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352 ottobre dicembre 2011
Elvio Fachinelli. Un freudiano di giudizio Un freudiano di giudizio [A.S.] MATERIALI Elvio Fachinelli Lo psicanalista deve definire la sua posizione in società [1970] E.F. Cultura e necrofagia nell’industria culturale [1978] E.F. Destra e sinistra: una coppia simbolica esaurita [1981] E.F. E la passione unì macchina e paziente [1986] E.F. Pecorelle smarrite nell’ora di religione [1986] E.F. A proposito di una legge impossibile [1988-89] E.F. Don Abbondio, il vittorioso [1989] Pier Aldo Rovatti Co-identità Lea Melandri Il viaggio di Edipo alla radice dell’umano Paulo Barone Note a “Cultura e necrofagia” Sergio Benvenuto Finale al femminile Cristiana Cimino Estasi e perturbante. Nei dintorni di Thanatos Adalinda Gasparini Un pensiero solitario Luca Migliorini La noce di Grothendieck Antonello Sciacchitano Finito di scrivere o Fachinelli legge Lacan
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INTERVENTI Luisa Accati Il dolore non è un merito. L’immaginario religioso e le sofferenze della politica 151 Mario Vergani Resistenza e liberazione. I “Quaderni di prigionia” di Emmanuel Levinas 169 Alessandro Dal Lago L’ontologia dietro la macchina da presa? Note sull’ultimo cinema di Terrence Malick 188
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rivista fondata da Enzo Paci nel 1951 direttore responsabile: Pier Aldo Rovatti redazione: Sergia Adamo, Paulo Barone, Graziella Berto, Deborah Borca (editing, deborahborca@libero.it), Silvana Borutti, Damiano Cantone, Mario Colucci, Alessandro Dal Lago, Rocco De Biasi, Giovanna Gallio, Edoardo Greblo, Raoul Kirchmayr, Giovanni Leghissa, Anna Maria Morazzoni (coordinamento, tel. 02 70102683), Ilaria Papandrea, Fabio Polidori, Rosella Prezzo, Pier Aldo Rovatti, Antonello Sciacchitano, Giovanni Scibilia, Davide Zoletto direzione: c/o il Saggiatore, via Melzo 9, 20129 Milano collaborano tra gli altri ad “aut aut”: G. Agamben, H.-D. Bahr, R. Bodei, L. Boella, J. Butler, M. Cacciari, A. Cavarero, G. Dorfles, M. Ferraris, U. Galimberti, P. Gambazzi, S. Givone, A. Heller, F. Jullien, J.-L. Nancy, A. Prete, M. Serres, G.C. Spivak, G. Vattimo, M. Vegetti, P. Veyne, V. Vitiello, S. Žižek per proposte di pubblicazione: redazioneautaut@gmail.com Si fa presente che “aut aut” non pubblica recensioni e non accetta testi di ampiezza superiore a 40.000 battute (note e spazi compresi).
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Un freudiano di giudizio
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e azioni di Freud sono in ribasso. Non ho statistiche attendibili in proposito. La mia affermazione si basa su un solo dato di fatto, a suo modo singolare. Dispongo di un sito web, dotato di una certa visibilità: in media tremila visite al mese, con punte di seimila; in media mille e cinquecento pagine lette al mese, con punte di tremila. Nel sito ho predisposto una decina di pagine che parlano (criticamente) di Freud e una sola che parla (molto criticamente) di Jung. Inoltre, i link interni al sito sono polarizzati decisamente su Freud. Ciononostante, con mia relativa sorpresa, da qualche mese tra le top ten delle pagine più gettonate non compare più Freud ma compare Jung. Junghismo contro freudismo dieci a uno. Lacan, che ha pure molte pagine e molti link (e moltissime critiche) a lui dedicati, galleggia per lo più a metà classifica. Le cause di questo esito singolare possono essere molte. Quella che mi viene più spontaneo e immediato immaginare, non necessariamente la più probabile, è la maggiore apparente scientificità di Freud. Alla gente non piace vedere immischiata la scienza, oggettiva e impersonale, nelle proprie faccende soggettive e personali. La gente preferisce pensare in termini mitologici di narrazioni universali, che sente più affini alle proprie storie. Freud è carente di miti: offre un solo e misero mito, l’Edipo, contro la ragguardevole ricchezza di miti esibita da Jung. Freud gode di minori consensi di Jung, perché apparentemente concede meno alla platea, allora? Freud meno “populista” di Jung? aut aut, 352, 2011, 3-7
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Non è questa la sede per discutere dei destini della psicanalisi. Rimando a un prossimo numero di “aut aut” su Freud e Jung, più volte ventilato in redazione, ma mai messo in cantiere. Qui mi limito a paragonare il dato singolare sopra riferito a un altro ugualmente singolare. Lo faccio anche per giustificare il titolo dato al numero: “Elvio Fachinelli. Un freudiano di giudizio”, decantandolo da risvolti potenzialmente polemici. Esisterebbero freudiani poco giudiziosi? Le azioni di Elvio Fachinelli, invece, non sono mai scese. Ero uno psicanalista alle prime armi nel “tumultuoso decennio ’6878” e leggevo con curiosità i suoi elzeviri sulla terza pagina del “Corriere”. Cosa mi attirava di questo “intellettuale lacaniano, che sposò psicanalisi e politica”, come racconta la storica della psicanalisi italiana, Silvia Vegetti Finzi?1 Certamente la sua capacità di analizzare le vicende del soggetto collettivo non meno di quelle del soggetto individuale, senza però confonderli e senza applicare al primo i cliché validi per il secondo. Paradigmatiche e tuttora attuali, nella Freccia ferma,2 le pagine sul fascismo italiano, inteso come modalità ricorrente di arresto della freccia del tempo dai tempi di Zenone alla moderna psicastenia. Dopo la sua morte (1989) i congressi in memoria si rincorrono. Non ne ha avuti altrettanti Cesare Musatti, che pure fu suo analista e famoso perché definiva la psicanalisi come la propria sorella gemella.3 Ne ricordo alcuni tra i più importanti: Salerno, 2022 ottobre 2005, La mente e l’estasi, organizzato da Rosario Conforti; Trento, 27-28 marzo 2009, Nel secolo della psicoanalisi. Elvio Fachinelli e la domanda della Sfinge, organizzato da Nestore Pirillo; Firenze, 18 settembre 2010, Estasi laiche. Intorno a Elvio Fachinelli, organizzato da Adalinda Gasparini. “Intramontabile Fachinelli”, scrive Paulo Barone,4 precisando 1. “Corriere della Sera”, 11 dicembre 1998, p. 35. 2. E. Fachinelli, La freccia ferma. Tre tentativi di annullare il tempo, L’erba voglio, Milano 1979, pp. 108-122. 3. Ma Musatti si prende la rivincita su Google: 149.000 voci contro le 60.000 di Fachinelli. 4. “il manifesto”, 18 dicembre 2009, p. 25. Sulle stesse pagine Franco Lolli descrive Fachinelli come Uno psicanalista a misura del mondo.
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subito che ciò che non tramonta è la grazia rivoluzionaria. Insomma, Fachinelli un mito? Perché no? Noi moderni siamo affamati di miti, come aveva ben capito Jung. In fondo i miti moderni sono molto pochi, solo due. Sono il Faust e il Don Giovanni, entrambi miti epistemici, come è giusto che sia in epoca scientifica: uno, quello di Faust, il mito del falso sapere (mefistofelico? scientifico?); l’altro, quello del Burlador de Sevilla, il mito del saperci fare con le donne (?) non più angelicate; in fondo, sapeva solo contarle una dopo l’altra, precisa Lacan.5 A proposito di sapere, cosa sapeva Fachinelli? Tentano di rispondere i contributi raccolti in questo numero di “aut aut”, che si apre con una serie di suoi testi cosiddetti “minori”. Si comincia, simbolicamente, con uno scritto di Pier Aldo Rovatti, coevo a Claustrofilia. In quegli anni, dalle colonne di “Alfabeta” Rovatti dialogava con Fachinelli sulla nozione allora nuova e problematica di co-identità. Rovatti è poi intervenuto anche al citato convegno di Trento sulla mente estatica come pratica di pensiero. La nozione foucaultiana di “pratica” sarebbe piaciuta a Fachinelli, che era un teorico sì, ma poco amante delle teorizzazioni astratte e generalizzanti. Lo scritto maggiore per estensione è quello di Lea Melandri, costruito secondo il paradigma del viaggio mitologico dell’eroe, alla Otto Rank o, in tempi più vicini a noi, alla Joseph Campbell. Il percorso intellettuale di Fachinelli diventa, allora, Il viaggio di Edipo alla radice dell’umano. Offre l’amorevole ripresa dei rischi che l’intellettuale affrontò nel suo attraversamento delle aporie della modernità, prima di tutte quelle insite nella dialettica individuale/collettivo, dove il collettivo è visto anche dal punto di vista del movimento delle donne. All’estremo opposto, lo scritto minore, ma solo per numero di battute, e non meno denso di spunti di riflessione, è quello di Paulo Barone, che commenta il testo di Fachinelli su Cultura e necrofagia nell’industria culturale, del 1978, qui riportato nei Materia5. J. Lacan, Le Séminaire. Livre XX. Encore (1972-1973), Seuil, Paris 1975, p. 15. Per la precisione, Don Giovanni lascia la contabilità al proprio commercialista Leporello.
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li. Ogni sapere è destinato a superarsi, afferma Jung, citato da Barone alla fine del suo pezzo. Ma c’è modo e modo di dileguare, tanto per dirla alla Hegel. Il modo della cultura necrofagica è quello sterile della cadaverizzazione, che non consiste nel far sparire i prodotti culturali, gli oggetti, ma nel mummificarli in un tempo pseudoeterno senza presente e senza conseguenze di pensiero. Seguono quattro interventi presentati al citato congresso di Firenze. Sono tutti incentrati sull’ultimo libro di Fachinelli, La mente estatica, del 1989. Sergio Benvenuto rilegge il capitolo finale di Analisi finita e infinita di Freud alla luce del “significante nuovo” proposto da Fachinellli: accoglienza, in antitesi alla nozione freudiana di difesa.6 Invita a pensare il rifiuto della femminilità, il gewachsener Fels freudiano, come resistenza ad accogliere il nuovo. Dobbiamo pensare una nuova ospitalità del e al pensiero. È qui forse il caso di ricordare che intorno alla questione dell’ospitalità si era cimentato l’ultimo Derrida, un filosofo particolarmente vicino alla psicanalisi. Cristiana Cimino propone alcuni modi di coniugare nella pratica clinica l’“estasi laica” fachinelliana con il significante freudiano dell’Unheimliche. Adalinda Gasparini sviluppa il tema del pensiero solitario e inattuale di Fachinelli. Esiste un pensiero solitario? Forse è ontologicamente impossibile. Perciò va tentato e magari reso attuale. Luca Migliorini, matematico a Bologna, analizza i rapporti tra creazione matematica e creazione poetica: Proust contro Grothendieck, un bel match. Infine, su suggerimento di Rovatti, il sottoscritto parla di come leggeva Lacan l’allievo che Lacan non ebbe mai. Una sintesi? Perché no, sapendo naturalmente quanto possa essere fallace. Ne propongo una esclusivamente mia, unicamente a giustificazione del titolo del numero della rivista, da me proposto e deciso in redazione con generale consenso ma, comprensibilmente, senza molto entusiasmo. Fachinelli seppe essere un freudiano di giudizio. Accolse il freudismo, lo rielaborò e lo estese dalla dimensione di pratica terapeutica individuale, cui l’avevano ridotto i freudiani ortodossi, alla dimensione di pratica politica col6. E. Fachinelli, La mente estatica, Adelphi, Milano 1989, p. 23.
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lettiva, pur senza indulgere alla moda di allora: il freudomarxismo, via impraticabile, tentata ai tempi e per un breve periodo da Wilhelm Reich. Fachinelli fu un freudiano di giudizio nel senso che applicò a Freud un giudizio critico “freudiano”. Accettò e approfondì la nozione freudiana di negazione che non nega (già in Hegel) e di meccanismo di ripetizione (già in Nietzsche),7 ma respinse il “delirio” dei meccanismi di difesa,8 espressione della mentalità bellicistica del fondatore della psicanalisi. È questo per me un insegnamento che resta. Altrettanto “giudiziosi” dovremmo essere anche noi, quando ci diciamo freudiani. Altrettanto e forse di più dovremmo esserlo nei confronti di Lacan, quando ci presentiamo come lacaniani. Suvvia, abbiamo il coraggio di essere freudiani senza freudismi, lacaniani senza lacanismi. Non fu Fachinelli, “intellettuale lacaniano”, a darcene l’esempio? (Di un autore di tale spessore etico i miei nipoti attendono ancora le Opere complete.) [A.S.]
7. Cfr. Id., Il bambino dalle uova d’oro, Adelphi, Milano 2010, p. 21. 8. Cfr. Id., La mente estatica, cit., pp. 20 sgg.
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Materiali
Quali testi di Elvio Fachinelli ripubblicare in una sezione della rivista dedicata alla sua memoria? Ha risolto per noi il problema la figlia Giuditta, che ringraziamo, la quale ha consentito la pubblicazione dei testi qui presentati. Coprendo un ventennio circa, i testi che seguono permettono di cogliere un tratto significativo dell’evoluzione intellettuale di questo singolare psicanalista, che mi piace definire un freudiano di giudizio. Fachinelli di sinistra? Fachinelli freudomarxista? Fachinelli lacaniano? A Elvio le etichette andavano strette. Fachinelli fu uno psicanalista che non ridusse mai il proprio mestiere a specializzazione. Poteva parlare di Manzoni o sorvegliare l’asilo di Porta Ticinese come uno “zio” qualunque – così lo chiamavano tra l’affettivo e il canzonatorio i bambini di Porta Cicca. Un “uomo senza qualità” con l’unica qualità di essere un uomo senza dottrine. Prefigurava quella caduta delle ideologie che la caduta del muro di Berlino, quarantadue giorni prima della sua scomparsa, avrebbe poi imposto ai pensatori di buona volontà. Fachinelli freudiano non specialista, allora. Talvolta critico con Freud, ma all’interno di una riappropriazione personale del freudismo. Forse la differenza maggiore con Freud non fu teorica ma pratica: Elvio la espresse sul piano politico. Fachinelli non condivise mai la politica lobbistica della psicanalisi. Controcongressi a parte, fu freudiano ma non di parte. Non istituzionalizzò neppure la propria contestazione. Volle lasciarla mobile, “liquida”, direbbe oggi Bauman. Un insegnamento per noi – da non cristallizzare. Passo brevemente in rassegna i testi fachinelliani selezionati. Lo psicanalista deve definire la sua posizione in società (1970). Ho esitato a lungo prima di ripubblicare questo testo. Per vari motivi: è un testo redazionale; si riferisce a una situazione di floridezza della psicanalisi, oggi non più attuale; indurrebbe a classificare l’autore Fachinelli come un ibrido freudomarxista, in triste assonanza con pseudomarxista. Cosa mi ha convinto a inserirlo, allora? Una “segreta simmetria” con l’ultimo testo del 1989, anno della sua scomparsa. C’era una singolare prudenza politica nell’attività intellettuale di Fachinelli, che per nulla smussava il filo tagliente
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delle sue analisi. Oggi, se mi guardo intorno, stento a ritrovare le tracce di un pensiero tagliente. Oggi sono scomparse le ideologie, si ama ripetere, per consolarsi del lutto più che per vera convinzione. Il loro posto è stato preso da fondamentalismi più o meno religiosi, particolarismi più o meno fanatici, in singolare combutta con fascismi più o meno striscianti (anch’essi non ideologici), ma non meno arroganti delle vecchie ideologie. Cosa direbbe il prudente Elvio di una situazione politica vuota di pensiero ma non poco complicata? Cultura e necrofagia nell’industria culturale (1978). “Mortui vivos docent” sta scritto sull’ingresso dell’anfiteatro anatomico della Facoltà di medicina dell’Università degli studi di Milano. Ogni medico sa che il proprio sapere si fonda sul cadavere. Ma Fachinelli, che era medico, sapeva qualcosa in più. Sapeva che la cultura cadaverizza il sapere. Trasmette un sapere morto perché non produca temibili innovazioni. Questa prossimità del sapere alla morte fa parte del disagio del vivere civile, in quanto compromesso con la morte. Anche questo Fachinelli sapeva, non perché fosse medico, ma perché era freudiano. Destra e sinistra: una coppia simbolica esaurita (1981). Questo testo ha avuto una vasta eco sul web. La parola dello psicanalista tocca qui qualcosa di molto concreto. Le dicotomie simboliche non sono qualcosa di astratto che ci domina dalla profondità del tempo remoto. Non sono archetipi. Il freudiano ci insegna che le dicotomie simboliche proiettano sul corpo sociale le simmetrie che governano il corpo del singolo – le sue zone erogene, direbbe lui. Detto questo, si possono trasformare, magari abbandonare per adottarne di nuove. Il tradizionale sistema di equazioni: destra = libertà, sinistra = equità, è politicamente da riposizionare. Prima che la Lega vinca le elezioni. E la passione unì macchina e paziente (1986). Mente-corpo. Un dualismo rispetto al quale con qualche buona ragione la redazione di “aut aut” non si è dimostrata particolarmente sensibile. Fachinelli lo affronta qui come problema (o pseudoproblema) posto all’analista. Il corpo parla, si sperimenta in psicanalisi. Questo vuole automaticamente dire che esiste una mente? Non è detto. Esistono macchine parlanti: dal grammofono ai programmi di computer che simulano la funzione dell’analista. Come distinguerli dall’Homo loquens? E poi, se esiste l’inconscio, esiste un sapere che non si sa di sapere. Quindi esiste una mente che non sa di essere una mente? Una mente che simula una mente che non esiste? Sappiamo la risposta di Fachinelli e ci convince molto. Se esiste una mente, è una mente
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estatica. Una mente fuori dalla portata della mente ma non poco corporea. Allora resta aperta la questione, che il filosofo non può lasciare nelle mani dell’uomo di scienza: cos’è una macchina? Cos’è il meccanicismo? Pecorelle smarrite nell’ora di religione (1986). Ritrovo lo psicanalista con il gusto del caso singolo e singolare, capace di smontare (smentire) l’ideologia politicamente corretta. Ricordo che negli anni settanta Fachinelli aveva promosso a Porta Ticinese di Milano un asilo non autoritario. A proposito di una legge impossibile (1988-1989). Uno psicanalista che prenda posizione pubblica su un problema politico e sociale in nome della propria competenza, cioè del proprio saperci fare con il sapere inconscio, allora faceva scalpore. Oggi non fa più scalpore semplicemente perché il fenomeno non esiste. Perché non esiste più la psicanalisi? A chi, in ultima analisi, abbiamo delegato la gestione dell’immaginario collettivo? Al pubblicitario? Allo psicoterapeuta? Al prete? Al medico? Una breve osservazione sul binomio “legge impossibile”. Certamente, Fachinelli aveva in mente le tre professioni impossibili secondo Freud: educare, governare, psicanalizzare. Ma forse ha giocato nella scelta del binomio anche un’influenza lacaniana, frutto delle frequentazioni di Fachinelli con l’analista parigino, quando il lacanismo non era ancora di moda. Impossibile, cioè reale, in senso lacaniano. Le mode passano, il reale resta. Don Abbondio, il vittorioso (1989). Fachinelli critico letterario? Non proprio. La sua parabola – a sei mesi dalla scomparsa – si conclude come è iniziata. Perché il posto del discorso dell’analista è sempre lì: è un invariante, come dice lo stesso Elvio, mutuando il termine dalla matematica, ma ignorando che in matematica invariante è un sostantivo maschile – perciò lo scrive con l’apostrofo. Il discorso dello psicanalista sta sempre lì – non cambia di posto – tra etica e politica: un luogo dove c’è posto per tanti – per i don Abbondi e per i cardinal Federighi, per i prudenti e per gli imprudenti, per i più e per i meno coraggiosi con una leggera simpatia per... “Uno il coraggio non se lo può dare” è il motto dell’etica dei don Abbondi. Cui lo psicanalista aggiunge incoraggiando: “Allora usalo, quel tanto o poco che hai”. Magari per concludere la tua analisi. [A.S.]
