362 aprile giugno 2014
Dire il vero su se stessi. Cantiere foucaultiano MATERIALI 1
Alessandro Fontana Una educazione intellettuale Pier Aldo Rovatti Dimmi chi sei. Foucault e il dilemma della veridizione Massimiliano Nicoli, Luca Paltrinieri Il management di sé e degli altri Mauro Bertani La fine di un mondo? Foucault e la veridizione cristiana Philippe Chevallier Michel Foucault e il “sé” cristiano Laura Cremonesi, Arnold I. Davidson, Orazio Irrera, Daniele Lorenzini, Martina Tazzioli Da dove viene il sé? La forza del dir-vero e l’origine dell’ermeneutica del sé Tiziano Possamai La pratica filosofica di Michel Foucault
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PALESTRA Roberto Bertolini Disobbedire alla verità. A proposito del corso Del governo dei viventi Eugenio Giacomelli Niente verità senza alterità. Una nota sull’ultimo corso di Foucault Alessandro Melosso Frammenti di un gesto filosofico
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MATERIALI 2 Robert Castel L’insicurezza sociale. Rischi e protezioni nella crisi della modernità organizzata
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POST Alessandro Dal Lago Dopo la democrazia globale niente? A proposito di legittimità 193
rivista fondata da Enzo Paci nel 1951 direttore responsabile: Pier Aldo Rovatti redazione: Sergia Adamo, Paulo Barone, Graziella Berto, Deborah Borca (editing, deborah.borca@gmail.com), Damiano Cantone, Mario Colucci, Alessandro Dal Lago, Pierangelo Di Vittorio, Giovanna Gallio, Edoardo Greblo, Raoul Kirchmayr, Giovanni Leghissa, Massimiliano Nicoli, Ilaria Papandrea, Fabio Polidori, Rosella Prezzo, Pier Aldo Rovatti, Massimiliano Roveretto, Antonello Sciacchitano, Giovanni Scibilia, Davide Zoletto direzione: c/o il Saggiatore, via Melzo 9, 20129 Milano sito web: autaut.ilsaggiatore.com collaborano tra gli altri ad “aut aut”: G. Agamben, H.-D. Bahr, R. Bodei, L. Boella, S. Borutti, J. Butler, M. Cacciari, A. Cavarero, R. De Biasi, G. Dorfles, M. Ferraris, U. Galimberti, P. Gambazzi, S. Givone, A. Heller, F. Jullien, J.-L. Nancy, A. Prete, M. Serres, G.C. Spivak, G. Vattimo, M. Vegetti, P. Veyne, V. Vitiello, S. Žižek per proposte di pubblicazione: autaut@ilsaggiatore.com Si fa presente che “aut aut” non pubblica recensioni e non accetta testi di ampiezza superiore a 40.000 battute (note e spazi compresi).
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Materiali 1
A
lessandro Fontana è scomparso nel febbraio del 2013. Ci è parso fosse un omaggio doveroso alla sua memoria e al suo lavoro – e tanto più necessario se commisurato al silenzio della cultura italiana su di lui all’indomani della sua morte – pubblicare alcune sue pagine inedite dedicate soprattutto alla ricostruzione, in forma di autobiografia intellettuale, della sua lunga collaborazione con Michel Foucault, iniziata in un’epoca in cui farlo poteva ancora comportare un prezzo da pagare, a cominciare da una certa solitudine e marginalità istituzionale. A partire dalla fine degli anni settanta, Fontana è stato anche una presenza significativa su “aut aut”, collaborando in particolare ai numeri dedicati, direttamente o indirettamente, a Foucault (ricordiamo il n. 167-168 del 1978, su “potere/sapere”; il n. 195-196 del 1983, consacrato a “il governo di sé e degli altri”; il n. 205 del 1985; il n. 216 del 1986; o più di recente il n. 323 del 2004, dedicato a “Michel Foucault e il potere psichiatrico”). Alcuni di questi contributi sono stati in seguito ripubblicati nella raccolta Il vizio occulto, uscita nel 1989 (Transeuropa, Ancona), che rappresenta uno degli esempi più originali di lavoro “con” e “a partire da” Michel Foucault. Dal 1969, con la traduzione e introduzione della Nascita della clinica, Fontana era stato uno dei suoi più profondi e acuti lettori: a lui generazioni di studiosi e ricercatori italiani debbono di avere cominciato a leggere Foucault a loro volta in modo nuovo e finalmente affrancato dalla stanca ripetizione di alcuni 3
luoghi comuni e di alcune banalità interpretative che fino ad allora ne avevano accompagnato la circolazione in Italia. A Fontana si dovrà in particolare la predisposizione di un testo, Microfisica del potere, uscito nel 1977 per Einaudi, che, oltre a costituire un vero e proprio modello editoriale che verrà replicato un po’ ovunque nel mondo, sarà all’origine di un modo nuovo di leggere e intendere il lavoro di Michel Foucault (e nuovo forse persino per lo stesso Foucault, a cui venivano così rivelati usi e applicazioni politiche possibili delle sue analisi e dei suoi strumenti in contesti e congiunture a lui sconosciuti): un testo destinato a intersecare alcuni dei movimenti e dei processi politici più rilevanti dell’epoca. Il lavoro di Fontana sul corpus foucaultiano – che ha inoltre contribuito a prolungare e a far esistere già all’indomani della morte dello stesso Foucault (in un tempo in cui sembrava ormai diventato un “cane morto” per quell’accademia che oggi gli riserva tutti gli onori), dirigendo l’impresa di edizione dei suoi corsi al Collège de France – non appartiene infatti né al genere del commentario né a quello dell’esegesi del suo pensiero. È piuttosto applicazione, prolungamento, “lavoro effettivo” di messa alla prova di alcune delle ipotesi elaborate nel quadro del “Séminaire” ristretto al Collège e poi nelle lezioni pubbliche, il tutto fatto reagire a contatto con un autonomo e originale lavoro di ricerca e di insegnamento presso l’École normale supérieure di Fontenay-Saint Cloud prima, e poi di Lione. Il testo che qui presentiamo è costituito dai capitoli centrali del Rapport redatto da Fontana nel 1993 in vista dell’ottenimento dell’abilitazione a dirigere tesi di dottorato nell’università francese. Oltre a essere una presentazione davanti a una commissione dei lavori già svolti e pubblicati, questa habilitation consiste in un’autobiografia intellettuale, nella quale il candidato spiega i propri orientamenti di ricerca ed evoca il percorso intellettuale compiuto e quello in atto. Fontana aveva colto questa occasione accademica per fare qualcosa di più: il ritratto di una generazione, la sua, che nel corso degli anni sessanta, in un momento in cui le barriere tradizionali tra le discipline andavano erodendosi, aveva dovuto costruire i propri percorsi individuali fuori dalle vecchie scuole, 4
sotto la guida di nuovi “maestri”, tra cui ovviamente Foucault, che assomigliavano poco ai tradizionali professori di una volta. Il Rapport verrà prossimamente pubblicato, insieme alla totalità dei testi che Fontana ha consacrato a Foucault (e a Deleuze e Guattari, di cui aveva tradotto e introdotto l’Anti-Edipo nel 1975), in una raccolta che sarà edita da La Casa Usher (Firenze) con il titolo Una educazione intellettuale. Saggi su di sé, su Foucault e su altro. La nostra speranza è che possa in tal modo essere riconosciuta la funzione di vero e proprio “intercessore” da lui svolta: tra un paese e un altro, tra una cultura e un’altra, tra una lingua e un’altra, tra un campo di sapere e un altro, tra un sistema filosofico e un altro, tra la filosofia e ciò che è altro dalla filosofia. E all’altezza a cui lui aveva saputo collocarla. [M.B., P.A.R.]
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Una educazione intellettuale ALESSANDRO FONTANA
L’avvicinamento alla storia Per ogni Lucien de Rubempré fermo al bordo di una strada, c’è sempre un Vautrin pronto a soccorrerlo. L’arrivo nella capitale infatti non mi strappò la celebre esclamazione dei “due normalisti di genio”, Sartre e Nizan, dall’alto di Montmartre: “Eh eh, Rastignac”, ma mi pose piuttosto la questione: “E ora, come venirne fuori?”. Il mio Vautrin fu Ruggiero Romano, l’allievo di Braudel, lo storico dell’economia, che conobbi nel 1964 alla Cité universitaire, dove dirigeva la Maison d’Italie. L’ambiente cosmopolita della Cité, se posso dirlo in una parola, i facili incontri, i numerosi contatti, finirono di guarirmi da quel resto di “provincialismo” che ancora mi trascinavo appresso dai miei anni italiani. Vi feci inoltre l’apprendistato di una militanza attiva nelle azioni di sostegno al Vietnam, insieme con i compagni di rue d’Ulm che si erano raccolti attorno ad Althusser e che pubblicavano i “Cahiers pour l’analyse”. A queste attività più nobili si affiancava quella, più modesta ma più vicina, della riforma dei regolamenti un poco superati che disciplinavano ancora le varie Maisons. Eravamo immersi in un clima febbrile di scambi, di dibattiti, di riunioni. Andavamo per tutto il giorno da una Maison all’altra, per cercare delle alleanze e diffondere i volantini redatti nella notte contro i “nemici” del momento. Ci curavamo poco degli studi e frequentavamo i seminari alla moda, soprattutto quelli di Lacan e di Althusser. Il primo aveva da poco pubblicato la raccolta dei suoi Scritti, il secondo le sue analisi su Marx in Leggere il Capitale. Questi due libri furono l’oggetto di tutte le aut aut, 362, 2014, 7-34
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nostre discussioni e rappresentarono per me, e per molti di noi, una ventata d’aria fresca, che ci liberava dall’atmosfera un poco angusta delle opere di Lévi-Strauss. Lo spirito di amicizia e di solidarietà, che ci univa alla Cité, fu per me l’esperienza di un lavoro comune verso il quale non ho cessato di nutrire un sentimento più forte della nostalgia, e che più tardi ho ritrovato nel seminario di François Furet, in quello di Michel Foucault, in quello di Adelin Fiorato e in quello che io stesso animo alla Scuola normale con Jean-Claude Zancarini. Devo aggiungere che a quell’epoca, nel 1964, portai alla redazione della rivista “Les Temps Modernes” un lungo articolo dal titolo ambizioso, Esperienza, manipolazione e discorso. Fu accettato e subito tradotto. Alla fine, Simone de Beauvoir ne bloccò la pubblicazione, per ragioni che ignoro. Fu una delusione dalla quale impiegai molto tempo per riprendermi. Queste attività “politiche” e questo clima di contestazione interna non piacevano affatto a Ruggiero Romano, tutt’altro; egli condivideva con Carlo Diano, se non le idee politiche, almeno un carattere che l’antica medicina degli umori avrebbe definito “atrabiliare”. Sembrava infatti aver trascorso la vita impiegando tutto il suo genio nel battibecco, e solo il suo talento, che pure era grande, nei suoi libri. Ci era riuscito, e praticava, come pochi sanno fare, ciò che il pittore Whistler ha definito, in un piccolo libro, “the gentle art of making enemies”. Dopo aver letto la mia tesi (che avrebbe voluto pubblicare, se avessi acconsentito ad apportarvi delle modifiche), decise che ero troppo “filosofo” e che bisognava dunque, per usare le sue stesse parole, “spezzarmi le reni”. Mi indirizzò dunque da due storici dell’École des hautes études, François Furet, l’astro nascente, che aveva appena pubblicato, con Denis Richet, un libro sulla Rivoluzione francese, e Alphonse Dupront, l’autore di una tesi monumentale sull’idea di crociata, che non cessava di proseguire, da anni, le sue inchieste sui pellegrinaggi in Francia. Rappresentavano la vecchia e la nuova scuola. Dupront, le cui movenze assomigliavano a quelle di un grande prelato romano (si sussurrava che avesse dei contatti in Vaticano), era circondato da una cerchia di devoti, di curati e di zitelle che frugavano instancabilmente gli archivi dipartimentali degli antichi “baliaggi” per l’inchiesta sulle 8
