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rivista fondata da Enzo Paci nel 1951 direttore responsabile: Pier Aldo Rovatti redazione: Sergia Adamo, Paulo Barone, Graziella Berto, Deborah Borca (editing, deborah.borca@gmail.com), Damiano Cantone, Mario Colucci, Alessandro Dal Lago, Pierangelo Di Vittorio, Giovanna Gallio, Edoardo Greblo, Raoul Kirchmayr, Giovanni Leghissa, Massimiliano Nicoli, Ilaria Papandrea, Fabio Polidori, Rosella Prezzo, Pier Aldo Rovatti, Massimiliano Roveretto, Antonello Sciacchitano, Giovanni Scibilia, Davide Zoletto direzione: c/o il Saggiatore, via Melzo 9, 20129 Milano sito web: autaut.ilsaggiatore.com collaborano tra gli altri ad “aut aut”: G. Agamben, H.-D. Bahr, R. Bodei, L. Boella, S. Borutti, J. Butler, M. Cacciari, A. Cavarero, R. De Biasi, G. Dorfles, M. Ferraris, U. Galimberti, P. Gambazzi, S. Givone, A. Heller, F. Jullien, J.-L. Nancy, A. Prete, M. Serres, G.C. Spivak, G. Vattimo, M. Vegetti, P. Veyne, V. Vitiello, S. Žižek per proposte di pubblicazione: autaut@ilsaggiatore.com Si fa presente che “aut aut” non pubblica recensioni e non accetta testi di ampiezza superiore a 40.000 battute (note e spazi compresi).
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opo un fascicolo monografico dedicato alla problematizzazione dell’insegnamento scolastico (La scuola impossibile, 358, 2013) e un altro dedicato alla critica dei dispositivi di valutazione della ricerca (All’indice. Critica della cultura della valutazione, 360, 2013), “aut aut” mette ora a tema la condizione del lavoro intellettuale in epoca neoliberale. In questo campo, le categorie socio-politiche che organizzano gli spazi e i tempi delle professioni saltano, rendendo estremamente complessa l’impresa di mettere ordine tra figure del lavoro che proliferano, si ibridano, e molto spesso si incorporano in una o più persone contemporaneamente. La condizione del lavoro intellettuale emerge come stretta fra il desiderio di indipendenza e di cooperazione, di un buon lavoro e di una buona vita, da una parte, e il ricatto esistenziale, la sussunzione reale della vita imposti dall’appartenenza a un eterno esercito industriale di riserva, dall’altra. Abbiamo pensato di definire questa figura complessa e contraddittoria con l’espressione “intellettuale di se stesso”, che segnala la penetrazione della forma di vita neoliberale dell’“imprenditore di se stesso” nell’ambito del lavoro intellettuale, ma marca anche uno scarto rispetto alla figura che il Novecento ci ha lasciato in eredità: quella dell’intellettuale a cui è demandato il compito di pensare e farsi espressione di un collettivo, di una classe, di un partito o di un’istituzione. L’intellettuale di se stesso è piuttosto il rovescio neoliberale di quell’“intellettualità di massa” che i movimenti degli anni settanta avevano delineato in 3
quanto esito dell’affermarsi del general intellect nell’ultima fase del modo di produzione fordista. In seguito, il mercato neoliberista ha organizzato in regime di concorrenza le potenzialità che un’intellettualità diffusa produce, eleggendone l’individuo proprietario a portatore unico. Le questioni che si aprono sono diverse e tutte cruciali: è possibile valorizzare il desiderio di autonomia del lavoro indipendente senza che quel desiderio sia catturato, nella forma della concorrenza, da parte del mercato neoliberista? È possibile quindi praticare l’indipendenza e la cooperazione in modo non alternativo o contrapposto? Quella dell’intellettuale di se stesso è una scelta o un’imposizione? Il lavoro intellettuale, in effetti, costituisce una cartina di tornasole del livello di integrazione e commistione fra pratiche di soggettivazione e modi di assoggettamento, se si pensa alle forme di autodisciplina, autosorveglianza, così come di ascetismo o di “marketing del sé” che pure appartengono a questa condizione e alle sue forme di visibilità. Eppure, come emerge dal fascicolo, questa profonda individualizzazione del lavoro intellettuale delinea anche la possibilità di determinare una forma di vita comune proprio laddove sembrano agire con la massima efficacia i dispositivi di concorrenza e competizione che separano, distinguono, isolano. Le pratiche relazionali che hanno caratterizzato la composizione di questo fascicolo non possono che partecipare