364 ottobre dicembre 2014
HEGEL DOPO LA MORTE DELL’ARTE a cura di Francesco Valagussa e Raoul Kirchmayr Hans Blumenberg Non-serietà come qualità storica 7 Raoul Kirchmayr Il regno delle ombre. Arte e spettralità nell’Estetica di Hegel 15 Francesco Valagussa La commedia e il negativo 47 Leonardo Amoroso Hegel, Heidegger e la storia dell’estetica 63 Fabrizio Desideri Hegel e l’opaca origine dell’arte 75 Federico Vercellone Il nichilismo e le nuove forme dell’immaginario tardo-moderno 91 Vincenzo Vitiello “Svanire è dunque la ventura delle venture”? Sulla filosofia estetica di Hegel 103 Massimo Donà La “cosa” dell’arte. Sul rapporto tra agire e patire nell’estetica hegeliana 119 POSTCOLONIALE E REVISIONE DEI SAPERI a cura di Annalisa Oboe Annalisa Oboe Saperi in transito 137 Iain Chambers La sfida postcoloniale, l’Italia e il Mediterraneo 147 Roberto Derobertis La critica italiana tra narrazioni, pratiche sociali e culturali 153 Emanuele Zinato Teoria e critica della letteratura in Italia: sollecitazioni e rischi postcoloniali 160 Davide Zoletto Verso una rilettura postcoloniale dei luoghi dell’educazione 167 Farah Polato Il cinema, il postcoloniale e il nuovo millennio nel panorama italiano 173 Roberto Beneduce Il rumore sordo del sottosuolo. Per un’antropologia postcoloniale 183 POST Petar Bojanic´, Damiano Cantone Jacques Derrida. Lascito delle decostruzioni
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rivista fondata da Enzo Paci nel 1951 direttore responsabile: Pier Aldo Rovatti redazione: Sergia Adamo, Paulo Barone, Graziella Berto, Deborah Borca (editing, deborah.borca@gmail.com), Damiano Cantone, Mario Colucci, Alessandro Dal Lago, Pierangelo Di Vittorio, Giovanna Gallio, Edoardo Greblo, Raoul Kirchmayr, Giovanni Leghissa, Massimiliano Nicoli, Ilaria Papandrea, Fabio Polidori, Rosella Prezzo, Pier Aldo Rovatti, Massimiliano Roveretto, Antonello Sciacchitano, Giovanni Scibilia, Davide Zoletto direzione: c/o il Saggiatore, via Melzo 9, 20129 Milano sito web: autaut.ilsaggiatore.com collaborano tra gli altri ad “aut aut”: G. Agamben, H.-D. Bahr, R. Bodei, L. Boella, S. Borutti, J. Butler, M. Cacciari, A. Cavarero, R. De Biasi, G. Dorfles, M. Ferraris, U. Galimberti, P. Gambazzi, S. Givone, A. Heller, F. Jullien, J.-L. Nancy, A. Prete, M. Serres, G.C. Spivak, G. Vattimo, M. Vegetti, P. Veyne, V. Vitiello, S. Žižek per proposte di pubblicazione: autaut@ilsaggiatore.com Si fa presente che “aut aut” non pubblica recensioni e non accetta testi di ampiezza superiore a 40.000 battute (note e spazi compresi).
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Hegel dopo la morte dell’arte
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a recente ripresa dell’attenzione per l’Estetica di Hegel nel dibattito attuale ha fornito l’occasione per ritornare su un testo fondativo nella storia del pensiero e che, al di là del tramonto degli storicismi, non smette di offrire motivi e temi di discussione, a partire dall’ambigua diagnosi di “morte dell’arte” con cui si è sovente fatta coincidere la posizione filosofica di Hegel. Il tema della “morte dell’arte” rappresenta di per sé un filo conduttore per tornare a riflettere sul motivo filosofico della “fine”, in un tornante storico come quello attuale, nel quale, dagli anni novanta, una certa retorica della “fine” si è presentata nuovamente sulla scena del dibattito pubblico, filosofico e politico, in certi casi anche in modo massiccio. Riprendere a esaminare la sintassi del discorso hegeliano in merito all’arte può comportare due vantaggi: il primo, nella prospettiva della comprensione di Hegel, consiste nel mostrare come appaia più che controverso leggere l’Estetica secondo una retorica della fine di cui occorre saggiare le implicazioni filosofiche e ideologiche, con particolare attenzione agli effetti che essa ha prodotto; il secondo, nella prospettiva di un impiego critico di Hegel, contribuisce a mettere in luce quanto di surrettizio e di ideologico vi sia nella costruzione di tale retorica, che non smette di riprodursi, di circolare nella sfera pubblica e di governare ancora buona parte dei nostri discorsi. Così, da un lato, i saggi di questo fascicolo mirano a continuare un percorso di analisi del testo 3
hegeliano che combatte con la scolastica delle formule con cui è stato spesso cristallizzato e, dall’altro, grazie al ritorno a Hegel, puntano a riconoscere le forme in cui si riproduce la sintassi della “fine” e la “logica” che la struttura, collegandole in pari tempo alla nostra esperienza culturale di soggetti storici. Non si tratta allora di rileggere Hegel solo come un classico del canone filosofico moderno, com’è scontato che sia, ma di esaminare quali ulteriori risorse discorsive possano essere ritrovate nel suo testo alla luce dell’attuale quadro storico e culturale che – segnato da una crisi perdurante – della parola “fine” ha fatto appunto uno dei suoi emblemi. Se il dispositivo linguistico-ideologico della “fine” contrappone apparentemente il “nuovo” e il “giovane” al “vecchio”, così come il “vivo” al “morto”, può dunque essere un efficace atout critico analizzarlo a partire da Hegel e dalla sua Estetica, nella quale i temi dello storico, del patetico, del tragico e del comico forniscono altrettante “figure” con cui possiamo pensare il nostro quadro odierno, dove il “nuovo” si mescola al “vecchio” e il “vecchio” si presenta con il volto del “nuovo”, senza che sia facile né agevole distinguere i tratti dell’uno da quelli dell’altro. Oltre a essere un insuperato tentativo di conferimento di senso storico universale all’arte, l’Estetica di Hegel è tanto un campo di analisi delle forme sensibili nelle quali le forze storiche si rendono visibili, quanto l’ambito di un contro-movimento con cui il pensiero stabilisce un rapporto con quelle forze, nella sfera del concetto e in nome della conciliazione. Se l’Estetica hegeliana trova qui il suo senso, da qui si può anche far ripartire l’analisi affinché l’estetica possa rivendicare un ruolo critico nella comprensione dei processi attuali di costruzione della dimensione culturale, mirando a evidenziare la dissonanza e la divergenza che l’arte produce rispetto al discorso che le viene cucito addosso. Così, rispetto al grande archivio di ciò che è stato detto e scritto sull’Estetica di Hegel, all’accumulo delle note a piè di pagina e delle glosse al testo, rileggere Hegel ci può forse portare a riconoscere – al netto della dimensione ideologica del suo progetto filosofico – una straordinaria riserva e un’eccedenza di senso con cui possiamo provare a intessere un altro discorso rispetto a quello che vuole sì riconoscere 4
l’arte (e, con essa, pure il discorso filosofico sull’arte), ma come forma addomesticata di un dissenso semplicemente rappresentato, sostituendo dunque il proprio progetto di controllo a un progetto di emancipazione che passa attraverso la dimensione del sensibile. Ăˆ in nome di quest’ultimo che abbiamo ritenuto fosse importante rilanciare la posta critica in gioco. [R.K., F.V.]
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Archivio Enzo Paci
A oltre trent’anni dalla morte di Enzo Paci, con il moltiplicarsi degli studi e delle iniziative legate alla sua opera, l’Archivio chiede a chi ha scritto e scriva su Enzo Paci di voler gentilmente inviare copia del proprio lavoro all’Archivio stesso. Lo scopo evidente è quello di riunire e fare conoscere lavori e ricerche, e i loro autori, per favorire altri studi. Nello stesso tempo si intende garantire la presenza di una collezione completa di scritti di e su Enzo Paci nel luogo che ne conserva manoscritti e biblioteca. L’invito si rivolge anche a chi abbia scritto una tesi di laurea o una dissertazione di dottorato su Enzo Paci e/o sul contesto culturale in cui si è mossa la sua attività. Al momento la collezione è parziale e sembra utile completarla. Si potrà in questo modo compilare anche un elenco degli studiosi interessati. Inoltre si è avviata l’acquisizione e la catalogazione dell’epistolario. Chiediamo pertanto a chi sia in possesso di lettere di Enzo Paci di collaborare, inviandoci fotocopia delle lettere; se ne ha tenuto copia e non ha nulla in contrario, sono benvenute anche fotocopie delle lettere del corrispondente. L’indirizzo al quale inviare il materiale è:
Archivio Enzo Paci via Beato Angelico 5 20133 Milano Ringraziamo tutti anticipatamente e raccomandiamo di accludere al materiale anche il proprio recapito.
Non-serietà come qualità storica HANS BLUMENBERG
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a filosofia può essere la riserva del nonserio? E dunque lo sgravarsi dell’esserci dell’uomo da quello stato di eccezione che si è autoprescritto, nel quale non può più o non può ancora prendere fiato, né in chiave lirica, né culinaria, né attraverso il comico, né tramite l’istante dell’essere-impolitico? La risposta di Marquard1 a questa domanda è affermativa. Ma la motivazione di questa risposta affermativa mi sembra essere la seguente: la storia può esserlo, dunque deve esserlo. E perché dovrebbe esserlo? Perché altrimenti niente e nessuno potrebbe più esserlo. La motivazione mi sembra dipendere da un presupposto che non mi piace. Per un hegeliano una cosa è passata in giudicato: se qualcosa è morto, allora è defunto. A partire da questa premessa sorge il complesso della filosofia come l’ultimo rifugio del non-serio. Essa è la sopravvissuta. La filosofia è tutto questo ma soltanto perché l’arte non può Fonte originale: H. Blumenberg, “Unernst als geschichtliche Qualität”, in Poetik und Hermeneutik, a cura di W. Preisendanz e R. Warning, Fink, München 1976, vol. VII: Das Komische, pp. 441-444. Si è deciso di tradurre il termine Unernst mediante l’espressione “Non-serietà”, non essendo possibile rendere in un’unica parola tutte le sfumature dell’originale tedesco. 1. Verosimilmente Blumenberg si riferisce alle tesi esposte in O. Marquard, Schwierigkeiten mit der Geschichtsphilosophie, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1973. [N.d.C.]
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più esserlo. Non lo è più – forse. Ma perché non può più esserlo? A causa del verdetto hegeliano. L’hegeliano non si è svincolato dalla fine di questo e di quello. Egli sa soltanto questo, che dopo la filosofia non viene nient’altro. A essa bisogna attenersi, anche di fronte alla più grande apatia. L’arte, in quanto fatta per assumere tutte le manifestazioni del non-serio, è giunta alla fine con la serietà della spiritualizzazione del corpo tipica del cristianesimo – o anche un filo più tardi. Tutto ciò non può essere provvisorio, dev’essere definitivo, tocca al prossimo – ovvero proprio all’immortale filosofia (il filosofico in quanto ultima e sublime astuzia della ragione!). L’hegeliano non può considerare possibile – non può più farlo infatti – che si diano degli intermezzi comici nella storia, per esempio degli intermezzi escatologici (quale frivola contradictio in adjecto!). Una fase dell’apatia nei confronti dell’arte, o meglio, possibilità artistiche creative, come interim, come pausa di respiro, questo è ciò che è intollerabile per il filosofo della storia di ascendenza hegeliana. Da ciò la filosofia riceve la sua chance di natura totalmente diversa, benché sia la felicità al posto di tutte le felicità che giacciono inermi, la più inverosimile di tutte le chance – ma essa può e dunque essa deve. Ciò accade assolutamente contro tutte le attese. Nella sua storia la filosofia ha operato non in maniera costante, ma a sbalzi, nell’incremento della serietà. Perché? Perché essa ha reso sempre più pesante di quanto già non fosse non soltanto, per esempio, possedere delle conoscenze, ma anche voler conoscere come esse fossero possibili e quale grado di attendibilità avessero. La filosofia si è sempre pensata entro condizioni limite, ha sempre riflettuto su situazioni limite date, intendo dire di fronte a tutte le situazioni limite epocali. Un criterio, piuttosto formale, e generico quanto al contenuto, rispetto a ogni cambiamento epocale sembra essere che questa svolta è connessa con la coscienza di una nuova serietà. La totalità degli atteggiamenti, delle concezioni e delle azioni del passato viene stigmatizzata come indice di una certa spensieratezza – non era 8
Il regno delle ombre. Arte e spettralità nell’Estetica di Hegel RAOUL KIRCHMAYR
1. Rileggere l’Estetica? È possibile dire che l’arte è morta? È ancora possibile dirlo quando il Sapere Assoluto, se ne resta qualcosa, è svanito con il suo ultimo rintocco funebre? Hegel, letteralmente, non ha mai pronunciato un simile decreto,1 tuttavia il motivo della morte dell’arte si è costantemente intrecciato a un’ideologia della fine che si è presentata come prognosi dell’Occidente, nei termini della descrizione di un avvenuto declino di cui era necessario riconoscere i segni, oppure, ottimisticamente, come segno che ha sancito il compiersi di un’epoca, disigillandone la verità. Nel peggiore dei casi, associare il motivo della morte dell’arte all’estetica di Hegel è diventato un locus communis conservatore, in nome di un senso dell’arte che sarebbe andato perduto con la crisi del nostro tempo. Nel migliore, tale motivo è diventato occasione per riflettere sull’incerto statuto dell’arte oggi e sulle discipline che si sono legittimate come saperi sull’arte in nome di un discorso che si vuole scientifico, in primis la storia dell’arte così come, più recentemente, la semiotica, la cui fortunata parabola si è ormai esaurita. In entrambi i casi non è interessante affaticarsi nel gesto, ancora crociano, di distinguere ciò che è vivo da ciò che è morto nell’Este1. Nelle citazioni faremo riferimento alle due principali edizioni italiane dell’opera, quella Einaudi, curata da Nicolao Merker (Estetica, Einaudi, Torino 1967 e 1997, 2 voll.) e quella, più recente, Bompiani, curata da Francesco Valagussa (Estetica, secondo l’edizione di H.G. Hotho, con le varianti delle lezioni del 1820/21, 1823, 1826, Bompiani, Milano 2012, con testo originale a fronte). Cfr. G.W.F. Hegel, Estetica, cit., Bompiani, pp. 170-171; Einaudi, vol. I, p. 16.
