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361 gennaio marzo 2014

La condizione postumana a cura di Giovanni Leghissa Premessa

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Giovanni Leghissa Ospiti di un mondo di cose. Per un rapporto postumano con la materialità 10 Roberto Marchesini Alla fonte di Epimeteo 34 Marina Maestrutti Potenziati ma inadatti al futuro. Dal cyborg felice al cyborg virtuoso 52 Davide Tarizzo Al di là del principio di realtà: sulla Vita Artificiale 72 Rocco Ronchi Figure del postumano. Gli zombi, l’onkos e il rovescio del Dasein 82 Francesca Gruppi Animal symbolicum e uomo toolmade. Hans Blumenberg tra umanesimo e postumanesimo 97 Fabio Minazzi “Salire sulle proprie spalle”? Simondon e la trasduttività dell’ordine del reale 110 Antonio Lucci Primi passi nel Postum(i)ano 130 Francesco Monico Premesse per una costituzione ibrida: la macchina, la bambina automatica e il bosco 144 Fabio Polidori Di un sintomo e alcune appartenenze 164

VICINO/LONTANO

Stefano Moriggi, Raffaele Simone Il sapere nella rete

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Premessa

S

iamo sicuri di sapere cosa sia l’umano? Disponiamo di definizioni condivise dell’umano? Utili non solo in sede scientifica, ma anche tali da permettere la costruzione di una piattaforma etica condivisa? E ancora: siamo sicuri di aver fatto i conti fino in fondo con la tradizione dell’umanesimo, la quale ci consegna in eredità non solo immagini obsolete dell’umano, a volte addirittura politicamente sospette (perché non universalizzabili, perché troppo eurocentriche, o addirittura perché francamente razziste), ma anche gli unici strumenti concettuali di cui poter disporre per condurre a termine un’efficace critica dell’umano, ovvero una riflessione capace di unire la conoscenza di ciò che l’uomo è alla comprensione di ciò che l’uomo potrebbe – o dovrebbe – essere? Rispondere affermativamente con troppa fretta potrebbe costare caro. E non perché l’umanesimo, comunque lo si voglia considerare, è il luogo della nostra provenienza; nemmeno perché non si può essere così avventati – e ingenui – da credere che, una volta preso congedo dall’umanesimo, si disponga di un’alternativa a esso, di un dispositivo concettuale e metaforico bell’e pronto, capace di aiutarci a pensare l’umano in termini completamente nuovi. Ma perché forse significherebbe che si è compiuta la parabola di quel modo di fare filosofia che tenta, con alterne vicende, di mettere a tema la posizione del soggetto che pensa mentre questi si rapporta al pensato, mentre accede alla concettualità del pensato in quanto tale. A molti non dispiace ritenere che tale parabola sia aut aut, 361, 2014, 3-9

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conclusa. In fondo, basta far coincidere la filosofia con la scienza e il gioco è fatto. Voilà, ecco che in quel caso ci si ritrova a riflettere sull’attività del pensare guardandola dal di fuori, da un punto di vista che ha i tratti del fondamento inconcusso. Ma, con buona pace di teologi e amanti di una filosofia scientifica, c’è ancora chi si ostina a ritenere essenziale per le sorti della filosofia la volontà di porre il cominciamento là dove questo incrocia l’umano, non per far coincidere il cominciamento con la finitezza del soggetto, ma per permettere al cominciamento di essere quel che è, ovvero confronto necessario con la contingenza. Le precisazioni appena compiute dovrebbero illuminare il senso che si vuole conferire al tentativo espresso in questo fascicolo: esplorare le potenzialità filosofiche di una possibile teoria del postumano. Possibile perché in fondo ancora da costruire – e ancora da definire in modo preciso, soprattutto rispetto a quelle posizioni che del “postumano” hanno già fatto un’etichetta, una bandiera, capace di mobilitare risorse (anche accademiche). Per dirla in modo ancora più netto: se ci rifiutiamo di prendere congedo troppo in fretta dall’umanesimo, e se crediamo che questa prudenza sia connessa alla volontà di mantenere uno sguardo vigile sulle condizioni di possibilità della pratica filosofica, allora non possiamo imbarcarci sulla nave di un postumanesimo che è supposto sapere dove si trovi l’Eldorado di una condizione umana migliore – migliore perché libera da ogni zavorra umanistica, migliore perché già capace di incarnare il senso di un’ulteriorità contenente le più belle e allettanti promesse di emancipazione. Del resto, se ci sono fondate ragioni per nutrire un qualche sospetto nei confronti dell’umanesimo tradizionale, ciò avviene anche perché quest’ultimo ha spesso unito le proprie sorti a quelle dei profeti che annunciavano l’arrivo di una qualche fine, di una qualche apocalisse, di un qualche “post” – e questi profeti, a volte, si sono rivelati complici dei peggiori regimi totalitari della storia. Ma allora di quale “postumano” vorremmo parlare qui? In modo diverso, con accenti diversi, con riferimenti a declinazioni diverse, in alcuni casi con un esplicito richiamo ad alcune delle posizioni che hanno reso possibile l’affermarsi di un discorso sul 4


postumano in anni a noi vicini, gli articoli presenti in questo fascicolo tentano di tracciare una mappa, che si vuole provvisoria, di una specifica costellazione teorica. Provo, di seguito, a fornire una descrizione di tale costellazione. Ricordiamo innanzi tutto ciò che si associa nel modo più ovvio e banale alla nozione di postumano: il riferimento alla dimensione del cyborg, all’impiego delle nuove tecnologie per uscire da una conditio humana segnata da caducità, finitezza, debolezza, fragilità. È la letteratura fantascientifica – spesso con esiti visionari – ad aver proposto per prima questa peculiare declinazione della questione. In riferimento agli scenari orrorifici che a volte popolano il mondo della science fiction si è svolta una parte del dibattito sugli esiti di molte trasformazioni dell’umano che vorrebbero sostituire l’umanità così come la conosciamo con qualcosa che rimanda a una dimensione qualificabile come “postumana” nel senso di “meglio che umana”. Al sospetto di chi associa l’enfasi sull’enhancement ai prodromi di una società totalitaria si sono contrapposte le voci di chi, utilizzando invece la carica utopica ed eversiva che altre volte caratterizza la science fiction, ha salutato nel tema del cyborg l’avvento di una nuova era, in cui sia possibile disfarsi di vecchie concezioni etichettate come veteroumanistiche per far strada a una visione dell’umano dai tratti fortemente emancipativi. Ma non è solamente da questo ambito di discussioni che vale la pena trarre spunto per cogliere la portata, sia politica che filosofica, della questione. Altrettanto gravida di conseguenze, infatti, è quella declinazione della nozione di postumano che rimanda alla possibilità di vivere in un mondo che non pone l’uomo quale unico custode della casa dell’essere, ma colloca l’uomo sullo stesso piano sia degli altri viventi che delle cose, degli oggetti inanimati. In un mondo del genere siamo vissuti da sempre: ma si è fatto finta, per così dire, che la divisione tra umani e cose da un lato, tra umani e altri esseri viventi dall’altro, fosse così ovvia e così scontata da non richiedere alcuna messa in questione. Varie tradizioni di pensiero novecentesche, per la verità, hanno affrontato la questione della deantropologizzazione, intesa come messa in discussione della presunta posizione centrale e domi5


nante che l’uomo occuperebbe sul pianeta che condividiamo con gli artefatti e con l’insieme degli enti naturali (animali compresi). Tuttavia, sarebbe poco produttivo limitarsi a sottolineare le continuità – che pure ci sono – tra la declinazione del postumano a cui si vuole qui fare riferimento e le filosofie novecentesche che hanno voluto porre sotto accusa l’umanesimo tradizionale e la volontà che lo animava di considerare intangibile la presunta superiorità dell’umano all’interno della grande catena dell’essere. Forse, allora, siamo già in grado di descrivere i passi ulteriori che resterebbero da compiere – consapevoli, come dovrebbe essere chiaro da quanto detto sopra, dei rischi che ciò comporta. Il primo passo va in direzione di un posizionamento radicale dell’umano entro la dimensione dell’animalità – e qui l’uso dell’aggettivo “radicale” non è enfatico: si tratta di negare la possibilità che vengano offerte spiegazioni non naturalistiche della storia umana e dei significati che all’interno di questa vengono prodotti. Animale tra altri, peculiare certo – e unico – perché animale parlante e desiderante, ma pur sempre animale, l’uomo potrebbe in tal modo cominciare a leggere la propria storia nell’ottica di un darwinismo dotato di valenze quasi-trascendentali, che dialoga con gli esiti della psicologia evolutiva, ma ne supera anche certe ristrettezze (alcune delle quali francamente regressive dal punto di vista politico). Si tratta in altre parole di leggere la storia umana come storia naturale, come deep history, che comincia ancor prima del Paleolitico, e che si srotola non nel senso delle magnifiche sorti e progressive, ma si declina come processo mai concluso (costitutivamente mai concluso) di ominizzazione. Il che lascia aperta la possibilità di una prossima (seppur lontanissima) mutazione di specie – o perlomeno di una uscita dall’orizzonte neolitico nel quale siamo ancora immersi (dominio maschile, esito bellico e militare dei conflitti intraspecifici, dieta carnea, relazioni apotropaiche con i defunti, culto di divinità e/o di potenze extracorporee). In stretta correlazione con il primo passo, ve n’è un secondo, che mira a declinare il “postumano” entro una cornice etica volta a giustificare un rapporto paritetico con le altre specie. Da tempo la filosofia discute la possibilità di accordare diritti agli animali. La 6


prospettiva postumanistica in realtà sposta lo sguardo in un’altra direzione, che in qualche modo sembra precedere la questione – pur centrale e decisiva – del diritto. Si tratterebbe qui di pensare all’animale come vero e proprio simile, come compagno di strada, come coabitatore del mondo. Non per ecologismo (se trattiamo male le altre specie alla fine danneggiamo anche noi stessi) né per amore o compassione verso tutti gli esseri senzienti. È la presa di coscienza della propria animalità ciò che dovrebbe spingere l’uomo a intrattenere un diverso rapporto con l’animale. Il che comporta però uno sforzo di riconcettualizzazione dell’intera questione, che comincia con una decostruzione del modo in cui la tradizione ha pensato la dicotomia animale/uomo e finisce con la proposta di una nuova articolazione semantica di cui dotarsi per definire il sistema delle differenze tra animali di specie diverse. L’ultimo passo, infine, sarebbe quello in virtù del quale la nozione di “postumano” indica la possibilità di un’accoglienza ospitale dell’artefatto, del cosale, dell’oggettuale. Qui è in gioco la messa in questione della infinita produttività dell’umano o del naturale (il che è lo stesso: l’homo faber è tale perché imita la natura). Una volta che sia possibile prendere congedo da una concezione che relega sia i manufatti che gli oggetti inanimati a meri prodotti (i quali alla fine si riducono sempre a prodotti di scarto, a rifiuti di una ciclicità del produrre virtualmente infinita), si fa strada l’idea di una democrazia della natura, che vede gli oggetti come parte integrante del nostro universo non solo cognitivo ma anche affettivo ed emotivo. Da qui la possibilità di ripensare il sociale come ambiente in cui umani e artefatti (e, ovviamente, animali) interagiscono formando vari livelli di realtà – uno dei quali, che non potremmo definire più come “il più alto”, anche se per noi resta quello più importante, è costituito dalla capacità umana di osservare il mondo e di descriverlo usando le parole. Ora, va subito precisato che gli articoli presenti nel fascicolo non coprono nella sua interezza la costellazione di temi e suggestioni appena delineata. Si tratta di avvicinamenti nella direzione che qui si suggerisce. In apertura, è presente una riflessione sulla dimensione del cosale e dell’oggettuale intesa quale sfera in cui 7