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Lo psicanalista deve definire la sua posizione in società [1970] ELVIO FACHINELLI
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a psicanalisi sta attraversando in Italia una fase positiva di affermazione e di diffusione. A sentire gli editori, un libro che ha come argomento la psicanalisi ha molte probabilità di essere venduto bene; a sentire gli analisti, le richieste di terapia si fanno sempre più frequenti; Milano e Roma sono i centri in cui si svolge la maggior parte dell’attività analitica, ma le richieste giungono anche dalla provincia e da zone fino a oggi impensabili. La spiegazione di questo fenomeno può essere fatta risalire alla divulgazione, che oggi avviene a livello di massa, dei problemi psicologici e di una certa chiave psicanalitica con cui essi vengono affrontati, nelle rubriche di corrispondenza con i lettori che ogni settimanale, femminile o no, tiene regolarmente con grande successo. Comunque sia, la psicanalisi è entrata nella società italiana come una componente culturale ormai imprescindibile, le cui ripercussioni sono avvertite a tutti i livelli, sociali e di settore: nel costume, nei libri, nelle opere d’arte. Da qualche anno contenuti di tipo psicanalitico entrano regolarmente nei romanzi e nelle opere cinematografiche. Diario di una schizofrenica di Nelo Risi ha segnato recentemente una sorta di punto fermo in questo fenomeno di presa della psicanalisi sul pubblico; film tutt’altro che leg“Tempo medico”, 83, maggio 1970, pp. 32-37. Articolo non firmato, basato su un’intervista a Fachinelli.
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gero e gradevole, il suo successo, anche di cassetta, è sicuramente sintomatico. Esso viene d’altra parte dopo altri esempi più o meno felici, e di sicuro meno rigorosi scientificamente, che tuttavia testimoniano anch’essi di un clima particolare. Gli esempi potrebbero essere numerosi né si ha l’impressione che il fenomeno sia in fase calante. È probabile che si stia vivendo in Italia il periodo esplosivo che la psicanalisi ebbe negli Stati Uniti vent’anni or sono; allora giunsero in Italia solo le frange periferiche del ciclone, sotto forma di alcuni film melodrammatici e di risonanze culturali (si cominciò tra l’altro a ironizzare sul fatto che tutti gli americani andavano dallo psicanalista). Ora, con il solito intervallo, assolutamente necessario tuttavia all’affermazione dei consumi e alla diffusione del benessere alla media e piccola borghesia, l’ondata psicanalitica è giunta anche in Italia. Le cause sono evidentemente da individuare nel fattore economico e produttivo. Il benessere consumistico, fattore notoriamente nevrotizzante, concede nello stesso tempo alle proprie vittime la possibilità economica di accedere al divano dello psicanalista. La società in altre parole crea con i mali anche i mezzi per affrontarli. Ma cosa dicono gli psicanalisti di questo fenomeno? E dove sta andando la psicanalisi in Italia? “Tempo medico” ha pensato di rivolgersi al dottor Elvio Fachinelli, esponente di un nucleo di psicanalisti milanesi (di cui fanno parte anche Luigina Balestri, Mauro Mancia, Anna Paganoni, Carlo Ravasini, Carla Rostagni [Sommaruga]) che al Congresso internazionale di psicanalisi, tenutosi a Roma nel luglio dello scorso anno, fecero un intervento, in collaborazione con analisti stranieri, che portò seduta stante all’organizzazione di un vivace “controcongresso”.1 1. [“In quei giorni del luglio 1969,” ricorda Paolo Migone, “mentre all’Hotel Cavalieri Hilton [di Roma] andava svolgendosi il 26° congresso della International Psychoanalytic Association (IPA), un gruppo di partecipanti [capeggiati da Elvio Fachinelli e Berthold Rothschild] incominciò a riunirsi quotidianamente in un vicino ristorante (allora si chiamava ‘Carlino al Panorama’) per contestare vari aspetti delle istituzioni psicoanalitiche e per discutere delle implicazioni politiche e sociali della psicoanalisi. Il clima culturale era quello degli anni sessanta, ricco di fermenti critici e di spinte ideali che dovevano poi svilupparsi negli anni seguenti. Questa specie di ‘controcongresso’ attirò l’interesse di molte persone [...] e oc-
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La caduta degli dei borghesi Della civile sommossa di Roma parlarono diffusamente i giornali; ora, ad acque sedate, l’opinione di uno degli analisti contestatori appare la più adatta per indicare le vie inedite, i punti di rottura di una scienza che per sua natura corre parecchi rischi di cristallizzazione e di stasi. Una contestazione, quella di Fachinelli, nata da esperienze vive, vissute in proprio. Da Bolzano va a studiare a Pavia, allievo del Collegio Cairoli; entra come interno in clinica neurologica, spinto da interessi specifici, e prepara una tesi in caratterologia. Dopo un anno di lavoro il direttore della clinica lo incontra in corridoio e gli chiede chi sia e cosa stia facendo. Allora Fachinelli contesta come si faceva quindici anni fa, con un atteggiamento negativo e rimettendoci in proprio. Lascia la clinica e si laurea con Giulio Maccacaro in microbiologia: “Non perché amassi particolarmente i batteri, ma perché mi seduceva l’aspetto logico-matematico di questi studi”. Ma dove portava la microbiologia quindici anni fa, se il giovane medico non aveva alle spalle un padre ricco o altre fortunate combinazioni? All’industria farmaceutica. Alla Carlo Erba di Milano, Fachinelli lavorò come microbiologo e fece altre esperienze istruttive, e beninteso assolutamente positive, come dimostra il fatto che se ne andò dopo brevissimo tempo, per specializzarsi in psichiatria, fare l’analisi didattica con Cesare Musatti e iniziare la professione di psicanalista, individuale e di gruppo. Bilingue di nascita, Fachinelli mise a profitto la conoscenza del tedesco traducendo molti testi di psicanalisi, fra cui l’Interpretazione dei sogni di Freud.2 In realtà egli è uno spirito inquieto, operante nel vivo della società. La vita culturale milanese lo vede sempre cupò le pagine di vari giornali di allora e i notiziari televisivi. Fu da questo incontro che nacque ‘Plataforma Internacional’ [...], un movimento che si proponeva di coordinare le iniziative e la riflessione critica nei vari paesi, soprattutto riguardo all’opposizione nei confronti dell’IPA” (P. Migone, I venti anni di Plataforma Internacional, “Il Ruolo terapeutico”, 53, 1990, p. 41). La storia del “controcongresso” di Roma è rievocata in dettaglio da Marianna Bolko e Berthold Rothschild in Una “pulce nell’orecchio”. Cronaca del controcongresso dell’International Psychoanalytic Association di Roma del 1969, “Psicoterapia e scienze umane”, 3, 2006, pp. 703-718.] 2. In S. Freud, Opere, vol. III, Boringhieri, Torino 1966.
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Cultura e necrofagia nell’industria culturale [1978] ELVIO FACHINELLI
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ono costretto per necessità di tempo a enunciare in modo essenziale ciò che, nella eventuale discussione, potrà essere specificato e problematizzato. 1. Guardando all’insieme delle istituzioni culturali da una prospettiva né storica in senso stretto né storicistica, si è ben presto portati a vedere in esse le eredi legittime di quel mondo degli antenati che ha un’importanza fondamentale nei gruppi arcaici, quali li conosciamo attraverso le descrizioni tramandate, i ritrovamenti archeologici e i resoconti etnografici. Nei gruppi arcaici la comunità degli antenati si costituisce attraverso la negazione della morte individuale e il riassorbimento dei singoli morti, attraverso va“Quaderni piacentini”, 69, dicembre 1978, pp. 101-104. È il testo della comunicazione presentata al convegno di Piacenza della Cooperativa scrittori, dedicato a Lavoro mentale: produzione e mercato (27-29 ottobre 1978). Essa fa parte di un lavoro più ampio sui sistemi ossessivi attualmente in corso [cfr. La freccia ferma, L’erba voglio, Milano 1979]. Forse per la prospettiva insolita da cui critica l’industria culturale, questo testo ha dato origine nei resoconti giornalistici a diversi equivoci. È stato interpretato per esempio come un commento ai lavori stessi del convegno, per la verità non troppo vivaci. La pubblicazione in “Quaderni piacentini” intende anche ristabilire l’obiettivo reale, che è, appunto, l’industria culturale nelle sue tendenze oggi prevalenti in Italia. (E.F.) [La Cooperativa scrittori fu una casa editrice nata nel 1972 dalla costola romana del Gruppo ’63, come reazione alla prima grande concentrazione editoriale attuata dalla Rizzoli. Tra i suoi promotori vi erano Luigi Malerba, Angelo Gugliemi, Alfredo Giuliani, Nanni Balestrini, Elio Pagliarani e altri. Nel convegno di Piacenza, conformemente al titolo scelto dagli organizzatori, si sarebbe dovuto discutere di “lavoro mentale tra produzione e mercato”: di fatto si finì per dar voce, soprattutto attraverso i comportamenti dei singoli, ai molti dubbi che allora gravavano sull’identità dell’intellettuale.]
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rie e complesse procedure di lutto, nell’unità di un gruppo di morti-viventi, che continuano a far parte del gruppo stesso. Questo lavoro del lutto si distingue generalmente in due fasi. Una prima fase, caratterizzata da una serie di operazioni che interessano prevalentemente il morto immediato, il cadavere, nei suoi difficili rapporti con i superstiti. Una seconda fase, largamente successiva, in cui entra in gioco il destino finale del morto disincarnato nell’aldilà e i suoi rapporti col mondo dei viventi. A questo punto, il gruppo risulta quindi strutturato secondo due poli, quello dei viventi in senso stretto e quello dei morti-viventi. Come risulta da molteplici resoconti, il polo degli antenati svolge una funzione normativa nei confronti del polo dei viventi. Sarebbe troppo lungo e complesso indagare qui sul perché gli antenati abbiano tale funzione; diciamo soltanto che la funzione normativa esercitata dagli antenati è perlopiù estremamente rigorosa: il trasgressore è spesso punito con la morte. Oltre alla funzione normativa, al gruppo degli antenati spetta un compito di tesoriere, di custode permanente dell’immaginario e del simbolico del gruppo attraverso i miti, i riti e così via. 2. La fine del mondo arcaico, segnata dall’accumularsi senza soste dell’esperienza preistorica che esso non riesce più a neutralizzare e a riassorbire nel tempo ciclico che lo contraddistingue, segna anche la fine di questo rapporto di dipendenza, in genere piuttosto stretto, dal mondo degli antenati. Gli antenati muoiono. Attraverso però l’invenzione della scrittura e degli altri sistemi di conservazione e riproduzione dei suoni e delle immagini, è assicurata la permanenza e, in misura minore ma sempre notevole, anche la normatività delle opere dei morti. Il rapporto stretto tra i morti-viventi e i comportamenti abituali dei vivi si trasforma quindi a poco a poco nel rapporto tra i “maggiori” e l’operare intellettuale, creativo, dei vivi. Una conferma di questa transizione si può cogliere nell’aura religiosa che ancora oggi circonda, per la maggioranza forse degli uomini, tale operare. La cultura si costituisce, dunque, da questo punto di vista, come frutto di un lavoro di lutto, che porta al di22
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stanziamento, alla purificazione e alla stabilizzazione delle opere degne di essere conservate. Nasce un ideale luogo di permanenza. A questo punto si instaura quell’ininterrotto scambio con i mortiviventi, che prende in buona parte il posto dell’antica dipendenza da essi. Si sente spesso ripetere, in tono di nostalgia, che il mondo moderno ha operato una “rimozione della morte”. Ora, quest’asserzione ha del vero per ciò che attiene alla morte individuale, biologica, in senso stretto. Ma di solito non ci si avvede di questa sostituzione operata dall’insieme delle istituzioni culturali. L’opera culturale sostituisce l’individuo e va incontro ai procedimenti di lutto cui questi era sottoposto. I libri, insieme alle altre opere degli uomini, sono nello stesso tempo i loro figli e i loro morti. Come nel caso degli antenati, anche il rapporto tra i viventi e il tesoro culturale dei morti-viventi non è pacifico, assicurato una volta per tutte. Al contrario, conosciamo tutti le lotte secolari che periodicamente si riaccendono tra le ragioni dei viventi e la costruttività della tradizione culturale. Il rapporto con gli antenati, anche nella cultura, è pacifico soltanto per chi lo guarda da lontano, o lo vuole vedere a tutti i costi tale. 3. Il processo di produzione industriale interviene a fondo anche in questa situazione, cioè nel mondo dei morti-viventi della cultura, con violenza forse superiore a quella conosciuta dal mondo arcaico di fronte all’accumularsi dell’esperienza storica. Questo processo, retto in larga misura dai principî economici del profitto e dell’aumento della produzione, dà luogo a una serie di effetti, che devono essere esaminati dal punto di vista proprio della cultura, che è, ripeto, la creazione di un luogo di permanenza e dello scambio con le opere dei morti-viventi. In breve, questi effetti possono essere così descritti. In primo luogo, un’intensificazione prodigiosa della prima parte del lavoro del lutto, quella che ha a che fare con l’opera come prodotto immediato, come cadavere, di immediata rilevazione oggettuale e statistica. Dall’altra parte, un assottigliamento meno visibile, ma altrettanto netto, della seconda parte di tale operazione, quella volta alla depurazione delle ope23
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Destra e sinistra: una coppia simbolica esaurita [1981] ELVIO FACHINELLI
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i sia consentito di partire, per fissare i pochi punti del mio intervento, da un’osservazione storica a prima vista marginale, o tutt’al più laterale. Come certamente molti sanno, e come si legge nei testi di scienze politiche, la distinzione parlamentare tra destra e sinistra sembra risalire all’assemblea detta Costituente, durante la Rivoluzione francese: i rivoluzionari moderati sedevano alla destra del presidente, i rivoluzionari accesi alla sua sinistra. Rilevo questo particolare: i due lati erano e sono tuttora individuati rispetto al capo o centro dell’assemblea. Non sarà allora azzardato supporre che in questa distribuzione spaziale abbia inconsapevolmente giocato un riferimento simbolico ben noto in tutto l’Occidente e singolarmente coerente sia nella tradizione greco-romana che in quella ebraico-cristiana. Alla destra del presidente: come alla destra del Signore stanno i santi e gli eletti; la destra, ossia il lato, secondo Eschilo, del braccio che brandisce la lancia; il lato maschile di Adamo, secondo i commenti rabbinici che vedevano nel primo uomo un androgino; il lato divino e diurno, secondo i teologi medievali; il lato dei buoni presagi, dell’abilità e del successo, secondo gli indovini romani. E la sinistra? Si può notare come i suoi principali predicati simboli“Lotta continua”, 27 ottobre 1981, con il titolo Una proposta: non usare i termini “sinistra” e “destra” (il titolo qui dato è quello della ristampa in M. Cacciari et al., Il concetto di sinistra, Bompiani, Milano 1982, pp. 21-24). Comunicazione presentata a un convegno sul concetto di sinistra (Roma, ottobre 1981).
