363 luglio settembre 2014
J.M. Coetzee. Ricominciare con niente
J.M. Coetzee La vecchia e i gatti Raoul Kirchmayr L’odore dei pensieri. Etica e scrittura dell’animale in J.M. Coetzee Pier Aldo Rovatti L’uomo lento Massimiliano Roveretto Un occhiello senza bottone. Soggettività e scrittura in J.M. Coetzee Alessandro Dal Lago Elizabeth Costello. O dell’indicibilità del vero David Attwell Dominare l’autorità: Diario di un anno difficile di J.M. Coetzee
5 23 51 61 83 89
INTERVENTI Roberto Esposito A che serve pensare 105 Massimo De Carolis Governance senza governo: un paradigma della crisi 119 CONTRIBUTI Antonello Sciacchitano L’ontologia alla prova 137 Günter Figal C’è ancora filosofia? 155 Enrica Lisciani-Petrini Vladimir Jankélévitch. Quando l’equivoco fa bene 169 Felice Cimatti Linguaggio e immanenza. Kierkegaard e Deleuze sul “divenir-animale” 189 Livio Boni Dare atto dell’impossibile: Badiou, Lacan e l’antifilosofia 209
rivista fondata da Enzo Paci nel 1951 direttore responsabile: Pier Aldo Rovatti redazione: Sergia Adamo, Paulo Barone, Graziella Berto, Deborah Borca (editing, deborah.borca@gmail.com), Damiano Cantone, Mario Colucci, Alessandro Dal Lago, Pierangelo Di Vittorio, Giovanna Gallio, Edoardo Greblo, Raoul Kirchmayr, Giovanni Leghissa, Massimiliano Nicoli, Ilaria Papandrea, Fabio Polidori, Rosella Prezzo, Pier Aldo Rovatti, Massimiliano Roveretto, Antonello Sciacchitano, Giovanni Scibilia, Davide Zoletto direzione: c/o il Saggiatore, via Melzo 9, 20129 Milano sito web: autaut.ilsaggiatore.com collaborano tra gli altri ad “aut aut”: G. Agamben, H.-D. Bahr, R. Bodei, L. Boella, S. Borutti, J. Butler, M. Cacciari, A. Cavarero, R. De Biasi, G. Dorfles, M. Ferraris, U. Galimberti, P. Gambazzi, S. Givone, A. Heller, F. Jullien, J.-L. Nancy, A. Prete, M. Serres, G.C. Spivak, G. Vattimo, M. Vegetti, P. Veyne, V. Vitiello, S. Žižek per proposte di pubblicazione: autaut@ilsaggiatore.com Si fa presente che “aut aut” non pubblica recensioni e non accetta testi di ampiezza superiore a 40.000 battute (note e spazi compresi).
il Saggiatore S.p.A. via Melzo 9, 20129 Milano www.ilsaggiatore.com ufficio stampa: stampa@ilsaggiatore.com abbonamento 2014: Italia € 60,00, estero € 76,00 L’Editore ha affidato a Picomax s.r.l. la gestione degli abbonamenti della rivista “aut aut”. L’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e la possibilità di richiedere gratuitamente la rettifica o la cancellazione scrivendo a: Picomax s.r.l. responsabile dati, viale Sondrio 7, 20124 Milano (ai sensi della L. 675/96). servizio abbonamenti e fascicoli arretrati: Picomax s.r.l., viale Sondrio 7, 20124 Milano telefono: 02 77428040 fax: 02 76340836 e-mail: abbonamenti@picomax.it www.picomax.it Registrazione del Tribunale di Milano n. 2232 in data 13.1.1951 Proprietà: Francesca Romana Paci Stampa: Lego S.p.A., Lavis (TN) Spedizione in abbonamento postale 45% art. 1, comma 1, decreto legge 353/03 convertito in legge 46/04 – Filiale di Milano. Finito di stampare nel settembre 2014
J.M. Coetzee. Ricominciare con niente
Q
uesta sezione – suggerita e articolata da Sergia Adamo – attraversa alcuni romanzi di J.M. Coetzee e si apre con un suo racconto breve, ancora inedito in Italia. Coetzee è uno dei grandi della letteratura contemporanea e non ha bisogno di presentazioni. Qui si tematizzano il suo modo di pensare e il vettore principale del suo pensiero, un pensiero indisgiungibile dalla scrittura, in un ambito di lavoro filosofico che da molti anni “aut aut” persegue. Non c’è dubbio che il tema della défaillance, nel quadro delle condizioni dell’esistenza dell’uomo di oggi, sia dominante nelle pagine di Coetzee, ma sarebbe un equivoco attribuire le sue narrazioni di questo “fallimento” a una deriva nichilistica. Il titolo della sezione parla chiaro: “Ricominciare con niente” è una frase pronunciata dal protagonista di Disgrace (uno dei romanzi chiave di Coetzee tradotto in italiano con Vergogna), che indica con evidenza il carattere positivo del pensiero complessivo di Coetzee, ovvero l’esigenza etica, culturale e politica di attraversare il nostro fallimento per ripartire (faticosamente, ma finalmente) da zero, con occhi lucidi e senza pregiudizi. Senza neppure il pregiudizio di un soggetto/autore/padrone che occupi stabilmente la scena con il suo io. Raoul Kirchmayr, Pier Aldo Rovatti, Massimiliano Roveretto e Alessandro Dal Lago contribuiscono nelle pagine che seguono a dar corpo a tale inconsueta traiettoria critica, ben esplicita anche nello 3
stesso racconto di Coetzee, La vecchia e i gatti, che presentiamo in versione integrale (un primo abbozzo venne letto da Coetzee stesso, a Milano, nel 2009). La sezione è inoltre arricchita da un testo di David Attwell, uno dei piÚ acuti studiosi anglosassoni di Coetzee.
4
La vecchia e i gatti J.M. COETZEE
G
li riesce difficile accettare che per avere una conversazione qualunque per quanto necessaria con sua madre debba venire fin qui dove lei risiede, in questo oscuro villaggio sull’altopiano di Castiglia, dove muori di freddo tutto il tempo e per cena ti rifilano una scodella di fagioli e spinaci e dove per di più ti tocca essere gentile a proposito dei suoi gatti semi-selvatici che appena qualcuno mette piede in una stanza schizzano in tutte le direzioni. Perché giunta alla sera dei suoi anni non si è sistemata in un posto più civile? È stato complicato arrivarci e sarà complicato anche andarsene via; perfino stare qui con lei è più complicato di quello che potrebbe essere. Perché tutto quello che tocca sua madre diventa complicato? I gatti sono ovunque, ce ne sono così tanti che sembrano dividersi e moltiplicarsi sotto i suoi occhi come le amebe. E poi c’è anche quell’uomo giù in cucina, che non si sa chi sia. Siede in silenzio, chino sopra la sua scodella di fagioli. Che ci fa quello sconosciuto nella casa di sua madre? Non gli piacciono i fagioli, gli fanno aria. Seguire la dieta dei contadini spagnoli del XIX secolo solo perché stai in Spagna gli sembra un’affettazione. Titolo originale: The Old Woman and the Cats. Copyright © J.M. Coetzee, 2013. All rights reserved.
aut aut, 363, 2014, 5-22
5
I gatti, che ancora non hanno mangiato e che certo non si accontenteranno dei fagioli, si assiepano attorno ai piedi di sua madre, si contorcono e si leccano cercando di attrarne l’attenzione. Se fossero in casa sua li farebbe sloggiare. Ma ovviamente non è a casa sua, lui è solo un ospite, deve comportarsi educatamente perfino con i gatti. “Quello è un furbetto, un mascalzoncello,” osserva indicandolo – “quello là col segno bianco in faccia.” “A onor del vero,” dice sua madre, “i gatti non hanno faccia.” I gatti non hanno faccia. Si è di nuovo reso ridicolo? “Dico quello con la macchia bianca intorno all’occhio,” si corregge. “Gli uccelli non hanno faccia,” dice sua madre. “I pesci non hanno faccia. Perché dovrebbero averla i gatti? Le sole creature con vere e proprie facce sono gli esseri umani. Le nostre facce sono la dimostrazione della nostra umanità.” Certo. Ora capisce. È stato un lapsus. Mentre gli esseri umani hanno i piedi gli animali hanno le zampe; mentre gli esseri umani hanno il naso gli animali hanno il muso. Ma se soltanto gli esseri umani hanno facce allora con che cosa, attraverso che cosa gli animali si affacciano sul mondo? Tratti anteriori? Una simile definizione risulterebbe accettabile per sua madre, con tanta passione per l’esattezza? “I gatti hanno una fisionomia, un aspetto fisico, ma non una faccia,” dice sua madre. “Nemmeno noi nasciamo con la faccia. Ci vuole molta pazienza a tirare fuori una faccia, come ad accendere il fuoco dal carbone. Io ti ho tirato fuori una faccia dalle tue profondità. Ricordo come mi chinavo su di te, come soffiavo su di te, un giorno dopo l’altro, finché alla fine l’essere che chiamavo figlio mio cominciò a emergere. È stato come evocare un’anima.”
6
L’odore dei pensieri. Etica e scrittura dell’animale in J.M. Coetzee RAOUL KIRCHMAYR Tutto è allegoria […]. Ogni creatura è la chiave per tutte le altre creature. Un cane accucciato a leccarsi in un fazzoletto di sole […] un momento prima è un cane e il momento successivo è un veicolo di rivelazione.1
1. Non sapere dove si è J.M. Coetzee non scrive per compiacere i suoi lettori. Con lui la letteratura ritrova uno dei suoi compiti: condurre al cuore della condizione umana e interrogarla bruscamente. Coetzee non solletica il lettore, lo guida verso ignote falesie da dove si scopre che non c’è nessuno spettacolo da contemplare. Giunti a quell’altezza scopriamo un po’ per volta di aver assunto uno sguardo ravvicinato sulle cose e sugli esseri animati. Da lì le linee si confondono e non sappiamo più dire dove siamo giunti. La vertigine è quella che può dare il mare in una giornata nebbiosa, quando ciò che prevale è l’indistinto e i confini, che pure immaginiamo, scompaiono. Ci guardiamo indietro, smarriti, e ci domandiamo se lui, Coetzee, possieda una qualche carta con cui si è orientato per poterci condurre fino a quel punto. Nell’incertezza della finzione letteraria, la domanda rimane in sospeso, perché quel punto è “proibito”. Se il rischio della letteratura è di “avventurarsi in luoghi proibiti”,2 là lo scrittore rischia se stesso. Con Coetzee torniamo a pensare che la posta in gioco della letteratura sia anzitutto il rischio della perdita. Nelle opere di Coetzee lo smarrimento è frutto di una messa in questione dei limiti. Il rapporto tra l’uomo e l’animale – di cui proveremo ad analizzare alcuni aspetti – si aggroviglia come una matassa dai fili molteplici che il romanziere sudafricano segue, 1. J.M. Coetzee, Elizabeth Costello (2003), trad. di M. Baiocchi, Einaudi, Torino 20052, p. 191. 2. Ivi, p. 127.
