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356 ottobre dicembre 2012

Vuoti di sapere Premessa 3 Giovanni Scibilia Raccolta. Di Richter, DeLillo e alcuni “vuoti d’arte” 7 Paulo Barone Passaggi a vuoto. Moribondi, visionari, desperados, “vita nova” 22 Antonello Sciacchitano Saggio sulla “res intensa” o l’involucro della cosa epistemica 45 Rosella Prezzo Ricominciare da capo. La nascita 63 INTERVENTI Massimiliano Nicoli “Io sono un’impresa.” Biopolitica e capitale umano Raoul Kirchmayr Parresia, giochi di verità e vita filosofica nell’ultimo Foucault Francesco Valagussa L’autore e la danza. La questione della causa in tre dialoghi di Valéry DISCUSSIONI Luca Taddio Fenomenologia eretica “iuxta propria principia”

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IN DIALOGO CON PETER SLOTERDIJK Ubaldo Fadini Pensare la mediazione attraverso il cinismo. Tra Gehlen e Foucault 157 Giuseppe Ferraro L’arte della fuga 169 POST Il nome del traduttore [P.A.R.]

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rivista fondata da Enzo Paci nel 1951 direttore responsabile: Pier Aldo Rovatti redazione: Sergia Adamo, Paulo Barone, Graziella Berto, Deborah Borca (editing, deborahborca@libero.it), Silvana Borutti, Damiano Cantone, Mario Colucci, Alessandro Dal Lago, Giovanna Gallio, Edoardo Greblo, Raoul Kirchmayr, Giovanni Leghissa, Massimiliano Nicoli, Ilaria Papandrea, Fabio Polidori, Rosella Prezzo, Pier Aldo Rovatti, Massimiliano Roveretto, Antonello Sciacchitano, Giovanni Scibilia, Davide Zoletto direzione: c/o il Saggiatore, via Melzo 9, 20129 Milano sito web: autaut.ilsaggiatore.com collaborano tra gli altri ad “aut aut”: G. Agamben, H.-D. Bahr, R. Bodei, L. Boella, J. Butler, M. Cacciari, A. Cavarero, R. De Biasi, G. Dorfles, M. Ferraris, U. Galimberti, P. Gambazzi, S. Givone, A. Heller, F. Jullien, J.-L. Nancy, A. Prete, M. Serres, G.C. Spivak, G. Vattimo, M. Vegetti, P. Veyne, V. Vitiello, S. Žižek per proposte di pubblicazione: redazioneautaut@gmail.com Si fa presente che “aut aut” non pubblica recensioni e non accetta testi di ampiezza superiore a 40.000 battute (note e spazi compresi).

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Premessa

L’

esperienza fatta per il numero dedicato al Coraggio della filosofia ci ha portato a riflettere per l’ennesima volta su cosa voglia dire per noi “fare filosofia”, e più in generale pensare, consapevoli che esercitare un sapere (o un saputo) non significa esercitare il pensiero. In quell’occasione abbiamo intuito (Anschauung che ci ha intimamente unito e su cui in seguito abbiamo a lungo meditato) che ciò che era realmente in gioco in quelle domande non poteva avere a che fare solo con le conoscenze di cui eravamo più o meno diversamente in possesso (il know-how, le competenze si chiamano oggi, la professionalità filosofica, così celebrata nelle accademie del pianeta), ma molto più con un’urgenza di “pensiero” che disturbava le nostre enciclopedie, i nostri Sacri Nomi, le nostre stesse categorie. Più che un pensiero già formulato, quindi, un assillo, un’inquietudine, un’insofferenza verso “il proprio vischioso vocabolario ufficiale di partenza” (Barone), in cui “si smette di pensare quando ancora si crede di farlo” (Prezzo). Questo pensiero ha così fatto vuoto nei nostri saperi, creando un effetto di “nudità”: “noi, vuoti di sapere” (prima accezione del termine) in un paradossale e parossistico “pieno di sapere”. E non tanto perché dogmatico, ma perché saturo e debordante: un sapere che si è tutto esternalizzato, come un Blob televisivo, diventando una massa gelatinosa e caotica, che si estende come una pellicola appiccicosa in cui noi stessi siamo catturati; o che, di converso, si

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dà dei nuovi trainer dello spirito come prêt-à-porter, come esercizio ginnico per rimettere in forma le nostre vite. “Vuoti di sapere” certo lambisce l’epoché fenomenologica senza veicolare, però, alcun volontarismo, alcuna intenzionalità. Una simile condizione ci sembra di non averla né voluta né cercata, ci si è piuttosto imposta come una necessità e, allo stesso tempo, come una chiamata: è in primo luogo il nostro presente che ci vuole “vuoti di sapere”. Non è solo una possibile risposta a un tema di inflazione, di proliferazione incontrollata di conoscenze, modelli, teorie, strumenti. È piuttosto il tentativo di resistere a una volontà di sapere che diventa coazione a concettualizzare accumulo e consumo, ovvero prendere (be-greifen, certo) e mettere da parte, procedere, progredire, inseguendo l’inevitabile correre del tempo. È così iniziata per noi un’operazione di “svuotamento” (seconda accezione del termine), non certo per rifiutare o negare il sapere (se qualcosa del genere è immaginabile), semmai per sospenderne il più possibile l’implacabile voracità e ricreare, sul suo margine, anzitutto uno spazio per sentire in modo diverso, per una “nuova sensibilità” e differenti “mezzi di visibilità”. Dalla scena della rappresentazione del mondo – il mondo dei fatti e delle procedure, opposto alle parole e al pensare, ma anche il mondo troppo rapidamente giunto alla propria fine e alla fine del tempo e della storia, “decaduto” – verso il tentativo di una pratica plurale dell’immanenza del presente come spazio di potenzialità. Quanto di più lontano da ogni forma di nichilismo: il vuoto non è il nulla né lo svuotamento mira alla nientificazione, semmai sfrutta questa condizione di “nudità” per articolare un nuovo sguardo su ciò che si dà, sul mondo appunto, e sull’essere al mondo, ma anche nel mondo come superficie in cui ormai convergono culture e tradizioni diverse. Da questa prospettiva il presente si configura non come spazio di presenze e cose ma come luogo che è conglomerato inestricabile di tracce, riverberi di oggetti e fatti, feticci (cfr. Barone). Esso non fa più scena, non sta più di contro al pensiero, o sullo sfondo, ma è sempre inevitabilmente “tra” o “con” il pensiero stesso, “di lato” o “alle spalle” di esso, in una immanenza reciproca, o in una trascendenza minima, che, invece di sollevarlo, piuttosto 4


lo incide, lo segna. Il presente si cristallizza, direbbe Deleuze, inglobando e scartando passato e futuro, lasciando baluginare così nuove possibili frontiere del senso. La contemporaneità è quindi qui, sia l’inevitabile immanenza del pensiero, sia questo luogo in cui la luce si fa scarsa e fioca, la visibilità si abbassa e precarizza, presente e passato si confondono ma, proprio per questo, sembra potersi vedere e sentire di più e meglio, un po’ come avviene in certi quadri di Richter (cfr. Scibilia) o di Rothko. Soprattutto, da questo modo di pensare il presente è possibile cogliere qualcosa di diverso, qualche aspetto nascosto, per esempio avvertire tutta la forza e l’importanza di un impensato come la “nascita” (cfr. Prezzo), noi che alla morte siamo certamente destinati ma anche inspiegabilmente consegnati dalla nostra tradizione (si pensi solo al Dasein zum Tode di Heidegger). O ancora ritrovare nella “pelle” la nostra “anima” (res intensa, cfr. Sciacchitano), pelle su cui i grandi non-concetti (il Padre, la Donna, l’Oggetto), su cui da sempre ci interroghiamo, lasciano le loro tracce e descrivono qualcosa di sé. Oppure ancora sperimentare la singolarità delle cose nel punto di “sparizione originaria” del tradizionale campo dialettico del pensiero (cfr. Barone) Nella topologia delocalizzata del presente in cui nessun punto conta realmente più di un altro ma tutto riverbera con tutto, il soggetto non ha modo di sottrarsi, semmai è sempre inevitabilmente co-in-volto, ovvero collettivamente preso dentro. Per questo motivo, “Vuoti di sapere” nasce come pratica completamente segnata dall’autobiografia e come esperienza di un gruppo che si trova a pensare all’unisono pur pensando cose completamente diverse secondo modalità del tutto differenti. Privi di “genere” e programma di qualsiasi tipo, parliamo da uno spazio comune, il presente come evento, che costitutivamente si sottrae e che cerchiamo di trattenere configurando luoghi diversi. Non una casa comune, quindi, un rifugio, un tetto che unifica e ripara, piuttosto uno spazio caotico, esposto, aggressivo e pulsante che chiede nuove configurazioni plurali. Non a caso nei nostri testi due sono gli elementi fondamentali ricorrenti e costanti. Per ragioni diverse e in modi diversi, tutti ci 5


interroghiamo sulle implicazioni di alcune “immagini” (da quella di un barcone di immigrati che emerge dal buio alle tele di Richter dedicate alla RAF, dagli stracci e dai battiti del cuore di Personnes di Boltanski ai tatuaggi). È partendo da queste immagini che ci sforziamo non di ritrovare la via del racconto, che ci sembra ormai fatalmente illusoria, semmai di configurare delle descrizioni capaci di individuare una loro coerenza interna e di mostrare qualcosa di parzialmente inedito e inaudito, sollecitando così un nuovo tipo di ascolto e di visione.1

1. Ci auguriamo che “Vuoti di sapere” rimanga uno spazio aperto a ulteriori incursioni ed esplorazioni del paesaggio contemporaneo. Silvana Borutti ha già espresso la sua intenzione di lavorare “a partire dalle immagini che ci riportano la figura dell’assente, o dell’oggetto enigmatico e inesauribile che cova nel pensiero”.

