalare il Mount Improbable, il monte dell’improbabilità (con la comprensione, la conoscenza, la capacità espressiva),2 dovrebbe essere chiaro che l’autore di questi pensieri parla da una vetta particolarmente improbabile. Non è necessario aver avuto a che fare per molti anni da vicino con questo pensatore ad alta tensione – come nel caso dell’autore delle presenti righe – per riconoscere che Sloterdijk, con l’originalità e la forza sintetica del suo sguardo filosofico, con le sue straordinarie performance retoriche e non da ultimo con la 1. G. Agamben, Signatura rerum. Sul metodo, Bollati Boringhieri, Torino 2008. 2. Cfr. P. Sloterdijk, Devi cambiare la tua vita. Sull’antropotecnica (2009), Raffaello Cortina, Milano 2010; in particolare la prima parte: “La conquista dell’improbabile. Per un’etica acrobatica”, pp. 133-254.
aut aut, 355, 2012, 37-56
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quantità veramente mostruosa dei suoi lavori, è uno dei pochi “filosofi” attualmente viventi, che con merito porta questo titolo onorifico – inteso nel suo significato antico. Ma la psicanalisi, il poststrutturalismo e il postmoderno non ci hanno forse insegnato che non abbiamo a che fare con autori, pensatori autonomi e altri “soggetti forti”, che tutti questi spauracchi sono morti, e che se anche in passato si erano dati grandi arie ora comanda il “discorso” anonimo? Paradossalmente il nome dell’autore “Peter Sloterdijk” rappresenta al contempo l’attestazione paradigmatica e la smentita totale della tesi postmoderna della “morte dell’autore”. Da un lato, si può sostenere che il disinvolto eclettismo e il sincretismo di Sloterdijk – si è più volte definito un sensitivo per i segnali dello spirito del tempo – esplicitino il carattere mediale del soggetto autoriale, che già all’epoca della sua sopravvalutazione idealistica era un dato di fatto: non sono io che scrivo, si scrive attraverso di me, che si voglia chiamare questo “si” spirito del mondo [Weltgeist] o del tempo [Zeitgeist], inconscio o linguaggio. Dall’altro, la straordinaria musicalità dello stile di Sloterdijk, che gli conferisce la forma di un cogito sonoro3 al di sotto di quello basato su segni e concetti, manifesta l’essenza di ogni vera autorialità: è letteralmente la “voce”, non demarcabile da nessun segno e aleggiante tra le righe come “fattore soggettivo” del discorso, che costituisce il “nucleo” non decostruibile del soggetto autoriale. L’inconfondibile suono-Sloterdijk non rappresenta una mera aggiunta retorica, ma è connesso al livello più profondo con la “sostanza” del suo pensiero. In Sloterdijk si trova in massima misura ciò che egli stesso una volta ha affermato riguardo a Nietzsche: il suo pensiero potrebbe essere reso attraverso altre formulazioni solo a prezzo di una considerevole perdita di evidenza. Affermazione che può anche essere capovolta: ciò che egli ha trasformato nelle sue espressioni è divenuto “originale”, anche laddove il suo “contenuto ideale” è già stato espresso in qualche altra sede. Ma questa voce, questo “soggetto” non si ricevono gratuitamente. Sono il risultato, in un certo senso la ricompensa, di un training 3. Cfr. Id., “Das sonore Cogito und der taube Fleck – oder Descartes’ Versuch, klanglos zu denken”, in Weltfremdheit, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1993, pp. 308-317.
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permanente, di un “esercizio dell’esistenza”,4 che Sloterdijk, con un occhio al tardo Foucault, rintraccia – come noi sopra – nello stile, precisamente nella “totale assenza di manierismi nello stile della sua ultima fase”.5 Inoltre, Sloterdijk si scaglia contro il “conformismo critico”,6 negatore del soggetto, di una ricezione superficiale di Foucault e in generale di una sinistra ossessionata dalla sovversione: “[A Foucault] è diventato chiaro che l’estetismo, il romanticismo attivistico, l’ironia continua, le chiacchiere sulla trasgressione e il sovversivismo sono solamente pigrizie oniriche che nascondono a fatica un’assenza di forma. Da tempo aveva compreso che chi parla di infiltrazione e sogna il divenire appartiene alla classe dei principianti”.7 Ma quale esperienza di allenamento fornisce a Sloterdijk la sicurezza interiore per una tale polemica? Come ha fatto a farsi strada fino alla maestria? Chi, a tarda sera, si trova a passare davanti al suo studio che dà sulla strada, potrà quasi di certo scorgere la sua silhouette ancora alla scrivania – “insonnia a Karlsruhe”, per parafrasare un capitolo di Devi cambiare la tua vita.8 Ma questo esercizio, questo tenersi-in-forma, in base alla sua forma esteriore è tutt’al più un’attività meccanico-ripetitiva, in base ai suoi effetti consiste in un paradossale “rodaggio alla libertà”. Se il pensiero, come afferma Sloterdijk in una forma tanto poetica quanto precisa, “va compreso come nient’altro che un’estasi meditativa del nostro essere-esposti nell’Aperto”,9 appare anche immediatamente chiaro perché il pensiero autentico non si possa allenare. Tutti i procedimenti basati sull’esercizio – lettura, meditazione, esercizi logici –, per quanto siano necessari, possono soltanto avere un carattere preparatorio nei confronti del pensiero: esso è un “evento” che non può essere ottenuto con la forza di nessun potere di tipo “tecnico”. È proprio per questo 4. P. Sloterdijk, Devi cambiare la tua vita, cit., p. 191. 5. Ibidem. 6. Ivi, p. 190. 7. Ivi, p. 191. 8. Cfr. “Insonnia a Efeso. I demoni dell’abitudine e la loro cacciata attraverso la Teoria prima”, ivi, pp. 197-214. 9. P. Sloterdijk, Chancen im Ungeheuren. Notiz um Gestaltwandel des Religiösen in der modernen Welt im Anschluss an einige Motive bei William James, prefazione a W. James, Die Vielfalt religiöser Erfahrung. Eine Studie über die menschliche Natur, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1997, p. 21.
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Tecniche di solitudine THOMAS MACHO
1. Nei testi scientifici quanto in quelli letterari la solitudine viene spesso descritta come una condizione, un dolore e una passione, come un destino più o meno tragico.1 Nelle seguenti considerazioni vorrei provare a indagare la solitudine da una prospettiva opposta. Per prima cosa “solitudine” dovrà figurare come titolo per processi che vengono intrapresi attivamente e non subiti; secondariamente, essa deve venire tematizzata non solo come un’esperienza dolorosa, ma anche gioiosa; e infine deve venire percepita sia come contesto sia come causa della pratica di tecniche culturali, non come una forma patologica per un evento casuale o come una condizione fatale. Utilizzo l’espressione “tecniche culturali” in riferimento a Marcel Mauss e al suo concetto di “tecniche dei corpi”,2 e naturalmente gettando uno sguardo alle analisi delle “tecnologie del sé” di Foucault.3 T. Macho, Mit sich allein. Einsamkeit als Kulturtechnik, in A. e J. Assmann (a cura di), Einsamkeit. Archäologie der literarischen Kommunikation VI, Fink, München 2000, pp. 27-44. 1. Cfr. per esempio I. Rakusa (a cura di), Einsamkeiten. Ein Lesebuch, Insel, Frankfurt a.M.-Leipzig 1996, oppure H.-P. Dreitzel, Die Einsamkeit als soziologisches Problem, Arche, Zürich 1970. 2. Cfr. M. Mauss, “Le tecniche del corpo”, in Teoria generale della magia e altri saggi (1950), Einaudi, Torino 1991, pp. 383-409. 3. Cfr. L.H. Martin, H. Gutman, P.H. Hutton (a cura di), Tecnologie del sé. Un seminario con Michel Foucault (1988), Bollati Boringhieri, Torino 2010, pp. 11-47. Cfr. anche M. Foucault, La cura di sé (1984), Feltrinelli, Milano 2010, pp. 41-71 e Id., “Sessualità e solitudine” (1981), in Archivio Foucault 3. 1978-1985. Estetica dell’esistenza, etica, politica, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 145-154. [Macho cita dall’edizione tedesca del testo, che contiene anche l’intervento di Sennett, a differenza dell’edizione italiana: M. Foucault, “Sexualität und Einsamkeit (Michel Foucault und Richard Sennett)”, in Von der Freundschaft. Michel Foucault im Gespräch, trad. tedesca a cura di M. Karbe e W. Seitter, Merve, Berlin 1984, pp. 25-53, N.d.T.]
