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Georges Didi-Huberman Un’etica delle immagini Premessa PER UN’ETICA DELLE IMMAGINI Georges Didi-Huberman Rendere un’immagine Laura Odello Nota sulla politica delle sopravvivenze Raoul Kirchmayr Abitare il visibile Pietro Montani Apertura e differenza delle immagini Andrea Pinotti Pazienza del dissimile e sguardo pontefice Antonio Somaini Montaggio e anacronismo Ludger Schwarte Etica dello sguardo. Didi-Huberman e la visione tattica Emanuele Alloa Il pensiero fasmide RIPENSARE WARBURG Georges Didi-Huberman Epatica empatia. L’affinità degli incommensurabili in Aby Warburg Davide Stimilli Il pentimento di Warburg Sigrid Weigel La “dea in esilio” di Warburg Paulo Barone Un groviglio di serpenti vivi Bibliografia di Georges Didi-Huberman
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rivista fondata da Enzo Paci nel 1951 direttore responsabile: Pier Aldo Rovatti redazione: Paulo Barone, Graziella Berto, Giovanna Bettini, Laura Boella, Deborah Borca (editing, deborahborca@libero.it), Silvana Borutti, Damiano Cantone, Mario Colucci, Alessandro Dal Lago, Rocco De Biasi, Maurizio Ferraris, Edoardo Greblo, Raoul Kirchmayr, Giovanni Leghissa, Anna Maria Morazzoni (coordinamento, tel. 02 70102683), Ilaria Papandrea, Fabio Polidori, Rosella Prezzo, Pier Aldo Rovatti, Antonello Sciacchitano, Giovanni Scibilia, Davide Zoletto direzione: via Melzo 9, 20129 Milano collaborano tra gli altri ad “aut aut”: G. Agamben, H.-D. Bahr, R. Bodei, J. Butler, M. Cacciari, A. Cavarero, G. Dorfles, U. Galimberti, P. Gambazzi, S. Givone, A. Heller, F. Jullien, J.-L. Nancy, A. Prete, M. Serres, G.C. Spivak, M. Trevi, G. Vattimo, M. Vegetti, P. Veyne, V. Vitiello, S. Žižek per proposte di pubblicazione: redazioneautaut@gmail.com Si fa presente che “aut aut” non pubblica recensioni e non accetta testi di ampiezza superiore a 40.000 battute (note e spazi compresi).
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Premessa
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a alcuni anni in Italia i libri di Georges Didi-Huberman ricevono una crescente attenzione, soprattutto dopo la traduzione di due saggi come Immagini malgrado tutto e L’immagine insepolta che si sono inseriti in dibattiti già molto vivaci e che, partendo da problemi di estetica, la oltrepassano ampiamente: il primo perché prende posizione sulla questione delle fonti storiche, sul valore della testimonianza e sull’archiviazione dell’evento (nel caso specifico la Shoah); il secondo perché ha fornito ulteriori importanti tasselli per una rilettura critica dei percorsi di ricerca di Aby Warburg, anche in contrapposizione alla cosiddetta “scuola warburghiana”. In virtù della sua capacità di focalizzare e di lavorare con accuratezza le diverse problematiche dell’immagine, e di un metodo che si nutre costantemente di apporti provenienti da discipline diverse, la presenza di Didi-Huberman si è di conseguenza imposta anche a una cerchia di lettori più ampia rispetto a quella degli specialisti (storici dell’arte, iconologi e studiosi di estetica). Il fatto poi che le sue ricerche sulla storia dell’arte italiana e alcuni tra i suoi saggi rivisitassero i motivi di una Kulturgeschichte per la quale, storicamente, in Italia si è rivolta più attenzione che in Francia, ha senza dubbio contribuito a stringere ulteriormente il legame tra lui e il nostro paese. Queste sono alcune delle ragioni per le quali “aut aut” ha ritenuto fosse giunto il momento di aprire uno spazio di dialogo con aut aut, 348, 2010, 3-4
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Didi-Huberman per provare a costruire e mettere alla prova delle ipotesi di lavoro che si richiamassero ai suoi temi. Ne è nata una sorta di laboratorio, arricchito da due saggi inediti dello stesso Didi-Huberman, dove ciascun intervento si confronta con i suoi scritti e con i suoi modi di affrontare le questioni dell’immagine, così decisive per la nostra cultura, contribuendo a riprenderle e rilanciarle. [R.K., L.O.]
Georges Didi-Huberman è filosofo e storico dell’arte. Nato nel 1953, insegna all’École des hautes études en sciences sociales a Parigi. È stato ospite a Roma presso l’Accademia di Francia, a Firenze presso la Villa I Tatti (Harvard University Center for Italian Renaissance Studies) e a Londra presso la School of Advanced Study e il Warburg Institute. Ha insegnato in numerose università europee e nordamericane (Johns Hopkins, Northwestern, Berkeley, Courtauld Institute, Berlino, Basilea...). Ha ricevuto due premi dell’Académie des beaux-arts (Parigi), il premio Hans Reimer della Aby-Warburg-Stiftung (Amburgo), il Premio Napoli, il premio Humboldt (Berlino). Ha pubblicato numerose opere sulla storia e la teoria delle immagini e ha curato varie mostre, tra cui L’Empreinte al Centro Georges Pompidou (Parigi, 1997), Fables du lieu allo Studio national des arts contemporains (Tourcoing, 2001) e Atlas al Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía (Madrid, 2010).
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Per un’etica delle immagini
Nei lavori di Didi-Huberman l’immagine è messa in questione da una molteplicità di prospettive. I contributi che qui presentiamo si concentrano su alcuni apporti metodologici e di contenuto che caratterizzano i suoi percorsi. Ciò che ne emerge è un tratto di fondo che – prendendo in prestito un’espressione dello stesso Didi-Huberman – proponiamo di chiamare “un’etica delle immagini”. Il tema viene aperto da un suo saggio inedito, dedicato all’immagine cinematografica in Jean-Luc Godard e in Harun Farocki e all’importanza del “rendere” le immagini.
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Rendere un’immagine GEORGES DIDI-HUBERMAN
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olto spesso le domande più ingenue nascondono in sé le risorse necessarie a percepire la reale complessità delle cose. È ancora il “pensiero grossolano” a rivelarsi il più favorevole – come riteneva Walter Benjamin commentando la pedagogia paradossale di Bertolt Brecht nei suoi montaggi epici1 – a sollecitare una visione dialettica, più sottile, di queste cose complesse che sono le immagini. Per esempio, non è mai inutile tornare a domandarsi di cosa esattamente un’immagine sia l’immagine, a prescindere dagli aspetti che per primi si rendono visibili in essa, dalle evidenze che si manifestano, dalle rappresentazioni che si impongono. Tale domanda ha inoltre il vantaggio di risvegliare l’interesse per il come delle immagini, altra questione cruciale. Resta poi la questione stupida – e crudele, in realtà: intendo la questione politica – che consiste nel sapere a chi appartengono le immagini. Si dice [in francese]: “prendere una foto” [prendre une photo]. Ma ciò che si prende, a chi lo si prende esattaQuesto testo fa parte di uno studio più ampio dedicato al lavoro di Harun Farocki e intitolato Ouvrir les temps, armer les yeux: montage, histoire, restitution. È stato scritto in seguito a un dialogo pubblico con l’artista (Dispersion und Montage. Ein Gespräch zwischen Georges Didi-Huberman und Harun Farocki), che ha avuto luogo a Basilea (Schaulager-UniversitätEikones NFS Bildkritik) il 9 settembre 2008, su invito di Ludger Schwarte e Theodora Vischer. Il testo fa oggi parte del mio Remontages du temps subi. L’œil de l’histoire, 2, Minuit, Paris 2010. 1. Cfr. W. Benjamin, “Il romanzo da tre soldi di Brecht” (1935), in Opere complete, vol. VI: Scritti 1934-1937, a cura di E. Ganni, Einaudi, Torino 2004, pp. 242-243.
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mente? Lo si tiene veramente? E non occorre forse renderlo a chi spetta di diritto? Nel suo antico senso, legato all’antropologia politica del mondo romano all’epoca della Repubblica, l’imago – tralasciamo per il momento l’eikon greca, che è tutta un’altra faccenda – pone immediatamente la questione della sua presa e quella della sua restituzione. Il gesso “rapprende” sul volto del morto, occorre poi “ritirare” il calco, fondervi la cera calda per ottenere una tiratura [tirage] e, a mano a mano che le nuove generazioni si portano via le immagini degli antenati, occorre poi “tirare” di nuovo altre copie, affinché l’immagine, così riprodotta, assicuri la propria funzione di trasmissione genealogica e onorifica. Proprio perché l’immagine è, in tal senso, un oggetto di culto privato – gli antenati, i morti, la famiglia – e al tempo stesso un oggetto di culto pubblico – il “diritto alle immagini” è infatti concesso a seconda della posizione che occupa l’antenato nella res publica, e l’esposizione delle imagines è uno spettacolo pubblico nell’ambito delle “pompe funebri” o dei riti di sepoltura –, si può dire che essa istituisca la questione della somiglianza al di fuori di ogni sfera “artistica” in quanto tale. Essa appare piuttosto come un oggetto del corpo privato (il volto stesso di colui di cui si realizza l’immagine) restituito alla sfera del diritto pubblico.2 E oggi? Vilém Flusser, nel suo articolo su Il politico nell’era delle immagini tecniche, descrive la situazione odierna nel modo seguente: “In precedenza, le informazioni venivano rese pubbliche nello spazio pubblico e gli uomini dovevano lasciare la loro casa per pervenire a esse [...], gli uomini erano ‘politicamente impegnati’, che lo volessero o meno. Oggi però le informazioni sono trasmesse direttamente da spazi privati a spazi privati e gli uomini devono starsene a casa per pervenire a esse [...]. La gente diventa ‘politicamente disimpegnata’, perché lo spazio pubblico, il 2. Cfr. G. Didi-Huberman, “L’immagine-matrice. Storia dell’arte e genealogia della somiglianza” (1995), in Storia dell’arte e anacronismo delle immagini (2000), trad. di S. Chiodi, Bollati Boringhieri, Torino 2007, pp. 59-81.