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Raccolta. Di Richter, DeLillo e alcuni “vuoti d’arte” GIOVANNI SCIBILIA

1. Vuoti di sapere ed esperienza artistica “Vuoti di sapere”: che titolo è? Cosa, quali temi e argomenti può inquadrare? Ci si è imposto, probabilmente, proprio per la sua resistenza a “fare quadrato” attorno a questioni che si ritroverebbero altrimenti ridotte a “entità” facilmente circoscrivibili (i temi, appunto). “Vuoti di sapere”, quindi, non palesa alcuna particolare vocazione disciplinare, sembra anzi alludere a un ritrarsi dei saperi e delle competenze (oltre che delle metodologie, degli strumenti…) che lascia in consegna una sorta di nudità in cui in qualche modo ci riconosciamo. In realtà, il titolo non dice “saperi” al plurale ma allude a un sapere singolare, come fosse unico, quello. Immagino questo “sapere” come la posta in gioco del pensiero, la sua ragion d’essere, il suo “perché”, qualcosa attorno a cui il pensiero (e la filosofia) da sempre si interrogano e che da sempre lambiscono. In sostanza, penso questo “sapere” come fosse (una) “verità”, senza per questo necessariamente espormi sulla sua esistenza. “Verità” resterà in queste pagine una tensione, destinata a rimanere appunto “vuota”, senza oggetto. Siamo, cioè, contemporaneamente sempre più “vuoti, privi di verità”, o sapere fondamentale, ma allo stesso tempo tendiamo verso una “verità come vuoto”, uno spazio attorno a cui la nostra esistenza possa liberamente circolare. Anzi: ciò che vorrei sostenere è che questo vuoto debba restare tale perché si possa dare senso senza saturazione di senso e che ogni riempimento del vuoto sia, allo stesso tempo, tanto inevitabile e necessario quanto strutturalmente minaccioso. aut aut, 356, 2012, 7-21

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Ho pensato che l’“esperienza artistica” possa servire da guida eccellente in questo percorso per più di una ragione. Sullo sfondo, è certo l’esperienza costitutivamente fallimentare dell’arte a influenzarmi, il suo mancarsi concettuale grazie al suo carattere sempre locale, sempre limitato all’esser-lì dell’opera. Questo sfondo hegeliano su cui sempre, alla fine, faccio leva mi sembra dopotutto un buon preludio per accedere a un pensiero meno metafisicamente implicato. Ma soprattutto, in questo caso, è il rapporto tormentato con mimesis che mi pare mettere la pratica dell’arte in una condizione ottimale per avvicinarsi ai “vuoti di sapere” che qui ci occupano. Per dirla nei termini di Sciacchitano:1 la tensione mimetica (per esempio tra fotografia e pittura) permette all’esperienza artistica di occupare uno spazio topologicamente paradossale (intriso di vuoto); esso sta tra l’esser “pelle” della res extensa (pelle che Sciacchitano chiama res intensa), ovvero la forma di un corpo (per esempio quello di un terrorista morto), e il “tatuaggio” che su questa pelle si inscrive, nel momento in cui essa interseca un “pensiero asferico e aconcettuale” (per esempio “terrorismo” nella Germania del dopoguerra). Per rafforzare ulteriormente questo aspetto, non parlo nemmeno di “arte” ma di “esperienza artistica” intesa non come l’esperienza dell’artista (per quanto un’esperienza possa essere appropriabile) ma l’esperienza di chi guarda (e non solo, probabilmente) un’opera d’arte. Cerco di comprendere come una simile esperienza possa diventare “sapere” e in particolare “vuoto di sapere” nel duplice senso di “sapere che manca” – buco, foro, falla nel sapere – e “sapere come vuoto”, perno (vuoto ma non assente) attorno a cui l’esperienza stessa circola.2 Per questo motivo non parlerò direttamente di esperienze artistiche che con il vuoto hanno lavorato, in particolare dall’inizio del Novecento ai giorni nostri. Anche se queste esperienze raccontano soprattutto del carattere singolare del vuoto, ovvero del suo alludere 1. Cfr. A. Sciacchitano, Saggio sulla “res intensa” o l’involucro della cosa epistemica, in questo fascicolo. 2. Espressioni come “spazio attorno a cui”, “buco” o “perno” non rendono giustizia della natura topologicamente diffusa e imprendibile di questi vuoti. Restano metafore approssimative che facilitano la visualizzazione e la comprensione del discorso.

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strutturalmente sempre a un “pieno” che viene sottratto: non vuoto ma s-vuotamento, operazione che non essenzializza mai il vuoto ma lo produce nell’operare artistico3 – aspetto, anche questo, che molto ha a che vedere con l’operazione che vorremmo tentare con questo fascicolo. Cercherò, invece, di mostrare come il vuoto lavori a più livelli un’opera peculiarmente “figurativa” come è 18 Oktober 1977, serie di quindici dipinti dedicata da Gerhard Richter nel 1988 ad alcuni membri della Baader-Meinhof e, in particolare, alla loro inquietante morte nel carcere di Stammheim (la data ricorda proprio il “suicidio” di tre membri della RAF: Gudrun Ensslin, Andreas Baader e Jan-Carl Raspe). Perché proprio Richter e perché proprio quest’opera? Tre motivi fondamentali: in primo luogo, Richter è uno dei massimi interpreti della “tensione mimetica” che attraversa l’esperienza artistica nella contemporaneità, grazie a una singolare interrogazione del rapporto figurativo-astratto (Richter dipinge sia fotopitture figurative sia grandi astrazioni e il suo lavoro viene spesso interpretato come pratica postconcettuale, una sorta di meta-pittura che riflette su meccanismi e dinamiche della rappresentazione);4 in secondo luogo, il ciclo ricopre un ruolo emblematico in questo gioco legato al rappresentare/non rappresentare: Richter torna in questa occasione a dipingere “figure” (ma il loro statuto è la posta in gioco dell’operazione, come si capirà) dopo anni di astrazione, fatto che pone Oktober come una sorta di apax nella produzione dell’artista; in terzo luogo, l’operazione interviene su un “vuoto di sapere” intuitivo (come e perché sono morti i membri della RAF a Stammheim?), e lo fa con una strategia 3. In effetti, il percorso che dai quadrati nero e bianco di Malevicˇ porta alla decisione di non esporre di Yves Klein, Laurie Parsons o Maria Eichhorn e molti altri, si fonda in verità su un progressivo s-vuotamento del processo pittorico ed esibitivo. Le esposizioni completamente “vuote” portano in primo piano gli spazi di gallerie e musei: il vuoto d’opera corrisponde cioè a un pieno dello spazio in cui l’opera si situa. È quindi sempre un vuoto che ha a che fare o è compenetrato con un pieno. Per una rassegna su questi temi cfr. Vides. Une rétrospective, JRP, Zurich 2009, catalogo della mostra tenuta nello stesso anno al Centre Pompidou di Parigi/Metz e alla Kunsthalle Bern. 4. Nella cospicua bibliografia sul tema del complesso rapporto tra figurazione e astrazione in Richter rimando in particolare a P. Osborne, Abstract images: Sign, Image, and Aesthetic in Gerhard Richter’s Painting, in B.H.D. Buchloh (a cura di), Gerhard Richter, The MIT Press, Cambridge (Mass.) 2009, p. 95.

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Passaggi a vuoto. Moribondi, visionari, desperados, “vita nova” PAULO BARONE

Installazione (Gestell) Prima il Grand Palais di Parigi, poi l’Armory di New York, quindi l’Hangar-Bicocca di Milano sono state le tappe, nel 2010, di una mostra itinerante di grande rilievo di Christian Boltanski. In questi spazi smisurati l’artista incrociava contemporaneamente due “idee”. Da un lato, offriva a tutti i visitatori la possibilità di registrare a turno il loro battito cardiaco, che veniva amplificato nella sala. Ogni volta, per qualche secondo, si ascoltava nell’aria il suono di un certo battito vitale, unico e irripetibile. Al di là dell’ascolto diretto, tuttavia, il progetto di Boltanski – cominciato nel 2008 – era quello di archiviare tutti i battiti su un hard disk e di conservarlo nell’isola di Teshima, in Giappone, in un centro per l’arte contemporanea disegnato da Tadao Ande, dove chiunque avrebbe potuto recarsi in futuro per riascoltare quella certa, conosciuta, sequenza cardiaca, ma soprattutto i battiti di quelle persone che, viventi all’epoca della registrazione, sarebbero un giorno scomparse. Il titolo di questa prima “sezione” era, non a caso, Les archives du cœur. Parallelamente, per tutta l’estensione dello spazio espositivo, venivano disposti sul pavimento duecentomila abiti usati, o suddivisi in piccoli lotti illuminati dal neon, oppure accatastati a formare una specie di montagna alta dieci metri, a sua volta sormontata da una gru che, con un’enorme mano meccanica, sembrava intenta a impastare il vestiario abbandonato, sollevandolo e lasciandolo ricadere (con un probabile riferimento al lager). Anche questa sezione aveva un titolo significativo, Per22