a quella forma di vita a cui abbiamo accennato, tanto quanto i contenuti dei singoli contributi. Ci siamo rivolti, infatti, ad autori e autrici il cui lavoro intellettuale non è quasi mai strutturato all’interno di questa o quella istituzione, ma che partecipano, più o meno loro malgrado, alla condizione dell’intellettuale di se stesso. Le nostre discussioni intorno a questo tema si sono svolte tra un’application da chiudere per una position nell’università straniera di turno, una deadline incombente, un lavoro intermittente e un pagamento da rincorrere, distanze geografiche da ridurre per e-mail o Skype – insomma, tra vite i cui pezzi sono da tenere insieme quasi quotidianamente. In questo quadro, l’intellettuale di se stesso non è una categoria che ha la pretesa di una legittimazione/ricomposizione 4
teorica di una forma di vita così composita, variegata e contraddittoria, vuole piuttosto costituire uno spunto per aprire un discorso che, attraverso e nonostante le sue pratiche e i suoi stili diversi – anche di scrittura, come questo stesso fascicolo mostra –, tenti di sottrarre il lavoro intellettuale alla individualizzazione più esasperata. [D.G., M.N.]
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A oltre trent’anni dalla morte di Enzo Paci, con il moltiplicarsi degli studi e delle iniziative legate alla sua opera, l’Archivio chiede a chi ha scritto e scriva su Enzo Paci di voler gentilmente inviare copia del proprio lavoro all’Archivio stesso. Lo scopo evidente è quello di riunire e fare conoscere lavori e ricerche, e i loro autori, per favorire altri studi. Nello stesso tempo si intende garantire la presenza di una collezione completa di scritti di e su Enzo Paci nel luogo che ne conserva manoscritti e biblioteca. L’invito si rivolge anche a chi abbia scritto una tesi di laurea o una dissertazione di dottorato su Enzo Paci e/o sul contesto culturale in cui si è mossa la sua attività. Al momento la collezione è parziale e sembra utile completarla. Si potrà in questo modo compilare anche un elenco degli studiosi interessati. Inoltre si è avviata l’acquisizione e la catalogazione dell’epistolario. Chiediamo pertanto a chi sia in possesso di lettere di Enzo Paci di collaborare, inviandoci fotocopia delle lettere; se ne ha tenuto copia e non ha nulla in contrario, sono benvenute anche fotocopie delle lettere del corrispondente. L’indirizzo al quale inviare il materiale è:
7hY^_l_e ;dpe FWY_ l_W 8[Wje 7d][b_Ye + (&')) C_bWde Ringraziamo tutti anticipatamente e raccomandiamo di accludere al materiale anche il proprio recapito.
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Sarei tentato di cominciare questo testo con una critica del titolo che io stesso ho scelto: è troppo roboante e per di più cede alla moda assai diffusa di parafrasare i titoli di opere capitali della cultura occidentale. Senza contare le generalizzazioni indebite che esso contiene e che il testo non sarà in grado di giustificare, come se esistessero oggetti già ben definiti, e sui quali fosse possibile intendersi senza troppe difficoltà, come “lavoro intellettuale” (con la sua “etica”) e “spirito del capitalismo”. Il riferimento al libro più celebre di Max Weber e all’importante e voluminoso saggio di Boltanski e Chiapello,1 solo da poco tradotto in italiano, non basterà certo a sciogliere i nodi problematici implicati da un titolo che, pertanto, non andrà preso troppo sul serio. Dichiariamo subito la posta in gioco che tale titolo – ironico, quindi, e un po’ provocatorio – sottende: si tratterà di provare a partecipare, con un minuscolo contributo, alla lunga storia della riflessione critica che si interroga sul rapporto fra le condizioni oggettive e soggettive
Massimiliano Nicoli, redattore di “aut aut”, attualmente è borsista F. Braudel presso il Laboratorio di ricerca Sophiapol dell’Università Paris Ouest Nanterre La Défense. Si occupa soprattutto di Foucault e di critica del management e ha appena pubblicato la monografia Le risorse umane per le edizioni Ediesse di Roma. 1. Mi riferisco, ovviamente, a M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1904-1905), trad. di A.M. Marietti, Rizzoli, Milano 2011, e a L. Boltanski, È. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo (1999), trad. di M. Schianchi, Mimesis, Milano-Udine 2014.