aut aut, 363, 2014, 23-49
23
allenta, stringe di volta in volta, come per saggiare la possibilità di un discorso che non si conclude mai, ma si fa in continuazione per mezzo di tentativi, aporie, domande ripetute, incorniciature e sospensioni. In forma più o meno diretta, più o meno esplicita, il tema lavora a fondo la scrittura di Coetzee da tempo, almeno fin da Aspettando i barbari (1984) e da Foe (1986), dove la figura dell’estraneo e il focus tematico sull’assenza del linguaggio preannunciano il problema dell’animalità. Qui prenderemo in esame alcune pagine tratte dalle opere narrative in cui Coetzee procede a una massiccia messa a tema della questione dell’animale e del suo rapporto con l’umano, riferendoci così a La vita degli animali (1999), a Vergogna (1999), a Elizabeth Costello (2003) e, infine, al breve racconto, più recente, La vecchia e i gatti (2013). In La vita degli animali 3 la parola che credo introduca al meglio la questione dell’animale è “sospensione”. Non solo perché – con un procedimento di costruzione narrativa di tipo citazionistico – il testo eccede la divisione tra generi letterari, ma anche perché – quanto alla questione stessa – non emerge chiaramente alcuna formulazione teorica che sia dichiarata come tenibile o che possa essere attribuita all’autore. Infatti, le conferenze pronunciate da Coetzee come letture di racconti racchiudono a loro volta dei nuclei saggistici e dei dialoghi filosofici che hanno tutti come centro la questione dell’animale e del rapporto tra uomini e animali. La protagonista delle lectures è Elizabeth Costello, la figura di anziana scrittrice che ritorna nel romanzo eponimo di poco successivo. In La vita degli animali Coetzee la colloca al centro di un milieu – nella finzione letteraria l’Appleton College di Waltham4 – che riproduce l’ambientazione classica dell’academic novel,5 ma senza 3. J.M. Coetzee, La vita degli animali (1999), trad. di F. Cavagnoli e G. Arduini, Adelphi, Milano 2000. 4. Coetzee tenne due conferenze presso il Centre for Human Values di Princeton, il 15 e il 16 ottobre 1997, nel quadro delle Tanner Lectures. Le conferenze furono i due racconti che compongono La vita degli animali, cioè “I filosofi e gli animali” e “I poeti e gli animali”. Il testo originale è disponibile a questo indirizzo: tannerlectures.utah.edu/_documents/ato-z/c/Coetzee99.pdf 5. Su questo riferimento, cfr. le considerazioni di M. Garber in appendice a La vita degli animali, cit., p. 93. Per una critica a queste considerazioni, cfr. D. Attwell, The life and times of Elizabeth Costello, in J. Poyner (a cura di), J.M. Coetzee and the Idea of Public Intellectual,
24
gli intenti ironici e satirici che lo contraddistinguono: se vi è critica del mondo accademico, dei suoi riti e dei suoi linguaggi, delle sue abitudini e delle sue forme di relazione, avviene per via obliqua e per tocchi rapidi, come se l’intero impianto narrativo e lo scenario intendessero mostrare l’impotenza del sapere e l’inanità degli argomenti a cogliere la radicalità dell’appello contenuto nei discorsi della protagonista a favore della vita degli animali. Difatti, nel dispositivo narrativo di La vita degli animali Elizabeth Costello ha una funzione chiave, consistente in un’intenzione impossibile, quella di dare voce al silenzio degli animali. Nel romanzo tutto accade come se lei parlasse in vece degli animali, non solo prendendo le loro parti, ma formulando un discorso che propriamente non può avere luogo. Assumendo l’impossibilità di presa di parola da parte dell’animale e supplendole con una presa di posizione etica radicale, la protagonista agisce in modo che il suo discorso, per antifrasi, inciampi nel tentativo di dire il silenzio, risultando così incomprensibile al démi-monde universitario di Waltham. La posizione che Coetzee fa occupare alla protagonista è importante tanto quanto l’impaccio in cui cade il suo discorso. Occorre vedere in questo impaccio non qualcosa di accidentale, ma la posta in gioco stessa del discorso della protagonista e dell’operazione letteraria che Coetzee compie, consistente nello spingere il logos umano verso il suo estremo limite. In prossimità di questo limite esso ritrova il linguaggio animale come l’altro da sé da cui, tuttavia, non cessa di essere parassitato come gesto e grido. Perciò, quando ci fa sapere che John, il figlio della protagonista, “ha la sensazione che ciò che [lei] dice non vada a segno”,6 e quando, più avanti, Norma, la ricercatrice moglie di John, noterà causticamente che “non sa più che pesci pigliare. Ha perso il filo”,7 Coetzee sta indicando che in questa incertezza del discorso risiede ciò che deve Ohio University Press, Athens 2006, p. 34, che vede nel dispositivo citazionale della scrittura di Coetzee una particolare forma narrativa con cui il discorso pubblico è riassorbito nella sfera della finzione letteraria. Per inciso, Vergogna rappresenta anch’esso una variazione importante del modello dell’academic novel (cfr. M. Moseley, The Academic Novel: New and Classic Essays, Chester Academic Press, Chester 2007, p. 160). 6. J.M. Coetzee, La vita degli animali, cit., p. 27. 7. Ivi, p. 41.
25
L’uomo lento PIER ALDO ROVATTI
1.
Slow Man è un romanzo di J.M. Coetzee pubblicato nel 2005, quando l’autore era già molto famoso. Comincia così: “Il colpo arriva da destra, un colpo secco, improvviso e doloroso, come una scossa elettrica, e lo sbalza di peso dalla bicicletta. Rilassati!, si dice mentre vola in aria (vola in aria con la più grande disinvoltura!) e in effetti sente le membra ubbidire, farsi inerti. Come un gatto, si dice: rotola, poi rimettiti in piedi con un balzo, pronto per quello che verrà. E una parola inconsueta si staglia all’orizzonte, flessuoso o flesso”.1 Invece Paul – questo è il nome del protagonista del romanzo – resta lì disteso e immobile. A causa dell’incidente perderà una gamba (ma quanto altro?). Siamo ad Adelaide, Australia. Paul ha sessant’anni, vive da solo, non è povero, ha coltivato molti interessi in un’esistenza abbastanza ricca, non ha figli, un matrimonio fallito ormai lontano (anni trascorsi in Europa, in Francia), qualche rimpianto ma anche un buon numero di certezze. 2. Ho letto con avidità quasi tutti i romanzi di Coetzee (minore interesse ho rivolto alle sue prose saggistiche). Poiché possiedo una scarsa competenza di critica letteraria, lascerei a chi ne sa di più il giudizio su questo libro. Forse è vero che è un’opera minore, più casuale e meno intensa di altre che sono infatti diventate ben 1. J.M. Coetzee, Slow Man (2005), trad. di M. Baiocchi, Einaudi, Torino 2006, p. 3.
aut aut, 363, 2014, 51-60
51
più note. E posso anche facilmente far mia l’opinione, condivisa dagli esperti di Coetzee, che si tratti di un’opera mancata, o almeno manchevole, che si serve della stampella Elizabeth Costello (sperimentato alter ego che qui sembra inserirsi un po’ artificialmente nella storia) per trascinarsi fino al suo epilogo. Che Slow Man mi sia comunque piaciuto è allora qualcosa di personale. Mi ha fatto pensare, ecco tutto. Mi ha rivolto una domanda alla quale evidentemente io do un peso e un’importanza particolare, al punto che dopo avere letto Slow Man qualche anno fa (e averlo utilizzato in una serie radiofonica che si intitolava “L’anomalia quotidiana”), ho poi sentito il bisogno di rileggerlo da capo e perfino di annotarne parole e frasi. Prima di enunciare la domanda (peraltro banale) che mi ha specialmente intrigato e che mi spinge ora a scrivere queste righe, permettetemi però un breve inciso sul mio modo di far tesoro dei romanzi di Coetzee. Strumenti per pensare e da pensare, occasioni straordinarie per individuare problemi, luoghi e temi di riflessione, insomma per allargare quei pensieri che le nostre “categorie” (chiamiamole così) comprimono troppo. In questo modo, per esempio, ho utilizzato Aspettando i barbari per arricchire una questione che ritengo fondamentale, cioè se si possa davvero “addomesticare l’altro”.2 Per farla breve, Coetzee è per me qualcuno che, dal suo luogo e con la sua scrittura, mi rivolge interrogativi (filosofici?) che contengono in se stessi forme di risposta che non trovo nella maggioranza dei libri ammucchiati sulla mia disordinata scrivania (saggi teorici, perlopiù). Naturalmente, il ruolo di pungolo intelligente e spiazzante che attribuisco a Coetzee coincide con la funzione che do all’opera letteraria in generale o almeno a quella che ritengo “buona” (nel che rientrano, lo so bene, molti elementi di casualità e di arbitrio soggettivo). Insomma, non leggo libri di filosofia (o supposti tali) di giorno e romanzi possibilmente buoni di sera; mescolo le mie 2. Cfr. il mio Possiamo addomesticare l’altro? La condizione globale (Forum, Udine 2007), che inizia proprio con una lettura di Aspettando i barbari (1980, trad. di M. Baiocchi, Einaudi, Torino 2000).
52
letture e, se è vero che così ho imparato a leggere alcuni saggi come romanzi e alcuni romanzi come se fossero saggi, è soprattutto vero che ho imparato a distribuire il mio godimento mescolandolo con quella che presumo essere una profondità di pensiero e che, alla fine, ne ho tratto la convinzione che ciò che cerchiamo è sempre un’occasione per pensare meglio gli eventi che viviamo nella nostra esperienza esistenziale e culturale: per poterceli rappresentare in maniera meno ovvia, per poterli comunicare a chi ci sta attorno, per poter comprendere un po’ meglio quello che gli altri ci dicono o cercano di dirci. Dunque, qual è la domanda che mi arriva dalle pagine di Slow Man? È semplicemente questa: “E tu, sei lento?”. Poiché dovrei a battuta rispondere “Sì”, la domanda si rivela dopo un istante molto poco banale, più insidiosa, più difficile da trattare e perfino più maligna. Prolifera in altre domande. Hai risposto sì, ma sai cosa stai dicendo? Cosa intendi precisamente, cosa precisamente intendiamo, oggi, per “lentezza”? Di che cosa vorremmo, forse, fare l’elogio? E poi: sei sicuro di avere inteso bene le parole di Coetzee? Non le hai immediatamente semplificate e adattate? Guarda meglio: Coetzee non fa l’elogio della tartaruga ma non fa neppure il contrario, e cioè non descrive il piano inclinato della stanchezza del vivere e della rinuncia al futuro. Allora, cosa fa? E quella gamba tranciata, quella irreversibile disabilità da cui tutto ha inizio nella storia di Paul, possiamo considerarle un pretesto narrativo per filosofare sulla lentezza oppure esigono un pensiero molto situato che implica il corpo, proprio quella dimensione corporea di cui lamentiamo continuamente l’assenza nei nostri discorsi ma alla quale in realtà concediamo sempre uno spazio molto ridotto? 3. Ripartiamo dalla scena iniziale. È strana. Il vissuto di Paul, così come viene descritto da Coetzee, è quello di un volo leggero. Le espressioni chiave sono: “con la più grande disinvoltura”, “come un gatto”, “flessuoso”. E Paul che dice a se stesso, nell’istante del disastro: “Rilassati!”. Metto a lato tutti gli elementi che riguardano la psicologia e la fisiologia di una simile caduta catastrofica, non perché ritenga che 53
Un occhiello senza bottone. Soggettività e scrittura in J.M. Coetzee MASSIMILIANO ROVERETTO
“A
lla fine non riuscii più a remare. Avevo le mani piene di vesciche, la schiena scottata, il corpo dolorante. Con un sospiro, sollevando appena qualche spruzzo, scivolai nell’acqua. A lente bracciate, con i lunghi capelli che mi fluttuavano intorno, come un fiore di mare, come un anemone, come una medusa di quelle che si vedono nelle acque del Brasile, nuotai verso l’isola sconosciuta; per un poco nuotai come avevo remato, controcorrente, poi, d’un tratto, libera, mi lasciai trasportare dalle onde fin dentro la baia e sulla spiaggia.”1
Foe: dal conflitto delle interpretazioni alla rivelazione dell’inenarrabile Così inizia, con questi giri di frase nel cui ritmo ipnotico e avvolgente sembra rifrangersi la risacca marina da essi evocata, uno dei testi più complessi e affascinanti di J.M. Coetzee, che non solo si sottrae a ogni tentativo di classificazione, ma che già dal titolo – Foe – esibisce una perturbante ambivalenza. Perché se da un lato, alludendo al nome dell’autore della novella che reinventa, si inscrive nella tradizione e nel canone della letteratura e più in
1. J.M. Coetzee, Foe (1986), trad. di F. Cavagnoli, Einaudi, Torino 2005, p. 6. D’ora in avanti le opere di J.M. Coetzee saranno indicate con il solo titolo, seguito dai dati bibliografici.