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tica, o di compiere un’operazione di riattualizzazione di cui non si avverte culturalmente la necessità, mossi da intenti ancorché nobili – come la salvaguardia del canone filosofico – oppure di museificare Hegel per un qualsiasi motivo – come, ad esempio, per una capitalizzazione simbolica giocata sul suo nome come significante padrone. Allora quale sarebbe la posta in gioco di un’altra lettura dell’Estetica di Hegel, posto che quest’altra lettura sia possibile? Qualora si fosse scelto di avventurarsi in essa, con quali protocolli di lettura? In termini più generali di strategia culturale, in nome di quali battaglie può essere condotta una rilettura di Hegel? Su quale fronte ci si dovrà collocare? Per affermare che cosa? In via programmatica mi limito qui a enunciare per punti alcuni elementi di una lettura che possa cogliere ancora dei “resti” testuali: resistenze all’interpretazione che facciano ancora emergere dei problemi da pensare. Il primo elemento è un orecchio filosofico che possa cogliere delle eccedenze di senso nel testo, svincolandolo così da un’interpretazione pregiudicata da una lunga tradizione canonizzante. Il secondo elemento vede in un close-reading del testo la strategia ermeneutica adatta a cogliere le eccedenze criptate in esso. Il terzo si rifà alla psicoanalisi come attenzione agli effetti di codice che il discorso hegeliano produce in termini di ambiguità, Unheimlichkeit, doppiezza, aporeticità ecc. Con questi tre elementi, che assumeremo come protocolli di lettura, da un lato non potremo che leggere il testo dell’Estetica in modo fedele.2 Dall’altro lato sarà indispensabile rivendicare una certa qual infedeltà al testo, per tentare di non sprofondarlo ulteriormente nell’archivio delle pur necessarie analisi storiche e filologiche. Così seguiremo il movimento del pendolo tra la fedeltà e l’infedeltà al testo in alcuni suoi punti, molto circoscritti. Non saremo noi a muovere il pendolo ma, curiosamente, potremo forse 2. Il testo dell’Estetica nacque già pluristratificato e, da sé, richiederebbe un’ulteriore incorniciatura quanto alla sua storia, alla sua composizione a partire dalle Lezioni di estetica, alla sua rapida canonizzazione filosofica per mano di Hotho. Su questi punti relativi alla storia del testo, rimando a F. Valagussa, “Saggio introduttivo”, in G.W.F. Hegel, Estetica, cit., Bompiani, specie le pp. 9-17; utili sono pure le pagine introduttive di P. D’Angelo a G.W.F. Hegel, Lezioni di estetica, Laterza, Roma-Bari 2000, pp. VI-XXXVI.
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notare che sarà il testo stesso a oscillare, divenendo così esso stesso la condizione di possibilità di un’altra lettura. 2. Il “regno delle ombre” Partiamo da una prima oscillazione: si tratta di una parola composta che si presenta tre volte nell’Estetica, con una piccola variazione tra la prima e la seconda occorrenza. Ogni volta Hegel indica l’ambito dell’arte nel suo complesso, e sempre si tratta di ombre (Schatten). Il primo termine a comparire è Schattenreich (“regno delle ombre”), il secondo è Schattenwelt (“mondo delle ombre”).3 Nel primo caso la parola non solo allude al poema di Schiller intitolato Das Reich der Schatten, che Hegel, per inciso, ricorda in un’altra pagina dell’Estetica,4 ma essa designa soprattutto l’arte nel senso di un “dominio” (Reich) che si estende tra la sfera del sensibile e quella dell’intelligibile e che, per sistema, Hegel giudica appartenere al passato quanto al suo compito di manifestare una verità universale e oggettiva. Così, nel sistema hegeliano, l’arte è contemporaneamente il primo ambito del Sapere Assoluto e il passaggio tra il sensibile e l’intelligibile. Nel secondo caso si tratta di un “mondo” (Welt) come totalità che si è compiuta nella sua dimensione storica. Il mondo dell’arte è infatti il primo circolo che si chiude nel processo di costruzione del Sapere Assoluto. Nel momento in cui, compiendosi nel romantico, l’arte si chiude su di sé, essa ha esaurito il suo compito storico. Soffermiamoci sul carattere del Reich come passaggio, per descriverne il movimento. Nella dialettica hegeliana il transito dal sensibile all’intelligibile – che è lo specifico dell’arte – corrisponde a un duplice movimento inverso: il sensibile si eleva nell’intelligibile e l’intelligibile discende nel sensibile. Al centro di questo incrocio tra i due movimenti si trova il sensibile stesso in quanto luogo della manifestazione dell’Idea. Tuttavia, il sensibile come pivot del doppio movimento incrociato può e deve essere definito 3. In entrambi i casi le traduzioni dell’edizione Einaudi dell’Estetica e dell’edizione Bompiani coincidono. 4. Cfr. G.W.F. Hegel, Estetica, cit., Bompiani, pp. 2714-2715; Einaudi, vol. II, p. 1282.
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La commedia e il negativo FRANCESCO VALAGUSSA
Dieses Verweilen ist die Zauberkraft, die es in das Sein umkehrt.
1.
La commedia è il risultato dell’arte. Questo risultato è il benessere (Wohlsein). Il cielo è spopolato,1 le rappresentazioni delle essenze divine svaniscono nelle nuvole.2 Il Bello e il Bene sono vuoti e in balia dell’arbitrio individuale.3 Nel Sé singolare dileguano gli dèi e tutte le determinazioni essenziali. In quell’istante ha luogo “un benessere, un lasciarsi andare al benessere da parte della coscienza, un benessere tale che al di fuori di questa commedia non se ne trova più uno simile”.4 Con queste parole si conclude la religione artistica nella Fenomenologia dello spirito e con le seguenti si apre la religione rivelata: “Mediante la religione dell’arte, lo Spirito è passato dalla forma della sostanza a quella del soggetto”.5 Si tratta dell’obiettivo dichiarato da Hegel nella Vorrede: intendere il vero non come sostanza ma altrettanto bene (ebensosehr) come soggetto.6 Il benessere è la sensazione di pienezza dell’essere in quanto superamento della scissione fondamentale tra pensare ed essere, 1. G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes (1807), in Werke, a cura di E. Moldenhauer e H.K. Michel, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1970, vol. III, p. 540; trad. di V. Cicero, Fenomenologia dello spirito, Bompiani, Milano 20012, p. 973. 2. Cfr. ivi, p. 543; trad. p. 977: “Sono nuvole, sono fumo che sparisce allo stesso modo di quelle rappresentazioni”. 3. Cfr. ivi, p. 544; trad. p. 979. 4. Ibidem. 5. Ivi, p. 545; trad. p. 981. 6. Cfr. ivi, p. 23; trad. p. 67.
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tra soggetto e oggetto: tale benessere preannuncia il giudizio infinito “la cosa è Io”,7 dove la cosa è rimossa e conservata in quanto rimossa, poiché sussiste soltanto nel suo rapporto verso Io. Questo è il senso della proposizione speculativa, dove la sostanza non è annullata, ma restaurata solo mediante Io e il suo rapporto verso Io.8 La cosa qui è pura utilità. Il “vero” non è più contenuto da comprendere, morta sostanza da contemplare, ma è movimento dell’autocoscienza che si sacrifica e produce la verità, la sostanza in quanto soggetto. L’arte assoluta è l’attività in cui lo Spirito ha esaurito “ogni esistenza inconscia e ogni determinazione salda”: è “la notte in cui la sostanza fu tradita e si fece soggetto”.9 2. Già nella Fenomenologia dello spirito si dice che l’unità tra la cosa e l’io non è più quella inconscia dei misteri: a conclusione della religione artistica “il Sé coincide con il personaggio così come coincide con lo spettatore”.10 Questo spettatore si trova perfettamente a suo agio, è “di casa” sul palcoscenico: l’azione scenica non viene avvertita come oggetto esterno, è il suo stesso agire. Nella grande Estetica si leggono parole non molto diverse: “Noi stessi come spettatori partecipiamo al segreto e, ben sicuri di noi dinnanzi a ogni astuzia e ad ogni inganno, spesso condotto molto seriamente contro il migliore dei padri o degli zii, ecc., possiamo ridere di ogni contraddizione che in questi imbrogli c’è in se stessa o viene alla luce”.11 È il servo che mette al corrente il pubblico dei suoi intrighi: così cade l’illusione scenica, lo spazio che intercorre tra soggetto e oggetto, la cosa è Io e lo spirito ne gode. Gode perché tutte le contraddizioni della cosa sono superate: non perché queste scompaiano, piuttosto perché il Sé si rende conto di esserne stato lui stesso il produttore. Il vero non è sostanza già data, bensì movimento del soggetto produttore. “Das 7. Cfr. ivi, p. 577; trad. p. 1039. 8. Cfr. ibidem. 9. Ivi, p. 514; trad. p. 929. 10. Cfr. ivi, p. 544; trad. p. 979. 11. Id., Ästhetik (1838), in Werke, cit., vol. XV, p. 571; trad. a cura di N. Merker e N. Vaccaro, Estetica, Einaudi, Torino 1997, vol. II, p. 1379.
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Werk nicht als Tat getan, sondern als gedachtes Resultat.”12 Il benessere è la rassicurazione dello spirito certo della propria verità: un produrre per sé. Tale condizione coincide con la dissoluzione dell’arte, di ogni forma, figura e rappresentazione. Dove cosa e Io si congiungono non vi può essere più alcuna Dar-stellung, alcuna ri-presentazione. È lo spazio scenico a essere inghiottito dal Sé in quanto pura negatività. La notte in cui la sostanza si fa soggetto è superamento di ogni determinatezza sostanziale. 3. Bataille sarebbe tornato su queste pagine capitali dell’estetica hegeliana, mostrando come la commedia sia innanzitutto e soprattutto rapporto con la morte, con il sacrificio stesso: “Nel sacrificio, il sacrificante si identifica con l’animale messo a morte. In questo modo egli muore vedendosi morire, e anzi in una certa maniera, per sua volontà, all’unisono con l’arma del sacrificio. Ma è una commedia”.13 L’uomo è l’animale che si illude, nel senso che si mette in gioco nella commedia, fino alla morte: “È necessario, ad ogni costo, che l’uomo viva nel momento in cui muore veramente, o che viva con l’impressione di morire veramente”.14 La presenza dell’universale è la strategia mediante cui la metafisica occidentale supera la morte del sensibile. Il problema è come si giunge a costruire tale universale: la morte qui deve essere considerata con la massima serietà. L’universale uccide il sensibile: questa morte irrecuperabile viene poi detta nel linguaggio dell’universale. La morte del sensibile apre la scena, apre il teatro e rende possibile parlare di quella morte. Ma tale “dire la morte” è ormai finzione: l’autentica morte rimane ineffabile; quella rappresentata è la morte finta, è morte raffigurata sulla scena. In termini teologici, è chiaro come il farsi-parola da parte del 12. Id., Fragmente historischer und politischer Studien aus der Berner und Frankfurter Zeit (1795-1798), in Werke, cit., vol. I, § 19, p. 446: “L’opera non come cosa fatta, bensì come risultato pensato”. 13. G. Bataille, Hegel, la mort et le sacrifice (1955), in Œuvres complètes, Gallimard, Paris 1988; trad. di F.C. Papparo, “Hegel, la morte e il sacrificio”, in Al di là del serio e altri saggi, Guida, Napoli 2000, p. 159. 14. Ivi, p. 160.
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Hegel, Heidegger e la storia dell’estetica LEONARDO AMOROSO
1.