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della produzione intellettuale, l’organizzazione capitalistica del lavoro e le forme di governo politico degli individui.2 Oggi, la formula “intellettuale di se stesso” sembra funzionare come uno dei nomi di tale rapporto. Un chiarimento preliminare è però necessario. L’espressione “intellettuale di se stesso” è stata recentemente impiegata da Pier Aldo Rovatti in relazione, per l’appunto, alle trasformazioni che la funzione e il ruolo dell’intellettuale stanno attraversando nel nostro presente e all’interno di quello “stile” di governo degli individui che chiamiamo neoliberalismo.3 L’espressione è anfibola. Da un lato essa rinvia, con una smorfia, al ritornello neoliberale che invita tutti e ciascuno a trasformarsi in imprenditori di se stessi. In questo senso, l’espressione “intellettuale di se stesso” costituirebbe in primo luogo la traduzione nel campo intellettuale di quel ritornello, segnalando la penetrazione della competizione, della concorrenza, dei principi del libero mercato nella cosiddetta economia della conoscenza e l’affermazione della forma-impresa come forma di vita dei lavoratori intellettuali. In questa traduzione, “imprenditore” e “intellettuale” si sostituiscono e si sovrappongono, e il lavoratore della conoscenza appare come un atleta della gestione manageriale del proprio “capitale umano”, nel quadro della biopolitica neoliberale. Nello stesso tempo, però, la traduzione tradisce qualcosa, e la sovrapposizione fra i due termini non è senza resto. “Intellettuale di se stesso” diventa anche, seguendo l’indicazione di Rovatti, il nome di una potenzialità politica che inerisce a ciascuno quando lo sviluppo del general intellect fa decadere la figura dell’intellettuale universale e si estinguono le guide veritative a cui demandare il problema di distinguere il vero dal falso. In termini marxiani,4 l’espansione del “sapere sociale generale” fa evaporare la distinzione fra lavoro intellettuale o manuale e modifica il rapporto 2. Tema sul quale “aut aut” è più volte intervenuta, soprattutto negli anni settanta: cfr. i fascicoli 142-143 del 1974 e 154 del 1976. 3. Cfr. P.A. Rovatti, Noi, i barbari. La sottocultura dominante, Raffaello Cortina, Milano 2011, p. 145. 4. Mi riferisco soprattutto al celeberrimo “Frammento sulle macchine” dei Grundrisse. Cfr. K. Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica (1939), trad. di E. Grillo, La Nuova Italia, Firenze 1968-1970, pp. 389-411.
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fra teoria e prassi all’interno della vita di ciascuno, così che ciascuno può diventare intellettuale critico di se stesso: si delinea un mondo senza maîtres de vérité a cui è assegnato l’incarico di pensare per tutti. A ognuno la possibilità e il compito di criticare tutti i poteri che ci attraversano sospendendone la necessità – come direbbe invece Foucault, coniando in proposito il termine “anarcheologia”5 –, e di impiantare nella concretezza dell’esistenza quel “poco di verità” che serve alla vita.6 Contemporaneamente, si presenta l’occasione di inventare nuove modalità di organizzazione del lavoro intellettuale e della trasmissione dei saperi, nuove istituzioni che mettano in discussione la separazione fra discorsi e pratiche, fra soggetto e oggetto, fra – di nuovo – teoria e prassi. Ancora Marx, questa volta nei Manoscritti,7 ci insegna che la soluzione delle opposizioni teoretiche è possibile solo in maniera pratica, è un compito che spetta alla vita e non, per esempio, alla filosofia. Le ricerche sociali che indagano i comparti del “lavoro cognitivo” – l’università, il giornalismo, l’editoria, la comunicazione – ci restituiscono altrettanta ambivalenza rispetto alla “postura” che caratterizza questo tipo di lavoro:8 da un lato la knowledge-based economy spinge gli individui verso un ethos intensamente autoimprenditoriale e competitivo, fino al limite dell’autosfruttamento e della disponibilità al lavoro gratuito in cambio di una promessa di visibilità9 o di una riga da aggiungere al proprio curriculum. 5. M. Foucault, Del governo dei viventi. Corso al Collège de France (1979-1980) (2012), a cura di M. Senellart, trad. di D. Borca e P.A. Rovatti, Feltrinelli, Milano 2014, p. 86. 6. Id., Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II. Corso al Collège de France (1984) (2009), a cura di F. Gros, trad. di M. Galzigna, Feltrinelli, Milano 2011, p. 187. Cfr. anche P.A. Rovatti, Quel poco di verità. Una lezione su Michel Foucault, Mimesis, Milano-Udine 2013. 7. K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844 (1932), trad. di N. Bobbio, Einaudi, Torino 1970, p. 120. 8. Mi riferisco, per esempio, all’inchiesta avviata nel 2013 da IRES Emilia Romagna, IRES Toscana e IRES Veneto sui lavoratori della conoscenza e basata su un centinaio di interviste individuali oltre che su circa 1100 questionari raccolti attraverso una piattaforma online. Si veda in proposito F. Chicchi, N. Masiero, Posture e imposture del lavoro cognitivo. Ripensare la pratica sindacale nel capitalismo delle reti e dei saperi, “Economia e società regionale”, 1, 2014, pp. 90-115. 9. Si tratta di quella “economia politica della promessa” di cui parla in modo acuto ed efficace Marco Bascetta in un articolo del 22 ottobre 2014 sul quotidiano “il manifesto”, consultabile online all’indirizzo: <ilmanifesto.info/leconomia-politica-della-promessa>.