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sonnes, ovvero “persone” e, insieme, “nessuno” (No Man’s Land nella tappa newyorkese). Qualunque sia il grado di suggestione e di fascinazione offerto dall’una o dall’altra sezione, occorre non cedere alla tentazione di considerarle separatamente e poi di assemblarle o di giustapporle alla rinfusa. La potente forza d’impatto di questa installazione va cercata piuttosto nell’equilibrio sottile e misterioso con cui le due, attraverso un insondabile punto di contatto, si combinano assieme. In virtù di tale combaciamento – vero e proprio fulcro dell’operazione – Archives du cœur e Personnes mettono in tensione i rispettivi elementi e danno luogo a un campo di forze unitario: impronte istantanee, uniche e anonime, di una bizzarra collezione sonora e, insieme, l’ammassarsi e il rimescolarsi continuo delle nostre spoglie, dei nostri “effetti personali”, forme deposte di tutti e di nessuno. Tutto ciò che attraversa questa piccola camera magnetica sembra subire un trattamento analogo a quello che certi rituali primitivi riservavano al nemico (o una certa immaginazione religiosa popolare all’individuo in punto di morte): espianto dal corpo del suo nucleo più nobile e vitale – il cuore, appunto, o il cervello (o l’anima che esala) – e abbandono, conseguente, dei suoi resti disanimati. Ma la secolare suddivisione tra polpa e buccia conosce qui un aggiornamento meno cruento e ben più significativo. Il campo magnetico prodotto da Archives e Personnes possiede, infatti, la speciale prerogativa di assorbire, di aspirare al proprio interno la conformazione abituale e l’andatura ordinaria delle cose e di restituircele addossate d’un tratto al limite estremo di loro stesse. Così facendo, questo vortice magnetico non preleva una parte a scapito di un’altra, non decide a favore dell’una piuttosto che dell’altra, come potrebbe sembrare. Al contrario, esso condensa e concentra la presenza delle cose in uno spasmo, coinvolgendo tutte le sue componenti di partenza senza sacrificarne nessuna. Portando le cose al culmine della loro visibilità e della loro dicibilità, esso ce le mostra laddove sono ferme sul punto di svanire. In tal senso, il battito puntiforme e i resti di ciò che ciascuna cosa è (stata) danno luogo alla particolare immagine ristretta e al tempo stesso 23


sovraccarica, apparentemente immobile e ciononostante sfuggente della scena contemporanea, al ritratto perfetto dello svuotamento per eccesso del nostro presente, rarefatto nella miriade di punti evanescenti che non finiscono di popolarlo, sommerso dalle sterminate quantità di rifiuti e di resti che non smettono di dilatarlo e di sovvertirlo. Un’immagine, forse, di un nuovo, intensificato e transitorio, modo-limite di esistere. Moribondi al cinema del presente Nelle lezioni su Spinoza tenute all’Università di Vincennes tra il 1980 e il 1981,1 Deleuze si sofferma ripetutamente sulla nozione di affectus, distinguendola radicalmente da quella di idea. Pur essendo entrambe “modi del pensiero”, l’affectus si caratterizza per il fatto di non rappresentare nulla, di essere un modo non rappresentativo di pensare. Naturalmente – spiega Deleuze – l’affectus presuppone sempre, in Spinoza, una preminenza logica e cronologica dell’idea – un pensare, dunque, per definizione rappresentativo – con cui è in rapporto. Ma sarebbe un “fraintendimento disastroso” interpretare tale preminenza come una semplice riduzione: “L’idea e l’affectus […] differiscono per natura e sono irriducibili l’uno all’altro”.2 Questa differenza spiega perché affectus non vada confuso con affectio. L’affectio – affezione – costituisce, per l’appunto, il primo tipo di idea (confusa e inadeguata), frutto di una combinazione, di una composizione di corpi, “uno che agisce e l’altro che viene segnato dalla traccia del primo”. L’affezione è dunque “l’effetto immediato che l’immagine di una cosa ha su di me”:3 un’idea di primo genere cui seguono l’idea di “nozione comune”, e quindi l’idea di “essenza”. Cosa indica allora l’affectus, l’affetto? Secondo Deleuze il termine definisce – nonostante la definizione non sia usata da Spinoza – una “variazione continua”, un aumento o una 1. G. Deleuze, Cosa può un corpo?, traduzione dalla trascrizione delle lezioni tenute dal novembre 1980 al marzo 1981, cura di A. Pardi, ombre corte, Verona 2007. Nel testo è aggiunta la lezione introduttiva del 24 gennaio 1978, <www.webdeleuze.com>. 2. Ivi, p. 43. 3. Ivi, p. 107.

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Saggio sulla “res intensa” o l’involucro della cosa epistemica ANTONELLO SCIACCHITANO Se mai uno guarda verso l’alto, è preso da un presagio implacabilmente struggente, lui che sa che non sa, verso coloro che non sanno che non sanno e verso coloro che sanno che sanno. P. Klee, Poesie (1903)

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a prima parte di questo saggio traduce in termini topologici l’articolo 3 delle Passioni dell’anima di Cartesio. Estende la definizione cartesiana fino a comprendere la teoria degli affetti, intesi come affezioni del corpo, cioè come idee corporee non chiare e non distinte, elaborata da Spinoza nell’Ethica. Si presenta la transizione dell’anima dalla concezione platonica del nocchiero piantato dentro la nave (con il corollario della concezione agostiniana della verità che abita dentro l’uomo) alla concezione moderna dell’anima come rivestimento esterno del corpo, la sua pelle, secondo Didier Anzieu. Nella seconda parte del saggio presento la res intensa come superficie delimitante della res extensa. In senso topologico, la res intensa non è del tutto vuota, ma vuota di punti interni, come frontiera della res extensa. In questo senso è costituita da “vuoti di sapere” (al plurale). Contiene le tracce (le intersezioni) di pensieri che non possono essere pensati in modo completo; sono pensieri non concettuali come il femminile, il paterno, l’inconscio, la follia, l’infinito, il mercato, l’etica; sono pensieri che non possono essere fatti rientrare in una concettualizzazione categorica, che dica le cose come stanno (Sachverhalt), ma le cui tracce parziali abitano la superficie del nostro corpo, dove disegnano le figure dei nostri desideri inconsci (o affetti) come tatuaggi. Riprendo qui la nozione di cosa epistemica già affrontata in A. Sciacchitano, La Cosa epistemica, “aut aut”, 301-302, 2001, pp. 249-268.

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1. Augustinus antecessor? Non qui non est, utique nec falli potest, ac per hoc sum; si enim fallor, sum. “Chi non è, non può nemmeno sbagliare, e perciò sono; infatti, se sbaglio, sono.”1 L’affermazione troneggia in mezzo alla Città di Dio. Ma a qualche logico il modo di dedurre la diretta (se pecco, allora sono) dalla contrapositiva (se non sono, allora non pecco) non garberebbe molto.2 Non per sottigliezza, ma perché prudenza consiglia di non abusare del principio del terzo escluso, da cui il teorema agostiniano dipende.3 Brouwer, il caposcuola dell’intuizionismo, si astiene dall’usare il terzo escluso “al buio”, quando non sia già nota una delle due alternative. Per lui, l’argomentazione di Agostino non sarebbe proprio erronea ma poco convincente.4 Forse che Agostino fu poco ispirato da Dio? Tutt’altro. Il guaio è che Agostino fu troppo ispirato da Aristotele, nella cui logica, che è fortemente binaria, il passaggio dalla contrapositiva alla diretta è del tutto lecito, essendo le due addirittura equivalenti.5 Ma in logiche meno binarie6 l’operazione non va da sé. Si capisce, allora, perché il teologo resti attaccato alla logica aristotelica. Perché è binaria come l’ontologia: l’essere è, il non essere non è. Tolta l’ontologia, la città di Dio svanisce. Anche se non proprio in termini intuizionisti, i professori di storia della filosofia mettono in guardia dal considerare Agostino 1. Agostino, La città di Dio, XI, 26. 2. Dedurre l’implicazione diretta (se p, allora q) dalla contrapositiva (se non q, allora non p) è giustificato grazie a una tesi classica non intuizionista, nota come dimostrazione per assurdo. La dizione è impropria, perché fa credere che in logica intuizionista non valgano dimostrazioni per assurdo (vedi nota 5). 3. Prudenza vuole di stare al largo dall’onniscienza, che il terzo escluso implicitamente presuppone. Infatti, l’onniscienza avrebbe rovinose ripercussioni collettive. Come dimostra la storia, l’onniscienza di qualcuno mette a repentaglio la libertà individuale di tutti. 4. Brouwer anticipa di vent’anni e più, nella pratica matematica, il teorema di incompletezza dell’aritmetica di Gödel. 5. La contrapositiva (se non B, allora non A) si usa correntemente nella dimostrazione indiretta di se A, allora B. L’intuizionista preferisce eseguire dimostrazioni per assurdo assumendo la falsità dell’antecedente (invece che negarlo) e derivando contraddizioni nel conseguente (invece che negarlo); l’intuizionista rispetta certe restrizioni sulla falsificazione della negazione e dell’implicazione per non dimostrare “troppo”. 6. Il merito di Brouwer fu di aver avviato il processo di pluralizzazione delle logiche, condizione necessaria per indebolire il logocentrismo della filosofia classica.

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un predecessore di Cartesio. Hanno ragione. Il si fallor, sum non anticipa né preannuncia il cogito, sum. Non lo anticipa, perché fallor non è dubito. Affinché l’errore erri, l’essere deve essere dato in modo categorico,7 perché si possa stabilire senza dubbi se l’intelletto si adegua alla cosa. Non lo preannuncia, perché dubito, invece, non presuppone né la verità categorica né l’essere incondizionato, da infrangere con il peccato. L’essere del dubbio è, infatti, condizionato. Da che cosa? Proprio dal sapere che si interroga su se stesso, mettendosi in dubbio. Se sai, sei; quindi, sei come sai. Questa è la “rivoluzione copernicana” – sarebbe meglio dire epistemica – che non fu di Kant, ma di Cartesio. È questa la base della libertà cartesiana di Sartre e prima di lui di Spinoza.8 Va subito detto che quella epistemica non fu una rivoluzione debole, fu debolissima. Tanto che i successivi pensatori controrivoluzionari, come i Leibniz, i Wolff, i Kant9 e i fenomenologi a seguire ebbero buon gioco a renderla non avvenuta. La debolezza della rivoluzione cartesiana è tutta qui: nella sua sostanziale non categoricità.10 Infatti, non solo sull’essere, ma anche sul sapere Cartesio non 7. Avverto che uso il termine “categorico” (da non confondere con “categoriale”) nel senso tecnico della logica moderna di struttura che ammette solo presentazioni (modelli, rappresentazioni) equivalenti (si potrebbe dire “univoco”). “Non categorica”, invece, è una struttura che può essere presentata in modi non equivalenti. Per esempio il modello numerabile presenta l’infinito in modo non equivalente al modello continuo, perché tra i due modelli non esiste una corrispondenza biunivoca (cfr. O. Veblen, A System of Axioms for Geometry, “Transactions of American Mathematical Society”, 5, 1904, pp. 343-384). 8. “L’unico fondamento dell’essere è la libertà [di pensiero]” (J.-P. Sartre, “La liberté cartésienne”, 1946, in Situations philosophiques, Gallimard, Paris 1990, p. 308). La libertà ontologica va intesa alla Spinoza come diritto originario alla libertà di pensiero (cfr. B. Spinoza, Trattato teologico-politico, 1670, cap. XX, 1). Si tratta sempre della precedenza del sapere sull’essere. Tale precedenza non è solo filosofica ma prima di tutto antropologica. Due milioni di anni fa, quando in Africa entrò in scena il genere Homo, le probabilità di sopravvivenza in un ambiente scarseggiante di alberi – la savana – erano legate al saper collaborare in gruppo e al saper costruire strumenti litici per scarnificare le carcasse semispolpate, abbandonate dai grandi predatori. 9. Termini come Zweifel (dubbio) e Warscheinlichkeit (probabilità) sono scomparsi dalla prima Critica, che funziona tuttora da testo di riferimento del cognitivismo. 10. Più che mai evidente nella formulazione della morale par provision (cfr. Cartesio, Discorso sul metodo, 1637, Terza parte, incipit). Una morale categorica, se esistesse, sarebbe perversa prima che universalmente inapplicabile (cfr. J. Lacan, “Kant avec Sade”, 1963, in Ecrits, Seuil, Paris 1966, p. 675).