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forum, diventa inutile. In questo senso si afferma che il politico è morto e che la storia trapassa nella post-storia in cui nulla più progredisce e tutto si limita ad accadere”.3 Si potrebbe anche dire che l’illusione maggiore prodotta da un tale “apparato di stato” delle immagini è il fatto che nulla accade [se passe] nel mondo che non sia già stato fatto passare in televisione. Che fare per restituire qualcosa alla sfera pubblica al di là dei limiti imposti da un tale apparato? Occorre istituirne i resti: prendere alle istituzioni ciò che esse non vogliono mostrare – lo scarto, il rifiuto, le immagini dimenticate o censurate – per renderlo a chi spetta di diritto, vale a dire al “pubblico”, alla comunità dei cittadini. È proprio ciò che fa Harun Farocki quando ci mostra, nei suoi film o nelle sue installazioni, degli insiemi di immagini che non erano destinate a essere rese pubbliche. Per esempio, in Ein Bild (1983), assistiamo alla lenta fabbricazione in tempo reale – noiosa come può esserlo qualunque processo artigianale visto dall’esterno – di un’immagine erotica per la rivista “Playboy”; in Videogramme einer Revolution (1992), assistiamo al rovesciamento politico delle immagini nel contesto stesso della televisione di stato durante gli avvenimenti del 1989 in Romania; in Gefängnisbilder (2000), si vedono delle immagini che non sarebbero mai dovute uscire dagli archivi di certe prigioni americane; in Die Schöpfer der Einkaufswelten (2001), scopriamo delle decisioni di marketing destinate a farci strumentalizzare dallo spazio stesso dei nostri supermercati; infine, in Immersion (2009), Farocki ci offre gli strumenti per prendere posizione su certe tecniche militari di “terapia psichica”, appositamente concepite affinché risulti impossibile valutarle, o perché le si subisce, o perché le si ignora. Harun Farocki viene spesso interrogato sul suo modo di prendere, ottenere, manipolare queste “immagini operative” del mondo scientifico, commerciale, sportivo, politico o militare. “Dove prende questi materiali?” gli si domanda. E Farocki – con una malizia 3. V. Flusser, “Il politico nell’era delle immagini tecniche” (1990), in La cultura dei media, trad. di T. Cavallo, Bruno Mondadori, Milano 2004, p. 144.
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Nota sulla politica delle sopravvivenze LAURA ODELLO
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l testo qui tradotto, Rendere un’immagine, è tratto dall’ultimo libro di Georges Didi-Huberman appena uscito in Francia, Remontages du temps subi. L’œil de l’histoire, 2, e dedicato al lavoro del cineasta e artista tedesco Harun Farocki. Montando e rimontando documenti visivi che testimoniano della violenza politica del nostro tempo, Farocki, sostiene Didi-Huberman, restituisce le immagini a chi spettano di diritto, cioè a tutti noi. Ce le rende, dunque, dopo averle modestamente e pazientemente rimontate in un lavoro che non cancella la sofferenza o l’ingiustizia che le ha prodotte, e dove trova forma (artistica e politica) la collera che tale sofferenza ha suscitato. Immagini rese a noi, ai nostri occhi, perché possano aprirsi sulla violenza del mondo. Che l’immagine implichi un gesto politico, è ciò che Georges Didi-Huberman sembra suggerirci da qualche tempo. Per questo stesso fascicolo di “aut aut”, un titolo (poi modificato) si era fin da subito imposto: Politica delle sopravvivenze. Attraverso il lavoro di Georges Didi-Huberman. L’idea era infatti di sollecitare una riflessione intorno alla ricerca estetica di Didi-Huberman a partire dalla piega sempre più politica che segna la sua recente produzione. Basti pensare agli ultimi tre testi dati alle stampe tra il 2008 e il 2010: Quand les images prennent position, Remontages du temps subi (inediti in Italia, rappresentano i primi due saggi di una serie intitolata L’œil de l’histoire, il primo dedicato al lavoro di Bertolt Brecht, il secondo, come già detto, a quello di Harun Farocki) 28
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e il piccolo testo Survivance des lucioles, tradotto già da qualche mese in italiano con il titolo Come le lucciole. Una politica delle sopravvivenze. Piega politica che appare ora delinearsi in modo sempre più evidente, ma che già si annunciava e si preparava in testi precedenti, da Devant l’image. Question posée aux fins d’une histoire de l’art (1990) fino a Immagini malgrado tutto (2003). Pur nel ristretto spazio di una nota, sarei tentata di rispondere a quel primo titolo e di invitare a prenderlo sul serio, a rileggere cioè il recente lavoro di Georges Didi-Huberman alla luce dell’espressione “politica delle sopravvivenze”, e a domandarsi che ne è della politica nelle immagini e nel lavoro sulle immagini: questione immensa, certo, che richiederebbe una minuziosa e attenta lettura dei testi e che evidentemente supera lo spazio consentito da queste poche righe. Mi limito pertanto a indicare, in modo sommario, due ipotesi o piste provvisorie. Da un lato, l’immagine è politica, ci dice Didi-Huberman, perché essa è montaggio, ossia perché smonta, ricompone, rimonta, e così facendo analizza, contesta, critica, emancipa. I suoi recenti lavori ne sono un perfetto esempio. In Quand les images prennent position, Georges Didi-Huberman ci fa vedere, attraverso Brecht, come il montaggio implichi una presa di posizione politica: nel suo Diario di lavoro o in L’abicì della guerra, Brecht monta, smonta, ritaglia e ricompone immagini e testi per rappresentare la guerra, creando un vero e proprio atlante di immagini dialettiche. Il lavoro di montaggio consiste nel dislocare e nel disorganizzare le immagini e il loro ordine di apparizione, e nel rimontarle altrimenti: il montaggio infatti separa le immagini per avvicinarle, le distanzia per accostarle, le interrompe per ricomporle nel punto stesso “del loro più improbabile rapporto”.1 In tal modo esso smonta l’ordine del discorso e permette una ricomposizione critica della storia, che disorganizza i nessi più evidenti per riscriverli in una nuova configurazione, in un nuovo ordine o piuttosto disordine (che Didi-Huberman definisce con un neologismo: dysposition) delle cose. Il montaggio diventa dunque un operatore politico, in 1. G. Didi-Huberman, Quand les images prennent position. L’œil de l’histoire, 1, Minuit, Paris 2009, p. 94.
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quanto capace di mostrare “nelle immagini come il mondo appare, e come si deforma”.2 Insomma, bisognerebbe forse rileggere Hannah Arendt – sembra suggerirci Didi-Huberman – che, scorgendo nell’estetica kantiana il principio di una politica possibile, ci ricorda che l’immaginazione è politica. Ma sono soprattutto Walter Benjamin e Aby Warburg i pensatori che gli offrono i principali strumenti filosofici per pensare una politica delle sopravvivenze. È infatti Benjamin che invita a pensare le immagini dialettiche, queste figure discontinue, istantanee e fugaci, questi singulti del tempo in cui la storia contraendosi si rende visibile come una palla di fuoco che sfonda l’orizzonte del passato e cade verso di noi. Ed è sempre Benjamin a suggerire a Georges Didi-Huberman che tali immagini lampo – in cui pulsa, fragile, la luce intermittente di un conflitto del tempo, di una tensione tra passato e presente – sono un modo per organizzare il pessimismo, dunque anche per smontarlo e contestarlo. Spetta invece a Warburg (come DidiHuberman ha ben illustrato in L’immagine insepolta. Aby Warburg, la memoria dei fantasmi e la storia dell’arte) il merito di aver mostrato il ruolo costitutivo delle sopravvivenze nella cultura delle immagini, e la funzione politica della memoria. In tal senso, le immagini sono come le lucciole, fragili e passeggere, minuscoli lampi di luce, barlumi di speranza che illuminano a intermittenza. Quelle stesse lucciole che Pasolini non riusciva più a vedere e che Didi-Huberman invita invece a ritrovare nell’oscurità: esse sono le sopravvivenze che resistono alla luce abbagliante del potere. Anche se deboli, fragili, instabili, occorre saperle cercare nelle zone d’ombra, nei margini bui del vedere. Le lucciole infatti non sono scomparse, esse funzionano a intermittenza, e in questa loro fragilità consiste tutta la loro forza, la loro capacità di sopravvivere e riapparire ogni volta. Da un lato, dunque, il lavoro di Georges Didi-Huberman ci conduce su una prima pista: le immagini sono operatori politici capaci di disegnare sempre nuove configurazioni. Il loro montaggio/smontaggio/rimontaggio permette di pensare il vedere come 2. Ivi, p. 256.
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Apertura e differenza delle immagini PIETRO MONTANI
1. Vorrei proporre qualche riflessione sul concetto di “immagine aperta”, cui Georges Didi-Huberman ha dedicato di recente un’importante raccolta di saggi1 che ne attestano la centralità e la produttività nell’ambito dell’originale dispositivo teorico di cui egli si serve nelle sue indagini sulle arti visive. Centralità e produttività teoriche, va sottolineato. Perché l’immagine aperta non designa “un semplice tema da trattare iconograficamente o tipologicamente”2 ma un “fatto di struttura”. Né può essere intesa come una metafora escogitata per figurare il gesto che disvelerebbe il contenuto spirituale dell’immagine sensibile. Didi-Huberman sa bene, infatti, che l’“immagine sensibile” non è che una compagine di differenze interne che non ha alcun bisogno di rinviare a un’idealità – l’ordine dei significati – che le sarebbe difforme per natura e per rango. Un ordine trascendente, cioè, nel senso platonico del termine – o nel senso delle infinite risorgenze del platonismo lungo tutta la speculazione sulla cosiddetta “storia dell’arte” (e anche altrove, naturalmente...). È sotto il profilo di un’antropologia filosofica, piuttosto, che l’“apertura” delle immagini andrà riferita all’azione di un corpo sensibile e senziente (visibile e vedente). Un corpo estatico, o “deiscente”, come lo definiva l’ultimo Merleau-Ponty (richiamato da 1. G. Didi-Huberman, L’immagine aperta (2007), Bruno Mondadori, Milano 2008. 2. Ivi, p. 6.