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'$ ?b Yh_j_Ye La figura dell’intellettuale, quella di cui lamentiamo oggi la crisi se non proprio l’estinzione, si comincia a delineare nel corso del XVIII secolo, alla vigilia della Rivoluzione francese, con le sembianze del “critico”. In Critica illuminista e crisi della società borghese, Reinhart Koselleck ci fornisce gli elementi che configurano il concetto di “critica”; ma non solo: altrettanto importante per definire la critica e la sua efficacia risulta essere la “disposizione” di tali elementi. Fondamentale è allora la “posizione” che deve assumere il “critico” rispetto all’oggetto della sua critica – nella “critica politica”, per esempio, il potere dominante, lo Stato – perché questa sia davvero efficace. Partiamo dunque da Koselleck – e dalla figura del “critico” – per delineare la genealogia dell’intellettuale nell’epoca del neoliberalismo: Già nel concetto di critica è insito il fatto che mediante la critica si opera una separazione. La critica è un’arte del giudizio, la sua attività consiste nel vagliare l’esattezza o la verità, la giustezza o la bellezza di un contenuto già dato, per ricavare dalla conoscenza così ottenuta un giudizio […]. La “critica”, in quanto arte del giudicare e del dividere, […] è legata fin dall’origine all’immagine dualistica del mondo allora dominante. […] A questo riguardo, per comprendere l’importanza politica della Dario Gentili svolge attività di ricerca in filosofia presso l’Università di Roma Tre e altre istituzioni in Italia e all’estero. Il suo ultimo libro è Italian Theory. Dall’operaismo alla biopolitica (il Mulino, Bologna 2012).
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critica del secolo decimottavo, si dovrà innanzitutto indicare come si formò l’istanza critica nel suo rapporto di opposizione allo Stato, per seguire poi lo sviluppo graduale e la crescente ipoteca posta dall’istanza critica su questo Stato.1 Il concetto di “critica” e la funzione del “critico” hanno radici molto antiche, che risalgono al mondo greco. Come sottolinea Koselleck, la critica rientra nell’arte del giudizio ed è in un senso strettamente “giudiziario” che Aristotele la contempla nella Politica: “Da tutto ciò è evidente chi sia il cittadino: colui che ha facoltà di partecipare a una carica deliberativa e giudiziaria (kritichés), noi diciamo che è senz’altro cittadino di questa città e, per parlare in senso stretto, diciamo città quella moltitudine di individui di questo tipo che soddisfi l’autosufficienza di vita”.2 Senza poter ora tenere conto delle diverse e fondamentali implicazioni di questo passo aristotelico, basti per il nostro discorso evidenziare come la funzione “critica” sia una prerogativa di ogni cittadino della polis: la capacità di giudizio – fosse pure soltanto quella espressa in un tribunale – è una qualità che rientra tra quelle che definiscono la vita politica. La critica può insomma avere luogo solo all’interno di una comunità politica. A partire già dall’Antichità ma poi più chiaramente nel Medioevo, la critica abbandona l’ambito politico-giuridico dove la collocava Aristotele e – a differenza del suo corrispettivo “crisi” che invece metterà radici nel lessico medico – finirà per diventare una peculiarità della filologia, della logica e dell’estetica.3 Nel XVIII secolo, la critica esercita una modalità di giudizio che è peculiare di un ambito extra-politico, al di fuori quindi del “politico” che al tempo assume la forma dello Stato assolutistico. Diventa dunque prerogativa della borghesia nascente e della sua intellighenzia, che, esclusa dal potere 1. R. Koselleck, Critica illuministica e crisi della società borghese (1959), trad. di G. Panzieri, il Mulino, Bologna 1972, p. 120. 2. Aristotele, Politica, 1275b, 17-21. 3. Cfr. K. Röttgers, Kritik, in O. Brunner, W. Conze, R. Koselleck (a cura di), Geschichtliche Grundbegriffe. Historisches Lexikon zur politisch-sozialen Sprache in Deutschland, vol. 3, Klett-Cotta, Stuttgart 2004, pp. 651-675.