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ci si dispongano fondamentalmente in opposizione a quelli della destra: la sinistra è il lato dei dannati e dell’inferno, di Satana e della notte; il lato femminile di Adamo; il lato dei cattivi presagi e degli insuccessi: sinister è passato a significare, in alcune lingue tra cui la nostra, l’incidente o la sciagura. È quest’“assonanza”, questo aparentamiento che Fidel Castro, pochi giorni fa, ha fatto notare a Enrico Berlinguer.1 Ma non si tratta di assonanza, o di affinità etimologica; si tratta di correlazione simbolica – e il simbolico è molto più ampio del verbale, e per sbarazzarsene non basta dichiarare, come ha dichiarato Berlinguer, che la gente sa distinguere. Se infatti la destra siede alla destra del Presidente-Signore, nella piena luce del successo virile e legittimo, a sinistra si dispongono gli altri, la massa confusa e tenebrosa di coloro che dicono di no, di coloro che sono votati allo scacco o che nel loro essere testimoniano, come una piaga, di una debolezza femminea. Nell’ambito di una società patriarcale, non mi par dubbio che la sinistra abbia assunto simbolicamente il posto della manchevolezza, quando non del Male che eternamente si oppone al Bene, del Male che eternamente dà l’assalto al cielo e ne viene ricacciato... Si dirà che di questa collocazione simbolica non vi è traccia in alcuna delle definizioni che la sinistra politica ha dato o cercato di se stessa, comprese quelle che in questi giorni molti di noi stanno cercando. Ma se nessuno, a quel che so, ha evocato la coppia simbolica a cui ho accennato, è la storia stessa della sinistra da un centinaio d’anni che testimonia come essa ne abbia incarnato uno dei termini nel modo più intenso e radicale. Quando Marx circolava ancora sotto le bandiere rosse delle grandi sfilate, probabilmente pochi tra le centinaia di migliaia sapevano che oltre al Marx del 1. [L’episodio è così ricordato da Sandro Veronesi, L’arma del ridicolo per battere il terrorista, “Corriere della Sera”, 16 marzo 2005: “Viene in mente la lezione che Fidel Castro impartì a Berlinguer in una sua remota visita a Cuba, riguardo all’handicap linguistico che in Italia, e solo in Italia, accompagnava le forze progressiste: in tutti gli altri paesi, spiegò il Líder Máximo, vige una netta distinzione tra il termine ‘sinistra’ intesa come la mano del diavolo (sinistra, sinistre, sinister) e la parola che invece identifica la parte politica più vicina al popolo (izquierda, gauche, left). In Italia no. È per questo, disse Castro a Berlinguer, che non vincete le elezioni: perché il vostro nome fa paura. Cambiatelo, e vincerete”.]
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Capitale c’era il Marx che aveva parlato del “comunismo dell’invidia”2 – e che cos’è l’invidia se non l’attacco maligno, anzi l’attacco del Maligno al Bene che lo sovrasta al punto da accecarlo? Pochi lo sapevano, ma nelle loro lotte quotidiane e persino nei loro più intimi pensieri essi erano nelle file del popolo di Satana o, se volete, dal lato della parte mancante. Ciò che questo popolo si proponeva ci risulta chiaro: era la tramutazione in valori di quei disvalori che la simbolica della destra continuamente espelle da sé. La debolezza espulsa dalla forza doveva diventare solidarietà comune e giustizia; la fragilità femminile davanti alla virilità fallica doveva tramutarsi in delicatezza e finezza; l’oscurità rispetto al giorno doveva acquistare profondità così come, rispetto al centro, doveva prevalere l’eccentrico e al posto dell’uomo riuscito doveva comparire lo spostato, lo sbagliato, il nuovo protagonista di una inedita uguaglianza. Che questo tentativo di rivincita nel simbolico si trovi oggi davanti a una situazione di grave scacco, risulta – mi pare evidente – a ciascuno di noi. Ed è appunto la situazione odierna che ce ne offre ripetute conferme. Nel campo politico in senso stretto, la polarità sinistra-destra è andata perdendo via via la sua forza di tensione ed è ormai adibita in prevalenza a operazioni di localizzazione spaziale, per così dire, di ripartizione e classificazione dell’esistente. Di sinistra è perciò quel che viene fatto o avviene nell’ambito di uno spazio politico occupato da forze di sinistra. Ciò che prevale insomma è un’attività nomenclatoria essenzialmente tautologica: sinistra è sinistra è sinistra... Il depotenziamento della polarità sinistra-destra avviene dunque attraverso una sua prevalente spazializzazione e la perdita dell’incisività temporale. La sinistra rimedia, lavora nel presente, non è più in grado di operare in un orizzonte più ampio e lontano. E la sua spazialità è immobile, definita, coartata. Un indizio di questa situazione è facilmente leggibile nel terrore della mobilità che di fatto, a vari livelli, e con risultati indubbiamente notevoli, ha 2. [Cfr. K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, 3, Proprietà privata e comunismo, a cura di N. Bobbio, Biblioteca di Repubblica, Roma 2006, p. 86.]
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E la passione unì macchina e paziente [1986] ELVIO FACHINELLI
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n giovane e promettente studioso del cervello viene avvicinato da alcuni funzionari del Pentagono, che gli propongono una missione segreta molto pericolosa. Nel corso dello scavo di una galleria sotterranea, un dispositivo posto a un chilometro e mezzo di profondità è diventato produttore di radiazioni altamente lesive per i tessuti cerebrali. Si tratta di recuperarlo a ogni costo: ma per far ciò, occorre che l’avventuroso sminatore, per così dire, lasci il cervello a casa. I funzionari propongono perciò allo studioso, noto per la sua faustiana curiosità e per il suo ardimento, un complesso intervento neurochirurgico; il suo cervello verrà isolato e mantenuto in vita in un liquido adatto, mentre tutti i collegamenti con le radici nervose del cranio svuotato saranno rimessi in funzione mediante complessi ricetrasmettitori miniaturizzati. In questo modo, dicono, lo studioso avrà subìto un semplice allungamento dei nervi, che gli consentirà di indagare a fondo la sua nuova e inaudita condizione, oltre che, naturalmente, di recuperare senza rischi il dispositivo malefico. Allibito, riluttante, impaurito, alla fine il benemerito studioso accetta. L’intervento riesce perfettamente, è ovvio, e al risveglio l’operato nota alcune minuscole antenne che si rizzano dalle loro basi di titanio saldate al cranio... Chiede subito di vedere il suo cervello, disposto nello speciale laboratorio di mantenimento in “Corriere della Sera”, 10 marzo 1986.
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vita. E infatti, tra lo scrosciare degli applausi e le congratulazioni, bioingegneri e chirurghi gli fanno vedere, sospeso in un liquido che a dir la verità sembra birra, il suo cervello quasi tutto coperto da piastrine con circuiti stampati, tubicini di plastica, elettrodi ecc. “Be’, eccomi qui, seduto su uno sgabello, a contemplare il mio cervello attraverso una lastra di vetro...” Come si sarà capito, questo è l’inizio piuttosto incisivo, è il caso di dirlo, di un racconto di fantascienza. E l’immagine dell’uomo seduto perplesso davanti al proprio cervello è il punto nevralgico del racconto e insieme la figura emblematica dell’intero libro in cui esso è contenuto.1 In questo curioso e divagante assemblaggio di racconti, riflessioni, saggi, dialoghi pseudozenoniani, si pongono domande che da qualche anno, in modo più o meno esplicito, anche altri libri si pongono: dov’è la mente? Cos’è la mente? E cos’è che nella mente dice io? E che rapporto hanno entrambi con il cervello? Domande antiche, antiche quanto la filosofia, che però negli ultimi anni sembrano aver assunto un’improvvisa urgenza per il comparire, a fianco dell’uomo, di macchine – gli elaboratori elettronici – che sono o saranno capaci di pensare come l’uomo, secondo alcuni, o che simulano e sempre simuleranno di pensare, secondo altri. In proposito, i pareri degli operatori sul campo, dei virtuosi della programmazione (i cosiddetti hacker), divergono fortemente. C’è chi considera del tutto irrilevante, per diagnosticare la presenza di una mente, tener conto del substrato specifico da cui essa a un certo punto emerge (sia esso un tessuto biologico come il cervello o la parte solida di un computer): la mente è una prestazione o funzione di un dato livello e si può riconoscere, anzi si deve riconoscere a porte chiuse, come nel famoso test di Turing.2 E c’è chi invece so1. D.R. Hofstadter, D.C. Dennett, L’io della mente. Fantasie e riflessioni sul sé e sull’anima (1981), a cura di G. Trautteur, Adelphi, Milano 1985. [Il racconto, Dove sono? (1978), di Daniel C. Dennett, è a pp. 213-225.] 2. [Criterio introdotto da Alan Turing nell’articolo Computing Machinery and Intelligence (1950) per determinare se una macchina sia in grado di pensare (A.M. Turing, “Macchine calcolatrici e intelligenza”, in Intelligenza meccanica, 1992, a cura di G. Lolli, Bollati Boringhieri, Torino 1994, pp. 121-157). Cfr. D.R. Hofstadter, Il test di Turing. Una conversazione al caffè (1981), in D.R. Hofstadter, D.C. Dennett, L’io della mente, cit., pp. 76-100.]
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stiene che l’elaborazione di simboli formali non ha di per sé alcun senso: l’intenzionalità attribuita o attribuibile in futuro alle macchine programmate risiede in ogni caso nella mente dei programmatori. Comunque sia, nessuno pone in dubbio l’obiettivo ultimo di questo tipo di ricerche. Tra le dichiarazioni di sobrietà scientifica e le cavalcate ariostesche degli altri, spunta in questi anni la realizzazione dell’antico e segreto mito dell’homunculus, sia esso in tutto e per tutto un nostro fratello gemello, copia, replica della nostra mente o soltanto un suo raffinatissimo e subdolo imitatore. L’influsso di questi homunculi sulla nostra vita quotidiana è già notevole, anche se a volte si ha l’impressione che esso sia più magnificato ed esaltato che realmente sperimentato. Forse è più significativa la prospettiva che essi contribuiscono a creare. In che cosa dunque è toccata la prospettiva di uno psicanalista dall’emergere dei nuovi “sistemi esperti”? A questo punto sembra necessario parlare di Eliza e di Parry, vale a dire dei due programmi ormai storici, ormai famosi, che simulano, il primo i discorsi di uno psicoterapeuta (ed è opera di Joseph Weizenbaum) e l’altro (di Kenneth M. Kolby) quelli di un paranoico. Nei due casi, si tratta di imitazioni sorprendenti, ma piuttosto approssimative, di ciò che possono dire abitualmente uno psicoterapeuta, di scuola cosiddetta non direttiva, e un paziente paranoico (e non è detto che varie volte psicoterapeuta e paziente reali non somiglino a queste macchine...). Qui basti dire che Eliza, perlomeno nelle sue versioni iniziali, lavora sulla base di un “rispecchiamento” di ciò che dice la persona che sta conversando con lui (o con lei?). Si comporta insomma da analista-specchio, secondo l’antica formulazione di Freud, e per far questo si giova di alcune sostituzioni grammaticali, alle quali aggiunge qualche espressione standard pescata in un elenco a sua disposizione. Per esempio, se il paziente (umano) dice: “Ho dei problemi con la mia ragazza”, Eliza ribatte un po’ sorniona: “Capisco, ha dei problemi con la sua ragazza”, oppure: “Perché mi dice che ha dei pro34
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Pecorelle smarrite nell’ora di religione [1986] ELVIO FACHINELLI
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i discute sull’insegnamento della religione nelle scuole. 1 Giorni fa, degli adolescenti interpellati dichiaravano di vedere nell’ora di religione un’occasione di “dibattito” e “partecipazione”. Il problema si presenta in termini molto diversi ai livelli inferiori. Faccio due esempi minimi, dei quali sono venuto a conoscenza recentemente. In una scuola materna della periferia di Milano, i bambini “che rifiutano la religione” (così si esprimono abitualmente le maestre, ed è già un fatto significativo) sono tre: (il figlio di) un musulmano, un testimone di Geova, un comunista. Le maestre non sanno cosa inventare per loro nei corridoi, e per ora, come si dice, soprassiedono. In una seconda elementare alle porte di Milano, l’unico rifiutante è il figlio di una madre nubile. Qui le cose sono già organizzate, tutto è pronto per il via, ma al momento dell’ingresso dell’insegnante di religione il bambino si mette a piangere e non vuole uscire. Rifiuto meditato dell’ateismo materno o rifiuto di lasciare i suoi compagni? Non intendo usare parole grosse, del resto già usate, come ghet“Corriere della Sera”, 17 novembre 1986. 1. [Nel dicembre 1985 l’allora ministro della Pubblica istruzione, la democristiana Franca Falcucci, aveva firmato con il presidente della CEI, cardinale Ugo Poletti, un’intesa per regolamentare l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole italiane. L’intesa prevedeva, per chi non se ne avvaleva, l’istituzione di attività “formative” alternative. Ma all’apertura del nuovo anno scolastico la palese impraticabilità dell’insegnamento alternativo suscitò un’ondata di agitazioni da parte di docenti, studenti e genitori, tanto che il Parlamento dovette tornare a interessarsi della vicenda.]
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A proposito di una legge impossibile [1988-89] ELVIO FACHINELLI
I drogati e Beccaria Siamo dunque al punto di svolta, o almeno così sembra: dopo lo squillo di tromba di Craxi, eccoci alla proposta di legge del governo, secondo la quale, stando alle ultime notizie, qualunque consumatore di droga si troverà esposto a un ampio ventaglio di sanzioni, decise a discrezione del giudice;1 il drogato si trova dunque davanti alla maestà della legge. Uso deliberatamente il termine onnicomprensivo di drogato, aborrito dagli esperti, ma potrei usare anche i termini utente, o fruitore, dato che il disegno di legge coinvolge in diversa misura chiunque faccia uso di droghe, e dunque stabilisce un mondo variegato, disposto in strati o gironi, ma in fin dei conti solidamente unitario. È una situazione che ha dato luogo nelle scorse settimane a un dibattito su posizioni contrapposte – illecito sì, illecito no – che è risultato in definitiva statico e ripetitivo. In questo, nulla è davvero cambiato negli ultimi dieci-quindici anni, se non in peggio, e il peggio è l’avanzare del disastro, di cui fa parte il fatto che d’ora in “La Repubblica”, 9 dicembre 1988 (parte prima) e “il manifesto”, 24 gennaio 1989 (parte seconda), con titolo generale redazionale. 1. [Disegno di legge approvato dal Consiglio dei ministri il dicembre 1988, poi convertito nella legge sull’uso, la produzione e lo spaccio di sostanze stupefacenti del 1990, che segnò una svolta autoritaria nella politica repressiva dello stato (la cosiddetta legge JervolinoVassalli, dai nomi della democristiana Rosa Russo Jervolino e del socialista Giuliano Vassalli, all’epoca rispettivamente ministro degli Affari sociali e di Grazia e giustizia). Tra i primi firmatari, il socialista Bettino Craxi, secondo cui era “insano e riprovevole consumare droga” e bisognava “introdurre il principio della punizione del tossicodipendente”.]