da sempre è immerso il processo di ominizzazione (Giovanni Leghissa). Roberto Marchesini, che ha contribuito con i suoi lavori in maniera decisiva ad avviare una riflessione seria sul tema del postumano, interroga senso e portata di una prospettiva filosofica che intende coinvolgere assieme temi etici ed epistemologici e che si presenta capace di ridefinire i confini disciplinari all’interno dei quali poter affrontare in modo inedito la posizione dell’umano tra le specie viventi. Non manca una disamina dei modi attraverso i quali la tematica del postumano si è intrecciata a quella del potenziamento, inteso come superamento dei limiti che caratterizzano un ente finito e vulnerabile come l’uomo – superamento che a tratti si presenta connotato in termini quasi escatologici (Marina Maestrutti). Se si interroga il senso della vita, dell’elemento vitale, che la nozione di postumano mette necessariamente in gioco, non si può trascurare né la complessità di questa nozione – o, meglio, la sua non immediata maneggiabilità – né la fitta rete di relazioni in cui essa è inserita. Il fatto di pensare che una filosofia del postumano possa iniziare il proprio percorso a partire da una nozione di “vita” non discutibile perché neutra, perché in qualche modo già chiara e fruibile, sarebbe infatti non solo cifra di una notevole ingenuità, ma si presterebbe anche a divenire veicolo di posizioni politicamente assai discutibili (Davide Tarizzo). Parimenti efficace ci è parso interrogare le soglie tra il vivente e il non vivente che il discorso sul postumano comporta. Per farlo, si è ricorso a un’indagine che sonda quali effetti – non solo di straniamento – si ottengano esplorando i processi di soggettivazione attraverso la messa in gioco di una categoria come quella di zombi (Rocco Ronchi). Sono presenti saggi che contribuiscono a inquadrare l’apporto che può venire da autori come Blumenberg (Francesca Gruppi) o Simondon (Fabio Minazzi). Si tratta di autori che non hanno certo svolto le loro riflessioni in vista di una teoria del postumano, ma la loro opera ci è parsa costituire un punto di partenza imprescindibile in tale direzione. Più in generale, non poteva mancare una ricognizione del modo in cui il discorso sulla postumanità attraversi vari momenti della riflessione filosofica contemporanea, seguendo un percorso che parte dall’antropologia 8


filosofica e dall’etologia lorenziana per giungere fino al pensiero di Peter Sloterdijk (Antonio Lucci). Si è anche cercato di porre attenzione alla riformulazione a cui vanno sottoposte le categorie in virtù delle quali concepiamo l’agentività – in particolare se legata alla nozione di standing – non appena si voglia prendere sul serio il suggerimento, avanzato tra gli altri da Bruno Latour, secondo cui le categorie della modernità si rivelerebbero oggi insufficienti per definire i confini dell’arena politica (Francesco Monico). Infine, non poteva mancare una presa di posizione a tratti anche molto critica verso la stessa nozione di “postumano”, che mettesse in luce i rischi, ai quali si è fatto cenno all’inizio, di un’assunzione troppo entusiastica, troppo celebrativa, in fin dei conti ingenua, del programma postumanista (Fabio Polidori). [G.L.]

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Ospiti di un mondo di cose. Per un rapporto postumano con la materialità GIOVANNI LEGHISSA

1. Forme della postumanità Per lungo tempo, la riflessione filosofica ha articolato la questione della posizione dell’uomo nel cosmo come se questa potesse essere una posizione di assoluto e indiscusso privilegio. Privilegio nei confronti dell’animale non umano, e privilegio nei confronti della sfera popolata dalle cose materiali. Del primo aspetto, che merita una decostruzione a parte, non mi occuperò in questa sede.1 Cercherò invece di proporre valide alternative alla tesi secondo cui gli umani, in virtù della loro costituzione ontologica, siano in grado di porsi in un rapporto con la cosalità che renda questa o un ambito in cui ergersi quali padroni capaci di esercitare un dominio, oppure un ambito caratterizzabile come assolutamente esteriore rispetto all’umano che con essa si mette in relazione. Vorrei suggerire che il mondo delle cose e degli artefatti vada invece collocato sullo stesso piano in cui l’animale uomo esperisce la propria storicità, 1. La prospettiva postumanistica inaugura sia un nuovo modo di concepire l’animalità dell’uomo, intesa come unico orizzonte entro il quale comprendere l’azione umana, sia un nuovo modo di concepire i rapporti tra homo sapiens e gli animali di altre specie. Si tratta di una prospettiva che acquista senso e diventa plausibile solo se va di pari passo con un profondo rimescolamento delle carte in seno all’enciclopedia, rimescolamento che pone la teoria darwiniana là dove abitualmente si colloca il fondamento del sapere. Ma prima di intraprendere tale opera di sovversione, sarebbe necessario decostruire quei postulati in base ai quali il soggetto umano (il solo in rapporto al quale abbia senso articolare la questione della fondazione) viene concepito come ciò che esclude l’animalità. Non potendo qui approfondire la questione, mi limito a segnalare il fatto che tale opera di decostruzione viene magistralmente svolta in J. Derrida, La Bestia e il Sovrano. Volume I (2001-2002) (2008), trad. di G. Carbonelli, Jaca Book, Milano 2009, e Id., La Bestia e il Sovrano. Volume II (2002-2003) (2009), trad. di G. Carbonelli, Jaca Book, Milano 2010.

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e identificherò in questa tesi una componente essenziale di una prospettiva filosofica di tipo postumanistico. In apertura, vorrei evidenziare uno degli aspetti epistemologici apparentemente paradossali di tale tesi, poiché si tratta di un aspetto che mi pare caratteristico di qualunque filosofia del postumano. Se da una parte si suggerisce di prendere congedo dall’idea secondo cui essere umani sia in sé e per sé un segno di distinzione o di superiorità, in virtù del quale si può guardare con sufficienza sia all’animalità di tutte le specie viventi (compresa l’animalità di homo sapiens), sia alla muta materialità delle cose, l’atteggiamento postumanistico non comporta tuttavia un abbandono, bensì una rilettura del principio secondo cui l’uomo sarebbe la misura di tutte le cose (Platone, Teeteto, 152a). Il paradosso qui evocato, dicevo, è apparente. Il motto protagoreo va in primis inserito nel quadro di un “darwinismo trascendentale” volto a collocare la teoria dell’evoluzione alla base di qualunque progetto enciclopedico.2 Fatto questo passo, diventa improponibile postulare una qualsivoglia superiorità dell’ente umano, tale da fargli occupare, rispetto agli altri enti, la posizione dell’osservatore privilegiato, distaccato, non partecipe – posizione di cui il soggetto trascendentale, per certi versi, è stato la proiezione fantasmatica. Il motto, allora, potrebbe venir così formulato: l’uomo, in virtù delle strutture cognitive di cui si è dotato nel corso della propria evoluzione biologica, si pone come il solo osservatore in grado di conferire senso a quell’insieme di fenomeni che le suddette strutture cognitive rendono visibili. Presente già in un autore per molti versi estraneo al mainstream filosofico come Lorenz,3 questa linea di pensiero non comporta semplicemente un abbandono della prospettiva trascendentale, né comporta una ingenua naturalizzazione della stessa. Si tratta, più profondamente, di prendere sul serio il fatto che il mondo che appare a un rettile (tanto per nominare un vertebrato a noi filoge2. Qui non mi soffermo sui dibattiti interni alla teoria dell’evoluzione, per una disamina dei quali rimando a K. Sterelny, La sopravvivenza del più adatto. Dawkins contro Gould (2001), trad. di T. Pievani, Raffaello Cortina, Milano 2004. 3. Cfr. K. Lorenz, L’altra faccia dello specchio (1973), trad. di C. Beltramo Ceppi, Adelphi, Milano 1991.

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neticamente prossimo) non ha le stesse caratteristiche del mondo che appare a homo sapiens – pur restando, ontologicamente, lo stesso mondo.4 E, parimenti, si tratta di riconoscere che la scienza, se interpretata quale insieme di dispositivi che rendono visibile il reale (o, meglio, dispositivi che aprono, in modi diversi, campi di visibilizzazione entro cui collocare determinate classi di oggetti), non si pone al di fuori del processo che porta alla costituzione di homo sapiens, ma è parte integrante di esso – al punto che si potrebbero svolgere interessanti considerazioni sull’analogia istituibile tra le procedure con cui opera la scienza per costruire i propri campi oggettuali e il modo in cui le specie viventi si evolvono interagendo con l’ambiente che le ospita.5 Ora, l’osservazione preliminare appena esposta non è estranea al senso delle riflessioni che seguono, in quanto una filosofia volta a ripristinare il ruolo dell’oggettuale nel processo di costituzione dell’umano va di pari passo con quelle riflessioni sul costituirsi del sapere scientifico secondo le quali le teorie in base a cui costruiamo le ipotesi che guidano il processo della scoperta si collocano allo stesso livello in cui operano quei dispositivi tecnici senza i quali nessuna azione potrebbe avere luogo in un laboratorio di fisica o di chimica. Si tratta insomma di capire che non c’è soluzione di 4. Mi rendo conto che qui sarebbero necessarie precisazioni di ben più ampia portata. In questa sede, tuttavia, mi limito alla seguente osservazione. È opportuno distinguere tra atti del giudizio e giudizi. I secondi si riferiscono sempre al mondo in quanto “unità oggettuale totale che corrisponde al sistema ideale di ogni verità di fatto ed è da esso inseparabile” (E. Husserl, Ricerche logiche, 1900-1901, a cura di G. Piana, il Saggiatore, Milano 1988, vol. I, p. 135 [HUA XVIII, 121]). Dire che vi è un unico mondo significa allora riferirsi al referente ultimo di quel sistema di tutti i giudizi possibili che hanno la proprietà di essere validi indipendentemente dagli atti di giudizio effettivamente compiuti. Se invece ci muoviamo sul terreno in cui vengono effettuati questi ultimi, appare assai poco sensato prescindere dalle strutture cognitive, evolutesi nel corso della storia naturale, di cui è dotato un soggetto in grado di formulare giudizi. È chiaro che tutto ciò comporta anche una ridefinizione del trascendentale e della sua funzione in seno all’argomentazione filosofica. In questa direzione si è mosso con grande acume Hans Blumenberg, un autore che difficilmente si può fare a meno di evocare se si discute la questione della postumanità. Cfr., in particolare, H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, a cura di M. Sommer, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2006. 5. Cfr. K. Popper, Conoscenza oggettiva. Un punto di vista evoluzionistico (1972), trad. di A. Rossi, Armando, Roma 1975; D.T. Campbell, Epistemologia evoluzionistica (1974), trad. di M. Stanzione, Armando, Roma 1981.

