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345 gennaio marzo 2010

Inattualità di Pasolini MATERIALI Nota filologica su due inediti di Pier Paolo Pasolini [Piera Rizzolatti] Pier Paolo Pasolini Dialogo tra un maniscalco e la sera [1942] Pier Paolo Pasolini Dialogo tra una vecchia e l’alba [1945] Preludi drammaturgici [Angela Felice] Davide Zoletto Pasolini, l’Africa e due scene di insegnamento Raoul Kirchmayr Pasolini, gli stili della passione Michel Foucault I mattini grigi della tolleranza [1977] Pier Aldo Rovatti Che cos’è uno scritto corsaro? Damiano Cantone Pasolini e i segni Massimiliano Roveretto L’ingombrante fantasma. Le ragioni di Pasolini Massimiliano Nicoli L’innocenza del potere. Una riflessione su “Petrolio” Giacomo Marramao A partire da “Salò”: corpo, potere e tempo nell’opera di Pasolini Dario Giugliano Una storia infame: Pasolini e l’orizzonte temporale occidentale Alessandro Mariani La vocazione pedagogica di Pasolini INTERVENTI François Jullien L’esteriorità cinese, ovvero come fare lavorare gli scarti culturali per una intelligenza comune Marco Galati Garritto L’in-scrivibilità della scomparsa (di Georges Perec) Chiara Pastorini Corpo ed etica nel secondo Wittgenstein: una proposta teorica

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MATERIALI Martin Heidegger Rimbaud vivant [1972] 209 Luigi Azzariti-Fumaroli Nota a “Rimbaud vivant” di Martin Heidegger 212


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rivista fondata da Enzo Paci nel 1951 direttore responsabile: Pier Aldo Rovatti redazione: Paulo Barone, Graziella Berto, Giovanna Bettini, Laura Boella, Deborah Borca (editing, deborahborca@libero.it), Silvana Borutti, Damiano Cantone, Mario Colucci, Alessandro Dal Lago, Rocco De Biasi, Maurizio Ferraris, Edoardo Greblo, Raoul Kirchmayr, Giovanni Leghissa, Anna Maria Morazzoni (coordinamento, tel. 02 70102683), Ilaria Papandrea, Fabio Polidori, Rosella Prezzo, Pier Aldo Rovatti, Antonello Sciacchitano, Giovanni Scibilia, Davide Zoletto direzione: via Melzo 9, 20129 Milano collaborano tra gli altri ad “aut aut”: G. Agamben, H.-D. Bahr, R. Bodei, J. Butler, M. Cacciari, A. Cavarero, G. Dorfles, U. Galimberti, P. Gambazzi, S. Givone, A. Heller, F. Jullien, J.-L. Nancy, A. Prete, M. Serres, G.C. Spivak, M. Trevi, G. Vattimo, M. Vegetti, P. Veyne, V. Vitiello, S. Žižek

il Saggiatore S.p.A. Via Melzo 9, 20129 Milano www.saggiatore.it ufficio stampa: autaut@saggiatore.it abbonamento 2010: Italia € 60,00, estero € 76,00 L’Editore ha affidato a Picomax s.r.l. la gestione degli abbonamenti della rivista “aut aut”. L’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e la possibilità di richiedere gratuitamente la rettifica o la cancellazione scrivendo a: Picomax s.r.l. responsabile dati, Via Borghetto 1, 20122 Milano (ai sensi della L. 675/96). servizio abbonamenti e fascicoli arretrati: Picomax s.r.l., Via Borghetto 1, 20122 Milano telefono: 02 77428040 fax: 02 76340836 e-mail: abbonamenti@picomax.it www.picomax.it Registrazione del Tribunale di Milano n. 2232 in data 13.1.1951 Proprietà: Francesca Romana Paci Stampa: Lego S.p.A., Lavis (TN) Spedizione in abbonamento postale 45% art. 1, comma 1, decreto legge 353/03 convertito in legge 46/04 – Filiale di Milano. Finito di stampare nel marzo 2010


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Inattualità di Pasolini

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uesta ampia sezione di “aut aut”, dedicata a Pier Paolo Pasolini, nasce in buona parte dal lavoro di gruppo in occasione di un corso di Estetica tenuto nel 2009 alla Facoltà di Lettere e Filosofia di Trieste. Oltre a Pier Aldo Rovatti, vi hanno partecipato Damiano Cantone, Massimiliano Roveretto, Raoul Kirchmayr, Davide Zoletto e Massimiliano Nicoli. In quell’occasione è stato anche discusso l’articolo del 1977 di Michel Foucault, che qui traduciamo. In un secondo momento si sono aggiunti i contributi di Giacomo Marramao, Dario Giugliano e Alessandro Mariani, nonché le preziose pagine inedite del Pasolini friulano (che aprono il fascicolo) regalateci da Angela Felice, direttrice del Centro Studi Pier Paolo Pasolini di Casarsa. Ci è sembrato che la parola “inattualità” fosse la migliore chiave di entrata per un’incursione nel mondo di Pasolini da parte di alcuni, che non sono addetti ai lavori ma pensano che Pasolini abbia un posto importante nella coscienza critica di oggi. Pasolini (assassinato nell’ormai lontano 1975 quando aveva solo cinquantatre anni) già in vita è stato un inattuale perché si era messo radicalmente di traverso nei confronti della cultura del tempo, compresa quella di sinistra. Perciò abbiamo rischiato di perderlo nei decenni che sono seguiti, e proprio per questo stesso motivo, cioè la sua inattualità che tuttora permane, è essenziale per noi riguadagnarlo, in un momento in cui – come oggi – le coscienze sembrano addormentarsi nella trionfante omologazione che lui aveva lucidamente anticipato nei suoi ultimi scritti.


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Materiali

Presentiamo qui alcuni appunti inediti di Pasolini risalenti al periodo friulano. Angela Felice e Piera Rizzolatti, del Centro Studi Pier Paolo Pasolini di Casarsa della Delizia, hanno reso possibile la pubblicazione mettendoci a disposizione i foglietti originali, che riproduciamo. Piera Rizzolatti ci ha inoltre fornito la trascrizione critica e la cornice filologica. Angela Felice una traduzione dal friulano all’italiano.


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Nota filologica su due inediti di Pier Paolo Pasolini

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insistenza sulla formula drammatica del dialogo è presente nella scrittura di Pasolini lungo tutto il corso dei primi anni quaranta e intreccia friulano e italiano come testimoniano anche le parti dialogate di La Domenia Uliva accolte già in Poesie a Casarsa, del luglio 1942. Campo di prova dei dialoghi italiani in versi o in prosa sarà soprattutto “Il Setaccio”, su cui Pasolini pubblica nel dicembre 1942 e nel febbraio 1943. Appartengono a questo periodo di ricerca formale i nove dialoghi per la raccolta poetica Le cose, mai pubblicata, e la scrittura delle otto parti dialogate, con temi elegiaci cari alla produzione di Pasolini di quegli anni. Queste, composte quasi parallelamente in friulano e in italiano, troveranno posto dopo un’ulteriore rielaborazione nel disegno dell’Usignolo della Chiesa Cattolica. In una domenica di fine gennaio 1944, Pasolini scrive all’amico Luciano Serra una lettera affettuosa in cui ricorda le dolci consuetudini dell’amicizia e delle confidenze interrotte dalla guerra. Pasolini racconta all’amico lontano del trascorrere della vita casarsese, del suo più maturo rapporto con il lavoro letterario, più calmo, più costante, più costruttivo, concretizzatosi nel corso del 1943 nella conclusione di “tre libretti” in friulano. Tra la seconda edizione delle Poesie a Casarsa e un libretto di meditazioni religiose (L’Usignolo della Chiesa Cattolica), Pasolini si sofferma a descrivere quasi nei dettagli anche il contenuto di un “libretto di dialoghi”. Il “libretto” doveva constare di cinque aut aut, 345, 2010, 5-8

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dialoghi, e Pasolini non manca di indicarne puntualmente i titoli all’amico: “Dialogo tra le Nuvole e il Friuli; dialogo tra un casarsese e un pellegrino o la conchiglia; dialogo tra una giovinetta e un usignolo; tra un fanciullo e un cappellano o la tempesta; dialogo tra una vecchia e l’alba”. Uno di questi dialoghi, il Discors tra na fantasuta e un rosignoul, verrà poi inserito nello “Stroligùt di cà da l’aga”, che inaugura nell’aprile 1944 la serie delle riviste casarsesi, che pubblicheranno anche altri dialoghi non compresi nell’elenco (per esempio il Discors tra la pleif e un fantàt, comparirà nello “Stroligùt” dell’agosto 1944), mentre il Discors tra na veça e l’alba apparirà nello “Stroligùt” dell’agosto 1945, pubblicato dopo la fondazione dell’Academiuta e la proclamazione del programma, che riassume e conferma le scelte stilistiche e letterarie di Pasolini e definisce un confine anche per la resa grafica dell’amato casarsese. Il Centro Studi Pasolini di Casarsa, tra le carte preziose della donazione Ciceri, conserva una cartella che reca il titolo Dialoghi friulani, titolo scritto di pugno da Pasolini. Il materiale contenuto è rappresentato dai seguenti manoscritti: “Dialogo tra un cappellano e un fanciullo o la tempesta”, “Dialogo tra una vecchia e l’alba”, “Dialogo sulla virtù”, “Poesie” e “Prose mistiche”, “Dialogo tra un casarsese e un pellegrino o la conchiglia”, “Dialogo tra una giovanetta e un usignolo”, “Dialogo tra un maniscalco e la sera” e dai dattiloscritti dei testi friulani con la traduzione italiana a piè di pagina del “Dialogo sulla virtù”, “Dialogo tra un maniscalco e la sera”, “Dialogo tra un cappellano un fanciullo o la tempesta”, “Dialogo tra una giovanetta e un usignolo”, “Dialogo tra una vecchia e la prima luce”. Nel fascicolo un foglio (c.1 secondo recto) riporta due indici di mano di Pasolini che si richiamano entrambi al progetto di una raccolta coesa di Dialoghi: il primo dei due indici segnala i titoli dei dialoghi già composti (“Dialogo tra un cappellano e un fanciullo o la tempesta”, “Dialogo tra una giovanetta e un usignolo”, “Dialogo tra una vecchia e la prima luce”, “Dialogo sulla virtù”), e quelli “da farsi”, come il “Dialogo tra le nuvole e il Friuli”. Il secondo indice propone un altro elenco in cui com6


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pare il “Dialogo tra le nuvole e il Friuli”, il “Dialogo tra un casarsese e un pellegrino o la conchiglia”, “Dialogo tra un cappellano e un fanciullo o la tempesta”, “Dialogo tra una giovanetta e un usignolo”, “Dialogo tra una vecchia e la prima luce”: accorpamenti diversi di dialoghi, non tutti documentati dalle carte conservate a Casarsa presso il Centro Studi Pasolini. Il “Dialogo tra le nuvole e il Friuli”, per esempio, compare tra i materiali dello Scartafaccio gennaio-maggio 1944 insieme ad altri dialoghi, depositati invece presso l’Archivio Contemporaneo A. Bonsanti del Gabinetto G.P. Vieusseux di Firenze. Le due raccolte di Dialoghi sono state argomento della tesi di laurea dal titolo Pier Paolo Pasolini. “Cuore e stile”, discussa da Maura Giusi Locantore presso l’Università di Cosenza nell’anno accademico 20022003 e tutt’oggi inedita. La cartella è composta da dodici carte che mostrano l’utilizzo di diversi supporti cartacei: fogli formato protocollo a quadretti, fogli a quadretti di tipo commerciale, fogli bianchi strappati da quaderni, sui quali si legge la calligrafia minuta della mano veloce di Pasolini oppure si distendono i dattiloscritti, con correzioni a mano e traduzione del testo friulano a piè di pagina. I manoscritti ci propongono il tormentato farsi dei dialoghi nei versi oggetto di scrittura e riscrittura, che troveranno poi veste più strutturata nella redazione dattiloscritta. Le diverse fasi di avvicinamento al testo definitivo, la conquista della parola poetica che dal vivo della voce va a fissarsi nella rappresentazione scritta, le scelte grafiche sempre più coerenti, in direzione di una fusione di suono e scrittura ben emergono nella lettura dei documenti, alcuni dei quali destinati a restare “autonomi” rispetto alla versione finale più articolata e matura, poi oggetto di pubblicazione. Tra questi inediti si sono scelti due dialoghi particolarmente significativi dell’incessante operazione di ripensamento e di rielaborazione operata da Pasolini a partire dal tema proposto (la cui trascrizione completa, causa le difficoltà di lettura, non era stata tentata da Maura Giusi Locantore). Le carte scelte per la pubblicazione in questa sede propongono la redazione mano7