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poi il rapporto prevalente della società con i drogati sarà di ordine giudiziario. E a questo proposito, è significativo che nel corso del dibattito ci si sia interrogati sull’uso della legge nei confronti dei drogati, diventati ombre senza voce alle quali si tratta di applicare o non applicare determinati dispositivi punitivi o riabilitativi. Non ci si è interrogati sul rapporto che i drogati hanno con la legge. Ora, è proprio questo rapporto dei soggetti coinvolti il punto nodale della questione; non averlo considerato è il segno certo dell’impasse a cui si troverà di fronte, a mio avviso, il disegno di legge ora proposto. Consideriamo per primo il rapporto di ogni drogato con la propria legge interna, con la propria istanza di controllo, quale che sia il nome che vogliamo darle. Risulta chiaro che il rapporto tra questa istanza e ciò che egli si aspetta dalla droga (piacere, potenza, intelligenza o semplicemente ripristino dello stato anteriore) è variabile, non può essere ricondotto a una proporzione definita una volta per tutte. Prendiamo il caso del giornalista Giancesare Flesca, che ha raccontato in un libro recente la sua avventura con la cocaina.2 Dopo essere arrivato a sniffarne ben due grammi in una volta sola, quindi una chiara overdose, Flesca ci dice di essere riuscito a liberarsi della droga senza alcuna cura specificamente disintossicante, senza alcun ricovero in una comunità terapeutica alla Braccio di Ferro Muccioli,3 “per una sorta di miracolosa ancorché laica metanoia”, secondo il commento di Enzo Forcella su questo giornale. Forse non è il caso di evocare una eccezionale metanoia. Basta ammettere che si è ricostituito in lui, internamente, un processo di controllo che era stato messo da parte. E si tratta chiaramente di un consumatore massiccio, ingordo – non di un consumatore occasionale, saltuario, un consumatore del sabato sera. Con la sua esperienza, Flesca mette dunque in crisi proprio ciò che [si] vuole dimostrare, vale a dire l’ineluttabilità del destino di drogato. 2. [G. Flesca, V. Riva, Polvere. Una storia di cocaina, Sperling & Kupfer, Milano 1988.] 3. [Vincenzo Muccioli, fondatore della Comunità di San Patrignano per il recupero dei tossicodipendenti, noto per i metodi coercitivi (catene, percosse ecc.) utilizzati per trattenere gli ospiti durante le crisi di astinenza.]
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Nelle situazioni di questo tipo e in quelle più lievi, che sono poi la grande maggioranza sommersa dei consumatori di droghe, che cosa produrranno le nuove disposizioni previste? Tralasciamone pure l’aspetto a volte pedantesco, o grottesco – dall’obbligo di firmare ogni giorno un registro di polizia al “vincolo di non allontanarsi dal luogo di residenza”, come dice pudicamente il ministro Jervolino, fino alla sospensione dall’albo professionale meditata da qualche giudice. Sono misure che non avranno alcun effetto di dissuasione globale; si presteranno piuttosto a qualche clamorosa “scoperta” di casi singoli, a qualche “denuncia” di grande effetto, secondo lo stile spettacolare ora vigente e secondo la fantasia “discrezionale” di giudici e inquirenti... L’unico effetto globale, seppur non appariscente, sarà forse un incremento della tendenza alla trasgressione, all’avventura della trasgressione, già così evidente nelle partite di guardie e ladri che, nelle periferie urbane o nei parchi pubblici ormai deserti, da tempo si giocano tra adolescenti e forze di polizia. Per convincersene basta, a Milano, ascoltare i discorsi che si fanno a tarda sera nelle ultime stazioni della metropolitana. Diverso il caso dei drogati cronici, e ben più grave. Qui l’istanza di controllo interno sembra spesso sostituita da un procedimento di tipo punitivo primordiale, di cui fa parte integrante la degradazione personale, spinta fino al vero e proprio suicidio. Qui c’è un nesso stretto tra il consumo di droga e la sua punizione interna; in definitiva, tra il “farsi” di droga e il “disfarsi” di sé in un generale comportamento autodistruttivo. Ora, il progetto di misure punitive esterne rischia di aggiungersi a questa condanna interna, rischia di entrare in collusione, in nascosta alleanza con il feroce sistema di punizione autoctono. Anziché dissuadere dalla droga, le misure preventivate rischiano di rafforzare il comportamento suicida del drogato. Si crea un circolo chiuso, un girone inaccessibile, rispetto al quale le proposte di intervento terapeutico, obbligato o no, risulteranno più vane di prima. Mi sono spesso chiesto, in questi giorni, perché tra i politici, in Italia, nessuno legga o dimostri di aver letto il testo straordinario di un autore italiano, che su tutto questo ha scritto cose indimen42
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Don Abbondio, il vittorioso [1989] ELVIO FACHINELLI
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el romanzo di Alessandro Manzoni, la vicenda di don Abbondio è scandita da due incontri. Il primo, scena inaugurale di tutto l’intreccio, pone in primo piano le minacce dei bravi di don Rodrigo e colloca giustamente don Abbondio nella posizione del “vaso di terra cotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro”.1 Il suo sistema di quieto vivere, la sua “neutralità disarmata” di fronte a qualsiasi conflitto, sono bruscamente messi in crisi. Davanti al divieto che gli viene fatto, l’unica reazione immediata si esprime nella frase: “Disposto... disposto sempre all’ubbidienza”.2 Verranno in seguito i sotterfugi con cui il povero prete tenta di salvare la propria pelle. Il secondo incontro, estremamente significativo, è quello con il cardinale Federigo, in cui questi gli chiede ragione del suo comportamento nei confronti dei due promessi sposi. Ora però la situazione è completamente diversa. Di fronte al parlare alto del cardinale, don Abbondio si rifugia in un borbottio continuo, interrotto da qualche breve autodifesa, che risulta in netta antitesi con la “predica” del suo superiore. Egli mormora le consuete spiegazioni del suo comportamento, nelle quali spiccano i “comandamenti terribili” ricevuti, il suo trovarsi solo davanti alle minacce di un “gran signore”, mentre il cardinale “quelle facce” non le ha “Leggere”, 12, giugno 1989, pp. 19-21. 1. A. Manzoni, I promessi sposi, a cura di G. Pampaloni, De Agostini, Novara 1988, p. 32. 2. Ivi, p. 27.
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viste... Sono giustificazioni che il lettore conosce già, che gli sono state anticipate nei soliloqui di don Abbondio, ma questa volta avvertiamo in esse una sorta di tranquillità di fondo, di sicurezza quasi, che le trascende. Infatti, tra le parole che egli si lascia sfuggire, spicca un argomento quasi filosofico: “Torno a dire, monsignore, che avrò torto io... Il coraggio, uno non se lo può dare”.3 Qui la pavidità del curato trova una spiegazione finale, definitiva, che gli consente di percepire come estranei, salvo un breve momento di commozione, i discorsi del cardinale. Il quale, ed è opportuno rilevarlo, non obietta nulla a questo supposto limite naturale proclamato da don Abbondio, ma tenta di aggirarlo, di rimediarlo, richiamandosi ai “doveri del ministero”, che vanno oltre il pericolo di morte, al coraggio che Cristo fornisce infallibilmente, quando glielo si richiede, e all’“amore intrepido” per il proprio gregge, che doveva nascere nel prete da tanti anni di vita pastorale. Non si può sfuggire all’impressione che il coraggio, per il cardinale, derivi in sostanza dalla fiducia in Dio e dalla richiesta a lui rivolta – dunque una richiesta a un ente esterno rispetto alla creatura umana, che viene così confermata nella sua pochezza. Don Abbondio non è abbastanza credente per inserire le considerazioni etiche del cardinale nel proprio comportamento abituale ed è abbastanza ateo per avvertirle come parole di un eroico “sant’uomo”, lontanissime dalla sua esperienza concreta, sorretta per così dire da un solido principio di assenza: io non ho coraggio, non c’è niente da fare, sono altri ad averlo. Il Dio di cui parla Federigo gli è ignoto; anzi, è un Dio “seccatore”, secondo l’efficace commento di Geno Pampaloni. In questo senso, don Abbondio risulta alla fine vittorioso rispetto al cardinale. Infatti, al termine del romanzo, lo vediamo ricomparire tale e quale, liberato dai suoi timori nei confronti di don Rodrigo soltanto perché ne ha appreso la morte per peste. “Ah è morto dunque! e proprio se n’è andato! Vedete, figliuoli, se la Provvidenza arriva alla fine certa gente [...]. È stata un gran fla3. Ivi, p. 503 (corsivo mio).
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gello questa peste; ma è anche stata una scopa”.4 Anche il “gran flagello” della peste tende a ridursi a un’evenienza personale, a un accidente che libera la strada dalle pietre che la ostruivano – e con ciò si dimostra come don Abbondio sia sostanzialmente invariato rispetto all’inizio, un invariante5 della situazione generale. Una scelta etica, autonoma, giocata all’interno delle diverse componenti della personalità, per lui non esiste; esiste l’accettazione dogmatica di una presunta carenza naturale del suo essere, che il cardinale non riesce a scalfire. Quest’assenza di coraggio, che sembra una pacifica constatazione di partenza, è in effetti la conclusione di un processo, in cui la cancellazione del coraggio serve a eliminare ogni alternativa di condotta, a rendere il più possibile tranquillo e senza dubbi il corso della vita – ma all’ombra della violenza dei potenti, che in questo modo diventa padrona del campo, senza più rivali. E così che don Abbondio non ha più il problema di che cosa fare della propria paura, più che legittima, e normale in ogni uomo: ha soltanto da obbedirle in ogni circostanza (“Disposto... disposto sempre all’obbedienza”). Si può pensare che qui si palesi quella curvatura pessimistica del pensiero di Manzoni, che trova la sua espressione forse più compiuta nella Storia della colonna infame: “Ci par di vedere la natura umana spinta invincibilmente al male da cagioni indipendenti dal suo arbitrio, e come legata in un sogno perverso e affannoso, da cui non ha mezzo di riscotersi, di cui non può nemmeno accorgersi. [...] Rimane l’orrore, e scompare la colpa; e, cercando un colpevole contro cui sdegnarsi a ragione, il pensiero si trova con raccapriccio condotto a esitare tra due bestemmie, che son due deliri: negar la Provvidenza, o accusarla”.6 Forse questo è lo sfondo, il cuore nero dell’universo umano che ha tormentato Manzoni e ha consentito un’interpretazione giansenistica del suo cattolicesimo, probabilmente inesatta su uno stretto piano speculativo. 4. Ivi, p. 746 [corsivo dell’autore]. 5. [“...un’invariante” nel testo.] 6. [A. Manzoni, I promessi sposi – Storia della colonna infame, a cura di L. Caretti, Einaudi, Torino 1971, p. 908.]
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Co-identità PIER ALDO ROVATTI
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a freccia ferma (L’erba voglio, Milano 1979) era una singolare riflessione a partire da un caso: un modo bloccato di vivere la scansione temporale. Ma il caso del tempo vissuto ossessivamente – notava Fachinelli – ha una verità implicita che riguarda l’esistenza individuale di ciascuno, verità retrodatata al momento di una difficile scelta infantile tra appartenenza e distacco dall’altro. L’immagine evocata era quella di una stretta passerella in cui, come un equilibrista, ciascuno deve cercare di mantenersi. Il tempo lineare e progressivo, il nostro “tempo sociale”, cancella il ritmo più profondo che scandisce l’equilibrio instabile a cui continuamente dobbiamo provvedere. Così il quadro curioso disegnato da Fachinelli andava dilatandosi nel corso della narrazione, e dal caso di un ossessivo giungeva a considerazioni poco rassicuranti sulla nostra scena storico-sociale, ormai svuotata di ogni relais simbolico o rituale in grado di far circolare il dilemma individuale attraverso l’unico medium – la scena sociale, appunto – che possa attenuarne l’irrigidimento e il blocco. Questa dilatazione non sembrava comunque la cifra più genuina della ricerca, la quale visibilmente era percorsa da una tensione verso qualcos’altro. Come osservatore non specialista di quePubblicato originariamente in “alfabeta”, 46, marzo 1983. Successivamente ho valorizzato i temi di La mente estatica (Adelphi, Milano 1989) nel capitolo 7 dell’Esercizio del silenzio (Raffaello Cortina, Milano 1992) e nell’intervento Un esercizio di pensiero del 2009 a Trento, in occasione del convegno dedicato a Fachinelli (cfr. Elvio Fachinelli e la domanda della Sfinge, a cura di N. Pirillo, Liguori, Napoli 2011, pp. 169-173).
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stioni psicanalitiche, ero rimasto colpito dal tentativo di Fachinelli di costruire una “narrazione teorica”, estranea ai modelli saggistici correnti e anche ai moduli psicanalitici che pure si servono da sempre del racconto dei casi. Inseguendo un tema che già di per sé sembrava domandare un trattamento non codificato in una forma comune di esposizione, mi pareva che Fachinelli mirasse a un’operazione ambiziosa quanto interessante: stringere in un unico impasto espositivo registri diversi, saggistico, autobiografico, narrativo (una narrazione con colpi di scena e ritrovamento dell’incastro sulla base di indizi non congruenti), ma senza rinunciare al risultato conoscitivo. Questo tipo di narrazione non voleva funzionare come un materiale da consegnare, alla fine, alla riflessione interpretante: mi sembrava che, all’inverso, l’intenzione fosse, pur con le molte e dovute cautele, quella di rifondere l’interpretazione nella narrazione, e di conseguenza quella di conservare la molteplicità dei piani e degli spunti, anche abbozzati o solo suggeriti; e inoltre di non collocarsi, come autore, fuori della scena ma, nella misura del possibile, di venirne a costituire un elemento interno. Claustrofilia è uscito a breve distanza di anni, come una continuazione (Adelphi, Milano 1983). Mantiene questo carattere, nonostante siano alquanto cambiati i temi e ora l’ambizione scientifica punti a un bersaglio più grande (correggere Freud integrandolo su un punto non secondario). La questione del tempo – qui i tempi dell’analisi, quello spezzettato della singola seduta (che tende ad abbreviarsi) e quello lento, quasi immobile dell’intero trattamento (che tende ad allungarsi indefinitamente) – si trasforma più che espandersi. La scena si sposta in un prima che precede la zona in cui la regressione freudiana poneva i suoi limiti: si supera a ritroso il confine della nascita e si entra in un’area ipotetica, seppure già indagata da ricerche sullo psichismo prenatale (Fachinelli si rifà a quelle dell’argentino Raskovskij e dell’italiano Mancia). Contemporaneamente è la cosiddetta “scena primaria” a fornire il riferimento: il bambino che osserva da fuori qualcosa e qualcuno (la madre) che però vive anche pienamente da dentro. Ma una terza scena è sotto gli occhi, e certamente è la più prossi53
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ma: il colloquio analitico, appunto quell’ora scarsa che tenderebbe a diventare senza tempo, non certo e non solo per l’astuzia commerciale di un’istituzione. Piuttosto c’è da chiedersi: su cosa così saldamente si mantiene questa capacità imprenditoriale? Dire “transfert” è troppo poco, per Fachinelli. Un ulteriore spazio si intravvede, a tratti, accanto a queste scene. Più defilata, quasi a margine, ma ben presente, sta la scena privata dello psicanalista Fachinelli: pensieri, dubbi, lapsus, interessi e preoccupazioni personali che affiorano e talora diventano predominanti anche perché si intrecciano con il resto, dalla lettera all’editore tedesco a proposito del titolo da dare alla traduzione della Freccia ferma (non senza un poco di esibizionismo intellettuale), alla questione del trasloco dello studio (preoccupazione ben reale oltre i risvolti simbolici). Anche qui, dunque, e ancora più marcatamente, il lavoro del teorico è la messinscena di una storia a più fili, dove accadrà che, per tentare di sbrogliarli secondo una trama predisposta, i fili non potranno essere sciolti e anzi gli interrogativi saranno stati moltiplicati. Già l’intero titolo si presenta come un intrico: Claustrofilia. Saggio sull’orologio telepatico in psicanalisi. Cosa lega la claustrofilia con l’orologio telepatico? E, posto che si venga in chiaro sulla claustrofilia (tendenza al chiuso, a rinchiudersi, come leggiamo a p. 63), cosa è mai questo “orologio telepatico”? La sorpresa e il rebus da decifrare indicano al lettore che genere di storia si accinge a seguire. E la sorpresa di Fachinelli di fronte all’intervistatore dell’“Espresso”, che da buon giornalista coglie al volo la “telepatia” per fare il pezzo, è, come dire, “dovuta” più che autentica (cfr. Viva la telepatia, “L’Espresso”, 30 gennaio 1983). Di questi fenomeni paranormali Freud si interessava in privato, anche se poi in pubblico era molto cauto: la maggior parte degli psicanalisti – annota Fachinelli – “ha ereditato la cautela e perso l’interesse”. Sul quale interesse, abbastanza marginale nel libro (ed è il suo modo di spiccare), in ogni caso tutti i registri della storia vengono chiamati a misurarsi: da quello teorico, perché l’espressione “orologio telepatico” pretende a un preciso contenuto di pensiero, a quello 54
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Il viaggio di Edipo alla radice dell’umano LEA MELANDRI
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opo aver percorso e riattraversato per anni gli scritti di Elvio Fachinelli, avvicinandomi fino al ricalco, per poi scostarmi sulla base delle acquisizioni nuove che mi venivano dal movimento delle donne, ho deciso di rileggerli facendo il viaggio all’indietro: dalla “solitudine”, dal “silenzio”, dall’estrema rarefazione e concentrazione da cui nasce La mente estatica,1 al vortice di iniziative, incontri, progetti collettivi, che vedono Fachinelli impegnato socialmente e politicamente, mosso da “curiosità spinta” per i “nuovi paesaggi” aperti dalla dissidenza giovanile, nel periodo che va dal 1965 fino oltre la metà degli anni settanta. Ho provato cioè ad applicare alla sequenza dei suoi scritti quel “capovolgimento” che egli descrive nell’ultimo libro come l’“ascolto dei rumori dal punto di vista del silenzio” o il “vedere le stelle dal punto di vista dello spazio vuoto”, dall’orizzonte di mare guardato “a occhi socchiusi”, con cui si aprono le pagine iniziali, Sulla spiaggia, alle piazze affollate del ’68, dove molti come me l’hanno conosciuto. Si fanno in questo modo rilevanti le traiettorie di una ricerca che è in ogni suo passaggio scoperta e ritrovamento. Più chiara appare, innanzitutto, l’unitarietà complessiva di un itinerario che è contemporaneamente psicanalitico, culturale, politico. Si tratta di una compattezza che non è data a priori, ma che si costruisce strada facendo e a cui Elvio stesso fornisce una chiave di lettura par1. E. Fachinelli, La mente estatica, Adelphi, Milano 1989.