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continuità tra un chopping tool preistorico, senza il quale l’uomo non si sarebbe evoluto fino al punto da articolare il linguaggio,6 e quanto serve a un fisico per svolgere il suo lavoro, dall’acceleratore di particelle all’equazione di Schrödinger – elementi, questi ultimi, che vengono qui posti sullo stesso piano, visto che la teoria pura è parte integrante di un insieme che comprende dispositivi tecnici, software per elaborare dati, codici, culture condivise da una comunità scientifica data, frammenti di altre parti dell’enciclopedia.7 Per dirla in modo ancora più chiaro: costruite dall’uomo, le teorie servono a migliorare la prassi adattativa; ma nessuna prassi costruttiva a livello teorico si può svolgere senza intrecciarsi con la manualità del costruire artefatti, e né l’una né l’altra prescindono dal fatto che l’interazione con l’ambiente è, prima di tutto, interazione con oggetti materiali. 2. Heidegger e Latour: il pensiero dell’oggettuale dalla filosofia alla sociologia delle reti Per la verità, sono registrabili alcuni luoghi in cui la riflessione novecentesca sull’umano ha messo in luce, almeno parzialmente, in che senso ogni processo di individuazione risulti inconcepibile se si prescinde dal rapporto con l’oggetto materiale.8 A titolo di esempio, merita considerare innanzi tutto un paio di luoghi tratti dal pensiero di Heidegger, un autore la cui opera, complessivamen6. Cfr. le ormai classiche riflessioni sul tema svolte in A. Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola (1964-65), vol. I: Tecnica e linguaggio, vol. II: La memoria e i ritmi, trad. di F. Zannino, Einaudi, Torino 1977. 7. Cfr. I. Hacking, L’autogiustificazione delle scienze di laboratorio, in A. Pickering (a cura di), La scienza come pratica e cultura (1992), trad. di L. Paglieri, Edizioni di Comunità, Torino 2001, pp. 33-75. 8. Mi limito a segnalare in nota alcuni testi, osservando che ciascuno di essi meriterebbe una disamina a parte al fine di ricostruire una sorta di genealogia di un possibile pensiero della materialità: G. Simondon, Du mode d’existence des objets techniques (1958), Aubier, Paris 2001; J. Baudrillard, Il sistema degli oggetti (1968), trad. di S. Esposito, Bompiani, Milano 2004; M. Sahlins, Cultura e utilità (1976), trad. di B. Amato, Bompiani, Milano 1982; M. Douglas, B. Isherwood, Il mondo delle cose (1979), trad. di G. Maggioni, il Mulino, Bologna 1984; P. Bourdieu, La distinzione. Critica sociale del gusto (1979), trad. di G. Viale, il Mulino, Bologna 1983; A. Appadurai (a cura di), The Social Life of Things. Commodities in Cultural Perspective, Cambridge University Press, Cambridge 1986; F. Orlando, Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura. Rovine, reliquie, rarità, robaccia, luoghi inabitati e tesori nascosti, Einaudi, Torino 19942; B. Brown (a cura di), Things, University of Chicago Press, Chicago 2004.

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Alla fonte di Epimeteo ROBERTO MARCHESINI

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l problema dell’identità, che alla fine dell’Ottocento catalizzava sull’individuo e sull’espressione della soggettività il proprio focus di problematicità – si pensi alle tematiche proustiane sulla vulnerabilità del lavoro aggregativo della memoria1 o a quelle di Pirandello sull’incertezza del profilo nei contesti sociali e relazionali2 – lungo tutto il Novecento ha investito la condizione umana nella sua globalità, ponendo al centro la questione antropologica ancor prima che quella psicologica. L’erosione di un limes, che nelle espressioni umaniste appariva nitido e sicuro, avveniva sotto l’influenza di una pluralità di fattori: l’azzeramento di alcuni operatori disgiuntivi antropotropici come le dicotomie “natura vs cultura”, “uomo vs animale”, “biologico vs macchinino”; la crescente messa in mora dell’antropocentrismo a seguito dello sviluppo del pensiero darwiniano, nel definire per l’uomo uno spazio di parzialità adattativa ovvero non di universalismo e parimenti nel creare un’interfaccia di commercio e di prossimità con gli altri animali; la modificazione del corpo operata dalla declinazione tecnomorfica, portata a ridefinire i canoni estetici che da antropoplastici assumono sempre di più profili derivali ossia disgiuntivi rispetto al modello vitruviano, verso un 1. M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto (1913-27), trad. di M.B. Bertini, Einaudi, Torino 1966. 2. L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal (1904), Einaudi, Torino 2005.

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sublime tecnologico e un bello teriomorfico. Da tutto questo e da altro ancora emerge quella riflessione sul futuro dell’uomo che siamo soliti chiamare questione postumana, che non indica di per sé l’uscita dell’uomo dalla dimensione umana quanto piuttosto una riflessione sull’evoluzione della condizione umana, intesa quest’ultima non tanto come semplice appartenenza di taxon bensì come “modo di esserci” nei parametri intenzionali, relazionali, di interfaccia, declinativi e performativi. Sulla questione postumana diverse possono essere le posizioni filosofiche di interpretazione, ancor prima che di giudizio; nel mio saggio Post-human3 ho distinto una posizione iperumanista, portata a ritenere la techné come fureria tecnopoietica a disposizione dell’essere umano per rendere finalmente concreti e raggiungibili gli obiettivi elevativi e disgiuntivi propri della proposta umanista pichiana, da una posizione postumanista che, viceversa, considera la techné un canale di comunicazione e di congiunzione con le alterità e un volano che antropodecentrando favorisce la capacità di assumere una posizionalità meno parziale e più critica. Da questo si può evincere chiaramente una differenza netta tra la questione postumana e la filosofia postumanista, che spesso non solo vengono confuse ma banalmente si considera la prima come il frutto delle ellissi tecnologiche in essere e futuribili, e la seconda la sua elegia celebrativa. Gli argomenti messi sul tavolo di discussione dalla filosofia postumanista ci chiedono prima di tutto di sospendere per un attimo le fantasmagorie di certa pubblicistica – basate su programmi di emancipazione dal biologico, trasmigrazione in dimensioni eteree, esistenze in iperurani informatici, diaspore della specie in multiformi biotipi, performatività iperboliche, accessi alla vita eterna – che catalizzano l’attenzione sui loro accenti pindarici ma non aiutano a comprendere le vere questioni in campo. Rischiamo di confinare i termini del problema all’interno della dimensione stuporosa, ovviamente polarizzando gli astanti in tecnofili e tecnofobi, rimettendo poi a un improvvisato 3. R. Marchesini, Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza, Bollati Boringhieri, Torino 2002.

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giudizio etico questioni che andrebbero prima di tutto esaminate sotto il profilo ontologico ed epistemologico, all’interno di una cornice interpretativa ben più complessa. Innanzitutto il termine postumanistico va chiarito e contraddistinto rispetto ai programmi più o meno fantasiosi di transumanazione e ai cosiddetti “progetti postumani”, attribuibili più alla fantascienza che all’analisi filosofica. Il fatto è che la proiezione fantascientifica ha a che fare con il presente, è transrealista – per utilizzare le parole dello scrittore Rudy Rucker4 –, vale a dire è portata a cogliere e a esprimere gli spazi-del-possibile situati oltre la superficie del reale stesso. La fantascienza porta in evidenza i campi virtuali in essere nel presente, per cui negli anni sessanta, abbacinati dai missili spaziali, immaginavamo per il “Duemila” viaggi interplanetari alla portata di ciascuno e non eravamo in grado di prevedere la rivoluzione digitalica. Questo significa che a oggi è impossibile dire quali delle proiezioni in essere – ciò che abbiamo definito come contenuti transreali – si potranno avverare e quali eventi imprevedibili al contrario andranno a dare una connotazione specifica al futuro che ci attende. Mettiamo perciò tra parentesi il luna park tecnofantasioso e cerchiamo di perimetrare le coordinate di pensiero al cui interno si muove la filosofia postumanista. Con il termine di “postumanismo” intendiamo una matrice di pensiero che non si pone in antitesi all’umanismo ma come rivisitazione di questo – non è un antiumanismo – definendo alcuni aspetti di cui si propone come continuatore e acceleratore e altri che viceversa vengono rigettati in quanto considerati non più pertinenti nel milieu culturale che si è venuto a configurare soprattutto a partire dalla seconda metà del XIX secolo. Rispetto ai punti in comune tra postumanismo e umanismo, vanno ricordati: la considerazione diacronica dell’identità e la collocazione storica dell’autore, la differenza tra dimensione di specie e condizione umana, l’individuazione nella cultura del volano antropopoietico,

4. R. Rucker, Filosofo cyberpunk (2000), trad. di G. Carlotti, Di Renzo, Roma 2000.

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Potenziati ma inadatti al futuro. Dal cyborg felice al cyborg virtuoso MARINA MAESTRUTTI

“T

i posi nel mezzo del mondo, perché di là meglio tu scorgessi tutto ciò che è nel mondo. Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto.”1 Queste parole, tratte dall’Oratio de hominis dignitate di Giovanni Pico della Mirandola, descrivono una concezione moderna del rapporto dell’umanità con il mondo che lascia all’iniziativa umana il compito di tracciare un percorso tra le possibili forme di esistenza. In un libro recente, Francesco Remotti definisce il “fare umanità” come l’azione di un’“antropopoiesi”, di un modellamento di sé e del mondo che comporta sia progetti programmati e intenzionali che azioni e interventi inconsapevoli. L’idea feconda e stimolante di Remotti è che “da un lato tutti ‘noi’, esseri umani, siamo tenuti, quasi ‘condannati’, a costruire, in un modo o nell’altro, umanità, ma dall’altro lato c’è una forte carenza di mezzi, di idee, di condizioni, di strumenti”.2 Questo work in progress produce spesso situazioni in cui i modelli e le realizzazioni si traducono in drammatici fallimenti, soprattutto nei momenti in cui sembra che il modello sia più certo, più perfetto, la realizzazione più completa. La domanda importante è, infatti, quella su 1. G. Pico della Mirandola, Oratio de hominis dignitate (1486), trad. di E. Garin, Studio Tesi, Pordenone 1994, p. 7. 2. F. Remotti, Fare umanità. I drammi dell’antropo-poiesi, Laterza, Roma-Bari 2013, p. V. Per un approfondimento del concetto di antropopoiesi, si rinvia in particolare al capitolo II.