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Didi-Huberman) introducendo il concetto fenomenologico di “carne”. Ciò significa che l’incarnazione ne è l’ambito essenziale. Un ambito di relazioni interne – o meglio, estatiche – emancipato da ogni residuo di quella relazionalità metafisica (esteriorità/interiorità, corpo/anima, sensibile/intelligibile ecc.) che informa l’interpretazione metaforica – e infine anche quella iconografica – dell’apertura. Che genere di relazioni? Didi-Huberman ne indica tre sottolineandone il comune rapporto con un tempo anacronico: l’impensato, il sintomo, la sopravvivenza (il warburghiano Nachleben). Delle tre è la prima – l’impensato – quella che qui mi interessa di più. Non solo perché alle altre due Didi-Huberman ha dedicato un’ampia, e decisiva, riflessione che ora ci autorizza, o ci invita, a ripercorre sotto il segno dell’apertura delle immagini. Ma anche perché, grazie alla sua maggiore generalità e necessaria indeterminatezza, l’impensato rende disponibile un collegamento con il tema delle riflessioni che vorrei proporre. È un collegamento che passa per Lacan, ma che ha una latitudine filosofica più ampia, come del resto sapeva per primo Lacan stesso e come sa Didi-Huberman nel momento in cui lo cita. Il passo in questione va riportato integralmente: L’espressione immagine aperta mira a un’economia molto particolare dell’immagine – la maggior parte delle immagini che ci circondano non ci propongono che schermi, tappabuchi, suture a opera del sembiante [sutures par le semblant] – nella quale forme, aspetti, somiglianze si lacerano e lasciano apparire, di colpo, una dissimiglianza fondamentale. È allora che, secondo la profonda osservazione di Lacan nel suo commento al “Sogno dell’iniezione di Irma”, “il rapporto immaginario raggiunge esso stesso il proprio limite”, non sul versante della simbolizzazione ma sul versante di una reale alterità, il “dissimile essenziale, che non è né il supplemento né il complemento del simile [ma] è l’immagine stessa della dislocazione”. L’immagine aperta designerebbe dunque non tanto una certa categoria di immagini quanto un momento privilegiato, un evento di im46
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magine nel quale si lacera profondamente, a contatto con un reale, l’organizzazione aspettuale del simile.3 L’immagine aperta, in altri termini, segnalerebbe l’evento stesso dell’apertura. L’estaticità dell’immagine in quanto tale. La soglia che fa cenno al disparato – alla reale alterità o all’alterità del reale – nella sua irriducibilità a supplemento o a complemento dell’immagine. Soglia-limite e insieme “svelamento” originario: aletheia (o Ereignis), si potrebbe anche dire, a voler prendere in carico, ma non intendo farlo qui, le vistose risonanze heideggeriane di questa interpretazione dell’apertura in quanto evento-svelamento. Ne vorrei sottolineare, invece, il carattere intimamente “auratico”, nell’idea, suggerita da Didi-Huberman, che in ultima analisi il concetto di immagine aperta entri di diritto nella costellazione filosofica dell’“aura”, di cui tematizza il tratto della prossimità all’origine e, ciò che più conta, l’attitudine dell’origine stessa alla ripetizione, e cioè al Nachleben nella sua accezione più produttiva (anche teoricamente produttiva: è infatti precisamente il carattere anacronistico del tempo dell’origine, la sua Nachträglichkeit, a consentire a Didi-Huberman l’illuminante sinergia nella quale ha saputo stringere Warburg, Freud e Benjamin). Nel testo che sto commentando, del resto, si accenna a un “cerimoniale auratico dell’apertura”.4 Ma il tema è già attestato, in modo più esplicito e deciso, in altri luoghi dell’opera di Didi-Huberman, e in particolare nel saggio L’immagine-aura,5 nel quale ci viene offerta una penetrante lettura del “declino dell’aura”, la celeberrima definizione con cui Benjamin si riferisce al fenomeno della riproducibilità tecnica delle immagini. Se l’aura, leggiamo qui, designa un “fenomeno originario dell’immagine”, un fenomeno “incompiuto” e “sempre aperto”6 – vale a dire costitutiva3. Ivi, pp. 8-9 (traduzione leggermente modificata). 4. Ivi, p. 11. 5. G. Didi-Huberman, “L’immagine-aura. Dell’Adesso, del Già-stato e della modernità”, in Storia dell’arte e anacronismo delle immagini (2000), Bollati Boringhieri, Torino 2007, pp. 217-243. 6. Ivi, p. 220.
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Pazienza del dissimile e sguardo pontefice ANDREA PINOTTI
1. “Non vedevo il nesso” “Io non vedevo il nesso fra questi elementi, ma supponevo solamente che, nell’animo di Warburg, questi elementi si potessero congiungere in una forma unitaria.”1 Così confessava, nel 1929, l’allievo, nel Discorso di commemorazione dedicato all’uomo che era stato non solo il suo maestro ma anche il suo “secondo padre”, riandando con il pensiero al suo periodo di apprendistato risalente al 1913. Cristianesimo e paganesimo, astrologia demonica e razionalismo scientifico, realismo nordico e antiche formule di pathos, dei dell’attimo e figure cavalleresche, Firenze e Baghdad: come tenere tutto questo insieme? Al massimo, il giovane Saxl (all’epoca aveva ventitré anni) poteva riconoscere analogie come quella individuata su uno specchio etrusco mostratogli una sera indimenticabile dal suo “pedagogo”: “Vi è raffigurato Prometeo, e le sue braccia, durante il supplizio, vengono tenute in alto da due uomini. La somiglianza dell’immagine sullo specchio con le immagini della deposizione di Cristo è commovente”.2 Lo sguardo acerbo dell’apprendista può istituire abbastanza agevolmente una rete di somiglianze: si tratta, in entrambi i casi, di corpi umani, di sesso maschile, seminudi, sottoposti a un supplizio. Soprattutto, la postura dei due corpi è molto 1. F. Saxl, Discorso di commemorazione di Aby Warburg (5 dicembre 1929), trad. di M. Vinco, “aut aut”, 321-322, 2004, pp. 161-172, qui p. 166. 2. Ivi, p. 165.
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simile (fig. 1). Non ci è dato sapere se la commozione del giovane studioso fosse dovuta più all’analogia a parte obiecti, o più alla soddisfazione, a parte subiecti, di essere riuscito a intravederla. Ma, quanto al resto, era “una molteplicità di questioni che faceva disperare”: “Solamente colui che era colmo di questi problemi poteva ricomporre questi dati”.3 Come? Scorgendo l’identico nel diverso, la logica figurale sottesa all’eterogeneo apparentemente irriducibile, il nesso fra ethos e pathos, ragione e magia, Nord e Sud, Oriente e Occidente, modernità e antichità. Raccapezzandosi fra antiche divinità sopravviventi ed enigmatici personaggi astrologici, migranti fin dentro l’iconografia delle réclames degli anni venti; imparando a vedere il nesso che lega insieme, nella cultura hopi, il fulmine al serpente. Solamente Warburg in persona, dunque, poteva sperare di orientarsi in quel caos. Il giova-
Fig. 1. A sinistra: La liberazione di Prometeo da parte di Ercole e Castore, bassorilievo sul lato posteriore di uno specchio etrusco, fine V secolo a.C., Louvre, Parigi. A destra: Cosmè Tura, Pietà, particolare dal polittico Roverella, 1474, Louvre, Parigi (da A. Warburg, Der Bilderatlas Mnemosyne, a cura di M. Warnke, Akademie Verlag, Berlin 2000, rispettivamente tavole 4 e 42).
3. Ivi, p. 167.
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ne allievo, destinato a diventare uno specialista di astrologia (appunto uno dei modi fondamentali dell’orientarsi umano), avrebbe gradualmente imparato a riconoscere nell’Orientierung il comun denominatore delle variegate indagini warburghiane, nonché dell’impresa umana tout court: “L’atto fondamentale della conoscenza umana è orientarsi di fronte al caos attraverso la posizione di immagini o di segni”.4 In ciò Saxl vide certamente bene; ma non altrettanto bene seppe vedere le modalità con le quali Warburg cercò di costruire, faticosamente, il proprio senso dell’orientamento. Prendiamo, pars pro toto, le parole con cui egli caratterizzò, in quel medesimo discorso commemorativo, il progetto Mnemosyne: “L’atlante, proprio perché è un’opera sistematica, diviene al contempo un’opera storica. L’opera dei grandi artisti del Rinascimento italiano, così come quella di Dürer, vi viene analizzata in successione cronologica”.5 Sistema e cronologia sarebbero dunque, per l’allievo, le cifre costitutive del progetto finale del maestro e, più in generale, gli strumenti con cui ricomporre i disiecta membra delle sue peregrinazioni intellettuali. 2. Montaggio di eterogenei Sarebbe difficile immaginare un’interpretazione dell’atlante a questa più antipodale di quella proposta da Georges Didi-Huberman. All’opera sistematica evocata da Saxl viene contrapposto il progetto aperto, in progress (“opera ipotetica, irrimediabilmente provvisoria”, “paradossale”), di un montaggio di elementi eterogenei; alla successione cronologica, la pratica dell’anacronismo. Una irriducibile congerie di eterogenei, il cui unico denominatore comune sembra essere il bianco e nero della fotografia.6 Mnemosyne è, dunque, un dispositivo fotografico che insegna a vedere che cosa accomuna, al di sotto delle opposte polarizzazioni etico-culturali, una menade dionisiaca e una Maddalena cri4. Ivi, pp. 169-170. 5. Ivi, p. 171. 6. G. Didi-Huberman, L’immagine insepolta. Aby Warburg, la memoria dei fantasmi e la storia dell’arte (2002), trad. di A. Serra, Bollati Boringhieri, Torino 2006, p. 419.