aut aut, 363, 2014, 61-82
61
generale della cultura occidentale,2 dall’altro, sopprimendo la particella nobiliare che questi vi aveva aggiunto per nobilitarlo, non lo restituisce alla verità delle sue origini e della sua condizione sociale senza al contempo rivelarne l’essenza, che è quella del nemico.3 Ma in che senso Daniel Defoe sarebbe per noi un nemico, qualcuno che ci è ostile, che ci avversa e tenta di danneggiarci? Non bisogna dimenticare come, in virtù dello straordinario successo delle Avventure di Robinson Crusoe, la sua figura abbia finito per confondersi con quella del suo personaggio, del naufrago che, contando unicamente sulle proprie forze e armato soltanto, secondo quanto osservato da Joyce, di “un coltello e una pipa”, si converte in “architetto, falegname, arrotino, astronomo, prestinajo, costruttore navale, figulo, bastajo, agricoltore, sarto, ombrellajo e chierico”.4 Non fosse che Robinson Crusoe, oltre e prima ancora che il fantasma dell’uomo solo di fronte alla natura, incarna evidentemente anche il prototipo del colonizzatore, del suddito dell’impero, del nascente soggetto borghese che rende tributo a se stesso riconoscendosi nel mito dell’homo oeconomicus: di colui che, a partire dalla tabula rasa rappresentata dall’isola su cui fa naufragio, ricostruisce i principali capisaldi della civiltà eternandone e naturalizzandone i presupposti. Ergendosi a master, il Crusoe di Defoe non domina infatti soltanto la natura, ma anche l’altro, il nativo, l’indigeno: il selvaggio costantemente ricacciato ai margini dell’umano nel momento stesso in cui gli è offerta una via di riscatto attraverso l’accettazione di una lingua e di un nome che, al pari di un universo di valori e di una forma di esistenza che in nessun modo gli appartengono, gli sono in realtà imposti. A prendere la parola contro di lui non è però, come ci saremmo potuti aspettare, il servo Venerdì. Perché nel testo di Coetzee, a differenza di quanto accade nella novella di Defoe, questi appare al contrario rinserrato in un ostinato mutismo. Dal suo padrone 2. Si tratta naturalmente di Daniel Defoe, autore di The Life and the Strange Adventures of Robinson Crusoe. 3. Oltre che “straniero”, il termine inglese foe significa infatti anche “nemico”. 4. J. Joyce, “Daniele Defoe” (1912), in Scritti italiani, a cura di G. Corsini e G. Melchiori, Mondadori, Milano 1979, p. 159.
62
veniamo anzi a sapere, sia pure attraverso versioni dell’accaduto molteplici e reciprocamente contraddittorie, che non parla perché, essendogli stata mozzata la lingua, non lo può fare. Nella sua bocca porta il segreto di una mutilazione che si direbbe averne affettato l’anima, condannandolo a una sorta di autismo e di ripiegamento su un’interiorità assolutamente irriflessa e aderente a se stessa, ciò di cui Cruso – a sua volta colpito, nella grafia del suo nome e nella sua identità di padrone, da un’analoga mutilazione – non pare peraltro curarsi, in quanto la relazione che i due intrattengono si riduce al fatto bruto di un’obbedienza che il primo esige e ottiene dal secondo, ma che non si spinge mai fino a perseguire il fantasma della civilizzazione del selvaggio. Al di là di un servizio quotidiano ridotto ai minimi termini (alle operazioni assolutamente necessarie per vivere: pescare, cuocere il cibo, mantenere asciutti e puliti i loro giacigli), ciò che Cruso pretende da Venerdì è infatti soltanto il suo aiuto in un’attività del tutto sprovvista di una qualsivoglia utilità o valore intrinseco: la costruzione di terrazze di pietre e terra battuta, che essi mantengono sgombre dalla vegetazione spontanea senza tuttavia avere, dal momento che non dispongono di alcun seme da piantarvi, nessuna speranza di poterle coltivare. A differenza del Robinson di Defoe, il Cruso di Coetzee non è insomma intraprendente, non anela a ritornare in patria né pretende di migliorare la propria condizione materiale o spirituale: non sente nemmeno il bisogno di comunicare con il suo schiavo nero, ma si limita a regnare sul suo irrisorio dominio e a vivere il nulla della propria esistenza. Cosicché il vero bersaglio si rivela essere non il protagonista della storia, cui pure, nelle Avventure, è demandata la narrazione, bensì il suo ideatore, quell’autore nella cui posizione Coetzee, nel momento stesso in cui si impegna a riscriverne l’opera, rifiuta nondimeno di collocarsi. Da cui l’introduzione del personaggio di Susan Barton, della donna che, assente nell’originale, sebbene ispirato alla protagonista di un altro romanzo di Defoe, Roxana, vi assume progressivamente la funzione di istanza narrante. Anche in questo caso abbiamo a che fare con una figura dell’alterità, con un soggetto che, al pari del servo, si trova escluso dall’esercizio dell’arte della narrazione e del potere a questa connesso 63
Elizabeth Costello. O dell’indicibilità del vero ALESSANDRO DAL LAGO
U
na famosa scrittrice che gira il mondo tenendo di malavoglia conferenze nei college e ritirando premi che la imbarazzano. Una donna sciatta e con i capelli sfibrati che assomiglia a Paperina quando indossa le scarpe bianche nelle occasioni ufficiali. Una madre che non ha molto da dire al figlio. Una vecchia chiusa nel suo mondo, che sente avvicinarsi la fine, ma non rinuncia a esprimere con forza le sue convinzioni anche quando sono urtanti o impopolari. Questo è il personaggio, o meglio il proprio avatar, a cui J.M. Coetzee ha dato vita in diversi libri, tra cui Elizabeth Costello1 (un capitolo dell’edizione inglese di quest’ultimo è stato tradotto a parte in italiano con il titolo La vita degli animali).2 Quando l’ho letto per la prima volta, una decina d’anni fa, La vita degli animali mi ha tramortito. Ero seduto a un ristorante di una città del Sud, dopo aver tenuto una lezione su qualcosa nella locale università. Mi piace leggere quando mangio da solo, forse per sommare infantilmente due piaceri. Via via che proseguivo nella lettura, però, non riuscivo a toccare il pesce che avevo nel piatto. Per un po’ di tempo, forse un mese, non mi sono più cibato di carne. Poi, la pigrizia o la viltà ha preso il sopravvento e sono tornato alle mie abitudini alimentari, ma con moderazione e sempre con un certo senso di colpa. Il fatto curioso è che il testo di Coetzee non 1. J.M. Coetzee, Elizabeth Costello (2003), trad. di M. Baiocchi, Einaudi, Torino 2004. 2. Id., La vita degli animali (1999), trad. di F. Cavagnoli e G. Arduini, Adelphi, Milano 2003.
aut aut, 363, 2014, 83-88
83
ha nulla di moralista o fanatico. Anzi. Durante le due conferenze sull’orrore per l’immane strage degli animali che finiscono ogni giorno sulla tavola degli umani (I filosofi e gli animali e I poeti e gli animali), Elizabeth Costello confessa la propria incoerenza, se non altro perché porta scarpe e borsetta di pelle (invece, che io sappia, J.M. Coetzee è rigorosamente vegetariano). Ma è proprio questo il punto: la rivelazione del male cosmico di cui ci macchiamo nei confronti delle altre specie viventi (mangiandole, cacciandole, sterminandole per necessità o sport e comunque ignorando le loro grida) non è opera di un profeta, ma di un essere contraddittorio, fragile e pieno di dubbi. L’enormità del male fa risaltare la piccolezza e l’imperfezione di chi lo denuncia. Elizabeth Costello-J.M. Coetzee si interroga sul male in una prospettiva dubbiosa e incerta che spesso si chiude su se stessa. In Il problema del male,3 si chiede: uno scrittore che racconta l’orrore nei dettagli non finisce per condividerne la responsabilità quando lo trasmette al lettore? Mentre prepara una conferenza ad Amsterdam, Elizabeth Costello riflette su un libro che descrive i particolari dell’esecuzione, in uno scantinato di Berlino, dei generali tedeschi che parteciparono al complotto contro Hitler del luglio 1944. Vestiti di abiti logori e troppo grandi, insultati dal boia e dai suoi scherani, strangolati lentamente e appesi a ganci da macellaio. L’autore del libro è presente alla conferenza, Elizabeth lo affronta per chiedergli conto del suo compiacimento per i dettagli più truci, ma non ne ottiene alcuna risposta. Per quanto laceranti, i conflitti messi in scena da Coetzee non sono risolti. Noi forse sappiamo, mentre leggiamo, da che parte collocarci, ma i finali restano aperti. Non solo: Coetzee suggerisce che altri punti di vista sono possibili e legittimi. Così, in La vita degli animali, Elizabeth paragona la noncuranza verso la sorte degli animali all’indifferenza di tedeschi e polacchi verso gli ebrei durante lo sterminio. Dopo la conferenza un poeta locale le scrive una lettera di protesta per aver messo sullo stesso piano animali ed ebrei. Una rivista l’attacca e la nuora prende acidamente le distanze da lei. Elizabeth Costello, per quanto ne sappiamo grazie ai pochi 3. Id., Elizabeth Costello, cit., p. 109 sgg.