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scritta del Dialogo tra una vecchia e l’alba e del Dialogo tra il maniscalco e la sera. Il primo, cioè il Dialogo tra una vecchia e l’alba, si legge sul verso della c.2 (un foglio protocollo a quadretti, diviso in due colonne) e rappresenta una minuta, con più varianti, preparatoria alla redazione del dialogo che, con lo stesso titolo, si ripresenta anche alla c.11 del fascicolo in forma dattiloscritta con traduzione italiana a piè di pagina, con successivi interventi a mano. Quest’ultima redazione, appare sostanzialmente coerente con il testo pubblicato nello “Stroligùt”, 1, 1945. Il Dialogo tra il maniscalco e la sera è redatto in forma manoscritta alla c.7 sul recto e sul verso: si tratta di una pagina staccata da un quaderno, compatibile con lo stesso supporto cartaceo che riappare in alcuni fogli del fascicolo di Poesie a Casarsa (datato 1941) e in cui pure si evincono tracce di strutture dialogate. La c.8 che è immediatamente successiva (conta di mezzo foglio, formato protocollo a quadretti) propone un dialogo dallo stesso titolo, dattiloscritto, con versione significativamente differente e traduzione italiana a piè di pagina. È stato edito in L’Usignolo della Chiesa Cattolica il solo testo italiano in una redazione rielaborata rispetto a quella presente nel manoscritto. Il testo friulano è ancora del tutto inedito e lo pubblichiamo qui con commozione. [Piera Rizzolatti]

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Preludi drammaturgici

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rava sulla drammaturgia pasoliniana il sospetto della letterarietà e quindi il vizio d’origine dello sforzo volontaristico. Ciò spiega perché, rispetto ai tanti canali in cui si è diramato l’impegno pasoliniano, il teatro sia parso alla critica un genere meno efficace e per certi versi minore. Pesano inoltre sul corpus drammaturgico pasoliniano le dichiarazioni provocatorie affidate al Manifesto per un Nuovo Teatro, con cui nel 1967 Pasolini esplicitava in nome di un teatro di “parola” la sua opposizione radicale al teatro della Chiacchiera e del Gesto e dell’Urlo, cioè da un lato alla scena borghese e ufficiale e dall’altro a quella sperimentale e alternativa. È in base a quegli assunti che la sua scrittura teatrale è stata spesso letta e interpretata, così da risultare schiacciata (e sminuita) a esemplificazione e dimostrazione di presupposti ideologici e di teoria concettuale. A un’analisi più attenta, invece, il teatro di Pasolini rivela più sorprendenti fertilità drammaturgiche, che trovano nel motivo del “doppio” e dello “sdoppiamento” una sorta di motore centrale, capace di per sé di possibilità strettamente sceniche di allestimento e di permanenti riletture. In quel motivo precipita l’imbuto di ossessioni autobiografiche, che la sensibilità pasoliniana riesce però a decantare in dialettica oggettiva tra parti contrapposte, quindi in teatralità. Il teatro pare assestarsi perciò al centro, non al margine, dell’interesse creativo pasoliniano, come codice comunicativo (e pedagogico) da inseguire a fatica nella sua specificità lingui18

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stica e come una sfida permanente, con gli attori e con l’inevitabile polvere della pratica materiale della scena. Questa centralità trova in qualche modo un paradigma simbolico nel fatto che il primo testo con cui il giovane Pasolini appare in pubblico è, nel 1938, il dramma La sua gloria, proposto e premiato al concorso studentesco Ludi Juveniles di quell’anno. E ancora, a riprova di una vocazione teatrale avvertita precocemente come messa in scena della parola, valgono gli esercizi precoci dei tre quadri dialogati in versi su cui l’officina pasoliniana si cimenta sul “Setaccio”, la rivista della GIL (Gioventù italiana del littorio) di Bologna. In quei casi, nella dialettica tra la scrittura e la sua potenziale oralità, la pagina si fa carico anche di un progetto di vasto respiro interartistico, a interstizio tra più generi espressivi, e perciò, accanto ai versi, accoglie anche disegni, capaci di prolungare l’atmosfera poetico-teatrale dei testi in suggestione figurativa. Schizzi e accenni di volti e figure compaiono anche nei manoscritti dei Dialoghi in friulano, con cui Pasolini prosegue a Casarsa la sua incessante sperimentazione di una sorta di sospesa drammaturgia originaria, progettata nel nucleo fondante dello scambio verbale a due e, ora, in una lingua sentita incontaminata e inizialmente “inventata”. Rispetto al più tardo Discors tra na veça e l’alba (1945), appare qui particolarmente interessante il Dialogo tra un maniscalco e la sera (1942), esercizio di un teatro dell’io che si spazializza sullo scenario di luoghi diversi e, nell’elegiaco colloquio con la Sera dal sapore leopardiano, proietta fuori di sé e oggettivizza in figure allegoriche la dinamica sofferta della propria vita interiore. Quell’esperienza si situa al confine ancora incerto tra lirica e scrittura teatrale, tra circolo chiuso della parola soggettiva e volontà di espansione comunicativa. È tuttavia lecito individuare in questi preludi protodrammaturgici gli incunaboli di un’idea di teatro (del doppio e della parola che ne ospita la dialettica) destinata a diventare poi scelta apertamente teatrale negli anni sessanta, come laboratorio di scrittura e pratica di palcoscenico. [Angela Felice]

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Pasolini, l’Africa e due scene di insegnamento DAVIDE ZOLETTO

Nell’aula c’è un profondo silenzio, qualcosa che assomiglia a un dolore, a una sconfitta. Il professore guarda offeso – nella sua infantile ostinazione – la scolaresca. Che lo guarda, dal nero dei suoi visi, come da un altro mondo. – Siamo ormai alla fine dell’anno scolastico, quasi, e voi non mi avete dato nulla... Io mi sono esposto, offerto, affannato come un idiota, e voi silenzio. Non dico di non aver sbagliato; di non essere stato improvvido, inesperto. Ma è proprio sui miei sbagli che voi dovevate parlare... Io ve li ho esposti, confessati fino a perdere la dignità... [...] E voi non avete fatto nulla... Non avete saputo approfittare della vostra libertà.1 Prima scena di insegnamento. È tratta da Il padre selvaggio, una delle sceneggiature che Pasolini non ha mai trasformato in film. L’ambientazione è africana. Siamo nel 1962. L’anno prima, di ritorno da un viaggio in India, Moravia aveva portato Pasolini in Africa per la prima volta. E l’Africa, lo scrive lo stesso Pasolini, lo aveva “irrazionalmente e ontologicamente incantato”.2 Già prima di andarci, Pasolini aveva parlato dell’Africa come della “sua unica alternativa”3 di fronte alla rapida modernizzazione

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1. P.P. Pasolini, Il padre selvaggio (1962), in Per il cinema, Mondadori, Milano 2003, vol. p. 287. 2. N. Naldini, Vita di Pasolini, Einaudi, Torino 1989, p. 266. 3. Si veda la poesia Frammento alla morte (aprile 1960), contenuta nella raccolta La reli-

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dell’Italia e alla altrettanto veloce resa a quelle che egli giudicava le insensate e “magnifiche sorti progressive del neo-capitalismo” e del consumismo. Questo riferimento all’Africa, che all’inizio poteva sembrare soprattutto un artificio retorico, si trasforma nel giro di pochi anni in uno scenario centrale per la ricerca artistica e politica del Pasolini di quegli anni. Il “Terzo Mondo”, e l’Africa in particolare, diventano per Pasolini – con Fanon, con Sartre – l’altrove in cui trovare quell’avanguardia che sola avrebbe potuto portare all’avvento di quella che Pasolini chiamava “una apocalissi positiva, preventiva”.4 Nel 1962 Pasolini torna altre due volte in Africa. Quei viaggi, insieme alla lettura dei “poeti negri”,5 gli danno dapprima l’idea di un film “africano” (pensa di intitolarlo Resistenza africana6), e si concretizzano poi nella sceneggiatura di Il padre selvaggio. La storia, come sintetizza lo stesso Pasolini, è quella di un poeta “negro e africano”: “Un ragazzo che frequenta il liceo nella capitale di uno stato negro liberato da un anno o due, e si incontra con un professore laico, progressista, che cerca di dare ai suoi ragazzi un insegnamento anticonvenzionale, anticolonialista”.7 Ma i ragazzi, abituati all’insegnamento meccanico, conservatore, rigido della scuola e degli insegnanti coloniali, faticano a seguire l’insegnante. Addirittura resistono, e in particolare resiste Davidson, il più bravo fra gli allievi, il futuro poeta. A poco a poco, nel corso dell’anno scolastico, insegnante e allievi sembrano riuscire a instaurare una relazione, un dialogo. L’insegnante rinnova il curricolo (introduce la poesia contemporanea), gione del mio tempo, in P.P. Pasolini, Tutte le poesie, Mondadori, Milano 2003, vol. I, pp. 10491050. 4. Id., Intervista rilasciata a Ferdinando Camon (1969), in Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori, Milano 1999, p. 1643. In questa intervista Pasolini rilegge e smonta l’idealizzazione dell’Africa che l’aveva guidato all’inizio degli anni sessanta. Si veda, per esempio, la poesia Profezia (1962), dedicata non a caso a Sartre. 5. Vedi “La Resistenza negra”, introduzione scritta da Pasolini per il volume a cura di M. Andrade, Letteratura negra. La poesia (Editori Riuniti, Roma 1961), ora in P.P. Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull’arte, Mondadori, Milano 1999, vol. II, pp. 2344-2355. 6. N. Naldini, Vita di Pasolini, cit., p. 249. 7. Ivi, p. 265.

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i libri, le attività, coinvolge i ragazzi in un’associazione scolastica, che diventa per loro una sorta di palestra di “autogoverno” e “autocritica”. Ma poi arriva la pausa estiva, e in concomitanza a essa una crisi politica nel neonato stato africano, con scontri sanguinosi fra fazioni opposte, mercenari e caschi blu. Davidson, il “poeta”, tornato al suo villaggio per le vacanze, è coinvolto in queste violenze: “Subisce nel villaggio, dove suo padre è capo tribù (per questo il titolo del film sarà Il padre selvaggio) un’esperienza preistorica, arcaica, di vita selvaggia, addirittura di cannibalismo forse [...], e ne torna traumatizzato e malato di nevrosi”.8 Saranno la scuola, l’insegnante e soprattutto la poesia a guarirlo lentamente dal suo male. Non del tutto, però, perché le poesie, per poterlo liberare, dovranno avere sì un “contenuto profondamente democratico e razionale”, ma mantenendo pur sempre la “misteriosa ispirazione che guarisce dal male”. L’Africa che Pasolini sognava come sua unica alternativa, l’Africa in cui vedeva l’avanguardia e la resistenza contro il modello di sviluppo occidentale, diventa nel Padre selvaggio l’Africa di Davidson e dei suoi compagni, in bilico – nella sceneggiatura pasoliniana – fra i retaggi dell’assoggettamento coloniale, il mondo “selvaggio” del padre-capovillaggio e l’impegno pedagogico e politico (spesso l’ingenuità) dell’insegnante. Come a dire che l’Africa rappresentata da Davidson e dai suoi compagni è un Africa che Pasolini costruisce al plurale, segnata da tensioni che sembrano destinate a rimanere irrisolte. Nell’aula della scuola di Il padre selvaggio, questa costruzione di un’Africa contraddittoria trova un riscontro nell’immagine che di volta in volta l’insegnante ha della sua scolaresca. Davidson ripete meccanicamente alcune parti di una lezione che l’insegnante aveva presentato il giorno prima con entusiasmo alla classe: “L’insegnante lo ascolta sbalordito”, poi la delusione si trasforma in indignazione contro gli “insegnanti precedenti, colonialisti” che hanno riempito la testa di Davidson dei “più stu8. Ivi, p. 266.

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Pasolini, gli stili della passione RAOUL KIRCHMAYR

...l’abîme sur lequel je marche, sur une corde raide, c’est l’abîme entre l’épicité religieuse et le réalisme naturalistique.1

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voler circoscrivere un poco la semantica della parola “passione”, che ritma la ricerca intellettuale e artistica di Pasolini, non si tratta solo di definire che cos’è, o cosa sarebbe, la passione per Pasolini, ma di riconoscere come la sua opera sia interamente una “messa in scrittura” (o in scritture, al plurale) della passione. In questo senso, quelle di Pasolini appaiono come scritture appassionate, intrise di passione, di pathos. Ne va di molteplici messe in forma del pathos come raffigurazioni di “quel tanto di misterioso e di irrazionale che ogni vita ha in abbondanza, e che è la ‘poeticità naturale’ della vita”,2 quell’“elemento irrazionale”3 che la poesia salvaguarda ed esprime, e nel quale Pasolini ritrova un’esperienza – anche nel senso della sperimentazione – eretica del sacro. Il testo è la rielaborazione dell’intervento del 15 aprile 2009 al corso di Estetica “Pasolini e le poetiche della scrittura” tenuto da Pier Aldo Rovatti presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Trieste, e dell’intervento “Umanità di Pasolini”, presso il Centro Studi Pier Paolo Pasolini di Casarsa della Delizia, del 5 novembre 2009. Desidero ringraziare Alessandra Mascia per la rilettura di una prima versione del testo e per i suoi preziosi consigli sulla resa stilistica di alcuni passaggi. Devo diversi spunti di analisi alle lezioni dedicate al cinema di Pasolini da parte di Georges Didi-Huberman nel suo seminario Les peuples exposés tenuto all’École des hautes études en sciences sociales di Parigi nell’anno 2008-2009. 1. P.P. Pasolini, nel documentario realizzato da J.-A. Fieschi e A. Bazin, Pasolini l’enragé (Francia 1966) nella serie “Cinéastes de notre temps” (Registi del nostro tempo). 2. P.P. Pasolini, Empirismo eretico (1972), Garzanti, Milano 2002, p. 53. 3. Ibidem.