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Montaggio e anacronismo ANTONIO SOMAINI
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empre, di fonte a un’immagine, ci troviamo di fronte al tempo [...]. Ma che genere di tempo?” È questa la domanda con cui si apre Devant le temps. Histoire de l’art et anachronisme des images di Georges Didi-Huberman,1 un’ampia riflessione sul modo in cui l’incontro con l’immagine costringe la storia a ripensare se stessa e la propria concezione del tempo, accettando l’anacronismo non come un errore metodologico ma come l’unico modo di essere all’altezza della complessità temporale dei propri oggetti. “L’anacronismo”, scrive Didi-Huberman, ed è questa la tesi principale di Devant le temps, “costituirebbe [...] la maniera temporale di esprimere l’esuberanza, la complessità, la sovradeterminazione delle immagini.”2 Attraverso il confronto con figure come quelle di Warburg, Benjamin e Carl Einstein – accomunati dalla scelta di mettere le immagini al centro della propria ricerca storica e della propria riflessione sull’idea stessa di storicità – Didi-Huberman ricostruisce una costellazione di autori che hanno pensato la storia dell’arte – e più in generale, la storia delle immagini – come “una storia dunque di oggetti policronici, di oggetti eterocronici e anacronistici”.3 Una storia non lineare bensì discontinua, irregolare, attraversa1. G. Didi-Huberman, Storia dell’arte e anacronismo delle immagini (2000), trad. di S. Chiodi, Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. 11. 2. Ivi, p. 18. 3. Ivi, p. 24.
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ta da ritmi diversi, segnata da improvvise concordanze con il presente. Una storia che solo una strategia di indagine e di esposizione fondata sull’anacronismo, sul montaggio di tempi diversi, è in grado di ricostruire. Ricollegandomi direttamente alle tesi sostenute da Didi-Huberman in Devant le temps, vorrei mostrare nelle prossime pagine come questa idea secondo cui la complessità temporale delle immagini può essere compresa solo attraverso la forza euristica ed ermeneutica del montaggio anacronistico è al centro anche degli scritti di Ejzenštejn, un ampio corpus di testi solo in minima parte pubblicati durante la vita del regista sovietico e ancora oggi in parte inediti. Nei grandi libri rimasti incompiuti come la Teoria generale del montaggio (1937), Metod (1932-1948) e La natura non indifferente (1945-1947),4 ma anche in saggi più brevi come Il legame inatteso (1929), Drammaturgia della forma cinematografica (1929) e El Greco y el cine (1937),5 Ejzenštejn estende l’azione del montaggio – vero e proprio baricentro di tutta la sua riflessione teorica e di tutta la sua pratica cinematografica – al di là dei confini del cinema, interpretandolo come uno stile di scrittura e come un “metodo” di indagine volto a chiarire l’identità del cinema e la sua collocazione nella storia universale delle forme artistiche. Proprio come nei protagonisti della costellazione ricostruita da Didi-Huberman in Devant le temps, anche negli scritti di Ejzenštejn emerge la convinzione che l’anacronismo sia l’unica via possibile con cui la storia può affrontare l’anacronisticità dei suoi stessi oggetti di studio. Così come in Warburg, Benjamin e Carl Einstein, l’incontro con la complessità tempora-
4. S.M. Ejzenštejn, Teoria generale del montaggio, a cura di P. Montani, con un saggio di F. Casetti, Marsilio, Venezia 2004; Id., Metod, 2 voll., a cura di N. Klejman, Muzej Kino, Moskva 2002; Id., La natura non indifferente, a cura di P. Montani, Marsilio, Venezia 2003. 5. Id., “Il legame inatteso”, in Il movimento espressivo. Scritti sul teatro, a cura di P. Montani, introduzione di A. Cioni, Marsilio, Venezia 1998, pp. 39-48; Id., “Drammaturgia della forma cinematografica”, in Il montaggio, a cura di P. Montani, con un saggio di J. Aumont, Marsilio, Venezia 1992, pp. 19-52 (le pagine comprendono degli appunti di Ejzenštejn con il titolo “Appunti per le integrazioni all’articolo di Stoccarda”); S.M. Eisenstein, “El Greco y el cine”, in Cinématisme, a cura di A. Laumonier, introduzione, note e commento di F. Albéra, con una prefazione-collage di J.-L. Godard, Les presses du réel, Dijon 2009, pp. 65-128.
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le delle immagini – e, aggiungiamo, dei media che le configurano e le veicolano – costringe la storia a ripensare i propri presupposti e a elaborare nuovi modi di ricostruire ed esporre i processi che la costituiscono. 1. Teoria, storia, pratica La prospettiva di lettura degli scritti di Ejzenštejn che abbiamo appena proposto – incentrata sull’analisi dell’uso fatto dal regista sovietico del montaggio come strumento di indagine per chiarire l’identità del cinema e la sua collocazione storica – solleva subito un problema: è possibile considerare Ejzenštejn come uno “storico”, sia pure nel senso ampio e “non accademico” in cui erano storici Warburg, Benjamin e Carl Einstein? Una possibile risposta a questa domanda la troviamo in una nota di diario scritta nel 1947, in un periodo in cui Ejzenštejn, impossibilitato a proseguire la sua attività di regista a causa sia della censura della seconda parte di Ivan il Terribile sia dell’infarto che lo aveva colpito nel 1946, si era dedicato al progetto di coordinare la realizzazione di una Storia generale del cinema per l’Istituto di storia dell’arte dell’Accademia sovietica delle scienze. L’obiettivo dichiarato di questo progetto era di chiarire il ruolo del cinema nel sistema e nella storia delle arti, un obiettivo che Ejzenštejn intendeva perseguire a partire da una sintesi delle linee di ricerca sviluppate nei suoi scritti precedenti. In questo contesto, nel giugno del 1947 scrive una nota che ci può aiutare a comprendere in che modo nei suoi scritti la teoria del cinema fosse inscindibile da una storia, e come entrambe fossero pensate in stretta correlazione con la sua pratica cinematografica: È come se fosse alia iacta est. Il Presidium dell’Accademia delle scienze mi ha confermato che sarò a capo della sezione di Storia del cinema dell’Istituto di storia delle arti dell’Accademia sovietica delle scienze. Per fare questo lavoro non mi era mai bastata la determinazione. Ma se a creare sono una grande quantità di persone, a svelare invece questo processo, as I do see it, non c’è quasi nessuno. E history diventa un terzo anello 86
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Etica dello sguardo. Didi-Huberman e la visione tattica LUDGER SCHWARTE
1. Pratiche dello sguardo Le pratiche dello sguardo nell’opera di Georges Didi-Huberman sono sviluppate in modo così complesso e stratificato che sarebbe difficile cercare di descriverne e soppesarne tutte le sfumature e diramazioni. E tuttavia proprio la dispersione e la complessità dello sguardo sono ciò a cui perviene l’attenzione teoretica di DidiHuberman. Dallo sguardo procedono – forse proprio in quest’ordine – le immagini, il mondo, l’uomo, il pensiero. Lo sguardo conferisce ai corpi peso e pesantezza. I corpi dotati di peso sono tali da risplendere, materializzarsi, contrapporsi gli uni agli altri, mostrarsi e rendersi visibili, percettibili, udibili attraverso la propria presenza. Georges Didi-Huberman attribuisce centralità al concetto di “etica dello sguardo” nel libro Immagini malgrado tutto, 1 dove egli descrive in primo luogo il percorso del libro nel suo insieme, con lo scopo di restituire la possibilità di vedere, e contemporaneamente anche la realtà e la verità, di una sequenza di quattro immagini scattate dagli uomini del Sonderkommando nel campo di sterminio di Auschwitz. Didi-Huberman non dice che cosa mostrano quelle immagini, ma rintraccia invece le loro specifiche condizioni di esistenza, nei limiti cui ognuna di esse è soggetta; segue il loro percorso lungo diverse tappe e mediante diverse tecniche di manipolazione e ritocco; ce le mostra come frammenti di di1. G. Didi-Huberman, Immagini malgrado tutto (2003), Raffaello Cortina, Milano 2005.
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sperazione, ribellione, resistenza organizzata, fallimento, sopravvivenza. Un’immagine è in grado di fissare e conservare le tracce di vita nelle quali è in un certo senso incapsulato l’ultimo respiro di quelli che i loro aguzzini volevano restassero senza parola e senza volto. Al di là delle costrizioni imposte dai carnefici, questo dono dell’immagine è immediatamente evidente, a patto che la si guardi con occhi diversi da quelli che hanno imparato a valutarne il fascino sulla base di mere informazioni. Qui è richiesta un’attenzione consapevole, giudiziosa e attiva: Immaginare malgrado tutto, il che esige da parte nostra una difficile etica dell’immagine: né l’invisibile per eccellenza (pigrizia dell’esteta), né l’icona dell’orrore (pigrizia del credente), né il semplice documento (pigrizia dello studioso). Una semplice immagine: inadeguata ma necessaria, inesatta eppure vera. Vera di una paradossale verità, certo. Direi addirittura che l’immagine è qui l’occhio della storia: tenace vocazione a rendere visibile. Ma essa è anche nell’occhio della storia: in una zona ben localizzata, in una fase di sospensione visiva.2 L’etica dello sguardo esige in chi guarda un’attenzione che consiste nel riempire i vuoti resi visibili dagli scatti fotografici, una volta che questi siano stati sviluppati; ed esige una capacità di immaginare che si muova a tentoni verso la realtà della situazione colta nelle istantanee, alla quale si riferiscono gli indizi presenti nelle foto (indexicalité). Una siffatta capacità di immaginare si indirizza verso il reale, non sospinge le immagini delle foto verso l’ambito della finzione. Essa diventa così un importante strumento della critica visiva, in grado di scandagliare le condizioni che rendono possibile la fotografia al fine di renderne visibili i limiti nella fotografia stessa, e di generare da lì l’immagine. Guardare oggi queste immagini secondo la loro fenomenologia – pur piena di lacune – significa domandare allo storico un 2. Ivi, pp. 59-60.