84
tocchi di Coetzee, è una persona infelice e perplessa, come sono probabilmente gli anziani più riflessivi (contrariamente alla leggenda della saggezza dei vecchi). In Davanti alla porta4 (una dichiarata parafrasi di Davanti alla legge di Kafka), la donna arriva nel giorno del giudizio al cospetto di chi la deve esaminare. La giornata è torrida e lei trascina stancamente la valigia. Le battute iniziali del racconto mi hanno ricordato la strofa di una splendida ballata scandinava, risalente al Medioevo, dedicata anch’essa al giorno del giudizio (Draumkvaedet, “Il canto del sogno”): Sono così stanco e spossato e dentro mi sento bruciare; sento l’acqua, ma non la vedo poiché sottoterra scorre. La luna splende e le strade si perdono in ogni dove. Elizabeth Costello viene esaminata da una commissione – proprio come nel racconto La panne di Friedrich Dürrenmatt –, ma non riceve alcun giudizio. Certo, i giudici sono severi, vogliono sapere quello che lei pensa veramente. Le chiedono di dichiarare ciò in cui crede e lei si limita a rispondere di essere “una segretaria dell’invisibile”5 e di non avere ferme convinzioni. – Lei non esprime un giudizio tra l’assassino e la sua vittima? Questo vuol dire essere una segretaria: scrivere qualunque cosa le venga detto di scrivere? Esser priva di coscienza? […] Silenzio. – Avanti, – dice l’uomo in tono incoraggiante. – È tutto, – dice lei. – Mi avete interrogato, vi ho risposto.6 Elizabeth non vuole dichiarare quello in cui crede, pur riconoscendo di tentare di dar voce, per quanto le è possibile, all’invisibile e 4. Ivi, p. 151 sgg. 5. Ivi, p. 157. 6. Ivi, p. 163.
85
Dominare l’autorità: Diario di un anno difficile di J.M. Coetzee DAVID ATTWELL
I
l pretesto narrativo da cui parte Diario di un anno difficile1 di J.M. Coetzee è l’invito a uno scrittore in età avanzata da parte di una casa editrice tedesca (Mittwoch Verlag di Berlino) a scrivere un contributo per una raccolta che dovrebbe intitolarsi Opinioni forti. Il paese d’adozione dello scrittore è l’Australia, il Sudafrica il suo paese d’origine. Il nome dello scrittore non viene rivelato, ma Anya,2 la giovane donna assunta come dattilografa, si rivolge a lui come Señor C, mentre Alan, il compagno di Anya, lo chiama Juan. Le iniziali J.C. – e molti altri indizi – inducono a pensare che il testo vorrebbe essere inteso come autobiografico, anche se in un senso decisamente peculiare. La cosiddetta dimensione autofinzionale è ben presente in Coetzee, soprattutto nei memoirs in terza persona Infanzia (1997), Gioventù (2002) e Tempo d’estate (2009); anche Diario di un anno difficile rientra senza dubbio in questa categoria, sebbene includa espliciti elementi finzionali (alcuni dettagli della vita di J.C., per esempio le date di nascita e di arrivo in Australia, non coincidono con quelli di Coetzee, e la narrazione che riguarda Anya e Alan è finzionale). J.C. approfitta dell’invito a contribuire a Opinioni forti per dare Originariamente pubblicato in “Social Dynamics”, 1, 2010, pp. 214-221, con il titolo: Mastering Authority: J.M. Coetzee’s “Diary of a Bad Year”. 1. J.M. Coetzee, Diario di un anno difficile (2007), trad. di M. Baiocchi, Einaudi, Torino 2007. 2. Il nome Anya allude alla relazione di Dostoevskij con Anna o Anja Snitkina, la stenografa che trascrisse Il giocatore e che egli in seguito sposò.
aut aut, 363, 2014, 89-102
89
una risposta “al presente in cui mi trovo a vivere”,3 che inizialmente prende la forma di una serie di riflessioni pubbliche. Le riflessioni della prima parte, “Opinioni forti”, sono saggi brevi che spesso hanno come oggetto vicende internazionali, legate soprattutto alla cosiddetta guerra al terrorismo (gli argomenti, molti dei quali emergono in altri scritti di Coetzee, sono però molto vari). La forma mima ciò che Immanuel Kant nel 1784 notoriamente definì come l’uso pubblico della ragione:4 una tradizione che si può far risalire almeno a Michel de Montaigne e che con il Settecento ha finito con l’essere associata per antonomasia al concetto illuministico di sfera pubblica. Le riflessioni della seconda parte, il “Secondo diario”, sono personali – contrappongono la sfera privata alle precedenti riflessioni pubbliche – e, sebbene incluse all’interno della narrazione di J.C., sono apertamente autobiografiche da parte di Coetzee. È chiaro fin dall’inizio che Coetzee sta giocando con la relazione tra discorso pubblico e scrittura finzionale (scrittura intesa in senso ampio).5 Dopo la prima riflessione sull’origine dello stato, J.C. si chiede: “Perché è così difficile parlare di politica ponendosi al di fuori della politica? Perché non ci può essere discorso sulla politica che non sia a sua volta politico?”.6 Era proprio questo, in un certo senso, il problema che si poneva Amleto a Elsinore: Claudio, il monarca usurpatore, esercita sulla corte un potere così forte da corrompere infine il discorso pubblico, tanto che Amleto deve fingere di essere pazzo perché la verità sia rivelata (il problema di Amleto implica quello di Foucault:7 qual è lo statuto della follia in quanto ragione superiore?).8 Amleto fa la sua comparsa proprio nell’ultima frase di Diario di un anno difficile, quando Anya, immaginando di 3. J.M. Coetzee, Diario di un anno difficile, cit., p. 69. 4. Cfr. I. Kant, Che cos’è l’Illuminismo? (1784), trad. di N. Mercker, Editori Riuniti, Roma 1997, p. 50. 5. I saggi di Roland Barthes “Scrivere, verbo intransitivo?” (1970) e “La morte dell’autore” (1972), in Il brusio della lingua. Saggi critici IV (1984), trad. di B. Bellotto, Einaudi, Torino 1988, forniscono il contesto teorico per questa sottolineatura. 6. J.M. Coetzee, Diario di un anno difficile, cit., p. 11. 7. Cfr. M. Foucault, Storia della follia nell’età classica (1961), trad. di F. Ferrucci, Rizzoli, Milano 2011. 8. Coetzee approfondisce la questione in un saggio su Erasmo in Giving Offence. Essays on Censorship, University of Chicago Press, Chicago 1997.
90
ritornare da J.C. per prendersi cura di lui al momento della morte, promette: “Gli sussurrerò all’orecchio: sogni d’oro e voli d’angeli, e tutto il resto”.9 Viene qui richiamata parte della perorazione finale di Orazio – “Buonanotte, / dolce principe, e possa un volo d’angeli / condurti al tuo riposo”10 –, anche se saggiamente tagliata in modo da evitare che il collegamento sia troppo esplicito nella sua grandiosità. Attraverso il riferimento ad Amleto, quindi, la lotta di J.C. con il discorso pubblico viene nobilitata. E, poiché il riferimento arriva proprio quando stiamo contemplando la morte del personaggio, è facile giungere all’implicazione successiva – ci permettiamo di scivolare nell’elegia soltanto a questo punto del testo. Ma permettiamo alla citazione di Amleto di colorare anche la presenza autobiografica che sta da qualche parte dietro J.C.? In effetti c’è un po’ di Amleto in Coetzee, anche se il tono di autodenigrazione, così forte per esempio in un testo autobiografico come Gioventù, ci porterebbe a concludere che l’Amleto di Coetzee è più vicino a quello di J. Alfred Prufrock: No! Io non sono il Principe Amleto, né ero destinato ad esserlo; Io sono un cortigiano, sono uno Utile forse a ingrossare un corteo, a dar l’avvio a una scena o due, Ad avvisare il principe; uno strumento facile, di certo, Deferente, felice di mostrarsi utile […] Pieno di nobili sentenze, ma un po’ ottuso; Talvolta, in verità, quasi ridicolo – E qualche volta, quasi, il Buffone.11 D’altra parte, Coetzee ha tenuto fede a quello che Amleto chiama un “umore lunatico” in un’eterna lotta con il discorso pubblico, con la razionalità moderna, con un linguaggio che fa finta di conoscere se stesso, con il discorso politico che si arroga il diritto di 9. J.M. Coetzee, Diario di un anno difficile, cit., p. 229. 10. W. Shakespeare, Amleto, trad. di E. Montale, in I drammi dialettici, a cura di G. Melchiori, Mondadori, Milano 1977, p. 323. 11. T.S. Eliot, “Il canto d’amore di J. Alfred Prufrock” (1963), in Poesie, trad. di R. Sanesi, Bompiani, Milano 2001, pp. 167-169.
91
A che serve pensare ROBERTO ESPOSITO
1.
A che serve pensare? E, prima ancora, pensare serve a qualcosa o non costituisce una forma di disimpegno dalla realtà, dai nostri problemi, dalle urgenze dell’attualità? Ma intanto – è possibile, ha senso, parlare del pensiero in questi termini, accostarlo alla categoria dell’utile, cercare in esso un risultato, un effetto, una convenienza? Oppure il pensiero, come facoltà propriamente umana, precede ed eccede la questione della sua utilità? Non è certo la prima volta che si pongono queste domande. Che il pensiero viene sottoposto a una sorta di esame di ammissione; che gli viene chiesto, per così dire, un certificato di buona condotta. È vero che un’interrogazione del genere investe ogni attività umana – di cui è normale chiedersi il grado di efficacia e anche la ragione di fondo. Ma quando ciò tocca il pensiero, quando è il pensiero a essere messo in causa in ordine alla sua utilità, e perfino alla sua legittimità, dietro l’angolo spunta sempre la minaccia di una condanna. Ciò è già accaduto una prima volta quando, all’origine della nostra civiltà, nel processo a Socrate, il pensiero è stato prima condannato e poi costretto al suicidio nella persona del suo massimo portatore. Ed è successo altre volte, quando opere filosofiche considerate troppo radicali per non suscitare sospetto di sovversione sono state bruciate, bandite, maledette, come quelle di Averroè e di Spinoza. O quando a essere bruciati sono stati i corpi stessi Testo dell’intervento presentato a Vicino/lontano, Udine, 8 maggio 2014.