devozioni popolari delle quali voleva, come l’abate Jean Rousselot aveva fatto per i patois, tracciare la mappa. Attorno a Furet, invece, si riuniva un gruppo di giovani storici destinati a un brillante avvenire: Le Roy Ladurie, che voleva delineare un’“antropologia” della Francia dell’Ancien régime, Daniel Roche che si occupava delle Accademie di provincia, André Burguière che si era lanciato nella “demografia storica”, Mona Ozouf che preparava un libro sulle feste rivoluzionarie, e molti altri. A quell’epoca, probabilmente a causa dell’influenza dello strutturalismo, molti storici cercavano di “riciclarsi”, e flirtavano volentieri con i nuovi metodi. Furet e Dupront avevano pertanto intrapreso dei lavori che chiamavano di “semantica storica”, dedicati soprattutto all’analisi dei cahiers de doléances del 1789. Il progetto di Dupront era più modesto, ma più concreto: si trattava di stilare una sorta di indice analitico dei grandi temi e delle occorrenze più frequenti dei cahiers (l’inventario, insomma, di parole come “re”, “nazione”, “nobiltà” ecc., all’interno del loro contesto discorsivo). Le intenzioni di Furet erano invece più ambiziose. Sapendo che mi interessavo di linguistica, cominciò col propormi di tenere, per un anno, un seminario all’École, proposta che accettai con una leggerezza che, oggi, mi fa un po’ rabbrividire. Fui ascoltato con cortesia, non senza una punta d’ironia condiscendente. Oltre a quello dei cahiers, vi era poi un altro progetto allo studio. Ci si chiedeva, infatti, come si potesse “sfruttare” il catalogo dei titoli della libreria francese nel XVIII secolo, quello che Bernard Quemada aveva costituito, con procedimento meccanografico, nel Centro studi del vocabolario francese di Besançon. Sostenuto e incoraggiato da Julien Greimas, col quale avevo discusso del progetto, proposi dunque un tentativo di applicare i metodi della disciplina che gli antropologi americani chiamavano “etnoscienza”. Sono stato il primo a parlarne in Francia. Si trattava, in sostanza, di studiare dei campi semantici strutturati, come quello dei colori, o dei termini di parentela; ci si poneva la questione di sapere se era possibile tentarne un’applicazione al “corpus” dei titoli. Il primo risultato di questo lavoro fu un articolo che Jean Sumpf mi aveva chiesto per un numero della rivista “Langages”, dedicato alla “sociolinguistica”, e che apparve nel 1968 con il titolo: Histoire 9
Dimmi chi sei. Foucault e il dilemma della veridizione PIER ALDO ROVATTI
1. Caratterizzazione del problema La “veridizione” – come ce la propone Michel Foucault soprattutto in alcuni lavori del 1980-1981, e segnatamente nelle lezioni parigine sul governo dei viventi e nei seminari di Lovanio dedicati proprio ai modi di dire il vero1 – è un insieme articolato di questioni storiche e teoriche che attraversano molti ambiti, dalla psichiatria alle pratiche della giustizia penale, e che fanno centro sullo sviluppo della confessione religiosa, a partire dal primo cristianesimo fino alle istituzioni del dopo-Riforma. Foucault rielabora nel grandioso laboratorio di ricerca degli ultimi anni tutte queste questioni dopo aver lanciato, nelle pagine della Volontà di sapere del 1976, il pesante sasso della sessualità, un sasso che agitò parecchio le acque della cosiddetta cultura della liberazione di allora. Non mi soffermo sulla questione, abbastanza conosciuta anche se non sufficientemente chiarita: ricordo solo che essa gettò un ponte tra l’obbligo confessionale di dire la verità su se stessi e l’epoca della psicoanalisi, interpretando la “rivoluzione” freudiana in un senso completamente inabituale, cioè come elaborazione dell’eredità della prescrizione (che risale fino agli antichi, come preciserà Foucault stesso) di scandagliare in profondità il proprio animo e di esplicitare questo esercizio in una forma di discorso che assumesse il carattere di racconto veridico di ogni singola soggettività. 1. Cfr. M. Foucault, Del governo dei viventi. Corso al Collège de France, 1979-1980 (2012), trad. di D. Borca e P.A. Rovatti, Feltrinelli, Milano 2014; Id., Mal fare, dir vero. Funzione della confessione nella giustizia. Corso di Lovanio, 1981 (2012), trad. di V. Zini, Einaudi, Torino 2013.
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Con Freud il dire la verità su se stessi diventerebbe decisamente centrale, caratterizzandosi come il racconto della sessualità individuale di ciascuno, una narrazione libera e insieme guidata dall’analista (in cui rivive la figura tradizionale del direttore di coscienza), dotata di una carica antirepressiva e dunque liberatoria. La genealogia foucaultiana metteva in dubbio tale carica liberatoria, e non c’è davvero da stupirsi che abbia prodotto tante reazioni. Dunque la veridizione apre una quantità di domande. Se però leggiamo i materiali di Lovanio, ora disponibili, a partire dalla lucidissima conferenza inaugurale del 2 aprile 1981 e senza trascurare le significative interviste che Foucault rilasciò in quelle settimane, non può sfuggirci che le varie questioni tendono a concentrarsi su un fuoco problematico che riguarda il recente passato ma che ha a che fare soprattutto con la nostra attualità. È un problema irrisolto e che Foucault sembra ritenere non risolvibile. È anche una questione rilanciata al discorso penale (e quindi alle orecchie interessate che stanno ascoltandolo): consiste in una sorta di contraddizione, in uno stallo aporetico in cui va a cacciarsi la giustizia quando esige che la confessione dell’accusato di un grave crimine non possa limitarsi alla descrizione di ciò che ha fatto, cioè all’ammissione precisa ed esauriente della colpa di cui è accusato, ma debba raddoppiarsi in un’ulteriore confessione relativa alla natura criminale che egli impersona. Non è più sufficiente che l’accusato dichiari: “Ecco quello che ho fatto”. Deve anche dire la verità su se stesso, confessare – attraverso la sua esperienza – “chi è” un criminale, chi è lui in quanto criminale. È come se la volontà di sapere si trasformasse in una “necessità” di sapere. La società attuale ha bisogno di sapere dalla bocca del reo confesso che cosa è un crimine, perché lo si commette, e soprattutto quale è l’identità, la “vera” identità di un criminale. Il discorso penale ammette di non saperlo (e dunque di non sapere, per esempio, che cosa è un individuo “socialmente pericoloso”) e chiede a chi è supposto saperlo di produrre questa verità mancante. Quello che normalmente accade è che tale richiesta non ottenga alcuna risposta, ed ecco lo scacco. Il silenzio del criminale può avere molteplici motivazioni di ordine soggettivo: non vuole o non 36
riesce a dirne nulla, non lo sa neppure lui. Ma l’assenza di questo raddoppiamento della confessione vanifica il tentativo del potere giudiziario di far emergere il discorso di veridizione, senza di cui la verità appare inesorabilmente monca, o meglio: insignificante. Prima di discutere alcune importanti implicazioni di pensiero contenute nello scenario che ho appena evocato, è bene indicarne la contestualizzazione puntuale nelle pagine di Foucault. Quello che ho chiamato il problema emerge in modo documentato soprattutto nell’ultima delle lezioni di Lovanio, quella del 30 maggio 1981, dove la cornice – storicamente – si sposta dalla responsabilità individuale al rischio sociale. Il giudice chiede al pregiudicato “che individuo sei?” nel quadro di un’antropologia criminale imposta dalle esigenze dell’igiene pubblica, quando verso la metà dell’Ottocento – dice Foucault – l’attenzione si sposta dai “grandi crimini” alla sorveglianza complessiva dello spazio urbano e al tentativo di controllare i conflitti sociali. I fenomeni di “degenerescenza” vengono allora studiati attraverso nuove categorie differenziali (come l’esibizionismo, la cleptomania, il sadismo ecc.) e nella prospettiva di una molteplicità di pericoli virtuali ai danni del “corpo” collettivo. Insomma, questo interesse per le caratteristiche individuali, sia del folle sia del delinquente, questa indagine rivolta sempre di più ai “segreti” nascosti del soggetto impone una sovversione dell’idea tradizionale di confessione, una diversa “ermeneutica del soggetto” e quindi una diversa “tecnica” di decifrazione: da atto semplicemente imputabile, il crimine diventa un atto significativo per la profilassi e la cura di un corpo sociale potenzialmente malato. Non c’è bisogno di evidenziare, tanto è manifesta, la continuità che di qui porta alla scena del nostro presente, nel quale, ormai, la cultura è esplicitamente terapeutica e la parola “medicalizzazione” si disloca dalla medicina in senso stretto alla società nel suo paradigma complessivo, omnes et singulatim, come aveva preconizzato Foucault nella sua diagnosi del neoliberalismo. Una significazione che da allora viene accanitamente perseguita (si pensi solo allo sviluppo imponente delle scienze del cervello), ma che, quando poi viene messa alla prova, genera oscillazioni, contraddizioni e paradossi. Foucault adopera una serie di termini (“scheggia”, “pia37
Il management di sé e degli altri MASSIMILIANO NICOLI LUCA PALTRINIERI
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economista premio Nobel Herbert Simon era solito ironizzare sul mito dell’economia di mercato attraverso un esperimento mentale: se un extraterrestre sorvolasse la terra e fosse dotato della capacità di vedere i mercati colorati di rosso e le imprese colorate di verde, vedrebbe delle immense distese di verde e delle piccole macchie rosse. Soffermiamoci su questa considerazione: se da una parte il pensiero neoliberale celebra il mercato come la perfetta incarnazione del laissez-faire e dall’altra i suoi critici ne sottolineano gli aspetti alienanti per cui tutto, comprese le nostre vite, può essere messo in vendita, entrambi sostengono che le società neocapitaliste sono caratterizzate dal trionfo del mercato. Eppure è innegabile che la maggior parte degli esseri umani in Europa e in tutti i cosiddetti paesi avanzati passa la maggior parte della propria vita all’interno di un’organizzazione molto particolare: l’azienda capitalista. Uno degli aspetti peculiari dell’organizzazione aziendale è proprio il fatto che la produzione sembra qui sfuggire ai dogmi del libero mercato per fare posto a un modello gerarchico e disciplinare che lascia ben poco spazio alla “libertà” dei singoli.1 A un primo sguardo, lo stesso dell’extraterrestre di Simon, la promessa di libertà del liberalismo politico moderno sembra essere 1. Su questo punto si veda per esempio D. Courpasson, L’action contrainte. Organisations liberales et domination, PUF, Paris 2000, passim; P.-Y. Gomez, H. Korine, L’entreprise dans la démocratie. Une théorie politique du gouvernement des entreprises, De Boeck, Bruxelles 2009.
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in contraddizione non solo con l’organizzazione taylorfordista del lavoro ma anche con le sue successive trasformazioni, che tolgono con una mano la libertà che sembrano concedere con l’altra. Così, per esempio, è stato notato a più riprese che il bisogno di empowerment, o il bisogno di accrescere la responsabilità dei dipendenti espresso dalle organizzazioni postfordiste, si accompagna a un’ipertrofia dei meccanismi di controllo che sembra paradossalmente incidere in maniera negativa sui reali margini di azione degli individui. In questo senso, il profilo del lavoro dipendente sembra essere sempre più caratterizzato da una forma di responsabilità senza autonomia. La letteratura critica del “managerialismo”, in particolare quella che si è sviluppata intorno alla storia della contabilità, ha insistito su questa contraddizione, mostrando come l’individuo disciplinato nell’ambito del lavoro rappresenti il lato oscuro del libero agente che scambia le sue merci sul mercato.2 Il problema di tali letture, che certo dipingono degli stati di fatto, è che spesso presuppongono la coincidenza tra stato di natura e libertà degli individui, libertà che sarebbe in un secondo tempo limitata sulla base degli imperativi organizzativi, come se i meccanismi di controllo della produzione “soffocassero” il naturale anelito creativo di ciascuno, limitandone la spontanea iniziativa, frustrandone lo spirito d’impresa e di innovazione. In questo modo si rimprovera al moderno management ciò che si rinfacciava al vecchio taylorismo: il fatto di non prendere abbastanza sul serio le potenzialità creative delle “risorse umane”. Ma soprattutto, contrapponendo la libertà dell’individuo ai fini alienanti dell’impresa, si perde di vista il fatto che l’integrazione dell’azione dei singoli ai fini dell’organizzazione aziendale si è fatta e si fa principalmente attraverso la generalizzazione e l’estensione del modello dell’impresa agli individui stessi.3 2. Cfr. tra i numerosi articoli in questo senso, P. Miller, Accounting and the Construction of the Governable Person, “Accounting, Organization and Society”, 3, 1987, pp. 235-266; È. Chiapello, Accounting and the Birth of the Notion of Capitalism, “Critical Perspectives on Accounting”, 3, 2007, pp. 263-296; P. Labardin, M. Nikitin, Accounting and the Words to Tell It, “Accounting Business and Financial History”, 2, 2009, pp. 149-166. 3. Cfr. M. Nicoli, Io sono un’impresa. Biopolitica e capitale umano, “aut aut”, 356, 2012, pp. 85-99.