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Ricominciare da capo. La nascita ROSELLA PREZZO

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a nascita, l’essere-nati – al contrario dell’essere mortali, destinati dunque alla morte – ha avuto scarsissima rilevanza e attenzione “pensante” nella tradizione filosofica, se non come immagine cristallizzata, o riassorbita per lo più nel problema dell’origine, del fondamento o dell’“innatismo”. Un silenzio, almeno fino alla contemporaneità, tanto più stupefacente se si pensa a quanto costante e ridondante sia stata invece la riflessione sulla morte, quasi un “imperativo categorico” per il filosofo (riproposto anche di recente dal pur anomalo Sloterdijk, nel suo Stato di morte apparente). Certo, un silenzio che non riguarda altrettanto la vita, poiché l’accento posto sulla morte non è dato in opposizione a essa; anzi, l’una non sta senza l’altra, come due opposti-complementari che si richiamano. La cosiddetta domanda fondamentale della filosofia, “perché l’essere invece che il nulla?”, sembrerebbe proprio nascondere quest’altra: “Perché la vita invece che la morte?”. Non a caso la vita, anzi la Vita, ha avuto una ricchissima trattazione fino a identificare un’ampia e articolata corrente filosofica e tutto un “mondo” (la Lebenswelt). Il punto cieco è rappresentato piuttosto dalla nascita, dal nostro comune venire al mondo, dal fatto cioè che veniamo al mondo nascendo: l’evento della nascita e la nascita come evento. A cosa dobbiamo questa, a dir poco, indifferenza del pensiero nei confronti della nascita, questo suo volgerle le spalle? E a che cosa il primato filosofico della morte che ha indotto anche un tono eroico aut aut, 356, 2012, 63-83

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assunto per lo più in filosofia? Una superiorità di senso perpetuata e rielaborata da tutta una tradizione che va da Socrate/Platone, per il quale la filosofia è un continuo “esercizio di preparazione alla morte” (sebbene in lui in modo ancora molto ambivalente, perché è lo stesso Socrate a vantarsi di praticare “l’arte della maieutica”), attraversa potentemente Hegel che, secondo le parole di Bataille, “mette la morte al lavoro”, per trovare in Heidegger il suo sommo esponente. Dove la morte, o meglio “l’essere-per-la morte”, assurge al sapere del “più proprio”, alla verità ri-velantesi dell’essere-nulla che “ci rivendica a sé”. Di certo l’oscuramento del venire alla luce dell’umano è dovuto al legame imprescindibile della nascita con un corpo sessuato, di donna, un corpo particolarmente estraneo per la filosofia; il che ha portato a buttare via il nato insieme all’“acqua sporca”, a quelle “fœces et urina” tra cui nasciamo, come si esprime coloritamente Agostino. Ma c’è un ulteriore aspetto, più attinente al linguaggio; e qui siamo in casa decisamente heideggeriana. Riguarda un’espressionedefinizione data per scontata, mai problematizzata al punto da essere riprodotta in una sorta di meccanica ruminazione: “i mortali” quale sinonimo di “uomini”. Un’ovvietà che in realtà origina, e prende il suo senso, dalla contrapposizione degli esseri umani ai “divini”, alla loro invidiata immortalità. È all’interno di questo antico scenario cosmologico che gli esseri umani si posizionano per identità e differenza in quanto mortali; che cioè la mortalità li identifica specificamente nel loro essere umani, mentre la nascita è cosa in comune con gli dei (anche loro infatti nascono, benché in forme bizzarre). Ereditando e assimilando questa implicita partizione (i divini/i mortali), la filosofia ha ereditato, inglobandola, la definizione che sovrappone in modo assoluto umani e mortali. A prima vista Heidegger sembrerebbe segnare una profonda rottura. Ciò è sostanzialmente dovuto al fatto che egli rinomina “l’uomo”, ribattezzandolo col termine Da-sein, luogo/ente privilegiato in cui si pone la domanda sull’Essere. Ma tale neologismo, coniato per riformulare l’esistenza umana e indicare l’essere dell’uomo affrancandolo dal soggetto sostanziale della metafisica, è davvero

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quel nuovo inizio che egli darebbe alla filosofia? O non piuttosto la radicalizzazione di una sua inveterata tradizione? Il Dasein, figura centrale di Essere e tempo, si regge in realtà su un presupposto incondizionato, su un’asserzione apodittica o, se vogliamo, su un detto. È la definizione stessa, con la sua implicita identificazione di umani-mortali, a costituire la premessa sine qua non dell’analitica esistenziale. Nel corso delle lezioni dell’anno accademico 1924-25 dedicate al concetto di tempo, precedenti quindi di due anni la pubblicazione della sua opera capitale, Heidegger afferma infatti che non è tanto il cogito a costituire la vera definizione del suo sum, bensì il suo “morirò”. E propone la seguente perifrasi del cogito cartesiano: la certezza che esprime il sum existo della Seconda meditazione mostra il suo vero senso se lo traduciamo in sum moribondus.1 La certezza del dover morire è il fondamento della certezza: dai primi istanti della nostra vita noi sappiamo che dobbiamo morire. Di conseguenza, la nascita umana non comporta niente di nuovo, è in sé insignificante, perché il suo senso pieno le deriva dal sapere della morte. Come se tale sapere, posto nel soggetto a partire dalla sua nascita, perciò innato, si iscrivesse così profondamente nel cogito da costituirne la stessa ipseità. Con un’unica mossa poi, attraverso un abile slittamento dei tempi verbali, dal presente al futuro, Heidegger introduce anche l’apertura: la possibilità propria in quanto destinale. È solo il “destinato a morire”, il già in cammino verso la morte, a fornire al sum il suo senso strutturante e aperto. È la morte a costituire essenzialmente il rapporto dell’uomo al suo essere che Heidegger indica come esistenza: essa lo chiama e lo implica in prima persona, lo evoca, potremmo dire. A questa voce il “moribondo” deve cor-rispondere come alla “possibilità più propria, incondizionata e insuperabile”, così leggiamo in Essere e tempo. La radicalizzazione operata da Heidegger lo porta a fare dell’essere umano, o meglio del soggetto che si eleva all’essere in quanto Dasein, l’essere-nel-mondo-attraverso-la-morte; in altri termini: il mortale per antonomasia, che trova nel morire e nella “risoluzione anticipatrice” 1. M. Heidegger, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo (1925), a cura di R. Cristin e A. Marini, il Melangolo, Genova 1999.

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Interventi


“Io sono un’impresa.” Biopolitica e capitale umano MASSIMILIANO NICOLI

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el 1979 Michel Foucault dedica il suo corso al Collège de France alla razionalità di governo liberale, indagata a partire dalle sue prime formulazioni nel XVIII secolo per arrivare infine alle versioni novecentesche, tedesca e americana.1 Come noto, sarà l’unica incursione effettuata da Foucault all’interno della storia contemporanea, un anno prima di consacrare la propria ricerca al Collège alle pratiche di “governo di sé e degli altri” nell’antichità greco-romana. Il corso del 1979 si inserisce nel quadro delle analisi sul biopotere, e precisamente all’interno della polarità della biopolitica, da intendersi – secondo le indicazioni della Volontà di sapere 2 – come l’insieme dei “controlli regolatori” che si esercitano sui processi vitali del “corpo-specie”, a livello, cioè, della “popolazione” – mentre la polarità delle “discipline” insiste sul corpo individuale e sul suo dressage, inserendolo in quei minuziosi sistemi di controllo che delineano una “anatomo-politica del corpo umano”. Procedendo lungo la linea di ricerca della biopolitica come tecnologia di governo delle popolazioni, Foucault incontra, dopo 1. M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France, 1978-1979 (2004), trad. di M. Bertani e V. Zini, Feltrinelli, Milano 2007. 2. Id., La volontà di sapere. Storia della sessualità 1 (1976), trad. di P. Pasquino e G. Procacci, Feltrinelli, Milano 2006, p. 123. Il termine biopolitica è impiegato da Foucault per la prima volta al Collège de France nel corso del 1976, lezione del 17 marzo. Cfr. Id., “Bisogna difendere la società” (1997), trad. a cura di M. Bertani e A. Fontana, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 206-227.