aut aut, 363, 2014, 105-117
105
dei filosofi, come quelli di Bruno e di Vanini. Quei tempi, certo, sono passati. I roghi, di uomini e libri, sono spenti, speriamo per sempre. Adesso i filosofi non vengono più imprigionati, come accadde a Tommaso Campanella e più di recente ad Antonio Gramsci; o costretti all’abiura come Galileo. Oggi ciò non sarebbe più possibile. E neanche necessario. La filosofia, l’esercizio del pensiero, in fondo non fa più paura a nessuno. Nella nostra società, in grado di digerire tutto, di omologare qualsiasi differenza, non serve minacciarla, esiliarla, bandirla. Basta ignorarla. Dichiararne l’irrilevanza – sociale, politica, economica. Come è stato dichiarato da un nostro governante, la cultura non si mangia. Su di essa non vale la pena di puntare. Si può collocarla su un binario morto. È evidente che se tale atteggiamento non sancisce una condanna, delinea qualcosa di ancora più lesivo, come un’assoluta indifferenza, se non un sottile disprezzo. Per neutralizzare la potenza del pensiero, basta spingerlo fuori dalle mura della città – di quella che oggi ha sostituito la polis, cioè la piazza mediatica, il discorso pubblico, il teatro politico. O anche confondere la sua voce tra mille altre, in una sorta di rumore indistinto. Non solo, anzi, si espelle il pensiero dai luoghi del potere, ma a volte, come testimoniano alcuni maldestri progetti di riforma, perfino da quelli del sapere – dalla scuola, dall’università, dalla ricerca. Paradossalmente solo in spazi come questo il pensiero sembra ben accolto, richiesto, sollecitato, in controtendenza con quanto accade nelle sedi istituzionali, nei luoghi dove si prendono decisioni, interamente governati dall’economia e dalla tecnica. È perciò che proprio in occasioni come queste è bene porre la medesima domanda con cui troppe volte il pensiero è stato messo alla sbarra, accusato o vilipeso. Ma cercando di rovesciarne il senso. Di fornire una risposta opposta a quella tante volte espressa dai nemici del pensiero. Torniamo, dunque a riproporla. Perché pensare? A cosa serve il pensiero? Qual è, come dire, la sua “ragione sociale”, la sua necessità, in una stagione che sembra disinteressarsene? Forse dovremmo evitare di farci assillare da un “perché” troppo impaziente, o almeno porlo su un piano diverso. “A che scopo l’uomo pensa”, si chiedeva già Wittgenstein. E rispondeva che “spesso riusciamo a scorgere i 106
fatti importanti solo dopo aver soppresso la domanda ‘perché?’, allora, nel corso delle nostre indagini, questi fatti ci conducono a una risposta”.1 Del resto quella domanda ne presuppone un’altra preliminare, senza la quale è difficile rispondere alla prima. Prima di domandarsi a cosa serve il pensiero, bisogna intanto chiedersi: cosa significa pensare? Come sappiamo, è il titolo di un famoso seminario di Heidegger, che si affianca a una sua altra conferenza intitolata Che cos’è la filosofia?. In entrambe l’autore non solo centra in pieno la questione che ancora ci poniamo, ma coglie anche il motivo della difficoltà di fornire una risposta. E anzi di formulare in maniera non contraddittoria la stessa domanda. Di uscire da quella sorta di circolo per il quale, quando ci interroghiamo sulla possibilità del pensiero, ci situiamo, insieme, fuori e dentro di esso. Fuori perché interroghiamo il pensiero come fosse un oggetto esterno da riconoscere e definire; ma dentro perché non possiamo farlo che attraverso lo stesso pensiero. “Arriviamo a capire che cosa significa pensare quando noi stessi pensiamo.”2 In questo circolo è racchiusa l’essenza stessa della filosofia. Come chi vuole imparare a nuotare, non può farlo su un trattato di nuoto, ma deve tuffarsi nell’acqua, così chi vuole sapere cosa significa pensare, sta già pensando. Il pensiero, anche quando si interroga sul proprio senso, non può mai uscire da se stesso – non può che situarsi sul proprio limite. O, al massimo, in una faglia aperta al proprio interno. In una pausa della propria attività quotidiana che ne intensifica la potenza proprio mentre lo pone in dubbio, come accadde a Cartesio quando ricavò la certezza della propria esistenza appunto dal fatto di stare pensando, secondo la celeberrima formula del cogito ergo sum. D’altra parte se, come è stato mille volte ripetuto, l’uomo è l’animale pensante per eccellenza, vuol dire che in ultima analisi il pensiero coincide con la vita stessa. A tal proposito Hannah Arendt ha scritto che “gli uomini che non pensano sono come uomini che 1. L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche (1953), a cura di M. Trinchero, Einaudi, Torino 1974, pp. 176-177. 2. M. Heidegger, Che cosa significa pensare? (1954), a cura di G. Vattimo, Sugarco, Milano 1978, p. 37.
107
Governance senza governo: un paradigma della crisi MASSIMO DE CAROLIS
1.
In questi anni, almeno in Europa, il dibattito pubblico ha visto spesso accavallarsi due piani e due accezioni del termine “crisi” sostanzialmente diverse. In prima istanza, è assodato che quella presente è essenzialmente una crisi finanziaria, che va affrontata ricorrendo ai modelli descrittivi e agli specialismi tecnici della scienza economica. D’altra parte, specie quando si riflette in forma più ampia, è frequente che il termine si carichi di quello che, nella filosofia europea, è stato per decenni il suo valore semantico primario, vale a dire l’allusione a una possibile crisi della modernità nel suo complesso. Presumibilmente, a dettare l’intreccio fra i due piani è la diffusa impressione che la crisi economica di questi anni non sia nata dal nulla, e vada letta invece come il precipitato di un lungo processo storico, nel quale tanto le istituzioni quanto le certezze della modernità si sono andate via via dissolvendo. Finché resta però solo una vaga suggestione, è difficile che questa linea di lettura possa offrire davvero un contributo utile alla discussione. Dopotutto, mai come in tempi di crisi le teorie sono chiamate a reagire a delle urgenze pratiche, e non si vede in che modo il richiamo alla dissoluzione dei valori o al tramonto dell’illuminismo dovrebbe aiutarci a fronteggiare l’esplosione del debito o il ristagno dell’occupazione. Almeno a prima vista, perciò, sembra Testo dell’intervento presentato al convegno “Pensare di più. Simposio internazionale di filosofia sulla crisi”, Trieste, 11 aprile 2014.
aut aut, 363, 2014, 119-134
119
tacitamente assodato che il governo della crisi, nell’immediato, spetti ai tecnici dell’economia, depositari di un sapere esperto, che agiscono all’interno di apparati amministrativi e istituzioni finanziarie. Il punto dolente è che un simile plesso di saperi esperti e poteri amministrativi ha effettivamente svolto un ruolo da protagonista in questi anni di crisi, con risultati tutt’altro che brillanti. In casi estremi, anzi, è sembrato che le azioni messe in campo in base a un nesso sapere/potere di questa natura non solo non abbiano tamponato le difficoltà, ma abbiano contribuito a esasperarle. È quanto suggerisce un graffito anonimo comparso ad Atene nel febbraio 2013, in risposta alle misure varate dagli esperti per frenare la crisi del debito greco: “Non salvateci più”. Presa sul serio, la denuncia espressa dal graffito si traduce in un’ipotesi decisamente radicale: che vi sia cioè un difetto, un limite, una cecità intrinseca al dispositivo di governo messo in campo, e che questa cecità pesi in modo significativo sull’andamento della crisi; in altre parole, che l’affermarsi di un “dispositivo” di questa natura – definito dall’intreccio tra un sapere di tipo tecno-scientifico, un potere di natura amministrativa e un modello di azione governamentale – vada visto non già come una soluzione, quand’anche parziale e insufficiente, ma come un aspetto cruciale del problema. Se adottiamo, anche solo a titolo di ipotesi, una simile prospettiva, l’eventuale legame tra la crisi economica di questi anni e la crisi generale della modernità acquista, credo, tutt’altro spessore. Con qualche schematismo, credo si possa dire che il timore di una crisi irreversibile del paradigma moderno si sia declinato, nel corso del Novecento, su due registri basilari. Il primo è quello epistemico: la modernità, in questo caso, è ricondotta a un modello di razionalità – quello illuministico – che nel corso della sua parabola rischia di consumarsi nel semplice dominio della tecnica. La seconda declinazione è invece di ordine istituzionale: al cuore della modernità, in questo caso, è situata la sovranità dello stato – capace di assicurare la regolamentazione dei conflitti e l’uguaglianza giuridica dei cittadini – che a conclusione della parabola moderna rischia di essere esautorata o assorbita dalle forze del 120
mercato. Il dispositivo di governo che ha finora gestito la crisi viene dunque a situarsi esattamente nel punto di convergenza tra le due parabole, laddove la razionalità tecno-scientifica entra in simbiosi con le forze di un mercato ormai irriconducibile alla sovranità dello stato. È evidente, a questo punto, il rischio che si generi un circolo vizioso, in cui ogni tentativo di venire a capo della crisi in senso stretto finirebbe col rafforzare l’egemonia di una macchina governativa che è, in realtà, l’espressione della crisi in senso lato. È possibile che, nel caos dell’emergenza perenne tipica di questi anni, si sia fatta strada una circolarità così inquietante? E che la sua affermazione non dipenda da un abbaglio momentaneo, ma da una cecità intrinseca al dispositivo di governo nel suo insieme? E, in questo caso, a quali condizioni potremmo sperare di vedere ciò a cui, invece, le forme dominanti di razionalità sembrano irrimediabilmente cieche? 2. Per affrontare questi interrogativi, vorrei concentrarmi su un tratto specifico di quello che finora ho genericamente presentato come il “dispositivo di governo” attualmente egemone: quello che, nel dibattito tra economisti e teorici della politica, è condensato nell’etichetta di una governance without government. La formula, in questi anni, è stata usata in relazione a fenomeni molto diversi, sia per natura che per dimensioni. Il loro comune denominatore è il fatto che, in tutti questi casi, le procedure di governo si siano modificate fino a produrre un vero e proprio sdoppiamento, per cui il governo politico nel senso più tradizionale (government) ha lasciato almeno parzialmente il campo a una governance più articolata e flessibile, una tecnica di conduzione e di management di radice essenzialmente economica, modellata sull’autoregolamentazione del mercato e orientata ad agire nel mercato (e non da una posizione “sovrana” legittimata a dettare le regole al mercato). La dimensione globale della finanza e del commercio fornisce chiaramente il paradigma per un avvicendamento di ruoli di questa natura, per la semplice ragione che un’autorità politica legittimata a un ruolo di governo su scala globale non esiste affatto, mentre esistono ovviamente istituzioni economiche internazionali investite 121
L’ontologia alla prova ANTONELLO SCIACCHITANO Non credo all’esistenza degli atei. Dio La concezione vana e inutile di “causa” è la rovina di ogni buona rappresentazione. P. Valéry, Quaderni, vol. II, 1902
P
resento un testo sull’indebolimento dell’essere e della causa. La prima parte, più astratta, si dedica a indebolire l’ontologia; mostra gli assiomi su cui si basa, in vista della possibile sospensione di alcuni dei più forti; la seconda, più concreta, si dedica a indebolire l’eziologia, che dell’ontologia è il braccio armato, cioè il momento tecnico di applicazione dell’essere all’ente. Tra le due parti c’è una connessione logica. Una volta indebolita l’ontologia, risulta automaticamente ristretta la portata del principio di ragion sufficiente. “Perché c’è qualcosa invece di niente?”, si chiedeva Leibniz. La risposta scontata era: “Perché c’è una ragione”. Ma sostenere che ogni ente è l’effetto di una ragione stabilita (da chi è da stabilire) risulta più problematico una volta indebolite le ragioni dell’essere. Se la causa ha meno esistenza, anche l’effetto esiste meno. Viene meno, infatti, la premessa ontologica secondo cui la causa, che è, fa essere l’effetto, che passa dall’essere in potenza all’essere in atto. Ma si può spingere oltre l’indebolimento eziologico e, retroattivamente, quello ontologico, fino a renderli entrambi irreversibili. A tal fine l’argomento che sviluppo nella seconda parte del saggio sfrutta il principio dell’eterno ritorno di Nietzsche per indebolire, quasi abbattere, il principio di ragion sufficiente. Perché convoco proprio Nietzsche? Per attraversare le barriere difensive con cui l’accademia blinda i discorsi dell’essere e della causa. Mi riferisco a Nietzsche per una ragione più politica che teorica, perché con Bataille ritengo che il suo pensiero – un pensiero nomade, aut aut, 363, 2014, 137-154
137
secondo Deleuze – “non può essere asservito”1 ad alcuna forma di discorso, dominante o accademico, né di destra né di sinistra. Stabilito questo, sfrutto il principio dell’eterno ritorno per intaccare il principio di ragion sufficiente più radicalmente di quanto non sia riuscito a David Hume nella sua Ricerca sull’intelletto umano del 1748, prontamente rintuzzata da Kant e Schopenhauer, come si sa. Allora entro in medias res. 1. Ontologia 1.1. La prova ontologica Come si sa, il discorso ontologico è un discorso inclinato verso la teologia. Per indebolire l’ontologia ritengo, quindi, opportuno sospendere ogni riferimento teologico. È quello che intendo fare in questa prima parte. Assumo che nell’aforisma 125 della Gaia scienza (L’uomo folle), il famoso enunciato “dio è morto”, ancor prima di annunciare la fine dell’esistenza di un ente, seppure il più grande mai esistito, annunci la fine dell’essere che genera gli enti. La fine dell’ente più grande, che è supposto generare tutti gli altri enti, è la semplice conseguenza della fine dell’essere come concetto metafisico e quindi della metafisica occidentale. In questo senso la diagnosi heideggeriana che riconosce in Nietzsche l’ultimo metafisico è storicamente giusta,2 ma a rovescio di come intesa da Heidegger. Con Nietzsche finisce l’epoca dell’essere, quindi anche degli enti, il più grande compreso. Il superuomo nietzschiano, che prende il posto di dio, è questo ente con poco essere che annuncia un’altra epoca, meno ontologica di quella che lo ha preceduto. Premesso che Nietzsche non si esprime così, resta non minore l’interesse di riprendere l’analisi della prova ontologica dell’esistenza di dio, di cui l’aforisma 125 rappresenta una sorta di enunciato contrapositivo;3 si potrebbe addirittura arrivare a 1. G. Bataille, Nietzsche e i fascisti (1937), “Il Verri”, 39-40, 1972, p. 6. 2. Cfr. G. Vattimo, Introduzione a Nietzsche, Laterza, Roma-Bari 2005. 3. Il contrapositivo dell’enunciato condizionale se A, allora B è se non B, allora non A. Il contrapositivo di se l’ontologia è coerente, allora dio esiste è se dio non esiste, allora l’ontologia è incoerente (o esiste la follia).