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L’individuo-impresa Diventare “imprenditori di sé”: questo slogan riassume la tecnologia principale attraverso la quale il management, dagli anni novanta a oggi, ha cercato di migliorare le performance dei singoli. Non a caso, il tema dell’“imprenditore di se stesso” ricorre come un mantra nella letteratura non solo manageriale dalla fine degli anni ottanta ai nostri giorni. Se da una parte le imprese hanno sollecitato dei programmi di formazione e di sviluppo personale all’insegna dell’autoimprenditorialità, dall’altra non si contano gli appelli di sedicenti coach, psicologi, esperti di carriera a diventare “manager di se stessi” e “a reinventare la propria carriera come un’impresa individuale”.4 La formulazione classica, in questo senso, è quella data da Bob Aubrey, un consulente americano trasferitosi in Francia negli anni settanta, nel suo bestseller Le travail après la crise: Nel vocabolario classico del lavoro (disoccupazione, impiego, carriera, ferie, salario, pensione e altri termini di questo tipo) il salariato è in una relazione di dipendenza nei confronti dell’impresa che lo impiega. Ma se l’individuo prende su di sé la responsabilità del suo lavoro, inverte automaticamente i ruoli di individui e imprese. In questo senso diventa più pertinente utilizzare il vocabolario dell’impresa per descrivere come l’individuo debba vendere e gestire il suo lavoro su un mercato. Ogni lavoratore deve cercare un cliente, posizionarsi su un mercato, stabilire un prezzo, gestire dei costi, investire nello sviluppo di sé e formarsi. Insomma, ritengo che dal punto di vista dell’individuo il lavoro è la sua impresa, e il suo sviluppo si definisce come un’impresa di sé.5 L’individuo al lavoro è invitato a descriversi come un’impresa che vende le sue merci su un mercato: non a caso questa forma di “lavoro su di sé” nella forma dell’autoimprenditoria coincide con la 4. W. Bridges, Creating You & Co. Learn to Think Like the CEO of Your Own Career, Da Capo Press, Cambridge (Mass.) 1998, pp. IX-XX. 5. B. Aubrey, Le travail après la crise. Ce que chacun doit savoir pour gagner sa vie au 21e siècle, InterÉd., Paris 1994, p. 85.
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La fine di un mondo? Foucault e la veridizione cristiana MAURO BERTANI
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n molti, e persino tra i suoi lettori e commentatori più acuti e perspicaci, hanno faticato allorché hanno tentato di individuare le ragioni – teoretiche, storiografiche, metodologiche e addirittura biografiche – plausibili di quello che è parso un improvviso scarto e un vertiginoso salto: quello che sarebbe stato compiuto da Michel Foucault tra il 1979 e il 1980-1981. Dopo essersi dedicato all’analisi della ratio dell’ars gubernatoria legata al liberalismo classico prima, e alla pratica governamentale neoliberale poi (a cui, secondo taluni critici, sarebbe stato condotto da una certa consonanza e simpatia), dopo avere ripercorso nel dettaglio la Gesellschaftspolitik e i fondamenti della politica economica dell’ordoliberalismo tedesco e dopo avere ricostruito la “generalizzazione” del modello dell’Homo oeconomicus in ogni ambito e forma di comportamento umano da parte del neoliberalismo della Scuola di Chicago, tutto sarebbe improvvisamente mutato. Con il corso al Collège sul Governo dei viventi e con quello a Lovanio dell’anno successivo su Mal fare, dir vero, infatti, Foucault sarebbe, misteriosamente e incomprensibilmente, sprofondato in una vasta e remota plaga, rappresentata dal cristianesimo dei primi secoli (attratto, secondo altri critici, da un’antica fascinazione su di lui – che si era formato, come ha detto una volta, dai “buoni vecchi padri” – esercitata da quell’unicum storico che è una religione, la sola, trasformatasi in istituzione: la chiesa cattolica), per poi da qui muovere verso una falda ulteriore, costituita dal aut aut, 362, 2014, 75-100
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mondo antico e tardo antico, aprendo così un ciclo di indagine che solo la morte avrebbe alla fine interrotto. E tuttavia credo che lo sconcerto o lo stupore possano venire dissipati rammentando che Foucault si collocava deliberatamente ai margini delle discipline costituite e delle tradizioni consolidate, con le loro geografie e i loro calendari, le loro ripartizioni e le loro successioni, per rimettere in discussione le pretese e il valore di verità da esse rivendicati. Ciò comporta che il significato (e l’eventuale valore) delle indagini da lui compiute non andrebbe ricercato in altro se non nella specificità delle problematizzazioni effettuate. E che i vari campi e oggetti indagati non lo siano a titolo di supposti universali invarianti di cui solo una philosophia perennis saprebbe dar conto in termini di totalità, scienza e così via. Foucault ne parlava piuttosto (nell’Archeologia del sapere) come di “referenziali”, punti di vista definiti da veri e propri “regimi”, ogni volta differenti, che ci indicano come si stabiliscono storicamente le posizioni, le forme e gli orizzonti del sapere e delle formazioni discorsive che lo tramano, per rendere evidente che viviamo immersi in un universo di discorsi – rappresentati dagli enunciati, dalle “cose dette”, dall’“effettivamente detto” o suscettibile di esserlo – che delimita il quadro in cui pensiamo, agiamo, viviamo, escludendo alcune possibilità e privilegiandone altre, determinando un certo modo di conoscere gli oggetti e fissando alcune delle modalità in base alle quali ci situiamo come soggetti nei confronti di tali oggetti. Per Foucault si trattava, insomma, di mettere in atto una forma di radicale nominalismo storico destinato a dissolvere, insieme, l’identità dei concetti che la filosofia e i vari saperi utilizzano e la pretesa perennità degli oggetti che vi vengono fatti corrispondere. Lo ha fatto nella forma di una pura descrizione archeologica, la quale si riferisce all’archivio, ovvero all’insieme di tracce documentarie che si sono sistematicamente e metodicamente costituite nel corso del tempo, che si sono organizzate in forma di discorsi che si distribuiscono in base a un regime di rarità, dispersione, eterogeneità. E tra gli archivi da lui delimitati e indagati, uno in particolare ha accompagnato il lavoro di Foucault dall’inizio alla 76
fine, come lui stesso ha sovente ripetuto, ovvero quello relativo ai “rapporti tra soggetto e verità”. Lo ha affrontato descrivendo i diversi modi di soggettivazione definiti dai vari giochi di verità succedutisi nella storia. Oggi noi possiamo disporre, retroattivamente, di uno schema generale che va dal soggetto etico antico a quello che già nella Storia della follia aveva chiamato l’Homo psychologicus formato nel corso del tempo da tutta una pletora di saperi che vanno dalla nobile Psychologia rationalis elaborata nelle università luterane, alla fisiologia e alla medicina mentale ottocentesca, a saperi frusti come l’antropologia e la criminologia tra Ottocento e Novecento, per giungere fino alla psicoanalisi. La ricostruzione genealogica organizzata di tale storia, che Foucault ha incessantemente perseguito nei suoi libri e nei suoi corsi, ci mostra così che alla fine, forse, le scienze della psiche, e con esse, dunque, la stessa psiche, non saranno state che un episodio nella plurimillenaria storia della costituzione di sé del soggetto umano in Occidente, nella storia dei modi, delle procedure, delle tecniche, dei regimi, per mezzo dei quali gli uomini hanno organizzato una riflessione su di sé e il governo di sé (e degli altri). Una delle lezioni fondamentali che Foucault ci ha lasciato, infatti, è quella relativa alla necessità di iscrivere le vicende dei saperi della psiche e delle istituzioni che vi si correlano nella storia delle tecniche di governo di sé. Al termine della quale, aveva mostrato nel corso del 1979, discutendo in particolare la teoria del “capitale umano” e le analisi di Gary Becker, la “psicologia” finisce con l’entrare “nella definizione dell’economia”, poiché lì incontriamo, infine, quella forma di razionalità politica specificamente moderna che è costituita dalle nuove modalità di presa in carico della soggettività rappresentata dalle “tecniche comportamentali”. Di queste parlava nel corso sulla “nuova ragione governamentale” liberale, destinata a fungere da vero e proprio “quadro generale della biopolitica” (ma avrebbe potuto aggiungervi senza difficoltà gli stessi sviluppi delle neuroscienze), sostenendo che erano queste ad aver consentito di incorporare il vecchio Homo psychologicus all’interno del contemporaneo Homo oeconomicus, quell’uomo “eminentemente governabile”, come lo aveva chiamato, la cui anima è diventata 77
Michel Foucault e il “sé” cristiano PHILIPPE CHEVALLIER
Michel Foucault e il cristianesimo: un appuntamento mancato? Il 6 maggio 1980 Michel Foucault si trova presso la comunità gesuita, al 42 di rue de Grenelle a Parigi, per discutere con sei intellettuali cattolici: due americani, un messicano, due francesi e un colombiano. Ha terminato da qualche mese il suo corso al Collège de France, in cui, per la prima volta, affronta di petto gli scritti dei Padri cristiani del II-V secolo (Erma, Tertulliano, Cassiano ecc.). Di questo incontro con un gruppo composto per la maggior parte da preti gesuiti1 non resta alcuna traccia nelle biografie di Foucault. Sappiamo che è avvenuto grazie al suo organizzatore, padre James Bernauer, oggi professore al Dipartimento di filosofia del Boston College,2 che all’epoca seguiva i corsi di Foucault al Collège de France. Questo seminario misterioso assomiglia in effetti a un appuntamento mancato, segno della difficoltà, per i foucaultiani così come per i teologi, di congiungere, in un discorso ponderato e non solamente biografico o dossografico, Foucault e il cristianesimo. Difficoltà paradossale, se ricordiamo che il cristianesimo è l’epoca culturale esplorata con più costanza dal filosofo francese, Fonte originale: Michel Foucault et le “soi” chrétien, “Astérion”, 11, 2013. 1. A eccezione di Alfonso Alfaro, dottorando messicano che lavorava all’epoca con Roland Barthes. 2. La sua testimonianza è riportata in J.R. Carrette, “Prologue to a confession of the flesh”, in M. Foucault, Religion and Culture, a cura di J.R. Carrette, Manchester University Press, Manchester 1999, p. 3. Ringraziamo calorosamente James Bernauer, non solo per le informazioni supplementari che ha voluto darci, ma anche per i suoi consigli e incoraggiamenti.
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da Storia della follia (1961) all’ultimo corso al Collège de France, Il coraggio della verità (1984). Partecipano al “seminario” del 6 maggio 1980, tra gli altri, padre Gustave Martelet, ispiratore dell’enciclica Humanae vitae3 e consultore della Commissione teologica internazionale, padre Charles Kannengiesser, specialista di Attanasio e professore all’Istituto cattolico di Parigi, padre William Richardson, grande figura della filosofia americana, nella quale ha contribuito a introdurre il pensiero di Heidegger, padre Mario Calderón, sociologo che sarà in seguito molto impegnato nella teologia della liberazione in Colombia. L’incontro ha luogo su iniziativa di Foucault, che aveva manifestato a James Bernauer il desiderio di discutere del suo lavoro con dei teologi. L’incontro tuttavia non approda a nulla, stando a quanto dice lo stesso organizzatore, probabilmente a causa della composizione dell’assemblea: nel piccolo gruppo sono presenti solo due docenti di teologia,4 cioè solamente due persone in grado di illuminare il filosofo sui vari punti di erudizione storica che lo interessavano in quel periodo. Foucault è probabilmente deluso da quest’assemblea troppo moderna di cristiani sociologi, linguisti, heideggeriani, lacaniani, più preoccupati del ruolo della chiesa nella società contemporanea che della sua storia. Soprattutto, Foucault, quel giorno, non incontra nessun membro del corpo docente delle facoltà gesuite di Parigi, il Centro Sèvres, luogo importante per la riflessione teologica, a cinquecento metri da lì.5Anche se vicina geograficamente, la comunità di rue de Grenelle alla quale appartiene la maggior parte dei gesuiti presenti, è relativamente decentrata rispetto alla vita intellettuale del Centro Sèvres. È una 3. J.E. Smith, Humanae Vitae. A Generation Later, The Catholic University of America Press, Washington 1991. Questa enciclica sulla morale sessuale coniugale, che condanna la contraccezione, non poteva non interessare Foucault. 4. Padre Gustave Martelet e padre Charles Kannengiesser. 5. A quell’epoca, al Centro Sèvres, insegnavano alcune delle grandi figure della teologia e dell’esegesi francese, tra cui il teologo Bernard Sesboüe, i biblisti Paul Beauchamp, Jacques Guillet e Xavier Léon-Dufour. Anche padre Joseph Goetz, antropologo e storico delle religioni di fama mondiale, era iscritto quell’anno alla comunità del Centro Sèvres. Quanto a padre Gustave Martelet, non era un professore titolare del Centro Sèvres, ma un collaboratore (Catalogus Provinciae Galliae Societatis Jesu, Ineunte Anno, 1980). Come già ricordato, padre Kannengiesser insegnava presso l’Istituto cattolico di Parigi.