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1. Passione e ideologia Seguiamo Pasolini e proviamo ad avvicinare un senso della parola passione mettendola in accordo con la parola ideologia. Senza esitare dico passione prima di tutto. Perché il senso dell’espressione “passione e ideologia” si chiarisce quando pensiamo la passione prima di tutto, cioè come una condizione umana che è essere nel mondo e nella storia. Riconoscere il nostro essere nel mondo e nella storia non è soltanto un compito filosofico, è pure il dare una chance alla passione senza farne un sapere o uno stereotipo letterario e stilistico. Passione è lo sguardo stupito di fronte allo spettacolo del mondo, un non cedere all’abitudine dello sguardo, piuttosto un romperla, e un riconoscersi presi nella trama del mondo e della storia. È così un abitare e Pasolini è stato uno straordinario abitante del suo mondo e del suo tempo. Si può cercare di aderire al mondo e alla sua concretezza storica al punto di farsi quasi cronista della storia, come ha fatto Pasolini con i suoi interventi sulla superficie della storia che diventano voce critica del presente, per esempio nell’ultima fase “corsara”, o anche mediante quel lavoro di minuziosa indagine cinematografica che si esprime nel “lirismo documentario”. Passione come esistenza, dunque, come un impegno nel mondo che non possiamo non essere e che tuttavia si tratta di assumere. Perciò la passione è la condizione della decisione che, per dirla con Pasolini, è al tempo stesso poetica e ideologica. La poesia è impegno poiché alternativa alla prosasticità del mondo borghese. A sua volta, la poesia dice il nostro essere nel mondo: essa è passione prima di tutto. Il mondo borghese è anti-poetico per eccellenza: nel nostro tempo storico non possiamo più prendere posizione dall’esterno rispetto a esso. Pasolini ne era perfettamente consapevole. La sua età – dal dopoguerra al boom economico, all’avvento della società dei consumi di massa, della “società affluente” – è il passato prossimo della nostra storia da cui scaturisce il nostro presente. Appena passato, questo passato prossimo detta le condizioni del nostro avvenire. È pure quel periodo storico in cui cominciano a venir erose le forme del dissenso organizzato e il 29


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pensiero liberale elabora nuove strategie di rilancio. Occorre ricordare che la scelta intima di Pasolini contro il pensiero liberale e quella che – con una categoria fin troppo ampia – veniva chiamata borghesia è consustanziale all’opera di scavo della lingua: occorre recuperarne il potenziale contestatore rispetto a quello che chiamerei il linguaggio-mondo borghese, qualcosa di più e di diverso da una “rappresentazione del mondo”, piuttosto un modo di foggiare linguisticamente il mondo. Così il dire di sì di Pasolini alla poesia è un dire di no al linguaggio-mondo borghese e alla maniera in cui si stava configurando allora il rapporto tra la cultura, la lingua e l’identità nazionale. Affermare la poesia coincide con una strategia ad ampio respiro che mira a un altro avvenire che non può prendere forma se non come evento di linguaggio. Un luogo importante per comprendere questa scelta è la “Nota” conclusiva di Passione e ideologia, il volume di saggi critici del 1956 che segna una tappa importante nella produzione saggistica di Pasolini.4 Per spiegare il senso del titolo, Pasolini si concentra sulla congiunzione che lega i due termini. Non si tratta di una giustapposizione, è piuttosto un vettore problematico quello che li mette in relazione: c’è una dinamica, un passare dall’uno all’altro in un processo che dà tempo. In un certo senso si può parlare di una sintesi dei due termini, una sintesi che Pasolini qualifica con il termine “disgiunzione”. Ogni sintesi è temporale, il suo processo lega un prima con un dopo. Ma credo pure che si debba ritrovare in essa il senso di un dare tempo (che è il tempo dell’emancipazione e della speranza, il tempo di un avvenire che trova le sue forze nell’arcaico). La sola passione è vana, come un canto destinato a spegnersi. La sola ideologia è illusoria, perché perpetua i mali della foggiatura borghese del mondo, riproducendoli a sua volta e perfino negandosi come liberazione. I due termini vanno assieme, dunque, ma secondo un certo décalage che è il tempo stesso dell’acquisire forza del canto poetico, del suo

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I mattini grigi della tolleranza MICHEL FOUCAULT

Questo breve testo di Foucault dedicato a Comizi d’amore e apparso in “Le Monde” del 23 marzo 1977 è solo apparentemente una tardiva recensione cinematografica del film-documentario girato da Pasolini nel 1963. È piuttosto una riflessione sul tipo di approccio che Pasolini aveva scelto per indagare criticamente il mutamento dei costumi sessuali in Italia, cui segue un rilancio filosofico su quello che Foucault chiama “regime della tolleranza”. Pasolini, infatti, avrebbe registrato non tanto i contrasti prodotti dall’avanzare della modernità in un’Italia ancora legata al suo passato contadino e popolare, tra l’affrancamento dei costumi e le permanenze della morale cattolica, quanto il prendere forma di una diversa esperienza della sessualità che mette in gioco contemporaneamente maggiori libertà individuali e maggiore controllo. Sotto questo profilo, il film di Pasolini rappresenta agli occhi di Foucault un documento etnografico che appartiene a un periodo di transizione. Rispetto alle nostalgiche immagini bianco-e-nero che dipingono i presunti avanzamenti di un’Italia anni sessanta approdata da poco al consumismo, Foucault indica con rapidità e inquietudine le zone grigie di una tardiva modernità e individua seccamente sia il movimento del quadrillage sociale esercitato da un potere sempre più anonimo e orizzontale, sia gli indizi delle forme nascenti di resistenza e di opposizione (non deve sfuggire il richiaM. Foucault, Les matins grises de la tolérance, “Le Monde”, 23 marzo 1977, p. 24, ora in Dits et écrits, Gallimard, Paris 2001, vol. II, pp. 269-271.

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mo all’attualità presente nell’ultima riga del testo, là dove si evoca la contestazione bolognese del 1977). Ma il tema più scottante, articolato negli ultimi densi paragrafi dello scritto, è certamente il nesso eros-gioventù-democrazia, che avrebbe conosciuto importanti sviluppi nella successiva riflessione foucaultiana. In effetti, ciò che interessa Foucault – e che ritrova in Pasolini, pur mantenendo curiosamente il riserbo sulla questione gay – è “la grande saga dei giovani”, rispetto alla quale i potenti strumenti delle scienze dell’uomo hanno progressivamente guadagnato precisione nel classificare e nel categorizzare, le tecniche politiche del controllo si sono sempre più raffinate nello scandagliare-controllare-reprimere, le strategie di marketing si sono fatte più aggressive nel plasmare immaginari e desideri: verso questa gioventù, divenuta punto di applicazione del potere, il potere stesso denuncia per contrasto la sua diffidenza. Il discorso di Foucault appare oggi a sua volta figlio di una stagione di lotte che si è conclusa lasciando dietro di sé una lunga onda di riflusso che non accenna a scemare, ma pare ricevere maggiore forza dalle contraddizioni del mondo globale. Da un lato, il nesso sessualità-potere si è riconfigurato nelle forme – fortemente mediatizzate – della teatralizzazione dell’osceno e della spettacolarizzazione del privato se non addirittura dell’intimo, al punto che i mattini grigi della tolleranza paiono aver precorso un’epoca notturna di godimento eccessivo e mortifero rappresentato alla piena luce del giorno (e c’è da chiedersi se non sia questo un possibile sviluppo degli scenari apocalittici immaginati da Pasolini in Salò, forse più di una biografia della nazione). Dall’altro lato, se il rapporto sessualità-potere assume nuove configurazioni, ciò non è neutro per i destini delle democrazie, poiché le forme della nuova razionalità economica e politica non possono che mirare alla ricostruzione eteronoma dell’affettività, facendo sempre più presa sulla “vita”. Il biopotere ha certo bisogno della frammentazione e della disunione (dei soggetti, dei corpi, dei desideri), ma è esso stesso che ricostruisce funzionalmente i nessi e le relazioni. Di questa scomposizione e ricomposizione le giovani generazioni (e in esse ciascuno per sé, consegnato alla propria solitudine) stanno facendo, sul proprio corpo, un’esperienza drammatica 56


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e sradicante. Forse fino al punto che l’affermazione pasoliniana secondo la quale il coito è politico, appare oggi tanto più vera sotto il profilo diagnostico quanto effettualmente priva di rilevanza sotto quello dei costumi e della morale sessuale. [R.K.] Come nascono i bambini? Li porta la cicogna, da un fiore, li manda il buon dio, o arrivano con lo zio calabrese. Guardate il volto di questi ragazzini, invece: non danno affatto l’impressione di credere a ciò che dicono. Con sorrisi, silenzi, un tono lontano, sguardi che fuggono a destra e sinistra, le risposte a tali domande da adulti possiedono una perfida docilità; affermano il diritto di tenere per sé ciò che si preferisce sussurrare. Dire “la cicogna” è un modo per prendersi gioco dei grandi, per rendergli la loro stessa moneta falsa; è il segno ironico e impaziente del fatto che il problema non avanzerà di un solo passo, che gli adulti sono indiscreti, che non entreranno a far parte del cerchio, e che il bambino continuerà a raccontarsi da solo il “resto”. Così comincia il film di Pasolini. Enquête sur la sexualité (Inchiesta sulla sessualità) è una traduzione assai strana per Comizi d’amore: comizi, riunioni o forse dibattiti d’amore. È il gioco millenario del “banchetto”, ma a cielo aperto sulle spiagge e sui ponti, all’angolo delle strade, con bambini che giocano a palla, con ragazzi che gironzolano, con donne che si annoiano al mare, con prostitute che attendono il cliente su un viale, o con operai che escono dalla fabbrica. Molto distanti dal confessionale, molto distanti anche da quelle inchieste in cui, con la garanzia della discrezione, si indagano i segreti più intimi, queste sono delle Interviste di strada sull’amore. Dopo tutto, la strada è la forma più spontanea di convivialità mediterranea. Al gruppo che passeggia o prende il sole, Pasolini tende il suo microfono come di sfuggita: all’improvviso fa una domanda sull’“amore”, su quel terreno incerto in cui si incrociano il sesso, la coppia, il piacere, la famiglia, il fidanzamento con i suoi costumi, la prostituzione con le sue tariffe. Qualcuno si decide, 57


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Che cos’è uno scritto corsaro? PIER ALDO ROVATTI

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on “scritti corsari” si intende, per indicazione stessa di Pier Paolo Pasolini, un gruppo di interventi giornalistici pubblicati dal gennaio 1973 al febbraio 1975 soprattutto sul “Corriere della Sera”, e che affrontano temi di attualità politica, sociale e culturale. Come è noto, questi articoli hanno lasciato una traccia profonda nella coscienza dei contemporanei e ancora oggi segnano la paradossale “inattualità” di Pasolini, se non altro perché contengono la sua famosa denuncia della trasformazione della società capitalistica in un dispositivo di Potere omologante. Ricordo che gli effetti di tale trasformazione sarebbero addirittura quelli di una “mutazione antropologica” di tutti gli individui, ormai appiattiti dal consumismo generalizzato. Nelle osservazioni che farò qui di seguito vorrei aggiungere qualcosa, al molto già detto, a proposito di entrambe le parole, “scritti” e “corsari”. Si tratta di articoli di giornale, un genere che attraversa da cima a fondo l’attività di Pasolini, fin dagli anni di Casarsa, certo con variazioni anche consistenti. È pur vero che diventano, in ultimo, un genere nel genere, e acquistano una specificità particolare per il loro contenuto, ma non solo per quello (ecco il punto che mi interessa sottolineare). Se Pasolini, inoltre, li chiama “scritti”, in modo apparentemente vago e generale, siamo a nostra volta autorizzati ad allargare lo sguardo e a dire che, al di là delle forme di scrittura, questi brevi testi, rivolti a un pubblico molto largo (il pubblico del maggiore quoti60