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politico, faceva procedere la sua critica da istanze prima religiose e poi morali, ma non senza connotazioni anche estetiche; la critica procede cioè da quell’ambito “privato” che lo stesso Stato assolutistico aveva separato dal dominio della politica. È pertanto la critica e non la crisi a preparare la Rivoluzione francese, nonostante – è questa la tesi di Koselleck – gli illuministi tendano a nascondere “ipocritamente” la portata politica della loro critica cosiddetta “morale”, che presume di essere tale soltanto perché procede dal di fuori del politico, ma in realtà mina le fondamenta del potere dello Stato: “La crisi come dissoluzione di qualsiasi ordine, come crollo di tutti i rapporti di proprietà, che sarà collegato a convulsioni e imprevedibili disordini, la crisi come crisi politica dell’intero Stato non fu affatto il significato centrale del concetto in cui si sarebbe condensata la coscienza borghese della crisi. La coscienza prerivoluzionaria della crisi si nutre piuttosto del tipo di critica politica che è specifica della borghesia nello Stato assolutistico”.4 Ciò che la critica produce è una posizione “esterna” rispetto al potere dominante, posizione che consente il giudizio e la messa in questione del potere stesso. È dalla critica illuminista – che procede appunto da una posizione esterna rispetto allo Stato, che ne separa, divide, distingue una parte a esso potenzialmente alternativa – che scaturisce il concetto politico di crisi come momento della decisione finale. E non viceversa. Koselleck lo scrive chiaramente: “Dal pro e contro del processo critico scaturisce, non appena lo Stato viene coinvolto nel processo, l’aut-aut di una crisi che inevitabilmente impone la decisione politica”.5 La “crisi decisiva” è il prodotto politico della critica e, si potrebbe aggiungere, finirà per caratterizzare l’idea che della crisi avrà la modernità. ($ BW Xe^ c[ Quando con la Rivoluzione francese la borghesia conquista l’ambito del politico, la posizione privilegiata della critica illuminista viene 4. R. Koselleck, Critica illuministica e crisi della società borghese, cit., p. 211 (trad. modificata). 5. Ivi, p. 215.
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Ancor prima di essere una figura sociale, ispirata a una declinazione specifica del soggetto neoliberale (“imprenditore di se stesso”, l’Io S.p.A.), l’intellettuale di se stesso è una forma di intuizione. È un atto rivolto verso il conoscente e non è orientato verso l’altro, un oggetto, il mondo. Nel suo caso, il conoscere si incarna in una forma di intuizione spirituale il cui obiettivo è l’autoriconoscimento in quanto soggetto agente dell’intuizione. Intuendo se stesso, il soggetto si colloca presso di sé. In una società popolata da Sé atomizzati, questo è il primo atto di cittadinanza. Nel suo piccolo, l’intellettuale di se stesso compie un atto comune a chiunque voglia partecipare al gioco della cittadinanza neoliberale: per dimostrare di esistere deve affermare che il proprio Sé esiste ed è produttivo. L’auspicio di una prossimità assoluta all’origine della percezione più intima di un essere umano fonda un’ontologia dell’essere presso di sé. Tale ontologia si forma nei dintorni di quel luogo oscuro, ma cogente e pienamente operante, del Soggetto. Un Soggetto che continua a essere il mistero del discorso pubblico e culturale, pur essendo stato pienamente decostruito dalla filosofia critica o dalla Roberto Ciccarelli, filosofo e giornalista, ha scritto, tra l’altro, Potenza e Beatitudine. Il diritto nel pensiero di Baruch Spinoza (Carocci, Roma 2003), Immanenza. Filosofia, diritto e politica della vita dal XIX al XX secolo (il Mulino, Bologna 2008), La furia dei cervelli (manifestolibri, Roma 2011, con Giuseppe Allegri), Il Quinto Stato. Perché il lavoro indipendente è il nostro futuro (Ponte alle Grazie, Milano 2013, con Giuseppe Allegri).