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In che cosa consistono le tecniche di solitudine? Esse si lasciano molto genericamente caratterizzare come “tecniche di raddoppiamento”, come strategie di autopercezione. Chi non viene semplicemente abbandonato da tutti gli uomini (cosa che solitamente conduce alla morte), bensì sopravvive, supera e plasma il proprio “abbandono”, inscena un qualche tipo di rapporto con se stesso. Percependo la propria solitudine senza impazzire, si scinde in almeno due forme: come un essere che è solo con se stesso – propriamente – come se fosse in due. A tale riguardo il più famoso sindaco di Bordeaux constatava: “Noi possediamo un’anima ripiegabile su se stessa, essa si può far compagnia: possiede i mezzi di assalire e di difendere, di ricevere e di donare”.4 L’anima diviene il proprio centro, il sole (sol) della propria solitudo, il medium nel processo della meditatio. La solitudine come strategia di “raddoppiamento” deve però – come tutte le tecniche culturali – essere insegnata e allenata, perché “c’è modo di fallire nella solitudine come nella società. Fino a che vi siate reso tale da non osare zoppicare davanti a voi e fino a che voi abbiate vergogna e rispetto di voi stessi, observentur species honestae animo, mettete davanti ai vostri occhi Catone, Focione, e Aristide, in presenza dei quali perfino i pazzi nasconderebbero i loro difetti, e chiamateli a controllori di tutti i vostri pensieri”.5 Montaigne cita (come accade spesso) Seneca, che egli preferiva rispetto alla “ostentata e ciarliera” filosofia “di Plinio o di Cicerone”. Nella XXV Lettera a Lucilio, scrive infatti Seneca: “Non c’è alcun dubbio. È utile aver imposto a se stessi un custode e avere qualcuno cui tu possa volgere lo sguardo e che tu consideri testimone dei tuoi pensieri; ma c’è qualcosa che ci rende ancora più grandi nel vivere come se fossimo sotto gli occhi di un uomo virtuoso e costantemente presente. Mi accontento che tu agisca, qualunque cosa farai, come se qualcun altro ti osservasse. Ogni male ci è suggerito dalla solitudine. Quando sarai ormai progredito al punto da provare rispetto anche per te stesso, sarai libero di congedare il pedagogo; intanto tutelati con l’autorità di alcuni, si tratti di quel famoso Catone o di 4. M. de Montaigne, Saggi, a cura di V. Enrico, Mondadori, Milano 2008, p. 266. 5. Ivi, p 274.
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Scipione o di Lelio e di altri che con il loro intervento indussero persino uomini moralmente distrutti a soffocare i loro vizi. Per il momento fai di te un uomo alla cui presenza non oseresti peccare”.6 Risuona qualcosa della psicologia contemporanea, come ancora suggerisce la traduzione di dignatio tui con “sentimento del valore di te stesso”. Mentre però Montaigne parla di “esempi”, con i quali l’anima deve essere “riempita”, resta dubbio se il Seneca da lui plagiato volesse effettivamente dare suggerimenti per la formazione di una “coscienza” operativa, di un “super-io” che – designato quale idolo preminente – dovrebbe ridurre i pericoli e i rischi della solitudine. Il passaggio citato dalla XXV Lettera non indica in alcun modo tali associazioni: parla di un “custode” (custos), dell’impiego di un maestro (paedagogus) o di uno spettatore (tamquam spectet aliquis); parla di protezione e intervento. Il passo ci fa immaginare uno spirito protettivo personale, un “terzo uomo” che controlla, per così dire, gli eccessi solitari delle cogitationes; ricorda il culto romano dei “geni”, che venivano adorati, per esempio a ogni compleanno, come specie di “doppi” (Doppelgänger) personali.7 La lettera di Seneca, in aggiunta, ricapitola come massima ciò che essa al tempo stesso esegue performativamente: vale a dire la rappresentazione dell’interlocutore Lucilio, il quale da parte sua poi produce e costituisce proprio l’auctoritas custodi dell’autore Seneca. Da che cosa, dunque, la personalità immaginata dovrebbe proteggere i suoi “inventori” (Catone Lucilio, Lucilio Seneca)? In che cosa consistevano gli omnia mala della solitudo? A cosa veniva indotto il solitario? Alla disperazione, alla follia, al suicidio? Avvalorare l’invenzione di un “testimone” mentale o di un “guardiano” non serviva tanto a resistere alla melanconia (che fu demonizzata come acedia soltanto nel Medioevo), e nemmeno a resistere ai piaceri dell’autoerotismo (che dovettero essere scacciati solo nel XIX secolo), quanto piuttosto a ordinare e disciplinare il solilo6. L.A. Seneca, Lettere morali a Lucilio, a cura di F. Solinas, Mondadori, Milano 2008, p. 647. 7. Cfr. Censorino, Il giorno natalizio, a cura di V. Fontanella, Zanichelli, Bologna 1992. Cfr. anche W. Schmidt, Geburtstag im Altertum, Alfred Töpelmann, Gießen 1908. Cfr. anche T.H. Macho, Himmel als Abgrund. Fragment über den Geburtstag, “Manuskripte”, 100, 1988, pp. 223-230.
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L’incontro mancato. Il solipsismo aristocratico di Sloterdijk ANTONIO LUCCI
1. Dal singolo ai collettivi, e ritorno “La libertà è una visione della necessità.” “Raccontalo a qualcuno di più scemo.” I protagonisti di questo dialogo dal sapore beckettiano sono Georg Wilhelm Friedrich Hegel e Jean-Jacques Rousseau, accostati immaginariamente da Peter Sloterdijk nell’ultimo testo pubblicato, Streß und Freiheit.1 La scena assume ancora più colore se la immaginiamo inserita nello scenario tratteggiato dalla penna di Sloterdijk: da un lato, il ginevrino sdraiato dentro una piccola barca al centro del lago di Bienne, le mani dietro la nuca, il mento poggiato sul petto; dall’altro, la voce futura di quello di Stoccarda che risuona come il ronzio di un insetto a rovinare quello scenario idilliaco, meritando per questo solo una considerazione a metà tra l’ironico e l’infastidito. Nel contesto della piccola scena immaginaria appena evocata, Hegel e Rousseau sono i nomi propri dei due temi che animano il libro fin dal titolo, in una struttura di contrapposizioni: lo stress e la libertà. Questi possono essere considerati come i capi del pensiero di Sloterdijk degli ultimi vent’anni, che attraverso una lunga serie di variazioni e sperimentazioni, prevalentemente lessicali e metodologiche, è giunto a una sua compiuta formulazione nel 2009, con il testo Devi cambiare la tua vita2 e quelli successivi che rientrano nella medesima orbita, tra cui appunto Streß und Freiheit. 1. P. Sloterdijk, Streß und Freiheit, Suhrkamp, Berlin 2011, p. 46. Tutte le traduzioni dei testi non presenti in edizione italiana sono mie. 2. Id., Devi cambiare la tua vita (2009), Raffaello Cortina, Milano 2010.
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Le linee di pensiero che le due parole-guida, stress e libertà, indicano sono quelle della riflessione sul soggetto, che in Sloterdijk si articola sempre in modo duplice: dal punto di vista del soggetto collettivo (la cui caratteristica basilare è lo stress) e individuale (il cui proprium è la libertà). Le analisi sui soggetti, singoli e collettivi, incominciano alla fine degli anni ottanta, ma la prima vera sistematizzazione avviene solo con la pubblicazione di Sphären, trilogia nella quale l’analisi antropogenetica si interseca con quella relativa alla genesi dei collettivi. Secondo Sloterdijk, ancor prima di nascere, il soggetto in fieri (chiamato noggetto, per indicare la sua irriducibilità ai campi sia della soggettività sia dell’oggettualità) prova delle esperienze che condizioneranno tutta la sua vita cosciente: l’inclusione nel corpo materno condivisa con la placenta (vero e proprio doppio del soggetto che si sta formando, origine di ogni apertura all’alterità), la sospensione nel medium amniotico, i frammenti di comunicazione con la madre. All’interno di tali coordinate “microsferologiche”, le prime due esperienze noggettuali saranno la condanna e l’eredità dell’essere umano: la storia della civiltà non è altro, da questo punto di vista, che uterotecnica e uterodicea, la storia dei titanici e patetici tentativi umani di climatizzare l’esteriorità spaesante tramite la creazione di sistemi di inclusività materiali e simbolici, architettonici, culturali e metafisici. Questi sistemi di inclusività sono le sfere: La ricerca del nostro dove […] si interroga sul luogo che producono gli uomini per avere ciò in cui possono apparire ciò che sono. Questo luogo porta in questa sede […] il nome di sfera. […] Abitare significa sempre costruire delle sfere, in piccolo come in grande, gli uomini sono le creature che pongono in essere mondi circolari e guardano all’esterno, verso l’orizzonte. […] Le sfere sono delle creazioni di spazi dotati di un effetto immuno-sistemico per creature estatiche su cui lavora l’esterno.3 3. Ivi, p. 82.