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lavoro di critica visiva al quale, credo, non è troppo abituato. Questo lavoro esige un doppio ritmo, una doppia dimensione. Occorre restringere il punto di vista sulle immagini, non omettere nulla di quella che è la sostanza dell’immagine, foss’anche solo per interrogarsi sulla funzione formale di una zona in cui “non si vede nulla”, come si dice a torto davanti a qualcosa che sembra privo di valore informativo, un riquadro d’ombra per esempio. E simmetricamente bisogna allargare il punto di vista fino a restituire alle immagini l’elemento antropologico che le mette in gioco.3 L’etica dello sguardo è un procedimento critico che dà conto del fatto che le immagini sono impressioni di un’assenza, di una lacuna, di un invisibile che può solo essere immaginato, e che tuttavia senza l’immaginazione non sarebbe un fatto, perdendo invece tutta la sua forza probante: Bisogna allora tornare a dire che Auschwitz è inimmaginabile? Certo che no. Bisogna semmai dire il contrario: bisogna dire che Auschwitz è solo immaginabile, che siamo costretti all’immagine e che per questo dobbiamo tentare di svolgerne una critica interna, appunto allo scopo di sbrogliare questo intrigo, questa necessità lacunosa.4 La critica si indirizza alla particolarità, all’unicità di ogni singola immagine. Anzitutto la visione deve “entrare in sintonia” con ogni immagine, soprattutto nel caso di questo tipo di immagini: una visione che si muova tra choc ed empatia, che si sviluppi tra l’immaginazione e l’esplorazione graduale di una superficie opaca. La critica interna di ogni singola immagine non orienterà l’attenzione di chi vede solo a ciò che di volta in volta resta invisibile nella singola immagine. Nel caso delle quattro fotografie del Sonderkommando lo sguardo risulta in primo luogo dalla distorsione temporale che 3. Ivi, p. 61. 4. Ivi, p. 66.
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Il pensiero fasmide EMANUELE ALLOA
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econdo Aby Warburg, le stratificazioni del tempo storico racchiudono fossili viventi, sopravvivenze immemoriali che Warburg, ripristinando a modo suo un termine tecnico dei geologi, chiamava Leitfossilien. Apparizioni alquanto emblematiche, tali “fossili guida” cristallizzano in sé la forza motrice di un’intera cultura e ne serbano la memoria del gesto che la travolse. In un libro-chiave (e ancora non tradotto in italiano) che precede i suoi lavori sul concetto di Nachleben in Warburg,1 Georges DidiHuberman descrive un suo face-à-face con un tale fossile venuto da tempi preumani e che a sua volta potrà essere letto come l’emblema dell’intero movimento di pensiero dell’autore. Nell’introduzione a Phasmes. Essais sur l’apparition, intitolata giustamente “Le paradoxe du phasme”,2 l’autore evoca una fuggitiva visita al Jardin des plantes. Tra il fitto fogliame dei vivari si nascondono rettili, anfibi e insetti che lanciano all’ospite la sfida di chi per primo li scorgerà. Tra le molte gabbie in cui si possono, in mezzo ai boccioli, ammirare le ali sfavillanti di qualche esotico lepidottero vi è però un vivario che, benché allestito con foglie e ramoscelli, pare senza inquilini. Privo di ogni traccia di vita ani1. G. Didi-Huberman, L’image survivante. Histoire de l’art et temps des fantômes selon Aby Warburg, Minuit, Paris 2002; trad. L’immagine insepolta. Aby Warburg, la memoria dei fantasmi e la storia dell’arte, Bollati Boringhieri, Torino 2006. 2. Id., “Le paradoxe du phasme”, in Phasmes. Essais sur l’apparition, Minuit, Paris 1998, pp. 15-20.
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male, il cassone trasparente sembra aspettare l’arrivo imminente del nuovo pigionale. Sul punto di passare oltre, lo sguardo del passante si sofferma sul cartello, che indica invece che l’animale nel vivario già c’è: “Phasmes”, ossia fasmidi, dal greco phasmoidea. La presenza del fasmide è quella di un phantasma, ricorrenza spettrale o fantasmatica, appunto, di ciò che c’è senza proprio esserci. Phasma veniva denominato appunto il corpo di Euridice negli inferi, eterea sagoma che si confonde con le molte altre che la circondano nell’oscurità dell’Ade. Ma phasma si dice anche della larva, stadio intermedio e incerto che precede l’individuazione. Dov’era allora il fasmide del Jardin des plantes? Scrive l’autore: Guardando il suo decoro, lo “sfondo” senza animale, capii a un improvviso momento – momento in cui svanisce l’incertezza, ma con essa anche ogni certezza – che la vita di quest’animale non era altro che questo decoro e questo sfondo. Stento a spiegarmi. Di solito, quando si dice che c’è qualcosa da vedere e che non vedi niente, ti avvicini: immagini che ci sia lì un dettaglio inavvertito del tuo paesaggio visivo. Vedere apparire i fasmidi richiese il contrario: defocalizzare, allontanarsi un poco, abbandonarsi a una visibilità fluttuante, ecco cosa dovetti fare più o meno per caso, o per un movimento anticipando la paura. Ma questi due passi indietro mi misero di colpo di fronte all’evidenza spaventosa che la piccola foresta del vivario non era altro che l’animale che si pensava si fosse nascosto in essa. L’essere senza capo né coda appartato nel cassone trasparente sposta e rende indistinguibile le linee tra l’animale e il vegetale (già Athanasius Kircher, nel 1600, riteneva che i fasmidi fossero in parte piante e in parte animali), disloca i confini tra visibile e invisibile e rende inapplicabili i concetti gestaltisti di figura e sfondo. Il fasmide è lo sfondo che lo nasconde e lo sostenta: si nutre delle medesime foglie che gli conferiscono la sua invisibilità e dei medesimi stecchi di cui imita la forma. “Il fasmide è ciò che mangia e ciò in cui abita [...]. La copia divora il suo modello.” 122
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Il fasmide e la descrizione dei suoi paradossi non solo costituiscono l’incipit di una serie dove coesistono – in modo disparato – fotografie, ex voti, sogni, macchie d’inchiostro, giocattoli, Padri del deserto e oggetti quotidiani. Non solo il fasmide inaugura un atlante posto sotto il segno del disparato (inteso secondo la definizione leibniziana, cioè il “disparato” come ciò che non può essere riassunto in nessun ordine superiore del concetto), ma ne costituisce in qualche modo la chiave, il Leitfossil. Questo insetto sopravvissuto dall’epoca dell’infanzia del pianeta (i reperti fossili più giovani, racchiusi nell’ambra dell’Eocene, sembrano indicare che potrebbe risalire addirittura a trecento milioni di anni fa) diventa per Didi-Huberman l’emblema di una experientia disparationis che scompiglia ogni sguardo “pre-parato”. Che sarebbe “parato in anticipo”, dunque, immunizzato fin dapprima come lo è lo sguardo dello specialista a tutto ciò che lo potrebbe fuorviare dalla certezza del metodo, della via tracciata del methodos. Il pensiero fasmide è un pensiero per così dire del “disparare”. Dis(im)parare a vedere quel che credevamo di vedere e che vedevamo perché sapevamo (o credevamo di sapere). E dunque anche disperare del proprio sapere (“l’evidenza spaventosa”). Esperienza della disparità, insomma, che sopravviene sempre inaspettata. D’un colpo – d’uno sparo. L’improvvisa esplosione visiva del pan (“pan!”), come suggeriva Didi-Huberman, filando sul petit pan de mur jaune proustiano.3 “Impelagarsi col carattere disparato, sempre singolare dell’apparenza” nota l’autore nell’incipit di Phasmes, “significa porsi ogni volta in modo nuovo la domanda sullo stile che questa apparenza richiede”. Più che uno stile disparato (stile eclettico, free style), il pensiero fasmide sarebbe dunque uno stile del disparato che assumerebbe le forme eterogenee di ciò che descrive. Ecco la sfida intellettuale per ogni interprete: “Che il pensiero di fronte all’oggetto appariscente si comporti come il genere dei fasmidi nei confronti della foresta nella quale penetra”. 3. G. Didi-Huberman, La peinture incarnée, Minuit, Paris 1985; trad. La pittura incarnata. Saggio sull’immagine vivente, il Saggiatore, Milano 2008; Id., “Question de détail, question de pan”, appendice a Devant l’image. Question posée aux fins d’une histoire de l’art, Minuit, Paris 1990, pp. 271-318.
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Ripensare Warburg
I saggi di Didi-Huberman riprendono costantemente l’eredità poliedrica e frammentaria di Aby Warburg. Nel testo con cui si apre la sezione, Didi-Huberman propone una lettura, tra storia dell’arte e antropologia, delle indagini warburghiane sulla divinazione antica. Gli altri contributi discutono criticamente alcuni aspetti del lascito di Warburg, invitando a sondarne ulteriormente la ricchezza.