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genealogia di Michel Foucault, dalla différance di Jacques Derrida, dall’immanenza nel pensiero di Gilles Deleuze. Questo Soggetto è oggi l’argomento preferito della filosofia della mente, così come delle declinazioni locali e postume del pensiero debole, analitico, giuridico o variamente ontologico, psicoanalitico e antropologico, infine di quello antagonista o della filosofia radicale, a tal punto da dominare in maniera inesausta l’orizzonte delle scienze umane, sociali, giuridiche – quelle che un tempo si chiamavano “scienze dello spirito” – e ancor più di quelle epistemologiche, scientifiche o applicative – le “scienze della natura”. Questa rinnovata centralità è stata travolta da un’impetuosa corrente neoscientista ispirata a paradigmi deterministi e imprenditoriali, indirizzati dal mercato accademico e implementati dal sistema della valutazione delle pubblicazioni scientifiche. Il dispositivo ha rafforzato il mistero del Soggetto attribuendogli una trasparente familiarità domestica. Il Soggetto – e il suo risvolto più immediato, l’Io – rappresenta oggi il sostrato allusivo, ma non per questo meno falsamente “oggettivo”, di tale orientamento. Si è così sviluppata una nuova attitudine nel lavoro intellettuale che ha creato – o rafforzato – un’attitudine iper-individualista e fondamentalmente corporativa nell’esercizio della professione della ricerca e nelle attività classificabili come “letterarie”. Al di là del banale, intramontabile e autoevidente imperativo capitalista applicato in questi campi – “si scrive per vendere e vende solo chi possiede lo status di scrittore di successo o di opinionista leader” –, al centro di questa generale trasformazione c’è l’intellettuale di se stesso. Il protagonista indiscusso, la stella polare della cultura neoimprenditoriale applicata alla valutazione della ricerca, il cosiddetto sistema-ANVUR, come quello della scuola incarnato dall’autovalutazione degli istituti o delle prove Invalsi.1 Il capitale (di pubblicazioni, di status, di relazioni) accumulato nel “portafoglio” dei titoli e dei meriti costituisce la ricchezza dell’impresa personale. La forma è il contenuto del Soggetto poiché tale accumulazione 1. Cfr. il numero monografico di “aut aut”, All’indice. Critica della cultura della valutazione, 360, 2013; e V. Pinto, Valutare e punire, Cronopio, Napoli 2012.
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consiste nel percepirsi come imprenditori delle proprie capacità, buone pratiche o intuizioni. 2. “Intellettuale di se stesso” è una locuzione, il cui conio credo derivi da una suggestione fornita da Pier Aldo Rovatti,2 che allude a un sopravvissuto, o revenant, in un mondo desertificato dalla catastrofe capitalista della privatizzazione e dell’iperburocratizzazione dello Stato. Gli organi del suo corpo rappresentano i comparti di un’azienda che lavora per il successo delle idee prodotte dalla testa-cervello – l’organo che rappresenta la parodia del Prometeo contemporaneo: il manager. Una rappresentazione che pervade le retoriche governative in tutto il mondo, ricavata dall’immagine che dal Policraticus di Giovanni da Salisbury al Leviatano di Hobbes ha forgiato l’immaginario moderno della rappresentanza politica. Al posto dell’impresa (o del manager) a quel tempo c’era il sovrano, il re. I ruoli oggi sono cambiati, ma le posizioni restano le stesse, all’interno di una rappresentazione verticistica, organicista e meccanica del corpo del sovrano inteso come corpo della nazione. Alla base c’è un dispositivo che assegna la funzione del comando – l’imperium – a un soggetto onnisciente e onnipotente. Le parti, organi, funzioni, ruoli obbediscono agli impulsi dettati da un unico centro decisionale incarnato – per una salda credenza antropomorfica – in un soggetto eminente che esercita una funzione pastorale. Come la monarchia anche l’impresa, e il politico che governa il suo paese come un imprenditore, aspira a dirigere la coscienza e l’anima dei singoli come “il pastore veglia sulle sue pecore”. L’impresa e, per proprietà transitiva, il soggetto imprenditore applicano al corpo della popolazione i principi del controllo e del comando esercitati un tempo dal monarca. Questa trasformazione ha creato la governamentalità neoliberale, contraddistinta dalla “presa del potere sull’uomo come essere vivente”, la “biopolitica”. Quella che Foucault ha definito una “statalizzazione del biologico” oggi si è trasformata nell’impren2. Cfr. P.A. Rovatti, Maschere filosofiche e società degli individui, “aut aut”, 10 aprile 2014, <autaut.ilsaggiatore.com/2014/04/maschere-filosofiche>.