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La sfera è la risposta trovata da Sloterdijk alla domanda sul nostro dove, articolata sempre dal duplice punto di vista individuale e collettivo: la storia della civiltà ripete le fasi che l’individuo-informazione ha attraversato prima di divenire soggetto. Parallelamente all’incarnazione della genesi culturale dell’essere umano in un retaggio del suo bios, negli anni novanta Sloterdijk analizza a livello archeologico gli “agglomerati sociali”, operandone una continua critica e destrutturazione, soprattutto a livello semantico. A questo proposito va tenuto presente un punto decisivo delle sue costruzioni argomentative, ovvero lo stile della sua scrittura. In particolare nei confronti dei suoi referenti teorici principali, viene infatti condotta una costante destrutturazione semantica attraverso l’uso di neologismi (come quello di noggetto) e la risemantizzazione dei termini della tradizione (come per esempio tutta la terminologia psicanalitica relativa al concetto di transfert), con il conseguente venire meno del rigore di argomentazioni fondate su basi biologistiche o paleostoriche a vantaggio di riferimenti alla cultura pop o all’estetica. A questo dispositivo di scrittura non sfugge la semantica del concetto di “società”, con l’introduzione di definizioni come (oltre a quella già citata di sfera) collettore e agglomerato sociale, fino ad arrivare a espressioni come reti di attori o unità poli-prospettivistiche, di cui ci occuperemo in seguito. Vale però la pena di seguire fin da ora le fasi di questa “decostruzione”, sia concettuale che semantica, il cui “manifesto” può essere considerato una fondamentale transizione di Sphären III dal titolo Né contratto né organismo. Approssimazione alle molteplicità spaziali che purtroppo vengono chiamate società.4 Qui l’oggetto sono le fondamenta della coesistenza umana, relativamente alle quali si sostiene che l’emergenza del politico sia sempre un’emergenza “seconda”, che nasce da una negazione originaria della dimensione familiare dell’essere-apparentato. L’originario gruppo umano, la famiglia allargata, il clan, l’orda, uniti da legami di parentela, sarebbero il collettore inclusivo originario, mentre l’emergenza del “politico” 4. P. Sloterdijk, Sphären III, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2004, pp. 261-308.
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Perdere la testa. Ginnastica e filosofia GRAZIELLA BERTO
E la filosofia è forse questa garanzia colta nel punto più vicino alla follia contro l’angoscia di essere folle. J. Derrida, La scrittura e la differenza
1. Ginnastica e filosofia: l’appello alla forma “Devi cambiare la tua vita”: è un imperativo forte, esigente ma anche, al tempo stesso, banale e velleitario. Probabilmente lo abbiamo già sentito varie volte, indirizzatoci da qualcun altro o più spesso da una voce interiore, e comunque normalmente disatteso. E forse percepiamo addirittura in esso un’indicazione ormai assorbita dalle mode, dalle varie espressioni di “consulenza” o di “pensiero positivo”, che può farci anche un po’ sorridere o annoiarci nella sua ingenuità e pretenziosità. Non possiamo però fare a meno di stupirci se l’imperativo a cambiare la nostra vita ci giunge – come accade nel libro di Sloterdijk – da una pietra. Si tratta di una pietra che ha perso il suo carattere inerte e informe, per prendere forma in una statua, per trasformarsi anzi nel dio stesso della forma, Apollo. La perfezione di quel corpo ci guarda, con uno sguardo che ci ordina un cambiamento, e un cambiamento che ha a che fare con la forma stessa. La voce della pietra è un “appello alla forma”.1 La via che ci conduce verso la forma è – ci suggerisce Sloterdijk – quella dell’esercizio. Esercitarsi vuol dire innanzitutto abbandonare l’inerzia, la pigrizia, la trascuratezza, smettere di riposare per mettersi permanentemente in moto, assumersi la fatica di un 1. P. Sloterdijk, Devi cambiare la tua vita (2009), Raffaello Cortina, Milano 2010, p. 36; e, in generale, tutto il cap. 1: “Il comando della pietra. L’esperienza di Rilke”, incentrato sul commento al sonetto di Rilke intitolato Torso arcaico di Apollo.
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percorso che non conosce soste ma nemmeno punti d’arrivo stabili e definitivi. Appena l’esercizio si sospende, la forma infatti si perde. L’esercizio è un allenamento continuo, una “condotta che plasma e perfeziona se stessa”,2 attraverso la ripetizione di una stessa operazione, impedendoci così di “andare alla deriva”,3 di lasciarci trascinare dalla corrente dell’abitudine o della passività. La forma che siamo chiamati a dare alla nostra vita sembra in realtà riguardare innanzitutto il nostro corpo, e l’esercizio che la rende possibile ci riconduce in primo luogo alla ginnastica, a un lavoro sul corpo che tende a perfezionarlo e a potenziarlo, anziché assumerlo come un semplice dato naturale, da accettare così com’è. Il legame tra ginnastica e filosofia è uno dei fili conduttori della riflessione di Sloterdijk sull’esercizio: “Il termine ‘filosofia’ contiene senza dubbio un riferimento nascosto alle due principali virtù atletiche che, ai tempi in cui visse Platone, riscuotevano un altissimo gradimento. Esso rimanda da un lato all’atteggiamento aristocratico della ‘filotimia’, l’amore per la time, la fama gloriosa attribuita ai vincitori delle gare; dall’altro lato, rimanda alla ‘filoponia’, ovvero l’amore per il ponos, la fatica, l’onere, lo sforzo”.4 L’amore per la sapienza si presenta fin dall’inizio come un rinnovamento e un potenziamento della pratica ginnica o atletica, che si traduce nella pratica del pensiero. Il rapporto con la verità implica uno sforzo che è reso possibile solo dall’accesso, come per l’atleta, alla dimensione faticosa e ininterrotta dell’esercizio: un esercizio di padronanza sulle passioni, sulle abitudini e sulle idee, che permette di passare “dal mero essere-formato al versante del darsi-forma”.5 Dal lato della retorica, direbbe Socrate, a quello della filosofia, che egli avvicina alla ginnastica proprio per la comune capacità di dare forma, rispettivamente all’anima e al corpo, a differenza di arti, come la retorica e la cosmetica, che si limitano a ritoccare la superficie, a creare l’illusione della verità o della bellezza.6 2. Ivi, p. 7. 3. Ivi, p. 36. 4. Ivi, p. 238. 5. Ivi, p. 239. 6. Cfr. Platone, Gorgia, in particolare 464b-465c, 517c-518c.
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La filosofia, come la ginnastica, è dunque una pratica: non riguarda l’adesione a un determinato sistema di credenze ma una trasformazione di sé, prodotta da una vita incentrata sull’esercizio, che consiste nell’“uscire dalla corrente”, nel “combattere l’inerzia”7 da cui così facilmente veniamo avviluppati e trascinati, cedendo a un intorpidimento che colpisce insieme la dimensione fisica e quella intellettuale, al di qua della loro stessa distinzione. Si tratta di una lotta e di una resistenza che, pur conoscendo delle vittorie, non possono mai ritenere di aver esaurito il loro compito, devono ricominciare, fenomenologicamente, sempre di nuovo. È proprio questa la caratteristica distintiva dell’esercizio rispetto ad altri tipi di pratica: non si tratta di un’azione che esaurisce, a un certo punto, il suo compito, ma di una condizione costante di allenamento. La forma non è mai conquistata stabilmente, è sempre sul punto di venir meno; per mantenersi richiede l’esercizio. La minaccia del lasciarsi trascinare dalla corrente, il pericolo della disgregazione e dell’afflosciamento sono sempre presenti. 2. Spettri della forma Ma, non c’è dubbio, altri spettri, diversi dalla seduzione del rilassamento e dell’inerzia, accompagnano l’appello alla forma. Non è così difficile scorgerli e sentirne il richiamo. Quello più immediatamente percepibile, la cui voce ormai ci raggiunge da ogni dove (dalla televisione, dai giornali, dalla scuola, dalle istituzioni, dalla pubblicità…), è lo spettro del salutismo, la nuova religione del benessere. Ogni religione, del resto – sostiene Sloterdijk –, è un sistema di esercizio, anche se non si comprende come tale, e il suo scopo fondamentale è di tipo immunitario, poiché mira ad addomesticare ciò che è altro, estraneo, a proteggerci da ciò che sta fuori, dall’“impuro”.8 La protezione riguarda l’anima, ma anche il corpo, che diventa il protagonista, in questo caso, di una “cura di sé” interpretata come preservazione del corpo dalle minacce e dalle alterazioni che proverrebbero in primo luogo da ciò 7. Cfr. P. Sloterdijk, Devi cambiare la tua vita, cit., pp. 236-237. 8. Ivi, pp. 4-5.