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diano italiano), e dunque massimamente “politici” nel loro obiettivo, condividono con tutti gli altri testi pasoliniani un elemento comune, una cifra che è propria alla sua “arte”. Per avvicinarci a tale cifra dobbiamo allora chiamare in causa l’aggettivo “corsari” e cercare di interrogarne il senso. “Corsari” significa certo impertinenti e trasgressivi, che debordano dalle pertinenze del genere letterario e dalle regole ispirate alle convenzioni culturali. Oppure: che indossano l’abito severo dell’invettiva e della lucida predicazione, lanciando bordate contro i mali incurabili di un’Italia ormai precipitata nella miseria morale e intellettuale. È un fatto che da allora non si sono più lette sui nostri giornali parole così acuminate, nonostante questa miseria italiana (che oggi chiamiamo “anomalia”) sia considerevolmente cresciuta, e nonostante l’impegno di molti valenti (e anche valentissimi) corsivisti che per fortuna non mancano. (A loro manca Pasolini? Direi proprio di sì, e si può facilmente documentarlo.) Occorre, però, aggiungere che il carattere “corsaro” non si esaurisce con l’impertinenza e l’invettiva. C’è evidentemente dell’altro, e, comunque mettiamo le cose, tale resto (così pasoliniano) gira attorno a un diverso fuoco, al quale conviene comunque il nome, pur incerto, di “poesia”. Qui, però, è necessario scavare un poco per tentare di uscire dal circuito dell’ovvietà, per fare emergere almeno il rapporto tra carattere “corsaro” e “corpo” di Pasolini stesso, scena di un’esistenza individuale drammaticamente vissuta. Ci torneremo tra un momento: per ora, basti la considerazione netta che se togliamo la “poesia” dai suoi corsivi “corsari”, di essi resterebbe solo una sequenza di temi polemici sostenuti da una “retorica” molto combattiva, temi che possono essere trattati (e anche certo criticati, come si è fatto) nella loro cosiddetta “oggettività”, cioè come indicatori sociologici della realtà italiana di allora. Come ovviare a questa quasi automatica scissione tra forma e contenuto? Farò solo un paio di autorevoli esempi. Prendiamo la prefazione di Alfonso Berardinelli all’edizione Garzanti degli Scritti corsari: la si definisce “una saggistica politica di emergen61


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za”, “un’ideologia ‘vocale’ a braccio”, “un intellettualismo spoglio” dove “tutto è in piena luce”, “disperatamente e rigorosamente”. Vengono di conseguenza evidenziati gli elementi stilistici della “requisitoria”, della “forza dell’iterazione”, della “grande oratoria di accusa e autodifesa di un poeta”. Notazioni di indubbia perspicuità, certo vere e utili come chiave di lettura per entrare in una prosa così inabituale proprio nel suo essere spalancata dinnanzi a noi. Vere, ma non esaurienti poiché la materia trattata da Pasolini è così calda da rifiutarsi a una legittimazione formale per quanto giusta e acuta. Prendo, allora, come secondo riferimento quanto ha detto e scritto recentemente Georges Didi-Huberman, uno dei pensatori francesi oggi più ascoltati, il quale ha dedicato a Pasolini buona parte del suo ultimo corso parigino e pubblica adesso il libro Survivance des lucioles.1 Come è esplicito, il riferimento è al famoso articolo sulle lucciole, forse il più noto tra gli scritti corsari di Pasolini, uscito il 1° febbraio 1975 sul “Corriere della Sera”. Più specificamente, Didi-Huberman ha sintetizzato il suo punto di vista in una conferenza tenuta a Mantova nel settembre 2009,2 nella quale è un “filosofo” che parla leggendo il testo di Pasolini proprio come se le sue parole si componessero in un discorso filosofico. Le “lucciole” non sono scomparse davvero – dice – e se qualcosa è sparito è la nostra capacità di vederle. Siamo noi che siamo diventati ciechi, o lo stiamo via via diventando, al punto che la “luce minore”, che malgrado tutto sussiste pur annichilita dalla luce accecante e potentissima dei riflettori, non arriva più ai nostri occhi. Sono così i nostri occhi a essersi offuscati, a non essere più capaci di distinguere i “segni dell’innocenza” nella notte dove essi ancora vivono, danzano e amano. Didi-Huberman prende dunque lo scritto corsaro per eccellenza di Pasolini come un segmento di pensiero: non gli interessa

1. Cfr. G. Didi-Huberman, Survivance des lucioles, Minuit, Paris 2009. In proposito cfr. anche le considerazioni di Raoul Kirchmayr in questo stesso fascicolo di “aut aut”. 2. Cfr. G. Didi-Huberman, Le lucciole di Pasolini non sono scomparse, “la Repubblica”, 16 settembre 2009 (testo parziale).

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Pasolini e i segni DAMIANO CANTONE

Se fossimo immortali saremmo immorali, perché il nostro esempio non avrebbe mai fine, quindi sarebbe indecifrabile, eternamente sospeso e ambiguo. Pier Paolo Pasolini

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l titolo di questo articolo rinvia a un libro importante di Gilles Deleuze, Marcel Proust e i segni, nel quale il filosofo francese offre un’interpretazione di Alla ricerca del tempo perduto ormai divenuta classica. Secondo Deleuze, Proust interpreta la realtà come fosse un sistema di segni complesso, articolato in quattro categorie: segni sociali, affettivi, sensibili, artistici. Essi sono strutturati in modo gerarchico, nel senso che è necessario compiere un percorso di apprendimento per tappe successive, affinché la realtà, nella sua verità, si riveli al fondo del quarto tipo di segni, quello artistico. Il protagonista della Ricerca deve infatti “perdere il suo tempo” in un necessario apprendistato per familiarizzarsi con essi, deve percorrere una lunga serie di détours, fronteggiare numerose delusioni, per approdare infine alla rivelazione del suo “tempo ritrovato”. I percorsi temporali messi in moto dall’incontro con i segni non sono mai omogenei o rettilinei, si intrecciano fra loro e si diramano, facendo sì che spesso quello che sembra un guadagno su una linea si riveli essere un regresso su un’altra. Proust dunque, agli occhi di Deleuze, è una sorta di “egittologo”,1 che continua incessantemente la sua opera di scavo del significato dei segni, per portare alla luce porzioni sempre più ampie di verità. Ho scelto questo riferimento perché mi permette di entrare 1. G. Deleuze, Marcel Proust e i segni (1964), Einaudi, Torino 2001, p. 6.

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nel discorso pasoliniano attraverso un ingresso non certo secondario ma relativamente poco praticato. Il problema del segno in Pasolini ha infatti una serie di rimandi immediati così importanti, legati soprattutto alle teorie semiologiche raccolte in Empirismo eretico, che spesso mi sembra rimangano nascosti dei percorsi possibili, all’interno della sua complessa e composita opera. Riproporre, come ipotesi di un lavoro che non può esaurirsi in questo articolo, un approccio di questo tipo a Pasolini presenta una serie di vantaggi. Innanzitutto possiamo prendere sul serio l’ipotesi pasoliniana di considerare il cinema come “lingua scritta della realtà”, ovvero, ribaltando i termini della questione, pensare la realtà come un tutto che si esprime attraverso immagini cinematografiche. Come corollario, comprendiamo meglio l’interesse di Deleuze per l’operazione semiotica di Pasolini, della quale in L’immagine-movimento e L’immagine-tempo, le due monografie concepite come una “tassonomia delle immagini e dei segni”2 del cinema, riprende anche alcuni termini.3 Inoltre, su questa base possiamo interpretare diversamente anche il rapporto fra Pasolini e la televisione, partendo da quelle che sono le premesse teoriche del suo lavoro piuttosto che dalle motivazioni sociali e politiche che lo spingono a scagliarsi con violenza contro un mezzo di comunicazione con il quale pure, a più riprese, come recentemente ha sottolineato la critica pasoliniana,4 non ha disdegnato di lavorare. Pasolini non compie, come pure spesso gli viene rimproverato, una critica della società di massa e dei mass media dal sapore nostalgico e conservatore. Se così fosse, non capiremmo perché non estenda la sua critica a tutti i mass media, compreso il cinema. Di certo non può aver sottovalutato come sia stato proprio il cinema a essere utilizzato 2. Id., L’immagine-movimento (1983), Ubulibri, Milano 1984, p. 11. 3. Andrebbe proposto, sul tema dei segni nel cinema, un confronto fra la filosofia del cinema di Deleuze e quella di Pasolini, operazione cui lo stesso filosofo francese accenna proponendo un avvicinamento fra Pasolini e Pierce in L’immagine-tempo. 4. Si vedano per esempio gli interventi di Italo Moscati e Roberto Voglino negli atti del convegno Pasolini e la televisione, del 20-21 novembre 2009, svoltosi a Casarsa della Delizia (di prossima pubblicazione).

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come strumento principale di propaganda da tutti i regimi dispotici del Novecento, dal nazismo al fascismo, al comunismo russo. E ovviamente, anche ai suoi tempi, il cinema di Hollywood imponeva icone, costumi, stili di comportamento sessuali ecc. molto forti ed efficaci. La mia ipotesi è che televisione e cinema, per Pasolini, intrattengano una relazione profondamente diversa con i segni della realtà. D’altra parte, per tornare allo spunto iniziale, mi sembra che in Pasolini il problema del segno sia ancora più radicale e più consapevole che in Proust. Più radicale perché per Pasolini tutta la realtà può essere letta come un sistema di segni, da quelli complessi antropologici (i segni della famosa “mutazione antropologica”) a quelli più semplici costituiti dai singoli oggetti, considerati da Pasolini elementi minimi di una lingua universale visiva; nel sistema di segni che Deleuze individua in Proust, invece, ogni segno per essere tale necessita di un minimo di mediazione sociale (i segni mondani e quelli amorosi) o soggettiva (i segni della memoria) o di entrambe (i segni dell’arte). Proprio per la radicalità del suo assunto fondamentale, l’approccio semiotico pasoliniano non ha mai incontrato il favore degli addetti ai lavori, che hanno trovato un tale tentativo “di singolare ingenuità”.5 Più consapevole perché è lo stesso Pasolini, in Empirismo eretico, a tentare una grandiosa semiotica del cinema come “lingua scritta della realtà”, come se il cinema, prima ancora di esistere come mezzo tecnico di espressione, esistesse come “codice dei codici”6 linguistici, una specie di ur-codice7 universale che da sempre usiamo senza saperlo e che solo con l’invenzione del cinema abbiamo potuto considerare come oggetto di riflessione critica. Il tratto che invece accomuna l’approccio ai segni di Proust e di Pasolini risiede nel loro sottolineare con for5. L’espressione, ripresa dallo stesso Pasolini in Il codice dei codici, è di Eco. È importante sottolineare la contrapposizione con la semiotica di scuola francese – in particolare con Metz – che caratterizza tutto Empirismo eretico. 6. Si veda per esempio il saggio omonimo contenuto in Empirismo eretico, Garzanti, Milano 1995, pp. 277-285. 7. G. Deleuze, Immagine-tempo (1985), Ubulibri, Milano 1989, p. 41.

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L’ingombrante fantasma. Le ragioni di Pasolini MASSIMILIANO ROVERETTO

È stato quando mi sono fatto inculare da degli arabi che ho compreso l’importanza della rivoluzione algerina. Jean Genet I soi restàt cun dut, e doma sensa il pí gran ingiàn chel ch’al pareva la razòn dal vivi me e dal mond. Pier Paolo Pasolini

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ome ben sanno i bambini, il fantasma è innanzitutto lo spettro, il morto che, facendo ritorno dall’aldilà cui sarebbe dovuto restare confinato, porta nel mondo dei vivi – nel bene o nel male – un certo scompiglio. Ed è precisamente in questo senso che Enzo Golino, nel passare in rassegna i numerosi contributi apparsi in occasione del ventennale della morte di Pasolini, aveva a suo tempo denunciato la difficoltà di ascoltarne e giudicarne l’opera “senza l’assillo dell’ingombrante fantasma” costituito dalla presenza, che vi si trova inscritta a chiare lettere, del suo autore.1 Ma il fantasma è anche, nel linguaggio psicanalitico, il prodotto dell’attività immaginativa in generale, o, più precisamente, uno “scenario immaginario in cui è presente il soggetto e che raffigura, in modo più o meno deformato dai processi difensivi, l’appagamento di un desiderio e, in ultima analisi, di un desiderio inconscio”.2 Che l’opera di Pasolini sia abitata da un fantasma anche in questo secondo senso, non è certo un’osservazione inedita. La posizione di Franco Fortini, il quale gli imputava di 1. Cfr. E. Golino, Tra lucciole e palazzo. Il mito di Pasolini dentro la realtà, Sellerio, Palermo 1995, p. 18. 2. J. Laplanche, J.-B. Pontalis, Enciclopedia della psicoanalisi (1967), a cura di L. Mecacci e C. Puca, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 180.