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lando dei tre articoli usciti in tempi diversi sulla rivista “L’erba voglio” e poi raccolti in un unico saggio, Il paradosso della ripetizione, pubblicato nel libro Il bambino dalle uova d’oro.2 “Non si tratta di capitoli di uno scritto, disposti in bell’ordine uno dopo l’altro”, ma di “formulazioni reiterate dello stesso tema” o di una “ripresa”, nel senso da lui dato a questo termine nel saggio medesimo: ritorno su qualcosa che già c’è, ma come modificazione e arricchimento. E aggiunge, per ulteriore sottolineatura: “Salvo riprendere il tutto in un’altra occasione o contesto”. Questo modo di procedere del pensiero e della scrittura non sarebbe diverso da quello con cui si snoda la storia del singolo individuo: una organizzazione le cui regole si definiscono precocemente, sulla base di quei rapporti con gli altri che l’essere umano intrattiene nel periodo della sua maggiore dipendenza, e che tende a riproporsi “per una sorta di nostalgia che paradossalmente spinge all’agire: sia nel senso di una replica cieca, sia nel senso di un tentativo di uscirne”. Ogni momento, nella costruzione dell’individualità umana, “costituisce una scansione dell’organizzazione precedente, una sua riformulazione”, o come conferma del passato o come l’aprirsi di un’alternativa, di un cambiamento. L’uso di un concetto e di un’espressione analoga, per parlare della vita e della scrittura, indica la profonda aderenza di tutta la ricerca di Fachinelli alla storia personale, intesa non come autobiografia – di cui era estremamente parco –, ma come vicenda che è al medesimo tempo “individuale”, particolare per ognuno, e “assolutamente generale”, dal momento che “ogni piccolo d’uomo – come osservava Freud – è costretto a costruire in prima persona il cammino essenziale della specie”. Come la vita, perciò, anche i libri si formano, non secondo uno sviluppo lineare e progressivo, ma “per strati successivi”, in modo “asistematico”, attraverso “scarti” e “fratture”. Di conseguenza, è facile trovare rimandi impensabili, temi abbozzati in un punto e ampliati altrove, parole chiave che si inabissano e ricompaiono inaspettatamente. I temi della “felicità” e 2. Id., Il bambino dalle uova d’oro, Feltrinelli, Milano 1974.
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del “desiderio”, per esempio, si annunciano già nelle prime pagine di Il bambino dalle uova d’oro, nell’accenno a Freud, “vecchio indagatore della felicità dell’uomo”, diventano centrali nella lettura della “dissidenza giovanile” del ’68, e saranno poi ripresi nel libro La mente estatica, per essere sospinti fino a quell’“area di frontiera”, a quello “strato percettivo, emozionale, cognitivo”, che si dà come “gioia massima”, poi rimossa, ai primordi della vita, nel rapporto di “parziale indistinzione” tra il bambino e la madre. L’altro elemento, su cui si costruisce l’unitarietà della ricerca di Fachinelli, è la pratica analitica, che viene accostata e scostata partendo dall’idea che il lavoro dell’analisi dovrebbe essere “senza fissa dimora”, capace di uscire dalla “segregazione di un rapporto duale” – che resta comunque un ambito privilegiato –, per portare l’interrogativo “oltre”, in altri luoghi, altre situazioni. “Oltre” furono nel ’68 i “nuovi paesaggi” aperti dalla rivolta giovanile, a cui Elvio diede un geniale contributo di analisi e di azione politica, ma da cui trasse a sua volta una lezione importante, tanto da vederne modificato il luogo di partenza: le sue letture di Freud e il suo giudizio sull’istituzione psicanalitica. Ma “oltre”, negli anni ottanta, significò anche la propria esperienza, l’esplorazione coraggiosa di quelle estreme regioni della formazione personale per la quale si può solo usare sé come “unica bussola”, strumento “imperfetto e fragile”, ma che consente un uso “paziente e senza fine”. Inutile dire che, in questa aderenza alla storia personale e alla pratica analitica, sia pure attraversata con grande mobilità, prende forma anche il legame inscindibile tra pratica e teoria: anche se la pratica assume forme diverse – rapporto a due, esperienze collettive o “percezione di sé” nella solitudine –, l’elaborazione teorica vi si rapporta con quella circolarità che gli farà dire, in una “nota redazionale” su “L’erba voglio”:3 “Le nostre idee, che ci augureremmo di sentire fischiettare la mattina dal garzone del fornaio, propongono comportamenti, modi di agire, anche insoliti, e questi movimenti reali, di tutto il nostro corpo, a loro volta criticano seriamente le nostre idee”. 3. “L’erba voglio”, 20, marzo 1975.
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Note a “Cultura e necrofagia” PAULO BARONE
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l breve scritto Cultura e necrofagia conferma, a più di trent’anni di distanza, la particolare sensibilità di Fachinelli nel cogliere in anticipo alcuni nodi critici che adesso sono all’ordine del giorno. Appare subito chiaro, infatti, che il riferimento all’industria culturale e ai suoi contraccolpi sulla produzione intellettuale – che sono l’oggetto dell’articolo – non vada inteso né in senso lato, come una generica metafora dei rischi che la modernità comporta, né in senso restrittivo, come (solo) uno dei possibili casi in cui il capitale fa valere i principî del profitto e dell’aumento della produzione che gli sono propri, ma viceversa vada recepito in senso specifico, come quel modo singolare e inusitato, cioè, in cui è mutato e si è trasformato il nostro rapporto con il tempo, il passato, la tradizione, e via via con il sapere, le parole e il loro uso, con le procedure di soggettivazione. Cultura e necrofagia risulta essere, insomma, un piccolo, fulmineo ritratto della situazione contemporanea, in tutta la sua complessa ambiguità. La sequenza concettuale proposta da Fachinelli per darne conto è qui scabra, ridotta all’osso, mostrata quasi al rallentatore. Il rapporto che lega una comunità con la sua cultura e con le opere intellettuali è solo apparentemente pacifico e lineare. In esso risuona ed è presente, al contrario, qualcosa che lo collega strettamente, benché larvatamente, al culto che il mondo arcaico instaura con i propri “antenati”. Anche questo rapporto cultuale è tutt’altro che scontato. In una prima fase occorre fronteggiare la morte, anzi il morto “immediato”, il cadavere, e trattarlo in modo tale 84
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che, dopo complesse vicissitudini, possa accedere al regno dell’aldilà, in quella dimensione dei “morti viventi” o degli “antenati” propriamente detti. Soltanto in questa seconda fase – frutto evidente di un delicato lavoro luttuoso – questi ultimi si fanno depositari di quel patrimonio mitico e rituale che avrà funzione normativa nei confronti del gruppo dei viventi. L’incapacità di riassorbire l’accumularsi dell’esperienza preistorica all’interno del tempo ciclico marca anche la fine del mondo arcaico e della sua organizzazione di fondo. Con l’instaurarsi del tempo storico-lineare, gli “antenati”, infine, muoiono e al loro posto subentra l’autorità delle opere culturali. Per quanto, tuttavia, lo scenario muti e grazie a tale sostituzione si presenti, in tutta evidenza, meno coercitivo nella guida e più interlocutorio nell’orientamento, ovvero più dinamico e fluido negli scambi, elettrizzato da un’intensificazione del lavoro del lutto, chiamato a occuparsi ora anche della scomparsa degli antenati, il nuovo assetto resta in sostanziale continuità con il precedente. Rimane cioè immutata la configurazione di fondo: le opere culturali devono avere tempo e agio di stabilizzarsi, di formare una tradizione, un patrimonio storico di idee, in modo tale da esercitare ancora il ruolo di “morti-viventi” e mantenere così in vigore la correlazione polare tra questi ultimi e la comunità dei viventi. Si tratta della tesi che verrà approfondita in La freccia ferma.1 Al di là delle loro differenze, società arcaica e società moderna, tempo circolare e tempo storico-lineare sono intimamente apparentati. Il passaggio dall’uno all’altro non fa che evidenziare – e forse addirittura animare – una “struttura diadica” comune: “Nel mondo arcaico, in apparenza così solido e concluso, è presente lo spirito di Prometeo [...]. Reciprocamente, oggi Prometeo vede sorgere contro di sé l’anti-Prometeo. Il tempo della freccia scoccata risulta interrotto e deviato da tentativi, forse sempre più numerosi, di ridar corso al tempo arcaico”.2 La costitutiva solidarietà e l’analoga conformazione delle due sfere danno conto dell’assoluta 1. E. Fachinelli, La freccia ferma (1979), Adelphi, Milano 1992. 2. Ivi, pp. 183-184.
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particolarità dell’intervento della “produzione industriale”. Secondo Fachinelli, infatti, quest’ultima agirebbe sia sulla “prima parte del lavoro del lutto” (“l’opera come prodotto immediato, come cadavere, di immediata rilevazione oggettuale e statistica”), intensificandola, sia sulla seconda (quella volta all’istituzione di un patrimonio storico-culturale duraturo), assottigliandola, con il risultato di alterare “lo scambio con i morti-viventi”, ridotto a un “consumo accelerato di morti immediati”. La “produzione industriale”, in altri termini, non interverrebbe isolatamente su questo o quel segmento del processo, danneggiandolo o escludendolo, ma coinvolgerebbe il fulcro stesso della struttura diadica, quella zona mediale dove essa si snoda e si articola – il lavoro luttuoso in quanto tale –, mettendo sotto pressione le sue consuete procedure, dando fondo a tutte le sue possibili prestazioni, senza ostacolarne nessuna, sino a rendere indistinguibili le due fasi, i due gruppi, le due temporalità, le due società, ovvero sino a sfigurare il contesto nella sua interezza. Non a caso, si potrebbe sottolineare, l’espressione che Fachinelli conia per definire la strana novità cui l’accelerazione industriale dà luogo – situazione necrofagica o necroforica – benché esplicita e cruda, rimane circostanziata e quasi asettica, una “situazione” appunto. Essa non pronostica l’avvio di un terzo tipo di società, distinto dai due precedenti, né allude a una qualche sorta di aberrazione incidentale dei dispositivi che regolerebbero correttamente gli altri due (adesso momentaneamente in scacco), perché si tratterebbe (solo) di una deformazione della logica complessiva dell’impianto, una deformazione da ipersollecitazione di ogni sua fibra nervosa, ormai arcaica e moderna, circolare e lineare, morta e viva allo stesso tempo e dunque, a ben vedere, non esattamente né l’una né l’altra. Se è vero che nell’apparentamento di arcaico e moderno operato da Fachinelli possiamo scorgere una idea di origine che – sulla scia di Goethe, Benjamin, Foucault, Schürmann – si distingue dalla pura genesi e insiste invece nel mezzo del divenire, tra passato e futuro, coordinando in generale tutte le opposizioni ben note (disattivandone o attenuandone il dualismo), la “situazione necrofagica o necroforica”, operando preci86
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Finale al femminile SERGIO BENVENUTO
1. Molti oggi considerano il pensiero di Elvio Fachinelli inattuale, troppo legato a una temperie intellettuale, quella degli anni sessanta e settanta, ora non più “presente”. In effetti, da oltre un secolo pensatori e scrittori hanno fatto proprio il dictat di Rimbaud, “il faut être absolument modernes”. Ma non credo affatto che l’opera di Fachinelli sia riducibile a una delle tante teorie sessantottesche. Eppure, a costo di confermare questo cliché su Fachinelli, evocherò il film Teorema di Pier Paolo Pasolini, del 1968, un film che, meglio di altri, rappresenta il tropismo dionisiaco di quegli anni. Come vedremo, per tropismo dionisiaco intendo la riscoperta della dimensione femminile in quanto inattuale. Teorema è la storia di una famiglia milanese di fine anni sessanta molto “perbene”, soddisfatta, ricca. Giunge, a un tratto, come loro ospite un bellissimo giovane la cui identità e nome non vengono precisati – lo spettatore lo interpreterà come una figura divina. A uno a uno, i cinque membri della casa (padre, madre, figlio, figlia, domestica) si innamorano di lui, e lui se li porta a letto, uno dopo l’altro. Finché, a un certo punto, se ne va dalla famiglia, per sempre. La reazione di ciascuno dei cinque è catastrofica, nel senso di katastrophé (letteralmente “volgere giù”), che significa rovesciamento, riuscita, conclusione di un dramma. Nessuno di loro può restare quello che era e viene spinto giù verso una hybris, un rovesciarsi al di là di ogni temperanza. Il capofamiglia, per esempio, aut aut, 352, 2011, 89-102
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regala la sua fabbrica agli operai e nel bel mezzo della stazione di Milano si spoglia completamente dei propri vestiti. La domestica torna al paese natio, e in mezzo ai suoi compaesani pratica un’ascesi bizzarra che ne fa una santona locale. Da notare che lo slittamento verso questi modi di essere catastrofici non sono tutti sociodistonici né tutti sociosintonici. Per Pasolini la risposta di ciascuno al contatto – rappresentato come sessuale – con qualcosa di divino porta a eccessi che nulla hanno a che vedere con le valutazioni del benessere sociale, con il “servizio dei beni”, come lo chiama Lacan.1 E in ognuno riconosciamo l’accesso a quel che Fachinelli chiamava “la gioia eccessiva”. È un film inattuale, troppo legato all’atmosfera di quegli anni? Certamente sentimmo, all’epoca, che esso rappresentava bene qualcosa che noi – Fachinelli incluso – cercavamo di dire e di fare: una sorta di incontro fortuito con qualcosa di numinoso che portasse ciascuno fuori di sé e, grazie a un accoglimento dell’Altro, ci facesse accedere a un’esperienza che – sulla scia di Nietzsche – chiamerei dionisiaca. 2. Anche l’ultimo Fachinelli tematizza qualcosa di dionisiaco: gli stati estatici. Questa esigenza di “andare fuori di sé” (ekstasis) si era mai espressa nella psicanalisi? Non è invece la psicanalisi, per vocazione, l’inverso dell’impulso dionisiaco ad andare fuori di sé? Non è anzi essa un tornare dentro di sé in grazia della epimeleia heautou, cura sui, come dicevano gli antichi, la “cura di sé”? Uno dei saggi meglio accolti di Freud è Ricordare, ripetere, rielaborare.2 Qui ogni forma di azione – di “passaggio all’atto” – è descritta come ripetizione del rimosso, per cui l’analista ha il compito di “trattenere entro il campo psichico tutti gli impulsi che [il paziente] vorrebbe avviare nel campo motorio, e saluta come una vittoria della cura tutti quei casi in cui è possibile liquidare attra1. Lacan intende per “servizio dei beni” il raggiungimento di beni privati, beni di famiglia, beni domestici, beni professionali, civili ecc., insomma beni “borghesi”, come li chiama. Tutti beni, però, che tradiscono la vocazione fondamentale del desiderio. Cfr. J. Lacan, Le Séminaire. Livre VII. L’éthique de la psychanalyse, Seuil, Paris 1986, cap. XXIII. 2. S. Freud, Ricordare, ripetere, rielaborare (1914), in Opere, vol. VII, Boringhieri, Torino 1972, pp. 353-361.