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Mi esercito, dunque sono EDOARDO GREBLO
A
ll’“etica” la filosofia ha da sempre attribuito il significato di una dottrina della vita “giusta”, che è doveroso condurre sia nella prospettiva della prima persona plurale, così da indicare i valori cui orientare la nostra vita riguardo a che cosa sia per noi la cosa migliore in senso complessivo, sia nella prospettiva della prima persona singolare, così da prescrivere chi io sia o voglia essere o come voglia condurre la mia vita. È chiaro che le due prospettive sono intrecciate, nel senso che le domande intorno alla vita riuscita si inquadrano nel contesto di una determinata forma di vita individuale inserita nel contesto di un’altrettanto determinata forma di vita collettiva. Non è possibile spiegare l’importanza che annetto ai valori alla cui luce posso comprendere me stesso e la mia vita se resto ancorato al solo mondo esclusivo delle mie esperienze private. Già però nelle parole con cui Adorno apriva i suoi Minima moralia, presentandoli come una “triste scienza”, traspare un interrogativo cruciale.1 La “dottrina della retta vita”, ovvero la guida profana al ben vivere, che la filosofia aveva un tempo sostituito alle promesse religiose di salvazione, ormai non gode più di credito alcuno. La filosofia poteva disporre di un orizzonte di significato in grado di stabilire la cornice entro cui collocare la vita degli individui e della comunità sino a quando l’essere sostanziale delle cose – si 1. T.W. Adorno, Minima moralia. Meditazioni della vita offesa (1951), Einaudi, Torino 1979, p. 3.
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trattasse della struttura del cosmo o della natura degli uomini oppure del senso della storia – poteva ancora essere considerato come qualcosa dotato di un significato teleologico. Siccome anche le singole condotte umane venivano fatte rientrare in questo ordine sostanziale, era sempre possibile per chiunque ricavarne chi egli fosse e chi dovesse essere. La “dottrina della retta vita” godeva perciò di una sorta di accreditamento ontologico, desumibile dalla struttura razionale dell’esistente, in grado di fornire alla vita “buona” modelli esemplari e degni di imitazione. La filosofia moderna non è evidentemente più in grado di far discendere dalla costituzione complessiva del mondo una qualche fonte di normatività. Non solo ciò rende ragione del discredito che colpisce ogni tentativo di proporre certi modi di vita come esemplari e universalmente vincolanti. Ma spiega anche sia la separazione tra le teorie della giustizia e della morale da un lato e dell’etica dall’altro, che si verifica sul piano teorico, sia il pluralismo delle visioni del mondo e l’individualizzazione degli stili di vita, che si impone sul piano della realtà empirica. Alla società giusta spetta il compito di offrire a ognuno la stessa libertà di coltivare i propri registri di valore, a propria discrezione e secondo la propria personale concezione della vita buona. La domanda etica fondamentale circa la riuscita o la non-riuscita della propria vita, non potendo trovare alcuna risposta in “fatti” impregnati di norme, costringe così l’individuo, per dirla con le parole di Kierkegaard, ad assumere “se stesso come un compito che gli è posto, anche se è diventato suo grazie al fatto che l’ha scelto”.2 Kierkegaard prende così congedo dall’idea che solo un conferimento metafisico di senso da compiere in base alla ragione possa disporre della forza di orientare la vita. La forma etica di esistenza generata dalle proprie forze nasce soltanto dall’interesse per la riuscita del proprio progetto di vita. Ma anche se la motivazione del retto agire si lascia alle spalle ogni copertura metafisica universalmente riconosciuta, essa continua a dipendere dal rapporto del credente con Dio. 2. S. Kierkegaard, Enten-Eller (1843), 5 voll., Adelphi, Milano 1976-1989, vol. V: L’equilibrio tra l’estetico e l’etico nell’elaborazione della personalità, p. 156.
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Sloterdijk, che segue Kierkegaard nell’accesso postmetafisico all’etica, ma che rompe decisamente i ponti con la rivelazione quale fonte di una verità che rende possibile l’esistenza spostandola in una prospettiva situata al di là di ogni controllo da parte dell’uomo, è un chiaro esempio del passaggio dal pensiero postmetafisico al pensiero postreligioso. L’appello all’incondizionato viene pronunciato senza che sia necessario attingere a Dio o a un assoluto e la condotta di vita eticamente consapevole, che si impegna nello sforzo di non mancare alla propria vita, può assumere il profilo di una sorta di autodelega intenzionale e voluta. L’uomo può essere all’altezza delle istanze di incondizionatezza della vita etica anche solo rimettendosi a se stesso e dedicandosi a un processo di formazione destinato a promuovere una drastica e salutare conversione. Se alla filosofia non può più essere ragionevolmente chiesto di formulare asserti universali sulla totalità concreta di forme di vita esemplari, essa non può che lasciare agli interessati il compito di rispondere, da soli, alle domande riguardo a ciò che è “bene”: è necessario che ognuno chiarisca a se stesso in prima persona che cosa sia per lui una vita riuscita – o almeno non fallita. La critica alle autoillusioni e ai sintomi che caratterizzano un modo di vita sbagliato si commisura all’idea di una condotta di vita basata sull’esercizio e sugli esperimenti antropotecnici, cioè l’insieme degli esercizi e delle pratiche attraverso le quali gli esseri umani elaborano il loro potenziale. Allo stesso tempo essa è la somma delle tecniche grazie alle quali l’uomo ha creato e plasmato il Sé al fine di trascendere le condizioni date, incrociando l’orizzonte della vita quotidiana con la verticale dei cammini ascetici, la dimensione prosaica delle pianure con quella poetica delle vette, e in nome dell’imperativo rilkiano che presta il titolo al libro, Devi cambiare la tua vita.3 Per un filosofo secolare, che vorrebbe disporre di un accesso postmetafisico e postreligioso all’etica in nome di una “trasformazione” capace di garantire a ogni individuo uno spazio creativo in cui perseguire i suoi progetti di esistenza senza essere vincolato a una qualche pretesa incondizionata di verità, si tratta di un impegno 3. P. Sloterdijk, Devi cambiare la tua vita (2009), Raffaello Cortina, Milano 2010.
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La vita di Diogene e il busto di Apollo TIZIANO POSSAMAI
Una fine, un inizio Per cominciare, una constatazione. La riflessione di Peter Sloterdijk si apre all’insegna di una Critica della ragion cinica1 negli anni in cui la ricerca di Michel Foucault stava per chiudersi proponendo uno studio sul cinismo antico. A voler essere precisi il libro di Sloterdijk esce nel 1983, da febbraio a marzo dell’anno seguente Foucault tiene il suo ultimo corso al Collège de France (morirà pochi mesi più tardi, il 25 giugno 1984) concentrandosi con particolare attenzione sulla questione della parresia, il parlar franco in ambito cinico. Sia il libro di Sloterdijk sia le lezioni di Foucault esprimono un profondo elogio del cinismo antico. In Critica della ragion cinica, dunque, Sloterdijk anticipa curiosamente uno dei temi principali dell’ultima ricerca di Foucault, dico curiosamente perché, a ben guardare, anticipa quella stessa ricerca e riflessione da cui trae al tempo stesso buona parte della sua ispirazione. Nell’introduzione, Sloterdijk definisce in questo modo il senso più proprio di quel suo primo fortunato saggio: “Ciò che – alludendo a un testo della grande tradizione – viene qui presentato, vuol essere un iter meditativo sulla proposizione: ‘Sapere è potere’”.2 E poi, dando subito buona prova di parresia, nietzschiana più che cinica, aggiunge: “Sapere è potere: ecco, il fatale politicizzarsi del pensiero è compiuto. Pronunciando la proposizione, la verità è 1. P. Sloterdijk, Critica della ragion cinica (1983), trad. parziale, Garzanti, Milano 1992. 2. Ivi, p. 22.
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svelata. Nel pronunciarla, tuttavia, quel che si vuol ottenere, più della verità, è intervenire nel gioco del potere”.3 Questa seconda verità di ordine pragmatico (“intervenire nel gioco del potere”), che Sloterdijk svela dopo aver svelato la prima (“sapere è potere”) impedendo a quest’ultima di essere tale senza prescindere dai giochi di potere in cui è implicata, le sottrae centralità nel momento stesso in cui ne moltiplica la forza, vincolandola in modo determinante a quei giochi. L’“allievo” ha fatto tesoro della lezione del “maestro”. Foucault non ebbe modo e soprattutto il tempo di leggere il libro di Sloterdijk. Anche se non manca di citarlo, nella lezione del 29 febbraio 1984, come l’ultimo di una serie di quattro volumi della filosofia tedesca contemporanea dedicati alla questione del cinismo antico su cui stava lavorando proprio in quel momento: Infine, il quarto libro, che non conosco, mi è stato segnalato di recente: è uscito l’anno scorso in Germania presso Suhrkamp, è di un certo Sloterdijk, e porta il titolo solenne di Kritik der zynischen Vernunft (Critica della ragion cinica). Non ci sarà risparmiata nessuna critica della ragione: né della ragione pura, né della ragione dialettica, né della ragione politica, e così abbiamo ora la “critica della ragione cinica”. È un libro in due tomi del quale non so nulla. Mi hanno dato dei pareri, diciamo, divergenti sull’interesse di questo libro.4 Che Sloterdijk si possa considerare uno dei più interessanti prosecutori dei cantieri lasciati aperti da Foucault è fuori dubbio. Che lo sia fino al punto di riproporre, benché su piani di contenuto e stile diversi, anche alcuni (in)apparenti capovolgimenti della sua parabola di pensiero lo è forse un po’ meno. Che in questi “capovolgimenti” si possa rintracciare uno degli aspetti più vitali e controversi dell’esercizio filosofico di entrambi è ciò su cui ora proverò a riflettere. 3. Ibidem. 4. M. Foucault, Il coraggio della verità. Il governo di sè e degli altri II. Corso al Collège de France, 1984 (2009), Feltrinelli, Milano 2011, p. 176.