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un’analisi della ragione di stato moderna e del modello “pastorale” di esercizio del potere,3 la razionalità di governo liberale e neoliberale, in cui vede il quadro di intelligibilità della biopolitica stessa.4 È durante la fase storica di affermazione e diffusione della pratica di governo liberale che si dispiegano – secondo Foucault – sia le tecniche disciplinari che prendono in carico le condotte degli individui fin nei minimi dettagli, sia i “dispositivi di sicurezza”5 che sorvegliano, limitano e regolano i fenomeni della popolazione all’interno di un rapporto paradossale fra “produzione” e “distruzione” di libertà. Nell’analisi foucaultiana del liberalismo, la questione della “verità” assume un ruolo decisivo, fungendo da spartiacque fra la “governamentalità” liberale e le pratiche di governo delle popolazioni che l’hanno preceduta. In estrema sintesi, il principio liberale dell’autolimitazione dell’arte di governo (“governare meno per governare meglio”, “governo minimo”, “governo frugale”, “laissez-faire”) corrisponde all’innesto sulla ragion di stato di un certo “regime di verità”, che trova “la propria espressione e formulazione teorica nell’economia politica”.6 Le possibilità di intervento dell’attività propria del governo liberale sono limitate dalla verità che si manifesta nel campo pratico-discorsivo dell’economia politica. La verità in questione è la naturalità dei processi economici, vale a dire l’insieme delle connessioni, delle regolarità, dei meccanismi intelligibili che l’economia politica fa emergere all’interno dei fenomeni economici. Il mercato, in buona sostanza, funziona secondo leggi naturali che l’economia politica è in grado di portare a visibilità. A questo punto, il compito del governo – secondo il liberalismo – sarà quello di conoscere le leggi naturali del mercato e rispettarle, favorirne il 3. Si veda in proposito M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France, 1977-1978 (2004), trad. di P. Napoli, Feltrinelli, Milano 2005 e Id., “Omnes et singulatim. Verso una critica della ragion politica” (1981), trad. di O. Marzocca, in Biopolitica e liberalismo, Medusa, Milano 2001. 4. “Solo dopo che avremo saputo in che cosa consiste propriamente il regime di governo chiamato liberalismo, potremo allora comprendere che cos’è la biopolitica”, Id., Nascita della biopolitica, cit., p. 33. 5. Cfr. Id., Sicurezza, territorio, popolazione, cit., pp. 13-48. 6. Id., Nascita della biopolitica, cit., p. 37.

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funzionamento, non interferire, non alterare – attraverso un eccesso di governo – il gioco naturale dei fenomeni economici. Il luogo in cui pratiche di governo e verità economica si annodano, lo spazio di manifestazione di tale verità, è per l’appunto il mercato: Vi era qualcosa, nel regime e nella pratica di governo del XVI e XVII secolo, e prima ancora nel Medioevo, che aveva costituito uno degli oggetti privilegiati dell’intervento e della regolazione del governo, ed era stato anzi l’oggetto principale della sua vigilanza e dei suoi interventi. Ed è questo luogo, non la teoria economica, che comincia a diventare un luogo e un meccanismo di formazione della verità a partire dal XVIII secolo. Si arriverà a riconoscere – ed è questo l’aspetto decisivo – che tale luogo di formazione della verità, [anziché] continuare a saturarlo con una governamentalità regolamentare indefinita, lo si dovrà lasciar funzionare con il minimo di interventi possibili perché possa, a ragione, sia formulare la propria verità, sia proporla come regola e norma alla pratica di governo. Questo luogo di verità naturalmente è il mercato, non la testa degli economisti.7 Si registra, secondo Foucault, un fondamentale passaggio dal mercato come bersaglio di un continuo intervento legislativo e regolamentare al mercato come luogo di “veridizione”, come “meccanismo di formazione della verità” che la pratica di governo deve tutelare affinché quella verità emerga, per poi assumerla come norma e regola, come principio di “verificazione-falsificazione” delle proprie pratiche. La libertà di mercato come condizione di produzione della verità economica si avvia a diventare “il principio regolatore e organizzatore dello stato”, a partire dal XVIII secolo e fino alla nostra contemporaneità: “Uno stato sotto la sorveglianza del mercato, anziché un mercato sotto la sorveglianza dello stato” – così dirà Foucault in relazione all’ordoliberalismo tedesco, nella lezione del 7 febbraio 1979.8 7. Ibidem. 8. Ivi, p. 108.

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Parresia, giochi di verità e vita filosofica nell’ultimo Foucault RAOUL KIRCHMAYR

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a Nietzsche a Derrida e nelle sue diverse declinazioni, la nozione di gioco percorre obliquamente la scena del pensiero contemporaneo, ponendosi all’incrocio di campi d’indagine, linguaggi, discipline. Almeno un tratto importante della ricerca di Michel Foucault è di certo ascrivibile a questa scena: la formula “giochi di verità” si presenta infatti come un punto teorico di particolare densità all’interno del cantiere aperto sulla funzione della parresia nella cultura greco-antica, che marca i corsi al Collège de France e l’investigazione della “cura di sé” condotta durante gli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta. Per funzione, struttura e “logica”, il “gioco di verità” pare acquisire negli ultimi anni un ruolo di cerniera teorica, che permette a Foucault di collegare il versante wittgensteiniano del “gioco linguistico” (il campo delle regole e della produzione discorsiva) con quello del “gioco di potere” (il piano delle strategie e delle pratiche). In questo modo Foucault ridisegna il nesso sapere/potere in relazione allo studio genealogico dei processi di soggettivazione. Prima di muovere qualche passo verso l’esame del “gioco di verità”, credo occorra prestare attenzione al modo in cui Foucault costruisce il campo di ricerca in cui adopera questo strumento di descrizione e di analisi. Anzitutto, un riferimento essenziale a Kant Il testo è una rielaborazione della prima parte della conferenza “Giochi di verità”, tenuta all’Università di Trieste, il 14 maggio 2010, nella cornice del seminario internazionale di studi Michel Foucault e il coraggio della verità.

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incornicia il tema dei “giochi di verità”. Nel corso del 1982-83, Il governo di sé e degli altri,1 Foucault avvia il suo discorso sulla parresia con un riferimento programmatico a Che cos’è l’Illuminismo? e a Il conflitto delle facoltà,2 mentre un ulteriore riferimento compare nelle ultime due pagine del corso dell’anno seguente, Il coraggio della verità, quasi a chiudere la cornice.3 Ricordiamo questo inquadramento, perché l’intero percorso è segnato dalla preoccupazione di saggiare tenuta e porosità dei limiti del sapere, oltre a presentarsi al tempo stesso come una pratica filosofica del limite4 o, in altre parole, come un gesto volto ad affermare una praticabilità del limite. Questo atteggiamento non solo ha un valore epistemologico, poiché sposta le linee di confine che compartimentano le discipline, ma, più radicalmente, mira ad attualizzare il potenziale sovversivo del pensiero nella ricerca di un differente ethos, di una differente articolazione tra sapere e vita. È lungo questo crinale che la nozione di verità viene ripensata e rimodellata da Foucault, secondo un certo movimento del limite che definisce lo spazio di gioco discorsivo in cui hanno luogo le molteplici varianti della pratica parresiastica nella cultura greco-antica. Al tema della parresia come “gioco di verità” corrisponde, dunque, da parte di Foucault, una costruzione del discorso che mette in scena un certo spazio di gioco e delle figure-limite. In diversa misura spazio di gioco e figure-limite ci offrono alcuni punti di riferimento con cui orientarci nel campo investigato da Foucault. Confido che possano essere di un qualche ausilio per individuare la direzione del suo discorso e il senso di quella “trasformazione del soggetto” che forse rappresenta il filo conduttore maggiore degli ultimi corsi al Collège de France. 1. M. Foucault, Le gouvernement de soi et des autres. Cours au Collège de France, 19821983, Gallimard-Seuil, Paris 2008. 2. Ivi, pp. 9-24. 3. Id., Le courage de la vérité. Le gouvernement de soi et des autres II. Cours au Collège de France, 1984, Gallimard-Seuil, Paris 2009, pp. 309-311, in particolare sul limite vedi p. 310. Qui la considerazione del limite si presenta come uno straordinario bilancio del cammino compiuto e al tempo stesso come un rilancio che non ha potuto avere luogo a causa della morte di Foucault. 4. Lo stesso motivo dell’ethos filosofico come “atteggiamento limite” è affermato in M. Foucault, “Che cos’è l’Illuminismo?” (1984), trad. di S. Loriga, in Antologia. L’impazienza della libertà, Feltrinelli, Milano 20083, pp. 229-233.

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1. Spazi di gioco e volontà di verità Che cosa intende Foucault quando parla di gioco? E a quali giochi si riferisce? Facciamo un passo indietro e andiamo al corso inaugurale che Foucault tiene nel 1970 al Collège de France. Ci si potrà forse stupire se fin dalla prima lezione egli dà avvio al suo insegnamento sotto il segno del gioco. Tuttavia, l’ingresso del significante “gioco” nel lessico foucaultiano ha una funzione precisa: esso permette di riconoscere la presenza, all’interno del pensiero greco, di due regimi filosofici in competizione e la cui posta consiste nella verità del soggetto. Foucault, contrapponendoli, li mette in relazione tra loro: da una parte, si tratta di una concezione della filosofia come conoscenza o episteme, che trova in Aristotele il suo modello; dall’altra, Foucault fa emergere una filosofia come savoir tragique che rimanda all’eredità filosofica di Nietzsche. Nella lezione di apertura del 9 dicembre 1970, Foucault indica in “una teoria della volontà di sapere”5 l’obiettivo programmatico delle sue ricerche. Lo fa nei termini di un “gioco” che da lì in avanti dichiara di voler giocare. Qui la parola “gioco”, con cui apre il suo stesso gioco filosofico sulla volontà di sapere, inaugura una prospettiva teorica sulla questione della verità e al contempo rimanda a un arrière-plan che segnala la permanenza di alcune grandi questioni. Foucault dichiara infatti: “Il gioco che vorrei giocare [le jeu que je voudrais jouer]: si tratterebbe di sapere se la volontà di verità non esercita, in relazione al discorso, un ruolo di esclusione, analogo […] a quello che può giocare l’opposizione tra la follia e la ragione, o il sistema dei divieti”.6 Facciamo una prima osservazione: il riferimento alla Storia della follia nell’età classica non è peregrino perché per analogia è ripreso il filo conduttore della ragione come sistema normativo. Il gioco funge qui da spoletta con cui ritessere la questione del rapporto tra folie, raison, déraison e la nozione di verità. In questo passo la parola che occorre sottolineare è allora esclusione, perché proprio 5. Id., Leçons sur la volonté de savoir. Cours au Collège de France, 1970-1971 suivi de Le savoir d’Œdipe, Gallimard-Seuil, Paris 2011, p. 3. 6. Ivi, p. 4.