138
dire che l’urlo del folle, che irrompe sulla piazza del mercato con la lanterna accesa in pieno giorno, sia a tutti gli effetti la prova contro-ontologica dell’inesistenza di dio. Spogliata dalla messa in scena, che mostra tutta la perizia teatrale di Nietzsche, ritengo che l’enunciazione della morte di dio annunci un nuovo vangelo, meno ontologico e più epistemico di quello tuttora vigente in Europa; il folle di Nietzsche è l’angelo che annuncia il messaggio dell’era moderna, giustamente recepito come pericoloso dall’autorità religiosa, che condannò i Bruno e i Galilei, ben prima che l’intelligenza secolare ne registrasse la novità e la portata. Perché, come ammonisce lo stesso folle, ci vuole tempo per riconoscere un fatto. Il trauma si riconosce sempre e solo a cose fatte, nella memoria, non al momento – nachträglich, dirà Freud. Della memoria dell’avvento dell’era epistemica sulle ceneri ancora calde dell’era ontologica,4 voglio qui dare atto. In sostanza, sostengo che l’esistenza di dio, dimostrata con una delle diverse varianti della prova ontologica, è un teorema – ma vorrei dire un artefatto – derivante dagli assiomi di base dell’ontologia. In pratica, la mia tesi è: se l’ontologia è coerente, allora dio esiste. Di questa congettura dico che è epistemico-ontica, del tipo cogito ergo sum; dall’antecedente epistemico, nel caso la coerenza dell’ontologia, deduce il conseguente ontico, cioè l’esistenza di un certo soggetto: può essere dio per Anselmo o l’io per Cartesio. E cerco di mostrarne la plausibilità all’interno della logica classica, così come è andata formalizzandosi ai giorni nostri. 1.2. Gödel, non più Gödel Non passerò in rassegna le varianti della prova ontologica, da quella originaria di Anselmo a quella epistemica di Cartesio, da quella panteista (alla Bruno) di Spinoza a quella modale di Leibniz.5 Non mi 4. Ceneri rinfocolate da una schiera plurisecolare di filosofi, da Leibniz e Wolff (che considerava l’ontologia la filosofia prima) a Husserl e Heidegger. 5. La prova di Leibniz è la più vicina a quella di Gödel. Le intuizioni logico-matematiche di Leibniz furono molto in anticipo sui tempi. Valga per tutte l’intuizione di infinitesimo, che cadde in disuso sotto le critiche di Berkeley ma fu riabilitata da A. Robinson in L’analisi non standard (1966), trad. di F. Bedini, Aracne, Roma 2013.
139
C’è ancora filosofia? GÜNTER FIGAL
C
erto che c’è – che c’è ancora. Come si potrebbe dubitarne sensatamente? La si discute nelle conferenze, la si insegna nelle università e nelle scuole, e a volte se ne parla sui giornali. La filosofia costituisce una parte, ancora percepibile per quanto piccola, dell’industria culturale, e chiunque creda di avere qualcosa di importante da dire si attacca volentieri addosso l’etichetta di “filosofo”. Infine, sotto il nome di “etica” la filosofia è una colonna portante del nostro orientamento nella vita e del controllo della scienza, e come tale è riconosciuta. Se si discutono e si cercano risposte a questioni legate alla vita e alla morte – nella diagnosi genetica preimpianto, nella tutela degli embrioni, nell’uso di palliativi, nell’accettazione o nel rifiuto dell’eutanasia – non si fa un passo avanti, a quanto pare, senza filosofia. Eppure, se guardiamo più da vicino, tutto ciò non è assolutamente sufficiente per dedurne che la filosofia sia ancora viva e pulsante. Ciò che viene insegnato nelle scuole e nelle università è per la gran parte storia della filosofia, che in quanto tale è tanto poco filosofia quanto la storia delle religioni è religione o la storia dell’arte è arte. Che ci sia un’attività chiamata “filosofia” non è, inoltre, una garanzia sufficiente a provarne il carattere autenticamente filosofico; ciò che si chiama “filosofia” può anche rivelarsi Originariamente pubblicato in “Zeitschrift für Ideengeschichte”, 4, 2013, pp. 79-90, con il titolo: Gibt es noch Philosophie?.
aut aut, 363, 2014, 155-167
155
essere qualcosa d’altro, a un esame più attento: una slavina di metafore, oppure chiacchiere più o meno intelligenti. E quell’“etica” di cui si parla soprattutto in rapporto alla medicina e alle cosiddette scienze della vita non ha bisogno di essere filosofia; ciò che viene chiamato “etica” può essere praticato – e anzi, è così il più delle volte – da teologi, giuristi e politici. All’interno della confezione con la scritta “filosofia” non sempre, anzi quasi mai, si trova effettivamente della filosofia. In generale questo fatto disturba poco; nessuno o quasi controlla. Forse, la differenza tra etichetta e contenuto è difficile da determinare. In effetti, a quanto pare la filosofia non ha più un criterio solido e chiaramente delineato, e così certe cose possono spacciarsi per filosofia. Ma se per qualcuno la filosofia è importante, seriamente importante, questa confusione gli risulterà frustrante e inquietante: magari la filosofia vera, autentica, non c’è più; magari è sparita, e chi le crede non se n’è ancora accorto. Se si dà un’occhiata al destino della filosofia nella modernità emerge che questo sospetto non è del tutto ingiustificato. Quella filosofia che si era pienamente imposta per lungo tempo si ritrova, con la modernità, in una situazione difficile. Si è ristretta; scienze dure come la fisica, che prima facevano parte della filosofia, sono divenute autonome. Inoltre, la filosofia ha perso terreno. Attorno a temi genuinamente filosofici come l’anima, la politica e la vita pubblica si costituiscono nuove scienze: la psicologia, le scienze politiche e la sociologia; anche all’estetica filosofica, fondata appena a metà del XVIII secolo, si fa concorrenza attraverso nuove discipline scientifiche: scienze storiche, scienze della comunicazione, scienze dei beni culturali. Infine gli stessi filosofi hanno contribuito a segare i rami che li sostenevano, e in prima fila per questo lavoro si trovano le due figure principali della filosofia moderna: Marx voleva ricondurre la filosofia a una prassi sociale, mentre Nietzsche suggeriva che la filosofia sarebbe in realtà arte e dunque, corrispettivamente, che il filosofo non sarebbe altro che un artista degenerato. Il sospetto, espresso da Marx e Nietzsche, secondo cui la filosofia non potrebbe sussistere autonomamente e sarebbe, come filosofia, impossibile da fondare, ha fatto scuola nel 156
secolo, conducendo così a sempre rinnovate prese di congedo dalla filosofia. Si tratta di un congedo lungo, che dura ancora oggi, una cérémonie des adieux a cui prendono parte sia i rappresentanti di quella fase di scoraggiamento della modernità chiamata “postmoderno”, sia i naturalisti di fede scientifica, che credono di poter recuperare le domande filosofiche, in modo molto più adeguato, all’interno di scienze come la neurologia, la biologia e le scienze cognitive. Cosa la filosofia sia in grado di fare, o debba essere in grado di fare, diviene sempre meno chiaro; i suoi contorni si dissolvono come il gatto del Cheshire di Alice in Wonderland. Rimane solo l’etichetta “filosofia”, che ora sembra adattarsi alle cose più diverse, dalle più scialbe a quelle fondamentali per la nostra vita; rimane l’amministrazione dell’archivio che ci è stato trasmesso dalla storia della filosofia; ma questa amministrazione, come detto, non è filosofia. In ogni caso la storia della filosofia mantiene una sorta di vantaggio quando si pone la domanda se ci sia ancora filosofia: nella storia della filosofia deve sopravvivere ancora un’idea di cos’è la filosofia, perché altrimenti potrebbe benissimo trattarsi di storia della cultura, o di una storia della letteratura in senso lato, ma non di ciò che essa stessa vuole essere: storia della filosofia. La forma più compiuta di questa idea dovrebbe potersi trovare là dove la storia della filosofia ritorna agli inizi della filosofia; cioè là dove la filosofia si costituisce ed emerge come tale per la prima volta, là dove essa si fa incontro allo sguardo storico-filosofico con la freschezza della giovinezza, per così dire. Nella sua prima forma, coniata soprattutto da Platone – e che qui si vuole schizzare in pochi tratti – la filosofia è una chiarificazione senza presupposti (in quanto non intorbidita da abitudini, interessi e offuscamenti) di un problema concreto. La sua domanda suona: che cos’è? – per esempio il giusto, il bello, il vero e il bene –, e la risposta deve orientarsi unicamente in base alla cosa che deve essere determinata. Con la domanda filosofica “che cos’è?” si contrassegna un cambiamento di atteggiamento; chi interroga filosoficamente non vuole più affidarsi alle risposte convenzionali, ormai divenute ovvie, né si accontenta di risposte condite
XX
157
Vladimir Jankélévitch. Quando l’equivoco fa bene ENRICA LISCIANI-PETRINI
È
ampiamente noto che il mondo contemporaneo va mutando, rapidamente, gli assetti materiali, culturali, politici, etici ecc. cui eravamo abituati anche solo fino a qualche decennio fa. I processi reticolari e multipolari, dai quali è attraversata la realtà attuale e che ne costituiscono propriamente il tessuto, non solo confermano quella scolarizzazione in atto già da tempo, che ha messo in questione gli a priori metafisici e teologici univoci tradizionali, ma soprattutto potenziano quelle dinamiche relazionali che ci offrono e insieme ci espongono di continuo a contaminazioni, ibridazioni, trasmutazioni, innesti transculturali ecc. È ovvio quindi che una tale profonda trasformazione ci obblighi alla ricerca di nuovi paradigmi non solo in genere culturali, ma più specificamente etici, tali da orientarci nella costante “alterazione” dei flussi relazionali dai quali siamo investiti. Ebbene, in questo quadro, un autore che non andrebbe sottovalutato, ma anzi opportunamente valorizzato, per alcune delle traiettorie di pensiero che offre, è Vladimir Jankélévitch. Mi riferisco in particolare al tema dell’“equivoco”, da lui trattato in diversi scritti di tenore morale, ma in modo specifico in Il puro e l’impuro.1 Sul quale vorrei perciò richiamare l’attenzione, evidenziando alcune piste in esso contenute. 1. V. Jankélévitch, Il puro e l’impuro (1960), a cura di E. Lisciani-Petrini, trad. di V. Zini, Einaudi, Torino 2014. D’ora in poi citato direttamente nel testo come PI. In questa sede riprendo alcuni passi della mia introduzione.