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“confondere il culo con le Quarant’ore”,3 non era isolata né destinata a restare senza seguito.4 Quasi che dietro l’immagine, comprensiva peraltro dell’elemento dello scandalo, che Pasolini seppe costruire di se stesso come intellettuale, si celasse una realtà, quella dell’uomo, pronta a fagocitarla, inficiandone in tal modo non soltanto la valenza più propriamente estetica ma anche – come pure è stato notato – quella noetica.5 Del resto, se a Moravia, che gli obiettava come le sue posizioni sull’aborto non fossero prive di rapporti con la sua omosessualità, Pasolini ribatteva come questa fosse la sua “privata tragedia”, sulla quale era “un po’ ingeneroso fondare delle illazioni ideologiche”, era d’altra parte lui stesso a ricordare all’amico come la libertà sessuale propagandata dal progressismo avesse a che vedere con un “cataclisma antropologico” da lui vissuto, a differenza dello scrittore romano, “esistenzialmente”: “Nei miei giorni, nelle forme della mia esistenza, nel mio corpo”.6 Di modo che, a fronte di un presente che sembrerebbe avere da ultimo pienamente realizzato le più pessimistiche e cupe visioni del poeta corsaro, si sarebbe tentati di semplicemente rovesciare il giudizio, per sostenere che, lungi dall’offuscare la percezione che Pasolini ebbe della realtà del suo tempo, i suoi personali fantasmi l’avrebbero resa più acuta, conferendogli il dono di una certa preveggenza. A meno che l’opposizione di realtà 3. Cfr. E. Siciliano, Vita di Pasolini, Mondadori, Milano 2005, pp. 229-230, dove si trova riportato il seguente passaggio di una lettera da Fortini inviata a Pasolini il 1° maggio del 1959: “Si fa un inutile package delle nostre opinioni estetico-critiche, della qualità dei nostri versi, della vita privata di Pasolini, di Bompiani, di ‘Officina’, del papa, confondendo, mai è stato tanto il caso di dirlo, il culo con le Quarant’ore, come dicono a Firenze. È mia opinione che il primo a voler tenere distinte queste diverse cose dovresti essere tu. Tu sei braccato, perseguitato e oltraggiato, e capisco le tue reazioni; ma accettare i termini degli avversari vuol dire farsene complici”. 4. Ancora nel 1995, per esempio, nel suo contributo alla sezione monografica dedicata a Pasolini dalla rivista “MicroMega” in occasione della ricorrenza di cui sopra (cfr. E. Sanguineti, Radicalismo e patologia, “MicroMega”, 4, 1995, pp. 213-220), Edoardo Sanguineti affermava che l’ultima produzione di Pasolini non farebbe che testimoniare di una disperazione affatto privata. 5. Cfr. C. Benedetti, Pasolini contro Calvino. Per una letteratura impura, Bollati Boringhieri, Torino 1998 (in particolare le pp. 32-33). 6. P.P. Pasolini, “Sacer”, in Scritti corsari (1975), Garzanti, Milano 2008, p. 107.

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e fantasma non sia tale da occultarne un’altra, in cui sarebbe piuttosto questione di un’oscillazione tra l’una e l’altra delle dimensioni costitutive del fantasma stesso: quella propriamente immaginaria, in cui ciò che potremmo chiamare con Jacques Lacan l’oggetto causa del desiderio funge al contempo da supporto per l’identificazione del soggetto; e quella rappresentata dal punto cieco, dal buco attorno al quale l’altra si struttura, delimitando in tal modo il bordo di un reale né soggettivo né oggettivo, la cui istanza verrebbe a prodursi in corrispondenza della caduta del fantasma stesso e delle identificazioni su di esso fondate. Ciò di cui – mi sembra – il percorso intellettuale e umano di Pasolini ci fornisce un importante campione attraverso l’emergere, nei suoi ultimi anni di vita, di un nuovo atteggiamento, contrassegnato dall’abiura di quelle figure dell’alterità nel cui nome, mediante la giustificazione garantitagli dall’ideologia, egli aveva fino ad allora cercato di riscattare la propria diversità. Una diversità che è tuttavia anche la nostra, in quanto soggetti ugualmente barrati. La mutazione antropologica e la lingua dei sogni Dapprima incontrato nelle borgate romane, l’altro sarebbe più tardi venuto a essere, per Pasolini, l’oggetto di un compianto. Tornando, a distanza di qualche anno, sugli “appunti in versi per una poesia in prosa” ispiratigli, nel 1968, dalla battaglia di Villa Giulia, in cui studenti e forze dell’ordine si erano a lungo affrontati, Pasolini aveva per esempio affermato che la generazione dei contestatori sarebbe stata l’ultima a vedere “degli operai e dei contadini”, laddove quella successiva non avrebbe conosciuto altra forma di vita che quella della borghesia neocapitalistica, nel frattempo divenuta universale. Per “chi è nato in questa entropia”, aveva precisato, “non è in alcun modo possibile, metafisicamente, esserne fuori”.7 Come meravigliarsi, allora, che quei “giovani infelici” condividessero con i loro padri la 7. Cfr. Id., Il PCI ai giovani!! (Appunti in versi per una poesia in prosa seguiti da una “Apologia”), in Empirismo eretico (1972), Garzanti, Milano 1991, p. 158.

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L’innocenza del potere. Una riflessione su “Petrolio” MASSIMILIANO NICOLI

Da “Scritti corsari” a “Petrolio” Nell’ultima parte di Scritti corsari, nella sezione “Documenti e allegati”, Pasolini include la trascrizione, realizzata dalla redazione di “Rinascita”, di un suo intervento alla Festa dell’Unità di Milano, nell’estate del 1974. Il testo, “ripetitivo e ostinato” secondo Pasolini stesso, è pubblicato con il titolo Il genocidio.1 In quella occasione, Pasolini prende la parola dopo Giorgio Napolitano, ed esordisce ammettendo subito la tonalità “molto più pessimistica, più acremente e dolorosamente critica” delle sue tesi rispetto a quelle di chi lo ha preceduto. Inoltre premette che, dovendo trattare una materia non letteraria, ed essendo egli, per “disgrazia o fortuna”, un letterato, il suo discorso potrà incappare in imprecisioni e incertezze terminologiche, tanto più in quanto frutto di un’esperienza – dice – quasi esistenziale più che politica o di professionismo della parola. Dunque, la premessa del suo intervento consiste, oltre che in una dichiarazione di doloroso pessimismo critico, nell’ammissione della propria difficoltà nel trattare un tema che, in quella sede, richiederebbe un codice espressivo non letterario, ma – possiamo supporre – sociologicopolitico. Il tema in questione, infatti, è quello del genocidio, cioè la soppressione di larghe zone della società italiana attraverso un processo di distruzione e di sostituzione di valori, l’assimilazione degli strati sociali proletari e sottoproletari “al modo e alla qua1. P.P. Pasolini, Scritti corsari, Garzanti, Milano 2008, pp. 226-231.

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lità di vita della borghesia”. Il tema è ben noto e ricorre negli Scritti corsari come in molti altri luoghi della produzione pasoliniana: il nuovo potere, il potere dei consumi, attraverso “una sorta di persuasione occulta” che passa soprattutto per il mezzo televisivo, agisce nella profondità delle coscienze individuali omologando culture, valori e stili di vita all’ethos borghese. È ciò che Pasolini chiama “omologazione culturale”, “mutazione antropologica”; un “cataclisma antropologico” che si abbatte sulla società italiana insieme all’avvento del neocapitalismo. Proviamo a sfogliare qualcuno degli articoli raccolti in Scritti corsari: il “centralismo della civiltà dei consumi” riesce dove nessun “centralismo fascista” era riuscito, cioè nell’assimilare a sé un paese originariamente ricco di culture originali e differenziate, nel plasmare, attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e informazione, l’anima del popolo italiano (Acculturazione e acculturazione).2 L’ideologia edonistica del consumo produce un’omologazione culturale che coinvolge tutti, inclusi i giovani neofascisti, privi di un’ideologia propria e culturalmente, psicologicamente, somaticamente indistinguibili dalla maggioranza dei loro coetanei (Studio sulla rivoluzione antropologica in Italia).3 L’avvento del nuovo Potere (con la P maiuscola perché – dice Pasolini – è un potere senza volto e impossibile da identificare in un soggetto preciso: potentato democristiano, Vaticano, apparati militari o grande industria che siano) unifica, riorganizza e omologa brutalmente classi e culture, in nome dell’edonismo, della tolleranza repressiva, dei comandamenti della produzione e del consumo (Il vero fascismo e quindi il vero antifascismo).4 È il potere più violento e totalitario che ci sia mai stato: attraverso il bombardamento ideologico televisivo, il modello unico di vita, edonista e consumista, colonizza le coscienze e le piega a un’ansia di obbedienza e conformismo (Ampliamento del “bozzetto” sulla rivoluzione antropologica in Italia).5 2. Ivi, pp. 22-25. 3. Ivi, pp. 39-44. 4. Ivi, pp. 45-50. 5. Ivi, pp. 56-64.

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Torniamo all’intervento del 1974, Il genocidio. Poco dopo aver introdotto il tema del discorso e aver premesso la difficoltà a regolare la propria parola su un registro non letterario, Pasolini decide di tornare al suo “solito modo di parlare, cioè quello del letterato”. Come nell’Articolo delle lucciole,6 in cui la mutazione antropologica che devasta l’Italia è descritta in termini metaforici e poetici, così qui Pasolini non può fare a meno, a onta della sua stessa premessa, di ricorrere al registro letterario per poter parlare di una materia – l’omologazione culturale come genocidio senza sangue – che egli stesso, tuttavia, definisce non letteraria: Mi spiegherò meglio tornando al mio solito modo di parlare, cioè quello del letterato. In questi giorni sto scrivendo il passo di una mia opera in cui affronto questo tema in modo appunto immaginoso, metaforico: immagino una specie di discesa agli inferi, dove il protagonista, per fare esperienza del genocidio di cui parlavo, percorre la strada principale di una borgata di una grande città meridionale, probabilmente Roma, e gli appare una serie di visioni ciascuna delle quali corrisponde a una delle strade trasversali che sboccano su quella centrale. Ognuna di esse è una specie di bolgia, di girone infernale della Divina Commedia: all’imbocco c’è un determinato modello di vita messo lì di soppiatto dal potere, al quale soprattutto i giovani, e più ancora i ragazzi, che vivono nella strada, si adeguano rapidamente. Essi hanno perduto il loro antico modello di vita, quello che realizzavano vivendo e di cui in qualche modo erano contenti e persino fieri anche se implicava tutte le miserie e i lati negativi che c’erano […]: e adesso cercano di imitare il modello nuovo messo lì dalla classe dominante di nascosto. Naturalmente, io elenco tutta una serie di modelli di comportamento, una quindicina, corrispondenti a dieci gironi e cinque bolgie [sic]. Accennerò, per brevità, solo a tre…7 6. Ivi, pp. 128-134. 7. Ivi, p. 227.

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A partire da “Salò”: corpo, potere e tempo nell’opera di Pasolini GIACOMO MARRAMAO

1. Vi è un codice segreto che attraversa l’intera opera di Pasolini nelle sue molteplici forme espressive e di cui solo Salò – o meglio: il binomio Salò/Sade – sembra fornire la chiave d’accesso. Un codice binario formato dai corni di un dilemma, quasi a costituire un insolubile enigma o un Teorema dell’Impossibile: Storia e Potere, il tempo della storia e il non-tempo del potere. Di qui la difficoltà di comprendere il senso tragico di una produzione pluriversale e multiforme, che viene perfettamente a coincidere con una vicenda biografica: con la vita stessa di Pasolini. Nell’opera pasoliniana, infatti, accade talora che le due cifre del codice si divarichino, dando luogo a un ritmo alterno, che assume la forma di un doppio movimento. Da un lato l’eternità del vincolo che stringe il potere e il corpo. Dall’altro il tempo storico, con i suoi scenari e soggetti sempre nuovi, in mutazione perenne. L’eternità del Potere equivale nella formula pasoliniana alla sua irredimibile assenza di storia. Per questa semplice ma decisiva ragione l’anarchia del potere non produce nessuna vettorialità, nessuna cumulatività o “freccia” del tempo, ma solo una circolarità senza fine che coinvolge in un unico abbraccio vittime e carnefici. Solo muovendo da questa chiave d’accesso è possibile afferIl presente articolo riproduce un intervento inviato dall’autore a un incontro del Centro Studi Pasolini di Casarsa del 20 novembre 2009. Nella seconda parte, il testo riprende temi trattati in appendice alla nuova edizione accresciuta di Potere e secolarizzazione. Le categorie del tempo, Bollati Boringhieri, Torino 2005.