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Epatica empatia. L’affinità degli incommensurabili in Aby Warburg GEORGES DIDI-HUBERMAN
È
noto che la nozione di empatia – come quella di pathos – gode di cattiva fama nell’attuale discorso degli storici e dei critici dell’arte. Ma occorre constatare che l’Einfühlung è a pieno diritto uno dei momenti fondatori della storia dell’arte come disciplina moderna, sia nella sua versione cosiddetta “formalista” sia in quella “iconologica”. Ciò è risaputo nel caso di Heinrich Wölfflin, specialmente quando si scorre il suo testo del 1886, intitolato Prolegomeni a una psicologia dell’architettura. 1 Sembra meno evidente in Aby Warburg, la cui ricerca iconologica si vede troppo spesso ridotta a questioni di “contenuti”, di “fonti” archivistiche o di “simboli” letterari. Ricorderò semplicemente, nei limiti di questo intervento, l’importanza delle questioni di empatia, al limitare del primo lavoro pubblicato da Warburg – la sua tesi sui quadri mitologici di Botticelli – così come della sua ultima impresa incompiuta, il Bilderatlas Mnemosyne. Sappiamo che dopo due successive revisioni delle bozze della sua tesi, nel 1892, Warburg decise improvvisamente di aggiungere una Osservazione preliminare (Vorbemerkung) nella quale, in sole quindici righe, veniva delineato quel notevole programma teorico già implicito nella sua ricerca delle “fonti” bot1. Cfr. H. Wölfflin, Prolegomeni a una psicologia dell’architettura (1886), et al. edizioni, Milano 2010.
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ticelliane, e al quale doveva rimanere fedele per tutta la vita.2 Il breve testo appare dunque, modestamente, come la sola dichiarazione d’intenti – la sola presa di posizione epistemologica – del giovane storico al limitare di ciò che egli amava chiamare il suo “ammasso d’erudizione”. Ma, per capirlo meglio, dobbiamo tenere conto di tre elementi supplementari: anzitutto Warburg volle dare una conclusione teorica al suo saggio, nella forma di Quattro tesi (Vier Thesen) lapidarie, che rinunciò a pubblicare nell’edizione originale.3 Poi scrisse, su ventisette febbrili foglietti, un abbozzo di Conclusione (Schluß) che cercava di definire, in termini teorici, le relazioni tra “immagine ed esperienza”.4 Infine e soprattutto, la composizione del lavoro su Botticelli, dal 1888, era accompagnata da un considerevole sforzo di elaborazione filosofica, di cui possiamo ritrovare gli schizzi in un voluminoso manoscritto dal titolo ambizioso: Frammenti per i fondamenti di una psicologia monista dell’arte.5 Questo per dire fino a che punto le quindici righe della Nota preliminare fossero, agli occhi di Warburg, cariche di senso. Retrospettivamente, nei tre brevi paragrafi che compongono il testo non è difficile riconoscere i tre concetti più importanti sui quali, a lungo andare, si sarebbe fondata l’intera storia dell’arte warburghiana. Il primo paragrafo enuncia che la ricerca delle “fonti” botticelliane – filosofiche o poetiche – punta a “mettere in luce ciò che nell’antichità ‘interessava’ gli artisti del Quattrocento”.6 Al di là delle idee ancora vaghe di “interesse”, perfino di “influenza”, è proprio la nozione di “sopravvivenza” (Nachleben) che si trattava di evidenziare progressivamente in quanto modello temporale suscettibile di rendere giustizia ai paradossi storici e ai “movimenti di fonti” osservati da Warburg. 2. A. Warburg, Botticelli (1893), Abscondita, Milano 2006, p. 11 (le bozze con e senza la “Vorbemerkung” si trovano a Londra, al Warburg Institute Archive [d’ora in poi WIA], agli indici III.39.6., ff. [1]-[5]). 3. Presenti nell’edizione francese , le “Quattro tesi” mancano in quella italiana. [N.d.T.] 4. A. Warburg, Schluß (1892), WIA III.38.4., f. [1]. 5. Id., Grundlegende Bruchstücke zu einer monistischen Kunstpsychologie (1888-1905), WIA III.43.1-2. 6. Id., Botticelli, cit., p. 1.
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Il secondo paragrafo isolava, anch’esso molto sobriamente, un “veicolo” visivo privilegiato dei processi temporali. È il punto in cui, visivamente, si concentrava la tesi: “Questo raffronto consente infatti di vedere passo per passo come gli artisti e i loro consiglieri vedessero negli ‘antichi’ un modello [Vorbild] richiedente un movimento esterno intensificato [eine gesteigerte äußere Bewegung] e si appoggiassero a modelli antichi ogni qual volta si trattasse di raffigurare il moto fisico attraverso accessori [äußerlich bewegtes Beiwerk] come fogge e capigliature”.7 Il movimento amplificato – intensificato – come mezzo formale di una memoria dell’antico? In quel punto Warburg anticipava, di certo, ciò che avrebbe chiamato alcuni anni più tardi “formule di pathos” (Pathosformeln). Ora, l’efficacia stessa di quei mezzi figurativi poteva essere compresa, agli occhi del giovane storico, solo mettendo in gioco una vera e propria psicologia – perfino una metapsicologia – dell’immagine che fosse in grado di esprimerne la necessità, tanto formale quanto antropologica. Il terzo paragrafo, per questo, si richiama a una terza nozione, evocata così d’improvviso da sembrare ancora molto misteriosa, la nozione di “empatia” (Einfühlung): “Questa prova è significativa per l’estetica psicologica [psychologische Ästhetik], poiché qui, nell’ambiente degli artisti intenti alle loro creazioni, si può osservare nel suo divenire la sensibilità per l’atto estetico dell’‘empatia’ come potenza creatrice di stile [der ‘Einfühlung’ in seinem Werden als stilbildende Macht]”.8 Come le tre Grazie nella Primavera di Botticelli, queste tre nozioni fondamentali – sopravvivenza, formula di pathos, empatia – formano un circolo indissolubile lungo l’intera analisi warburghiana. Possiamo seguirne la dinamica, di cui l’arte di Botticelli (e, più in generale, quella del Quattrocento fiorentino) ci offre le ammirevoli, emozionanti e mobili linee di forza. Si potrebbe così seguirne il motivo insistente – il leitmotiv o Leitfossil, come Warburg amava dire – attraverso l’intera opera dello storico, fino a 7. Ibidem [traduzione modificata, N.d.T.]. 8. Ibidem [traduzione modificata, N.d.T.].
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Il pentimento di Warburg DAVIDE STIMILLI
Pulcherrima manus, per microscopium conspecta, terribilis apparebit. Spinoza, Epistola LIV
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l primo seminario di Aby Warburg dopo il suo ritorno da Kreuzlingen, dedicato al Significato dell’antichità per il mutamento stilistico nell’arte italiana del primo Rinascimento, venne da lui vissuto come un esperimento cruciale, sia perché doveva servire da ulteriore conferma della sua piena guarigione,1 sia perché rappresentava il momento inaugurale di una nuova fase della sua vita, gli ultimi anni di fruttuosa attività ancora concessigli, a cui amava riferirsi come la sua “messe di fieno durante il temporale”. È quindi comprensibile come, in conclusione del seminario, potesse tirare un sospiro di sollievo all’aver superato l’ostacolo: “Questa parte della mia esistenza andata – finora – come sperato”.2 All’estremo opposto, nel preparare il suo incontro d’apertura il 25 novembre del 1925, Warburg aveva avvertito il bisogno di porlo sotto gli auspici di due “motti guida” che dovevano servire 1. Ludwig Binswanger aveva già dato il suo placet dopo la conferenza in memoria di Franz Boll, che Warburg tenne il 25 aprile 1925: cfr. la sua lettera del 14 agosto 1925, in L. Binswanger, A. Warburg, Die unendliche Heilung. Aby Warburgs Krankengeschichte, a cura di C. Marazia e D. Stimilli, diaphanes, Zürich 2007, p. 141, e l’edizione della conferenza in A. Warburg, “Per Monstra ad Sphaeram”: Sternglaube und Bilddeutung. Vortrag in Gedenken an Franz Boll und andere Schriften 1923 bis 1925, a cura di D. Stimilli e C. Wedepohl, Dölling und Galitz, München 2008, pp. 63-127; trad. di D. Stimilli, Per Monstra ad Sphaeram, Abscondita, Milano 2009, pp. 43-105. 2. Warburg Institute Archive (d’ora in avanti: WIA) III.113.9., quaderno in quarto, iscritto da Warburg sulla copertina: Kulturwissenschaftliche Bibliothek Warburg W.S. 26/27 Übungen W.S. - 1925/26. S.S. 26, p. 21.
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da “principi conduttori” per l’intero seminario:3 “1. Cerchiamo la nostra ignoranza e la colpiamo ovunque la troviamo; 2. Il buon Dio è nel dettaglio”.4 Sulla pagina successiva dei suoi appunti per quella sessione, Warburg sottolinea l’importanza della sua idiosincratica ars nesciendi prima di ripetere il suo motto più famoso, al quale appende, senza elaborare ulteriormente, la chiosa: “Miglioramento del metodo 1902 [Verbesserung der Methode 1902]”. Il solo interprete, che io sappia, ad aver commentato questo laconico appunto, Dieter Wuttke,5 lo ha inteso come un programma in nuce: in altre parole, ciò a cui Warburg aspirava con il suo seminario del 1925 sarebbe stato un miglioramento rispetto al metodo del 1902, e il motto sarebbe dunque inteso a riassumere il nuovo approccio. Mi sembra più probabile, perché più consono al tono retrospettivo degli appunti nel loro complesso e all’affermazione che il secondo motto era stato ispirato dall’“esempio dei grandi filologi tedeschi” – primo fra tutti Hermann Usener, di cui era stato allievo a Bonn6 –, supporre che il miglioramento di metodo a cui Warburg allude si fosse invece verificato nel 1902, e che ora, nel riprendere in mano le fila della sua vita e della sua opera, egli sentisse il bisogno di rivolgere lo sguardo indietro a quel momento. In entrambi i casi, come Wuttke riconosce, senza peraltro fornire una risposta, la domanda da porsi prima di ogni altra è: che si tratti del miglioramento rispetto a un metodo previamente praticato o di quello stesso che egli intendeva migliorare nel 1925, qual è il metodo del 1902? Prima ancora di tentare una risposta, è già importante constatare come Warburg indichi nel 1902 l’occorrere di una svolta. Si tratta, tuttavia, di un anno che è stato in larga misura sorvolato nelle ricostruzioni della sua attività, dipendenti come siamo da una edizione ancora incompleta dei suoi scritti. Due pubblicazioni no3. Come sostiene in una lettera a Johannes Geffcken, WIA, General Correspondence (d’ora in poi: GC), 16 gennaio 1926. 4. WIA III.113.9., cartella iscritta Einführung, f. [2]. 5. Nel “Nachwort” a A. Warburg, Ausgewählte Schriften und Würdigungen, a cura di D. Wuttke, Koerner, Baden-Baden 19923, p. 623. 6. Cfr. ancora la lettera a Geffcken (vedi sopra, nota 3).