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Kd Ykhh_Ykbkc W ceZe jke 97HBE C7PP7 =7B7DJ? Non bisogna mai essere troppo choosy. Elsa Fornero L’uomo non è altro che la serie delle sue azioni. G.W.F. Hegel Anche in questo caso, il racconto è finito. Raymond Queneau
1.
Hai diciannove anni e un vago riflesso edipico, una fragile coscienza politica, un insensibile moto generazionale ti spingono a pensare che no, non hai nessuna voglia di entrare nel ciclo produttivo del “capitalismo occidentale”. La tua posizione è altrove, a margine, leggermente decentrata rispetto al “sistema”. Lo senti: il tuo posto sarà quello di uno spettatore, ma non uno spettatore passivo: uno spettatore critico, attivo, molto loquace. Diciamo pure un intellettuale. – Ti arroghi il diritto di coltivare questo privilegio e ti iscrivi a filosofia pieno di entusiasmo per il futuro che ti aspetta: vai al punto 2. – Insistenti pressioni famigliari o un travagliato percorso interiore ti convincono che a certe occupazioni è meglio riservare il tempo libero (ti sei imbattuto in una frase di Primo Levi, autore prediletto: “Di scrittura non si vive, perciò mi sono iscritto a chimica”). Meglio dedicare le proprie energie allo studio di un mestiere “vero”. Ti iscrivi a medicina e vai al punto 4. 2. Sei scaltro, ben consigliato e coperto economicamente da una famiglia che, volente o nolente, accetta di farsi carico di una carriera accademica che si prospetta lunga e difficile. Accetti la spesa Carlo Mazza Galanti è nato a Genova nel 1977. Ha lavorato in Francia come ricercatore universitario prima di tornare in Italia, a Roma, dove vive e lavora. Ha scritto e scrive su diversi giornali e riviste, tra cui “Alias”, “D di Repubblica”, “lo Straniero”, “IL”, “minima&moralia”, “L’Ultimo Uomo”. Fa parte della redazione di “Nuovi Argomenti”. Traduce romanzi dal francese.
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morale per la tua affiliazione alla parrocchia di un potente barone: dopo la laurea consumi tre anni di assistentato volontario prima di vincere il dottorato con borsa che ti è stato promesso. Per il post-doc devi attendere altri quarantotto mesi guadagnando un compenso poco più che simbolico in cambio di sei ore settimanali di tutoraggio e didattica integrativa. Di fronte alla prospettiva di micragnosi assegni di ricerca a singhiozzo valuti l’offerta di una sistemazione più promettente in un campus dell’Iowa. – Decidi di partire per l’Iowa: vai al punto 3. – Decidi di perseverare in Italia: vai al punto 5. 3. Negli sconfinati territori del Midwest scopri un mondo universitario inedito, efficiente, democratico, meritocratico, abitabile. Tuttavia dopo un paio d’anni ti rendi conto che il lavoro è pesante e le gratificazioni della ricerca non sono esattamente quelle che speravi. Ti manca l’Italia, il clima, la lingua, gli amici, la mozzarella. Seduto davanti all’Apple del tuo studio privato, lo sguardo vaga distratto nel cerchio di conifere del parco alla ricerca di una soluzione. – Allo scadere del contratto prendi la decisione sofferta di tornare indietro? Vai al punto 7. – Meglio la sconsolata routine di un buon lavoro lontano da casa piuttosto che la certezza di un futuro malsano: l’Italia è un posto buono per andarci in vacanza, non per lavorarci (abbastanza cinicamente ripeti questa frase con l’unico amico di Roma che ancora senti, a intervalli sempre più prolungati, su Skype). Continui a sgobbare nel campus e corri al punto 6 per conoscere il tuo futuro. 4. Gli insegnamenti obbligatori del primo anno ti assorbono completamente: non solo non trovi il tempo di aprire i romanzi e i saggi che ti eri prefisso di leggere ma perfino le uscite serali con gli amici sono diventate un bene di lusso. Impossibile giocare a calcio, impossibile suonare nei Nuovi Vaghi, il tuo gruppo storico del liceo. Impossibile fare qualsiasi cosa che non sia studiare. Uniche distrazioni: un solitario di Windows o una partita a scacchi contro il computer come pausa distensiva tra un capitolo di 55