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Si potrebbe presentare la cosa innanzitutto in termini biografici, quei termini che stanno sempre alle spalle di ogni nostro movimento di ricerca e di pensiero, e che troppo spesso in nome di un preteso valore universale di quel movimento (e del risultato relativo) vengono trascurati. In Foucault, per esempio, il passaggio dagli studi dei primi anni sulla “scomparsa” del soggetto alle ricerche sul farsi del soggetto degli ultimi anni, dietro la maschera di categorie asettiche quali strutturalismo e poststrutturalismo, può nascondere il riflesso di uno spostamento che investe, ben prima della sua ricerca, il soggetto/oggetto Foucault in carne e ossa. All’inizio bloccato nelle sue determinazioni di emergenza, nella loro duplice e paradossale azione di produzione e di contemporanea espropriazione/interdizione di ciò che contribuiscono a produrre, poi sempre più consapevole e attivo nel prendersi cura di tali determinazioni disappartenenti. E semmai attento a non farne un nuovo paradigma universale. Ma al di là del dato biografico, che a sua volta spesso nasconde più di quanto rivela, o meglio nella stessa misura in cui ri-vela, il punto sta altrove. Del resto, il fatto che gli esiti dei capovolgimenti di entrambi si possano rintracciare già nelle rispettive premesse non significa che siano necessari, significa solo che il capovolgimento – per quanto (in)apparente – è la condizione della loro possibilità. Da una parte l’idea di un soggetto che rischia di scomparire tra le pieghe del suo stesso sapere e sguardo non può che lasciare spazio a una ricerca – un’ermeneutica la chiamerà Foucault – di nuove forme di riconoscimento e manovra (leggi pure: di un nuovo sapere e sguardo) che facciano riemergere un soggetto da quelle pieghe. Dall’altra parte la consapevolezza di un surplus di coscienza del soggetto, che invece di estendere i suoi margini di libertà creativa e di rottura critica li inibisce – è questo l’effetto pratico di ciò che in Critica della ragion cinica Sloterdijk chiama la nostra “falsa coscienza illuminata” (falsa perché doppiamente illuminata: troppa luce può impedire anziché favorire l’illuminazione) –, non può che lasciare spazio alla ricerca di nuove forme di riflessione e manovra che riattivino l’iniziativa di quel soggetto. Ecco allora che invertendo lo sguardo sul proprio stesso sapere 119
Ceci n’est pas un livre MASSIMILIANO NICOLI CARLA TROILO
Un certo senso di disagio Cominciamo con una constatazione di ordine molto banale: il libro di Peter Sloterdijk Devi cambiare la tua vita1 è un libro – come si suol dire – che fa discutere, e produce reazioni generalmente non troppo favorevoli fra gli addetti ai lavori (filosofici). In questione c’è, per esempio, un uso spregiudicato e discutibile dei riferimenti teorici da parte del pensatore tedesco: il modo in cui egli maneggia, iscrivendolo nel proprio discorso, il pensiero di Wittgenstein e di Foucault – per citare due autori sui quali ci siamo formati – suscita quanto meno alcune perplessità e apre un fronte di critica molto ampio in cui si può ben esercitare l’acribia dello studioso. In particolare, chi scrive non può non confessare la sensazione di disagio provata rispetto a una delle questioni che svolge indubbiamente un ruolo di pivot all’interno del testo di Sloterdijk, e cioè la questione della verticalità: “Gli esseri umani sono inevitabilmente soggetti a una tensione verticale, in tutte le epoche e in qualsiasi spazio culturale”.2 Fil rouge dell’intero strabordante libro, la tensione verticale come costante antropologica alimenta e sostiene le “antropotecniche”, i programmi ascetici/atletici/acrobatici di esercizio a cui occorre riferire tutta la produzione culturale umana. La possibilità “di riesaminare l’intero campo umano alla luce della 1. P. Sloterdijk, Devi cambiare la tua vita. Sull’antropotecnica (2009), Raffaello Cortina, Milano 2010. 2. Ivi, p. 17.
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teoria generale dell’ascesi”3 è occultata e contemporaneamente imposta come necessità dalle gigantesche dimensioni del fenomeno ascetico, dal suo “maxiformato”: così grande e importante da risultare a stento visibile. La condotta incentrata sull’esercizio corre senza tregua attraverso il “giardino dell’umano” – come il maratoneta della prima Olimpiade moderna –, lungo la verticale antropologica tesa fra un sotto e un sopra, fra un meno e un più, fra un peggio e un meglio (Nietzsche docet – ci dice Sloterdijk), a unire lo scarto che già il bambino sperimenta nel rapporto con la madre in quanto “Alto (Oben) presimbolico e sovraspaziale”.4 Il n’y a pas de hors-exercice: anche quando si sosta nella debolezza e nella carenza – come Kafka – o ci si fa professionisti dell’autodisprezzo e della disperazione – come Cioran –, è pur sempre un acrobata colui che vediamo all’opera o, nella peggiore delle ipotesi, un atleta in negativo, un allievo che si esercita puntigliosamente a dare il peggio di sé, un asceta in contromano, come “l’uomo che dorme” di Perec5 – tanto per aggiungere una figura letteraria a quelle evocate da Sloterdijk. Da dove proviene, dunque, il senso di disagio che abbiamo confessato? Allo sguardo del genealogista della domenica non sfuggirà il risentimento di chi è punto nella carne viva della propria granitica pigrizia. E forse è anche il nostro caso. Ma dal momento che l’ampiezza dell’orizzonte ascetico prospettato da Sloterdijk non lascia scampo all’indolenza – inclusa nella fitness dei moderni come allenamento negativo o tutt’al più come condotta “maladattiva” –, l’argomento genealogico di ordine “psicologico” è posto fuori gioco.6 Meglio ricorrere a un’ipotesi di tipo “psicopolitico”, per usare, forzandolo un po’, il linguaggio di Sloterdijk stesso. Il disagio potrebbe allora derivare da una 3. Ivi, p. 136. È l’indicazione programmatica del libro, espressa a chiare lettere nel paragrafo intitolato, per l’appunto, “Programma”, che fa da ouverture alla prima parte. 4. Ivi, p. 140. 5. G. Perec, Un uomo che dorme (1967), Quodlibet, Macerata 2009. 6. Tanto più che potremmo invocare, contro il risentimento dei pigri e sempre nell’ambito delle figure letterarie, la sublime ironia con cui Thomas Bernhard, nel suo romanzo Il soccombente, narra gli ascetismi pianistici del trio Narratore, Glenn Gould, Wertheimer. Cfr. T. Bernhard, Il soccombente (1983), Adelphi, Milano 1985.
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domanda che concerne la centralità attribuita alla verticalità delle condotte umane sullo sfondo della situazione politica in cui ci troviamo. Non si tratta solo di temere, da persone ostinatamente di sinistra, una facile equazione fra verticalità e autoritarismo gerarchico da una parte, e orizzontalità e intersoggettività democratica dall’altra. È Sloterdijk stesso a sfuggire subito a un’identificazione così banale: le potenzialità più elevate dell’essere umano si esplicitano quando le “differenze guida” (il sopra e il sotto) su cui si edificano le culture migrano dal campo originario per “stabilirsi con successo in zone lontane”, così da dare luogo, per esempio, a “una definizione non economica di ricchezza; una definizione non aristocratica di nobiltà; una definizione non atletica di primato; una definizione non cratica di superiorità; una definizione non ascetica [ebbene sì] di perfezione; una definizione non militare di audacia; una definizione non bigotta di saggezza e fedeltà”.7 Ma, nonostante la possibilità di trasvalutare i valori del più e del meno, la questione della verticalità è sempre lì a farci problema, molto probabilmente per la “politica della soggettività” che essa implica. Intermezzo con Foucault Quando parliamo di “politica della soggettività” ci riferiamo primariamente alla coppia dentro/fuori di cui, inevitabilmente, qualsiasi discorso sul soggetto – o sul campo pratico e politico delle “soggettivazioni” – costituisce una problematizzazione. Su questa coppia, così come su quella, per molti versi omologa, attività/passività, Foucault ci insegna molto, e ci invita a leggere Sloterdijk con una certa cautela ed esitazione. Spingendo sull’acceleratore verticale, quest’ultimo disegna una forma del rapporto dell’individuo con se stesso in cui la secessione dal mondo abitudinario, l’uscita dalla corrente della vie routinière, l’“autoisolamento recessivo”, lo Scheintod im Denken,8 giocano un ruolo decisivo: così si entra nella 7. P. Sloterdijk, Devi cambiare la tua vita, cit., p. 19. 8. Cfr. Id., Stato di morte apparente. Filosofia e scienza come esercizio (2010), Raffaello Cortina, Milano 2011.