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L’autore e la danza. La questione della causa in tre dialoghi di Valéry FRANCESCO VALAGUSSA1

Così, di secolo in secolo, s’innalza l’edificio monumentale dell’ILLEGGIBILE.1

Quando gli oggetti dei nostri giudizi sono delle medie, ciò vuol dire che abbiamo rinunciato a considerare gli avvenimenti in sé. Il nostro sapere tende verso il potere, allontanandosi da una contemplazione coordinata delle cose”,2 scrive Valéry nel 1924. Alcuni anni più tardi Musil si esprimerà in maniera simile nel raffronto tra probabilità e storia, proiettando la tendenza della progressiva perdita del senso sull’arco dell’intera civiltà occidentale: “Se la storia umana avesse un compito, e se fosse questo, allora non potrebbe essere migliore di quello che è, e giungerebbe stranamente al suo scopo col non averne alcuno! […] Tutto questo si sarebbe anche potuto esprimere dicendo che a poco a poco ‘l’uomo probabile’ e la ‘vita probabile’ incominciavano a occupare il posto dell’‘uomo vero’ e della ‘vita vera’, che erano pura immaginazione e illusione”.3 La storia si dirige verso il mondo dell’uomo probabile: una media, una statistica quantifica ogni aspetto della vita del corpo, dello spirito, del mondo. Letteralmente non vi è più corpo né mondo, piuttosto “sempre le stesse cose”, perenne adeguamento di tutti 1. P. Valéry, Mon Faust, Gallimard, Paris 1946; trad. di V. Magrelli e G. Pontiggia, Il mio Faust, SE, Milano 1992, p. 153. 2. Id., Variété I. Nouvelle revue française, Gallimard, Paris 1924; trad. di S. Agosti, “A proposito di Eureka”, in Varietà, SE, Milano 2007, p. 186. 3. R. Musil, Der Mann ohne Eigenschaften (1932), in Gesammelte Werke, a cura di A. Frisé, Rowohlt, Hamburg 1978, vol. IV, p. 1208; trad. di A. Frisé, L’uomo senza qualità, Einaudi, Torino 1996, vol. II, pp. 1369-1370.

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i corpi alla vita, senza più alcuna necessità di risposta, senza più squilibri nella vita dell’essere. La statistica e la media coincidono con l’assenza di senso: “L’uomo medio è la materia con cui il mondo lavora e che sempre rinasce da se stesso”.4 L’avvento della tecnica come quantificazione assoluta del mondo comporta che anche l’uomo sia quantificato, misurato, reso oggetto di statistica sino a trasformarsi, a essere trasformato, da reale in probabile, quasi come se l’unica cosa veramente esistente fosse la media, la risultante della ponderazione di tutte le varianti. All’intreccio di eccezioni di cui pullula l’energia inesauribile della vita si tenta di sostituire la mera efficacia, l’utilità allo scopo, il mediamente. Qui risuonano le parole di Valéry: “Ogni cosa che è, se non fosse, sarebbe enormemente improbabile”.5 È questo livello di riflessione che risulta inattingibile alla considerazione tecnico-scientifica, qui si verifica un caso clamoroso di “non adattamento finale”: “Gladiator è insomma lo sforzo dell’essere contro la probabilità. Sforzo chiamato Arte, cambiamento del caso in quasi certezza”.6 Questa è la malinconia, l’indizio di un’età dell’oro scomparsa: la celebre incisione del Dürer del 1514, Melancolia I – come notano Klibansky, Panofsky e Saxl –, benché presenti alcune affinità con la Geometria7 del Margarita philosophica del 1504, mai potrà essere confusa con essa, poiché “la Melanconia non sta facendo nulla con tutti questi strumenti intellettuali o manuali e le cose su cui il suo occhio potrebbe posarsi semplicemente non esistono per lei”.8 Ci si potrebbe spingere a dire che “l’officina della geometria si è trasformata da un cosmo di utensili chiaramente ordinati e utilizzati in vista di uno scopo in un caos di cose inutilizzate”.9 Perché questa scissione tra la Pratica e l’Arte? “Se l’Arte sente 4. Ivi, p. 1206; trad. p. 1366. 5. P. Valéry, Cahiers, Centre national de la recherche scientifique, Paris 1957-1961; trad. di J. Robinson-Valéry, Quaderni, Adelphi, Milano 2002, vol. II, p. 171. 6. Ivi, vol. I, p. 396. 7. Cfr. G. Reisch, Margarita philosophica, J. Gruninger, Strasbourgh 1504. Citazione tratta da R. Klibansky, E. Panofsky, F. Saxl, Saturn and Melancholy, Thomas Nelson, London 1964; trad. di R. Federici, Saturno e la melanconia, Einaudi, Torino 2002, p. 293. Cfr. ivi, fig. 110. 8. R. Klibansky, E. Panofsky, F. Saxl, Saturno e la melanconia, cit., p. 297. 9. Ivi, p. 298.

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di essere di fronte a limiti insormontabili, la cieca Pratica non avverte alcuna limitazione.”10 A qualcosa di simile si riferiva Valéry, volendo scindere la riflessione dalla mera prassi che si adatta di volta in volta alle condizioni del mondo: “Non bisogna trascurare nulla per allontanare la minaccia, e far capire a tutti che l’uomo è uomo solo nella misura in cui l’utile non ne orienta tutte le azioni e non ne governa il destino”.11 Di fronte all’incursione che, per usare una felice intuizione di Dilthey, le scienze della natura muovono verso le scienze dello spirito al fine di conquistare porzioni sempre più ampie del territorio nel quale si radicano, il punto di vista di Valéry può essere inteso alla stregua di una controincursione, che mostri la cifra e insieme il limite dell’espansione delle scienze, che a torto viene ritenuta infinita e progressiva. Il carattere della controincursione appare soprattutto nei Quaderni, dove sempre pressante è l’esigenza di “trovare una rappresentazione intuitiva del funzionamento totale del vivente”;12 “il mio oggetto – cercare una forma capace di ricevere tutte le discontinuità, tutto l’eterogeneo della coscienza”;13 “io cerco indefinitamente il calcolo delle cose totali, vale a dire del sentire-pensare-agire o della trasformazione più generale – e reale – che definisce l’Eterno Presente”.14 Queste istanze potrebbero apparire come volontà di potenziamento massimo della prassi tecnico-scientifica, e in effetti possono essere considerate tali, salvo il fatto che la conoscenza del mondo è sempre rappresentazione, forma, calcolo, mai possesso della cosa in sé. Tutto ciò appare in maniera ancora più evidente se si considera che per Valéry “la psicologia non deve essere esplicativa, ma soltanto rappresentativa”.15 Nessuna spiegazione del mondo della vita in quanto tale, ma soltanto rappresentazioni di esso, all’interno di un preordinato orizzonte di senso: “Quel che noi riceviamo dai sensi non è il 10. Ivi, p. 321. 11. P. Valéry, Regard sur le monde actuel, Librairie Stock, Paris 1930; trad. di F.C. Papparo, Sguardi sul mondo attuale e altri saggi, Adelphi, Milano 1994, p. 291. 12. Id., Quaderni, cit., vol. III, p. 15. 13. Ivi, vol. III, p. 45. 14. Ivi, vol. III, p. 67. 15. Ivi, vol. III, p. 16.

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Discussioni


Fenomenologia eretica “iuxta propria principia” LUCA TADDIO

Daß alle unsere Erkenntnis mit der Erfahrung anfange, daran ist gar kein Zweifel”, sentenzia Kant in apertura alla prima Kritik. L’affermazione che tutte le nostre conoscenze inizino dall’esperienza, ahimè, è ancora “cosa” dubbia. Sul banco degli imputati troviamo, come maggiore responsabile della strage di certezze sull’esistenza del mondo esterno, il concetto di “rappresentazione” che rende mediata, e non immediata, la nostra esperienza. L’evidenza della cosa che si offre alla nostra coscienza è apodittica, ma non la sua esistenza nel mondo esterno. La rappresentazione segna una distanza dal mondo difficilmente sanabile dal linguaggio e dalle cure offerte dalle metafisiche di matrice “soggettivistica”. Eppure vi sono ottime ragioni per pensare la conoscenza come qualcosa di immediato: non ogni conoscenza, ma l’inizio della conoscenza in quanto tale. Questo inizio non va incentrato unicamente nel cogito, nel pensiero o nel linguaggio, non risiede nel “nome” che dice la cosa, non riposa nel linguaggio, bensì nella cosa stessa, nel fenomeno colto iuxta propria principia. Il linguaggio rappresenta un aspetto, un possibile sistema di riferimento sulla cosa. Rovesciamo la prospettiva dal pensiero al phainomenon, per ri-tornare al logos. Possiamo ritrovare il senso della fenomeno-logia nella relazione e nel rinvio di questi due concetti che ne compongono il termine. Tale giunzione sarà operata attraverso l’“esperienza immediata”, nozione che contraddistingue la storia della fenomenologia: altrove abbiamo definito “eretica” questa fenomenologia, per la sua eterodossia rispetto a aut aut, 356, 2012, 141-155