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verso un’attività mnestica ciò che il paziente vorrebbe scaricare in una azione”.3 Ricordarsi, ovvero poter parlare di quel che si ricorda, è antidoto all’agire, visto come acting out. Molta psicanalisi nutre una diffidenza fondamentale per l’azione come passaggio al reale; una sfiducia che le è stata spesso rimproverata (“l’analisi è guardarsi l’ombelico” e simili). Mi pare che invece l’intera opera di Fachinelli sia una critica a tutto campo del progetto di tanti analisti di far rientrare il soggetto in sé, di accasarlo nella parola e nel pensiero propri. A lui interessava piuttosto il rapporto con il mondo – in un primo tempo in forma attiva militante, più tardi in forma piuttosto passiva estatica. Così, nel suo ultimo libro, La mente estatica,4 Fachinelli scrive che Freud, pur avendo dischiuso all’umanità una possibilità di apertura nuova, l’avrebbe in qualche modo richiusa sacrificando quella che lui identifica come polarità femminile dell’essere-nelmondo.5 Nello scritto Sulla spiaggia, Fachinelli ci descrive una propria esperienza estatica. Mentre se ne sta accanto al mare, in uno stato di dolce passività, un’illuminazione, a un tempo fisica e intellettuale, irrompe dal mare come Ulisse emerse dalle onde incontro a Nausicaa: “Un’accettazione di qualcosa che veniva, in certo senso, dall’esterno, dopo un estenuante brancolare [...]. Non meditazione né raccoglimento. Accoglimento”.6 Fachinelli, come Nausicaa, accoglie. Egli accetta una modalità femminile di apertura, da qui “gioia con senso di gratitudine”.7 Fachinelli cita allora l’incontro quasi carnale di san Giovanni della Croce con Dio: “Lì mi dette il suo petto – lì una scienza mi infuse saporosa – e io a lui mi detti, senza tralasciar cosa – e gli promisi allora d’esser sua sposa”. 3. Ivi, p. 359. 4. E. Fachinelli, La mente estatica, Adelphi, Milano 1989. 5. Ho analizzato questa linea del pensiero di Fachinelli in La “gioia eccessiva” di Elvio Fachinelli, “Psicoterapia e scienze umane”, 3, 1998, pp. 53-73, disponibile online all’indirizzo <http://www.ildialogo.org/filosofia/sergiobenvenutofacchinelli.pdf>; e in L’ultima spiaggia di Elvio Fachinelli, “Iride. Filosofia e discussione pubblica”, 27, maggio-agosto 1999, pp. 313-323. 6. E. Fachinelli, La mente estatica, cit., pp. 17 e 19. 7. Ivi, p. 18.
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Estasi e perturbante. Nei dintorni di Thanatos CRISTIANA CIMINO
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nizio questo percorso da tre frammenti narrativi con un comune denominatore: l’estasi. 1) Una persona, non proprio un paziente, dall’identità sempre un po’ in bilico, provvista di una quota in più di precarietà rispetto a quella concessa ai sani e che fa la differenza, mi racconta, si racconta. Durante una passeggiata senza meta in una città straniera, da vero flâneur quale egli è, sempre in bilico tra desiderio di trovare una familiarità, uno Heim, e desiderio di smarrirla, incorre nella seguente esperienza. Nell’inoltrarsi in un quartiere semiperiferico nel quale alla lingua straniera se ne aggiungono altre – è evidentemente un quartiere “multietnico”, uno di quei non-luoghi in cui non è difficile imbattersi nelle nostre metropoli – improvvisamente sperimenta quella che gli psichiatri chiamerebbero una fugace e intensa derealizzazione. L’aspetto curioso e notevole è che insieme al vissuto di spaesamento, di irrealtà ed effettivamente di angoscioso Unheimliche, egli sperimenta una condizione di gioia assoluta, di esaltazione e di libertà, come avesse per un attimo toccato o visto qualcosa che non sempre è a disposizione per essere percepito. Qualcosa provvisto di un carattere di eccezionalità e di essenzialità, dirà a posteriori nel descrivere quella che mi appare un’altra declinazione dell’Unheimliche: la possibilità di somma apertura, di apertura estatica al mondo che precede ogni sua possibile soggettivazione. 2) Un altro frammento: “È il tramonto di una giornata estiva aut aut, 352, 2011, 103-111
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su una spiaggia del sud”, ricorda chi racconta. “Sono molto giovane. Improvvisamente gli amici in mia compagnia si fanno lontanissimi. Il sole è una palla rossa ed enorme, vicinissima. Per un tempo che non saprei calcolare sono nel sole, sono il sole. Vivo un’emozione poco descrivibile, di pienezza assoluta e di grande inquietudine, come essere finalmente a casa e allo stesso tempo su un altro pianeta. Poi tutto finisce come era venuto.” 3) Infine l’episodio dell’Acropoli. Fachinelli fornisce una lettura raffinatissima, filologica, della sequenza di eventi che compongono il fenomeno acropolitano.1 E coraggiosa nello sconfessare con sicurezza il maestro. Notoriamente Freud, che è in compagnia del fratello minore, dopo quello che Fachinelli definisce un viaggio contrastato, pone finalmente il piede sull’Acropoli. Qui sperimenta un “disturbo della memoria”, come recita il titolo della lettera a Romain Rolland,2 che Freud stesso definirà successivamente, in una lettera indirizzata ad Arnold Zweig,3 esperienza di “derealizzazione”. L’episodio, la “disarmonia” consiste in un vissuto di irrealtà e di un pensiero correlato che Freud formula in due tempi e che suona all’incirca così: “Io sull’Acropoli? Impossibile... (troppo bello per essere vero)”, e: “Allora l’Acropoli esiste davvero”. Come si sa, lo stesso Freud4 ha interpretato l’episodio occorsogli sull’Acropoli come angoscia originata dal superamento del padre: lui è arrivato dove il padre non è riuscito. “Conclusione un po’ magra”, commenta Fachinelli5 e mostra come sulla figura paterna cada l’ombra della madre, per Freud più che rappresentata, incarnata da Fliess, il suo doppio, il suo compagno segreto6 – dal quale al tempo del viaggio lo separa un lutto forse incompiuto –, la cui amicizia ha vissuto con “gioia immensa”, “smisurata”,7 con 1. E. Fachinelli, La mente estatica, Adelphi, Milano 1989, pp. 127 sgg. 2. S. Freud, Un disturbo della memoria sull’Acropoli: lettera aperta a Romain Rolland (1936), in Opere, vol. XI, Bollati Boringhieri, Torino 1989, p. 473. 3. S. Freud, A. Zweig, Lettere sullo sfondo di una tragedia (1927-1939) (1968), a cura di D. Meghnagi, Marsilio, Venezia 2000, p. 154. 4. S. Freud, Un disturbo della memoria sull’Acropoli, cit., pp. 480-481. 5. E. Fachinelli, La mente estatica, cit., p. 139. 6. Ivi, p. 153. 7. S. Freud, Lettere a Wilhelm Fliess (1887-1904) (1950), Bollati Boringhieri, Torino 1986, p. 375.
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il quale ha bevuto “sorsi di punch al Lete”.8 È proprio questo sentimento di gioia, questo godimento che, secondo Fachinelli, Freud ha sperimentato sull’Acropoli, sentimento legato a un “desiderio preistorico” – evidentemente quello per la madre –, l’unico che secondo lo stesso Freud generi la felicità, che colmi una fame non saziata. Freud, che si dichiarava estraneo al “sentimento oceanico”9 – che doveva evocare solo come “intuizione intellettuale”,10 ma che sarebbe tornato ripetutamente a interrogare nell’ultima parte della sua vita –, avrebbe dunque sperimentato sull’Acropoli un inquietante, intollerabile vissuto di gioia, tale da mettere in pericolo il sentimento della propria identità e fargli temere il riassorbimento nell’oceano materno, “il soffio oceanico respirato finalmente a pieni polmoni”,11 dal quale non è riuscito a difendersi. Ipotesi che suonerebbe forse romanticamente ingenua, se Fachinelli non fosse ben consapevole che tale gioia, tale tendenza al riassorbimento nell’oceano materno, si situa in un luogo che è al di là del piacere, là dove tutte le tensioni si azzerano e Thanatos è padrone. Questo intollerabile vissuto di gioia, così pericolosamente contiguo all’angoscia di non esistenza, di annichilimento, si situa proprio nei territori psichici che Fachinelli esplora, situati tra vita e morte, tra gioia eccessiva e annullamento di tutto. Gioia e orrore: termini che producono un effetto di turbamento, di perturbante (Unheimlichkeit), l’altro sentimento a cui Freud si dichiarava “sordo” e la cui tematizzazione nel saggio omonimo, complesso fino a essere oscuro, sfiora la stessa “zona proibita” che Fachinelli esplicita dell’episodio acropolitano. Il territorio psichico in cui Fachinelli si avventura nelle pagine della Mente estatica e soprattutto in quelle finali, è un crinale sottile al di là del quale si avverte il richiamo della pulsione di morte, della ripetizione, la nostalgia e l’anelito alla ri-unificazione, al 8. Ivi, p. 374. 9. S. Freud, Il disagio della civiltà (1929), in Opere, vol. X, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 558. 10. Ivi, pp. 558-559. 11. E. Fachinelli, La mente estatica, cit., p. 139.
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Un pensiero solitario ADALINDA GASPARINI
Dal fondo del torpore, quasi dal sonno, un pensiero solitario. Dopo lo squarcio iniziale, la psicanalisi ha finito per basarsi sul presupposto di una necessità: quella di difendersi, controllare, stare attenti, allontanare... Ma certo, questo è il suo limite: l’idea di un uomo che sempre deve difendersi, sin dalla nascita, e forse anche prima, da un pericolo interno. Bardato, corazzato. E l’essenziale, ovviamente, è che le armi siano ben fatte, adeguate. Se non sono tali in partenza, bisogna renderle adeguate: con la psicanalisi, appunto.1 Un pensiero solitario, qualcosa emerge da un contesto staccandosene, non dipendendone, come se fosse scisso, libero da vincoli in una misura sconosciuta ai pensieri concatenati della veglia, eppure pronto a ricreare nessi, a intrecciarsi alle riflessioni in una misura sconosciuta all’andamento del sogno o della fantasticheria. Un pensiero solitario e dotato di una sorta di vis narrativa, ma diversa da quella che nella fiaba e nel mito rassicurano sull’esistenza di una mappa che consola, nutrendo la mente, della tragicità dell’esistenza, fornendo quasi un’oasi, aiutando il soggetto a distogliere lo sguardo dal basilisco dell’abbandono, del fallimento, Questo testo, con minime variazioni, è stato presentato al convegno Estasi laiche. Intorno a Elvio Fachinelli, Firenze, 18 settembre 2010. Il convegno, organizzato da chi scrive, è stato promosso da JEP (European Journal of Psychoanalysis), da ISAP (Istituto per gli studi avanzati di psicoanalisi, Roma) e dal CPL (Centro psicoanalitico lacaniano, Napoli). 1. E. Fachinelli, “Sulla spiaggia” (1985), in La mente estatica, Adelphi, Milano 1989, 20093, pp. 15-16.
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della morte. Pensiero solitario non rassicurante, un dono – è una parola che ricorre in Fachinelli –, diverso dalla sintesi che si raggiunge con un rigoroso esercizio di studio e di ricerca. Diverso anche dall’intuizione. Il fatto che questo evento mentale si definisca in negativo non depone a favore della sua ambiguità, che viene tanto sottolineata da chi intende confinare le esperienze estatiche in un quadro concettuale ben delimitato e fortificato, come la psicanalisi dopo lo squarcio iniziale, occupata a rendere adeguate le difese... se non sono tali in partenza. La chiesa poi vaglia accuratamente le esperienze estatiche, per decidere se sono un dono divino o un sottile gioco diabolico: l’estasi teologica e acrobatica di santa Maria Maddalena de’ Pazzi, che volava nella chiesa, su e giù dagli altari, fu come le altre a lungo studiata dai responsabili delle gerarchie religiose del Sant’Uffizio. L’estasi per la chiesa è da includere, collocandola dal lato divino, o da escludere, collocandola dal lato demoniaco. Occupandosi di estasi, o di mente estatica, lo psicanalista non percorre né traccia vie salvifiche, delle quali diffida, e nemmeno complementari vie di perdizione. La tendenza a definire le estasi in negativo non deve deporre a favore della loro ineffabilità, che richiama un iniziatico o approssimativo approccio new age, né esige che si affidino questi stati a un’autorità superiore, che attestandone l’origine e la natura divina o diabolica le collochi intra mœnia, dove si dà salus, o extra mœnia, dove, sine ecclesia, si è perduti. Questa tendenza segnala piuttosto il limite del pensiero ordinatore e misuratore. Qualcosa elude le sue difese, anche le sue strutture, come un fantasma per il quale i muri non sono ostacoli. Qualcosa non obbedisce alle ingiunzioni del senso comune, e anche del buon senso, come se fosse apparentato con la follia, il crimine, la tossicodipendenza. Qualcosa emerge e attesta la presenza di un resto che il senso comune, e i sistemi di pensiero che mappano utilmente il mondo, non sanno né devono mappare. Ma nello stato estatico il pensiero solitario, e la quiete inerme, la gratitudine creaturale che lo accompagnano, pur disperando di 113
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farsi parola, tendono alla parola con la stessa insistenza con la quale la voce fioca dell’intelletto preme per farsi sentire. Riprendo una domanda di Fachinelli: “L’insistenza sulle difese è sempre, implicitamente, insistenza sull’offesa, sulla capacità di offendere. Collegamento del sistema vigilanza-difesa con la più affermata impostazione virile. E allora accogliere: femminile?”.2 Lascerei da parte ogni risposta che risuoni come rivalutazione della donna, ingiustamente discriminata dall’uomo: è una trappola. Una decolonizzazione fallica che succede a una colonizzazione altrettanto fallica. Non cambia il vecchio se una complicità vittimacarnefice, servo-padrone, per rispondere a un’esigenza nuova, si ribalta: il maschile diventa incapace o tardo nell’aprirsi al nuovo, ottuso, come ottusa era considerata la donna. Se riflettiamo sul linguaggio possiamo scorgere ovunque il carattere mobile – per quanto via via si pretenda assoluto – della definizione di maschile e femminile: sole e luna, i simboli dei due generi per eccellenza, in lingue diverse invertono per esempio il loro genere. Così l’albero può essere femminile o maschile, come il frutto, la frutta, così il neutro segnala la non attribuzione del sesso. Dove esiste il genere neutro, il neonato vi è collocato, ma non sempre: i nostri antenati latini riconoscevano l’attività del bebè? O avevano orrore di un genere-non-genere, come Hans, visto che attribuivano in ogni caso un genere maschile a infans? E quando Hans, il primo bambino visto da Freud analista attraverso il padre, guardando il sesso della sorellina Hanna dice che ce l’ha, ma è ancora piccolo, crescerà..., nega l’assenza del pene, intollerabile per lui, o la vista del genitale femminile, ben formato, evidente, la cui esistenza, riconosciuta, potrebbe risultare per il bambino, e non solo, anche più perturbante della sua assenza? Il pene piccolo o invisibile, che crescerà, copre un’assenza o cancella una presenza? Una mia paziente di fronte al fratellino appena nato che orinando descriveva una parabola verso l’alto, come i puttini delle fontane, esclamò: “O che bel bubbolino! Ce l’avevo anch’io quan2. Ivi, p. 21.
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La noce di Grothendieck LUCA MIGLIORINI
Fachinelli e le illuminazioni di Poincaré In uno dei Percorsi con tratti comuni, Elvio Fachinelli accosta la narrazione che fa Henri Poincaré della sua scoperta del “teorema di uniformizzazione” alle celebri pagine di Proust in Il tempo ritrovato, che in conclusione del romanzo narrano l’inizio della scrittura dell’opera. In entrambi i testi la subitaneità e l’involontarietà della rivelazione giocano un ruolo centrale.1 Poincaré racconta come giunga, quasi suo malgrado, a una serie di tre scoperte, ormai classiche, in momenti in cui i suoi pensieri sono apparentemente lontani dalla matematica. I tre racconti seguono uno stesso schema: un lungo, frustrante lavorio, apparentemente a vuoto, del pensiero, cui segue in un momento inaspettato un’“illuminazione”, caratterizzata da una totale certezza della verità di ciò che è affiorato alla coscienza. Una pagina di Robert Musil, che equipara la situazione di un uomo che pensa (Ulrich, il personaggio principale dell’Uomo senza qualità, è un matematico, o meglio un ex matematico) a una sorta di “crampo mentale”, presenta una visione del lavoro matematico affine a quella che emerge dal racconto di Poincaré: Non c’è nulla di più difficile in letteratura che descrivere un uomo che pensa. A chi gli chiedeva come facesse a inventare Questo saggio riproduce con qualche modifica la comunicazione dell’autore al convegno Estasi laiche. Intorno a Elvio Fachinelli, Firenze, 18 settembre 2010. Ringrazio Adalinda Gasparini per i suoi preziosi suggerimenti. 1. E. Fachinelli, La mente estatica, Adelphi, Milano 1989, 20093, pp. 63 sgg.