Nel 1835, poco dopo la morte di Hegel, iniziò la pubblicazione delle sue lezioni di estetica.1 Quest’opera epocale conclude quello che si può ben chiamare il secolo d’oro dell’estetica tedesca, anzi dell’estetica in generale, iniziato nel 1735, quando Baumgarten aveva proposto una nuova scienza, definendola appunto, con un neologismo, “Estetica”.2 Hegel, col suo pensiero storico, definisce la propria estetica anche in riferimento allo sviluppo che essa aveva avuto appunto in quel secolo, presentandosene al contempo esplicitamente come il coronamento. Ancora un secolo dopo, Heidegger, in una certa tappa del suo 1. La curò l’allievo Heinrich Gustav Hotho, che concluse l’edizione nel 1838 e che, negli anni 1842-45, ne pubblicò poi una seconda versione, riveduta. Non possiamo qui trattare la questione dell’attendibilità del lavoro redazionale di Hotho; negli ultimi decenni, comunque, sono state pubblicate varie Nachschriften (cioè appunti presi dagli studenti) dei corsi hegeliani e una di esse è stata anche tradotta in italiano: G.W.F. Hegel, Lezioni di estetica, a cura di P. D’Angelo, Laterza, Roma-Bari 2000. Alla traduzione di N. Merker e N. Vaccaro dell’edizione postuma (G.W.F. Hegel, Estetica, Einaudi, Torino 1967) si è aggiunta recentemente la nuova traduzione di F. Valagussa (con originale a fronte e con alcune significative “varianti”, tratte dalle varie Nachschriften, a piè di pagina): G.W.F. Hegel, Estetica, Bompiani, Milano 2012. È a quest’ultima che si farà qui riferimento. Recentissimamente è inoltre uscita la guida L’estetica di Hegel, a cura di M. Farina e A.L. Siani, il Mulino, Bologna 2014. 2. Cfr. A.G. Baumgarten, Meditationes philosophicae de nonnullis ad poema pertinentibus (1735), §§ 115-117; trad. di P. Pimpinella e S. Tedesco, Riflessioni sulla poesia, Aesthetica Edizioni, Palermo 1999, pp. 71-72. Il progetto fu poi realizzato da Baumgarten nella sua Aesthetica (1750-58); trad. a cura di S. Tedesco, L’Estetica, Aesthetica Edizioni, Palermo 2000.
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pensiero sempre itinerante, elabora una filosofia dell’arte3 che non vuole essere però un’“estetica”, ma costituirne piuttosto un suo oltrepassamento, nell’ambito di un più generale oltrepassamento della metafisica. Anche il pensiero di Heidegger, come quello di Hegel, è dunque storico (peraltro, anche in questo caso, secondo un modo molto filosofico di intendere e di praticare la storia). Perciò anche Heidegger accompagna la propria filosofia dell’arte, in quello stesso periodo, con un serrato confronto con i momenti più significativi della storia dell’estetica, Hegel compreso.4 Ma cominciamo con un breve cenno alla storia dell’estetica secondo Hegel.5 2. Nella sua presentazione dell’estetica,6 Hegel ne definisce innanzi tutto l’oggetto: l’arte bella. Per questo “il nome Estetica non è propriamente del tutto calzante, dal momento che ‘Estetica’ indica più precisamente la scienza del senso, del sentire”. Ma è proprio per questo – osserviamo – che Baumgarten l’aveva scelto: l’estetica era infatti per lui innanzi tutto una “scienza della conoscenza sensibile”7 che solo nel contesto della filosofia leibniziano-wolffiano in cui egli si muoveva poteva poi essere al contempo una filosofia dell’arte bella. Come tale l’avevano piuttosto sviluppata i suoi continuatori (a partire dall’allievo Georg Friedrich Meier). È a loro – e non direttamente a Baumgarten – che Hegel qui pensa, quando accenna alla “scuola di Wolff”, nella quale “si esaminavano le opere 3. Cfr. M. Heidegger, Der Ursprung des Kunstwerkes (1936, ma pubblicato solo nel 1950); trad. di V. Cicero, “L’origine dell’opera d’arte”, in Holzwege. Sentieri erranti nella selva, Bompiani, Milano 2002. Su di esso cfr. innanzi tutto F.-W. von Herrmann, La filosofia dell’arte di Martin Heidegger. Un’interpretazione sistematica del saggio “L’origine dell’opera d’arte” (1980), trad. di M. Amato, I. De Gennaro, C. Aquino, Marinotti, Milano 2001. 4. Oltre all’inizio della Postfazione del saggio sopra citato (ma “in parte redatta successivamente” al medesimo, come l’autore dichiara: cfr. M. Heidegger, Holzwege. Sentieri erranti nella selva, cit., p. 375), si farà qui riferimento soprattutto a M. Heidegger, “La volontà di potenza come arte” (1936-37), in Nietzsche, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1994. 5. Ne ho discusso un po’ più dettagliatamente in Estetica e storia dell’estetica in Hegel, in P. D’Angelo et al. (a cura di), Costellazioni estetiche. Dalla storia alla neoestetica. Studi in onore di Luigi Russo, Guerini, Milano 2013. 6. Cfr. G.W.F. Hegel, Estetica, cit., pp. 149-151 (a cui rimandano, salvo diversa indicazione, anche le citazioni che seguono). 7. A.G. Baumgarten, L’Estetica, cit., § 1, p. 27.
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d’arte tenendo conto dei sentimenti che esse dovevano suscitare”. Più precisamente, il riferimento è con tutta probabilità a Moses Mendelssohn, che Hegel cita più avanti appunto in questo senso.8 Un’interpretazione analoga, e dunque altrettanto “strabica” dell’estetica di Baumgarten9 era stata data anche da Kant nella prima Critica, facendo curiosamente valere contro di lui il significato etimologico di “estetica”.10 Ma proprio il significato etimologico, invece, è quello che disturba Hegel. Peraltro, per lui, il nome, “in quanto puro nome, è indifferente, e inoltre nel frattempo è passato nel linguaggio comune a tal punto che, come nome, può essere mantenuto”. Un altro nome possibile – argomenta – sarebbe quello di “Callistica”. Tuttavia, questo termine non solo non ha avuto fortuna, ma sarebbe comunque inadeguato anch’esso, dato che includerebbe “il bello in generale”, quindi anche quello della natura, che era stato anzi privilegiato – ricordiamo per inciso – da Kant11 e che invece – Hegel argomenta subito dopo – non può ovviamente rientrare in una filosofia dello spirito, dove solo il bello dell’arte ha diritto di cittadinanza.12 Tuttavia, anche riguardo all’arte occorre una precisazione. Per motivi simili a quelli per cui esclude il bello di natura, Hegel esclude anche l’arte in senso ampio (che invece Kant ancora considerava), comprendente cioè anche l’arte non bella.13 Egli conclude la sua presentazione appunto con questa terza limitazione, oltre a quelle 8. G.W.F. Hegel, Estetica, cit., p. 223. Cfr. anche Id., Lezioni di estetica, cit., p. 16. Moses Mendelssohn nel 1755 aveva scritto un saggio Über die Empfindungen; trad. di L. Lattanzi, “Sui sentimenti”, in Scritti di Estetica, Aesthetica Edizioni, Palermo 2004. 9. Solo in tempi recenti l’opera di Baumgarten ha avuto l’attenzione che merita. Ciò è accaduto anche perché la sua concezione gnoseologica dell’estetica è per certi versi ridiventata attuale dopo la crisi dell’estetica come filosofia dell’arte bella. 10. Cfr. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft (1781, 17872), § 1, n. 1; trad. di A.M. Marietti, Critica della ragione pura, Rizzoli, Milano 1998, p. 160. Nella terza Critica Kant, in base a un mutamento del suo pensiero, modifica il suo uso dell’aggettivo “estetico” (senza peraltro risemantizzare il sostantivo “estetica”) e definisce appunto “estetiche” le “valutazioni” che “riguardano il bello e il sublime della natura o dell’arte” (cfr. la Prefazione della Kritik der Urteilskraft, 1790; trad. di L. Amoroso, Critica della capacità di giudizio, Rizzoli, Milano 19982, p. 69). 11. Cfr. I. Kant, Critica della capacità di giudizio, cit., § 42, p. 407. 12. Cfr. G.W.F. Hegel, Estetica, cit., pp. 151-153. 13. Cfr. I. Kant, Critica della capacità di giudizio, cit., §§ 43-44, p. 415 sgg.
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Hegel e l’opaca origine dell’arte FABRIZIO DESIDERI
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na fine infinita. Se volessimo cogliere con la massima evidenza cosa intenda Hegel per “cattivo infinito” potremmo considerare le interminabili interpretazioni che si sono sviluppate a proposito della tesi circa “la fine dell’arte” contenuta nella sua “estetica”, ovvero nelle lezioni da lui dedicate a più riprese (tra il 1818 e il 1828-29) a questo tema. Delle lezioni hegeliane sull’estetica possediamo, come noto, sia la monumentale rielaborazionesistemazione fornita da Heinrich Gustav Hotho nel 18351 sia le diverse Nachschriften (tra cui quella relativa alle lezioni del 1823 a opera dello stesso Hotho2) tuttora in corso di pubblicazione a cura dello Hegel Archiv3 e sempre più al centro dell’attenzione della Hegel-Forschung. La consapevolezza della necessità di considerare con maggiore vigilanza critica molti dei topoi messi in circolazione dalla ricezione dell’Estetica di Hegel/Hotho prima del lavoro 1. Vedi da ultimo l’edizione italiana con testo a fronte a cura di Francesco Valagussa, da segnalare anche perché dei passi significativi riporta le varianti contenute nelle Nachschriften delle lezioni a opera di Hotho e di altri allievi: G.W.F. Hegel, Estetica, secondo l’edizione di H.G. Hotho, con le varianti delle lezioni del 1820/21, 1823, 1826, Bompiani, Milano 2012 (d’ora in poi Estetica/Hotho). 2. G.W.F. Hegel, Vorlesungen über die Philosophie der Kunst, a cura di A. GethmannSiefert, Felix Meiner, Hamburg 2003. Questa edizione si basa sul testo dell’edizione critica pubblicata nel 1998 dalla stessa studiosa; su quest’ultima si basa anche l’ottima traduzione italiana a cura di Paolo D’Angelo: G.W.F. Hegel, Lezioni di estetica, trad. e introduzione di P. D’Angelo, Laterza, Roma-Bari 2000 (d’ora in poi Estetica/1823). 3. Per un elenco delle Nachschriften finora pubblicate si veda la Bibliografia contenuta in M. Farina, A.L. Siani (a cura di), L’estetica di Hegel, il Mulino, Bologna 2014, pp. 249-250.
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critico-filologico intorno alle Nachschriften ha riguardato più che altro la cerchia ristretta degli specialisti. Intorno e a partire dalla nozione di “fine dell’arte” – un tema che nella cultura esteticofilosofica italiana si è semplificato in quello meno concettualmente sfumato di “morte dell’arte” – si sono spese e si continuano a spendere buona parte delle pagine dedicate all’estetica hegeliana, non solo a opera degli specialisti ed estetologi, ma di filosofi in genere, storici dell’arte, critici letterari e così via. Spesso il tema della fine o morte dell’arte si presenta con colpevole leggerezza come un tema da leggersi in sintonia con quello benjaminiano relativo a una (presunta) morte dell’aura4 o, alternativamente e talvolta congiuntamente, con quello di ascendenza heideggeriana relativo alla tecnica come compimento-dissoluzione della metafisica. Incuranti dell’effettiva consistenza della tesi e di cosa realmente possa implicare limitatamente a Hegel, si continua a fare surf sull’onda sempre più fiacca di una tesi “epocale” circa la fine/morte dell’arte. Per affermarla o per negarla. Per sostenere che essa non si può intendere banalmente oppure per contrapporre che si tratta dell’idea a fondamento di tutta l’arte contemporanea, da Duchamp in poi. E via estenuandosi in acrobazie ermeneutiche ed esegetiche sempre più goffe. Ponendosi raramente il problema di come la straordinaria vitalità dell’arte novecentesca possa essere letta come una fine o addirittura una morte. Sorvolando il più delle volte sulla componente di “diceria” all’origine del topos stesso. Come viene rilevato, almeno nel titolo, in un volume di Eva Geulen, apparso presso Suhrkamp nel 2002: Das Ende der Kunst. Lesarten eines Gerüchts nach Hegel. Un anonimo commento online5 che segnala la recensione su “Die Zeit” del libro della Geulen6 riassume una vicenda tutt’ora in corso in questi termini: 4. Perché le tesi benjaminiane circa il declino dell’aura nell’epoca della riproducibilità tecnica non siano da intendere come una “morte” lo spiego in F. Desideri, Aura ex machina, “Rivista di estetica”, 1, 2013, pp. 33-52. 5. In “perlentaucher.de / das Kulturmagazin”: <www.perlentaucher.de/autor/eva-geulen.html> (visitato il 20 maggio 2014). 6. Cfr. L. Heidbrink, Grabreden ohne Ende, “Die Zeit”, 29 agosto 2002, a proposito di E. Geulen, Das Ende der Kunst. Lesarten eines Gerüchts nach Hegel, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2002.