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Husserl; qui proveremo a fornirne una sintesi attraverso alcune considerazioni preliminari. Chuang Chou, dopo aver sognato di essere una farfalla ignara di Chuang Chou, ridiventa improvvisamente Chuang Chou, non sapendo più se ha sognato di essere una farfalla, oppure se è una farfalla che ha sognato di essere Chuang Chou. Potremmo trovarci realmente nella situazione di Chuang Chou? Perché non potremmo essere il sogno di una farfalla? Perché non riusciamo a incarnare questo dubbio? Il senso del nostro agire non è vissuto come l’effetto di una causa recondita: cosa cambia per noi sapere se il sogno è un prodotto della realtà, oppure la realtà il prodotto di un sogno? Le nostre esperienze rimangono immutate mentre congiuntamente diamo vita all’ennesimo dualismo tra apparenza e realtà: potremmo scoprire la realtà che sta al di là dell’apparire di un mondo illusorio. Ipotizzare che il mondo sia un sogno non è sufficiente per accogliere il dubbio. Infatti, per dubitare realmente del mondo esterno, dobbiamo avere buone ragioni: quali sono i criteri che consentirebbero a Chuang Chou di credere realmente di essere una farfalla? Potrebbe “incarnare” il dubbio nel corpo della farfalla? Può un sistema di riferimento coerente vivere all’interno del dubbio? Se Chuang Chou fosse realmente una farfalla si comporterebbe come una farfalla, poiché penserebbe come una farfalla. Chuang Chou, dubitando di conoscere la propria natura, porta a espressione la propria “forma di vita”, che è diversa da quella di un lepidottero e incapace di comportarsi coerentemente al mondo del lepidottero. Il mondo esterno non è solo “nostro”, ma è anche quello della farfalla. Se il nostro mondo fosse un altro rispetto a quello della farfalla, allora non potremmo possedere alcun criterio per cogliere la logica del suo comportamento nel mondo. Il comportamento fenomenologico della farfalla ha per noi senso a prescindere dalla causa metafisica sottostante. Se l’esito di una certa tradizione metafisica ci ha portato a ritrovare l’inizio della nostra conoscenza nella coscienza, un’altra svolta metafisica ci ha condotto tra le braccia del linguaggio. Questa culla di parole e concetti non sembra aver consolato del tutto l’animo del filosofo. Il 142


mondo è sì a portata di mano, ma lo sguardo del filosofo non tocca unicamente la semplice presenza del mondo, testimoniata dal senso comune; è rivolto alla sua giustificazione. Infatti non dubitiamo, come invece Hume, che domani il sole sorgerà: la difficoltà risiede nella giustificazione filosofica di questo evento. Lo stesso Cartesio, prima di dubitare di tutto, testimonia una certa “fatica” connaturata al dubbio. Husserl, in risposta a Cartesio, sospende il giudizio sull’esistenza del mondo esterno. Questa mancata giustificazione rappresenta per la filosofia uno “scandalo” già denunciato da Kant. L’arte non fa eccezione: Magritte pensa al mistero dell’esistenza come qualcosa di “assolutamente” mentale, tema su cui Borges disegna alcune delle sue parabole. Un mondo-sogno che tra cinema e letteratura torna sistematicamente come immagine, calco della stessa matrice filosofica: “Il mondo è una mia rappresentazione”. Premessa nefasta che ritroviamo non solo in Schopenhauer ma, implicitamente, in gran parte della psicologia contemporanea. Il mondo sarebbe quindi qualcosa di mediato, un prodotto del nostro cervello, del linguaggio o della nostra coscienza. Questo ci ha insegnato a lungo la filosofia, questo ci ripete oggi instancabilmente la scienza: il mondo non è come appare, il suo apparire è un’immagine soggettiva della vera realtà invisibile sottostante. Morale: l’incontro col mondo esterno è sempre qualcosa di mediato. Strano è il destino che accomuna il concetto di “mondo” a quello di “verità”: entrambi sono ricondotti a costruzioni o rappresentazioni soggettive dipendenti dal soggetto. D’altro canto, sembra evidente che l’inizio della nostra conoscenza sia inscritto nella coscienza e dicibile solo a partire dal linguaggio. Infatti, ogni nostro discorso non può che cominciare dalla parola, dal linguaggio, dalla coscienza. E se evitassimo di sospendere il giudizio sull’esistenza del mondo esterno, se evitassimo di scomodare Dio e la sua necessaria perfezione, come invece fa Cartesio, se evitassimo queste o altre acrobazie filosofiche per giustificare l’esistenza del mondo esterno? Queste acrobazie sono necessarie solo se isoliamo il linguaggio e la coscienza dalla nostra corporeità o, meglio, dal nostro essere soggetti incarnati nel mondo. Ritroviamo il senso della nostra oggettiva soggettività nella relazione all’ambiente circostante. Quando Kafka trasforma 143


In dialogo con Peter Sloterdijk


Pensare la mediazione attraverso il cinismo. Tra Gehlen e Foucault UBALDO FADINI

1. A proposito di Stato di morte apparente. Filosofia e scienza come esercizio, il curatore dell’edizione italiana, Paolo Perticari, osserva come sia possibile cogliere una progressione della ricerca, propria di un soggetto che riesce a “cambiare la vita”, sintetizzabile nel seguente complesso di interrogativi: “Che cosa resta da fare dopo aver deciso di cambiare la propria vita incentrandola sull’ascesi? Che cosa vuol dire che pensare è morte apparente? Oggi è ancora possibile astrarsi e pensare?”.1 Voglio cercare di prendere sul serio tali questioni, di attraversarle: per così dire, con la pretesa di ribadire come sia impossibile pensare di progettare qualcosa da parte di (o “per”) un soggetto “fisso”, costitutivamente tra-passato, o dato come “presente” unicamente per la “repressione” (sottolineano così Deleuze e Guattari, in L’anti-Edipo). Potrei però anche dire diversamente, accogliendo parzialmente alcune delle suggestioni del testo complessivo di Sloterdijk, portando l’attenzione proprio su quel “fisso”, per individuarne ragioni ancora più profonde rispetto a quelle esibite dalle trasformazioni odierne del primato del “morto” sul “vivo”. Da quest’ultima dinamica è comunque ricavabile una pratica di introduzione del “fisso”, anche nel senso della 1. P. Perticari, “Introduzione”, in P. Sloterdijk, Stato di morte apparente. Filosofia e scienza come esercizio (2010), trad. di S. Franchini, a cura di P. Perticari, Raffaello Cortina, Milano 2011, p. 8. Ovvio è anche il rinvio, per l’articolazione di questo mio testo (soprattutto per la presenza, tra l’altro, di Foucault e Gehlen, oltre che di Luhmann), a P. Sloterdijk, Devi cambiare la tua vita. Sull’antropotecnica (2009), trad. di S. Franchini, a cura di P. Perticari, Raffaello Cortina, Milano 2010. Cfr. inoltre, sempre di Sloterdijk, Caratteri filosofici. Da Platone a Foucault (2009), trad. di L. Guzzardi, Raffaello Cortina, Milano 2011.

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trasposizione delle funzioni specifiche del capitale fisso all’interno del corpo vivente della forza-lavoro, in modo tale da suggerire una decisiva rianimazione odierna del pensiero che si presenta come apparentemente “morto”. Da qui si potrebbe andare, in termini di mera esemplificazione, alle osservazioni critiche di Richard Sennett a proposito della formula arendtiana che vede il pensiero attivo soltanto quando non si lavora: oggi vale piuttosto il fatto che si pensa soltanto quando si lavora… e dato che si “lavora” sempre, anche nelle vesti di una oscena gratuità… Procedo con più ordine, lasciando sullo sfondo i temi che ho fin qui schematicamente delineato. C’è una intrigante conversazione tra Adorno e Gehlen, del 1965, con tratti di notevole “perfidia”, che mi piace spesso richiamare in una prospettiva di rivalutazione del significato non banalmente “conservativo” dei temi della “rinuncia” e dell’“ascesi”.2 Non si deve infatti dimenticare che lo sforzo del sociologo dei “quadri d’epoca” è quello di “andare alla ricerca di ciò che ha il carattere della ‘prima volta’” (si pensi qui, esemplificativamente, al fenomeno della cosiddetta “guerra fredda”), magari sotto la veste del fenomeno dell’one world, di cui conosciamo bene la storia che ci fa presenti nel disegno attuale del capitalismo biocognitivo. Tale fenomeno porta con sé, evidenti nel loro dispiegamento, elementi “degenerativi” che Gehlen considera assai apprezzabili da parte di ciò che appunto nell’uomo lo dispone naturalmente alla degenerazione. Proprio la disposizione alla degenerazione spinge a riconoscere, “come Aristotele”, un ruolo essenziale “al punto di vista della sicurezza”, alla stabilizzazione dell’esistenza. Tale punto di vista può essere coltivato soltanto da pochi, è fondamentalmente contro natura, va in controtendenza rispetto alle “numerose persone” che si lasciano travolgere da ciò che si muove in loro: così appunto Gehlen, il quale introduce (per chi non pensa, non è in grado di autostabilizzarsi, in qualche modo) il 2. Cfr. il colloquio tra Adorno e Gehlen, La sociologia è una scienza dell’uomo? Una disputa (1965), in T.W. Adorno, E. Canetti, A. Gehlen, Desiderio di vita. Conversazioni sulle metamorfosi dell’umano, trad. a cura di U. Fadini, Mimesis, Milano 1995, pp. 83-107.