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chi debba “fabbricare l’umano”,3 e se il modello della fabbrica e dell’ingegnere che ne progetta la produzione sia il più adatto. O se invece non sia più saggio scegliere il modello artigianale, anzi “amatoriale”, quello del bricoleur. Il bricoleur, che Claude LéviStrauss considera l’esperto della “scienza del concreto”,4 è colui che utilizza mezzi diversi rispetto all’uomo di “mestiere”, colui che si accontenta di ciò che ha tra le mani e che non può disporre degli strumenti potenti dell’ingegnere. L’ingegnere è il fautore di un intervento efficace sulla realtà, egli garantisce il progresso scientifico e tecnologico, ma a volte è chiamato anche a realizzare quello sociale e politico. L’idea antropologica che l’umano sia un prodotto dell’azione costante e modellante della cultura, l’esito dunque dell’antropopoiesi, trova conferma anche nella riflessione filosofica morale. A questo proposito è interessante la definizione che Peter Sloterdijk fornisce dell’antropotecnica in Regole per un parco umano5 in quanto si avvicina a quella di Remotti e apre a prospettive di riflessione in parte simili. Sloterdijk descrive il fenomeno della domesticazione dell’uomo attraverso la lettura dei testi classici e la disciplina dello studio dell’umanismo come una delle varie forme possibili di antropotecnica, ma ne segue la storia e i cambiamenti anche nell’epoca contemporanea, fino a individuarne due tipi: le antropotecniche primarie e quelle secondarie. Le antropotecniche sono da considerarsi “coestensive e consustanziali alla venuta all’Essere dell’animale sapiens”6 e, come già sottolineato da Remotti, possono essere messe in pratica in modo non programmatico oppure programmaticamente (un esempio può essere costituito dalle antropotecniche psico-sociali messe in atto dai regimi totalitari del XX secolo). Come afferma Antonio Lucci, 3. B. Bonato, C. Tondo (a cura di), Fabbricare l’uomo. Tecniche e politiche della vita, Mimesis, Milano-Udine 2013. 4. C. Lévi-Strauss, Il pensiero selvaggio (1962), trad. di P. Caruso, il Saggiatore, Milano 1964, pp. 30 e 33. 5. P. Sloterdijk, “Regole per il parco umano. Una replica alla Lettera sull’‘umanismo’ di Heidegger” (1999), in Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger (2001), trad. di A. Calligaris e S. Crosara, Bompiani, Milano 2004, pp. 239-266. 6. A. Lucci, Il concetto di tecnica nel pensiero di Peter Sloterdijk, in B. Bonato, C. Tondo (a cura di), Fabbricare l’uomo, cit., p. 115.

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le antropotecniche primarie “si basano su routines, convenzioni culturali, habitus, programmazioni pedagogico-sociali”.7 Tuttavia, l’uso contemporaneo dell’ingegneria genetica rende sempre maggiormente possibili le antropotecniche secondarie, legate allo sviluppo dell’ingegneria genetica e alle biotecnologie, che “secondo Sloterdijk porranno alla filosofia futura il problema di pensare la loro essenza, eticità, liceità”.8 Il problema delle antropotecniche risiede però altrove rispetto a quello della liceità, in quanto la questione principale, per Sloterdijk, sembra piuttosto essere quella “di chi applica le antropotecniche (il soggetto che mette in atto queste tecniche di domesticazione e antropopoiesi) e di come queste pratiche si incarnano nei soggetti che ne sono il destinatario”.9 In particolare, fa problema l’applicazione del dispositivo antropotecnico, sia esso primario o secondario, imposto “dall’alto”, in modo programmatico e intenzionale, secondo quelle modalità che per Platone definivano l’attività politica nel Politico (la metafora dell’allevamento), o per Michel Foucault quelle della biopolitica: un dominio che si impone sui corpi stessi, sui comportamenti e le abitudini. L’antropopoiesi attiva e programmatica è l’approccio chiaramente rivendicato dal movimento transumanista che ne declina il senso in modo particolarmente intenzionale e ingegneristico. Parte delle idee transumaniste trova una traduzione filosofica nelle proposte di etica pratica che alcuni autori europei, in particolare, formulano da una decina d’anni. Il dibattito transumanista, generalmente collocato all’interno di un concetto più ampio che è quello di postumano, si svolge in un contesto, quello delle democrazie liberali occidentali, caratterizzato da un inedito (anche se da sempre possibile) ventaglio di aperture a modelli diversi di umanità in cui si rimettono in discussione le frontiere cognitive e giuridiche tra umano e animale, si ridefiniscono le differenze di genere e i rapporti tra naturale, artificiale e tecnologie. In questo stesso contesto, tuttavia, si diffonde anche una forma di “panico” 7. Ibidem. 8. Ivi, p. 116. 9. Ibidem.

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Al di là del principio di realtà: sulla Vita Artificiale DAVIDE TARIZZO

S

tando a quanto sosteneva Ivan Illich già vent’anni fa, la Vita oggi è diventata un dio artificiale, una “pseudo-divinità e una negazione del Dio che si è incarnato e ci ha redento […]. Pensare alla vita ci fa agire come se esistesse la vita, anche se gli scienziati non usano mai il termine e nessun filosofo o eticista dotato di senno oserebbe mai introdurre questo termine nel suo discorso senza metterlo tra virgolette. Siamo di fronte all’apparizione di una sorta di giustificazione ultima che serve a farci amministrare da un nuovo clero, da un clero manageriale, pianificatore, dittatoriale, peggiore di tutto ciò che finora eravamo riusciti a immaginare”.1 Nelle pagine che seguono discuterò questa idea di Illich concentrandomi su una particolare personificazione del dio artificiale, la Vita, che è oggetto del suo monito: la Vita Artificiale. Come siamo arrivati a concepire una cosa del genere all’alba del terzo millennio? Dal mio punto di vista, la risposta non si nasconde nell’ambito della Vita Artificiale stessa, ossia nell’ambito della ricerca informatica e della scienza computazionale. Si nasconde piuttosto in alcuni assunti, in certi a priori epistemici che stanno dietro lo sviluppo di due scienze diverse: la biologia e l’economia. Benché Illich avesse certamente ragione ad ammonirci sull’emergenza di quello che chiamava un nuovo “clero manageriale”, aveva 1. D. Cayley, Ivan Illich in Conversation, Anansi Press, Toronto 1992, pp. 276-278.

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certamente torto ad affermare che gli scienziati non usano mai il termine o la nozione di Vita. Al contrario, la Vita è quel costrutto scientifico, o quella moderna astrazione scientifica, sullo sfondo della quale l’idea stessa di vita artificiale diventa concepibile per gente come noi. Questa astrazione è in primo luogo il frutto delle indagini e delle speculazioni sulle proprietà biologiche di tutto ciò che è vivo. Che cosa è vivo? Dai tempi di Darwin fino ai giorni nostri la risposta scientifica a questa domanda è stata sempre più o meno la stessa: “Definiamo viva ogni popolazione di entità che possieda le proprietà della moltiplicazione, dell’eredità e della variazione. Una simile definizione si motiva in questo modo: ogni popolazione dotata delle suddette proprietà evolverà per selezione naturale”.2 In questo brano il concetto chiave è selezione naturale ma la parola chiave è, in realtà, popolazione. Nell’ottica della biologia darwiniana o neodarwiniana, non è l’essere vivente individuale – sia esso il corpo o l’organismo del singolo individuo – che può essere definito vivo. Soppesando bene le parole, ci accorgiamo che in effetti solo una “popolazione di entità” può essere davvero dotata della proprietà della Vita. Nella misura in cui una “popolazione di entità” evolve per selezione naturale, nella misura in cui essa migliora le sue capacità di sopravvivenza e prolifera nell’ambiente, si può affermare sul piano scientifico che qualcosa, cioè questa o quella “popolazione”, è viva. Dunque, nella prospettiva della biologia darwiniana o neo-darwiniana, la Vita va descritta come un processo selettivo di auto-perfezionamento e di proliferazione delle “popolazioni” – non come una proprietà dei singoli esseri viventi. Ciò detto, di quali “entità” sono fatte le “popolazioni”? Una volta escluso che i corpi o gli organismi individuali siano le autentiche espressioni della Vita, dobbiamo andare in cerca di “entità” di altro tipo. Ed è a questo punto che ci imbattiamo in una delle più enigmatiche e ubique “entità” della scienza moderna: il “comportamento”. Questa è la parola che dà accesso alla nostra Vita. Di sicuro, gli esseri viventi non sono gli unici a comportarsi. Anche un oggetto inanimato può farlo. Per esempio, posso dire 2. J.M. Smith, The Theory of Evolution, Penguin, Harmondsworth 1975, pp. 96-97.

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che “l’automobile che sto guidando si comporta bene nel traffico”. Tuttavia, se si comportasse male, la stessa automobile non potrebbe correggere da sola il suo comportamento. L’automobile non potrebbe correggere, migliorare, perfezionare da sola le sue performance. Questa potenzialità, invece, è la caratteristica della Vita. Qualcosa di vivo è qualcosa che può comportarsi male e può correggere il suo comportamento. In un certo senso, qualcosa di vivo è qualcosa che già sempre si sta comportando male e già sempre sta lottando per comportarsi meglio, per migliorare le sue performance comportamentali. Di qui la nostra visione della Vita come una fonte di cattivi comportamenti, di errori, di sbagli, di difetti. Prendiamo per esempio la visione filosofica della Vita fatta propria da Georges Canguilhem e dall’ultimo Michel Foucault. Per entrambi, “la vita stessa contiene nella sua essenza la possibilità, se non l’inevitabilità, degli errori”.3 Due conseguenze si possono fare derivare da quest’unica premessa. Primo, se la Vita in sé e per sé contiene l’inevitabilità degli errori, se la Vita è caratterizzata da un’esposizione spontanea a sbagli e difetti che possono condurla fino alla morte, allora la Vita dovrà contenere in sé anche una tendenza diametralmente opposta, ossia un’interna e spontanea opposizione a tutti quegli sbagli e difetti che possono portarla a estinguersi – altrimenti la Vita non potrebbe sopportare se stessa, non potrebbe sopravvivere a se stessa. Nella sua essenza, quindi, la Vita va concepita come una fonte di errori e al contempo come una forza, o una pulsione, che di continuo contrasta i propri errori, correggendo e regolando il suo comportamento. Come lo stesso Canguilhem scrive, “il dato della vita [...] è la sua auto-preservazione per mezzo dell’autoregolazione”.4 Secondo, se la Vita in quanto tale si dispiega in un processo di auto-preservazione e di auto-regolazione, allora la Vita – quella forza o pulsione naturale che la scienza moderna chiama Vita – emerge anche come la fonte ultima del valore. Giacché la 3. P. Rabinow, French Enlightenment: Truth and Life, “Economy and Society”, 2-3, 1998, p. 199. 4. G. Canguilhem, Idéologie et rationalité dans l’histoire des sciences de la vie, Vrin, Paris 2000, p. 124.