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“Annunciare la fine dell’arte [...] non è niente di nuovo. Nuovo non è nemmeno mettere in dubbio questa fine”. Nel mezzo all’astratta contrapposizione tra affermazionismo e negazionismo della “fine dell’arte” nach Hegel e all’interno degli stessi estremi sta il cattivo infinito delle interpretazioni. Alimentato, non da ultimo, dal fatto che non disponiamo a questo proposito di fonti primarie, ma di trascrizioni, appunti. Non del testo, ma del fantasma di esso: di quel che avrebbe potuto essere. Restando alla lettera degli appunti, noi non troviamo – come noto – nessuna enunciazione della morte dell’arte, nessuna tesi circa la sua epocale fine. Troviamo enunciata una tesi assai più sottile e più consona a essere connessa con quanto Hegel dice a proposito dell’arte almeno a partire dai Progetti di sistema jenesi e dalla Fenomenologia e, quindi, nelle differenti edizioni dell’Enciclopedia (del 1817, 1827 e 1830). La tesi di Hegel, quale troviamo formulata sia nelle trascrizioni delle Lezioni sia nella loro rielaborazione/sistemazione dell’allievo, riguarda il fatto che l’arte “è nella sua serietà per noi un passato”: “Die Kunst in ihrem Ernst ist uns Gewesenes”. Questo ormai tutti lo sanno – mi si obietterà. Tutti o molti lo sanno, ma troppi se ne dimenticano. Trascurando, con imperdonabile leggerezza speculativa, quanto l’esser per noi un passato dell’arte possa significare in Hegel. Solo in quanto è un “qualcosa di passato”, l’arte – leggiamo ancora – può essere percorsa nella sua “cerchia” (Estetica/1823, p. 301). Appunto per questo altre forme sono necessarie perché il divino sia “fatto oggetto”: sia conosciuto nella sua obiettività. Noi – continua la trascrizione delle parole hegeliane – “abbiamo bisogno del pensiero”. Ciononostante – precisa – “l’arte è una guisa essenziale della presentazione (Darstellung) del divino, e noi abbiamo il dovere di capire questa forma” (ivi, p. 302). In altri termini, oggetto dell’arte non è il “piacevole” o “la soggettiva abilità”. In questi aspetti tipici della commedia, come attestano le annotazioni immediatamente precedenti, l’arte “ha la sua fine”. Nel comico, “in una soggettività dove l’obiettività si annienta” e “diviene sapere di questo annientamento”, l’arte trova il suo epilogo. Ma non bisogna dimenticare che questo epilogo sta in un circolo, nel circolo in cui l’arte muovendo dal simbolico dispiega 77
Il nichilismo e le nuove forme dell’immaginario tardo-moderno FEDERICO VERCELLONE
1. La scomparsa del medium Una polemica senza fine ci introduce nell’universo contemporaneo dell’immagine. L’immagine non si dà più a riconoscere in quanto universo distinto dal mondo, quale mondo dell’apparenza “sospeso” sulla realtà. Può addirittura accadere che essa introietti il proprio medium. Ed è per l’appunto il medium a rendere riconoscibile l’immagine. Esso la rende percepibile in quanto immagine evitando che si confonda con la realtà. È questa la barriera che non solo oggi ma più volte è stata infranta nella storia dell’immagine, a partire da Zeusi e Parrasio per venire, procedendo in modo assolutamente lacunoso, alle fantasmagorie settecentesche e oggi al 3D. Ed è questa la barriera che dal Settecento tardo a oggi ci siamo abituati a definire come nichilismo. Se andiamo all’origine del problema del nichilismo, al suo affacciarsi nella lettera aperta che Jacobi indirizza a Fichte nel 1799, abbiamo esattamente a che fare con queste coordinate della questione che rinviano a un dissolversi della realtà nell’apparenza come tendenza della contemporaneità. Ciò vale dal 1799 sino a oggi. Scrive Jacobi: “Per il fatto stesso che io risolvendo e smembrando sono giunto ad annullare tutto quello che è al di fuori dell’io, mi si è mostrato che ogni cosa era un bel nulla al di fuori della mia immaginazione libera ma ristretta entro certi limiti”.1 Mentre più avanti Jacobi scrive ancora: “E così, mio caro Fichte, non deve 1. F.H. Jacobi, “Jacobi a Fichte”, in Idealismo e realismo (1787), a cura di N. Bobbio, De Silva, Torino 1948, p. 178.
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prendersela se Ella o chicchessia vorrà chiamare ‘chimerismo’ quella dottrina che io contrappongo all’idealismo, accusandolo di nichilismo”.2 In casi come questi sintetizzati così efficacemente da Jacobi nella sua critica alla filosofia di Fichte (che ebbe peraltro una vastissima risonanza e significato), l’immagine si confonde con l’ambiente circostante. Essa si configura come la realtà o come qualcosa di inquietantemente prossimo a questa. Siamo, per dirla con Oliver Grau, “immersi” nell’esperienza estetica dell’immagine. Sprofondiamo in essa e intratteniamo nei suoi confronti una relazione che non è più semplicemente contemplativa ma interattiva. L’immagine assume il ruolo minaccioso di un soggetto nonostante la chiara consapevolezza che non si ha a che fare con una realtà vivente. Bisogna tuttavia sottolineare che il nichilismo non propone, quantomeno a questo proposito, una novità assoluta. Fa sì piuttosto che la soggettività dell’immagine divenga il carattere preponderante di un’epoca. Che le immagini siano dotate di una loro soggettività è una vecchia vicenda che, più o meno consapevolmente, ci è nota. Basti pensare al mondo delle fiabe e al romanzo gotico per venire sino a Paul Klee. L’immagine acquisisce, in tutti questi casi, uno statuto soggettivo. È un fantasma, un revenant che viene da lontano. Sulla base di questo statuto ambiguo, essa minaccia la condizione quotidiana nel suo tratto più banale e oggettivo. Sembra voler alludere alla possibilità di una morte non definitiva per cui ciò che era un soggetto non è definitivamente divenuto un cadavere, un oggetto. Che il morto sia davvero morto è peraltro uno dei presupposti tanto ovvi da risultare inconfessati (e dunque tanto più degni di interrogazione) della nostra cultura. Esso fonda l’idea di oggettività, per dirla con Hegel, sull’esigenza di cui l’Intelletto si fa latore di “tenere fermo ciò che è morto”.3 In altri termini l’oggettività esiste in quanto essa è il mortuum, ciò che è definitivamente trascorso e 2. Ivi, p. 191. 3. G.W.F. Hegel, La fenomenologia dello spirito (1807), a cura di G. Garelli, Einaudi, Torino 2008, p. 24.
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si è irrigidito, assumendo così le fattezze di ciò che è definitivo. E l’oggettività è, com’è ben noto, la condizione e la premessa della conoscenza e dell’impresa scientifica. I confini tra il vivo e il mortuum sono stati messi in questione dalla peculiare “realtà” dell’immagine venuta a rianimarsi, grazie a un singolare e straniante atavismo, nel mondo contemporaneo. Si mette così anche Hegel in questione da un punto di vista che non sembra toccare direttamente l’estetica ma che, in realtà, la coinvolge profondamente. E che dimostra che i significati messi in moto dall’arte hanno territori di competenza molto più ampi rispetto a quelli che tradizionalmente le vengono riservati quando la si intenda soltanto come il mondo della bella apparenza. Il limite tra il vivo e il morto che sembrava consolidato viene paradossalmente messo in questione dalle tecnologie che sconvolgono i limiti dettati dalla razionalità classica. La cosa non è del resto del tutto nuova. Si prepara a lungo nel tempo. I primi passi moderni della vicenda avvengono quasi in coincidenza con quello che è considerato l’atto di nascita dell’estetica moderna, la pubblicazione della Critica del Giudizio di Kant in cui, com’è ben noto, viene annunciato il presupposto di una bellezza priva di ogni interesse che garantisce, su questa base, la propria autonomia. Per preparare il cammino all’arte museale, e così alla “fine” hegeliana dell’arte. Parallelamente si delinea tuttavia un altro cammino, poco rispettoso nei confronti dell’ortodossia estetica ma in realtà estremamente prolifico e influente. Esso mette capo non a una cultura estetica dell’opera ma a una cultura estetizzante dello spettacolo. È il nichilismo realizzato. Quello che cadrà, quasi due secoli più tardi, sotto la mannaia critica di autori peraltro molto lontani tra loro come Heidegger e Adorno, Debord e Baudrillard. È un cammino che si delinea già a fine Settecento, come rammenta Oliver Grau, grazie alle tecniche della fantasmagoria. Grau rammenta che gli spettacoli nei quali venivano proposte fantasmagorie produssero, già a partire dal XVII secolo, veri e propri effetti terrifici sul pubblico. Per esempio il viaggiatore Rasmussen Walgenstein propose alla corte del re di Danimarca Frederik III 93
“Svanire è dunque la ventura delle venture”? Sulla filosofia estetica di Hegel VINCENZO VITIELLO
1.
Quando decide di lasciare Francoforte per arrischiarsi nei “clamori letterari” di Jena, Hegel non ha ancora pubblicato nulla, ma la “trasformazione in sistema dell’ideale giovanile” è già in fase molto avanzata.1 Di fatto aveva formulato il Grundsatz della sua filosofia già da qualche anno, in quello scritto breve trovato tra le sue carte un secolo più tardi, edito da Franz Rosenzweig col titolo, appropriatissimo, Das älteste Systemprogramm des deutschen Idealismus.2 In esso Hegel esponeva con matura convinzione e piglio polemico la propria prospettiva sulla natura e il fine della filosofia. La natura: dacché “il più alto atto della ragione è un atto estetico”, “il filosofo deve possedere tanta forza estetica quanto il poeta”; “verità e bene solo nella bellezza sono intimamente congiunti”. Il fine: “Monoteismo della ragione e del cuore, politeismo della facoltà di immaginazione e dell’arte, questo è ciò di cui abbiamo bisogno”. Hegel muterà in seguito la terminologia, e con questa i rapporti tra le potenze che sorreggono la vita e la storia dell’uomo, sino a togliere l’arte dal trono su cui nel Systemprogramm l’aveva posta e a non usare più la formula, Mythologie der Vernunft, a 1. Cfr. la lettera di Hegel a Schelling del 2 novembre 1800, in G.W.F. Hegel, Lettere, trad. di P. Manganaro, Laterza, Roma-Bari 1972, pp. 42-44. 2. Id., Das älteste Systemprogramm des deutschen Idealismus (= ÄS), in Werke in zwanzig Bänden (= W), Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1969 sgg., vol. I: Frühe Schriften, pp. 234-236. Cfr. l’edizione critica, con scritti di F. Rosenzweig, O. Pöggeler, D. Henrich, A. Gethmann-Siefert, in C. Jamme, H. Schneider (a cura di), Mythologie der Vernunft, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1984.
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quel ruolo regale adeguata; ma l’impostazione antikantiana del suo pensiero non muterà, e con questa il progetto di tenere unite, alla radice, “ragione” e “senso”, uomo e mondo, senza però mai negare la loro distinzione. Dall’inizio alla fine il problema di Hegel non è l’unità, l’astratta unità che non ha in sé il principio dei molti, ma la relazione; e cioè: l’unità come potenza del molteplice. Nei termini di Hölderlin: Seyn come Urtheil, Urtheil come Seyn.3 La scissione originaria come la vera e unica unità. Scriverà qualche anno più tardi: die Verbindung der Verbindung und der Nichtverbindung, così definendo la vita e insieme la filosofia – la filosofia in quanto vita.4 Questo Grundsatz avrà poi altre formulazioni, volta a volta più determinate e articolate, a seconda dei problemi affrontati nei diversi ambiti scientifici. Ampliandosi e approfondendosi il sistema del sapere, venivano alla luce difficoltà all’inizio neppure sospettate: il “principio” stesso era messo in questione. 2. Muovendo dal Grundsatz, definito nell’ältestes Systemprogramm, possiamo comprendere il senso “vero” della negazione del bello di natura, con cui si apre l’Estetica di Hegel.5 La natura, che Hegel respinge come possibile luogo di bellezza, non è la natura “esterna”, le montagne o il mare in tempesta, il cielo stellato o la calma solenne dell’animale… Ciò che Hegel respinge è la natura “esteriore”, la natura priva dell’alito vitale, la natura ridotta a macchina, al modo stesso in cui respinge lo stato-macchina: perché “non c’è idea della macchina. Solo ciò che è oggetto della libertà, si chiama idea”. Ma se non c’è bellezza nella natura “esteriore”, neppure c’è bellezza “interiore”, bellezza puramente spirituale. Vera, reale bellezza, si ha soltanto nell’arte, nello spirito che alitando vita nella carne, si fa carne, e fa della carne spirito. “La filosofia dello spirito è una filosofia estetica” (ÄS, p. 235). Non c’è bellezza 3. F. Hölderlin, Sämtliche Werke und Briefe, 2 voll., Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 19895, vol. I, pp. 840-841. 4. G.W.F. Hegel, Systemfragment vom 1800, in W, vol. I, p. 422. 5. Cito dalla nuova traduzione italiana con testo tedesco a fronte, curata da Francesco Valagussa, che vi ha premesso un ricco e acuto saggio critico, edita nella collana “Il pensiero occidentale” di Bompiani, Milano 2012.