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comunità che accoglie innanzitutto molti missionari di passaggio – con un’importante attività di foresteria – così come gesuiti stranieri impegnati in “studi speciali”, che hanno cioè terminato gli studi teologici e continuano la loro formazione in altre materie, spesso per un terzo ciclo. Se l’assemblea che si riunisce intorno a Foucault testimonia la vitalità intellettuale della Compagnia di Gesù in quell’epoca, essa colpisce per il suo eclettismo. Lo scambio andò a vuoto, soprattutto per l’imprecisione iniziale della richiesta.6 Sembra che un tale appuntamento mancato si sia prodotto anche nell’ambito degli studi foucaultiani, visto quanto poco trattata continua a essere la questione cristiana in Foucault, spesso ridotta alla sua espressione più semplice, quella di un’esacerbazione del controllo degli individui, la cui base sarebbe la triade del potere pastorale: soggettività, sessualità, verità. Unica eccezione in lingua francese fu la relazione di Michel Senellart a un convegno all’Università di Parigi XII nel 2001,7 occasione per una delle prime analisi di un corso di Foucault allora sconosciuto, Del governo dei viventi (1980).8 Sconosciuto poiché ancora inedito, beninteso. Salvo che alcuni corsi inediti erano circolati sottobanco molto prima della loro pubblicazione ufficiale, attraverso testimonianze, edizioni straniere o estratti pubblicati qua e là, come nel caso di “Bisogna difendere la società” (1976) o di Nascita della biopolitica (1979). L’interesse per i trattati cristiani dei primi secoli sul battesimo e la penitenza fu minimo (per usare un eufemismo), sebbene allo studio di questi testi Foucault avesse assegnato una posizione centrale nel 1980, nella forma lenta e meticolosa del commento, che diventerà lo stile degli ultimi corsi. E tuttavia le lezioni che compongono Del governo dei viventi lasciano intendere qualcosa di assolutamente sorprendente e 6. “[Foucault] mi aveva chiesto di invitare persone con le quali potesse parlare del suo lavoro. La direzione che il suo lavoro sul cristianesimo stava prendendo non era chiara. Ho quindi invitato un gruppo variegato” (testimonianza di James Bernauer raccolta dall’autore, 28 marzo 2012). 7. M. Senellart, La pratique de la direction de conscience, in F. Gros, C. Levy (a cura di), Foucault et la philosophie antique, Kimé, Paris 2003. 8. M. Foucault, Del governo dei viventi. Corso al Collège de France, 1979-1980 (2012), a cura di M. Senellart, trad. di D. Borca e P.A. Rovatti, Feltrinelli, Milano 2014.
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Da dove viene il sé? La forza del dir-vero e l’origine dell’ermeneutica del sé LAURA CREMONESI, ARNOLD I. DAVIDSON, ORAZIO IRRERA, DANIELE LORENZINI, MARTINA TAZZIOLI
1. La politica di noi stessi Per molto tempo, e a tratti ancora oggi, il pensiero del cosiddetto “ultimo” Foucault è stato presentato più o meno esplicitamente come una rottura radicale nei confronti delle sue analisi degli anni settanta sul potere e sulla governamentalità, e come un modo di prendere congedo dalla politica. La pubblicazione dei corsi al Collège de France degli anni ottanta, e di una serie di altri testi e conferenze dello stesso periodo, ha però definitivamente smentito questa linea interpretativa, mostrando come, pur restando sostanzialmente impermeabili alla scena politica immediata, le analisi foucaultiane delle arti di vivere greco-romane non rappresentino affatto uno smarcamento, quanto piuttosto un prolungamento dello studio della governamentalità inaugurato nel 1978.1 Conclusione evidente se si pensa agli ultimi due corsi sul Governo di sé e degli altri 2 e alle conferenze pronunciate a Berkeley nell’autunno del 1983,3 incentrati come noto sulla parrhesia politica, platonico-socratica e cinica; conclusione al contrario ben più ostica da giustificare, e ancora largamente misconosciuta, se applicata alle analisi foucaultiane del cristianesimo dei primi secoli, dell’esperienza antica degli aphro1. Cfr. M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France, 19771978 (2004), a cura di M. Senellart, trad. di P. Napoli, Feltrinelli, Milano 2005, p. 88 sgg. 2. Cfr. Id., Il governo di sé e degli altri. Corso al Collège de France, 1982-1983 (2008), a cura di F. Gros, trad. di M. Galzigna, Feltrinelli, Milano 2009 e Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II. Corso al Collège de France, 1984 (2009), a cura di F. Gros, trad. di M. Galzigna, Feltrinelli, Milano 2011. 3. Cfr. Id., Discorso e verità nella Grecia antica (1983), a cura di J. Pearson, trad. di A. Galeotti, Donzelli, Roma 1996.
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disia e delle nozioni di “cura di sé” e di “estetica dell’esistenza”, sviluppate nei corsi al Collège de France tra il 1980 e il 1982 e negli ultimi due volumi della Storia della sessualità.4 Ebbene, proprio rispetto a quest’ultimo problema, due conferenze tenute da Foucault nell’autunno del 1980, e recentemente pubblicate in italiano con il titolo Sull’origine dell’ermeneutica del sé,5 forniscono la chiave di lettura più preziosa e gli spunti di riflessione più interessanti al fine di cogliere la sostanziale coerenza del progetto filosofico-politico dell’“ultimo” Foucault, nonché la sua opera di radicale rielaborazione delle idee tradizionali di politica ed etica. Le conferenze Sull’origine dell’ermeneutica del sé sono state pronunciate per la prima volta da Foucault il 20 e il 21 ottobre 1980 all’Università della California, Berkeley, e nuovamente il 17 e il 24 novembre 1980 al Dartmouth College, nel New Hampshire, con alcune lievi ma significative variazioni. Le tematiche che Foucault vi affronta e il materiale storico-filosofico che vi discute sono sostanzialmente gli stessi che avevano costituito il nucleo delle lezioni del corso al Collège de France Del governo dei viventi, tenuto tra il gennaio e il marzo di quello stesso anno. E tuttavia, come spesso accade, le conferenze e i seminari oltreoceano sono, per Foucault, un’occasione preziosa per riorganizzare e ripensare le analisi condotte nei propri corsi francesi, e talvolta per svilupparle, anticipando così linee di evoluzione inattese. Per Foucault, del resto, il lavoro intellettuale non si configura mai come la ripetizione del medesimo. Veri e propri laboratori di sperimentazione filosofica, le conferenze e gli interventi tenuti da Foucault negli Stati Uniti, e in molti altri paesi in tutto il mondo, meritano quindi un’attenzione speciale e non vanno semplicemente “appiattiti” sui corsi al Collège de 4. Cfr. M. Foucault, Del governo dei viventi. Corso al Collège de France, 1979-1980 (2012), a cura di M. Senellart, trad. di D. Borca e P.A. Rovatti, Feltrinelli, Milano 2014; Id., Subjectivité et vérité. Cours au Collège de France, 1980-1981 (di prossima pubblicazione); Id., L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France, 1981-1982 (2001), a cura di F. Gros, trad. di M. Bertani, Feltrinelli, Milano 2003; Id., L’uso dei piaceri. Storia della sessualità 2 (1984), trad. di L. Guarino, Feltrinelli, Milano 1984; Id., La cura di sé. Storia della sessualità 3 (1984), trad. di L. Guarino, Feltrinelli, Milano 1985. 5. Cfr. Id., Sull’origine dell’ermeneutica del sé. Due conferenze al Dartmouth College (1980), a cura di mf / materiali foucaultiani, Cronopio, Napoli 2012.
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France o sui libri pubblicati da Foucault stesso. Nelle conferenze Sull’origine dell’ermeneutica del sé, in particolare, Foucault procede a una selettiva riorganizzazione dei temi trattati in Del governo dei viventi, introducendoli tuttavia all’interno di una cornice teorica caratterizzata da tre “novità” cruciali, delle quali sarebbe impossibile sottostimare l’importanza e le conseguenze teorico-politiche. Innanzitutto, Foucault inscrive esplicitamente le proprie analisi – quelle di Berkeley e del Dartmouth College e, da un certo punto di vista (retrospettivamente), tutta la propria produzione degli anni ottanta – nel quadro di un progetto più generale: la “genealogia del soggetto moderno”.6 Per oltrepassare la filosofia del soggetto, infatti, Foucault afferma di non aver seguito (e di non voler seguire) né la strada del positivismo logico, né quella dello strutturalismo, ma – sulla scorta di Nietzsche – di voler porre “la questione della storicità del soggetto”, studiando “la costituzione del soggetto attraverso la storia che ci ha portato fino al concetto moderno del sé”.7 Se lo scopo delle analisi di Foucault è quello di ricostruire una genealogia del soggetto (occidentale) moderno, e se il metodo che egli intende utilizzare è quello di “un’archeologia del sapere”, o meglio, come aveva affermato in Del governo dei viventi, di un’“(an)archeologia del sapere”,8 l’oggetto di tali analisi è definito da Foucault nei termini di una serie di “tecnologie” intese come “l’articolazione di certe tecniche e di certi tipi di discorso sul soggetto”.9 È a Berkeley, nell’ottobre del 1980, che Foucault parla per la prima volta, a questo proposito, di “tecniche”10 o “tecnologie del sé” – si tratta del secondo elemento di novità –, definendole (ac6. Ivi, p. 33. In Del governo dei viventi, al contrario, il quadro teorico nel quale Foucault inscrive le proprie analisi è quello di uno studio del “governo degli uomini attraverso la manifestazione della verità nella forma della soggettività”, M. Foucault, Del governo dei viventi, cit., p. 88. 7. Id., Sull’origine dell’ermeneutica del sé, cit., p. 35. 8. Id., Del governo dei viventi, cit., p. 107. 9. Id., Sull’origine dell’ermeneutica del sé, cit., p. 37. 10. Durante la lezione del 25 marzo 1981 del corso al Collège de France Subjectivité et vérité, Foucault definisce le “tecniche” come “procedure regolate, modi di fare che sono il prodotto di una riflessione e che sono destinati a operare, su un oggetto determinato, un certo numero di trasformazioni. Queste trasformazioni sono ordinate a certi fini che si tratta di realizzare attraverso di esse”.
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La pratica filosofica di Michel Foucault TIZIANO POSSAMAI Che cos’è dunque la libertà? Nascere è nascere dal mondo e al tempo stesso nascere al mondo. Il mondo è già costituito, ma non è mai completamente costituito. Sotto il primo rapporto noi siamo sollecitati, sotto il secondo siamo aperti a una infinità di possibili.1
1. Rinascite1 Pur avendo lavorato nei suoi ultimi anni di vita sul tema delle tecniche e della cura di sé, Michel Foucault non ha mai preso posizione, che io sappia, sul fenomeno delle pratiche filosofiche come andava emergendo in quegli stessi anni in Europa a partire, non a caso, dalla Germania. Qui la rinascita della filosofia pratica, di cui quel fenomeno si può considerare un’estrema avanguardia, ha una lunga e onorata tradizione, ricostruita dettagliatamente da Franco Volpi in un saggio del 1980, per molti aspetti premonitore.2 Chissà cosa avrebbe pensato e scritto Foucault, se ne avesse avuto l’occasione e il tempo, di quell’estrema avanguardia. Me lo immagino molto ironico, ma di un’ironia non immune da una certa dose di blochiana speranza. Chissà se avrebbe intravisto tra le sue pieghe una qualche corrispondenza con ciò che stava rimuginando in quegli anni. E qui il pensiero va non tanto alla sua idea di estetica dell’esistenza, ma soprattutto a quelle esperienze “fuori programma”, al di là dei consueti schemi istituzionali, di cui Foucault non ha mai smesso di sostenere la necessità e di auspicare 1. M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione (1945), trad. di A. Bonomi, Bompiani, Milano 2005, p. 578. 2. F. Volpi, La rinascita della filosofia pratica in Germania, in C. Pacchiani (a cura di), Filosofia pratica e scienza politica, Francisci, Abano Terme 1980. In questo saggio Volpi indica nelle acute analisi di Hannah Arendt (Vita activa, 1958, trad. di S. Finzi, Bompiani, Milano 1964) e nell’ermeneutica di Hans-Georg Gadamer (Verità e metodo, 1960, trad. di G. Vattimo, Bompiani, Milano 1983) i contributi più autorevoli a quella rinascita, grazie alla riscoperta da parte di entrambi, e in particolare di Gadamer, “dell’attualità della filosofia pratica di Aristotele”.