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tante cose un grande scopritore rispose: pensandoci continuamente. E in verità si può dire che le idee inaspettate si presentano appunto per il fatto che le si aspetta. Sono in non piccola parte un risultato del carattere, di tendenze costanti, di ambizione tenace e di assiduo lavoro. Come dev’essere noiosa questa perseveranza! Sott’altro riguardo poi la soluzione di un problema spirituale si svolge all’incirca come quando un cane con un bastone in bocca vuol passare per una porta stretta: egli volta il capo a destra e a sinistra finché il bastone scivola dentro; e noi facciamo altrettanto, con l’unica differenza che non tentiamo così a casaccio, ma per esperienza sappiamo già pressappoco come si deve fare. E anche se un uomo intelligente pone nelle sue rotazioni maggior destrezza ed esperienza di un cane, lo scivolar dentro avviene di colpo e anche per lui giunge inatteso, ed egli percepisce chiaramente in sé un leggero senso di stupore stizzoso che i pensieri si sian fatti da soli invece di aspettare il loro artefice. Molta gente oggigiorno dà a quello stizzoso stupore il nome di intuizione, e credono di dovervi vedere qualcosa di superpersonale; invece è esclusivamente impersonale, cioè l’affinità e l’omogeneità stessa delle cose che s’incontrano in un cervello. [...] Perciò la meditazione, finché non è condotta a termine è in fondo uno stato pietosissimo, una specie di colica di tutte le circonvoluzioni del cervello, e quando è finita non ha più la forma del pensiero in cui la si compie, ma già quella di ciò che si è pensato; ed è purtroppo una forma impersonale, perché il pensiero è allora volto verso l’esterno e preparato per essere comunicato al mondo.2 La frase sottolineata echeggia un’espressione di Poincaré, secondo la quale, nel lavoro matematico, a volte sembra che foglio e penna ne sappiano più di noi. Voglio citare la risposta di un grande matematico contemporaneo, Michael Francis Atiyah, quando gli viene chiesto come scelga un problema da studiare: 2. R. Musil, L’uomo senza qualità (1930-33), Einaudi, Torino 1972, pp. 105-106 (corsivo mio).
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Immagino che ci si aspetti una risposta. Non direi che sia questo il mio modo di procedere. C’è chi magari si adagia su una sedia e dice: “Adesso voglio proprio risolvere questo problema”, si accomoda e si chiede: “Come posso risolverlo?”. Io non faccio così. Semplicemente navigo tra le acque della matematica, divagando tra i pensieri, con curiosità, con interesse, parlando con altri, risvegliando idee. Le cose emergono e io le seguo. Oppure mi accorgo che un aspetto si collega a un altro che già conosco, allora cerco di metterli insieme, e le cose evolvono. Non sono praticamente mai partito con l’idea di cosa io stia facendo o di dove stia andando. Sono interessato alla matematica; parlo, imparo, discuto e in questo modo le questioni interessanti semplicemente affiorano. Non sono mai partito con un obiettivo preciso in mente, a parte quello di capire la matematica.3 Le citazioni precedenti non pare lascino molto spazio, forse anche per motivi di autocensura, all’apex mentis, quello “strato percettivo, emozionale, cognitivo, che è stato colto perlopiù come un’area di frontiera”, l’estatico, “che nella nostra civiltà affiora di solito in esperienze liminari, facilmente ritenute insignificanti, o addirittura inesistenti”, che viene proposto come “un momento originario di molteplici esperienze; probabilmente delle esperienze più creative nella vita umana”.4 Improvvisamente, vedo l’affinità tra ciò che mi è affiorato in un lampo, semplice trovata, pensiero sintetico venuto da un’altra parte, e il processo dell’invenzione – scientifica o non scientifica. Perlomeno in alcuni casi. È l’improvvisa comparsa di un materiale organizzato, coerente, a partire da frammenti; a partire, spesso, dalla disperazione di riuscire in un compito consapevole. Dunque non importa l’ambito della scoperta – scientifica, ar3. R. Minio, An Interview with Michael Atiyah, “The Mathematical Intelligencer”, 6, 1984, pp. 9-19. 4. E. Fachinelli, La mente estatica, cit., pp. 11-12.
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Finito di scrivere o Fachinelli legge Lacan ANTONELLO SCIACCHITANO
0. Ci sarà una ragione, ma la ignoro, per cui i grandi lettori di Lacan tendono a diventare suoi profeti. Arrivo solo a formulare una congettura: Lacan è oscuro, il profeta lo chiarisce. La congettura vale in alcuni casi, per esempio per lettori universitari come Miller e Žižek. L’università è fatta per spezzare il pane della scienza agli ignoranti e, quando fa bene il proprio mestiere, fa chiarezza. Ma in generale la mia congettura è falsa. Abbiamo avuto casi in cui profetici traduttori e commentatori hanno reso ancora più oscuro l’autore letto. Non faccio nomi, anche perché ho sotto mano il nome di un lettore non accademico, che non solo non l’ha oscurato, ma del maestro scomodo ha fatto buon uso, senza diventare suo profeta. Intendo Elvio Fachinelli. Lascio da parte la vicenda personale di Fachinelli con Lacan, su cui ho preso posizione altrove in merito alla politica della psicanalisi di entrambi questi grandi psicanalisti.1 Mi dedico esclusivamente al tema di Fachinelli lettore di Lacan. Capisco che, per essere esauriente, dovrei contestualizzare il tema particolare – “Come Fachinelli leggeva Lacan?” – all’interno del tema più generale: “Come leggeva Fachinelli?”. Forse, però, riesco a schivare il doveroso ma gravoso impegno, restringendo la mia attenzione al suo ultimo libro, La mente estatica, dove l’autore ha scritto di come leggeva gli autori prediletti. Resta ancora un dubbio. Sarà attendibile la scrittura sulla propria lettura? Ovviamente, per evitare di involgermi in dubbi ossessivi, in quanto segue assumo di sì. 1. A. Sciacchitano, La psicanalisi chiede asilo, “Communitas” (in corso di pubblicazione).
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1. Forse val la pena ricordare un paio di aforismi di Lacan sulla lettura dei propri scritti. Visti a distanza di tempo hanno perso molto del loro smalto, nonché molta della loro enigmaticità, rivelandosi per quel che erano: spot pubblicitari di un grande manipolatore di mode intellettuali. Non per questo sono meno pertinenti al tema che sto trattando. Formano le condizioni al contorno del problema, che Fachinelli seppe felicemente attraversare. Intorno alla propria scrittura Lacan mise in piedi un teatrino di autoriferimenti a effetto. Cominciò dall’investitura del genero, Jacques-Alain Miller, come “lettore unico”. “Vous me prouvez avoir lu mes Écrits, ce qu’apparemment on ne tient pas pour nécessaire à obtenir de m’entendre.”2 Ma lettore di che? Di una scrittura che paradossalmente non sarebbe da leggere: Ainsi se lira – ce bouquin je parie. Ce ne sera pas comme mes Écrits dont le livre s’achète: dit-on, mais c’est pour ne pas le lire. Ce n’est pas à prendre pour l’accident, de ce qu’ils soient difficiles. En écrivant Écrits sur l’enveloppe du recueil, c’est ce que j’entendais moi-même m’en promettre: un écrit à mon sens est fait pour ne pas se lire.3 Finché non arrivò alla conclusione patetica della destituzione magistrale – potremmo dire, usando i suoi termini – all’epoca della dissoluzione della propria ormai risibile scuola, ridotta a un solo allievo: Je remets au “Monde” le texte de cette lettre [...], afin qu’il se sache que nul n’a auprès de moi appris rien, de s’en faire valoir. 2. “Lei mi dimostra di aver letto i miei Scritti, apparentemente una cosa ritenuta non necessaria per intendermi”, J. Lacan, Radiophonie, “Scilicet”, 2-3, 1970, p. 55. 3. “Così si leggerà, questo libretto su cui scommetto. Non succederà come ai miei Scritti, il cui libro si compra, si dice, ma per non leggerlo. Non è un caso, essendo difficili. Scrivendo Scritti sulla copertina della raccolta, è proprio quello che mi ripromettevo: a mio avviso uno scritto è fatto per non essere letto”, Id., “Postface” (datata 1° gennaio 1973), in Le Séminaire. Livre XI. Les quatre concepts fondamenteaux de la psychanalyse (1964), Seuil, Paris 1973, p. 251.
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Oui, le psychanalyste a horreur de son acte. C’est au point qu’il le nie, et dénie, et renie – et qu’il maudit celui qui le lui rappelle, Lacan Jacques, pour ne pas le nommer, voire clame haro sur Jacques-Alain Miller, odieux de se démontrer l’au-moins-un à le lire. Sans plus d’égards qu’il faut, aux “analystes” établis.4 Trappole. Anche autotrappole. Uno psicanalista come Fachinelli, distratto sì, ma attento ad altro, non ci cascò. E giustamente, perché lo psicanalista, se non è troppo deformato dalla formazione scolastica, non può cadere nella trappola del maestro o dell’unico che sa. La concentrazione del sapere nell’unico depositario è illiberale in senso ampio: non permette il libero scambio di conoscenze e non favorisce la democrazia culturale. In particolare, in psicanalisi il discorso del maestro, o il discorso dell’ortodossia, è anche teoricamente poco auspicabile, essendo l’inverso del discorso dell’analista, come insegnava lo stesso Lacan nel Seminario XVII (1969-1970). Pertanto, l’analista non può abboccare all’esca del padrone, tanto meno del maestro. Nonostante il polverone ideologico sollevato da Lacan, Fachinelli seppe leggere gli scritti del maestro da una posizione diversa da quella servile dell’allievo. Aggiungerei che non si lasciò incantare dal rebus Lacan. Per il soggetto cartesiano della scienza “l’indovinello non esiste”.5 In questo senso, Fachinelli si rivelò più cartesiano che freudiano, più interessato al sapere che all’essere. Ma cosa ha veramente letto Fachinelli di Lacan? Lo racconta nella Mente estatica. 2. Se è vero che Fachinelli ha letto qualcosa di Lacan, lo ha letto – come ci si aspetta da uno psicanalista – tra le righe. E dalle righe esce un discorso frammentario, come quello che “conclude” La mente 4. “Invio a ‘Le Monde’ il testo di questa lettera [...], affinché si sappia che nessuno ha appreso nulla di cui avvalersi. Sì, lo psicanalista ha orrore del proprio atto, al punto tale che lo nega, denega e rinnega, maledicendo chi glielo rammenta, tale Jacques Lacan, tanto per non fare nomi, anzi per inveire contro Jacques-Alain Miller, odioso per essersi dimostrato l’almeno uno a leggerlo. Senza riguardi per gli ‘analisti’ stabiliti”, in “Le Monde”, 24 gennaio 1980. 5. L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus (1921), Einaudi, Torino 1968, 6.5 (traduzione modificata).
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Il dolore non è un merito. L’immaginario religioso e le sofferenze della politica LUISA ACCATI
1. Vivere una passione vuol dire sviluppare un piacere intenso e profondo tra due persone, subire il fascino dell’altro, rimanere appagati reciprocamente nei propri desideri, costruire una dipendenza vicendevole, tanto assoluta quanto temporanea, che rende compiutamente liberi. Passione, però, significa anche patimento, dipendenza infelice passiva da un persecutore, sofferenza imposta a una vittima incapace di sottrarsi ai tormenti che le vengono inflitti. 2. La cultura cristiana ha esaltato nel tempo l’accezione negativa del termine e le ha attribuito un significato simbolicamente forte, in grado di avvilire, screditare e cancellare la valenza positiva. La Passione per eccellenza, infatti, è quella del sacrificio di Cristo, fondamento stesso della simbologia e del potere religioso. Le religioni antiche (greca, romana, ebraica) offrivano a Dio un capretto per ottenere protezione e aiuto da lui;1 la religione cristiana gli offre, invece, le sofferenze e la morte di un essere umano. Il capro espiatorio non è più un animale, è un uomo. Il dolore umano si configura dunque come una nuova moneta di scambio, e il prezzo da pagare per ottenere la benevolenza divina cambia di livello.2 1. Cfr. M. Detienne, J.-P. Vernant, La cuisine du sacrifice, Gallimard, Paris 1975; C. Grottanelli, N.F. Parise, Sacrificio e società nel mondo antico, Laterza, Roma-Bari 1993. 2. Cfr. G. Feeley-Harnik, The Lord’s Table. Eucarist and Passover in Early Christianity, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 1981; vedi in particolare R. Girard, La violenza e il sacro (1972), Adelphi, Milano 1986, il cui concetto di violenza occulta viene ripreso da J. Bossy, Essai de sociographie de la Messe 1200-1700, “Annales ESC”, XXXVI, 1981, pp. 44-70; V. Valeri, Kingship and Sacrifice, University of Chicago Press, Chicago 1958.
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3. Quello che viene suppliziato vistosamente, con ferite, spargimento di sangue, e infine inchiodato su una croce è il corpo umano maschile di Cristo. Sebbene appaia in infinite riproduzioni che lo mostrano crocifisso, mai nulla lascia vedere che quella carne martoriata è femminile, che si tratta della porzione fisica di realtà fornita dalla madre al figlio. Secondo la dottrina, infatti, è Maria a offrire il corpo in cui il figlio si è incarnato ed è quel corpo materno-mortale a subire il martirio. La Madre (definita corredentrice)3 e il Figlio sono una donna e un uomo uniti nella Passione, al punto che – viene detto – le sofferenze dell’uno sono le sofferenze anche dell’altra. La sacra rappresentazione ci mostra, nella doppia passività della Madre per eccellenza e del Figlio per eccellenza, un’imitazione della scena del parto. La Passione, come nel travaglio della nascita, li accomuna ancora. In effetti le sofferenze della Passione e la morte del Figlio danno luogo a una nuova vita, a una ri-nascita questa volta non più mortale, bensì immortale. La Passione è una rigenerazione: ora è il Figlio che dà la vita (eterna) alla Madre. Un ciclo di immagini sacre ci mostra la morte della Vergine; mentre ha fine la sua vita mortale e la vediamo stesa morta, accanto a lei si profila la figura del Figlio con la sua animula fra le braccia, pronto a portarla in cielo per poi incoronarla.4 La gratitudine e l’invidia si mescolano in modo evidente; l’anima della madre, infatti, ha l’aspetto di un bambino e richiama inevitabilmente alla memoria le innumerevoli Vergini con il bambino.5 Con la vita eterna si ro3. Per il concetto di corredentrice vedi fra gli altri: S. Meo, Lo sviluppo teologico della Nuova Eva: la Corredentrice, in S. De Fiores, S. Meo (a cura di), Nuovo dizionario di mariologia, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1986, pp. 1021-1029; A.M. Lépicier, Mater Dolorosa. Notes d’histoire de liturgie et iconographie sur le culte de Notre Dame des Douleurs, Éd. Servites, Spa 1948; E. Wimmer, Maria im Leid, Würzburg 1968. 4. Andrea Del Castagno Dormitio (1442-1443), Basilica di San Marco, Venezia; Beato Angelico, Morte della Madonna (1433-1434), Museo diocesano, Cortona; Bartolo di Fredi, Incoronazione della Vergine (1388), Museo Civico di Montalcino; Duccio da Buoninsegna, Morte della Madonna (1308-1311), Museo dell’Opera del Duomo, Siena; Holbein Hans il Vecchio, Morte della Vergine (1490), Szépmuvészeti Múzeum, Budapest; Andrea Mantegna, Cristo accoglie la Vergine in Cielo (1460-1464), Pinacoteca Nazionale, Ferrara. (Tutte le immagini citate in questo articolo possono essere viste nella Web Gallery of Art, all’indirizzo <www.wga.hu>.) 5. Gli stessi pittori che hanno dipinto la morte della Vergine, di cui alla nota 4, hanno di-
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vesciano i ruoli: adesso è il Figlio a portare la madre, mentre lei è piccola e indifesa, alla sua mercé. La glorificazione della madre si accompagna all’invidia per la sua capacità di dare vita e al rimprovero di dare una vita mortale. La funzione sacerdotale, rappresentata da Cristo, partorisce la vita “vera”, immortale, incorrotta, trionfale e maschile, e libera dalla vita fornita dal corpo delle donne. 4. I sacerdoti cristiani si considerano eredi di Cristo, dall’XI secolo devono scegliere il celibato per poter accedere al sacerdozio. Al di là delle ragioni sociopolitiche secondo cui le persone senza figli appaiono particolarmente adatte all’amministrazione della cosa pubblica perché presumibilmente meno coinvolte da interessi privati,6 al di là della volontà di concentrare la ricchezza in un numero minore di eredi senza spezzare i patrimoni, è importante leggere a fondo i significati simbolici del celibato. Per accedere al sacerdozio i preti devono rinunciare alla vita a cui potrebbero dare luogo nei figli per offrirla a Dio, in analogia con il Cristo che ha dato la sua. Grazie a questo “sacrificio della vita”, implicito nelle rinunce del celibato, diventano i custodi dei meriti delle sofferenze e della morte di Cristo. Le sofferenze fisiche della Passione costituiscono il Tesoro dei meriti: un prezioso bene che la Madre-chiesa eredita e che potrà essere venduto come indulgenza in cambio di denaro per le opere di carità. Abbiamo già paragonato la Passione a una sorta di travaglio maschile che porta alla vita eterna impinto numerose Madonne con il Bambino. Ne indico alcune: Andrea Del Castagno, Madonna con Bambino (1445), Contini Bonaccossi, Firenze; Beato Angelico, Madonna delle stelle (1424), Museo di San Marco, Firenze; Id., Altare di S. Pietro Martire (1427-1428), Museo di San Marco, Firenze; Id., Altare della Compagnia di San Francesco (1429), Museo di San Marco, Firenze; Bartolomeo di Fredi, Adorazione dei Magi (1385-1388), Pinacoteca Nazionale di Siena; Duccio da Buoninsegna, Madonna con Bambino (1295-1305), Museo di arte sacra, Buonconvento; Id., Madonna con il Bambino (1285), Pinacoteca di Siena; Hans Holbein il Vecchio, La vergine con il Bambino (1500), Basilica di St. Jacob, Straubing; Andrea Mantegna, Polittico di San Zeno (1475-1460), San Zeno, Verona; Id., Madonna dei Cherubini (1485), Pinacoteca di Brera, Milano. 6. Cfr. E. Gellner, Le condizioni della libertà (1994), Einaudi, Torino 1996; Id., Ragione e religione (1992), il Saggiatore, Milano 1993.