aut aut, 363, 2014, 169-187
169
1. Innanzitutto occorre però allargare un po’ il giro d’orizzonte dello sguardo. Infatti, per capire la visione delle cose dalla quale Jankélévitch parte e grazie alla quale elabora la propria riflessione morale, occorre fin da subito tenere presente il quadro teorico nel quale egli si colloca fin dall’inizio, benché variamente ripensato e interpolato, soprattutto in seguito, con altre ascendenze: il pensiero di Henri Bergson.2 Il fecondo rapporto di Jankélévitch con il grande maître à penser è ben noto e quindi mi limiterò a ricordarne qualche punto, giusto per fornire le coordinate di quanto dirò in seguito. Come si sa, il cambio di passo che Bergson oppone alla visione tradizionale delle cose consiste nel rovesciarne letteralmente l’impostazione. A una visione della realtà centrata su un Uno-sostanza ultraterreno, eterno e sempre identico a se stesso, Bergson oppone una visione delle cose come divenire insostanziale, ossia come flusso vitale incessantemente cangiante e alterante, mai identico a se stesso e perciò costantemente articolato da un Molteplice che non smette di differenziarsi in sé da sé, da un cambiamento che non smette di cambiare “senza supporto” alcuno.3 Jankélévitch assume questo cambio prospettico. Basta aprire Il non-so-che e il quasi-niente per leggere: “Non c’è altro essere che il divenire, e quindi l’essere non è il complemento determinativo di un’apparizione dell’essere che si rivelerebbe successivamente un essere preesistente. Il divenire non è il divenire di un diveniente, cioè di qualcosa che diviene e che quindi potrebbe essere e non divenire… Bergson aveva già evidenziato queste due verità: l’essere è del tutto diveniente e temporale da cima a fondo; il divenire è 2. Sul pensiero di Jankélévitch in generale e più in particolare in merito al rapporto con Bergson, mi permetto di rinviare al mio Charis. Saggio su Jankélévitch, Mimesis, MilanoUdine 2012. Sull’aspetto propriamente etico del suo pensiero, cfr. L. Boella, Vita morale. Virtù, dovere e amore in Vladimir Jankélévitch, libreria Cortina, Milano 2014. 3. Forse vale la pena ricordare le parole di Bergson stesso: “Il n’est pas exact de dire que je pose, à la manière de la métaphysique traditionnelle, une unité antérieure à la multiplicité. Au contraire, unité et multiplicité distinctes ne sont pour moi que des vues prises sur quelque chose qui participe des deux sans être l’une ni l’autre, et que j’appelle ‘multiplicité qualitative’” (H. Bergson, Mélanges, PUF, Paris 1972, p. 1192). “Il y a des changements, mais il n’y a pas, sous le changement, de choses qui changent: le changement n’a pas besoin d’un support. […] Le mouvement […] n’exige pas […] une substance” (Id., La pensée et le mouvant, in Œuvres, PUF, Paris 1970, “La perception du changement”, pp. 1381-1382).
170
intimamente ontologico. […] L’apparizione è dunque l’avvento dell’essere a un altro essere… restando beninteso che ancora una volta il linguaggio ci tradisce […]. In realtà non c’è un essere prima, un essere dopo, e uno zoccolo o supporto del cambiamento; al contrario, è l’avvento all’altro che costituisce la sola sostanza; e lo stesso altro è altro solo successivamente e in virtù dell’alterazione”.4 Le conseguenze non sono di poco conto. Se l’essere del reale è il divenire, la realtà non è più quella sostanza luminosa già da sempre e per sempre data a cui ci ha abituati la metafisica tradizionale, bensì una dimensione sottoposta a una inarrestabile “alterazione”, a un incessante divenir-altro, continuamente divisa fra essere e nonessere. Dunque – ecco il punto – la realtà è costitutivamente (e non eccezionalmente, di tanto in tanto) ambigua, “doppia”, equivoca. Da questa diversa angolazione dello sguardo nasce la visione jankélévitchiana: quella visione dell’essere delle cose come intrinsecamente sfuggente e inafferrabile per l’uomo, propriamente “ineffabile” per il pensiero, e quindi tale da rendere ogni conoscenza di esso, che si pretenda veritativa, un’utopia dogmatica.5 Da qui germina anche la particolarissima riflessione morale di Jankélévitch. Una riflessione che, proprio per quel che or ora dicevo, parte in primo luogo dalla consapevolezza che l’uomo – esattamente come ogni ente del reale – è costitutivamente doppio, ambiguo, equivoco. E di conseguenza che ogni tentativo di ridurre tale doppiezza a una presunta purezza univoca è, a sua volta, una pretesa dogmatica, peraltro insidiosissima; così come insidiosissima è la strategia simmetrica e opposta volta a stemperare l’alterazione continua delle cose in un confuso relativismo. Questo appunto il nucleo incandescente al cuore della riflessione morale jankélévitchiana – ed è quanto adesso dobbiamo vedere più da vicino. Prima di chiudere questo breve inquadramento, vorrei però almeno dire due parole sullo stile particolarissimo di Jankélévitch, 4. V. Jankélévitch, Il non-so-che e il quasi-niente (1980), trad. di C.A. Bonadies, Einaudi, Torino 2011, pp. 25-26 (corsivo mio). 5. Cfr. V. Jankélévitch, B. Berlowitz, Da qualche parte nell’incompiuto (1978), a cura di E. Lisciani-Petrini, trad. di V. Zini, Einaudi, Torino 2012, p. 11. D’ora in poi citato direttamente nel testo come QI.
171
Linguaggio e immanenza. Kierkegaard e Deleuze sul “divenir-animale” FELICE CIMATTI Quanto grande dev’essere la violenza da fare al pensiero per diventare capaci di pensare, la violenza di un movimento infinito che ci priva al tempo stesso del potere di dire Io?1
1. “La nostra impresa più difficile” Immanenza. È una nozione difficile da articolare, perché se per spiegare un concetto si ricorre a un altro concetto, al suo contrario o a uno simile, questo non si può fare per l’immanenza, che è un concetto limite, che assorbe in sé tutti gli altri, e li annulla. L’immanenza non è propriamente il contrario della trascendenza. È questa che ha bisogno dell’immanenza, come suo contrario, per precisare se stessa, per definirsi come l’ambito di ciò che non è immanente, non è mondano, non è terreno. L’immanenza è lo spazio che si apre quando tutti i dualismi sono stati superati, e non rimane che un unico ambito, quello appunto dell’immanenza. Uno spazio che proprio per questa ragione è impensabile e indicibile: “Il piano di immanenza non è un concetto, né pensato né pensabile”.2 Non si può pensare, ché per pensarlo occorrerebbe essere al suo esterno, ossia nella trascendenza; per la stessa ragione non può dirsi, perché il linguaggio incarna l’essenza stessa di ogni dualismo, della cosa e del segno, del significato e del significante, del contenuto e dell’espressione. È difficile quindi pensare l’immanenza. C’è solo un modo per avvicinarci a questo pensiero limite, immaginare il percorso che potrebbe portare a vivere la condizione impensabile dell’immanenza. Anche se l’immanenza non ha bisogno della trascendenza, tuttavia ci può essere immanenza solo per 1. G. Deleuze, F. Guattari, Qu’est-ce que la philosophie?, Minuit, Paris 1991; trad. di A. De Lorenzis, Che cos’è la filosofia?, Einaudi, Torino 20023, p. 44. 2. Ivi, p. 27.