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Fine dell’esercizio FABIO POLIDORI
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leggere in sequenza e con sguardo storicizzante i libri e i saggi di Sloterdijk, sembrerebbe che molta acqua passi sotto i ponti del suo percorso. E sinceramente credo che sia così per quanto riguarda i cospicui materiali, su cui si esercitano uno sguardo costantemente acuto e provocatorio e una capacità costruttiva decisamente rara. Per quanto invece attiene alla dimensione strutturale dei suoi testi – mi riferisco a una evidente struttura (e anche a una certa strategia) “narrativa” o “letteraria”: quella sulla quale si appoggiano le sue considerazioni più direttamente filosofiche, le analisi e gli approfondimenti interni ad alcuni significativi e probabilmente cruciali momenti del pensiero contemporaneo, come Heidegger, Nietzsche, più di recente Husserl – l’impressione è diversa. È una impressione che descriverei nei termini di una non sempre percettibile trasformazione di alcuni luoghi e contesti filosofici in qualcosa di diverso, in luoghi e contesti – per così dire – di altro genere narrativo. In Non siamo ancora stati salvati, che raccoglie saggi in buona parte dedicati a Heidegger, questa mossa (va riconosciuto: di notevole caratura strategica) è con piena disinvoltura dichiarata e costituisce, oltretutto e per esempio, uno dei tratti più godibili del testo intitolato “La domesticazione dell’essere”, dove – lo ricordo brevemente – la complessa e controversa “tematica” della Lichtung, parola che compare in moltissimi scritti di Heidegger già a partire dagli anni venti, viene a trasformarsi aut aut, 355, 2012, 141-153
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in una questione che Sloterdijk pudicamente colloca sotto l’etichetta di “fantasia filosofica”.1 Una denominazione, quest’ultima, che gli consente di “ricostruire”, appunto narrativamente e con l’ausilio di strumenti scientifici (paleontologia, genetica, biologia, teorie evoluzionistiche eccetera), la storia che avrebbe condotto un uomo non ancora tale (un presapiens o un sapiens in fieri) appunto alla Lichtung, ossia al “luogo” della accessibilità all’ente e al linguaggio. Nel tentativo, “fantasioso” finché si vuole e magari anche giocoso, di costruire una storia dell’accesso alla Lichtung, alla fine però, proprio della Lichtung rimane ben poco; nel senso, intendo, della sua problematicità e del complesso di questioni che Heidegger ci aveva messo dentro o nei dintorni. Dopo alcune decine di avvincenti pagine, ci si ritrova a disporre di una plausibile e rincuorante versione di come siamo (o saremmo) passati da uno stato di silenziosa e sorda natura a una posizione di libera e tecnologica sovranità, da esercitare ora, dopo i primi millenni di ebbrezza da onnipotenza (allotecnica), con circospezione e misura (omeotecnica). Nulla di male, anzi sicuramente molto di bene, ad ascoltare e ad assecondare le giudiziose indicazioni e previsioni; le quali tuttavia, nel loro incanto narrativo e quasi per magia, hanno nel frattempo fatto scomparire del tutto quella semplice e ostinata irriducibilità con cui alcune parole di Heidegger hanno assillato buona parte del Novecento. E magari anche questo è un bene. Un po’ meno a buon mercato mi sembrano però un paio (almeno) di effetti non proprio collaterali o secondari di questa trasformazione o traduzione in chiave narrativo-ricostruttiva. Il primo di questi effetti sta nel fatto che una abbastanza pacifica (ancorché avventurosa, erudita e coinvolgente) antropologia (filosofica?) si sostituisca a un lavoro critico, duro e sicuramente ingrato, un lavoro assillato dall’esigenza di non lasciarsi indurre nella tentazione di dire cosa è l’uomo (cosa siamo, da dove veniamo eccetera), un lavoro assillato insomma (anche) dalla preoccupazione di non raccontare storie; il secondo effetto mi pare consistere in una sorta di inclinazione 1. P. Sloterdijk, Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger (2001), a cura di A. Calligaris e S. Crosara, Bompiani, Milano 2004, p. 122.
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all’essenzialismo, nella tendenza a trovare sempre cose ben definite sotto le parole che, come per esempio nel caso di quell’“abitare” (e derivati) molto frequentato da Heidegger, diventano quasi di colpo piuttosto chiare, univoche, circoscritte e infine, filosoficamente, parecchio irrilevanti. Questo preambolo, che troppo rapidamente ricorda una importante mossa tattica con cui Sloterdijk si procura la possibilità di maneggiare parecchio pensiero heideggeriano con esiti tanto interessanti quanto alle volte distanti dalle movenze teoriche cui il discorso di Heidegger ci ha abituati, mi serve a far emergere una certa persistenza e coerenza di quella che, all’inizio, ho indicato come struttura o strategia letteraria e narrativa. Dato che, in fondo, nel momento in cui – e siamo proprio all’inizio di Devi cambiare la tua vita – viene dislocata, isolata e messa in certo qual senso tra parentesi la religione, allo scopo di mostrare quanto poco si possa capire di un’ascesi e di un esercizio se si parte da un’analisi dello “scopo” (Dio, perfezione morale o di altra natura, altro ancora), sembra riproporsi una mossa alquanto simile a quella con cui era stata un po’ oscurata la scena della Lichtung per raccontare in che modo ci si era arrivati. E anche se in questo caso il filosofo di riferimento non è lo stesso, e al posto di Heidegger troviamo il già di per sé più maneggevole Nietzsche, una certa deriva in chiave antropologica ed essenzialistica mi sembra abbastanza facilmente riscontrabile. Tolto di mezzo il fine, resta insomma il percorso per raggiungerlo, ma costruito in maniera tale da rendere, dopo tutto, il fine stesso irrilevante. Con l’esito di sentirsi alleggeriti per il fatto che, di quel fine ingombrante, sembra quasi di non dovere più parlare. Ora, può anche darsi che quello specifico fine, la religione, che tanto ha oscurato la natura e la storia ascetica dell’uomo, non susciti necessariamente grandi rimpianti nel momento della sua scomparsa dall’orizzonte dell’indagine, e magari la cosa potrebbe anche creare sentimenti di compiaciuta liberazione. Non è però questo il punto; che invece mi sembra stare, piuttosto, in quella specie di riduzionismo antropologico per il quale l’uomo (anche nelle sue molteplici declinazioni: soggettive, personali, individuali) 143
Per una vita in debito ELETTRA STIMILLI
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l divenire economico del mondo che caratterizza la nostra epoca inerisce un’inedita relazione tra le modalità di esistenza dei singoli e la gestione planetaria. Le operazioni economiche hanno raggiunto un grado estremo di astrazione e sono sempre più dipendenti da transazioni finanziarie che determinano l’andamento mondiale in maniera apparentemente autonoma rispetto all’economia reale e all’esistenza degli individui e delle comunità. Ma un investimento sulle singole vite viene continuamente richiesto senza che nulla sembri più possibile demandare. Sotto questo profilo anche i “sacrifici” invocati per far fronte all’attuale crisi economica appaiono più problematici rispetto al modo in cui vengono presentati. A una fase di sprechi e consumi viene contrapposta un’epoca di risparmi e rinunce quasi come uno stato di contrappasso o come il momento espiatorio di una colpa commessa. Ma un intreccio più profondo unisce questi due stadi apparentemente antitetici. L’esercizio al sacrificio oggi richiesto induce a riflettere su un possibile nesso tra l’ascetismo come pratica sacrificale e l’economia come forma di potere. Una ricostruzione di questo percorso può contribuire a verificare in che misura la vita di ognuno partecipi alla costituzione dell’attuale potere economico.1 Su questa strada l’antitesi tra momento del godimento e momento ascetico si complica 1. Ho svolto una trattazione più ampia dei problemi qui affrontati nel libro E. Stimilli, Il debito del vivente. Ascesi e capitalismo, Quodlibet, Macerata 2011.