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Figure del postumano. Gli zombi, l’onkos e il rovescio del Dasein ROCCO RONCHI Nul homme, à moins d’être un mort-vivant, ne peut se sentir à l’ancre en cette vie. René Char

Perché gli zombi? Perché gli zombi? Perché occuparsi filosoficamente di un genere cinematografico decisamente “minore”, che appartiene all’immaginario popolare? Gli zombi sono strane creature che abitano la soglia impalpabile che divide la vita dalla morte, che separa l’essere dal non essere. Sono creature caratterizzate dalla doppia negazione: né… né…, né veramente morte né veramente vive. Creature del limite, creature segnate da una inquietante “neutralità”. Creature che non possono nemmeno dirsi propriamente creature, dal momento che, a ben considerarle, più che creature sono “decreature”: non cessano, infatti, di disfarsi senza però mai giungere al punto in cui cesserebbero infine di essere (a meno che qualcuno non fracassi loro la testa1). Creature che non possono morire più di quanto non possano vivere. Creature dell’intervallo, insomma. Un intervallo nel quale il tempo è sospeso. In cui non c’è più tempo come orizzonte di comprensione del senso dell’essere. Non c’è per gli zombi “freccia del tempo”, non c’è direzione futuro, non c’è durata creatrice. C’è solo ripetizione, anzi pura coazione a ripetere, mera Wiederholungszwang. Come il vampiro, si obietterà, e con buone ragioni, ma a differenza del vampiro, i living dead 2 sono decreature ben più 1. Nella grammatica del genere, tale modo di eliminare gli zombi è codificato da George Romero nel classico Night of the Living Dead del 1968. I fanatici del genere segnalano un precedente, del tutto casuale, in The Walking Dead del 1936 (diretto da Michael Curtiz, il regista di Casablanca). 2. I living dead, o più semplicemente i dead, non sono esattamente la stessa cosa dello zombi haitiano. Sono il frutto della rielaborazione del mito haitiano operata in modo particolare da

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invasive, ben più insistenti, ben più comuni, ben più ordinarie, come il loro abbigliamento da supermercato dimostra. Sulla differenza fondamentale tra zombi e vampiri si dovrà ritornare: per ora ci basti questo appunto sull’eleganza un po’ retrò dei secondi e sulla trasandatezza dei primi, segno del carattere aristocratico del vampiro e della vocazione invece radicalmente democratica degli zombi. In L’uomo senza qualità Musil faceva dire a Ulrich che se l’umanità del suo tempo fosse stata capace di fare un sogno collettivo avrebbe senz’altro sognato Moosbrugger, il mostro massacratore di prostitute. Della democrazia di massa i B-movies sugli zombi (spesso Z-movies) sono allora in qualche modo il sogno collettivo. Il cinema ha insomma fornito il pensiero del suo nuovo personaggio concettuale e lo ha fatto nei luoghi più inattesi: non nelle sale d’essai o nei festival dell’arte cinematografica, ma nei drive-in e grazie a produzioni a low-budget.3 Appare allora forse un po’ più chiara la ragione per la quale crediamo sia utile introdurre gli zombi in filosofia. Perché questi anti-eroi della democrazia di massa rappresentano il rovescio speculare del Dasein, vale a dire del protagonista assoluto del pensiero novecentesco. Perché gli zombi portano alle estreme conseguenze la crisi del processo di individuazione, perché sono l’effetto più mirabolante dello stallo della “macchina antropologica”4 e perché, vagando senza meta in una terra ridotta a deserto, indicano la strada che porta finalmente fuori dal “mondo” in un “reale” che resiste a ogni assimilazione nell’ordine del simbolico. George Romero a partire dagli anni sessanta. Non posso qui ricostruire le principali tappe di questa vicenda, peraltro di straordinario interesse. Mi limito a ricordare in questa sede come il genere zombi, per quanto prodotto del folklore haitiano, sia fin dall’inizio un genere soprattutto cinematografico. Se per conoscere vampiri, fantasmi, cadaveri restituiti alla vita da scienziati deliranti ecc., dobbiamo soprattutto leggere dei romanzi e dei racconti, la maggior parte dei quali risale all’epoca romantica, per conoscere gli zombi dobbiamo soprattutto andare al cinema. O, almeno, esserci andati. 3. Il film “più brutto di tutti tempi”, Plan 9 from Outer Space (1959) di Ed Wood, è uno zombie-movie a bassissimo budget. Inutile dire che soprattutto dopo la rilettura che ne ha dato Tim Burton nel suo biopic Ed Wood (1994) è stato assunto nell’empireo dei film più sublimi di tutti i tempi. 4. Con tale espressione, coniata da Giorgio Agamben a partire da quella di “macchina mitologica” di Furio Jesi, si intende il divenire umano come effetto di un insieme di pratiche.

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Dopo il Dasein e dopo il mondo Il Dasein è l’umanità dell’uomo afferrata alla sua radice. E la sua radice è la finitudine, l’essere per la fine. Finitudine, molto meglio del più neutro finitezza, non è un fatto, ma un atto, l’atto antropogenetico per eccellenza. Da esso, non a caso, secondo la vulgata heideggeriana, sono esclusi i non-umani, gli dei come gli animali (e le piante). I primi, se sono, sono fuori dal tempo, i secondi cessano, non muoiono. L’uomo fa eccezione perché è per-la-fine, perché è tempo in ogni fibra del suo essere. Non c’è neanche bisogno, scrive Heidegger in Kant e il problema della metafisica, di mostrare come finitezza e trascendenza (nel senso dell’atto del trascendersi della coscienza verso il mondo, nel senso della intenzionalità husserliana, dell’“esplodere-verso” che costituisce il senso di quella intenzionalità) siano il medesimo, tanto è evidente.5 Se abbiamo un mondo (Dasein è in-der-Welt-sein), invece di esserne semplicemente parte, è perché nell’uomo la finitezza è una finitezza “fattasi esistente”, perché incide la nostra carne da sempre e per sempre (a differenza dell’animale e del dio dei teologi e a differenza, naturalmente, della cosa semplicemente presente). Anzi, come scrive ancora Heidegger nel libro su Kant, se abbiamo una carne è perché siamo ontologicamente finiti.6 Il mondo, come Umwelt, il mondo come orizzonte di senso e di non senso (nella misura in cui il mondo è sempre sottoposto, come insegna Ernesto De Martino, all’ipoteca della “crisi della presenza”, dell’“apocalissi culturale”7), c’è solo per un essere radicalmente finito, c’è solo per il Dasein, cioè per l’uomo finalmente riconsegnato alla sua essenza più propria: l’e-sistenza, l’essere per la fine. Die Welt weltet 8 non significa altro, in ultima analisi, se non che il mondo è per l’uomo e l’uomo è per il mondo: i due si danno in una correlazione oltre la quale non è possibile risalire. La correlazione enunciata in 5. M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica (1929), Laterza, Roma-Bari 1985, p. 197. 6. Ivi, p. 34. 7. E. De Martino, Morte e pianto rituale nel mondo antico. Dal lamento pagano al pianto di Maria (1958), Bollati Boringhieri, Torino 2000, p. 15 sgg. 8. L’espressione già presente nel saggio Sull’essenza del fondamento (1929), la si trova in L’origine dell’opera d’arte (1935), in M. Heidegger, Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 30.

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Animal symbolicum e uomo toolmade. Hans Blumenberg tra umanesimo e postumanesimo FRANCESCA GRUPPI

1. Da dove parla Blumenberg? Hans Blumenberg è un autore di difficile collocazione teorica: fenomenologo, storico delle idee, studioso del mito, metaforologo. Da ultimo, grazie anche alla graduale pubblicazione dell’opera postuma, sono emersi i contorni di un ulteriore profilo intellettuale: quello di un erede geniale e sui generis dell’antropologia filosofica sorta in Germania all’inizio del secolo scorso, sviluppata attorno all’opera di una celebre triade di autori: Max Scheler, Helmut Plessner e Arnold Gehlen. Per Blumenberg la riflessione sull’uomo comincia precocemente, a partire dal confronto con Husserl e Heidegger,1 attraversa carsicamente i testi successivi, anche quelli il cui oggetto sembrerebbe apparentemente più distante, fino a conquistare progressivamente spazio dagli anni settanta2 in poi, in particolare nelle due grandi opere della maturità: il saggio sull’elaborazione del mito3 e quello sul racconto dell’uscita dalla caverna.4 Tuttavia, la vera rivelazione è l’opera postuma sulla “descrizione dell’uomo”, pubblicata per la prima volta nel 2006 ma risalente a un periodo collocabile tra il 1976 e la fine degli anni

1. Cfr. in particolare H. Blumenberg, Die ontologische Distanz. Eine Untersuchung über die Krisis der Phänomenologie Husserls, unveröffentliche Habilitationsschrift, Kiel 1950. 2. Cfr. in particolare il breve saggio che esplicita per la prima volta alcuni assunti fondamentali di quella che sarà l’impostazione antropologica di Blumenberg: H. Blumenberg, “Approccio antropologico all’attualità della retorica” (1971), trad. di M. Cometa, in Le realtà in cui viviamo, Feltrinelli, Milano 1987. 3. Cfr. Id., Elaborazione del mito (1979), trad. di B. Argenton, il Mulino, Bologna 1991. 4. Cfr. Id., Uscite dalla caverna (1989), trad. di M. Doni, Medusa, Milano 2009.

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ottanta.5 Questo testo, pur non rinunciando al gusto tipicamente blumenberghiano per la digressione e la variazione sul tema, rivela uno sforzo di penetrazione, di concentrazione se non sistematica di sicuro enciclopedica, un tentativo di non lasciar sfuggire nulla al setaccio dell’indagine teorica sull’uomo, la sua origine, i suoi sentieri interrotti e la creatura che è divenuto, vagliando le possibili strade dell’antropologia filosofica e – soprattutto – gli orizzonti di significatività di un’antropologia sorta dalle aporie e dalle aperture della fenomenologia. Nonostante ciò, sono ancora rari gli studi sull’antropologia filosofica novecentesca che annoverino Blumenberg all’interno di questa tradizione. Beschreibung des Menschen è un’opera al momento poco studiata, quasi per nulla al di fuori dei confini tedeschi, di conseguenza il posto peculiare che il suo autore occupa all’interno del percorso della riflessione contemporanea sull’uomo resta in gran parte da localizzare. È, quella di Blumenberg, un’antropologia filosofica pienamente novecentesca e dunque “classica”, oppure affaccia già su un orizzonte “postumano”? Questa è la domanda da cui intendo prendere le mosse, ma in tal caso vi è – chiaramente – una questione preliminare: dov’è situato e che cos’è il postumano? Secondo una buona definizione, se ne può individuare l’espressione sintetica nel concetto di “ibridazione”, come “volontà di rottura della chiusura individualistica del soggetto umanisticoliberale”,6 e l’elemento caratterizzante in una “concezione ‘aperta’ della soggettività umana, i cui confini di separazione rispetto all’alterità, sia animale (a livello di ecosistema naturale) sia meccanica (a livello di sistemi ‘artificiali’), divengono delle vere e proprie ‘soglie’ 5. Cfr. Id., Beschreibung des Menschen, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2006. Per la precisione, l’opera è suddivisa in due parti: Phänomenologie und Anthropologie, preliminare ma composta successivamente, e Kontingenz und Sichtbarkeit. Manfred Sommer, curatore di gran parte del Nachlass blumenberghiano, nella sua postfazione a quest’opera, sostiene che i testi contenuti nella seconda parte del saggio, la cui elaborazione prende le mosse nel biennio 1976-77, possano essere letti come “Paradigmi di un’antropologia fenomenologica” che prosegue senza soluzione di continuità con la grande opera sul mito e con il saggio sulle uscite dalla caverna. Cfr. M. Sommer, “Nachwort des Herausgebers”, in H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., pp. 901-902. 6. M. Farisco, Ancora uomo. Natura umana e postumanesimo, Vita e Pensiero, Milano 2011, p. XV.