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nell’interiorità dello spirito, perché…, perché non c’è spirito che non si esteriorizzi in figure sensibili, materiali. Questo rapporto tra interno ed esterno si esprime in varie forme. A partire dal rapporto tra spazio e tempo. Anche banale osservare che la struttura di base del sistema delle arti e della loro successione “storica” è data nell’Estetica dal diverso articolarsi del rapporto spazio/tempo. Dall’architettura alla poesia, dalla pietra lavorata dalla mano dell’uomo alla voce significante articolata in suoni vari, si svolge un unico processo, che è dato dall’interiorizzazione dello spazio nel tempo e dall’esteriorizzazione del tempo nello spazio. Questo processo non scorre soltanto da una forma all’altra dell’arte, attraversa bensì le singole forme artistiche. Dall’epica alla lirica, dalla lirica alla drammaturgia accade la stessa “evoluzione” del rapporto: dall’esteriorità dello spazio all’interiorità del tempo e viceversa. Così detta la “cosa” ha l’aspetto di uno schema astratto, estraneo ai problemi concreti della storia dell’arte. Ma è vero l’esatto contrario. Ciò che muta nel processo delle arti, e quindi nel sistema, è proprio il rapporto tra tempo e spazio. Cambia il loro “significato”. Lo spazio-tempo dell’architettura è affatto diverso dallo spazio-tempo della poesia. Lo spazio dell’architettura è lo spazio materiale, tangibile, in cui sono il colonnato e la porta d’ingresso, la parete e la vetrata che la sovrasta, il pavimento e il tetto. Lo spazio dell’epica è la dispersione della narrazione nelle diverse avventure degli eroi e degli dèi, nelle vicende di una città o di un popolo migrante. Il tempo dell’architettura è il tempo della pietra che il sole cocente e la pioggia battente, i resti degli animali e le azioni degli uomini corrodono e consumano. Il tempo dell’epica è duale: è quello del racconto e il tempo della voce narrante. Allo spazio “esteriore” dell’architettura, succede quello “interiore” dell’epica, non meno spazio del primo, avendo il triangolo pensato figura spaziale non meno del triangolo disegnato sulla sabbia o sulla lavagna. E del pari al tempo “interiore” dell’epica corrisponde quello “esteriore” dell’architettura, tempo non meno tempo di quello epico, non essendo la pietra corrosa e frantumata del tempio in rovina identica alla pietra appena lavorata dalla mano dell’uomo. 105
La “cosa” dell’arte. Sul rapporto tra agire e patire nell’estetica hegeliana MASSIMO DONÀ
1. Dell’arte, tra fisica e metafisica Chi può dire di non saperlo? Da sempre, l’essere umano si trova a dover fare i conti con “la propria animalità”. Certo, Aristotele si è premurato di precisare che noi, in ogni caso, saremmo animali dotati di logos. Ma la nostra è una vita sempre anche “passionale”. Per quanto l’uomo agisca (in forza del Nous), infatti, la sua non è mai un’attività libera o assoluta – egli è sempre anche paziente. Se non altro in quanto “patisce” l’esterno, ossia l’altro da sé. Non a caso – sia pure relativamente (in quanto sempre anche “agente”, cioè dotato di facoltà intellettiva) – egli dipende dall’esterno, ossia dal mondo esteriore. Almeno, in quanto soggetto empirico, e dunque dotato di quella che potremmo definire una inestirpabile fisicità di natura propriamente animale. E proprio in quanto “patisce”, l’uomo è spesso costretto a fare ciò che, se fosse dipeso da lui (o meglio, dal suo raziocinare), si sarebbe ben guardato dal fare. Insomma, l’uomo si lascia spesso fagocitare dalle proprie passioni. Ecco perché tutto quello che facciamo in quanto mossi da passione, lo facciamo “per-altro”, e mai “per-noi”. E in ogni caso, che tale agire vada contro il nostro volere, ossia contro ciò che “secondo ragione” avremmo magari voluto fare, lo si vede facilmente – anche solo guardando all’alterazione dei tratti somatici da cui viene affetto chiunque patisca... anzi, spesso l’alterazione dell’equilibrio muscolare è tale da dar luogo a una vera e propria de-formazione delle sue normali caratteristiche. Una “de-formazione” che dice innanzitutto questo: che tale individuo è formato-da “altro”. aut aut, 364, 2014, 119-133
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Strana cosa, questa: che la “forma” – ciò che Aristotele concepisce come principio di ogni attività (è noto come per Aristotele la forma equivalga all’atto – perciò essa chiama in causa l’anima, ossia il motore di qualsivoglia dinamica corporea… da cui l’idea di anima come principio-che-darebbe-vita al corpo) – indichi, nell’uomo-animale, ossia nell’essere umano in quanto sempre anche “senziente”, non solo un principio attivo, ma anche ciò che gli verrebbe dato dall’esterno. Insomma, in quanto “paziente” (in quanto affidato agli umori del pathos), l’Io sembra destinato a ricevere la propria forma non solo da sé (ossia dalla propria anima), ma sempre anche da qualcos’altro. E non si dica che anche il venire “formati” dalla propria anima implica un patimento. Perché l’anima non indica qualcosa d’“altro” rispetto al corpo che la ospita. Anzi, forse, essa non dice altro che la verità del corpo – in quanto valevole come semplice “identità del molteplice” (corporeo). Il fatto è che non v’è nulla “al-di-là-delcorporeo” – essendo proprio quella “spaziale”, ossia quella relativa al corporeo, la dimensione in cui si disegnano tutti gli al-di-qua e tutti gli al-di-là, ossia i dentro e i fuori. Ecco perché l’anima non potrà mai costituire un reale “altro” rispetto al corpo (così come un certo platonismo avrebbe per molto tempo voluto farci credere). Ecco perché, se l’eidos (e l’anima ha sempre natura eidetica) non è rinvenibile in nessuna determinata zona dell’esistente, ciò dipende solo dal suo lasciarsi nello stesso tempo ritrovare in qualsivoglia determinazione dell’essente medesimo – e interamente, in ognuna di esse. Anche perché, occupando un’altra sfera dell’essere, esso finirebbe per costituirsi come elemento di quello stesso molteplice da cui avrebbe voluto invece distinguersi. Ancora una cosa va comunque precisata: che, là dove fosse davvero “de-terminato” da altro (e dunque dal medesimo “deformato”), il tutto non solo verrebbe a negare la propria concretezza, ma, di più, neppure potrebbe apparire – ecco perché esso non indica mai una mera “sommatoria” di parti, ma al contrario il loro puro e semplice apparire tutte, cioè ognuna, come una. Ecco perché, ad apparire, è sempre e solamente il mio esserparziale; stante che non si dà mai un altro mondo (concepito come totalità) rispetto a me, in grado di farmi essere quello che sono. 120
Insomma, la parte, in quanto mancante, può mancare solo di un’altra parte – solo quest’ultima potendo realmente determinare la nostra “parzialità”. E dunque ogni possibile “parzialità”. Perciò, nell’orizzonte del patire sensibile, “determinante” e “determinato” sono sempre e comunque distinti, ossia “altri” ognuno dal proprio altro. Per questo il determinato sarà sempre e comunque manifestazione di sé in quanto parte; vale a dire, del suo stesso ritrovarsi mancante di ciò senza di cui nessun senso potrebbe costituirsi come suo. Mentre, quando si parla dell’anima, a essere chiamato in causa è un determinante che non dice qualcosa di “esterno” rispetto al determinato – costituendosi essa come semplice “identità-del-molteplice” (identità dei molti da cui è costituito appunto il determinato in quanto determinato). L’anima, infatti, è sì determinante, ma un determinante che non è mai “a sua volta” determinato. Perciò essa è contraddittoriamente “altra” e “non-altra” dal determinato, ossia dal corporeo o sensibile che dir si voglia. Insomma, l’anima, concepita come “identità”, non dice qualcosa come una determinatezza – pur lasciandosi contraddittoriamente de-terminare come non-determinato (appunto, in quanto semplice unità dei molti – ossia della determinatezza rispetto a cui “è” e “non-è” altra). Anche se, proprio perché “è e non-è” altra dal determinato, essa sarà nello stesso tempo “radicalmente”, cioè “assolutamente”, altra dal determinato. Fermo restando che nessun “altro”, che sia semplicemente “altro”, sarà mai radicalmente, cioè assolutamente “altro” dal determinato – non potendo che farsi, il medesimo, sempre in qualche modo determinato. A essere altro è dunque qui un in-determinato che può dirsi tale proprio perché “è” e “non-è” altro dal determinato. “Assoluta alterità” è dunque solo la sua – proprio quella che lo fa essere, in quanto anima, rigorosamente non-sensibile (semplicemente “altro-dal-sensibile” potendo essere solamente un altro-sensibile); da cui la sua natura squisitamente “meta-fisica”. Per questo l’anima sarebbe stata concepita, già da Platone, come realtà rigorosamente incorporea. Per lo stesso motivo, anche il “tutto” è sostanzialmente meta-fisi121
Postcoloniale e revisione dei saperi
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li scritti qui raccolti hanno una matrice orale, dialogica e volutamente provvisoria: nascono da un workshop in cui si sono trovati a conversare attorno a un tavolo studiosi italiani provenienti da più settori del sapere umanistico che, a vario titolo e con diversi gradi di coinvolgimento, si occupano di teoria critica postcoloniale. All’origine della conversazione è il progetto di ricerca postcolonialitalia, che ha come obiettivo principale quello di sondare la presenza e le potenzialità del pensiero e delle pratiche d’intervento del paradigma postcoloniale nel contesto italiano.1 A tal fine vuole creare uno spazio di interazione fra diverse forme di conoscenza e di produzione artistica e culturale, cercando di mantenere quello spazio radicalmente aperto, come risulta dalla varietà delle voci e dei materiali riuniti qui. Da un punto di vista disciplinare, fra i contributi figurano la teoria critica, la sociologia, la letteratura, la critica letteraria e la comparatistica, la pedagogia, il cinema e l’antropologia, ma il progetto include anche, coerentemente con l’impianto accogliente e transdisciplinare, la storiografia, la geografia culturale, la filosofia politica, gli studi interculturali, di genere, sulla razza e le migrazioni. Queste forme del sapere, della politica, dell’arte e della cultura, ciascuna 1. Il workshop su “Gli studi postcoloniali nelle scienze umane: teorie, storie, metodi e pratiche italiane” è stato il primo incontro dei partecipanti al progetto “From the European South: postcolonial studies in Italy” (responsabile scientifico Annalisa Oboe), Università di Padova, 6 dicembre 2013, <www.postcolonialitalia.it>.
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con una sua storia profondamente radicata all’interno dei confini nazionali, sembrano oggi, più che in altri momenti della loro esistenza, profondamente in transito: se le si guarda attraverso le lenti del postcoloniale si possono intravvedere risorse, sinergie, linee di faglia collocate fra e dentro le discipline, che, se affrontate avendo il mondo e il futuro come orizzonte, promettono una rilettura radicale dei nostri archivi culturali. Quanto segue traccia gli intenti teorici e le linee programmatiche del dibattito scientifico proposto, attraverso sollecitazioni che nascono all’incrocio con elaborazioni ed esperienze postcoloniali non italiane (Annalisa Oboe); esplora le potenzialità del passaggio epistemologico al postcoloniale, in particolare nel raccordo dell’Italia con il Mediterraneo (Iain Chambers); guarda con occhio militante a genealogie, posizionamenti e prospettive dell’attuale dibattito critico sulla letteratura italiana (Roberto Derobertis); discute alcune problematicità del pensiero postcoloniale per la teoria letteraria nazionale (Emanuele Zinato); individua le possibilità di intervento di una pedagogia postcoloniale per un presente (post)migrante (Davide Zoletto); registra i mutamenti in atto nelle rappresentazioni visive dell’italianità, chiedendosi cosa significhi fare cinema italiano nel nuovo millennio (Farah Polato); ascolta le voci dei dannati della terra per riscrivere i compiti dell’antropologia contemporanea (Roberto Beneduce). Tutti gli interventi rispondono con un proprio linguaggio, anche disciplinare, ma interlocutorio e non prescrittivo, alle sollecitazioni fornite in Saperi in transito, restando aperti a future rielaborazioni. [A.O.]
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Saperi in transito ANNALISA OBOE
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l progetto di ricerca che anima quanto segue propone un’indagine sullo sviluppo di idee, temi, modi e pratiche di ricerca nelle scienze umane e sociali in Italia che invocano, usano implicitamente o più decisamente abbracciano una prospettiva postcoloniale. L’obiettivo è produrre una riflessione sul possibile apporto del postcoloniale ai vari saperi che sono interesse di ciascuno dei partecipanti alla ricerca, nonché sulle potenziali zone di contatto interdisciplinare che questo tipo di studi dovrebbe per sua natura promuovere. All’origine del lavoro non sta tanto un desiderio di sistematizzazione (una delle poche certezze degli studi postcoloniali è il sospetto critico nei confronti di qualsiasi schema classificatorio) quanto la necessità di scardinare una lunga tradizione di protezione dei confini disciplinari che argina le possibilità di confronto ed eventuale condivisione transdisciplinare di criteri di indagine e di produzione di significato, sia all’interno che all’esterno dei confini nazionali, che permetterebbero di (ri)aprire i “luoghi” del sapere, della cultura, della storia e della politica.1 Postcolonialitalia propone di lavorare sui e attraverso i confini delle discipline, non per sostenere un qualche anarchismo metodologico, ma piuttosto per prendere atto che una forma storicamente (e geograficamente) determinata di “divisione del lavoro scientifico”, con implicazioni 1. Cfr. H. Bhabha, I luoghi della cultura (1994), trad. di A. Perri, Meltemi, Roma 2001.