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Resistenza e liberazione. I “Quaderni di prigionia” di Emmanuel Levinas MARIO VERGANI
Siamo filosofi da quando non abbiamo più voluto la guerra. E. Levinas, Quaderni di prigionia
1. La prova e la decisione Guerra, prigionia, rivolta, resistenza, evasione, liberazione, pace, nei Quaderni di prigionia sono termini che assurgono alla dignità di categorie fenomenologiche. Nozioni in parte già presenti nei testi preveggenti Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo (1934) e Dell’evasione (1935-36), verranno poi sviluppate coerentemente in Totalità e infinito (1961) – la prima grande opera pubblicata dopo il lungo silenzio del dopoguerra –, che si affianca ai saggi sull’ebraismo raccolti in Difficile libertà (1963). “Tale punto privilegiato in quanto responsabilità – è necessario a una filosofia antifascista o antitotalitaria.”1 Le riflessione contenute nelle intense pagine degli Scritti sulla prigionia (1945-46) rappresentano uno dei primi sforzi di interpretazione filosofica del 1. E. Levinas, Carnets de captivité et autres inédits par Emmanuel Levinas, in Œuvres complètes, vol. I, a cura di J.-L. Marion, Grasset-Imec, Paris 2009; trad. a cura di S. Facioni, Quaderni di prigionia e altri inediti, Bompiani, Milano 2011, p. 255 (d’ora in avanti nel testo QP). Lo scritto, pubblicato a Parigi nell’autunno 2009, rappresenta il primo passo di un progetto di edizione delle opere complete di Levinas. Il piano prevede sette volumi: i primi tre di inediti e i seguenti per gli scritti già pubblicati. Il primo tomo si compone di tre sezioni: la prima, intitolata Quaderni di prigionia, raccoglie gli appunti degli anni di prigionia (1940-45) in diversi campi francesi e tedeschi; la seconda, Scritti sulla prigionia e Omaggio a Bergson, comprende testi scritti negli anni 1945-46; infine la terza parte – Note filosofiche varie – si compone di annotazioni del periodo 1949-66, preparatorie a Totalità e infinito. L’interesse delle note e degli appunti è anche nella ricostruzione della gestazione dell’opera maggiore di Levinas, Totalità e infinito; se ne ricava che il punto meno elaborato e più equivoco è la questione del linguaggio. Assistiamo alla massima esitazione. Levinas ipotizza di sviluppare il tema del discorso attraverso una teoria della metafora, idea che in realtà verrà sostanzialmente abbandonata, tanto che, nell’opera edita, a questa viene sostituita una riflessione sullo scarto tra il detto e il dire che richiama il modello della diatriba come infinita interpretazione.
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trauma storico del nazifascismo europeo, nella linea di quanti, filosofi e teologi, hanno fatto esperienza del carcere e dell’internamento: da Gramsci a Bonhoffer, a Sartre. Ma oltre a documentare la gestazione e l’elaborazione di categorie e idee che saranno centrali del pensiero maturo, sono la testimonianza di un richiamo. Secondo il figlio Michaël, dal 1947 al 1952, dopo l’esperienza della prigionia in Stalag francesi e tedeschi durata cinque anni, Levinas abbandona il lavoro filosofico. Ha appena pubblicato Dall’esistenza all’esistente (1947) – scritto in gran parte durante l’internamento – e le conferenze tenute al Collège di Jean Wahl nel 1946-47, raccolte con il titolo Il tempo e l’altro (1948). Quindi, il silenzio. Sono gli anni della frequentazione del maestro di letture talmudiche Chouchani. Lo choc della cattività di fatto forza a un ripensamento dell’identità ebraica, dopo gli anni filosofici in Francia e il breve passaggio in Germania, che tuttavia non hanno rappresentato né una cesura, né un abbandono. Al 1945-46 risalgono questi testi folgoranti sulla cattività e la spiritualità del prigioniero israelita. È un doloroso ritorno, teshuvà: si tratta di un richiamo, di una presa di coscienza, di un’esplicitazione, perché in realtà già in Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo e in Dell’evasione, l’orientamento e la motivazione erano là, spesso nascosti dietro il linguaggio fenomenologico. Di questa sensibilità già acuta sono testimonianza i brevi scritti sull’antisemitismo precedenti la prigionia, pubblicati tra il 1935 e il 1939 su “Paix et Droit”, la rivista dell’Alliance israélite universelle. Il paganesimo nazista non è un problema da risolvere, ma è definito una prova morale e, in quanto tale, “indegno di confutazione”.2 In quanto negazione totale della possibilità di svincolarsi dal radicamento nel mondo è l’opposizione radicale al giudaismo – in questo apparentato al cristianesimo – che di tale uscita reca la testimonianza: “Hitler ci ha ricordato che non si diserta il giudaismo”.3 È questa la ragione per 2. E. Levinas, L’inspiration religieuse de l’Alliance!, “Paix et Droit”, 1935, ora in C. Chalier, M. Abensour (a cura di), Emmanuel Levinas. Cahier de l’Herne, Éditions de l’Herne, Paris 1991, p. 145. 3. Ivi, p. 146.
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la quale con gioia Levinas saluta la pubblicazione nel 1937 di L’impossibile antisemitismo di Maritain che presenta l’espressione “metafisica dell’antisemitismo”. Antisemitismo e giudaismo divengono categorie filosofiche.4 Così, quando compariranno le Riflessioni sulla questione ebraica di Sartre nel 1947, Levinas – che ricorda di aver letto presto “di ritorno dalla prigionia”5 – ne esalta la capacità di cogliere la categoria teorica dell’antisemitismo, ma non la coscienza ebraica, là dove Sartre ne fa solo un riflesso dialettico dell’antisemitismo. “Nella persecuzione ritrovo il senso originale del giudaismo, la sua emozione iniziale” (QP, p. 185). Giudaismo come testimonianza singolare dell’universale. Condividere con tutti la condizione di prigionieri, ma a titolo di unicità ed elezione, perché questi prigionieri erano separati dagli altri. Dunque tutti i prigionieri separati dal mondo e, tra i separati, i separati. La condizione dei prigionieri di guerra ebrei – quale era quella di Levinas allo Stalag XI BV n. 1492 – era infatti un doloroso privilegio. In quanto militari francesi, erano protetti dalla Convenzione di Ginevra, ma nei campi di prigionia si trovavano separati dagli altri prigionieri dello Stalag e destinati ai kommandos speciali: lavoro duro da taglialegna fin dall’alba, nel caso specifico, ma anche episodi di brutalità e consapevolezza, giunta ben presto, di quanto accadeva agli altri ebrei, a chi era stato inviato ai campi della morte. Se il nazismo è una prova morale, ciò che in precedenza era vissuto attraverso il ritmo della vita ebraica nelle sue forme collettive richiede ora una “decisione speciale”.6 La decisione fronteggia la prova. 4. Id., L’essence spirituelle de l’antisémitisme (d’après Jacques Maritain) (1938), ivi, pp. 150-151. 5. E. Levinas, “Quand Sartre découvre l’histoire sainte”, in Les imprévus de l’histoire, Fata Morgana, Paris 1994, pp. 155-158. 6. F. Poirié, Emmanuel Levinas. Qui êtes-vous?, La Manufacture, Lyon 1987, “Entretiens”, pp. 61-136. I più importanti riferimenti bibliografici relativi al periodo della prigionia sono inoltre: M.-A. Lescourret, Emmanuel Levinas, Flammarion, Paris 1994, “1935-1945”, pp. 119-128; S. Malka, Emmanuel Levinas. La vie et la trace, Éditions Jean-Claude Lattès, Paris 2002; trad. di C. Polledari, Emmanuel Levinas. La vita e la traccia, Jaca Book, Milano 2003, “La prigionia”, pp. 75-91. Cfr. anche Y. Durand, La captivité. Histoire des prisonniers de guerre français 1939-1945, Fédération Nationale des combattants prisionniers de guerre et combattants d’Algérie, Tunisie, Maroc, Paris 1981.
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L’ontologia dietro la macchina da presa? Note sull’ultimo cinema di Terrence Malick ALESSANDRO DAL LAGO
Chi ha bisogno di visioni [Anschauungen] vada al cinematografo. Max Weber
1. Vedere un film in compagnia può incrinare un’amicizia, come sa chiunque abbia sperimentato le conversazioni spesso imbarazzate e talvolta aggressive che seguono l’uscita da un cinema. Infatti, con il giudizio su un film mettiamo in gioco i nostri valori estetici e forse morali di fondo. Ma qualche volta il cinema divide anche noi stessi. Si va a vedere l’ultima opera di un regista che amiamo visceralmente e di cui possediamo tutti i dvd, nonché qualche monografia critica, e ci delude profondamente. Ah, questo regista è finito, pensiamo. Oppure si è venduto a Hollywood, si è imbolsito con l’età, si crogiola nel successo e cose simili. Ci aspettavamo un altro capolavoro e invece ci resta solo indifferenza. Chissà se correremo a vedere il suo prossimo film. A me qualcosa del genere è capitato con The Tree of Life di Terrence Malick, fino ad allora un mio regista cult. Però, invece della mera delusione, il suo ultimo film ha suscitato la mia curiosità e una certa voglia di tornare sui precedenti. Infatti, in The Tree of Life si respira un’aria simile a La rabbia giovane, I giorni del cielo, La sottile linea rossa e The New World e anche qualcosa di molto, molto diverso. Certo, come sempre, grande mestiere, una natura splendidamente fotografata in cui errano anime perdute o perplesse, narrazione non lineare, ellissi, musiche solenni, interrogazioni della voce off, un certo sospetto di retorica e soprattutto un evidente pensiero, una concezione elaborata, 188
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per quanto in progress, di divinità, uomo e mondo. Insomma, una filosofia.1 Solo che questa volta la filosofia mi è parsa di grana grossa, un po’ New Age e in fondo regressiva, imperniata com’è non solo sulla trascendenza, qualcosa che fa già tremare le vene ai polsi, ma su una trascendenza vista nell’imbuto della famiglia, nei rapporti difficili tra padre e figlio, il quale medita, si interroga, dubita, erra – nel modo tipicamente malickiano – alla ricerca di una pacificazione che alla fine, ecco la novità rispetto agli altri film, arriverà. Nei film precedenti di Malick c’era la contemplazione (del regista e con lui di una madre natura che tutto avvolge e osserva)2 della violenza priva di senso e di redenzione (La rabbia giovane, I giorni del cielo), dei soldati che in guerra si arrovellano su domande che non avranno risposta (La sottile linea rossa) e di un’altra cultura che svela l’arbitrarietà della nostra – come in quella scena indimenticabile in cui Wes Studi (il guerriero algonkino che accompagna Pocahontas in Inghilterra), verso la fine di The New World, osserva le sculture arboree di un giardino all’inglese come se fossero costruzioni aliene. Declinazioni dell’alterità e di altre importanti questioni filosofiche che lasciano allo spettatore, dopo il solenne susseguirsi delle immagini, la voglia di rivedere e di meditare. In The Tree of Life, oltre a qualcosa che rimanda a tutto questo – la parte centrale sui ricordi infantili della vita in famiglia, molto bella, come cercherò di motivare più in là –, c’è però un grande salto in avanti, ovvero la rappresentazione in immagini della trascendenza. Sean Penn, il personaggio che qui gioca il ruolo del Soggetto, vede letteralmente la possibilità di oltrepassamento della finitudine: il suo Dasein si libera del risentimento, dei conflitti con il padre, della passione inevitabile per la madre e altre incrostazioni edipiche, dell’inclinazione all’odio e alla violenza, dello stolido ab1. Cfr. G. O’Brien, The Variety of Movie Experience, “The New York Review of Books”, 14 luglio 2011. 2. Ciò vale anche per The Tree of Life: T. Asshauer, Im Schoß der Weltmutter. Die Natur weiß alles besser. Terrence Malick Cannes-Siegerfilm “The Tree of Life”, “Die Zeit”, 25, 2011, p. 63.
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bandono alla vacuità della vita moderna e di tutto il trash dell’esistenza inautentica, e si fonde con l’umanità passata, presente e futura, in una dimensione in cui tutti, vivi e morti, si incontrano (in una spiaggia con la bassa marea o lago salato o qualcosa del genere). Insomma il film ricapitola l’origine del mondo e il suo diramarsi darwiniano (ecco l’albero della vita...) e poi rappresenta letteralmente il destino della terra, compresa la remota ma prevedibile fine, quando il nostro pianeta sarà una scura roccia alla deriva nel cosmo e i suoi patetici abitatori polvere dispersa tra le stelle...3 Detto così, sembra un delirio mio, e certamente non di Malick, ma ci vorrebbero pagine e pagine di prosa faticosa per dare un’idea, a chi non ha visto il film, di tutto quello che c’è dentro, il che rende giustizia al titanismo dell’impresa, ma suggerisce anche quanto il Kitsch vi faccia capolino e talvolta dilaghi. Almost ridiculous, always sublime, si intitolava, sul sito web di “The Guardian”, un favorevole commento a caldo4 alla prima del film al festival di Cannes, commento che io cambierei così: Almost ridiculous, seldom sublime, avendo ancora vivida memoria di atomi che si aggregano in molecole, e molecole in qualche brodaglia primordiale, vulcani che eruttano polvere e lapilli, meduse flottanti in acque cilestrine, dinosauri che saltellano sul greto di un fiume, soli che sorgono su pianeti morti – tutte cose che abbiamo stravisto in 2001, Odissea nello spazio, Jurassic Park I e II, e nel ciclo di Star Trek. Anche la saga (quella che, nonostante tutto, mi è piaciuta) dei fratellini che errano per i tranquilli vialetti di un suburbio texano e le boscaglie circostanti mi è parsa nonostante tutto familiare, avendo assaporato qualcosa del genere, per dire, in Stand by Me. Insomma, anche cose belle, certo, ma per lo più note e, quando sono nuove, non sempre all’altezza della fama di Malick. E comunque, nell’insieme, uno spettacolone volta per volta intimista e to3. In alcune recensioni su quotidiani conservatori, The Tree of Life è definito una fantasia pacifista, il che è una sciocchezza evidente. È un film sulla pacificazione del soggetto con se stesso, una questione ben diversa. 4. X. Brooks e H. Barnes, The Tree of Life: “Almost Ridiculous, Always Sublime”. Commento video disponibile in <http://www.guardian.co.uk/film/video/2011/may/16/cannes2011-reel-review-tree-life-video>.
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