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di reciproco scambio, le quali rendono possibili delle pratiche di coniugazione”.7 Il riferimento da cui il postumanesimo a un tempo discende e prende le distanze è dunque l’antropologia filosofica. Nello specifico, l’elemento problematico risiede nell’umanesimo implicito che questa disciplina, così ansiosa di mostrare l’unicità della specie umana rispetto al resto del Bìos, porta con sé. Per usare le parole di Peter Sloterdijk, se l’umanismo è un’“antropodicea”,8 facilmente un’antropologia rischierà di essere umanista. Il postumanesimo conduce la riflessione sull’uomo a oltrepassare e violare i confini dell’umano, attraverso un “incremento di coniugazione-contaminazione” con il non-umano, verso una forma di “antropodecentrismo”;9 in tal senso supera una riflessione filosofica che, per quanto incalzata dallo sviluppo inarrestabile delle scienze contemporanee e tesa a comprendere l’uomo al di là della dicotomia di naturale e spirituale, di res cogitans e res extensa, per recuperarne l’“unità vitale”,10 tenta pur sempre – in particolare nella formulazione gehleniana del “paradigma dell’incompletezza” – di spiegare la deviazione dell’uomo dalla natura, ossia la cultura come un dominio a sé.11 Si tratta allora di capire dove si collochi l’antropologia fenomenologica di Blumenberg lungo la linea che dalla Neue Anthropologie conduce alle più recenti teorie postumaniste. Perché ci interessa? Fondamentalmente per una ragione: che si aderisca o meno al pensiero postumanista, a questo va riconosciuto uno sforzo nuovo verso la contaminazione interdisciplinare e il confronto con le scienze della vita, che pare un presupposto ineliminabile per pensare in termini di antropologia filosofica oggi. Di conseguenza, scoprire “quanto post-human” c’è in Blumenberg è un modo per capire quanto sia attivo e vivo il suo pensiero, quanto “ci parli” ancora. 7. Ivi, p. 3. 8. P. Sloterdijk, Regeln für den Menschenpark. Ein Antwortschreiben zu Heideggers Brief über den Humanismus, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1999, p. 19. 9. R. Marchesini, Il tramonto dell’uomo. La prospettiva post-umanista, Dedalo, Bari 2009, p. 5. 10. H. Plessner, I gradi dell’organico e l’uomo. Introduzione all’antropologia filosofica (1928), trad. di U. Fadini, E. Lombardi Vallauri, Bollati Boringhieri, Torino 2006, p. 45. 11. Cfr. R. Marchesini, Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza, Bollati Boringhieri, Torino 2002, p. 12.

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“Salire sulle proprie spalle”? Simondon e la trasduttività dell’ordine del reale FABIO MINAZZI

1. Simondon: contro la misinterpretazione dell’oggetto tecnico La cultura si è costituita come un sistema di difesa contro le tecniche; oppure, questa difesa si presenta come una difesa dell’uomo, supponendo che gli oggetti non contengano, tecnicamente, una componente umana. Vorrei invece illustrare come la cultura ignori la presenza di una componente umana entro la realtà tecnica e che, per giocare un suo pieno ruolo, la cultura debba saper incorporare gli esseri tecnici entro la forma della conoscenza ed entro il mondo dei valori. La presa di coscienza dei modi di esistenza degli oggetti tecnici deve essere realizzata grazie al pensiero filosofico che, nel compiere questa impresa, deve assumere un ruolo analogo a quello che ha svolto per l’abolizione della schiavitù e per l’affermazione del pieno valore della persona.1 Così esordisce Gilbert Simondon in apertura del suo Du mode d’existence des objets techniques (1958), aggiungendo che “la contrapposizione eretta tra cultura e tecnica, tra uomo e macchina, è falsa e priva di fondamento; frutto di ignoranza o di risentimento. Infine questa contrapposizione, dietro un superficiale umanesimo, 1. G. Simondon, Du mode d’existence des objets techniques, edizione aumentata, prefazione di J. Hart, postfazione di Y. Deforme, Aubier, Paris 1989, p. 9; le citazioni che seguono nel testo, sono tratte, rispettivamente, dalle pp. 9, 9-10, 241 e 247, nella traduzione dello scrivente.

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occulta una realtà ricca di spunti umani e di forze naturali che costituiscono il mondo degli oggetti tecnici, quali elementi di mediazione tra la natura e l’uomo”. Con queste considerazioni Simondon fornisce le esatte coordinate concettuali dell’orizzonte teleonomico entro il quale svolge la sua analisi della tecnica e ci consente di comprendere il carattere rivoluzionario della sua presa di posizione critica rispetto alla tradizione. Tradizione le cui radici, nella storia concettuale di medio periodo, affondano in quella che è stata qualificata come “la catastrofe della ragione post-kantiana”.2 Secondo Simondon “la principale causa d’alienazione nel mondo contemporaneo si radica nel misconoscimento della macchina; questa alienazione non è prodotta dalla macchina, ma dalla non-conoscenza della sua natura e della sua essenza, per la mancata comprensione dei suoi diversi significati, e per la sua dimenticanza entro la tavola dei valori e dei concetti che istituiscono la cultura”. Come mai la principale causa dell’alienazione della cultura contemporanea sarebbe determinata dalla misinterpretazione dell’oggetto tecnico? Proprio perché Simondon individua nell’incapacità di saper pensare la tecnologia e gli oggetti tecnici il frutto di una disarticolazione del sapere umano e anche di una indebita torsione comunitaria3 cui è stata sottoposta la stessa razionalità umana. Dovendo tirare le fila della sua disamina critica Simondon rileva come fino a oggi, la realtà dell’oggetto tecnico è passata in secondo piano dietro a quella del lavoro umano. L’oggetto tecnico è 2. J. Petitot, Per un nuovo illuminismo. La conoscenza scientifica come valore culturale e civile (2009), prefazione, cura e trad. di F. Minazzi, Bompiani, Milano 2009, p. 186. Su quest’opera di Petitot, in cui il riferimento al pensiero di Simondon (cui è consacrato il cap. V, pp. 183-204) risulta essere sempre strategico, cfr. U. Eco, Il problema delle strutture trascendentali a priori nella riflessione neoilluminista di J. Petitot, “Il Protagora”, 15, 2011, pp. 195-200. 3. Simondon distingue tra comunità e società: la prima indica un codice di obblighi vincolanti ed estrinseci agli individui, ovvero la chiusura complessiva di un particolare organismo sociale (per dirla in termini hegeliani, l’eticità), mentre la seconda indica l’insieme dei codici dei singoli individui, costituenti la società civile (per dirla in termini kantiani, la moralità). Naturalmente nel concreto storico ogni realtà collettiva è sempre, al contempo, comunitaria e sociale, ma questi due caratteri sono sempre, intrinsecamente, antagonisti.

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stato così concepito tramite il lavoro umano, pensato e giudicato come uno strumento, che aiuta, o come un prodotto del lavoro. Al contrario, per favorire l’uomo stesso, bisognerebbe invece poter operare un ribaltamento che consenta alla componente umana presente entro l’oggetto tecnico di mostrarsi direttamente, senza più passare attraverso la mediazione del lavoro. Semmai è proprio il lavoro che deve essere compreso come una fase della tecnicità, non la tecnicità come una fase del lavoro, giacché è proprio la tecnicità che costituisce un insieme del quale il lavoro è una parte, e non viceversa. Proprio questa subordinazione dell’oggetto tecnico alla dimensione dell’organizzazione del lavoro ne stravolge la natura, trasformandolo da “oggetto tecnico” in “utensile”, ovvero in una realtà strumentale, introducendo una deformazione fondamentale che si radica su una contrapposizione “falsa e priva di fondamento”, la quale costituisce così “la causa maggiore di alienazione del mondo contemporaneo”. Reificazione frutto di una sostanziale ignoranza e/o anche di un autentico risentimento che, insieme, contribuiscono a deformare il quadro prospettico-emancipativo della modernità. Perché? Per molteplici e diverse ragioni, tutte fortemente intrecciate tra di loro. In primo luogo, perché questa sistematica riduzione dell’oggetto tecnico alla dimensione della strumentalità del lavoro ci impedisce di cogliere la sua intrinseca natura plastica, giacché “l’oggetto tecnico introduce una categoria più ampia rispetto a quella del lavoro: il funzionamento operativo”. Questa strategica dimensione dell’intelligenza funzionale, intrinseca all’oggetto tecnico e alla sua “normatività”, viene sistematicamente persa di vista dalla sua rilettura strumentale, che impedisce di comprendere l’“informazione pura” associata a ogni peculiare oggetto tecnico. Quest’ultimo, in tal modo, è sistematicamente depotenziato e ridotto a una larva di se stesso, essendo separato da quel pur affatto singolare continuum tecnologico (caratterizzato proprio dall’esistenza di soglie) cui si inserisce per sua intrinseca natura. Secondo quest’ottica alienante (e reificata) viene completamente perso di vista il valore, intrinsecamente culturale e filosofico, dell’og112


Primi passi nel Postum(i)ano ANTONIO LUCCI

1. La storicità degli a priori Nel 1941, un anno dopo aver ottenuto la cattedra di psicologia all’Università di Königsberg (la città che diede i natali e in cui trascorse tutta la sua vita Immanuel Kant), il biologo padre dell’etologia Konrad Lorenz dava alle stampe per i “Blätter für Deutsche Philosophie” un breve ma decisivo saggio, che poi sarebbe diventato parte di un testo più ampio, noto al pubblico italiano con il titolo Natura e Destino.1 Il titolo di quel saggio era: La dottrina kantiana dell’a priori e la biologia contemporanea.2 Qui Lorenz rovesciava in maniera addirittura scandalosa il concetto di a priori kantiano, facendo di esso – praticamente – un a posteriori. La tesi di Lorenz, semplice quanto tranchant, era la seguente: tutti gli a priori della coscienza, ossia le categorie percettive e psichiche, la griglia attraverso cui leggiamo la realtà, “le lenti colorate” attraverso cui guardiamo il mondo, sono frutto di processi biologico-adattivi spiegabili in termini evoluzionistici. Se questo, in prima battuta, potrebbe sembrare quasi ovvio al lettore avvertito di temi di biologia contemporanea, cionondimeno resta enorme nelle sue conseguenze filosofiche. Questa enormità deriva dalla possibilità di pensare le strutture su cui si ancorano le nostre esperienze di noi stessi, degli altri e del mondo come fluide, modificabili, instabili. Solo dei motivi naturali contingenti 1. Cfr. K. Lorenz, Natura e Destino. Il declino dell’uomo (1941), trad. di A. La Rocca, Mondadori, Milano 2010, pp. 7-392. 2. Ivi, pp. 83-112.

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hanno creato in questa maniera e non in un’altra i nostri apparati fisiologici, e questi non si possono stabilire come assunti una volta per tutte, ma “in movimento”, mutevoli e mutabili: Se l’organizzazione “a priori” dell’esperienza possibile, con le categorie e le forme dell’intuizione, non è qualcosa di immutabile, determinata da fattori estranei ai processi naturali, ma ha invece la sua origine nell’ambito della natura che essa rispecchia, in stretto rapporto di interdipendenza con i suoi principi, cambiano anche i confini della trascendenza. Molti aspetti della realtà in sé che oggi si sottraggono totalmente ai nostri meccanismi percettivi e di pensiero potrebbero, nel futuro prossimo della storia del nostro pianeta, rientrare nell’ambito dell’esperienza possibile, così come molti aspetti soggetti alla nostra esperienza potrebbero, in un passato ancora molto recente dell’umanità, aver trasceso i suoi limiti.3 Lorenz ci sta dicendo che i colori visti, i suoni uditi e persino le emozioni provate in epoche dell’umanità precedenti alla nostra potevano sottostare a categorie percettive che sono irrimediabilmente andate perdute, o inesorabilmente cambiate, e che – essendo esse strutturanti la nostra stessa esperienza – non è più neanche possibile immaginare l’orizzonte percettivo entro cui si davano quei determinati percetti, e quei vissuti. E questo sia per quanto riguarda il passato sia per ciò che concerne il futuro: potrebbero esserci uomini che non saranno più in grado di comprendere cosa significa la parola “giallo”, o la cui percezione tattile sarà totalmente differente dalla nostra, se il percorso evolutivo dei nostri a priori li condurrà a una perdita delle categorie percettive che delimitano la nostra esperienza. Vi sarebbero dunque, e con ogni probabilità vi sono stati, colori perduti, spettri sonori non più percepibili, orizzonti sensoriali scomparsi per sempre nel flusso dell’evoluzione fisiologica della specie, come lacrime nella pioggia (“like tears in the rain”, così 3. Ivi, p. 85.