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epistemiche e politiche che gli studi postcoloniali da sempre segnalano, sta esaurendo la propria produttività.2 L’indagine si colloca in una prospettiva storico-concettuale volta a identificare i momenti e i modi di appropriazione del paradigma postcoloniale – emerso da un dibattito teorico-critico iniziato nel contesto anglo-americano – all’interno di diversi ambiti discorsivi e disciplinari locali. Ciò significa non soltanto considerare le tematiche di studio che esso ha stimolato, o gli ambiti d’intervento che ha permesso di affrontare in modo nuovo; significa anche esaminare l’impatto metodologico e le tipologie d’intervento critico che ha incoraggiato e che può ancora promuovere nel senso di una più produttiva transdisciplinarietà. Dovrebbe inoltre permettere di individuare i tempi e i modi in cui studiosi (critici e teorici) italiani hanno contribuito al panorama locale e globale degli studi postcoloniali, e di sondare la possibilità che esista un modo originale e tardivo (rispetto ai tempi e alle forme di quanto è avvenuto in altre realtà europee) di “fare il postcoloniale” da qui. 1. Il mondo come orizzonte In Culture and Imperialism (1993), Edward Said ci ricorda che, in quanto esseri umani, studiosi, intellettuali e cittadini, facciamo inevitabilmente parte di una rete di connessioni, non esistiamo né al di fuori né al di là della relazione: “We are, so to speak, of the connections, not outside and beyond them”.3 È con questa convinzione che, come studiosa di letterature e culture anglofone, ho per lungo tempo guardato al farsi delle letterature postcoloniali su quattro continenti, con il privilegio di incrociare forme della letteratura contemporanea che hanno cambiato per sempre il modo di pensare non solo alla scrittura letteraria, ma alla storia, alla cultura, al vivere, al nostro essere nel mondo. Mi sono dunque confrontata con quello che succede là fuori, oltre i confini nazionali, e questa 2. Il recente lavoro di Sandro Mezzadra sui “confini”, in particolare il libro che ha scritto con Brett Neilson, Border as Method, or, the Multiplication of Labor (Duke University Press, Durham, NC, 2013), ha questo problema sullo sfondo. 3. E. Said, Culture and Imperialism, Vintage, New York 1994, p. 55.
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esperienza sostiene la mia convinzione che, nel nostro lavoro di umanisti, dobbiamo avere il mondo come orizzonte. Oggi non solo la letteratura ma anche la teoria critica è disseminata a livello globale. Negli ultimi decenni abbiamo assistito a un invito continuo ad aprire i confini e a pensare globally: i grandi dibattiti accademici avvengono da tempo al di fuori dei centri metropolitani, creando flussi alternativi rispetto agli snodi canonici collocati nel nord o nell’ovest del mondo. Gli studi postcoloniali – la teoria critica ma anche la scrittura e le arti –, che costituiscono una zona di produzione culturale e di riflessione intellettuale che non può che essere definita “transnazionale” o “globale”, sono stati in prima linea nel processo di smantellamento radicale di confini critici e disciplinari. Sebbene non si possa dire con certezza che la disseminazione del pensiero teorico abbia davvero portato una prospettiva transnazionale e transdisciplinare nella ricerca e nel sapere umanistico occidentale, in particolare in Italia, si è creata la possibilità oggi, più che in ogni altro momento storico, di pensare al mondo in cui viviamo nella sua interezza, da una prospettiva in cui il globo diventa casa, e in cui il globo diventa anche metodo: il mondo come casa e come metodo è un luogo della cultura e della storia che si può studiare da qui o da qualsiasi altro posto, dall’India, dal Brasile o dall’Africa, senza cadere in forme di cosmopolitismo ingenuo. Questo nella convinzione che il mondo sia l’orizzonte in cui è necessario muoversi, e che nella “circolazione” globale ci siano opportunità per studiare anche l’Italia in modi che forse non erano possibili fino a poco tempo fa. Anche qui, forse grazie alla crisi, alle migrazioni e all’inaridirsi dei nostri archivi culturali, abbiamo finalmente cominciato a pensare che il perimetro disegnato dallo stivale non ci rappresenta più. Ma se da un lato parlare da un posto specifico, vivere radicati in un luogo preciso sembra invocare modi obsoleti di pensare, scrivere e produrre conoscenza, dall’altro va riconosciuto che le culture e le società non vivono in un globo astratto, bensì rimangono legate al territorio e alla storia, alle forze formative dello spazio e del tempo, e quel legame è un tratto importante che ci dice di come una cultura funziona qui, piuttosto che lì o in un altro posto. 139
Il fatto che viviamo qui e parliamo da qui in parte definisce la nostra posizione intellettuale, e sembra quindi opportuno chiedersi cosa significhi fare cultura in Italia oggi usando gli strumenti del postcoloniale, che rilevanza possa avere per il nostro lavoro, per gli ambiti disciplinari in cui operiamo e per il dibattito culturale contemporaneo. 2. Una grammatica comune? In prima battuta la domanda si gioca nel confronto con studi già in atto in vari paesi europei, dove da qualche tempo si producono analisi dell’impatto degli studi postcoloniali su diverse realtà locali/ nazionali e sui significati legati all’idea di un’Europa postcoloniale.4 In particolare, si nutre di riflessioni avvenute in ambito francese, dove letture conflittuali della natura, funzione e significati degli studi postcoloniali vanno di pari passo non solo con una resistenza tutta francese a forme di pensiero e pratiche critiche di matrice anglosassone, ma soprattutto con prese di posizione divergenti sulle spinose questioni razziali al cuore del centro metropolitano e con i problemi dell’immigrazione e della cittadinanza che riguardano non solo la Francia ma l’Europa intera. In un saggio importante su queste questioni, il filosofo politico Achille Mbembe ridireziona per la Francia il famoso intervento dello storico bengalese e studioso di teoria postcoloniale Dipesh Chakrabarty sulla necessità di “rinnovare” il pensiero europeo della modernità a partire dai margini e dalle periferie,5 e chiede se non sia finalmente venuto 4. Si vedano in particolare i seguenti contributi: S. Ponzanesi, D. Merolla (a cura di), Migrant Cartographies. New Cultural and Literary Spaces in Postcolonial Europe, Lexingtonbooks, Lanham (MD) 2005; S. Ponzanesi, B. Blaagaard (a cura di), Deconstructing Europe. Postcolonial Perspectives, Routledge, London 2012; Gert Oostindie, Postcolonial Netherlands. Sixty-five Years of Forgetting, Commemorating, Silencing, Amsterdam University Press, Amsterdam 2011; P. Purtschert, B. Lüthi, F. Falk (a cura di), Postkoloniale Schweiz. Formen und Folgen eines Kolonialismus ohne Kolonien, Transcript Verlag, Bielefeld 2012; B. Schilling, Postcolonial Germany. Memories of Empire in a Decolonized Nation, Oxford University Press, Oxford 2014. Per l’Italia il testo più importante uscito finora è C. Lombardi-Diop, C. Romeo (a cura di), Postcolonial Italy. Challenging National Homogeneity, Palgrave Macmillan, Basingstoke 2012. 5. D. Chakrabarty, Provincializzare l’Europa (2000), trad. di M. Bortolini, Meltemi, Roma 2004.
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La sfida postcoloniale, l’Italia e il Mediterraneo IAIN CHAMBERS
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itengo che la sfida culturale, politica e istituzionale rappresentata dagli “studi postcoloniali”, che non costituiscono una “disciplina” ma forniscono un percorso critico, possa attraversare qualsiasi problematica nelle scienze umane e sociali di oggi. Ovviamente, esistono tanti modi per declinare e tradurre questa sfida in una serie di pratiche pedagogiche e di ricerca. A mio avviso quello più immediato sta nella scelta strategica tra: – una modifica, o un aggiustamento delle discipline attraversate da questo percorso critico; oppure – un taglio epistemologico che richieda una riconfigurazione radicale degli assetti delle discipline e delle loro premesse quando vengono esposte a domande non autorizzate. Penso che la seconda ipotesi sia quella che ci interessa. Non si tratta esclusivamente di affrontare l’inevitabile resistenza disciplinare, ma in qualche modo di toccare e disturbare l’economia politica del mondo accademico italiano e dell’assetto della cultura europea istituzionale. Ovviamente, ognuno può introdurre delle prospettive critiche postcoloniali nel proprio campo – negli studi letterari, antropologici, cinematografici, e così via –, ma dato che il postcoloniale implica una rivalutazione della modernità occidentale come responsabile della formazione storico-culturale e politica del mondo coloniale, in qualche modo risulta impossibile rimanervi circoscritti. Perfino aut aut, 364, 2014, 147-152
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la logica accademica delle discipline e della formazione dell’università moderna è legata a quell’esterno coloniale che ha prodotto i nostri interni, come ci ha insegnato Hannah Arendt. In quest’ottica diventa cruciale spostare l’attenzione dall’analisi degli oggetti e testi identificati dalle discipline ai processi storici e culturali della formazione postcoloniale del mondo contemporaneo. Mentre il primo approccio continua a funzionare dentro una logica di “distanza critica” senza disturbare troppo il soggetto che osserva nella sua autonomia, il secondo chiama in causa il coinvolgimento dell’osservatore in processi che precedono ed eccedono la propria autorità. Si tratta di affrontare il disfacimento della presunta neutralità della “distanza critica”, e tutte le premesse ideologiche dei paradigmi cosiddetti “scientifici” delle scienze sociali e umane. In luogo di tali paradigmi potremmo prendere come riferimento un rigore critico aperto e sostenuto dalla complessità di una congiuntura storica. Allora, com’è possibile proseguire lungo questo percorso? Come intendiamo intervenire nel contesto in cui ognuno di noi si trova a muoversi? Penso, al di là della solita retorica dell’interdisciplinarità, che dobbiamo cercare di trasformare i linguaggi che siamo abituati a utilizzare per identificare gli “oggetti” della nostra ricerca attraverso una diversa sintassi critica: sarebbe a dire, pensare meno del cinema, della letteratura, della musica, dell’immigrazione, dei confini, e più con loro, per viaggiare in spazi critici nuovi, inaspettati. Collegata a questa prospettiva, e partendo dal nostro luogo, anche qui sarebbe il caso di pensare con questa specificità. In questo caso, secondo le intenzioni del progetto postcolonialitalia, la sfida non consiste tanto nel proporre degli Italian Postcolonial Studies quanto nel pensare e praticare gli studi postcoloniali dai confini dell’Europa, dal suo sud, costruendo collegamenti con altri “confini”, altri sud, tracciando in tal modo una comunanza locale e nazionale con il (post) colonialismo europeo. Partendo da questi due ambiti – i confini proposti dal/del sud e la formazione coloniale del presente – è possibile considerare la nuova centralità politica e critica del Mediterraneo. Perché il Mediterraneo? Perché, nonostante la sua apparente marginalizzazione nella narrazione generale della politica e della 148
La critica italiana tra narrazioni, pratiche sociali e culturali ROBERTO DEROBERTIS
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l termine “postcoloniale”, sia come aggettivo nelle locuzioni “condizione/critica/teoria postcoloniale”, sia come sostantivo autonomo, è stato fino a poco tempo fa un lemma pressoché clandestino nel contesto degli studi dell’italianistica italiana. Esso è rimbalzato quasi segretamente tra studiose e studiosi che hanno condiviso la lettura di alcuni dei più noti testi degli studi culturali e postcoloniali anglofoni (nordamericani, britannici, indiani) e che, in gran parte, hanno indagato quella che è stata definita “letteratura italiana della migrazione” o “scritture migranti”1 in italiano, trovando terreno fertile per una messa all’opera della critica e della teoria postcoloniali. E se è vero che l’immigrazione in Italia di persone provenienti dalle ex colonie italiane non è quantitativamente decisiva come lo è stata per la Francia e il Regno Unito, è vero anche che la penisola, sin dalla metà degli anni ottanta, è stata attraversata dalle più generali e ampie migrazioni postcoloniali determinate dagli effetti di lungo periodo del colonialismo europeo e della decolonizzazione, nonché dall’affermarsi della “condizione postcoloniale” che nella storia coloniale ritrova la sua matrice.2 In 1. Per una disamina critico-storiografica e terminologica esauriente, rimando a F. Pezzarossa, I. Rossini (a cura di), Leggere il testo e il mondo. Vent’anni di scritture della migrazione in Italia, Clueb, Bologna 2011; e a C. Romeo, Vent’anni di letteratura della migrazione e di letteratura postcoloniale in Italia: un excursus, speciale su La letteratura italiana e l’esilio, “Bollettino d’Italianistica”, 2, 2011, pp. 381-407. 2. Cfr. S. Mezzadra, La condizione postcoloniale. Storia e politica nel presente globale, ombre corte, Verona 2008, pp. 23-38.