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tevoli videro la luce nel 1902: il saggio sull’Arte del ritratto e borghesia fiorentina, come volume a sé, e quello sull’Arte fiamminga e primo Rinascimento fiorentino nello Jahrbuch der Königlich Preussischen Kunstsammlungen,7 che doveva essere il primo in una serie di supplementi al saggio postumo di Jacob Burckhardt sul ritratto.8 A dispetto della loro innegabile importanza, tuttavia, il punto di svolta che a Warburg premeva segnalare, cercherò di dimostrare, è rappresentato dalla stesura di un testo ancora largamente sconosciuto, per l’ambivalenza nei suoi confronti dello stesso Warburg, come vedremo, ma anche perché né i suoi esecutori testamentari né i suoi biografi hanno saputo sottrarlo all’immeritato oblio.9 Come apprendiamo in apertura del saggio, Il ritratto di un suonatore di lira italiano a Dublino: Attalante Migliorati, la scrittura ne venne stimolata dalla fotografia di un dipinto rinascimentale riprodotto nel volume per il 1902 della rivista “L’Arte”: il ritratto di un musico (fig. 1) nella National Gallery of Ireland a Dublino, attribuito congetturalmente alla “scuola ferrarese” dall’autore dell’articolo, Herbert Cook.10 Dieci anni più tardi, nel ringraziare un altro studioso per l’invio di un articolo su un pittore ferrarese, Baldassare Estense,11 a cui il ritratto veniva ora attribuito, Warburg 7. A. Warburg, “Bildniskunst und florentinisches Bürgertum”, in Gesammelte Schriften, Teubner, Leipzig 1932, vol. I, pp. 89-126, ristampato come vol. I.1 della Studienausgabe, Akademie Verlag, Berlin 1998 (che d’ora in poi cito con l’abbreviazione GS seguita da numero di volume e pagina); trad. di E. Cantimori, “Arte del ritratto e borghesia fiorentina”, in La rinascita del paganesimo antico, La Nuova Italia, Firenze 1966, pp. 109-146; Id., “Flandrische Kunst und florentinische Frührenaissance”, in GS I.1, pp. 185-206; trad. di E. Cantimori, “Arte fiamminga e primo Rinascimento fiorentino”, in La rinascita del paganesimo antico, cit., pp. 147-170. Cito solo dalla traduzione italiana, che modifico tacitamente ove necessario. 8. J. Burckhardt, “Das Porträt in der italienischen Malerei”, in Beiträge zur Kunstgeschichte von Italien, Basel 1898. 9. Ma vedi ora l’eccellente saggio di Alessandro Scafi, L’enigma di un musico: Aby Warburg e l’iconografia musicale, “Musica e Storia”, 1, 2007 (pubblicato nel 2009), pp. 163-203, a cui rimando per un’esposizione più dettagliata della genesi del testo di Warburg, da lui tradotto e pubblicato in appendice: pp. 188-192. Cito dalla traduzione di Scafi, da cui mi discosto tacitamente ove necessario. 10. H. Cook, Pitture italiane esposte a Burlington House, “L’Arte”, 5, 1902, pp. 114-122, qui pp. 118-119. Il ritratto è riprodotto come fig. 11 con la didascalia “Ritratto di violinista”. 11. W. Gräff, Ein Familienbildnis des Baldassare Estense in der Alten Pinakothek, “Münchener Jahrbuch”, 2, 1912, pp. 208-224, qui pp. 219-220.
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La “dea in esilio” di Warburg SIGRID WEIGEL
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ei testi di Warburg della cartella Ninfa fiorentina, scritti nel 1900 e negli anni a seguire, la ninfa è caratterizzata come una “dea in esilio” e quindi viene indirettamente descritta come una qualche parente dei personaggi del libro di Heinrich Heine Gli dei in esilio (1853). Il nome del progetto “Frammento delle ninfe”, mai pubblicato, lo dobbiamo a Ernst Gombrich. In una annotazione sulla ninfa che egli ci riporta troviamo: “Chi è dunque la ‘Ninfa’? Come essere reale, in carne e ossa, può essere stata una schiava tartara liberata, ma nella sua vera essenza è uno spirito elementare, una dea pagana in esilio. Se vuoi vedere i suoi antenati, guarda il bassorilievo sotto i suoi piedi”.1 La circostanza per cui il cosiddetto “Frammento delle ninfe” fino a oggi non è ancora stato pubblicato è tanto più stupefacente se pensiamo alla posizione di primo piano che la ninfa riveste nella scienza della cultura di Warburg.2 Il testo è apparso una prima volta nei Vorträge aus dem Warburg-Haus, Akademie Verlag, Berlin 2000, vol. IV, pp. 65-103, ed è stato qui in parte rivisto. 1. E.H. Gombrich, Aby Warburg. Una biografia intellettuale (1970), Feltrinelli, Milano 2003, p. 113 (corsivi miei). 2. Nella nuova edizione dei Werke in einem Band di Warburg troviamo pubblicati lo scambio epistolare frammentario con Jolles e il manoscritto di una conferenza inclusa nella cartella Ninfa fiorentina, dal titolo: “Florentinische Wirklichkeit und antikisierender Idealismus. Francesco Sassetti, sein Grab und die Nymphe des Ghirlandajo”. Cfr. A. Warburg, Werke in einem Band, a cura di S. Weigel, M. Treml e P. Ladwig, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2010, pp. 198-233.
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“La Nymphe n’existe pas.” Il “Frammento delle ninfe” come oggetto di studio storico-scientifico Il fatto che la ricezione del “Frammento delle ninfe” giri intorno a un punto cieco dell’opera è il sintomo di una discrepanza significativa tra l’enorme storia degli effetti della scienza della cultura di Warburg da una parte, e la solo parziale e in parte spezzettata pubblicazione dei suoi scritti dall’altra, che spesso ha come conseguenza una conoscenza abborracciata dei suoi pensieri e annotazioni genuini. Perciò è particolarmente impressionante che l’immagine di Warburg oggi abbia preso forma soprattutto a partire da quei lavori che fanno parte di progetti che l’autore non ha portato a compimento. A questi appartengono: 1) il progetto dell’atlante Mnemosyne,3 quella raccolta debordante e in ogni caso interminabile di riproduzioni di quadri, sculture, cartoline, foto e immagini pubblicitarie, che Warburg raccolse in base a singoli motivi, scene o gesti espressivi, e ordinò, e più volte modificò e riordinò, come se fossero, per così dire, tracce di pensieri della storia della cultura (per la mostra di Vienna furono ricostruite le grandi tavole di un metro e settanta per un metro e quaranta, grazie alle foto degli schizzi);4 2) il Discorso di Kreuzlingen, che Warburg tenne nel 1923, durante il suo soggiorno nella clinica di Ludwig Binswanger, sul viaggio che ventisette anni prima aveva fatto nella terra degli indiani pueblo nel Nord America; e inoltre la redazione del testo approntato dai suoi collaboratori Fritz Saxl e Gertrud Bing, sulla scorta delle sue note e schizzi, che è divenuto famoso con il titolo Il rituale del serpente;5 3. Cfr. la traduzione italiana dell’atlante, A. Warburg, Mnemosyne. L’atlante delle immagini, Aragno, Torino 2002, che si riferisce all’edizione tedesca a cura di M. Warnke, Bilderatlas Mnemosyne, Akademie Verlag, Berlin 2000. [N.d.T.] 4. Id., Mnemosyne. Materialien, a cura di W. Rappl, G. Swoboda, W. Pichler, M. Kos, Dölling und Galitz, München-Hamburg 2006; cfr. S. Weigel, Zur Archäologie von Aby Warburgs Bilderatlas Mnemosyne, in K. Ebeling, S. Altekamp (a cura di), Die Aktualität des Archäologischen in Wissenschaft, Medien und Künsten, S. Fischer, Frankfurt a.M. 2004, pp. 185-208. 5. La nuova edizione dei Werke in einem Band riporta due stesure dei manoscritti per la conferenza di Kreuzlingen e un manoscritto per una conferenza del 1897, che venne scritto subito dopo il viaggio [cfr. A. Warburg, Il rituale del serpente: una relazione di viaggio, Adelphi, Milano 1998; parzialmente pubblicata in “aut aut”, 199-200, 1984, N.d.T.].