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l’avvento. Credo che proprio il tentativo di sperimentare nuovi spazi del possibile, di sondare ciò che Heidegger chiamerebbe l’impensato, nel senso più letterale e meno oscuro del termine, sia l’aspetto che può maggiormente porre la ricerca di Foucault in dialogo fecondo con le pratiche filosofiche attuali, nelle loro più diverse declinazioni. E soprattutto queste pratiche con la sua ricerca, anche se, o proprio perché, la direzione di quest’ultima non si può certo dire sulla stessa linea delle prime. Eppure, come ricordano Luther H. Martin, Huck Gutman e Patrick H. Hutton, curatori del seminario sulle “tecnologie del sé” tenuto da Foucault nel 1982 all’Università del Vermont, ciò che lo muoveva in quegli anni, alla pari di molti pionieri delle pratiche filosofiche, primo fra tutti Gerd Achenbach, era la volontà di prendere le distanze da una certa filosofia tradizionale: “Nella sua conferenza conclusiva Foucault disse che il suo interesse per il sé andava visto come un’alternativa alle tradizionali questioni filosofiche del tipo: ‘Che cos’è il mondo?’, ‘Che cos’è l’uomo?’, ‘Che cos’è la verità?’, ‘Che cos’è la conoscenza?’, ‘Come possiamo conoscere?’ ecc.”.3 Se questa presa di distanza, tuttavia, sembra poter avvicinare Foucault al mondo delle pratiche filosofiche come lo conosciamo noi oggi, in realtà il suo approdo, o se si preferisce il suo punto di ripartenza, è di tutt’altra natura. Sempre con le parole di Martin, Gutman e Hutton: “Nella tradizione di Fichte, Hegel, Nietzsche, Weber, Husserl, Heidegger e della Scuola di Francoforte, Foucault era interessato al problema che sapeva essere stato posto alla fine del Settecento da Kant: ‘Che cosa siamo noi nella nostra realtà attuale?’, ‘Che cosa siamo oggi?’; si trattava cioè di affrontare ‘il campo della riflessione storica su noi stessi’”.4 Da questi interrogativi muovono le ricerche sul sé dell’ultimo Foucault, quella che è stata definita da molti la sua svolta soggettiva, e che Foucault a un certo punto chiama “ontologia storica di noi 3. L.H. Martin, H. Gutman, P.H. Hutton, “Introduzione”, in M. Foucault, Tecnologie del sé (1988), trad. di S. Marchignoli, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. X. 4. Ivi, pp. X-XI.
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stessi” o “ontologia del presente”,5 modificando il senso di uno dei concetti cardine della nostra filosofia, quello appunto di ontologia, che nel suo significato tradizionale non ha mai fatto parte del suo orizzonte di interessi e di studi.6 Con ontologia storica di noi stessi e del presente, infatti, Foucault non intende certo uno studio metafisico dell’ente o dell’essere in quanto tale, delle sue strutture universali e immutabili, bensì una riflessione su ciò che noi siamo, e su ciò che è il nostro presente, in quanto frutto di un percorso storico di emersione che, proprio per questo, potrebbe sempre essere qualcosa di diverso da ciò che è; uno studio, in breve, che assomiglia piuttosto a una genealogia. In questa luce può risultare significativo che il passaggio agli studi sul sé da parte di Foucault, vissuto da non pochi come una sospetta inversione di rotta rispetto alle sue ricerche precedenti, sia avvenuto in concomitanza – siamo agli inizi degli anni ottanta – con l’apertura del primo studio privato di filosofia, ovvero con un’altra inversione o passaggio, vissuto anche questo non da pochi come sospetto: dalla rinata filosofia pratica tedesca alla neonata pratica filosofica di Achenbach. Entrambi i passaggi, a ben guardare, hanno a che fare con un cambio di rotta fino a un certo punto. Siamo al tempo stesso di fronte a due movimenti di pensiero di cui entrambi portano alle estreme conseguenze i presupposti. E bisognerebbe rendere conto di questa convergenza, come pure delle divergenze che la caratterizzano. Provare a farlo significherebbe provare a dare voce anche al silenzio da cui siamo partiti. 5. “Mi sembra che la scelta filosofica con cui, oggi, dobbiamo confrontarci sia la seguente: optare per una filosofia critica che si presenterà come una filosofia analitica della verità in generale, oppure optare per un pensiero critico che avrà la forma di un’ontologia di noi stessi, di un’ontologia dell’attualità: è questa la forma di filosofia che, da Hegel alla Scuola di Francoforte, passando per Nietzsche e Max Weber, ha fondato una forma di riflessione all’interno della quale ho cercato di lavorare” (M. Foucault, “Che cos’è l’Illuminismo?”, 1984, in Archivio Foucault 3. 1978-1985. Estetica dell’esistenza, etica, politica, trad. di S. Loriga, Feltrinelli, Milano 1998, p. 261). 6. Proprio perché, come egli stesso riconosce: “Non mi pare davvero necessario sapere esattamente cosa sono. La cosa più importante nella vita e nel lavoro è diventare qualcosa di diverso da quello che si era all’inizio” (M. Foucault, “Verità, potere, sé”, in Tecnologie del sé, cit., p. 3).
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È innanzitutto una questione di condizioni di possibilità, senza le quali evidentemente non ci può essere alcuna emergenza, né alcuna convergenza – o divergenza – in questa emergenza. Il che è già di per sé indicativo. Soprattutto se si considera che il tracciato di entrambi i percorsi, al di là di ogni micro o macro differenza, successo o fallimento, profondità e modalità di approccio, acquisisce il suo significato più proprio nella misura in cui si muove verso una possibile trasformazione di quelle condizioni. È inoltre una questione di vicinanza e insieme soprattutto di distanza tra due modi di intendere la filosofia rispetto a una posta in gioco comune: lo spazio della nostra libertà. Il suo possibile restringimento, la sua possibile apertura. È precisamente di questo spazio in relazione alla pratica filosofica di Foucault ciò su cui ora vorrei provare a riflettere. 2. Trame Per certi aspetti, nell’affrontare il campo degli studi sul sé l’ultimo Foucault non fa che continuare ad approfondire l’ordito della sua riflessione storica su come (non) viene al mondo un soggetto. Una riflessione cominciata negli anni sessanta con Storia della follia e Le parole e le cose e proseguita negli anni settanta con Sorvegliare e punire e La volontà di sapere. Ciò che cambia, ciò che inverte ora la sua rotta è semmai la trama di quell’ordito. Con uno spostamento all’indietro e laterale (il suo “famoso” passo di granchio), Foucault cerca di far luce sul nostro presente ancora una volta allontanandosene, guardando al passato (coerenza dell’ordito). Alla storia si erano rivolte anche le sue prime ricerche sulla dipendenza del soggetto da sistemi di potere e di sapere che, nella misura in cui contribuivano a costituirlo in quanto tale, lo facevano anche venire meno in quanto tale: innanzitutto in quanto agente attivo della propria stessa emergenza e produzione. Nelle sue ultime ricerche, tuttavia, la storia non viene indagata da Foucault per mettere in luce tale dipendenza, ma per rintracciare gli spazi di possibile autonomia del soggetto rispetto a quei sistemi. Di conseguenza è sul primo, e non sui secondi, che concentra la sua indagine microfisica (inversione della trama). Il che non deve trarre in inganno, 140
Palestra
In questo spazio vogliamo dare ai lettori una testimonianza dell’interesse che ha suscitato il cantiere foucaultiano presso gli studenti di filosofia di Trieste. Roberto Bertolini si è laureato nel febbraio 2014 con una tesi intitolata “Atti riflessi di verità. Michel Foucault e la genealogia della confessione”. Eugenio Giacomelli ha discusso nell’ottobre 2013 una tesi su “Critica e illuminismo nel pensiero di Michel Foucault”. Alessandro Melosso ha presentato nel febbraio 2014 un lavoro intitolato “Il prisma riflessivo e lo specchio infranto. Sul gesto di pensiero di Michel Foucault”.
Disobbedire alla verità. A proposito del corso Del governo dei viventi ROBERTO BERTOLINI
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onfessione, soggettività, obbedienza: il corso Del governo dei viventi 1 che Michel Foucault pronuncia al Collège de France nei primi tre mesi del 1980 ha a che fare con la genealogia di queste tre nozioni. Non solo: sotto l’azione dell’operatore “genealogia di”, esse finiscono per diventare in qualche modo intercambiabili, quasi fossero i lati di una curiosa equazione “triangolare”. Foucault vi fa, innanzitutto, una genealogia della confessione cristiana, successivamente esondata nei molteplici rivoli laici in cui, a partire da quella matrice religiosa, si sono riversate le pratiche di verbalizzazione di una propria verità individuale che hanno costellato l’esperienza dei soggetti lungo tutti i luoghi della modernità, dall’aula di scuola a quella di tribunale, dal gabinetto del medico o dello specialista “psy” all’ufficio di collocamento. Su come tali pratiche siano penetrate pervasivamente nelle nostre esistenze, al punto da tradursi in comportamenti spontanei e compiacenti – senza che nessuno debba più preoccuparsi di sollecitarli con pressioni o minacce –, Foucault aveva scritto e detto già intorno alla metà degli anni settanta; e si è ormai consolidata all’interno del massimario foucaultiano l’icastica affermazione della Volontà di sapere: “L’uomo, in Occidente, è diventato una bestia da confessione”.2 1. M. Foucault, Del governo dei viventi. Corso al Collège de France, 1979-1980 (2012), trad. di D. Borca e P.A. Rovatti, Feltrinelli, Milano 2014. 2. Id., La volontà di sapere. Storia della sessualità 1 (1976), trad. di P. Pasquino e G. Procacci, Feltrinelli, Milano 1988, p. 55.