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motivo delle istituzioni che “conservano e consumano” per indicare mezzi di controllo della disposizione naturale all’indisposizione nei confronti dei vincoli culturali, dei legami sociali. Le istituzioni dispongono di un numero decente di “cause onorevoli”, da servire con spirito coltivato eticamente, degne cioè di servizio/esercizio. Gehlen aggiunge, con ironia: è chiaro che le istituzioni limitano la libertà, ma fortunatamente esistono i rivoluzionari, per evitare gli eccessi di servizio (di servitù). Fondamentale e assai delicato è il compito dei rivoluzionari, in tale ottica, percepito appunto come teso a riformulare l’ordito istituzionale senza lasciarsi travolgere dal fascino della distruzione, dell’annientamento. Ma il quadro d’epoca delineato da Gehlen non è il più adatto allo sviluppo di questo compito così sofisticato, da parte dei rivoluzionari, visto che, “nel tempo, moltissimo è stato annientato e distrutto nelle istituzioni”. L’effetto – di dominio ormai “pubblico” – è la crescita dell’insicurezza/inquietudine interiore, negativa in quanto “soggettivistica”, nei confronti della quale va terapeuticamente riconfermato il valore/valere di ciò che nelle istituzioni è ancora “conservato”, che può senz’altro essere migliorato, attraverso un “prestare servizio” di lunga, paziente durata. Va qui ricordato, tra parentesi, come la lezione “finale” di Niklas Luhmann su “organizzazione e decisione” non sia lontana da questo piano d’indagine, soprattutto quando si afferma che la premessa di qualsiasi organizzazione viene data dalla “non conoscenza del futuro”, quella “non conoscenza” che produce appunto insicurezza, rispetto al cui trattamento si misura il suo eventuale successo (nella forma della specificazione e della riduzione dei costi).3 Ma al di là di questo rinvio, mi sembra doveroso insistere sulla prestazione d’opera individuata come necessaria da Gehlen, vale a dire sull’esercizio di introduzione, con deficit sperabilmente iniziale di libertà e rischio di servilismo (cioè di un servizio inesausto, senza termine, comunque incontrollato e quindi a sua volta “degenerato”), nelle sfere di articolazione dell’esistenza. Certo si 3. Cfr. N. Luhmann, Organizzazione e decisione (1978), trad. a cura di G. Corsi, Bruno Mondadori, Milano 2005, p. 4.

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L’arte della fuga GIUSEPPE FERRARO

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evi cambiare la tua vita,1 si dice nel libro di Peter Sloterdijk, ma come si fa a cambiare la propria vita? Sarà come imparare a vivere. La frase arriva come un’ingiunzione, sempre dopo, quando si incorre nello stesso errore già tante volte lamentato per una scelta sbagliata. Quel “devi” allora arriva dopo, segue. È quando la vita cambia che, alla fine, tu stesso ripeti: devi cambiare la tua vita. Seguirla, inseguire, fuggire, prendere un’altra via, cambiare vita. E chi è poi colui che dice di voler cambiare la propria vita? Scambiarla per un’altra, no di certo, ma cambiarla. Essere se stesso e non esserlo. Alla fine è lo Stesso. In questo rimbalzo continuo si è se stessi. Chi non lo pensa? Chi non si fa questa domanda? Almeno una volta, o anche più volte, quando le relazioni di una scelta si sono irrigidite in grate di prigioni. Allora devi voler cambiare. Di propria volontà? O non è piuttosto che la volontà propria sia l’altro verso di un volere improprio che si impone? Seguirlo, volerlo come proprio è aderirvi, fasciando quella volontà impropria, perché non sia cieca, medicando in essa la propria vista, pensando diversamente. Ascoltare altre voci, in silenzio. Esercitarsi. Ecco, qualcuno, un filosofo, non altri, viene e dice di volere quello che tu vuoi, si fa chiamare allenatore, antropotecnico, ti 1. Seguo la voce di Sloterdijk che riprende quella di Rilke, cfr. P. Sloterdijk, Devi cambiare la tua vita (2009), trad. di S. Franchini, a cura di P. Perticari, Raffaello Cortina, Milano 2010. Provo a ripensarlo. Non un commento. Un dialogo, forse, ma con altre voci e volti. Fuori del mondo, scritto.

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aiuta a cambiare. Ti procura esercizi. Si pone come tutor e trainer. Diventa l’asta di appoggio di cui dovrai fare a meno quando la tua vita sarà cambiata, come la scala di un trattato logico-matematico che arriva fino al silenzio della parola che tace. Basta però che la vita sia cambiata? Non sarà poi che la vita cambia continuamente, fino alla morte? E qui, qualcuno, l’allenatore filosofo, ti ripete che è proprio questo l’esercizio:2 anticipare la morte, fingerla, sarà solo apparente. Un gioco di anticipo. Fingere la morte per vivere in modo vero, come in un aldilà composto da questa parte, dove si è, per esistere in modo autentico, facendosi sovrano, non soggetto di questa finzione, facendo propria la sorte del morire. Autentico sarà autos en tuke, andare da se stesso incontro alla sorte, o semplicemente essere il proprio. Dimorare in se stessi. Abitare. Morare, si dice nella lingua portoghese, che mantiene svelando l’etimo segreto del latino. Morare è restare, finire qui, trattenersi, fermarsi. Il rimbalzo, nel greco, è da morior alle Moire fino a meiromai significando insieme merito e sorte, fino a meritare e morire. Sarà questa anche la parte che si ha della vita nella propria esistenza. Lo stato di morte apparente del filosofo sarà allora come soggettivare la morte, volerla, coniugando decisione e destino. L’amore, alla fine su questo sempre ci si ritrova e si inciampa, non sarà l’assenza della morte, ma il non avere dimora né quiete, né parte nel mondo per come è, sarà come morire così come si muore d’amore, senza fingere, e abbandonarsi a chi ci lega venendoci in sorte. Morire senza perdere la vita o ritrovarla in altri, in un altro, in un’altra? Morire o amare? L’uno e l’altro, morire senza morire, abitare senza dimora. Alla fine è questo rimbalzo continuo che 2. Id., Stato di morte apparente (2010), trad. di S. Franchini, a cura di P. Perticari, Raffaello Cortina, Milano 2011. La morte epistemica apparente del soggetto conoscente (ivi, p. 29) è l’esercizio che attraversa l’intera storia dei filosofi nelle forme di sapere che ne fanno le discipline, dall’epoché alla fuga nei logoi come condizione di vita nel mondo così com’è (ivi, p. 75). Forse è la scrittura che si fa testo a diventare epigrafe. Sul corpo proprio. Per rivivere, altrimenti, senza morire. Un mondo senza morte. Quello delle idee, lo stesso che Kafka chiamò il terzo mondo, quello della letteratura. Il mondo della vita, Lebenswelt, è così appena dall’altra parte della parete, se ne sentono le voci da questa parte, da dove fuggire per cambiare le forme di vita.

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si nasconde nell’esercizio di ogni cambiamento e nella pratica di sé, in quel conoscersi e avere cura. Non solo di sé. Come si fa però a cambiare in questo modo? Come arrivare a questa pratica di scambio? E sarà poi tale? Uno scambio? Semplicemente sarà restituzione, un gesto che si pone tra lo scambio e il dono. In carcere. Fu un ragazzo a chiederlo. Disse: come si fa a cambiare? La voce aveva lo stesso tono di quella della bambina di scuola media: come si fa a riconoscere gli amici veri? Avevo tra le mani il libro di Wittgenstein sulla filosofia. Lo portavo, come altre volte altri libri. Pensavo che ogni artigiano ha i propri strumenti. Chi fa filosofia lavora con i libri. Saranno questi i ferri. Sbagliavo. In filosofia è il corpo proprio a farsi strumento e prova delle forme di idee e di concetti, di figure e miti, di discorsi. Si agisce sulla propria stessa vita. Avevo allora cominciato a portare la filosofia fuori dalle mura dell’accademia e cominciavo a imparare come passare attraverso i libri, come tradurre l’appreso. Come e cosa cambiava della filosofia. Costanzo fece quella domanda: come si fa a cambiare? Era un ragazzo di quelle campagne diventate agglomerati di periferie. Qui da noi è rimasto il nome, Scampia, a indicare appunto una distesa ininterrotta di campi. Adesso è un concentramento di case con annesso il carcere, la casa circondariale, indistinguibile dagli altri palazzoni. La prima volta che ci andai dovetti risolvermi a chiedere informazioni per strada. Me lo indicarono, c’ero davanti. Indistinguibile dalle case, poteva essere una scuola, un ospedale, una fabbrica; è il carcere di Secondigliano. Costanzo ha una statura massiccia, come di pietra, composto e forte, buono come buona è la pietra non scagliata per ferire. Lineamenti duri. Raffermo come di chi non ha avuto affetto. Non sarebbe passato molto tempo che l’avrebbe raggiunto, in prigione, la notizia del padre ammazzato. Fui colto di sorpresa dalla sua voce, fino a quel momento seguiva in silenzio gli incontri. Era la prima volta che parlava: come si fa a cambiare? Cosa? La vita? Come si fa a cambiare per uscire dal carcere, per liberare un sé che non si è mai stati. Ricordo l’ultimo incontro. Si 171


Post Il nome del traduttore

Il traduttore italiano di Devi cambiare la tua vita di Peter Sloterdijk, Stefano Franchini, lamenta che il suo nome sia stato sistematicamente dimenticato (cfr. “aut aut”, 355, 2012). Non sono sufficienti le nostre doverose scuse. Osservando che la scrittura è decisiva, e soprattutto per Sloterdijk, e soprattutto quando la si mette a tema, come in questo caso, Franchini mette il dito in una piaga che conosciamo bene: il deprezzamento, più o meno volontario, quasi automatico, cui è sottoposto il lavoro del traduttore, una fatica tanto essenziale per la comunicazione delle idee e della cultura in generale quanto spesso svalutata. Un lavoro sottopagato, e talora non pagato, alla lettera sfruttato, che si affida quasi esclusivamente a un minimo di riconoscimento. Questo riconoscimento non ripaga di certo, tuttavia se manca è quasi uno sberleffo allo sproporzionato impegno del traduttore. In anni recenti, “aut aut” ha perfino dedicato un fascicolo speciale proprio al “mestiere” del traduttore e alla sua importanza (334, 2007). Franchini ci ricorda che i discorsi, per quanto apprezzabili, dovrebbero essere accompagnati da una pratica coerente, almeno dalla citazione del nome. [P.A.R.]

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