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rare la ragione profonda per la quale Salò assurge a metafora del potere. Riprendendo una frase di Sade in un intervento apparso sul “Corriere d’Informazione” il 30 ottobre 1975, pochi giorni – anzi, poche ore – prima della sua tragica fine, Pasolini afferma che non vi è nulla di più anarchico del potere e che la Repubblica di Salò, incarnando la forma di potere più anarchica che mai si sia data, esprime l’essenziale dismisura del potere nella sua purezza. Nella rappresentazione di Salò/Sade l’atemporalità del vincolo che lega il potere al corpo è declinata nel senso di un dominio veicolato dalle pulsioni e dallo stesso desiderio sessuale. Eloquenti, sotto questo profilo, i rimandi a Klossowski e a Blanchot. Ma si potrebbe aggiungere anche il “corpo suppliziato” della scena di Artaud: spazio di conflitto in cui la violenza e la follia doppiano la violenza e la follia di un mondo reificato, in cui i corpi – avulsi da ogni linguaggio e relazione e divenuti oggetti manipolabili ad arbitrio – vengono massacrati per essere trasformati, rifatti nella loro inappropriata anatomia. La rappresentazione pasoliniana appare così prossima ai concetti di biopotere e di biopolitica introdotti da Michel Foucault nell’ultimo, tormentato scorcio della sua ricerca intellettuale. Il codice binario diviene qui cifra di una lacerazione estrema: da un lato la storia, dove la relazione sessuale è un linguaggio, un sistema di segni che cambia nelle diverse fasi storiche; dall’altro la dimensione astorica del Potere, in cui la sessualità e il corpo, sradicati da ogni rapporto, vengono ridotti a cose. Tra i due lati, tra le due cifre del codice, si dà tuttavia un punto di sutura. Ed è esattamente in questo punto d’intersezione che si colloca l’originale critica della modernità svolta dal Pasolini “corsaro” e militante. Questo nodo nevralgico è rappresentato dal tema – per molti aspetti profetico – della “mutazione antropologica”. Il carattere violento della modernizzazione, sradicando gli individui da ogni legame comunitario, produce una reificazione del corpo esattamente al modo in cui per Wittgenstein il dominio della tecnica produce una reificazione del linguaggio, inteso come mondo-ambiente delle forme-di-vita concrete. Si apre qui 117


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una dieresi insanabile tra autenticità e omologazione, comunità e modernità. Una scissione che può essere colmata solo in due modi, in due direzioni opposte e complementari: o aprendo un varco al miracolo del divino e della Trascendenza (il solo in grado – come dimostra Teorema – di restituirci il carattere relazionale e linguistico della sessualità), oppure con la discesa agli inferi di una “disperata vitalità”. Per cogliere tutte le straordinarie implicazioni della critica pasoliniana della modernità dobbiamo adesso introdurre, nella seconda parte del nostro discorso, un altro tema cruciale: la questione del tempo. Ci soffermeremo, pertanto, sul rapporto che Pasolini istituisce tra due modalità diverse dell’esperienza del tempo: quella pagana e quella cristiana. 2. Nel nostro orizzonte ipermoderno, così marcatamente segnato dalla crisi del futuro e dalla distruzione dell’esperienza, viene nuovamente imponendosi come centrale un tema antico quanto le origini dello “spirito europeo”: la questione dei rapporti tra “tempo pagano” e “tempo cristiano”. Che questo tema resti sotteso a tutta una fascia dell’opera pasoliniana, percorrendola sotterraneamente come un fiume carsico, è una circostanza indiscutibile. Né suscita sorpresa ritrovarlo qua e là nelle pieghe riposte del “Pasolini politico”: dell’impegnato polemista degli ultimi anni. Ciò che invece sorprende è vederlo trattato in pagine rivelatrici – dietro il solito argomentare diretto, lucido e serrato – di una straordinaria competenza filosofica e teologica. Sorpresa doppia, anzi elevata al quadrato, quando ci immergiamo nel contenuto di queste poche, densissime pagine (risalenti a un articolo del 6 ottobre 1974, poi raccolto negli Scritti corsari), abbattendo gli inutili diaframmi delle critiche che si sono addensate attorno all’opera pasoliniana stravolgendone il senso. La rilettura di questa mirabile e intensa digressione sul problema del tempo fa svanire come d’incanto uno dei motivi conduttori che la critica di “buonsenso” ha sparso su Pasolini: quello di un intellettuale ossessionato dai progressi della società industriale perché ingenuo idoleggiatore di una purezza arcaica e 118


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Una storia infame: Pasolini e l’orizzonte temporale occidentale DARIO GIUGLIANO

a Luigi-Alberto Sanchi [...] In ista formosa, quae fecisti, deformis inruebam. Agostino, Confessiones, X, 27, 38

È

tempo di bilanci. Siamo nel marzo del 1973, due anni dall’inizio delle riprese di Salò o le 120 giornate di Sodoma. Pasolini ha compiuto da poco cinquantuno anni e dice che ha “visto passare una vita intera”,1 la sua. “Avevo un futuro che sta cominciando ad essere passato”,2 dichiara subito dopo. Non si deve cadere nell’errore di leggere queste righe come se si trattasse di una confessione personale, delle amareggiate lamentazioni, più o meno narcisistiche, di un singolo; questo per più di un motivo. Primo, la questione della singolarità emerge dalle righe successive di questo scritto-intervista del 1973 ed emerge proprio come momento critico di tutto il discorso. Secondo, il passato a cui fa riferimento Pasolini non si identifica unicamente col vissuto personale, non è un passato che appartiene solo a un singolo, ma è una dimensione che sfugge alla categoria del proprio, della proprietas, dell’appartenenza totale e assoluta di una res privata a un individuo, che ne potrebbe disporre a suo piacimento. Terzo, l’apparente assurdità, diretta conseguenza delle affermazioni contraddittorie sopra riportate,3 lungi dall’essere tale, si motiva a partire, ancor prima che dalla nota cifra stilisti1. P.P. Pasolini, Ideologia e poetica (1973), in Per il cinema, a cura di W. Siti e F. Zabagli, Mondadori, Milano 2001, vol. II, p. 2991. 2. Ibidem. 3. Da un punto di vista logico, plausibilmente, come si può affermare di aver visto passare una vita, essendo ancora in vita e, ancora, come si può affermare che il “proprio” futuro sta cominciando a essere passato?

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ca che vede, nell’utilizzo della figura retorica dell’ossimoro, un momento centrale della poetica pasoliniana, dall’adozione (esplicita o meno, riconosciuta o meno) di un punto di vista esterno al soggetto dichiarante in prima persona. Sarà, infatti, solo a partire da un orizzonte di riferimento, orizzonte di senso, che una simile adozione potrà essere praticata e praticata sul piano di quella posizione filosofico-politica, etica in senso pieno, che interessava a Pasolini, che la definisce “posizione stoica, diciamo, pre-cristiana”.4 Alla luce di una simile posizione, l’esperienza stessa di un passato e pure di un futuro, che si manifesta, che comincia a presentarsi nella forma del passato, rappresenta nient’altro che un’aberrazione. “Adesso, preferisco muovermi nel passato proprio perché ritengo che l’unica forza contestatrice del presente sia proprio il passato: è una forma aberrante ma tutti i valori che sono stati i valori nei quali ci siamo formati, con tutte le loro atrocità, i loro lati negativi, sono quelli che possono mettere in crisi il presente.”5 Questo monumentale discorso di critica dell’esistente, interrottosi troppo presto, ha nel film Salò ciò che la contingenza del delitto ci obbliga a considerare come il suo esito definitivo. Ma critica dell’esistente, in un caso come questo, significa soprattutto critica della ragione storica, di una ragione in particolare, che si è imposta a livello planetario come la Ragione, che interpreta l’oggetto storico in un determinato modo. Questo fa sì che Salò possa essere soprattutto visto come “un film sull’inesistenza della storia, cioè la storia così come è vista dalla cultura eurocentrica (il razionalismo e l’empirismo occidentale da una parte, il marxismo dall’altra) nel film vuole essere dimostrata come inesistente”.6 Che significa voler dimostrare l’inesistenza della storia così come è vista dalla cultura eurocentrica?7 Significa che l’idea stes4. P.P. Pasolini, Ideologia e poetica, cit., p. 2991. 5. Ivi, p. 2995. 6. Id., Il potere e la morte (1975), in Per il cinema, cit., p. 3013. 7. Non semplicemente dalla cultura europea o occidentale, ma da quella cultura che vede nell’Europa il nucleo irriducibile di quel centro di propagazione planetaria costituito dalla civiltà occidentale, vale a dire, ormai, dal mondo nella sua globalità, se potessimo permetterci, qui, di usare con leggerezza un’espressione tanto inflazionata.

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sa di storia come successione ordinata di eventi, legati a singoli individui, la cosiddetta storia evenemenziale, viene a essere sottoposta a una critica irriducibile, tale che ogni scossa, ogni increspatura sulla sua superficie, una volta che il punto d’osservazione abbia visto smisuratamente dilatare il proprio angolo della visuale, finisca per essere riassorbita in un movimento generale, la cui mole mastodontica quasi ne ostacola la percezione. Significa che a quest’idea di storia tradizionale, la storia a cui siamo abituati fin da bambini, quella con cui abbiamo cominciato a familiarizzare a scuola o, ancora prima, per mezzo delle favole, che iniziano con la famosa frase: “C’era una volta”, macchina formulare d’esordio che lega indissolubilmente la possibilità di una narrazione all’evocazione di un passato (nel cui regime questa storia lascia intendere di muoversi in maniera assolutamente esclusiva), ma di un passato che fu presente,8 a questa idea di storia, dicevamo, si sostituirà un’altra idea di storia “quasi immobile, quella dell’uomo nei suoi rapporti con l’ambiente: una storia di lento svolgimento e di lente trasformazioni, fatta spesso di ritorni insistenti, di cicli incessantemente ricominciati”:9 una storia, questa, “quasi fuori del tempo”,10 il cui ritmo, come già detto, è talmente dilatato da risultare impercettibile, “decomponendosi” negli spazi geografici; una storia, dunque, la cui temporalità si metamorfizza nella stessa spazialità geografica e ciò che a questo punto avremo davanti come suo elemento proprio, pur non avendo la possibilità di disporne con i mezzi di una concettualità classica legata all’articolazione delle tre dimensioni del passato-presente-futuro, sarà un oceanico “tempo geografico”.11 Ma facciamo un passo indietro, tornando all’inizio di questo 8. Perché deve essere chiaro che, su un piano meramente cronologico, “soltanto il presente riempie il tempo, passato e futuro sono due dimensioni relative al presente nel tempo” (G. Deleuze, Logica del senso, 1969, trad. di M. de Stefanis, Feltrinelli, Milano 2005, p. 145). 9. F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II (1949), trad. di C. Pischedda, Einaudi, Torino 2002, vol. I, p. XXVII. 10. Ibidem. 11. Ivi, p. XXVIII.

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La vocazione pedagogica di Pasolini ALESSANDRO MARIANI

1. L’insegnante, il maestro, il profeta Tra inquietudine e polimorfismo, irrequietezza e sperimentalismo, marginalità e protagonismo, l’itinerario intellettuale di Pier Paolo Pasolini è stato caratterizzato da una forte e costante vocazione pedagogica, evidente – implicitamente ed esplicitamente – nella sua lectio anomala, singolare e di frontiera, capace di alimentare/coltivare quella coscienza critica e quello spirito del dissenso che restano (oggi) essenziali, esemplari, paradigmatici. Infatti, molteplici aspetti tra loro complementari consentono di realizzare una lettura diacronica e sincronica del congegno pedagogico pasoliniano, annodato attorno ad almeno tre tappe/forme/figure presenti nei suoi scritti dagli anni quaranta fino alla sua tragica morte: l’insegnante, il maestro, il profeta. L’insegnante vicino ai giovani, con il suo “fare scuola” in una scuola intesa come partecipazione, come luogo formativo e comunicativo. Una scuola rinnovata con il recupero dell’arte maieutica contro i “persuasori occulti” e dalla parte dei giovani, ma anche oltre i giovani stessi. Qui risiedono le esperienze didattiche di Pasolini: a San Giovanni, a Casarsa e a Versuta (nel pieno della guerra), a Valvasone (tra il 1947 e il 1949) e a Ciampino (dal 1951 al 1954). Un insegnamento per una “scuola senza feticci”, secondo il “mito della redenzione sociale” e contro l’“omologazione culturale”: “lievitare” e “liberare”, questo è il duplice ruolo del maestro socratico e del maestro di strada (coaut aut, 345, 2010, 133-144

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me accade in Una vita violenta, del 1959, e in Accattone, del 1961). La scuola, per Pasolini, è chiamata a emancipare lo studente dalle cristallizzazioni dell’autorità e dai condizionamenti ideologici, ponendolo in uno stato d’animo critico e polemico nei confronti dell’insegnante, dell’esistenza e della società. Secondo quanto Pasolini sostiene in un articolo del 1947, La scuola senza feticci: È dimostrabile che il ragazzo fin dai primi momenti debba acquistare coscienza non solo della propria eccezionalità ma anche di quella degli altri, venendo così a porsi nei confronti della esistenza in uno stato d’animo critico e polemico. Anzi la critica dovrebbe essere la prima cosa da coltivare in un ragazzo, anche se questo dovesse costare la caduta di un’infinità di idoli: primo idolo da far cadere è l’insegnante stesso, il quale dovrebbe così mostrarsi al suo scolaro con tutta la sua umanità immediata e quasi informe, tenendosi il più possibile lontano da quella rappresentativa carica di convenzione a cui la maggior parte degli insegnanti tende ad approssimarsi. […] Ma come suscitare nel ragazzo il gusto della critica e provocare la caduta degli idoli? Evidentemente immettendolo in un clima di scandalo e di incertezza, in cui le cose “eterne” non siano quelle imparate a memoria, ma quelle che più somigliano alle vocazioni che sono in lui (per esempio, quelle che gli si presentano mentre gioca): la passione a creare, la curiosità, l’impulso a impadronirsi… È ciò che poi si trasforma nella cosiddetta “virtù premio a se stessa”, ossia in passione autosufficiente. Del resto in tal modo resta delineato lo scopo dell’educazione che è creazione di una cultura.1 Il maestro degli alunni, degli amici, dei lettori e dei dialoghi sulle rubriche. Come pure l’immagine dei giovani resa pubblica at1. P.P. Pasolini, Scuola senza feticci, in Tutte le opere. Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori, Milano 1999, pp. 56-57.