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È a partire dal progetto originario di una Storia della sessualità in più volumi – di cui il primo, La volontà di sapere, avrebbe dovuto costituire il punto di diramazione di altrettante direttrici di ricerca – che germina l’idea di fare a ritroso un percorso genealogico che attraversi la preistoria della confessione, per individuarne le articolazioni e i punti di emergenza. Foucault è costretto ad arretrare più di quanto avesse inizialmente immaginato, fino a giungere al cristianesimo primitivo e alle istituzioni cenobitiche del IV-V secolo; e poi, sollecitato dall’analisi comparativa per dar conto delle riconfigurazioni cristiane di antiche pratiche pagane, in particolare dell’esame di coscienza, si immergerà nel “trip greco-latino” che lo porterà – nei suoi ultimi anni – a maneggiare nozioni come quella di “cura di sé” o di parrhesia. La genealogia della confessione, però, è anche una genealogia della soggettività, della nostra moderna soggettività occidentale, nel suo modo peculiare di articolarsi con la verità che diciamo a proposito di noi stessi. Per cogliere queste modalità di articolazione Foucault mette in gioco alcuni strumenti analitici. Egli introduce subito, all’inizio della prima lezione del corso, la nozione di rituale di manifestazione di verità, nel senso di un insieme di procedimenti verbali o non verbali, che si accompagnano costantemente all’esercizio del potere, mediante i quali una verità viene manifestata, viene prodotta, senza che vi sia alcun ritorno immediato in termini di utilità economica o politica. C’è qualcosa nel modo in cui si compiono tali rituali di manifestazione di verità che eccede l’interesse proprio di chi esercita il potere, e che di conseguenza non è riducibile a un’analisi in termini di ideologia, in termini di sovrastrutture funzionali a coprire e mantenere in atto le reali dinamiche di oppressione e di sfruttamento che si perpetuano attraverso il sistematico depistaggio a opera del discorso ideologico. I rituali di manifestazione di verità, a loro volta, provocano effetti di ritorno sui soggetti che ne sono implicati a vario titolo: in qualità di attori, di testimoni, o anche di oggetti dell’aleturgia (un altro termine con cui Foucault designa le procedure di manifestazione della verità). Abbiamo allora a che fare con degli atti di verità che pongono in primo piano ciò che nell’aleturgia riguarda 150
il soggetto che la produce, o il soggetto che la certifica in qualità di testimone, o ancora il soggetto a proposito del quale si disvela la verità. Quest’ultimo tipo di atto di verità è definito riflesso, e la sua forma più pura, quella che più interessa Foucault, è proprio la confessione: in essa si fondono tutt’e tre le tipologie, sicché il soggetto confessante è colui che fa apparire qualcosa come una verità, ne è il testimone, e ne è l’oggetto, poiché la verità di cui si tratta è proprio la verità su di lui. La confessione, l’atto riflesso di verità per eccellenza, è un elemento peculiare del nostro regime di verità, del regime di verità che si costituisce a partire dal cristianesimo primitivo. Regime di verità, ecco un’altra nozione chiave del corso del 1980: couplage dal sapore ossimorico, che tiene insieme un termine che evoca la coercizione con un altro che si usa pensare sganciato dal potere, se non in aperta contrapposizione a esso. Questo campo in cui si sviluppa il gioco tra verità e soggettività in una rete dinamica di relazioni di potere, questo insieme più o meno coerente e storicamente determinato di atti di verità, perché definirlo “regime di verità”? Più che ripercorrere il tortuoso filo della riflessione foucaultiana intorno a nodi concettuali come sapere, potere, assoggettamento, veridizione, governamentalità, soggettivazione ecc. – un percorso più volte curvato e riconfigurato attraverso i vari scarti e spostamenti di cui i corsi al Collège offrono un’ampia e approfondita testimonianza –, vale a dar ragione di quell’espressione un po’ spiazzante la risposta che lo stesso Foucault fornisce alla prevedibile obiezione, quell’obiezione che nega la natura di verità a qualcosa che necessita di una costrizione supplementare per imporsi. La verità, si dice, basta a se stessa, non ha bisogno di obblighi, è essa stessa che obbliga per il solo fatto di essere ciò che è, la verità. “È vero, dunque mi inchino.” Ma se la verità – replica Foucault – è index sui, per il fatto di istituire il partage tra vero e falso, di indicare le operazioni che permettono di attribuire un segno di discrimine agli oggetti che le si presentano dinanzi, ciò non comporta affatto che essa sia anche rex sui, lex sui, judex sui. In altri termini, il “dunque” che mi fa inchinare alla verità non è immanente a essa, è una forma di accettazione che mi appare naturalmente implicata, e che solo il 151
Niente verità senza alterità. Una nota sull’ultimo corso di Foucault EUGENIO GIACOMELLI
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el quadro dell’opera foucaultiana, più che le banchine di un tranquillo porto a cui approdare, Il coraggio della verità disegna margini frastagliati per un’eterotopia radicale. A questo sorprendente controspazio dovrebbe pervenire un nuovo percorso sul tema della critica, e altri ancora, da lì, dovrebbero prendere le mosse. In tutti i casi si pagherebbe lo scotto di un’alterazione: nel Coraggio della verità molti luoghi del pensiero di Foucault trovano dimora, si rileggono, si contestano, ricominciano da capo in un caleidoscopico gioco di specchi. La “storia del pensiero”, in effetti, è problematizzazione di problematizzazioni: da un lato intende ricostruire i confini delle problematiche, ossia i processi e le difficoltà che il pensiero – in un’epoca precisa – organizza come a priori storico per esperienze singolari; dall’altro, mediante stratagemmi di finzione, cerca di rielaborare il discorso immanente alle diverse soluzioni, alle diverse partite giocate tra le maglie di quei confini. Così facendo essa si mette in gioco, a sua volta, nel presente che abita. Di conseguenza, i cantieri su critica e Aufklärung che Foucault allestisce dal 1978 al 1984 – cantieri che qui vorrei appunto far interagire con Il coraggio della verità – sono la ricostruzione genealogica di alcune problematiche definite, ma sono anche qualcos’altro.1 1. Tre, principalmente, i testi di riferimento: M. Foucault, Illuminismo e critica (1978), trad. a cura di P. Napoli, Donzelli, Roma 1997; la prima lezione del corso Il governo di sé e degli altri.
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Tra il XVI e il XVII secolo, a partire dalla serie di eventi culturali, economici, politici mediante cui lo stato diventa sempre più governamentalizzato, si afferma “una certa maniera di pensare, di dire e anche di agire […] che potremmo definire l’atteggiamento critico”.2 Foucault ne segue gli sviluppi. Comincia dal primo focolaio religioso e anti-pastorale della Riforma, attraversa le fratture dei grandi regimi veridizionali fino agli sconvolgimenti del XVIII secolo; e infine, ingaggiando un decisivo confronto-scontro con Kant, giunge a quel punto di straordinaria densità costituito dall’Aufklärung, il raddoppio filosofico dell’“indocilità ragionata”. Ora, credo che tutte queste avventure genealogiche traccino un filo sottile che percorre sotterraneamente l’intero “trip greco-latino” riallacciandolo, per via diretta, alle analisi foucaultiane degli anni settanta. Non si tratta quindi soltanto di una ricostruzione di problematiche storiche. Si tratta anche, e nello stesso tempo, di una problematizzazione con la quale Foucault si distacca da ciò che ha fatto e scritto in passato, certo non per rinnegarlo, ma per pensarlo nuovamente, per fornirgli un preciso senso strategico. Alcune domande, mi sembra, divengono possibili e addirittura pressanti per effetto di questi ripiegamenti. Che tipo di nuove soggettivazioni la filosofia potrebbe impostare oggi contro i domini panottici e contro il doppio taglio – omnes et singulatim – caratteristico degli attuali dispositivi politici? Quali contenuti dovrebbe assumere un’Aufklärung presente, intesa come arte storico-filosofica di non farsi troppo governare? Impensierito da simili interrogativi ritorno all’ultimo corso di Foucault e subito noto che la nozione di “atteggiamento critico” trasmuta in quella di “atteggiamento parresiastico”; che la pratica storico-filosofica (riattivazione dell’Aufklärung) diviene “atteggiamento parresiastico della filosofia”, ossia quello che, tra gli altri possibili, “tenta giustamente, ostinatamente e ricominciando sempre da capo, di riportare l’attenzione, a proposito della verità, al problema delle Corso al Collège de France, 1982-1983 (2008), trad. a cura di M. Galzigna, Feltrinelli, Milano 2009, pp. 11-47; la conferenza americana “Che cos’è l’Illuminismo?” (1984), in Archivio Foucault 3, a cura di A. Pandolfi, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 217-232. 2. Id., Illuminismo e critica, cit., p. 34.
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sue condizioni politiche e della differenziazione etica che ne dischiude l’accesso”.3 La parrhesia è la risposta che Foucault ci ha lasciato in eredità. Nello studio delle forme aleturgiche,4 riorganizzazione eterotopica dell’esame anti-governamentale, il tema del parlar franco, del dire la verità in faccia al potere fosse anche a rischio della vita, spicca, certamente, come il modello di soggettivazione che oggi la filosofia potrebbe spendere nel ricostituire un’“indocilità ragionata”. Le riflessioni di Foucault sull’atteggiamento critico, al di là di semplici e quasi scontate assonanze, convergono irresistibilmente verso questo tema. In che modo? Grazie al perno girevole dell’Aufklärung, il pensiero raccoglie effetti organizzativi ed enuncia le regole che ha voluto darsi. Se dovessi riassumere, con una pennellata, gli esiti della genealogia sull’arte critica, credo userei l’espressione “scetticismo costruttivo”, perché in quel laboratorio nasce un nuovo gioco di verità, un diverso modo di concettualizzare le cose nel quale ogni mossa è il risultato di due mosse complementari e simultanee. Infatti, la cura della verità – scepsi specificamente foucaultiana che tramite l’invenzione di tropi (archeologici e genealogici) sospende l’assenso di fronte al discorso dominante dei regimi veridizionali – non è mai separabile da uno sforzo etico-costruttivo, da un “tentativo sperimentale” di superare o perlomeno incrinare proprio quei giochi di verità, quelle relazioni politiche che la cura pone sotto scacco.5 La critica, in quanto resistenza, è attrice sul palco del potere. Non accetta più e vuole distruggere qualcosa; ma per farlo deve conquistare una virtuosità efficace, cioè deve destreggiarsi riflessivamente all’interno delle problematiche, nutrirsi del valore oppositivo degli oggetti che in3. Id., Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II. Corso al Collège de France, 1984 (2009), trad. a cura di M. Galzigna, Feltrinelli, Milano 2011, p. 76. 4. Ivi, pp. 13-43. 5. Vorrei provare a usare l’espressione “scetticismo costruttivo” in un senso un po’ diverso rispetto a quello “ufficiale”, rintracciabile a vario titolo nella preziosa ricerca condotta da autori come R.H. Popkin, E. Lecaldano e G. Paganini. Con la parola “costruzione” (o anche “mitigazione”) solitamente si descrive lo sforzo conoscitivo che cerca, una volta constatati gli esiti devastanti della scepsi, di riorganizzare configurazioni epistemiche più deboli o probabilistiche (in tal senso la linea dello scetticismo costruttivo è anche la linea epistemologica della scienza moderna: Mersenne,
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Frammenti di un gesto filosofico ALESSANDRO MELOSSO1
Non vi è nessuna esperienza che non sia un modo di pensare.1
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orrei “utilizzare la tecnica del saccheggio interessato”,2 cioè strappare alcuni frammenti e riflessioni dal loro contesto – dai corsi, dalle conferenze e da quelle infinite piste e tracce che costituiscono il “corpus” delle ultime ricerche di Foucault (ma non solo), specialmente a partire dal 1980. “Non è tanto la sistematicità di un discorso che indica la sua verità ma, al contrario, la sua possibilità di dissociazione, di riutilizzazione, di reinserimento in un altro contesto.”3 Questi frammenti sono a loro volta frammenti di altri testi che Foucault utilizza nell’economia del suo discorso (sulla parrhesia, sulla “cura di sé” ecc.) ma secondo me non si limitano a questo. Mi sembra, infatti, che non siano solo “ingranaggi” nel o del discorso, ma anche messaggi che Foucault sottoscrive, frecce scagliate diagonalmente come farebbe un arciere zen.4 Vorrei intrecciare questi frammenti facendoli apparire dei memento, o un vademecum a mio avviso imprescindibile, o meglio ancora degli inviti per coloro i quali si incamminano – o già zoppicano e inciampano – nel sentiero senza sentiero della filosofia, qualunque cosa questa parola significhi. 1. Davvero importa chi l’ha detto? Che importa chi parla? Qualcuno ha detto che importa chi parla? 2. M. Foucault, L’estensione sociale della norma (1976), trad. di A. Gilardoni e S. Vaccaro, in S. Vaccaro (a cura di), La società disciplinare, Mimesis, Milano-Udine 2010, p. 100. 3. Ibidem. 4. Foucault era un lettore appassionato del libro di E. Herrigel, Lo zen e l’arte del tiro con l’arco (1954), trad. di G. Bemporad, Adelphi, Milano 1975.