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descriveva la catastrofe della propria soggettività e delle proprie esperienze che andavano a morire con lui il replicante Roy, l’epico antieroe di Blade Runner di Ridley Scott). L’argomentazione lorenziana diventa meno malinconica se letta entro coordinate rigorosamente evoluzionistiche: la prospettiva storica entro cui è possibile una modificazione fisiologica delle strutture a priori della coscienza e della percezione ha infatti i tempi della longue durée, come ha dimostrato efficacemente CavalliSforza nei suoi studi di genetica delle popolazioni.4 Non si tratta insomma della differenza tra noi e gli uomini del Rinascimento o dell’antica Roma, piuttosto di quelle che intercorrono tra gli uomini appartenenti a stadi arcaici della storia dell’evoluzione e i nostri pronipoti. Eppure quel profumo preistorico che il nostro lontano antenato paleolitico ha potuto odorare, e che ci è irrimediabilmente precluso, così come il colore che il nostro alterego futuro non riuscirà a vedere, non possono non consegnarci quell’irrimediabile senso di nostalgia che solo i passati (e i futuri) mai stati presenti sono in grado di dare. 2. “We can remember it for you wholesale”5 Bernard Stiegler, che fu allievo di Jacques Derrida, è il filosofo francese che da più anni, nel campo della fenomenologia, dell’antropologia e degli studi sui media, sta portando avanti una potente riflessione sul tema della tecnica, sui suoi rapporti con la soggettività (singolare e sociale) e sulla sua importanza nell’evoluzione dell’essere umano. La tesi di Stiegler, argomentata nella monumentale trilogia (che l’autore promette di estendere ulteriormente, avendo annunciato già la preparazione dei prossimi due volumi) dal titolo La technique et le temps,6 e in almeno altri dieci volumi minori di carattere divulgativo, è che la tecnica sia il proprium dell’umano: ciò che lo caratterizza a livello ontologico e, soprattutto, cronologico. 4. Cfr. L. Cavalli-Sforza, Geni, popoli, lingue, Adelphi, Milano 1996. 5. Cfr. P.K. Dick, “Ricordiamo per voi” (1966), in Next e altri racconti, trad. di P. Prezzavento, Fanucci, Roma 2008, pp. 57-85. 6. Cfr. B. Stiegler, La technique et le temps, 3 voll., Galilèe, Paris 1994, 1996, 2001.

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Premesse per una costituzione ibrida: la macchina, la bambina automatica e il bosco FRANCESCO MONICO

1. Due soggetti: la macchina e la badante Immaginiamo una famiglia felice che viaggia da Vicenza a San Martino di Castrozza a bordo di una futuristica Alfa Romeo ibrida dotata di un sofisticato controllo di sterzo, controllo di frenata, accelerazione e ovviamente di parcheggio autonomo, dotata di una cosiddetta intelligenza artificiale. Questo artificio ha la funzione di assistere il conducente umano, e/o di sostituirsi a esso in determinati momenti e contesti, come per esempio quelli di parcheggio ma anche di pericolo. La famiglia felice è composta da un padre, titolare di un’azienda leader nel settore della riqualificazione dei condizionatori, una moglie impiegata in una clinica di Cittadella, due ragazzi di nove e quattordici anni e uno splendido esemplare di golden retriever adulto. L’Alfa Romeo sta viaggiando sulla tangenziale di Feltre, quando all’incrocio con la strada per Primolano, un carro-gru autoarticolato, per un motivo meccanico, invade la corsia opposta proprio nel punto in cui sta sopraggiungendo la famiglia felice. La dinamica è così veloce che la risposta di orientamento del sistema nervoso primario umano non è in grado di reagire, ma la vettura è dotata del software sopracitato che in un tempo non percepibile dall’uomo, disattiva i comandi, mette la vettura in sbandata controllata, scarta ed esegue una manovra di aggiramento in frenata senza bloccare le ruote, in modo da evitare l’autoarticolato pur mantenendo aderenza e direzionalità. La famiglia è così salva grazie alla sofisticata presenza di un’intelligenza dell’artificiale nella macchina. A questo punto 144

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il padre di famiglia osserva sua moglie e i due figli, mentre il fedele cane scodinzola ignaro del pericolo corso. In quel momento, gli viene un’idea, un ringraziamento simbolico, ovvero che l’Alfa sia manutenuta in condizioni perfette per sempre, o più precisamente fino a quando il denaro della famiglia lo possa permettere. La macchina diventa destinazione delle volontà di un essere senziente, e per procura di un intero nucleo famigliare, e quindi luogo di tutela e riflessione perché destinazione di un atto intenzionale. Fin qui tutto bene. Ma cosa sarebbe successo se il tanto decantato software di intelligenza dell’artificiale non fosse riuscito a salvare la vita della famiglia felice? La moglie sopravvissuta avrebbe fatto causa all’Alfa Romeo per aver messo sul mercato un prodotto intrinsecamente pericoloso. A sua volta l’Alfa Romeo avrebbe cercato di dichiarare i software gestionali delle nuove vetture “individui”, ossia portatori di standing, 1 in modo che qualora compiano un errore, essi, e non la ditta costruttrice, siano appunto responsabili dell’errore. In questo modo, sia che il software avesse funzionato sia che no, avviene la nascita di un soggetto avente standing, in quanto soggetto al centro di una questione di diritto. Immaginiamo adesso che un’anziana agiata signora stia passando gli ultimi anni della sua lunga vita in un solitario appartamento nella città lagunare. È assistita da un robot con le fattezze di una bambina, che con comportamenti e mimiche infantili le ricorda quando è ora di prendere le pillole, le tiene compagnia, ascolta i suoi ricordi e le legge dei testi, così riempie lo spazio vuoto della solitaria casa con una serie di atteggiamenti in una dolce empatica infantilità. All’improvviso la signora passa a miglior vita, e durante la lettura del testamento i figli e i nipoti scoprono che buona parte dell’ingente patrimonio è stato lasciato al robot umanoide che si è preso cura della vecchiaia della donna. I parenti sono indignati e assoldano una serie di avvocati per invalidare le ultime volontà, le quali vengono fatte rispettare dal notaio attraverso l’utilizzo di un 1. Il concetto di standing verrà trattato nel paragrafo 3, “Il moderno, lo standing e il soggetto”.

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altrettanto valido stuolo di avvocati che iniziano a dare standing alla bambina automatica.2 Ecco due esempi per spiegare, senza bisogno di scomodare la singolarità tecnologica, come la relazione uomo-tecnica stia preparando il campo a sconvolgimenti radicali della visione che il soggetto umano ha di sé e su di sé. 2. Una forma futura Come dicono Deleuze e Guattari, non ci manca certo la comunicazione, anzi ne abbiamo troppa; ci manca la creazione: “Ci manca la resistenza al presente. […] Le democrazie sono fatte dalle maggioranze, ma un divenire è per natura ciò che si sottrae alla maggioranza”.3 L’opinione è un pensiero che si costruisce a immagine di una contemplazione, di una riflessione e di una comunicazione che è sempre “ortodossia”, vale a dire che è vera l’opinione che si sostiene quando coincide con quella del gruppo al quale si appartiene o si vuole appartenere. L’animale sociale umano ottiene il suo posto nel gruppo quando dice la stessa cosa della maggioranza, “e parla già a nome della maggioranza”.4 Ma mai come oggi, a causa dell’accelerazione tecnologica data dall’informatica, bisogna educare alla rottura delle abitudini della maggioranza, bisogna educare a “resistere all’oggettivo”. Nel nuovo millennio bisogna scrivere per gli animali, parlare con le piante, pensare diritti per la tecnologia. Ma cosa significa “per”? Non “in favore di...”, né “al posto di...”, ma “davanti a...”, e “accanto a...”. È una questione di piano d’immanenza. Oggi da un lato la “natura”, con i suoi regni e phyla, dall’altro le “macchine”, con i loro macchinismi, con le loro tecnologie e con la loro epifilogenesi

2. Non è un caso la scelta della bambina automatica perché nella filosofia (vedi il dibattito post-heideggeriano sull’animalità) l’animale e il fanciullo sono “quasi” saggi, in quanto vivono la loro serenità nell’immediatezza dell’istinto senza una mediazione compiuta del logos, mettendo così di fatto l’uomo di fronte alla responsabilità morale e intellettuale del pensiero e del suo uso corretto. 3. G. Deleuze, F. Guattari, Che cosa è la filosofia? (1991), a cura di C. Arcuri, trad. di A. De Lorenzis, Einaudi, Torino 2002, p. 102. 4. Ivi, p. 144.

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Di un sintomo e alcune appartenenze FABIO POLIDORI

L’

impressione, a lungo maturata, è quella di una certa fretta, quasi ansiosa, di precisare i contorni per finalmente andare avanti. Come se quella che si annuncia sotto il titolo di postumano fosse una sorta di meta promessa, certo non a portata di mano ma forse, dopo tanto, almeno a portata di sguardo. Da cui anche l’impressione di una certa disinvoltura nel liquidare o almeno togliere di mezzo una serie di questioni che, in virtù di innovazioni di inconcepibile portata (almeno sino a pochi anni fa), alla luce dell’oggi sembrano avere afflitto pesantemente e quasi inutilmente gli ultimi decenni o secoli di storia. L’impressione, per essere del tutto esplicito, è insomma che, attraverso le suggestive lenti di cui una parola come “postumano” ci sta dotando, potremmo ritenere che siamo in grado di lasciare moltissime questioni – relative, per esempio, a una definizione dell’umano, a un suo inquadramento in una cornice umanistica o antiumanistica, a una genealogia della sua identità, a una messa alla prova della sua consistenza (e della sua tenuta) soggettiva per via gnoseologica, epistemologica, ontologica eccetera – al loro destino. Un destino che oramai non coinciderebbe più con il nostro, almeno nei termini in cui le abbiamo conosciute. E non solo perché quelle questioni (e in quei termini) siano risolte, ma soprattutto perché risultano alquanto superate, trascinate via da un numero di eventi, sviluppi e potenziamenti, soprattutto tecnici o tecnologici, che ci incalzano in una progressione tale da costringerci a riconsiderare radicalmente l’essenza e 164