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traverso i romanzi, le Lettere luterane (pubblicate nel 1976), il mito del mentore: si pensi al corvo in Uccellacci e uccellini (del 1966), al messaggero in Edipo re (del 1967), all’angelo in Teorema (del 1968), al centauro in Medea (del 1970). Pasolini, dunque, come maestro naturaliter che si pone come mezzo (e non come fine) del processo educativo attraverso quell’eros che sottende alla relazione educativa e che si caratterizza come un dispositivo pedagogico che ritroviamo da Socrate a Jean-Jacques Rousseau, su su fino a Donatien-Alphonse-François de Sade e a René Schérer. Nelle sue pagine autobiografiche, Dal diario di un insegnante (del 1948) firmate con lo pseudonimo di Erasmo Colùs, Pasolini scrive: Non apprezzavo molto la mia idea di didattica; in quanto “idea” era stata un pretesto, e lo sapevo bene. La considerazione che feci, esercitando una specie di esame à rebours, fu questa: durante tutta la mia spiegazione mi comportai – in parte inconsciamente – in modo che essi non si accorgessero del mio gioco, forse per quella discrezione e quel ritegno che non mi abbandonano mai, e poi perché mi sembrava che fosse umiliante per loro colpirli così alle spalle, sfruttare la loro credulità, la loro disponibilità. Ma c’era anche una terza ragione: la mia passione pedagogica non avrebbe avuto più senso se avesse richiamato su di sé l’interesse dei ragazzi, se non fosse stata puro e impersonale veicolo di insegnamento! Ed ecco che fui illuminato improvvisamente. Capii che erravo credendo che il nostro rapporto dovesse essere un rapporto di reciproco amore: no, io dovevo mettermi in disparte, ignorarmi, dovevo essere mezzo, non già fine, d’amore.2 Il profeta, con l’appello civile e la critica alla civiltà attraverso la denuncia del politico, con la parola pronunciata senza ti2. Id., Dal diario di un insegnante, in Tutte le opere. Romanzi e racconti, Mondadori, Milano 1998, vol. I, p. 1337.

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L’esteriorità cinese, ovvero come fare lavorare gli scarti culturali per una intelligenza comune FRANÇOIS JULLIEN

1. La Cina come altrove La Cina costituisce un’esteriorità particolarmente spiccata nei confronti della cultura europea. Esteriorità della lingua: il cinese non appartiene al grande insieme indo-europeo (diversamente dal sanscrito che comunica con le nostre lingue europee); e, se altre lingue hanno avuto una scrittura ideografica, soltanto il cinese l’ha conservata. Esteriorità della Storia: anche se ravvisiamo qualche raro scambio, avvenuto indirettamente (attraverso la Via della seta) in epoca romana, i due bordi del grande continente entrano effettivamente in contatto – dopo il viaggio via terra di Marco Polo – soltanto nella seconda metà del XVI secolo, quando le missioni di evangelizzazione sbarcano in Cina: Matteo Ricci; e iniziano realmente a comunicare soltanto nella seconda metà del XIX secolo, con la Guerra dell’oppio e l’apertura forzata dei porti cinesi, con l’Europa che si accinge ormai, trionfante grazie alla scienza, a colonizzare la Cina con la forza e non più con la fede. Il mondo arabo stesso, in confronto, avendo tradotto e trasmesso all’Europa così tanti testi greci (i testi medici, Aristotele…), ci appare Intervento presentato al Convegno Internazionale La Cina e l’Occidente oggi. Lezioni da Matteo Ricci, organizzato dalla Fondazione Giorgio Cini, Venezia, 27-29 maggio 2009. Ringraziamo l’autore e Pasquale Gagliardi (Segretario Generale della Fondazione) per l’autorizzazione a pubblicare questo testo in prima edizione, come anticipazione del volume che accoglierà i contributi al Convegno di storici, economisti, politici e imprenditori (occidentali e cinesi), in preparazione a cura di Michela Fontana.

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più occidentale. Tommaso d’Aquino si ispirerà ad Averroè, il monoteismo islamico fa gruppo con i precedenti; e i primi lineamenti della figura dell’intellettuale europeo risalgono all’Andalusia. Al tempo stesso in cui rappresenta, per l’Europa, la cultura più chiaramente esteriore alla propria, la Cina, come sappiamo, è comparabile a essa sia per la sua antichità sia per il suo sviluppo. È per questo che ho scelto il “campo” cinese, come direbbero gli antropologi; ma proprio in quanto volevo diventare filosofo, e non antropologo, avevo bisogno di lavorare su un pensiero pensato [réflechie] – testualizzato, commentato, esplicitato – allo stesso modo del nostro in Europa: cosa che si può trovare soltanto in Cina (il Giappone stesso non rappresenta un caso completamente a parte, poiché ha subito l’influsso cinese). Notate che dico esteriorità e non alterità: l’esteriorità è data dalla geografia, dalla storia, dalla lingua – la si constata; mentre l’alterità, se ce n’è una, la si deve costruire. La Cina è “altrove”: ma in che misura è “altra”? Si tratta di quel che Foucault chiamava, alla lettera, all’inizio di Le parole e le cose, l’“eterotopia” della Cina, distinta dall’utopia; e ricordiamoci della pagina successiva: “le utopie rassicurano”, “le eterotopie inquietano”… 2. Risorse dell’eterotopia In altre parole, la difficoltà incontrata non riguarda tanto la differenza del pensiero dell’Estremo Oriente rispetto a quello europeo, quanto l’indifferenza che mostrano tradizionalmente l’uno per l’altro. La prima cosa da fare, che richiede un’operazione di montaggio, e non è mai conclusa, è quindi riuscire a sottrarli a questa indifferenza reciproca ponendoli faccia a faccia, in modo che possano scrutarsi l’un l’altro. È questo cambiamento di quadro che pertanto dà da pensare, di per sé. Ed equivale a chiedersi: che cosa avviene al pensiero se, uscendo dalla grande famiglia indoeuropea, si interrompono di colpo i rapporti di parentela linguistica, se non si può più fare affidamento sul semantismo né risalire nell’etimologia, e se si rompe con gli effetti sintattici ai quali il nostro pensiero si è abituato – sui quali si è 146


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adagiato? Oppure che cosa accade al pensiero se, uscendo dalla nostra storia (quella del mondo “occidentale”), si rompe contemporaneamente con la storia della filosofia, e se non si può più riposare sulla derivazione delle nozioni o delle dottrine – a cui il nostro spirito si è appoggiato? Allo stesso tempo, come ho detto, in Estremo Oriente abbiamo a che fare con un pensiero consistente, esplicitato; ed è per questo che il cambiamento di quadro dà da pensare. Perché, contrariamente a quanto sostiene la storia (occidentale) della filosofia (da Hegel in poi ma, invertendo i termini hegeliani, Deleuze, dopo Merleau-Ponty, lo dice ancora), l’Estremo Oriente non è rimasto allo stadio del “pre-filosofico”: ha inventato i suoi contrassegni di astrazione, ha conosciuto una varietà di scuole (fin dall’antichità cinese, nello scenario di principati rivali, non di città-stato). Non è, quindi, rimasto nell’infanzia della filosofia, ma ha sfruttato altre fonti di intelligibilità. 3. Il vantaggio della deviazione – il ritorno Il vantaggio di questa deviazione per la Cina è duplice. In primo luogo, consente di scoprire altri modi possibili di coerenza, ciò che chiamerei altre intelligibilità; e, per ciò stesso, di sondare fin dove può arrivare lo spaesamento del pensiero. Ma questa deviazione implica anche un ritorno: partendo da questo punto di vista di esteriorità, si tratta di ritornare sui partiti presi in base ai quali si è sviluppata la ragione europea – che sono nascosti, non esplicitati, e che il pensiero europeo, avendoli talmente assimilati, veicola ormai come un’evidenza e sui quali ha prosperato. L’obiettivo, quindi, è di risalire nell’impensato del pensiero, (sor)prendendo la ragione europea alle spalle a partire da questo punto di vista di esteriorità. Al tempo stesso, l’obiettivo è di uscire dalla contingenza del proprio spirito (passando attraverso la prova di un altro quadro di pensiero); e di esplicitare il “noi” (non solo quello dell’ideologia, ma anche quello delle categorie della lingua e del pensiero) che è sempre implicitamente all’opera in questo “io” che così superbamente dice: “io penso”… 147


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L’in-scrivibilità della scomparsa (di Georges Perec) MARCO GALATI GARRITTO

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n che modo può avere senso parlare del ricomparire di ciò che scompare? Si dovrebbe ammettere di principio che la scomparsa non sia definitiva, o totale, e perciò non sia mai propriamente scomparsa, dissimulando così una dimensione di assenza (e presenza) piena. O almeno predisporsi a questa possibilità. Lo si può fare cogliendo uno spunto editoriale: nel 2007 Guida ristampa il capolavoro oulipiano di Georges Perec. E ricompare La scomparsa.1 Si ripresenta Perec direttamente, lo si sorprende ad allineare parole; ricompare a comporre e ripercorre la pagina, la spiazializza e si spazializza in essa. Il come di questa spazializzazione si trova in tutte le sue produzioni, tutte di derivazione oulipiana:2 poesie composte da undici versi di undici lettere ciascuno, o frasi che si guardano allo specchio fino a generare un palindromo di oltre cinquemila let1. G. Perec, La scomparsa (1969), trad. di P. Falchetta, Guida, Napoli 2007 (titolo originale: La disparition). La traduzione introduce il problema della differenza tra sparizione e scomparsa: se sparizione avrebbe potuto far pensare a un’azione in fase di svolgimento, non totalizzata, scomparsa si rifà a qualcosa che è già stato completato. Tuttavia il termine sparizione non avrebbe potuto essere utilizzato in quanto contenente la lettera “e”, lettera completamente inibita nell’opera di Perec (è “lei” che scompare) e conseguentemente nella traduzione di Piero Falchetta. 2. L’adesione da parte di Perec all’OuLiPo (Ouvroir de Littérature Potentielle) contaminerà tutte le sue opere successive, comprese quelle più strettamente letterarie. Si veda a questo riguardo Note su ciò che cerco, in G. Perec, Pensare/Classificare (1985), trad. di S. Pautasso, Rizzoli, Milano 1989, pp. 9-10.

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tere, tendono a svelare le regole di un gioco in cui chi gioca sa di appartenervi. Sa di esserci e di essere giocato da questo. Ma non solo: Perec sceglie di essere giocato illudendosi che le infinite possibilità combinatorie (di lettere e di senso) vengano eluse; il campo sarebbe conchiuso, il gioco finito, una matrice prestabilita comprenderebbe tutto ciò che può accadere (potenzialmente). Preoccupazione ingiustificata, se non si avvertisse che all’infinita possibilità combinatoria delle lettere corrispondono altrettanti sensi dei fatti della vita “reale”. Da qui la necessità di contraintes sempre più rigide, che fanno delle sue opere esercizi di stile atti a confessare la propria agorafobia.3 Harry Mathews, scrittore amico di Perec, propone a questa direzione il suggerimento più prezioso: “Même s’il s’était donné corps et âme à la réinvention du monde par l’écriture, ce nouveau monde n’était pas moins condamné que celui dans lequel il est né”.4 La “ri-creazione”, la parte ludica della produzione, è proprio ciò che apre l’abisso su cui la vita di Georges Perec si sottende. E cela il presentimento che la scrittura abbia a che fare con la costruzione attiva del mondo, compresa la possibilità di trovare un modo di permanervi fisicamente: “Scrivo: abito il mio foglio di carta, lo investo, lo percorro; suscito dei bianchi tipografici, degli spazi”.5 L’idea che questo “abito il mio foglio” non sia metaforico e che Perec edifichi (economizzi) il proprio spazio e la propria esperienza a partire dalla scrittura della pagina, si annida nei titoli dei primi due capitoli di Specie di spazi. Se il primo si intitola La pagina (La page), il secondo si presenta come Il letto (Le page)6 (“il letto”, anche come ciò che si è fatto dello scritto); i due termini vengono fatti coincidere: “Il letto (o se si preferisce la 3. G. Perec, Conversazione con Jean-Marie Le Sidaner (1979), trad. di E. Grazioli, “Riga”, 4, 1993, p. 95: “L’intensa difficoltà che pone questo genere di produzione […] non mi sembra niente paragonata al terrore che sarebbe per me scrivere ‘poesia’ liberamente”. 4. H. Mathews, Le catalogue d’une vie, “Magazine littéraire”, 193, 1983. 5. G. Perec, Specie di spazi (1974), trad. di R. Delbono, Bollati Boringhieri, Torino 1989, p. 17. 6. Si veda la nota della traduttrice, ivi, p. 23.