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Comunque, “proviamo a definire filosofia la forma di pensiero che si interroga su ciò che permette al soggetto di avere accesso alla verità, la forma di pensiero che cerca di determinare le condizioni e i limiti entro cui può avvenire l’accesso del soggetto alla verità. Ma se definiamo così la ‘filosofia’, allora credo che potremmo definire ‘spiritualità’ la ricerca, la pratica e l’esperienza per mezzo delle quali il soggetto opera su se stesso le trasformazioni necessarie per avere accesso alla verità, […] l’insieme di quelle ricerche, di quelle pratiche e di quelle esperienze che potranno essere costituite dalle purificazioni, le ascesi, le rinunce, le conversioni dello sguardo, le modificazioni d’esistenza, e così via, che non tanto per la coscienza, bensì per il soggetto, per il suo stesso essere di soggetto, rappresentano il prezzo da pagare per avere accesso alla verità. […] Per come appare in Occidente […], la spiritualità postula la necessità che il soggetto si modifichi, si trasformi, cambi posizione, divenga cioè, in una certa misura e fino a un certo punto, altro da sé, per avere il diritto di accedere alla verità. La verità è concessa al soggetto solo alla condizione che venga messo in gioco l’essere stesso del soggetto, poiché così com’egli è, non è capace di verità […]. Non può esserci verità senza una conversione o una trasformazione del soggetto”.5 Questo implica “un lavoro di sé su di sé” che non può essere dissociato dagli “effetti di ‘ritorno’ della verità sul soggetto”;6 il cuore stesso di questa pratica consiste “nel far propria la verità, ovvero nel diventare soggetti di enunciazione del discorso vero”.7 Si tratta di instaurare un legame intenso con ciò che si dice. Infatti, “una cosa mi sta a cuore più di ogni altra, vale a dire farti comprendere che tutto quel che mi capiterà di dire, lo penso, e che non solo lo penso, ma anche lo amo […]. Far sì che il linguaggio sia in accordo con il comportamento”,8 poiché per garantire la franchezza “del discorso che si proferisce, è necessario che sia davvero evidente la presenza di chi parla all’interno di ciò 5. M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France, 1981-1982 (2001), edizione stabilita da F. Gros, trad. di M. Bertani, Feltrinelli, Milano 2001, p. 17. 6. Ivi, p. 18. 7. Ivi, p. 293. 8. Ivi, p. 359 (Foucault cita Seneca, Lettere a Lucilio, lettera 75).
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che questi dice”,9 così da “trasformare il discorso vero in principio permanente e attivo”.10 Tutto ciò “non produce un effetto codificato”, anzi “apre la possibilità di un rischio indeterminato”,11 perfino la morte in alcuni casi, tuttavia “dico il vero, e penso sul serio che sia vero, e penso veramente di dire il vero nel momento in cui lo dico”.12 È “una maniera di legarsi a se stessi nell’enunciato della verità: una maniera di legarsi liberamente a se stessi nella forma di un atto coraggioso”, è “l’etica del dire-il-vero nel suo atto rischioso e libero”.13 In questo senso, “il compito stesso della filosofia” – “quello di essere non soltanto logos (discorso), ma anche ergon (azione)” e l’“interrogarsi sul reale della filosofia” – “significa chiedersi che cos’è, nella sua stessa realtà, la volontà di dire il vero” cioè l’“atto di veridizione”. Infatti, “non ci si interroga su quale sia il reale che permette di dire se la filosofia dice il vero o dice il falso; ci si interroga […] su quale sia il reale di questo dire-il-vero filosofico, su cosa fa sì che esso non sia semplicemente un discorso vano, a prescindere dal fatto che esso dica il vero o il falso”. Perché “la realtà, la prova con cui la filosofia si manifesterà come reale […], è il fatto che essa si rivolge – che può rivolgersi, che ha il coraggio di rivolgersi – a chi esercita il potere”. Il reale della filosofia sta dunque nel “fatto che essa giochi un proprio ruolo in rapporto alla politica”; è vero infatti che “certuni hanno pensato per molto tempo, e pensano ancor oggi, che il reale della filosofia si regga sul fatto che essa può dire il vero, e può dirlo in particolar modo attorno alla scienza. Per molto tempo si è creduto, e lo si crede ancora, che il reale della filosofia consista in fondo nel fatto che essa può dire il vero sul vero, il vero del vero”, ma il “marchio distintivo” del “reale della filosofia” è “il fatto che la filosofia sia l’attività che consiste […] nel praticare la veridizione in rapporto al potere, e 9. Ivi, p. 363. 10. Ivi, p. 476 (dove Gros cita il dossier del corso Il governo di sé e degli altri). 11. M. Foucault, Il governo di sé e degli altri. Corso al Collège de France, 1982-1983 (2008),
edizione stabilita da F. Gros, trad. di M. Galzigna, Feltrinelli, Milano 2009, p. 67. 12. Ivi, p. 69. 13. Ivi, p. 71.
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Materiali 2
I
l 12 marzo del 2013, all’età di ottant’anni, moriva a Parigi il sociologo Robert Castel. Castel amava definirsi un “miracolato” della Repubblica. Nel 1948, quando studiava per diventare aggiustatore meccanico e sembrava destinato a dover lavorare nel porto di Brest, la sua città natale,1 il suo professore di matematica, un ex partigiano reduce dal campo di concentramento, lo aveva chiamato nel suo studio e gli aveva detto: “Non restare qui per sempre. Nella vita bisogna amare la libertà e prendere dei rischi. Vai al liceo, credo che tu non sia stupido e, se avrai fortuna e coraggio, saprai cavartela”.2 Queste parole lo avevano spinto a continuare gli studi. Orfano di una famiglia operaia, si era iscritto al liceo e all’università grazie a borse di studio statali, forme concrete di quelli che più tardi avrebbe definito supporti dell’individuo, ovvero quell’insieme di strumenti che rendono possibile un minimo di indipendenza sociale. Dopo un dottorato in filosofia con Raymond Aron come direttore di tesi, negli anni sessanta Castel si era avvicinato alla sociologia collaborando per alcuni anni con Pierre Bourdieu. Questo percorso biografico, insolito per un docente della prestigiosa École des hautes études en sciences sociales, spiega probabilmente l’interesse per le situazioni marginali, che ha caratteriz1. Cfr. G. Mauger, Portrait, in R. Castel, C. Martin (a cura di), Changements et pensées du changement. Échanges avec Robert Castel, la Découverte, Paris 2012. 2. Cfr. R. Castel, À Buchenwald, “Esprit”, 7, 2007, pp. 155-157.
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zato tutto il lavoro di Castel fin dal suo primo campo d’indagine, l’analisi della psichiatria dal punto di vista sociologico. Le ricerche in questo ambito, che lo impegneranno per tutti gli anni settanta, sono ancora oggi fondamentali per chiunque voglia indagare il funzionamento delle istituzioni deputate alla cura della malattia mentale. Le psychanalysme, L’ordre psychiatrique,3 La société psychiatrique avancée4 e La gestion des risques,5 per ricordare alcuni degli scritti di Castel che toccano la questione psichiatrica, sono lavori che spaziano dallo studio della psicoanalisi come strumento capace di neutralizzare questioni di natura politica e sociale, al trattamento sociale della follia come posta in gioco politica. Occorre una precisazione sull’associazione tra questi lavori e l’opera di Michel Foucault. Tra Castel e Foucault esisteva certamente un rapporto di conoscenza e collaborazione,6 ma la ricerca di Castel è completamente svincolata dalle tesi dell’autore della Storia della follia.7 L’influenza del pensiero di Foucault sull’opera di Castel è soprattutto di tipo metodologico, con lo sviluppo di un approccio di tipo “genealogico”, ovvero un uso della storia per diagnosticare i problemi del presente. In tema di istituzioni psichiatriche, invece, i lavori di Castel possono essere considerati complementari al processo di deistituzionalizzazione avviato in 3. Id., L’ordine psichiatrico. L’epoca d’oro dell’alienismo (1977), trad. di G. Procacci, Feltrinelli, Milano 1980. 4. F. Castel, R. Castel, A. Lovell, La société psychiatrique avancée. Le modèle américain, Grasset, Paris 1979. 5. R. Castel, La gestion des risques: de l’anti-psychiatrie à l’après-psychanalyse, Minuit, Paris 1983. 6. Per esempio Castel propone un’analisi del rapporto tra potere giudiziario e medicina nel libro Io, Pierre Rivière, cfr. R. Castel, I medici e i giudici, in M. Foucault (a cura di), Io, Pierre Rivière, avendo sgozzato mia madre, mia sorella e mio fratello… (1973), trad. di A. Fontana e P. Pasquino, Einaudi, Torino 1976, pp. 275-292. In quegli stessi anni, su proposta di Castel, Foucault contribuisce con un saggio dal titolo La casa della follia a Crimini di pace, opera collettiva curata da Franco e Franca Basaglia che si interroga sul ruolo dei tecnici nelle istituzioni: F. Basaglia, F. Ongaro Basaglia (a cura di), Crimini di pace, Einaudi, Torino 1975. 7. Il lavoro di Castel, invece, stimolerà alcune riflessioni di Foucault nel corso tenuto al Collège de France nel 1973-74. Nel manoscritto della lezione del 9 gennaio 1974 Foucault descriverà un lavoro di Castel, Lo psicanalismo (1973, trad. di L. Fontana, Einaudi, Milano 1975), come “un libro radicale perché, per la prima volta, la psicoanalisi viene specificata solo all’interno della pratica e del potere psichiatrico”. Cfr. M. Foucault, Il potere psichiatrico (2003), trad. di M. Bertani, Feltrinelli, Milano 2004, p. 346 nota 41.
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quegli stessi anni da Franco Basaglia. Castel e Basaglia si erano conosciuti nel 1968 e, immediatamente, avevano scoperto di condividere l’idea che il trattamento della follia nei manicomi rappresentasse uno scandalo, soprattutto perché avveniva in società che si definivano democratiche.8 Tra i due si era stabilito un rapporto di amicizia e collaborazione che durerà fino alla morte di Basaglia nel 1980.9 Collaborazione intellettuale ma anche nella pratica politica, che in quegli anni vedeva Basaglia e Castel impegnati nella costruzione di un gruppo internazionale di intervento e di riflessione sulla psichiatria, il Réseau Alternative à la psychiatrie, che tentava di mettere insieme le diverse anime della critica alle istituzioni psichiatriche. A partire dai primi anni ottanta, Castel abbandona i suoi studi sulla psichiatria per rivolgere lo sguardo all’insieme della “questione sociale” – condizioni come la vecchiaia, la malattia, la povertà ecc. –, intesa come ciò che sfida la capacità della società di poter esistere come insieme legato da rapporti di interdipendenza e non solo di dipendenza. Marginalità, insicurezza sociale, esclusione, lavoro salariato diventano da quel momento l’oggetto di una riflessione che, nel 1995, si concretizzerà con l’uscita di Les métamorphoses de la question sociale,10 opera che può essere considerata a pieno titolo un classico della sociologia contemporanea. Uscito in un’epoca in cui si parlava di fine del lavoro, Les métamorphoses mostrava come la questione sociale fosse strettamente connessa al lavoro salariato, in quanto i sistemi di protezione sociale legati al lavoro stabile erano i pilastri attraverso cui le società occidentali avevano governato l’insicurezza sociale. Oggi, come Castel ha sottolineato in tutte le opere successive,11 un nuovo regime di capitalismo più aggressivo è alla base del 8. É. Gardella, J. Souloumiac, Entretien avec Robert Castel, “Tracés. Revue de sciences humaines et sociales”, 6, 2004. 9. Ibidem. 10. R. Castel, Le metamorfosi della questione sociale. Una cronaca del salariato (1995), trad. di C. Castellano, Sellino, Avellino 2007. 11. Cfr. per esempio R. Castel, L’insicurezza sociale (2003), trad. di M. Galzigna e M. Mapelli, Einaudi, Torino 2004; Id., La montée des incertitudes. Travail, protections, statut de l’individu, Seuil, Paris 2009.
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precariato, dell’erosione dei sistemi di protezione, della crescita delle incertezze. Di queste questioni – al centro della conferenza tenuta a Sassari nel 2006, presentata nelle pagine seguenti – Castel si è occupato fino agli ultimi mesi della sua vita, sostenendo la necessità di creare nuove misure collettive volte alla costruzione di una “società di simili”, dove a tutti possano essere garantite le condizioni minime per poter avere rapporti di interdipendenza. In questa postura si delinea il profilo di quel riformismo radicale che aveva animato le sue ricerche sulla psichiatria e di cui abbiamo bisogno ancora oggi. [Daniele Pulino]
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L’insicurezza sociale. Rischi e protezioni nella crisi della modernità organizzata ROBERT CASTEL
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ffronteremo il tema di questo seminario seguendo alcune linee principali. In un primo momento caratterizzeremo l’insicurezza sociale e il modo in cui – in un paese come la Francia ma penso anche in Italia – essa è stata superata e fondamentalmente sconfitta attraverso l’istituzione di sistemi forti di protezione e di assicurazione contro i principali rischi sociali. In un secondo momento vedremo come la costruzione di questi sistemi di protezione – la “modernità organizzata” del capitalismo industriale – sia entrata in crisi. Cercheremo poi di osservare i principali effetti di questa crisi: un ritorno dell’insicurezza sociale, una messa in vulnerabilità di molti settori della società e, più in particolare, gli effetti nel campo dell’organizzazione del lavoro sui regimi di protezione sociale e sullo statuto stesso dell’individuo. Veniamo al primo punto, ovvero che cos’è l’insicurezza sociale e come è stata combattuta in modo efficace fino a non molto tempo fa. Non darò una definizione dotta di insicurezza sociale, dirò semplicemente che significa trovarsi del tutto alla mercé dei casi della vita. Per una malattia, un incidente, un’interruzione dell’attività lavorativa, per esempio, la nostra vita può vacillare e possiamo restare privi di Il 3 maggio 2006, Robert Castel, invitato a Sassari da Maria Grazia Giannichedda nell’ambito del corso di Sociologia politica e del dottorato in Governance e sistemi complessi, tenne la conferenza che si riporta qui integralmente, rimasta finora inedita. Il testo è tradotto e curato da Daniele Pulino, all’epoca studente di Scienze politiche, attualmente dottore di ricerca in Scienze sociali e assegnista di ricerca presso l’Università di Sassari. Tutte le note sono del traduttore.