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la struttura stessa della dimensione umana. Valga per tutti l’esempio di un prolungamento in linea di principio indefinito della durata della vita. Al di là della banale ma per ora inoppugnabile constatazione che – almeno per una sospensione illimitata del fine vita – si sta parlando di un futuro non ancora raggiunto, e che quindi sarà magari il caso di continuare ad attrezzarsi per un presente che potrebbe prolungarsi per più di qualche generazione, prima di consentirci di salpare definitivamente le ancore verso il nostro “oltre”, un aspetto sul quale vorrei anzitutto soffermarmi è quello della rapidità: non quella del susseguirsi degli eventi, ma quella del nostro precipitarci a collocarli in un futuro dato quasi per scontato, in un “oltre”, in un “post”. Una rapidità da cui trapela la fretta che la sostiene e che, oltre a portare con sé il rischio di una certa sbrigatività nel considerare chiuse o in fase di chiusura certe partite (quella relativa alla comprensione di tutto il portato storico, culturale e concettuale di ciò che va ancora sotto il titolo dell’“umano”, per dirne una), manifesta anche una certa ansia di liberazione proprio da quelle medesime partite, come se per un verso continuassero a riguardarci ma per l’altro ci venisse ora offerta l’occasione di tirarcene fuori. Sintomo Questa fretta potrebbe essere letta come un sintomo? Forse sì; il sintomo in virtù del quale leggere come la ghiotta occasione di far scomparire qualcosa di fastidioso non escluda di esporsi, in un secondo momento, a uno scontato e prevedibile ritorno del rimosso. In fondo, il diffusissimo impiego del prefisso “post” – che da solo e come prefisso non significa niente di concreto e che per funzionare ha bisogno di tirarsi dietro, letteralmente, tutto ciò di cui vorrebbe disfarsi – fornisce una immagine abbastanza convincente di quello che non riterrei tanto una mancanza di fantasia o uno scarso impegno a livello di marketing psicoculturale, quanto piuttosto una insofferenza, addirittura un’ansia nei confronti di ciò che avvertiamo, magari inconsapevolmente, come un assillo anche per il futuro. Come se, in altri termini, la posizione di una nuova linea di demar165


cazione, di una inedita soglia oltre la quale staremmo per saltare, riuscisse immediatamente a liberarci dai vincoli di tutte quelle altre soglie e differenze a partire dalle quali si è articolata la riflessione sull’“identità” dell’umano e dell’uomo, quanto meno a partire dal momento a vario titolo inaugurale della modernità. Valga a questo proposito quel passaggio, forse non ancora del tutto meditato, che ha visto alla nascita della cosiddetta età moderna il profilarsi della inedita centralità di una creatura, sino ad allora soltanto periferica rispetto alla schiacciante imponenza del divino, la quale dovette incominciare a preoccuparsi di salvaguardare e addirittura fondare il proprio tratto specifico, di costruire e definire il proprio profilo essenziale introducendo sempre più numerose distinzioni (e altrettante esclusioni) tra sé e, per così dire, il resto dell’ente. Come se si fosse dovuto procedere a una nuova mappatura della intera realtà a partire da un nuovo centro, con nuove coordinate, tramite nuovi assi e alla luce di inediti assetti. Si potrebbe, tra l’altro, osservare che quel passaggio non fu identificato, storicamente o storiograficamente, tramite alcun prefisso. Quest’ultima osservazione, ancorché sommessa, potrebbe risultare magari pretestuosa e agganciata a un elemento probabilmente non decisivo; ma non è forse del tutto inutile – se vogliamo seguire ancora per un poco una lettura sintomale – a far risaltare come quel cambiamento di portata epocale non annoverasse, tra i propri affanni e le proprie preoccupazioni, la formulazione di una decisa presa di distanza dalla sua provenienza. Forse non tanto per mancanza di senso storico – attitudine che proprio allora incominciava ad assumere una qualche fisionomia – quanto invece, più probabilmente, perché quel passaggio non fu poi così tanto atteso, sperato, desiderato e invocato; si potrebbe dire che, in certa misura, venne quasi da sé, in maniera sorprendente e facendosi riconoscere, poco a poco, con calma e solo parecchio tempo dopo. Da nessuna ricostruzione storiografica, relativa all’inizio della cosiddetta modernità e applicata a qualsivoglia ambito, risulterebbe insomma qualcosa di assimilabile alla odierna ricerca volta a prendere e definire le distanze dal proprio presente e a dare già in qualche modo per scontata la propria collocazione 166


Vicino/lontano

Presentiamo qui la conversazione tra Raffaele Simone e Stefano Moriggi, coordinata da Marco Pacini, avvenuta a Udine il 12 maggio 2013 nell’ambito degli incontri di “Vicino/lontano”.


Il sapere nella rete STEFANO MORIGGI RAFFAELE SIMONE

Marco Pacini. Il tema di questo incontro riguarda un problema centrale per il nostro presente e il nostro futuro, vale a dire il cambiamento radicale delle modalità di accesso alla conoscenza. È un cambiamento che riguarda tutti noi, ma che interesserà in particolare i nostri figli e nipoti, i quali accederanno direttamente al sapere in una forma nuova, senza avere alle spalle un percorso sequenziale e tradizionale di rapporto col testo e col sapere, a cui noi invece siamo abituati. Per quanto i nostri due ospiti abbiano posizioni abbastanza diverse a riguardo, non vorrei impostare questo dibattito come una contrapposizione manichea che viene giornalisticamente sintetizzata tra web-entusiasti e web-apocalittici. Inizierò leggendo un passo da un libro di Michel Serres uscito da poco per Bollati Boringhieri, intitolato Non è un mondo per vecchi. Il testo qui pubblicato è la trascrizione di una conversazione pubblica tra Stefano Moriggi e Raffaele Simone. Abbiamo preferito ridurre gli interventi editoriali al minimo per conservarne il carattere orale. Stefano Moriggi, storico e filosofo della scienza, si occupa di teorie e modelli della razionalità e di filosofia della tecnologia. Già consulente scientifico in Rai, attualmente svolge attività di ricerca presso l’Università di Milano Bicocca e da alcuni anni è uno dei volti della trasmissione di divulgazione scientifica E se domani. Quando l’uomo immagina il futuro, su Rai 3. Tra le sue pubblicazioni: Perché la tecnologia ci rende umani (con G. Nicoletti, Sironi, Milano 2009) e Connessi. Beati coloro che sapranno pensare con le macchine (Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2014). Raffaele Simone è uno dei maggiori studiosi europei di linguistica e filosofia del linguaggio. Professore di linguistica a Roma Tre, svolge un’intensa attività come saggista politico-culturale. Ha progettato e diretto importanti opere lessicografiche e di consultazione per la Treccani. Innumerevoli le edizioni del suo Fondamenti di linguistica (Laterza, Roma-Bari 1990). Marco Pacini è l’ideatore delle giornate di “Vicino/lontano” e lavora come giornalista presso “Il Piccolo” di Trieste.

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Perché i ragazzi rivoluzionano il sapere, perché è un libro scritto in maniera molto suggestiva e visionaria, che offre degli spunti piuttosto stimolanti. Scrive Serres: “La testa intelligente fuoriesce dalla testa ossuta e neurale. Tra le mani, la scatola-computer contiene e fa funzionare, infatti, ciò che un tempo chiamavamo le nostre ‘facoltà’: una memoria mille volte più potente della nostra; un’immaginazione ricca di milioni di icone; anche una ragione, dal momento che i computer possono risolvere cento problemi che non avremmo risolto da soli. La nostra testa è gettata davanti a noi, in questa scatola cognitiva oggettivata. Dopo la decollazione, cosa ci resta sulle spalle? L’intuizione innovatrice e vivace. Caduto nella scatola, l’apprendimento ci lascia la gioia incandescente di inventare. Fuoco: siamo condannati a diventare intelligenti?”.1 La tesi di Serres, il quale è molto entusiasta rispetto a quel che ci aspetta, a me pare invece un po’ inquietante: sostanzialmente dice che la mutazione antropologica prodotta dalle nuove tecnologie è tale per cui noi saremo decapitati, ci sarà un processo di esternalizzazione del nostro cervello, tutto il deposito di memoria e di sapere sarà lì, a disposizione, mentre noi saremo qualcos’altro. Vorrei allora partire da questo nodo, su cui di solito concordano coloro che prima, banalizzando, abbiamo chiamato web-apocalittici e web-entusiasti: siamo davvero di fronte a una mutazione antropologica e addirittura neuronale, come molti autori dicono? E che cosa comporta tutto ciò? Proviamo a immaginare che questo incontro avvenga tra più di un secolo: quale tipo di sintassi e di argomentazione useremo? Da quale scatola tireremo fuori il sapere e come lo useremo? Se la mutazione antropologica è in corso e le forme di pensiero tecnoindotte cambieranno definitivamente il cervello di homo sapiens, che tipo di discussione ne risulterà? Quello che stiamo vivendo è un passaggio così radicale, al punto da essere paragonabile al passaggio avvenuto tra oralità e scrittura – pensiamo al Fedro di Platone –, o persino più significativo e potente? 1. M. Serres, Non è un mondo per vecchi. Perché i ragazzi rivoluzionano il sapere (2012), trad. di G. Polizzi, Bollati Boringhieri, Torino 2013, p. 24.

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Raffaele Simone. Una quindicina d’anni fa ho scritto un libro intitolato La Terza Fase,2 titolo che allude al fatto che il passaggio dalla cultura tipografica a quella digitale rappresenta una fase fondamentale della storia del conoscere, le altre due fasi essendo costituite dall’invenzione della scrittura e da quella della stampa. Sono convinto che la cultura digitale, quella che in un libro più recente ho chiamato mediasfera,3 rappresenti per le giovani generazioni un cambiamento cruciale dei quadri del conoscere, dell’imparare, del ricordare, del trasmettere. Naturalmente i cambiamenti, in quanto tali, devono essere valutati nei loro costi e nei loro benefici. Per il momento gli atteggiamenti nei confronti della mediasfera sono abbastanza drasticamente ripartiti: da un lato, esiste un mito positivo della cultura digitale che si è diffuso in tutto il mondo, non soltanto per ragioni economiche, ma anche perché dinanzi a un trionfo tecnologico così indiscutibile la mente si adatta; dall’altro lato stanno invece gli apocalittici. Ci sono anche partiti minori, come quello dei continuisti tranquilli, al quale appartiene un filosofo che ha i suoi maggiori successi sulle pagine delle gazzette, secondo cui non c’è niente di nuovo sotto il sole: come prima prendevamo appunti con la matita e il notes, ora li prendiamo con l’iPad, solo che è un po’ più comodo! Io, per la verità, non appartengo a nessuno di questi partiti, men che meno all’ultimo, che considero quasi collaborazionista: vorrei ascrivermi piuttosto al partito degli OP, osservatori preoccupati, quelli che davanti a un fenomeno così importante si domandano quale ne sia il segno, quali ne siano i rischi e i vantaggi e come si possa esaltare la dimensione del vantaggio rispetto a quella del rischio. In questo sono ovviamente facilitato dal fatto di appartenere a una generazione che è nata nel tardo Medioevo e morirà nella Postmodernità – da più punti di vista, non soltanto da quello tecnologico. La mia opinione è che, dato per scontato che la cultura digitale ha ormai vinto e continuerà a trionfare, il mito positivo che se ne ha debba essere sfumato, soprattutto per 2. R. Simone, La Terza Fase. Forme di sapere che stiamo perdendo, Laterza, Roma-Bari 2000. 3. Cfr. Id., Presi nella rete. La mente ai tempi del web, Garzanti, Milano 2012.

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