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pagina…)”, e da questa doppia origine le specie di spazi si articolano in camera, in appartamento, in palazzo, in strada, città, campagna, paese, continente, mondo. Spazio. Inscatolamenti, mise en abîme. Tutto già nella pagina, tutto già nelle pieghe del letto. Questo abissale gioco di scatole cinesi elude la dicotomia mondo/testo e quella tra il come e il cosa della scrittura: i testi di Perec si compongono incessantemente di citazioni di altri testi di altri autori, di manualistica, dei propri testi già scritti o di progetti in fase di stesura; il testo restituisce attualmente il senso al proprio nome,7 sviluppandosi in un tessuto di formule e mondi linguistici che fanno della letteratura un puzzle sempre in formazione, che mai è concluso, mai è definito (che mai “è”...) e che trova nel capolavoro La vita istruzioni per l’uso la sua massima espressione.8 Rinunciando all’autorialità e all’autorità sulla scrittura si appella alla necessità di partire ancora una volta dall’immagine “di un puzzle […], dall’immagine di un libro mai finito, di un’‘opera’ mai finita all’interno di una letteratura mai finita”.9 Il testo non è un oggetto conchiuso, è solo una tessera di un puzzle che a sua volta è tessera di un altro macropuzzle; solleci7. La sequenza testo-texture-tessuto rinvia a un’idea di spazializzazione e movimento fondati su intrecci e su diversi modi di possibilità di accadimento di questi, che introducono la “scrittura-puzzle” di Perec. Tuttavia, come nel caso della Scomparsa, il sostantivo derivato dalla coniugazione del verbo al participio passato induce a pensare a un’operazione ormai conclusa (tessuto). 8. G. Perec, La vita istruzioni per l’uso (1978), trad. di D. Selvatico Estense, Rizzoli, Milano 2005. Nella convergenza tra mondo e scrittura, non è un caso che, con Perec, La vita sia un testo e che in francese risulti omofono al nome di una lettera (la “v”: La vie). Alla scrittura-puzzle Perec fa esplicito riferimento in più parti del libro, costruendolo sulla base di principî della Gestalttheorie – soppiantando l’essenza in favore della relazione – richiamati esplicitamente nel Preambolo e incastrando i novantanove capitoli (Romances) che lo compongono come se di fatto stesse attuando un puzzle. Ognuno dei centomeno-uno capitoli contiene ventuno coppie di elementi appartenenti a categorie precedentemente stilate; la coppia di categorie più significativa in questo senso è sicuramente “citazione-1/citazione-2”: in ogni capitolo compaiono quindi due citazioni incastrate nella trama del romanzo. Come se non bastasse i protagonisti (fittizi) del romanzo sono legati da un progetto esistenziale che consiste nella produzione e dissoluzione di cinquecento puzzle. 9. G. Perec, Conversazione con Jean-Marie Le Sidaner, cit., p. 90.

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Corpo ed etica nel secondo Wittgenstein: una proposta teorica CHIARA PASTORINI

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possibile sostenere all’interno della prospettiva wittgensteiniana la costruzione di un’etica a partire dalla nozione di “corpo”? Questo lavoro si propone di indagare la questione prendendo in considerazione alcuni scritti del cosiddetto “secondo Wittgenstein”. In particolare, la nozione di “corpo” come luogo di espressione e reazione vitale costituisce un punto di riflessione etica fondamentale sia nella prospettiva delle Philosophische Untersuchungen, sia degli studi preparatori raccolti nelle Bemerkungen über die Philosophie der Psychologie.1 In antitesi a un approccio scettico dell’intersoggettività, in cui il corpo è ridotto a mero sostrato materiale e cosale all’origine di una separazione ontologica tra gli individui, cercherò di mostrare come, nella prospettiva wittgensteiniana, la sfera corporea sia invece irriducibile al modello dualistico interno/esterno (matrice dell’interpretazione oggettualistica del corpo e della sua conseguente contrapposizione a un soggetto puramente mentale). Identificato con l’ambito della primitività e dell’immediatezza delle reazioni intersoggettive, il corpo risulta indissociabile 1. Data la totale assenza di sistematicità del pensiero wittgensteiniano si dimostra difficile identificare una singola opera con un determinato argomento. In riferimento a una riflessione etica relativa al secondo Wittgenstein, si possono, così, riscontrare spunti e collegamenti con quanto esposto nelle Philosophische Untersuchungen, anche attraverso una considerazione delle opere Philosophische Grammatik, The Blue and Brown Books, Vermischte Bemerkungen, Zettel, Letzte Schriften über die Philosophie der Psychologie, Über Gewissheit.

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dalla nozione di “accordo intersoggettivo” (Übereinstimmung), costituendo piuttosto la base per un riconoscimento dell’altro in quanto essere umano. Interpretare la relazione interumana nei termini di “riconoscimento” apre, quindi, la possibilità (implicita in Wittgenstein) di un’etica della response-ability.2 La duplice chiave interpretativa del termine è qui significativa, in quanto valorizza non solamente la capacità di fornire una risposta all’altro (response-ability come abilità di rispondere), ma anche, e soprattutto, il peso etico che le scelte di ciascuno hanno sull’altro (response-ability come responsabilità). Wittgenstein ci mostra, dunque, come noi possiamo decidere di aprirci e rispondere all’altro, oppure eluderlo, chiudere gli occhi di fronte al suo appello, negando insieme alla sua, anche la nostra umanità. 1. Il corpo come “espressione” del mentale Impostare una proposta teorica sull’etica wittgensteiniana a partire dalla nozione di “corpo” potrebbe facilmente indurre a ripensare la prospettiva del filosofo in riferimento al modello schopenhaueriano di Die Welt als Wille und Vorstellung,3 fonte di grande interesse per Wittgenstein e uno dei punti di riferimento centrali per un’interpretazione possibile del Tractatus logico-philosophicus. In questo lavoro, però, non intendo affrontare la questione sulla base di questo confronto, ma, piuttosto, partendo dall’analisi stessa della nozione di “corporeità” all’interno delle opere wittgensteiniane successive. Uno dei propositi di questo scritto è mettere in evidenza co2. Il termine response-ability è stato preso a prestito da D. Sparti, L’importanza di essere umani. Etica del riconoscimento, Feltrinelli, Milano 2003, p. 96. Come sottolinea lo stesso autore (p. 171), la parola “responsabilità” ha la sua radice nel latino spondere e, più originariamente, nel greco spondein. Entrambe le declinazioni fanno riferimento a un ambito semantico più ampio rispetto a quello attuale di carattere giuridico (responsabilità come rendere ragione dei propri atti in quanto soggetti alla norma morale), rinviando piuttosto alla più generale capacità di rispondere a un richiamo. 3. A. Schopenhauer, Die Welt als Wille und Vorstellung, Leipzig 1819; trad. di P. SavjLopez e G. De Lorenzo, Il mondo come volontà e rappresentazione, Laterza, Roma-Bari 1982, 2 voll.

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me Wittgenstein costituisca un interessante punto di partenza per una riflessione che riconsideri il corpo una discriminante decisiva per la natura umana, conferendogli una rilevanza sovente andata perdendosi nel panorama filosofico degli ultimi decenni. Dal comportamentismo al cognitivismo, infatti, spesso si riscontrano i presupposti per la realizzazione di un processo per certi aspetti unitario: la rimozione della nostra corporeità. Detto ciò, dobbiamo però precisare che l’ambito semantico di riferimento non è delimitabile alla sfera della pura e semplice versione “biologica” di corpo. Questo, cioè, non è traducibile in una serie più o meno complessa di reazioni fisiologiche che la scienza medica avrebbe il compito di rendere sempre più comprensibili attraverso il progresso delle tecniche o la scoperta di nuove molecole.4 Prendiamo, per esempio, in considerazione un passo chiave delle Philosophische Untersuchungen: “Il corpo [Körper] umano [menschliche] è la migliore immagine dell’anima umana [menschlichen]”.5 Che cosa significa? È possibile, da questa citazione, derivare alcune considerazioni. Innanzitutto sottolineiamo la correlazione tra “corpo” e “anima”. Si tratta, appunto, di una correlazione, e non di un’opposizione. Wittgenstein, cioè, mette in relazione i due concetti non sul modello di una contrapposizione tra un interno e un esterno, tra una res cogitans da una parte e una res extensa dall’altra, ma attraverso la nozione di “immagine”. Questa consente di superare lo schema dualistico soggetto di conoscenza / oggetto conosciuto (soggettivo/oggettivo e, in ultima analisi, corpo/mente), presente invece in una prospettiva che possiamo definire di 4. Sull’impossibilità di un accesso all’altro come persona umana attraverso il progresso tecnologico e scientifico si dovrebbe aprire un’ampia parentesi che in questa sede, però, non rappresenta l’intento principale. A titolo di esempio, si vedano annotazioni come: “Potrei pur sempre dire di una persona che è un automa (potrei impararlo a scuola nella lezione di fisiologia) e questo comunque non influenzerebbe il mio atteggiamento verso gli altri” (US, parte II, p. 193). 5. RF, parte II, p. 236. Da sottolineare che Wittgenstein utilizza indifferentemente il sostantivo Leib oppure Körper, per indicare il corpo umano.

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Materiali Rimbaud vivant MARTIN HEIDEGGER

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ené Char nella sua “Introduzione” all’antologia delle opere di Arthur Rimbaud (1957)1 ha indicato la strada [Wegweisendes]. Nel prendere in esame l’insieme complessivo di queste poesie egli ha avvedutamente inserito fra le “Opere” le due lettere del poeta del (13) e del 15 maggio 1871. Nella lettera del 15 maggio Rimbaud stesso ci dice del modo in cui un poeta resta “vivente” [“lebendig”]: vale a dire la maniera attraverso la quale i futuri poeti pervengono a quell’orizzonte presso cui egli a sua volta è giunto: “Egli giunge all’ignoto [Unbekannten]”.2 Conosciamo noi uomini d’oggi già sufficientemente questo orizzonte che Rimbaud ha “visto”? Indugio a rispondere e continuo a domandare. A porre più Heidegger attese al testo che qui si presenta nel 1972, in risposta all’“inchiesta Rimbaud” promossa da Roger Munier, il quale lo pubblicò, sotto il titolo Aujourd’hui, Rimbaud…, con propria traduzione e testo originale a fronte in “Archives des lettres modernes”, 160, 1976, pp. 12-17. Successivamente tale contributo è stato inserito, con il titolo Rimbaud Vivant, nel XIII volume della Gesamtausgabe: M. Heidegger, Aus der Erfahrung des Denkens (1910-1976), a cura di H. Heidegger, Klostermann, Frankfurt a.M. 2002, pp. 225-227. La sola traduzione francese è stata altresì ripubblicata in Cahier Martin Heidegger, a cura di M. Haar, L’Herne, Paris 1983, pp. 109-111. Tutte le note al testo sono del traduttore. 1. R. Char, Pour nous Rimbaud..., introduzione a Œuvres complètes d’Arthur Rimbaud, Guy Levis-Mano, Paris 1957, poi con il titolo Arthur Rimbaud anche in R. Char, Œuvres complètes, Gallimard, Paris 1983, pp. 727-734. 2. A. Rimbaud, À Paul Demeny [Lettre du voyant], in Œuvres complètes, a cura di A. Adam, Gallimard, Paris 1972, p. 251; trad. di G.P. Bona, A Paul Demeny [Lettera del Veggente], in Opere, Einaudi, Torino 1990, p. 467: “Il arrive à l’inconnu!”.

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Nota a “Rimbaud vivant” di Martin Heidegger LUIGI AZZARITI-FUMAROLI

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antenendosi fedele al principio che già aveva ispirato la sua lettura delle liriche di Hölderlin, e secondo il quale “l’ultimo passo, ma anche il più difficile, di ogni interpretazione consiste nel dileguarsi, insieme alle sue delucidazioni, di fronte alla pura presenza della poesia”,1 Heidegger nel breve testo qui tradotto si confronta con il pensiero poetico di Rimbaud, ribadendo ulteriormente la necessità che la riflessione filosofica si misuri con la poesia attraverso una costante e ripetuta interrogazione sul loro proprio e al contempo reciproco significato. Nondimeno, in luogo del perseguimento di un esito risolutivo, il domandare del filosofo dovrà – secondo Heidegger – mantenersi perennemente in tensione, al fine di accogliere e assecondare l’invito all’“azione” di cui si fa latrice ogni esperienza poetica e tanto più emblematicamente un’esperienza poetica, quale quella del poeta di Charleville, che ambisce a “possedere la verità in un’anima e in un corpo”.2 Un’aspirazione, quest’ultima, che parrebbe, come ha notato anche Jean Beaufret, attagliarsi perfettamente al tentativo heideggeriano, manifesto sin da Essere e tempo (1927), di mostrare come il corpo possa rappresentare l’apertura dell’anima al mondo.3 D’altronde l’accostamento dei te1. M. Heidegger, La poesia di Hölderlin (1981), Adelphi, Milano 1988, p. 6. 2. A. Rimbaud, Addio (1873), in Opere, Einaudi, Torino 1990, p. 417. 3. J. Beaufret, Dialogue avec Heidegger. Philosophie moderne, Minuit, Paris 1973, p.

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