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risorse ovvero, come si diceva una volta, condannati a vivere alla giornata. In effetti, nel corso della storia e in molti paesi ancora oggi, è questa la condizione generale di quello che potremmo chiamare il popolo, e in particolare della maggior parte di coloro che non hanno che il proprio lavoro per vivere o sopravvivere. Si potrebbe parlare a lungo dell’insicurezza sociale perché, senza farne un melodramma, non bisogna dimenticare che questa forma di precarietà estrema dell’esistenza è stata, nel corso dei secoli, il destino di gran parte della popolazione. Tuttavia, in società come le nostre, in Francia, in Italia e più in generale nell’Europa occidentale, l’insicurezza sociale è stata governata attraverso l’istituzione di sistemi estesi di protezione sociale, ovvero la sicurezza sociale nel senso forte del termine. La lotta contro l’insicurezza sociale è stata una funzione essenziale dello stato, di quello che possiamo chiamare lo stato sociale, l’état providence, creato in Europa occidentale a partire dalla fine del XIX secolo e soprattutto dopo la seconda guerra mondiale. Potremmo dire che la funzione essenziale dello stato sociale fosse di agire come riduttore dei rischi sociali1 attraverso l’istituzione di assicurazioni contro gli incidenti, contro la malattia, contro le interruzioni del lavoro e contro il rischio drammatico di non poter più lavorare con l’arrivo della vecchiaia. Se prendiamo quest’ultimo esempio, il diritto alla pensione è stato uno straordinario strumento di lotta contro l’insicurezza sociale: prima di questo diritto, il lavoratore, una volta diventato vecchio, viveva nella paura di trovarsi in povertà e di morire in ospizio per mancanza di mezzi. Con il diritto alla pensione certamente egli non si trasforma in un ricco proprietario, tuttavia ha accesso a un minimo di risorse che gli permettono di possedere i mezzi per la propria indipendenza sociale. A partire dal diritto alla pensione si è generalizzato lo sviluppo di un certo numero di diritti sociali, cosicché negli anni sessanta e settanta si è potuto parlare delle società europee come di “società 1. Secondo Castel i rischi sociali “classici”, come l’invecchiamento, la condizione di povertà, la malattia, vanno tenuti distinti dai “nuovi” rischi relativi allo sviluppo della tecnologia e della scienza, secondo la nozione di rischio che si è diffusa nelle scienze sociali a partire dagli anni ottanta. Per Castel si tratta di fenomeni diversi in quanto i primi possono essere affrontati con
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assicuratrici”,2 dove la maggior parte della popolazione era protetta contro i principali rischi sociali. Dunque società dove la sicurezza sociale aveva sostituito l’insicurezza per la maggioranza dei cittadini e dove si percepiva una vittoria sull’insicurezza sociale. Una vittoria certamente non completa, perché rimaneva quello che in Francia si chiama “il quarto mondo”, gruppi di individui marginali che non erano entrati a far parte dei sistemi di protezione. Ma, in generale, in quegli anni si pensava che si trattasse di una povertà residuale, che sarebbe stata riassorbita dal progresso sociale. È in questo contesto che si può parlare di modernità organizzata. Si tratta di un’espressione del sociologo tedesco Peter Wagner che, in un eccellente libro intitolato Soziologie der Moderne. Freiheit und Disziplin, distingue tra modernità liberale ristretta e modernità organizzata.3 La modernità liberale ristretta è quella società che si mette in moto dalla fine del XVIII secolo, fondata sul valore dell’individuo-cittadino, che è il principio dell’ordine morale e politico di una repubblica moderna. Tuttavia, questa modernità è ristretta perché lascia fuori tutti coloro che sono privi delle condizioni per la propria indipendenza sociale, in particolare la maggior parte dei lavoratori i quali non hanno che la forza delle loro braccia per vivere o sopravvivere; i proletari che all’inizio dell’industrializzazione non hanno niente e, letteralmente, non sono niente. Non sono solo miserabili e sfruttati, ma sono anche disprezzati, vivono in un’insicurezza sociale permanente, non hanno alcun diritto e non fanno veramente parte del corpo sociale. Si potrebbe dire la stessa cosa degli indigeni dei paesi colonizzati, che sono al di fuori da questa modernità estremamente ristretta ed escludente. La modernità organizzata, invece, è la formazione sociale che si sviluppa a partire dalla fine del XIX secolo riuscendo a riunificare la società e a integrare questi lavoratori senza risorse e senza misure di protezione, mentre i secondi devono essere considerati come pericoli che non possono essere affrontati in modo assoluto. 2. L’espressione société assurantielle usata da Robert Castel è ripresa dal lavoro del filosofo François Ewald. Vedi F. Ewald, Histoire de l’Etat-Providence, Grasset, Paris 1996. 3. P. Wagner, Soziologie der Moderne. Freiheit und Disziplin, Campus, Frankfurt a.M. 1995 (Castel cita la trad. fr., Liberté et discipline. Les deux crises de la modernité, Métailié, Paris 1996).
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Post Dopo la democrazia globale niente? A proposito di legittimità ALESSANDRO DAL LAGO
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on il 1989, il sistema bipolare uscito dalla seconda guerra mondiale ha iniziato a sgretolarsi. Ma, contrariamente alla facile previsione del trionfo del binomio capitalismo/democrazia liberale, il successo dell’Occidente è stato illusorio. Dopo un buon numero di guerre umanitarie e democratiche combattute nei Balcani e in Medio Oriente, gli Stati Uniti si trovano in un’evidente posizione di stallo. Senza l’intervento di Putin, sarebbero stati coinvolti nel conflitto siriano, finendo per allearsi di fatto ai loro nemici jihadisti. Perciò, nell’estate 2013, Francia e Inghilterra hanno dovuto rinfoderare la spada, confessando quello che tutto il mondo sa, e cioè che, a parte Gheddafi, non sono in grado di sconfiggere proprio nessuno. Così, oggi Putin passa all’incasso, chiarendo una volta per tutte che non tollererà nessun allargamento della Nato in Ucraina, ai confini della Russia, come già era avvenuto in Georgia. E la Cina, potenza globale economica e militare emergente, sta interessata e soddisfatta alla finestra. Se a questa debolezza strategica dell’Occidente aggiungiamo una crisi economica iniziata nel 2008 e che ancora oggi colpisce mezzo mondo, la celebre formula pseudo-hegeliana di Francis Fukuyama, la “fine della storia”, suona involontariamente ironica. La storia è ripartita tumultuosamente, dopo il 1989, ma in direzioni inquietanti. Oggi, nessuno può prevedere ragionevolmente se e quando la bolla finanziaria globale (che vale grosso modo quindici volte l’economia reale e continua a crescere) aut aut, 362, 2014, 193-199
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scoppierà trascinando tutto il mondo in una crisi infinitamente più grave di quella attuale. Eppure, a questo senso di incertezza non corrisponde apparentemente alcuna via d’uscita. Il massimo a cui un elettore socialmente sensibile o, come si sarebbe detto fino a poco tempo fa, “progressista”, di qua e di là dall’Atlantico, può aspirare è un capitalismo smussato nelle sue punte più aguzze (i guadagni iperbolici dei manager e lo strapotere della speculazione) e integrato tutt’al più da provvedimenti di sostegno agli indigenti, quali il Medicare negli Usa e il reddito minimo garantito in Europa – misure che sarebbero state considerate necessarie, ma non sufficienti, meri palliativi, dalle socialdemocrazie europee all’epoca del loro massimo sviluppo, tra gli anni sessanta e settanta. Insomma, l’Occidente è in crisi e il suo futuro è dubbio, ma non esistono apparentemente alternative a un mercato di fatto de-regolato e a una democrazia priva di qualsiasi appeal, governata da gente mediocre, leader esclusivamente telegenici o espressioni di potenti burocrazie e partiti bottegai. La miseria del pensiero politico contemporaneo è sotto gli occhi di tutti. Indipendentemente da un’immensa letteratura secondaria, la teoria non dice oggi granché di nuovo. Uno degli autori più letti in tutto il mondo, Michel Foucault, offre formidabili strumenti per comprendere la modernità al di fuori dei canoni, ma, come ha scritto il suo amico Veyne, resta un pensatore profondamente scettico e poco incline a prefigurare il futuro o a immaginare poteri diversi da quelli effettivi.1 Certo, si può citare la fortuna globale dei libri di Negri e Hardt (Impero e Moltitudine), uno dei pochi tentativi contemporanei di immaginare il premere di un mondo nuovo sotto la crosta di quello vecchio.2 Ma è probabile che il successo di queste opere sia proprio nel loro carattere impolitico, cioè nel proporre una diagnosi che non si misura mai con l’artico1. P. Veyne, Foucault. Il pensiero e l’uomo (2008), trad. di L. Xella, Garzanti, Milano 2010. 2. A. Negri (con M. Hardt), Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione (2000), trad. di A. Pandolfi, Rizzoli, Milano 2002; Id., Moltitudine: guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale, trad. di A. Pandolfi, Rizzoli, Milano 2004.
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lazione dei poteri esistenti e resta del tutto interna a una filosofia apocalittica e irrealistica della storia. Contro ogni evidenza, Negri ha sempre lasciato intendere che il comunismo – qualunque cosa sia – era alle porte. Tuttavia, dall’epoca di Impero, il mondo ha conosciuto un solo vero movimento rivoluzionario (le primavere arabe), che si è concluso in modo esattamente contrario a quanto immaginato dalla teoria delle cosiddette moltitudini, e cioè con la vittoria dei regimi filo-capitalistici e sostanzialmente conservatori, se non seguaci di un islamismo radicale, in Egitto, Tunisia, Libia, Turchia ecc. Oggi, l’opposizione all’Occidente è diffusa nel mondo, ma parla il linguaggio della religione e non dell’illuminismo e tanto meno dell’emancipazione. Tra i tentativi di risalire alle origini della crisi del pensiero politico contemporaneo – oscillante tra l’apologia ripetitiva e stanca della democrazia liberale e le fughe in avanti escatologiche – si deve segnalare un recente saggio di Matteo Giglioli, in cui si affrontano due categorie centrali della modernità politica, la legittimità e la rivoluzione.3 La seconda appare oggi obsoleta (prescindendo da inguaribili nostalgici del leninismo ancora diffusi tra i cultori di metafisica), mentre la prima è vincolata a un dibattito quasi esclusivamente tecnico-giuridico.4 Tra la fine dell’Ottocento e il primo Novecento, invece, il nesso legittimità/rivoluzione era il cardine di qualsiasi teoria politica degna di questo nome. Non si trattava più di un dibattito sui fondamenti metafisico-religiosi del potere (o meglio sulla loro assenza dopo la rivoluzione francese), come nel pensiero legittimista e letteralmente reazionario di un de Maistre o di un Donoso Cortès. Ora, alla fine del secolo XIX, i partiti socialisti si erano insediati nel cuore d’Europa e minacciavano, se non altro a parole, l’esistenza dell’ordine “vittoriano” che era sopravvissuto alle rivoluzioni del 1848 e sarebbe durato sino alla prima guerra mondiale. Di conseguenza, la questione non era più metafisica, ma politica. 3. M.F.N. Giglioli, Legitimacy and Revolution in a Society of Masses. Max Weber, Antonio Gramsci and the Fin-de-siècle Debate on Social Order, Transactions Publishers, New Brunswick (N.J.)-London 2013. 4. Ma si veda, per una sintesi, D. Sternberger, voce “Legitimacy”, in D. Sills (a cura di), International Encyclopedia of the Social Sciences, vol. 9, MacMillan, New York 1968.
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