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effetti, si può dire che il “postcoloniale italiano […] si posiziona […] in relazione alla riconfigurazione dell’Europa in seguito alla fine della Guerra Fredda, alla Globalizzazione delle migrazioni e alle postcolonialità che sono emerse da questa configurazione”.3 Tuttavia, le prime apparizioni del termine “postcoloniale” in pubblicazioni, seminari e conferenze sono avvenute prevalentemente in riferimento agli scritti di autrici provenienti dalle ex colonie italiane, in particolare il Corno d’Africa e in misura minore la Libia, nonché alla revisione critica del canone letterario postunitario: non soltanto per quei testi di esplicita ambientazione coloniale – come l’esemplare Tempo di uccidere (1947) di Ennio Flaiano – ma anche nei confronti di qualsiasi sguardo letterario che esprimesse forme di orientalismo e razzismo, anche nei confronti del Mezzogiorno. Uno sguardo alla produzione letteraria più recente offre tuttavia la possibilità di fare ulteriori riflessioni che rendono produttivo il nesso letteratura italiana/paradigma postcoloniale, a partire da Timira. Romanzo meticcio (2012) di Wu Ming 2 e Antar Mohamed: sorta di romanzo storico che, attraverso la vicenda della protagonista Isabella Marincola, figlia di un militare italiano e di una donna somala, nata nel contesto della colonizzazione italiana della Somalia, racconta di un’Italia meticcia – una comunità plurilinguistica e multirazziale in perenne movimento –, dal 1925 al 1992, fino a Restore Hope, missione Onu in Somalia, che coinvolse in prima linea anche l’Italia. La finzione romanzesca, costruita mescolando verità storica d’archivio, memorie private e interviste, nasceva dopo la pubblicazione di Razza partigiana. Storia di Giorgio Marincola (1923-1945) di Carlo Costa e Lorenzo Teodonio (2008), sulla vicenda del partigiano italo-somalo Giorgio Marincola, fratello di Isabella, da altre testualità: l’omonimo reading Razza partigiana e il libretto Basta uno sparo (2010).4 Nello stesso solco di politica culturale e letteraria si inscrivono 3. C. Lombardi-Diop, C. Romeo, Introduzione. Il postcoloniale italiano: costruzione di un paradigma, in Ead. (a cura di), L’Italia postcoloniale, Le Monnier, Firenze 2014, p. 2. 4. Sulla natura collettiva di Timira si veda S. Brioni, Pratiche “meticce”: narrare il colonialismo italiano a “più mani”, in F. Sinopoli (a cura di), Postcoloniale italiano. Tra letteratura e storia, NovaLogos, Aprilia 2013, pp. 89-119. Per un excursus nei testi che ruotano intorno a Giorgio e Isabella Marincola rimando a V. Tonfoni, Giorgio Marincola razza partigiana, “Alias”, 19 aprile 2014.
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Teoria e critica della letteratura in Italia: sollecitazioni e rischi postcoloniali EMANUELE ZINATO
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e sollecitazioni che la teoria e la critica letteraria italiane ricevono da almeno due decenni dalla condizione postcoloniale sono riassumibili nelle domande conclusive dell’intervento di Derobertis, che si chiede quale sia la posizione del critico davanti a questa condizione e che auspica un nesso fra italianistica e studi postcoloniali capace di assumere la forma di un’interrogazione radicale. Credo che si possa dar conto, per esempio, radicalmente, della contrastata e non lineare fortuna del pensiero di Said e dell’irradiazione nel nostro paese di alcune parole-chiave (come esilio, identità, rappresentazione, contrappunto, discorso), nel tentativo di misurare l’accidentato terreno comune fra studi postcoloniali e prospettive critico-filologiche che, in ambito italiano, costituiscono ancora oggi il nucleo forte degli studi letterari. In primo luogo, si può notare come in Italia vi sia, sempre più accentuata (anche e soprattutto a livello istituzionale, e dunque dei confini fra settori scientifico-disciplinari, valutazione dei “prodotti della ricerca”, meccanismi concorsuali, ecc.) una secca, pericolosa, dicotomia tra egemone arroccamento sull’asse tradizionale storicofilologico e superficiali aperture culturali e interdisciplinari. Queste ultime, quale risvolto dialetticamente opposto e non di rado subalterno alla tendenza egemone, hanno spesso recepito in modo affrettato e provinciale le voci più rilevanti del dibattito postcoloniale internazionale. A ben guardare, Edward Said, la voce di 160
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gran lunga più importante nell’orizzonte postcoloniale, a dispetto della rigida forbice fra specialismo filologico monoculturale vs. interdisciplinarietà e intercultura, ha mantenuto una propria lunga fedeltà alla prospettiva umanistica, a un disegno, cioè, che rifiuta il particolarismo e che tende, in apparenza fuori tempo massimo, alla totalità, all’universale. L’esilio dell’umanesimo (e della critica che, da Valla in poi, dell’umanesimo è il cuore) – il concetto stesso di esilio – in Said non è che la paradossale riaffermazione o rifondazione dell’umanesimo.1 Il motto che sintetizza il programma dell’ultimo Said è infatti “criticare l’umanesimo in nome dell’umanesimo”.2 Said sembra insomma moltiplicare su scala globale ciò che, su scala europea, constatava il frammento 18 dei Minima moralia, in cui Adorno parla di tramonto della casa e dell’interiorità: “Fa parte della morale”, scrive, “non sentirsi mai a casa propria”.3 È questo campo di tensioni, a mio parere, il terreno d’incontro possibile e futuro fra studi postcoloniali e critica letteraria tradizionalmente intesa, prefigurato dal dialogo intrecciato da Said con uno dei più fertili e autorevoli maestri della critica europea del Novecento: Auerbach. Said riflette sul tema dell’esilio e sulla condizione dell’intellettuale, e osserva in particolare che si può parlare di esilio reale per quegli scrittori che l’hanno vissuto ai tempi del nazismo (Mann, Spitzer, Adorno e appunto Auerbach), e di esilio metaforico per chi sperimenta oggi una condizione di estraneità, anche restando in patria. Dunque, riflettere sulle possibili compenetrazioni fra i rispettivi metodi di Auerbach e di Said è, a mio parere, il modo migliore per aprire nuove prospettive non superficiali in sede critica e teorica, desumendole dall’incrocio tra filologia neolatina e romanza e sguardo critico globale, postcoloniale.4 Ovviamente tale opera1. Cfr. R. Luperini, “L’intellettuale in esilio”, in Tramonto e resistenza della critica, Quodlibet, Roma 2013, pp. 39-46. 2. E. Said, Per una critica laica, “Allegoria”, 48, 2004, pp. 5-27. 3. T.W. Adorno, Minima moralia. Meditazioni della vita offesa (1951), trad. di R. Solmi, Einaudi, Torino 1994, p. 34. 4. Cfr. S. Guerriero, La missione dell’umanesimo in Auerbach e Said, in R. Castellana (a cura di), La rappresentazione della realtà. Studi su Auerbach, Artemide, Roma 2009, pp. 207-216.
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Verso una rilettura postcoloniale dei luoghi dell’educazione DAVIDE ZOLETTO
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on c’è più un ‘dentro’ che sarebbe reciso da un ‘fuori’, un passato che sarebbe diviso dal presente.”1 Queste parole del filosofo politico Achille Mbembe mi sembrano riassumere efficacemente il compito necessariamente paradossale a cui è chiamato un insegnante o un educatore che oggi voglia provare a rileggere – a “re-immaginare” direbbe Gayatri Chakravorty Spivak2 – il proprio lavoro attraverso la prospettiva del pensiero postcoloniale (o, come preferirebbe precisare lo stesso Mbembe, attraverso la prospettiva del pensiero nel tempo della postcolonia). Sono parole pronunciate dallo studioso camerunese nel corso di una lunga intervista rilasciata nel 2006 alla rivista “Esprit” (e pubblicata poi in traduzione italiana su “aut aut” nel 2008). Per quanto nell’intervista Mbembe faccia principalmente riferimento al contesto francese, mi sembra che alcune delle questioni evidenziate possano essere preziose anche per provare a riflettere in prospettiva pedagogica nei/sui luoghi educativi dell’Italia contemporanea, sempre più visibilmente connotati da un’eterogeneità che non si lascia ridurre a letture incentrate sulla sola differenza culturale. In quell’in1. A. Mbembe, Che cos’è il pensiero postcoloniale? (2006), “aut aut”, 339, 2008, p. 66. 2. G. Chakravorty Spivak, L’imperativo di re-immaginare il pianeta (1999), “aut aut”, 312, novembre-dicembre 2002, pp. 72-87. Questo testo è stato recentemente ripubblicato nel volume An Aesthetic Education in the Era of Globalization (Harvard University Press, Cambridge, MA, 2012, pp. 335-350), dove Spivak raccoglie molti dei contributi in cui, in diversi momenti del suo percorso di ricerca, ha riflettuto sulle tematiche dell’educazione.
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tervista veniva posta, fra le altre, una domanda su come potesse o dovesse essere letta la posizione del pensiero postcoloniale in rapporto al pensiero europeo: se il pensiero postcoloniale dovesse essere considerato come “un pensiero antieuropeo”, o se invece “riprendesse valori europei”, o se dovesse comunque “intendersi come una riflessione sul decentramento del pensiero europeo”.3 La risposta che Mbembe fornisce a quella domanda mi sembra – anche per la sua densa brevità (si tratta di una pagina appena, o poco più) – una sintesi particolarmente incisiva ed efficace di alcune delle chiavi di lettura a cui ci invita una prospettiva postcoloniale sui contesti dell’educazione e sulle azioni che vi hanno luogo. Mbembe spiegava, da un lato, come un pensiero postcoloniale “non” potesse essere considerato un “pensiero anti-europeo” – per il semplice fatto che la nascita stessa di una prospettiva postcoloniale si colloca nell’incontro-scontro-intreccio fra l’Europa e i mondi che l’Europa aveva colonizzato;4 allo stesso tempo, però, Mbembe sottolineava in modo molto netto come una prospettiva postcoloniale non potesse non decostruire profondamente le strutture epistemologiche e disciplinari nelle quali si è cristallizzata la relazione fra i paesi europei e le colonie, e sulle quali si appoggiano a tutt’oggi tanti nostri saperi, in primis quelli relativi all’alterità; sicché, concludeva, il pensiero postcoloniale potrebbe portare a un “rilancio” paradossale dell’ideale umanistico nel quale tanto pensiero moderno europeo (anche pedagogico) si è identificato: ma un “rilancio” nella direzione di “una nuova forma di umanismo – un umanismo critico fondato prima di tutto sulla partecipazione comune a ciò che ci rende diversi, al di qua degli assoluti […] il sogno di una polis universale in quanto meticcia”.5 È in questa direzione necessariamente paradossale che sembra chiamata a muoversi anche una rilettura postcoloniale della ricerca pedagogica nei luoghi dell’educazione. Da un lato, infatti, si tratta di impegnarsi in una decostruzione rigorosa di quegli aspetti del 3. Sono le domande poste a Mbembe dall’intervistatore di “Esprit” nel già citato Che cos’è il pensiero postcoloniale?, p. 65. 4. A. Mbembe, Che cos’è il pensiero postcoloniale?, cit., p. 65. 5. Ivi, p. 65.
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Il cinema, il postcoloniale e il nuovo millennio nel panorama italiano FARAH POLATO
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invito a esplorare le forme e i modi di diffusione del pensiero postcoloniale negli studi italiani di cinema, tra le finalità del progetto postcolonialitalia, ha comportato da un lato la sollecitazione a individuare luoghi, momenti, eventi significativi, dall’altro lo sforzo di confrontarsi con l’operatività del presente e dei suoi orizzonti, non tanto per registrare quanto per captare aree sensibili, suscettibili di intercettazioni. La svolta del millennio ha rappresentato in questo senso una congiuntura interessante, connessa alla seduzione emanata da tale transizione codificata che ha promosso, seppure con le dovute cautele, consuntivi sul secolo entrante che mi sembrano profilare la disponibilità – e l’urgenza – di spazi di “contrappunto” il cui raggio d’azione si estenda su piani distinguibili ma interlacciati: dagli sguardi del cinema italiano agli sguardi sul cinema italiano. Chiedersi che cosa mostri, racconti, rappresenti il cinema italiano, e come lo faccia, è senz’altro determinante, anche per far emergere ciò che invece non compare. Quello che il cinema italiano non vede 1 titolava qualche anno fa un suo intervento Dario Zonta, il quale contava, tra i fuori campo individuati, l’Italia rimodellata dai flussi migratori, presente tutt’al più come variante di schemi narrativi consolidati. Al contempo, nel formulare tale domanda, 1. D. Zonta, Quello che il cinema italiano non vede, in V. Zagarrio (a cura di), La meglio gioventù, Marsilio, Venezia 2006, pp. 171-175.