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e si apre una prospettiva più complessa. Per una visione critica di tale complessità risulta particolarmente fertile un confronto con il pensiero di Peter Sloterdijk su questi temi. La razionalità economica tra autoreferenza e credito Una riflessione sulla razionalità economica oggi imperante induce a pensare che ciò che ha permesso all’economia di affermarsi come potere planetario non sia tanto una logica lineare “volta allo scopo” che, almeno a partire dall’età moderna, è stata individuata alla base dei più rilevanti meccanismi economici. La razionalità strumentale finalizzata alla produzione di beni, alla realizzazione di servizi, allo scambio di merci e, in definitiva, mirata all’appropriazione e alla soddisfazione dell’utile e dell’interesse personale da sola non basta a spiegare l’attuale andamento dell’economia mondiale. Non che tutto questo non sia in gioco. Tuttavia ciò che ha reso possibile all’economia capitalistica di affermarsi in maniera globale sembra essere una logica più complessa, meno lineare, più vischiosa e per questo anche più pericolosa. Fondamentale per il funzionamento dell’economia capitalistica non è dunque soltanto la produzione, lo scambio e l’appropriazione di beni e ricchezze come possesso cumulativo, ma in definitiva statico, quanto piuttosto la loro circolazione in un movimento continuo e autoreferenziale, che non ha altro fine se non in sé. Una razionalità strumentale e acquisitiva, volta all’accumulazione e al possesso personale, da sola non basta a sostenere e ad alimentare l’esistenza del capitale, la cui logica fondamentale è quella “illogica” del profitto fine a se stesso. Tra le teorie economiche più discusse degli ultimi decenni c’è quella elaborata dalla Scuola di Chicago, che ha determinato un mutamento profondo nei modi di produzione e che appare particolarmente esemplificativa della logica economica nel senso sinora indicato. È la teoria del “capitale umano”.2 La massimizzazione 2. Cfr. almeno G.S. Becker, Human Capital. A Theoretical and Empirical Analysis, with Special Reference to Education, The University of Chicago Press, Chicago-London 1964; trad. Il capitale umano, Laterza, Roma-Bari 2008.
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dell’utile si identifica, qui, con un investimento personale che di per sé si traduce in capitale. I suoi effetti non sono riducibili ai soli benefici individuali ma, avendo a che fare con qualcosa di per sé inappropriabile, automaticamente coinvolgono il “bene comune”. La forma estrema di capitalizzazione rappresentata dal “capitale umano” non riguarda l’investimento su prestazioni specifiche, ma concerne le stesse facoltà che caratterizzano la vita umana come tale. Anche l’attività lavorativa non è ridotta al solo lavoro salariato, ma è concepita come una rendita a vita che coinvolge gli elementi più intimi di chi la compie. In questa prospettiva, non soltanto il lavoro viene per così dire “liberato” della passività a cui era costretto nella sua forma classica; non soltanto il consumo non si limita alla semplice ricostituzione di forze perdute, divenendo piuttosto un fattore produttivo di investimento. Ma soprattutto ciò che della vita umana viene coinvolto nelle attività economiche imperanti non è tanto la sua capacità finalizzata alla produzione o al soddisfacimento dei bisogni, quanto piuttosto l’insieme delle facoltà normalmente connesse all’ambito pratico e non a quello economico; più all’azione che al lavoro o al consumo: un radicale sconvolgimento delle categorie alla base della cultura occidentale è qui in gioco. Stando alla classica distinzione aristotelica tra poiesis e praxis, che ha lasciato un’impronta indelebile nella riflessione in questo ambito, mentre la “produzione” ha come unico scopo il prodotto che è distinto dall’attività che lo genera, il fine della “prassi” invece è insito in essa; anzi è la stessa attività (cfr. Etic. nic., VI, 1140b). L’autofinalità qui in gioco è una dimensione che va ricondotta alla natura fondamentalmente potenziale dell’azione, su cui il discorso aristotelico si sofferma con particolare efficacia. Mentre la potenza naturale in senso stretto è predeterminata alla sua attuazione, la potenza (dynamis), che secondo Aristotele è in gioco nella sfera etica, è sganciata da ogni predeterminazione e risulta come abbandonata a se stessa. Di qui, il suo esistere solo grazie all’“esercizio” (askesis), e all’“abitudine” (ethos) (cfr. ivi, 1103a), che trasformano dall’interno lo statuto ontologico della potenza, rendendola in qualche modo autonoma, caratterizzata cioè dal fatto di possedere già in sé 156
La filosofia oltre l’esercizio immunitario DARIO CONSOLI
Antropologia dell’esercizio Nei suoi studi sul pensiero antico Pierre Hadot ha distinto tra una filosofia antica come modalità di esistere nel mondo e una filosofia moderna come costruzione di un linguaggio tecnico riservato a specialisti. In entrambi i casi sarebbe possibile raccontare una “seconda storia della filosofia” che si riferisca ai metodi di addestramento di coloro che vengono detti filosofi, ovvero una storia della produzione dei produttori di filosofia. È ciò che si propone di fare Sloterdijk, il quale, alla luce di una rotazione assiale, rileva come non solo i filosofi dedicatisi a una techne tou biou ma anche quelli teoretici diventino tali in virtù di una vita esplicitamente o implicitamente incentrata sull’esercizio.1 Da Platone a Husserl, la cultura razionalistica europea ha avuto come esercizio cardine, in quanto condotta teoretica, un esercizio di ritiro, non-coinvolgimento, epoché e quindi per lungo tempo è stata ricerca di una (epistemica) morte apparente in direzione di un osservatore neutrale, disincarnato, puro, condotta da coloro che avevano ceduto il loro Io empirico in cambio dello spirito sovrapersonale.2 Per costruire uno sguardo filosofico, eccentrico e più da lontano, la 1. P. Sloterdijk, Du mußt dein Leben ändern. Über Anthropotechnik, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2009; trad. Devi cambiare la tua vita. Sull’antropotecnica, Raffaello Cortina, Milano 2010, p. 444; Id., Scheintod im Denken. Von Philosophie und Wissenschaft als Übung, Suhrkamp, Berlin 2010; trad. Stato di morte apparente. Filosofia e scienza come esercizio, Raffaello Cortina, Milano 2011, p. 38. 2. Cfr. ibidem.
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coscienza dell’osservatore si pone in una distanza rispetto alle varie occupazioni mondane; egli può dunque essere descritto altresì come “una persona che è in vacanza, […] un vacanziere in tutto e per tutto”.3 La concezione della filosofia come esercizio di morte apparente si colloca nel pensiero di Sloterdijk all’interno di un panorama più ampio, in un’antropologia dell’esercizio (Übungsanthropologie) che evidenzia come l’uomo sia costituito per la maggior parte da ripetizioni. Qualsiasi forma di esercizio esplicito – quale è la filosofia – non fa altro che rendere visibile che “l’uomo è un essere vivente che non può non esercitarsi”, dove con “esercizio” si indica “ogni operazione mediante la quale la qualificazione di chi agisce viene mantenuta o migliorata in vista della successiva esecuzione della medesima operazione, anche qualora essa non venga dichiarata esercizio”.4 Risalendo ancora più a monte troviamo l’idea più generale dell’uomo come animale autopoietico, con il concetto di “antropotecnica”, indicando con questa espressione “un semplice teorema dell’antropologia storica, secondo il quale ‘l’uomo’ è da capo a piedi un prodotto e, nei limiti del sapere odierno, può essere compreso solo seguendo in maniera analitica il suo processo produttivo e i suoi rapporti di produzione”.5 Questa indagine attraversa i diversi lavori del filosofo tedesco, dispiegandosi approfonditamente nella trilogia Sfere, la cui premessa decisiva consiste “nell’accettare che la storia ‘dell’uomo’ debba essere compresa come il dramma silenzioso del suo creare spazi”.6 A guidare le riflessioni che seguono è l’idea che l’antropologia dell’esercizio, con il suo condensarsi nell’ambito della condotta filosofica, sviluppi e approfondisca alcuni momenti del lavoro di Sloterdijk e in particolare l’analisi delle antropotecniche, esplicitando le modalità della loro funzione immunizzante e sviluppando 3. Id., La costruzione telematica del reale, conversazione con G. Leghissa, “aut aut”, 336, 2007, p. 108. 4. Id., Devi cambiare la tua vita, cit., p. 7. 5. Id., Nicht gerettet. Versuche über Heidegger, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2001; trad. Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger, Bompiani, Milano 2004, p. 121. 6. Ivi, p. 125.