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3) infine, il cosiddetto “Frammento delle ninfe”. Proprio questi tre progetti non conclusi, e cioè non pubblicati, sarebbero considerati dalla scienza della cultura contemporanea come i più interessanti teoremi di Aby Warburg: l’atlante Mnemosyne per il pensiero dell’immagine, Il rituale del serpente per una lettura antropologico-culturale delle culture straniere, e il “Frammento delle ninfe” per la fondazione dell’iconologia moderna, nella quale una caratteristica codificata non funge più da segno che sta per un significato allegorico, come nell’iconologia convenzionale, bensì il significato viene “decifrato” dai dettagli, dai gesti e dagli elementi accessori. Che il “Frammento delle ninfe” stia per essere pubblicato è cosa dubbia. Uno sguardo alle annotazioni che si trovano al Warburg Institute di Londra su questo progetto, mostra infatti come non si possa veramente parlare del frammento di un manoscritto sulle ninfe. Piuttosto troviamo lì numerose mappe, i cui motivi, temi e forme rappresentative sono estremamente differenti.6 Non soltanto il “progetto delle ninfe” si collega a molti altri studi, innanzitutto a quelli su Sassetti e sulla Cappella Tornabuoni, ma inoltre le annotazioni e gli schizzi oscillano chiaramente tra un’approssimazione letteraria e un’ordinazione rigorosamente scientifico-sistematica del materiale, il tutto completato da innumerevoli rappresentazioni grafiche. Sulla base dei manoscritti dobbiamo tenere per certo che “La Nymphe n’existe pas!” – perlomeno non come titolo di un manoscritto. Da questa scoperta deriva però che dobbiamo confrontarci in modo totalmente diverso con i lavori di Warburg: non attraverso la ricostruzione postuma di annotazioni frammentarie, che incessantemente opera intorno a un’ampia ma problematica modalità di discorso su Warburg, con cui si dispone dei suoi lavori come se fossero un corpus unico o un solido tesoro di formule e postulati,7 e spesso nella forma di una teoria di seconda 6. Warburg Institute Archive di Londra (WIA), innanzitutto da 118.1. a 118.8.: “Ninfa fiorentina. Notes and Fragments”. 7. Per esempio formule come quella per cui Atene avrebbe dovuto essere conquistata sempre di nuovo da Alessandria, oppure la formula molto nota secondo cui “il buon Dio si
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Un groviglio di serpenti vivi PAULO BARONE
1. “La permanenza della cultura non si esprime come un’essenza, un tratto globale o un archetipo, bensì come un sintomo, un tratto d’eccezione, una cosa spostata. La tenacia delle sopravvivenze, il loro stesso ‘potere’, come dice Tylor, emergono nella tenuità di cose minuscole, superflue, irrisorie o anormali. È nel sintomo ricorrente e nel gioco, nella patologia della lingua e nell’inconscio delle forme che si situa la sopravvivenza in quanto tale.”1 L’“archetipismo” costituisce, piuttosto, l’“insidia cruciale” (accanto all’“evoluzionismo etnologico”) di ogni analisi e dell’esistenza stessa delle sopravvivenze. “Quando le somiglianze diventano pseudomorfismi, quando inoltre servono a far emergere un significato generale e atemporale”, quando i tratti vengono “generalizzati”, ecco allora che i differenti “modelli di tempo” rischiano la “diluizione”, se non la “negazione pura e semplice.”2 Nel grande libro dedicato a L’image survivante, Didi-Huberman procede ellitticamente, cioè con (almeno) due fuochi, con due obiettivi principali. Da un lato, si adopera affinché il progetto di Warburg, e in modo particolare la sua eredità, siano liberati dall’involucro interpretativo di Panofsky, Gombrich, Saxl, che ne avrebbero urbanizzato i tratti più dissonanti e disinnescato quelli più problematici sino a congelarne i lineamenti. È l’accusa, sin1. G. Didi-Huberman, L’immagine insepolta (2002), trad. di A. Serra, Bollati Boringhieri, Torino 2006, p. 56. 2. Ivi, pp. 61-62.
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tetica, lanciata contro un Warburg “junghiano”: miti, credenze, folklore; l’inconscio de-sessualizzato e schiarito, trapuntato dai fatidici archetipi; la memoria collettiva adibita a “contenitore” indissolubile e produttore inesauribile di immagini, motivi, influenze. Ma soprattutto l’idea quasi hegeliana, rassicurante, conciliatrice, armonica delle trasmissioni simboliche; un modello lineare, uniforme, ritmico del tempo e della storia culturale; un’organizzazione gerarchizzata e chiarificatrice dei “contenuti” immaginali, iconologicamente orientata sui significati unificanti di forme “atemporali”. Dall’altro lato, tuttavia, Didi-Huberman recupera, assembla ed estrae dall’interno di questa opera di liberazione che oppone Warburg ai panofskiani – e dunque attraverso di essa – tutto o gran parte di quello che serve per leggere criticamente il presente in cui viviamo. Una volta ripristinata e de-anestetizzata, infatti, l’eredità warburghiana rovescia sul piatto un carico di elementi che entrano direttamente in conflitto con l’insieme dei dispositivi prima sommariamente elencati, i quali – se lo furono un tempo – oggi non sono più in grado di averne ragione. In questo senso si tratta di elementi che danno luogo a sequenze e costellazioni strambe, anomale, irregolari, marginali, sfuggenti (evidente preludio di modi diversi – a venire – di sentire e pensare rispetto a quelli che ci sono attualmente offerti dal nostro patrimonio culturale ormai in crisi?). In ogni caso, cosa producono le sopravvivenze – Nachleben – che innervano il cuore delle immagini warburghiane? “Le sopravvivenze”, rileva Didi-Huberman, “sono solo sintomi che inducono disorientamento temporale, non premesse di una teleologia in corso, di un ‘senso evolutivo’ qualsiasi”,3 permettono soltanto “di rendere più complesso il tempo storico”,4 di “sbriciolare qualsiasi nozione cronologica della durata”,5 di confondere le periodizzazioni, di “aprire” problematicamente le idee troppo li3. Ivi, p. 64. 4. Ivi, p. 65. 5. Ivi, p. 83.
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neari e scontate di tradizione e trasmissione. In una parola, le sopravvivenze “anacronizzano” passato, presente e futuro, aumentano il volume della storia e la sovvertono, ne sfioccano le cime e l’intelaiatura (la stordiscono?). Non è più sufficiente definire il “significato” delle immagini, occorre cogliervi la “vita”; non basta “interpretare”, occorre comprenderne il “valore espressivo” (che non è mai frutto di un’intenzione). Invece che semplicemente “inglobare simbolicamente” i particolari, astraendoli, occorre rivelare “la schisi strutturale dei sintomi” di cui si sostanziano irriducibilmente. Al posto di “separare forma e contenuto”, seguire la linea degli “indiscernibili iconografici”.6 Perché, in generale, “la logica che i fatti culturali fanno sorgere lascia straripare il caos che combattono; la bellezza che inventano lascia spuntare l’orrore che rimuovono”:7 dolore, residui affettivi, formule-di-pathos. Nelle acque placide del sapere (tendenzialmente) sistematico e organizzato, Didi-Huberman introduce, con Warburg, un “groviglio di serpenti vivi”:8 resti, minuzie, impronte, “contrattempi”, “controeffettuazioni”, luoghi incolti, macerie, dettagli (in cui il “buon dio” vivrebbe). A favore, perciò, di un sapere che sia al contempo un non-sapere, l’immagine. 2. Registrando una percezione diffusa, sono in molti ormai a segnalare “un appiattimento del tempo e una sovversione dello spazio”, ovvero come, detto molto alla lontana, “le tecnologie della comunicazione pretendono di abolire qualsiasi distanza, di eludere gli ostacoli del tempo e dello spazio, di dissolvere le oscurità del linguaggio, il mistero delle parole, le difficoltà dei rapporti, le incertezze dell’identità o le esitazioni del pensiero”.9 Per stigmatizzare la scena contemporanea con un solo tratto, sintetico ma efficace, potremmo dire con Sloterdijk10 che il mondo (prevalente6. Cfr. ivi, pp. 453-454. 7. Ivi, p. 265. 8. Ivi, p. 415. 9. M. Augé, Rovine e macerie (2003), trad. di A. Serafini, Bollati Boringhieri, Torino 2004, p. 68. 10. Cfr. per esempio P. Sloterdijk, Il mondo dentro il capitale (2005), trad. di S. Rodeschini, Meltemi, Roma 2006.
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Bibliografia di Georges Didi-Huberman
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2010, Remontages du temps subi. L’œil de l’histoire, 2, Minuit, Paris. Articoli in italiano 1987, L’immagine aperta, trad. di M. Galletti, in J. Risset (a cura di), Georges Bataille: il politico e il sacro, Liguori, Napoli. 1996, Sulle tredici facce di “Cube”, trad. di E. Grazioli, “Riga”, 11. 1998, “Fissata a sua insaputa in uno stampo magico...” Anacronismo del calco, storia della scultura, archeologia della Modernità, trad. di L. Grazioli, “Ipso Facto. Rivista d’arte contemporanea”, 1. 1999, Ciò che vediamo, ciò che ci guarda, trad. di E. Grazioli, “Ipso Facto. Rivista d’arte contemporanea”, 4. 2000a, L’indizio della ferita assente, trad. di O. Bonnefoi, in F. Molteni (a cura di), La memoria di Cristo. Le copie della Sindone: verità di fede e verità storica, Santa Maria della Scala-Protagon editori toscani, Siena. 2000b, Il volto e la terra, trad. di G. Giometti, in E. Baiocco (a cura di), Il volto, il ritratto, la maschera, Palazzo delle Papesse-Centro Arte contemporanea, Siena. 2001a, Immagini malgrado tutto, trad. di C. Bigliosi, in F. Rella (a cura di), Trame, 2. Il male. Scritture sul male e sul dolore, Pendragon, Bologna. 2001b, Immagini malgrado tutto, trad. di G. Boni, O. D’Amato, L. Nocera e C. Rega, in C. Chéroux (a cura di), Memoria dei campi. Fotografie dei campi di concentramento e di sterminio nazisti (1933-1999), Contrasto, Roma. 2002, La Ninfa e la sua caduta, trad. di F. Rella, “Trame”, 3. 215
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