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non è evidentemente irrilevante chiedersi a che cosa si pensi quando si pronuncia la parola “cinema”, quando si usa l’espressione “cinema italiano” e a quali aree prevalenti l’una e l’altra vengano associate. Del resto, i risvolti e gli assestamenti terminologici allertano da sempre l’osservatorio postcoloniale. Se incandescente è l’aggettivo “italiano” in un periodo in cui il dibattito sui diritti di cittadinanza, sull’appartenenza, sui presunti rischi di dissoluzione di una sedicente compattezza culturale si è fatto virale, la sua carica incendiaria sembrerebbe tuttavia non attecchire accostata all’altro termine convocato: mentre “sull’italianità” espressa da grandi e piccoli schermi ci si interroga, l’ambito di appartenenza del cinema risulta più inerziale. Eppure, che cosa sia oggi il cinema, come risponda alle sollecitazioni tecnologiche che ne modificano le configurazioni e le pratiche, quali margini di definizione e di ibridità esibisca nel contesto espanso dei nuovi media e come quest’ultimo ne condizioni l’incidenza culturale, sono questioni che animano e rimbalzano nelle arene di settore, non senza implicazioni nelle pratiche. Diventa allora impellente domandarsi, come fa Vito Zagarrio nell’introduzione al volume La meglio gioventù (2006), che cosa succeda alla svolta della prima metà del nuovo decennio “in un panorama che qualcuno ha disegnato come travolto da uno tsunami fisico e mentale” tale da rendere “oramai impossibile” fare storia del cinema italiano con i canoni e gli strumenti tradizionali.2 A distanza di pochi anni, un altro studio, l’Atlante del cinema italiano. Corpi, paesaggi, figure del contemporaneo (2011),3 coordinato da Gianni Canova e Luisella Farinotti, interpella un orizzonte per ampi tratti assimilabile, condividendo con il precedente la percezione di una crisi dei protocolli e delle acquisizioni. Tale sentimento, a comparsa ciclica, unitamente all’atteggiamento circospetto ma2. V. Zagarrio, Certi bambini… i nuovi cineasti italiani, introduzione a Id. (a cura di), La meglio gioventù, cit., pp. 12 e 13; volume pubblicato in occasione dell’evento speciale della 42a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, sin dalla sua fondazione avamposto vigile dei mutamenti del settore in ambito nazionale e internazionale. 3. G. Canova, L. Farinotti (a cura di), Atlante del cinema italiano. Corpi, paesaggi, figure del contemporaneo, Garzanti, Milano 2011.
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Il rumore sordo del sottosuolo. Per un’antropologia postcoloniale ROBERTO BENEDUCE
1. L’antropologia nella postcolonia, e le sue aporie C’è, nell’atto di separare fra loro eventi, processi, esperienze, un’insaziabile fame di ordine. Il secco gesto classificatorio, il rigore dell’archivio, la presunzione diagnostica di fronte alla sofferenza psichica sono esempi di un ordine che non tollera sbavature. L’antropologia non è risparmiata da questa esigenza di distinzione: le categorie razziali prima, quelle etniche poi, ne sono una prova, il cui carattere effimero solo documenta come ogni impegno a organizzare l’umano sia destinato a essere prima o poi sovvertito. E tuttavia sarebbe sufficiente considerare come sono, di fatto, le contingenze, i movimenti di opinione, le “urgenze” della Storia a decidere il destino di questo o quel concetto più che autonome svolte epistemologiche, per dissolvere la sicumera (l’ebbrezza) di tanti lavori e tante affermazioni. Un esempio, uno solo: il parlamento francese abolisce con un decreto legge la nozione di “razza” perché inconsistente sul piano scientifico (siamo tutti Homo sapiens...), in ossequio alle narrazioni della sua storia repubblicana e agli ideali di quella citoyenneté che già Fanon, e dopo di lui Sayad, avrebbero riconosciuto colmi di ipocrisie. Altrove, la letteratura anglosassone e latino-americana, persino quella specialistica (sociologica e antropologica), continua invece a farne largo uso, a interrogare la nozione di razza, a misurarsi con gli effetti (sociali, scolastici, sanitari ecc.) della discriminazione razziale. Al di là delle opposte prospettive appena evocate, bisogna ammettere che le immagini degli omicidi compiuti da poliziotti bianchi in Missouri, a Ferguson prima, a Saint Louis poi, contro aut aut, 364, 2014, 183-193
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due giovani africani-americani (Mike Brown e Kajieme Powell), hanno mostrato quanto la questione razziale sia lungi dall’essere risolta. Non è con un’abiura epistemologica che muteranno i rapporti di forza e le disuguaglianze ordite per secoli lungo la linea del colore. E le aggressioni su sfondo razzista denunciate nei paesi del Maghreb ai danni di studenti e immigrati provenienti dall’Africa subsahariana (l’ultima vittima: un giovane senegalese ucciso in Marocco) aggiungono un ulteriore motivo perché la questione razziale non sia ignorata. I tentativi di disfarsi una volta per tutte di concetti rischiosi come quello di “razza”, con la speranza che cancellandolo dal vocabolario scientifico finisca magicamente con lo scomparire anche il razzismo, sono destinati a fallire (il successo di partiti razzisti, in Francia e altrove, ne costituisce il più eloquente esempio). Allo stesso modo, scrivere contro l’invenzione dell’etnia o la reificazione dell’identità culturale, sostenere che persino il concetto di cultura non sarebbe che la maschera dietro cui si è cercato di sublimare quello di razza,1 ha contribuito indubbiamente a illuminare l’infondatezza linguistica o epistemologica di queste nozioni, ma ha spesso banalizzato la complessa genealogia di tanti etnonimi e finito col trascurarne il ruolo e il peso effettivi nell’attuale “mercato linguistico”. Il dibattito ha assunto così un profilo quasi grottesco là dove, proprio mentre si moltiplicavano gli scritti rivolti a decostruire significati e ragioni delle categorie etniche, queste stesse nozioni conoscevano una paradossale (e spesso tragica) proliferazione. Ciò che intendo dire è che a mutare gli atteggiamenti, le sensibilità, le scelte, a contrastare la violenza che affiora dal fondo oscuro di pregiudizi e interessi, non bastano le pur auspicate rivoluzioni lessicali. Queste hanno effetto solo se si accompagnano ad altre rivoluzioni, all’abbattimento di altri interessi. 1. A. Bensa, La fin de l’exotisme. Essais d’anthropologie critique, Anacharsis, Toulouse 2006, p. 156. Tale affermazione non mi trova peraltro d’accordo, a meno di non considerare un’idea di cultura che nessun antropologo dotato di buon senso oggi difenderebbe. La questione non è tanto rinunciare all’idea di cultura quanto riuscire a riconoscere in essa, persino nelle sue più riuscite finzioni e nei suoi più profondi interstizi (le diverse esperienze del Sé, del corpo della persona, per esempio), l’artiglio della Storia.
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Post
Jacques Derrida. Lascito delle decostruzioni ´ PETAR BOJANIC DAMIANO CANTONE
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a più importante eredità che Derrida ci ha lasciato, in questo spazio di dieci anni che ci separa dalla sua morte, consiste nel tentativo di non far coincidere la filosofia con le istituzioni che la rappresentano. Non si sono fatti avanti molti pretendenti a reclamarla: di certo non si tratta di un tesoro spendibile sul mercato accademico, ed è anzi un peso del quale la filosofia, quella istituzionale, fa volentieri a meno. Non è stato certo un filosofo poco letto: le sue opere hanno conosciuto un’ampia diffusione, hanno suscitato dibattiti, generato a loro volta tesi di laurea e di dottorato, altri saggi e libri in lingue e paesi diversi. Alcuni concetti di Derrida, come quelli di differenza, di disseminazione, di decostruzione, di a-venire sono entrati prepotentemente e rapidamente nel gergo filosofico. Eppure ben pochi, dopo la sua scomparsa, si sono azzardati a proseguire il suo lavoro. Anzi, si può tranquillamente affermare che i più si siano affrettati a marchiarlo con l’infamante epiteto di “postmoderno”, un’etichetta che oggi si applica solo alle peggiori nefandezze culturali e filosofiche, e quindi a condannarlo implicitamente all’oblio. Così eccone spiegata la rapida eclisse, che agli occhi dei suoi detrattori appare come una prova irrefutabile della sua scarsa solidità filosofica. Una moda filosofica, un pensatore brillante ma non solido, più vicino all’immagine di un prestigiatore del linguaggio che a un serio e profondo filosofo. Nulla di meglio per evitare di confrontarsi con il compito che per Derrida è tanto urgente quanto difficile per la filosofia, con la ridefinizione, continua e inesausta, del proprio esercizio di pensiero. aut aut, 364, 2014, 195-204
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In un testo del 1984, intitolato Du droit à la philosophie, in modo del tutto esplicito Derrida aveva avviato una riflessione su quelle che sono le condizioni di possibilità della filosofia, un’interrogazione in cui la filosofia è soggetto, oggetto e termine del domandare, e nella quale la posta in gioco era ridefinire, sempre e di nuovo, la propria posizione di enunciazione e la serie dei poteri e delle istituzioni che ne legittimano il discorso. Si tratta di un testo aperto, che non giunge a conclusioni definitive, costruito per riprese successive, che ogni volta spostano il punto di vista sulla questione, in una serie continua di rimandi allo “specifico” della filosofia e soprattutto al suo esterno che costantemente ne determina la legittimità, la natura e il campo di azione. È interessante notare che non si tratta di un manifesto contro l’istituzione, come a rivendicare una sorta di anarchia dei principi per la quale non è possibile in alcun modo rispondere alla domanda “che cos’è filosofia?”. Per Derrida la risposta a una simile questione rimane necessaria e impossibile, nel senso che essa è caratterizzata da una sorta di “rapporto mobile” e inarrestabile tra le pratiche di pensiero e le istituzioni che le legittimano, le assorbono e le determinano, e quindi sarebbe un errore eludere la domanda come se fosse ingenuamente metafisica (chiedere il “che cos’è?” di una cosa è il gesto metafisico per eccellenza). Da una parte la filosofia nella sua assoluta e spregiudicata attività di pensiero, e dall’altra il diritto, ovvero la filosofia intesa nella sua istituzionalizzazione (sempre molteplice, sempre in divenire) e nella sua tradizione. I due lati della questione sono inseparabili, non si può interrogare uno dei due senza chiamare in causa anche l’altro. Il loro rapporto si svolge sotto il segno della decostruzione: “Ciò che si è chiamato ‘decostruzione’ è allora l’esposizione di questa identità istituzionale della disciplina filosofica: ciò che essa ha di irriducibile deve essere esposto come tale, cioè messo in luce, protetto, rivendicato, ma questo deve avvenire mentre l’identità di ciò che le è proprio si allontana da se stessa per riappropriarsi di sé”.1
1. J. Derrida, Du droit à la philosophie, Galilée, Paris 1990, p. 21.
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Nella decostruzione, o meglio, nelle decostruzioni2 risiede la vera e propria specificità della filosofia, in favore della quale Derrida si è speso a più riprese nel corso della sua vita, difendendola dalla sua dissoluzione nel calderone delle cosiddette “scienze umane”. Eppure la specificità della filosofia non va intesa come una reazione ai tentativi dell’istituzione di fagocitarla. Essa traccia “un cammino senza certezze”, continuamente reinventato, che rifiuta di avere dei confini disciplinari propri per mettere incessantemente in discussione quelli altrui, e che pure conserva una sua paradossale irriducibilità. Insomma la specificità della filosofia è affermativa, ma di un’affermatività aperta, non conclusa, caratterizzata da un tratto di inesausta attività. Il termine decostruzione, con il quale spesso viene identificato tout court il pensiero di Derrida, non possiede solo un significato negativo. Ogni decostruzione (del logos, della metafisica, della presenza, dell’Altro) è al contempo una ricostruzione, l’emergere di una configurazione di senso del tutto nuova eppure già presente nel testo di partenza. Non si tratta tuttavia qui di tentare né una definizione, né una genealogia di questo termine-limite, e questo non perché non sia possibile farlo o non sia già stato fatto,3 ma perché, a nostro avviso, sarebbe cedere un po’ troppo presto all’istituzione. Consegnare la decostruzione ai manuali di storia di filosofia, o ai dizionari della “disciplina”, sarebbe interrompere il lavoro del concetto che questo termine opera, tradirne il funzionamento. Quello che a noi interessa è invece cercare di corrispondere alle forme della decostruzione, cercare di servircene, mostrare come la sua azione pratichi continuamente delle aperture nella filosofia disciplinare e disciplinata, aperture attraverso le quali possono entrare altre forme di pensiero (e dunque altre forme di decostruzione) o che permettono alla filosofia stessa di sconfinare, di debordare dagli argini delle sue molte istituzioni. Si tratta dunque di ricostruire una 2. Le questione del plurale della parola decostruzione è già stata affrontata da “aut aut” nel numero 327, che la rivista, dieci anni fa, ha dedicato alla figura di Jacques Derrida. Si riveda in particolare la sezione “L’uso delle parole”, pp. 3-11. 3. Si confronti per esempio l’ampia sezione dedicata alla genealogia del termine “decostruzione” in Derrida da M. Vergani in Jacques Derrida, Bruno Mondadori, Milano 2000.
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