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un’indagine genealogica del soggetto.7 Queste operazioni vengono condotte rinnovando l’impulso nietzschiano del suo pensiero che, se da un lato porta a constatare l’insostenibilità di un soggetto puro della conoscenza, ricollocando nella corporeità lo sguardo filosofico, dall’altro pone la sfida di un esercizio in un’estatica immanenza come compito inesausto del pensare. Non seguiremo perciò le vicende dell’individuo capace di epoché, ma indugeremo piuttosto a esaminare il funzionamento delle prassi immunitarie di tipo simbolico, per provare a immaginare che forma debba avere e come possa procedere una filosofia che voglia davvero confrontarsi con la radicalità delle questioni che la attendono, non ultima quella legata al riconoscimento del carattere storico e costruito di nozioni come soggetto e uomo, che essa stessa ha contribuito a foggiare. È lungo questo percorso che emerge il confronto con Michel Foucault, riferimento imprescindibile non solo del testo che si dipana intorno all’imperativo “devi cambiare la tua vita!”, ma dello stesso stile filosofico di Sloterdijk.8 È dunque possibile, e lo si può fare a partire dal motivo della “filosofia come esercizio”, individuare una continuità – se non una vera e propria sistematicità, preclusa dalla mutevolezza del linguaggio – lungo l’avvicendarsi delle diverse grandi narrazioni filosofiche che impegnano il lavoro di Sloterdijk, tratteggiando i contorni di un’antropologia postumanista. Muovendo a partire da e oltre le proposte teoriche dell’antropologia filosofica, Sloterdijk avanza un’antropotecnologia generale, che “descrive l’uomo come un essere che vive nel recinto delle discipline, sia di quelle 7. Lo stretto legame tra “teoria delle sfere” e antropologia dell’esercizio viene evidenziato anche in W. Schinkel, L. Noordegraaf-Eelens, Peter Sloterdijk’s spherological acrobatics: An exercise in introduction, in Ead. (a cura di), In Medias Res. Peter Sloterdijk’s Spherological Poetics of Being, Amsterdam University Press, Amsterdam 2011. 8. È singolare, inoltre, che negli stessi anni si assista in entrambi a un parallelo quanto indipendente richiamo ai cinici antichi come quei filosofi nei quali l’incorporazione della verità attraverso i comportamenti assume un valore sovversivo. Cfr. M. Foucault, Le courage de la vérité. Le gouvernement de soi et des autres II. Cours au Collège de France, 1984, Seuil, Paris 2009; trad. Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri 2, Feltrinelli, Milano 2011. P. Sloterdijk, Kritik der zynischen Vernunft, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1983, 2 voll.; trad. parziale Critica della ragion cinica. Il rapporto tra sapere e apparati di potere dall’antichità ai giorni nostri, Garzanti, Milano 1992.
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L’obbedienza della parola negli esercizi di Ignazio di Loyola MARTINO DONI
1. La lingua indegna Fu Ronald Barthes, tra gli altri, a sottolineare come lo stile asciutto e antiretorico degli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola fosse il frutto di una tradizione quanto mai retorica, inavvertita ma decisiva: quella che antepone la verità alle belle parole.1 Lo stile del padre fondatore si suppone un non-stile, in ordine a un equilibrio tra parole e cose che deve essere assolutamente vincolante per le prime e trasparente per le seconde. Perciò, nel quadro generativo della modernità, gli Esercizi svolgono una funzione chiave, una sorta di emergenza di un senso arcaico, metastorico, che irromperà nel Seicento europeo come un memento inossidabile. Là dove le belle parole mancano, rimane la verità della cosa, che non ha bisogno di infiorettature “pagane” per essere proclamata e trasmessa. È su questo nodo che si svolge l’avventura spirituale e linguistica di Ignazio, ed è lo stesso nodo che segnò a suo tempo la fine dell’antichità e il congedo dalla retorica classica. Congedo difficile e mai definitivamente elaborato, a quanto sembra. Uno dei più drammatici momenti fu quello compiuto (con grande maestria stilistica, paradossalmente) da san Girolamo, il quale, in una sua famosa epistola, riferisce di un sogno in cui 1. Cfr. R. Barthes, Sade, Fourier, Loyola (1971), Einaudi, Torino 2001; cfr. anche G. Leghissa, Michel de Certeau, storico e credente, in M. de Certeau, La pratica del credere, Medusa, Milano 2007, pp. 5-25. Riguardo al testo degli Esercizi, citiamo da Gli scritti di Sant’Ignazio di Loyola, a cura dei gesuiti della Provincia d’Italia, AdP, Roma 2007, pp. 181-331, in seguito citato con la sigla ES seguita dai numeri di paragrafo e di pagina.
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Dio in persona gli rimprovera il suo amore per Cicerone a suon di frustate (che resteranno impresse sulla schiena del santo, altro memento): Ciceronianus es, non Christianus! Era il IV secolo.2 Nel pieno di quel medesimo conflitto spirituale e sociale, teologico e politico, Agostino – nutrito di retorica ciceroniana – descriveva in maniera impeccabile quella che sarebbe divenuta l’imperitura distinzione tra le cose false dette con stile eccelso e le cose vere dette in modo semplice e senza fronzoli. Rispecchiando la polemica platonica contro la sofistica, Agostino insegue il sogno della lingua rude, “selvaggia”, intatta, la lingua di Adamo, quella che non scende a compromessi. Svolte di questo genere comportano un ripiegamento su se stessi, perché tendere alla lingua selvaggia significa innanzitutto non fidarsi dei maestri del passato, rischiare da soli. Distacco duro, lacerante, quello di Agostino, che fornirà il modello alla modernità per la ricerca della “cosa” immediata, l’idea chiara e distinta, la verità. Il fil rouge è esplicito e storicamente attestato. I manuali evidenziano le erme di soglie epocali: Agostino, Cartesio, Husserl… In questi congedi (dalla classicità, dalla scolastica, dal positivismo psicologico) c’è di più che un semplice decisionismo retorico. C’è tutto un programma epistemologico teso a distinguere sé da quella che finalmente si riconosce come una tradizione sterile e fallimentare – da qui le confessioni e le meditazioni, il ruminante ritorno a se stessi, la nascita della coscienza moderna. Ma ancor di più: in Agostino (Confessiones, III, 5) si può cogliere nel vivo il processo di tale maturazione. La Bibbia è vista come rem non conpertam superbis neque nudatam pueris. Nelle Scritture si scopre una difficoltà crescente avvolta nel mistero: non eram ego talis, ut intrare in eam possem aut inclinare cervicem ad eius fressus. La lingua “selvaggia” della rivelazione non ha un accesso “letterario”, che per quanto arduo è raggiungibile tramite un curriculum di studi: non è la lingua dell’autorità. In quanto tale è priva di 2. Cfr. P. De Benedetti, La morte di Mosè e altri esempi, Bompiani, Milano 1971, p. 26. Cfr. anche J. Huizinga, Erasmo (1936), Einaudi, Torino 1949, pp. 248-249; F. Jesi, Mito (1973), Aragno, Torino 2008, p. 39; sulla “rioccupazione” petrarchesca di questo topos, cfr. H. Blumenberg, Uscite dalla caverna (1989), Medusa, Milano 2009, pp. 202-206.
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“dignità”: visa est mihi indigna, quam Tullianae dignitati compararem. L’indegnità della rivelazione, palese se accostata alla vetta ciceroniana, è riscattata dall’impronta paolina del ribaltamento dei valori: verum tamen illa erat, quae cresceret cum parvulis. Farsi grande con i piccoli: non si tratta del rapimento estatico, proiettato nella dimensione infantile dell’innocenza. Piuttosto, è la costruzione di un livello alternativo di competenza ermeneutica, che non è quello del “persuadere” – da Agostino identificato con il sapere filosofico, di matrice scettica – ma è quello dell’umiltà, dell’obbedienza nei confronti di un messaggio rivolto a chi si sottomette. Non c’è alcun cedimento all’infantilismo; i parvuli sono coloro che si dispongono all’ascolto, che non cercano la sopraffazione, che non mirano alla vittoria. Niente di più lontano dalla sensibilità forense della cultura imperiale, fondata sulle tecniche retoriche di confezionamento del vero, tecniche che forgiarono la lingua e la coscienza stessa di Agostino. In effetti, troporum cognitio necessaria, si legge in Doctrina Christiana III, 28, 41-48. Tuttavia, la storia della salvezza vanifica la superbia e la sicurezza di quelle procedure, le mette in crisi, prorompendo in una trasvalutazione che avrà piena espressione nella Riforma, allorché, come si legge in un commento luterano alla Lettera ai Galati, è virtù della retorica infusa di Spirito Santo fare al meglio proprio ciò che millantano i retori di questo mondo, ossia verba ita ponere, ut in eis rem ipsam sumul observari et geri videas, rendere visibile la “cosa stessa”.3 L’antiretorica cristiana si impone allora come il discorso che riesce là dove la migliore e più degna retorica classica fallisce: mostrare le cose così come sono. La parola in questo senso si umilia, si piega, si sottomette, secondo l’elogio dei poveri di spirito del Discorso della montagna: si espone su un piano linguistico indegno. È su questa mancanza di dignità che, alle soglie dell’età moderna, prende forma la ricerca di una lingua perfetta. 3. La citazione dal testo di Lutero, In epistolam Pauli ad Galatas commentarius (1519), è tratta da C. Ginzburg, Rapporti di forza. Storia, retorica, prova, Feltrinelli, Milano 2000, p. 34 nota 68.
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