aut aut, 363, 2014, 189-208
189
un vivente che sia passato per la trascendenza. Solo questo vivente, infatti, può desiderare di vivere in una condizione non segnata dalla trascendenza.3 Un albero, o un sasso, non vivono nell’immanenza, sono rispettivamente un sasso e un albero, senza altre qualificazioni. È il vivente segnato dalla trascendenza, l’animale che parla – l’animale che dice di sé di essere un Homo doppiamente sapiens – che invece aspira a una condizione non scissa, unitaria, semplicemente vivente. Un desiderio che non può provare chi prima non abbia attraversato la scissione della trascendenza. Quello dell’immanenza è un orizzonte, non un’origine: Sul nuovo piano, il problema potrebbe riguardare l’esistenza di colui che crede al mondo, non come esistente, ma come possibilità di movimenti e di intensità, atti a generare ulteriori e nuovi modi di esistenza, più vicini agli animali e alle rocce. Può darsi che credere in questo mondo, in questa vita, sia diventato la nostra impresa più difficile o l’impresa di un modo di esistenza da scoprire oggi sul nostro piano di immanenza.4 Qui si propone di “scoprire” questa nozione attraverso un confronto fra la nozione di “divenir-animale” di Deleuze e Guattari,5 che è uno dei modi in cui provano a pensare l’impensabile immanenza, con un breve testo di Kierkegaard,6 Il giglio nel campo e l’uccello nel cielo.7 2. Divenir-animale Che cosa vuole divenire, il “divenir-animale” dell’animale che parla?8 Deleuze e Guattari lo esplicitano subito: non è una evolu3. Cfr. F. Cimatti, Filosofia dell’animalità, Laterza, Roma-Bari 2013. 4. G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, cit., p. 65. 5. G. Deleuze, F. Guattari, Mille plateaux. Capitalisme et schizophrénie, Minuit, Paris 1980; trad. di G. Passerone, Mille piani, Cooper-Castelvecchi, Roma 2003. 6. Sul rapporto fra Deleuze e Kierkegaard, cfr. C. Carlisle, Kierkegaard’s Philosophy of Becoming. Movements and Positions, University of New York Press, New York 2005. 7. S. Kierkegaard, Lilien paa Marken og Fuglen under Himlen. Tre gudelige Taler (1849), in Søren Kierkegaards Skrifter, Gad, København 2006, vol. XI, pp. 5-48; trad. a cura di E. Rocca, Il giglio nel campo e l’uccello nel cielo. Discorsi 1849-1851, Donzelli, Roma 20112. 8. Cfr. A. Cournot, Le “devenir-animal” chez Gilles Deleuze, “Revue d’esthétique”, 40, 2001, pp. 87-91; S. Baker, What Does Becoming-Animal Look Like?, in N. Rothfels (a cura
190
zione, una imitazione, una rassomiglianza. Il divenir-animale non si inscrive nella millenaria storia occidentale che tratta l’animale come esempio o termine di confronto (negativo) rispetto all’umano.9 Il divenir-animale è una “involuzione”, cioè “una forma di evoluzione che avviene tra elementi eterogenei, a condizione, soprattutto, che non si confonda l’involuzione con una regressione. Il divenire è involutivo, l’involuzione è creatrice. Regredire è andare verso il meno differenziato. Ma involvere è formare un blocco che fila secondo la propria linea, ‘tra’ i termini messi in gioco”.10 È una direzione di movimento, un orizzonte, un modo per avvicinarsi all’immanenza. La posta in gioco del “divenir-animale” è allora l’immanenza, di questo ci parlano Deleuze e Guattari. La condizione perché questo movimento possa effettuarsi è che il flusso del divenire non sia ostacolato, che non ci siano sostanze che si proclamino autonome e autosufficienti. Questa sostanza è il Soggetto. Il “divenir-animale” è il movimento che oltrepassa il soggetto, e lo apre alla relazione, alla contaminazione, alla “molteplicità”: Il divenire e la molteplicità sono un’unica, una stessa cosa. Una molteplicità non si definisce per i suoi elementi, né per un centro di unificazione o di comprensione. Si definisce per il numero delle sue dimensioni, non si divide, non perde o non acquista alcuna dimensione senza cambiare natura. E, poiché le variazioni delle sue dimensioni le sono immanenti, è lo stesso dire che ogni molteplicità è già composta da termini eterogenei in simbiosi o che non cessa di trasformarsi in altre molteplicità in successione, secondo le sue soglie e le sue porte.11 di), Representing Animals, Indiana University Press, Bloomington 2002, pp. 67-97; G. Bruns, Becoming-Animal (Some Simple Ways), “New Literary History”, 4, 2007, pp. 703720; B. Goetz, L’araignée, le lézard et la tique: Deleuze et Heidegger lecteurs de Uexküll, “le portiQue. Revue de philosophie et sciences humaines”, 20, 2007, pp. 2-13; F. Cimatti, La zecca e l’uomo. Antropologia e linguaggio fra Wittgenstein e Lacan, “Rivista italiana di filosofia del linguaggio”, 2, 2013, pp. 38-52. 9. Cfr. É. de Fontenay, Le silence des bêtes, la philosophie à l’épreuve de l’animalité, Fayard, Paris 1998. 10. G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani, cit., p. 342. 11. Ivi, p. 354.
191
Dare atto dell’impossibile: Badiou, Lacan e l’antifilosofia LIVIO BONI Rivolgersi alla filosofia è come vedere in un negozio di antiquariato il cartello <qui si stira> poi portare i pantaloni a stirare in quel negozio e sentirsi dire che era una scritta in vendita... S. Kierkegaard, Aut Aut
L
a locuzione “antifilosofia” (antiphilosophie) si riscontra in Lacan a partire dagli anni settanta, ma sempre con carattere congiunturale e congetturale, senza mai assurgere al rango di categoria concettuale, e nemmeno di vero e proprio paradigma euristico. Sono gli anni in cui il Dipartimento di filosofia dell’Università di Vincennes (poi diventata Paris VIII) accoglie l’insegnamento della psicoanalisi di orientamento lacaniano, e Lacan, che ha accettato dopo molte esitazioni di mettere un piede nella più eterodossa delle università francesi optando per un’alleanza con la filosofia piuttosto che con la psicologia, sente l’esigenza di smarcarsi, nello stesso tempo in cui ne accetta l’ospitalità, dal rischio di un riassorbimento da parte della filosofia. Questa fase, inoltre, fa seguito al periodo di più intenso sodalizio di Lacan con la filosofia a lui contemporanea – e in particolare con Althusser – della fine degli anni sessanta. Nello stesso periodo si assiste a un primo tentativo di inventario “a caldo” della rottura introdotta dal maggio ’68, di cui Lacan cerca di prendere la misura fin dal seminario del 1969-1970, Il rovescio della psicoanalisi, in particolare tratteggiando i contorni della teoria dei “quattro discorsi”, e riprendendo il confronto con Marx, cui rimprovera, per l’appunto, di essere rimasto ancora troppo filosofo, cercando un senso della storia, non contento di averne svelato il sintomo grazie alla scoperta del plus-valore (dimensione che Lacan trasporrà a propria volta nel concetto di “plus-godere”, introducendo in tal modo la aut aut, 363, 2014, 209-219
209
logica del godimento e della pulsione di morte nel cuore dell’economia politica).1 Ma non è una ricognizione critica dell’occorrenza del lemma “antifilosofia” in Lacan a interessarci in questa breve nota, quanto l’accezione conferitagli, più recentemente, da Alain Badiou. Questi, sebbene non faccia mistero di mutuarla essenzialmente dall’ultimo Lacan, nel corso degli anni novanta ne ha fatto una vera e propria categoria euristico-concettuale, proponendo un’intellegibilità della filosofia a partire da questo suo “altro” intimo che è l’antifilosofia. Pascal, Rousseau, Kierkegaard, Nietzsche e Wittgenstein sono identificati quali rappresentanti di questa sorta di contro-movimento interno alla filosofia che ne mette a dura prova il logocentrismo, e l’idea per essa fondamentale che esista una connessione necessaria tra sapere, verità e felicità. Ai due estremi di questa serie di filosofi antifilosofi, Badiou aggiunge anche Paolo di Tarso e Jacques Lacan, rispettivamente figura inaugurale dell’antifilosofia (archi-antifilosofo) e figura ultima – nel senso di insuperata, non di definitiva – della sfida lanciata alla filosofia dal suo avversario più intimo. La recente pubblicazione del seminario consacrato da Badiou all’antifilosofia di Lacan (Le Séminaire. Lacan. L’antiphilosophie 3, 1994-1995, Seuil, Paris 2013) ci offre l’occasione di vedere più da vicino quale sia l’interesse del ricorso a una tale categoria, in particolare rispetto al rapporto tra psicoanalisi e filosofia. È infatti chiaro che, per Badiou, sebbene non si dia alcuna dimensione “istoriale” dell’antifilosofia (così come non vi è istorialità della metafisica o della filosofia), l’antifilosofia lacaniana rappresenta la sfida più attuale lanciata alla filosofia, poiché innesta in qualche misura l’evento freudiano nel sito della filosofia medesima, accentuando un dissenso che in Freud resta ancora in gran parte implicito. È noto come Lacan non lesini nel confrontarsi con la filosofia (da Platone e Aristotele a Descartes, da Kant a Heidegger), cercando di scongiurare un ripiegamento della psicoanalisi su se stessa. Ma, 1. Cfr. J. Lacan, Il seminario. Libro XVIII. Di un discorso che non sarebbe del sembiante, 1971 (2006), trad. a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2010, lezione del 20 gennaio 1971 e P. Bruno, Lacan passeur de Marx, l’invention du symptome, érès, Paris 2010.
210
come sempre in Lacan, questo gesto di sfida alla psicoanalisi si accompagna a un contro-movimento, soprattutto nell’ultima fase del suo pensiero e del suo insegnamento, che consiste appunto nello sfidare a sua volta la filosofia, nel momento stesso in cui la prende per testimone. Questa duplice scongiura lanciata alla filosofia assume valenze diverse a seconda dei contesti e delle circostanze, e non è quindi senza rischi che Badiou decide di leggerla all’insegna generale dell’antifilosofia. Ma che cosa bisogna intendere, nella sua generalità, con il termine “antifilosofia”? Sebbene Badiou si esima dal proporne una definizione univoca, optando per una serie di definizioni differenziali rispetto alla filosofia, si può dire che ciò che accomuna le antifilosofie consista nell’enunciare l’impossibilità di cogliere il reale per via discorsiva. Il reale non è accessibile se non attraverso un punto fuori-discorso, extra-logos, che si tratti della “conversione” per Pascal, della “passione” per Rousseau, dell’“angoscia” per Kierkegaard, del “rompere in due la storia del mondo” di Nietzsche, dell’“etica” per Wittgenstein, senza dimenticare il paradigma archi-antifilosofico della “grazia” in San Paolo.2 Lungi dall’essere un puro e semplice rifiuto della filosofia, l’antifilosofia ne propone un attraversamento che permetta di individuarne un punto in eccesso rispetto al suo dispositivo logocentrico. Senonché, a differenza di ogni dissoluzione mistica, l’individuazione di un tale punto extra-discorsivo – individuazione di cui pure l’antifilosofo paga lo scotto soggettivo (a differenza del filosofo che desidera la “beatitudine” della concordanza ultima tra verità, sapere e soggettività) – non consente di uscire dal dispositivo filosofico. Non esiste infatti, per l’antifilosofia, alcuna esteriorità radicale rispetto alla filosofia, bensì un bordo, un punto-limite, che la sostiene e la invalida al contempo, obbligando l’antifilosofo a un movimento permanente contro, e incontro, alla filosofia. Questa 2. Cfr. A. Badiou, San Paolo: la fondazione dell’universalismo (1997), trad. di F. Ferrari e A. Moscati, Cronopio, Napoli 1998. Su Wittgenstein, cfr. A. Badiou, L’antiphilosophie de Wittgenstein, Nous, Paris 2009. Mentre, per quanto riguarda Nietzsche, in attesa della pubblicazione del seminario consacratogli da Badiou nel 1991-1992, bisognerà contentarsi del pamphlet: A. Badiou, Casser en deux l’histoire du monde?, Éditions du Perroquet, Paris 1992.
211