embriologia e gli ingarbugliati schemi preparatori al temibile test di anatomia umana. – Dopo un anno di studio disperato scegli di fare il passo indietro e tornare a una vita normale, a quella che desideri: socialità e cultura, persone interessanti e cose belle, viaggi, creatività, tempo libero. Cambi facoltà, ti iscrivi a filosofia e torni al punto 2. – Tieni duro. Pensi a quello che stai facendo come a un necessario investimento sul futuro. Dopo la laurea recupererai il tempo perso, insieme a tutto il resto. Sei un giovane coscienzioso e questa storia non ti riguarda più: il tuo racconto finisce qui. 5. Al sesto anno di precariato post-laurea cominci a portare il pizzetto gentiliano del tuo professore e quando cammini congiungi le mani dietro la schiena in un atteggiamento meditativo-patriarcale che nasconde un principio di prostrazione psichica. A trentanove anni sei in vista della promozione sperata ma continui a dividere la casa con un’amica ex compagna di dottorato (primo Wittgenstein), ora commessa di profumeria. La tua famiglia per quanto mediamente benestante non può permettersi di sostenere l’affitto di un appartamento intero per ogni figlio (ce ne sono altri due). Per arrotondare gli stipendiucoli intermittenti hai trovato un lavoro alimentare che preferisci tenere nascosto ai colleghi universitari. A quarantatré anni diventi ricercatore, prendi in affitto un bilocale dove vivi da solo, abbandoni i lavoretti clandestini e cominci a delegare parti sempre più cospicue delle tue mansioni a dottorandi o laureandi in odore di dottorato. Il tuo sguardo si è illanguidito, presti meno attenzione al tuo aspetto fisico, a come ti vesti, alla tua immagine pubblica, ma hai una discreta reputazione come studioso di Hegel e la tua sciatteria viene interpretata dagli studenti come un sintomo di genialità. Scavalcando gli ostacoli delle successive riforme diventerai associato a cinquantun anni e aspetterai l’ordinariato senza troppa fretta conducendo una vita apparentemente tranquilla, ormai dimentico delle belle speranze ma ancora capace di goderti i sudati privilegi infliggendo ai subordinati piccole soperchierie, vanagloriose ostentazioni, pignoli e spesso oziosi esercizi di potere. Questa storia per te finisce qui. 56
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'$ =[d[Wbe]_[ Z[b bWlehe ic_ikhWje Che cosa rimane del lavoro nella società delle reti globali e dei processi di accumulazione basati sulla finanziarizzazione della vita? Cosa resta del lavoro nel momento in cui l’estrazione del valore nel capitalismo pare avere sempre meno a che fare con la quantità di lavoro impiegato nei processi di produzione? La questione è tanto spinosa quanto controversa e merita, da un lato, cautela analitica e, dall’altro, una buona dose di coraggio interpretativo. Il lavoro (o meglio la sua attuale scarsità sociale), non c’è dubbio, occupa con rinnovata e maniacale frequenza lo spazio circoscritto dai riflettori della discussione pubblica. La crisi economica globale morde così forte il lavoro, infatti, che finisce per smembrarlo e quindi per allentare la sua tradizionale capacità di istituire coordinate e norme per il riconoscimento e l’orientamento sociale. L’istituto dell’impiego, vero punto di capitone della società Federico Chicchi è professore associato presso il Dipartimento di sociologia e diritto dell’economia dell’Università di Bologna. Insegna Sociologia economica e del lavoro presso la Scuola di scienze politiche dell’Università di Bologna. È membro associato dell’Associazione lacaniana italiana di psicoanalisi e docente IRPA. Tra le sue più recenti pubblicazioni segnaliamo: Soggettività smarrita. Sulle retoriche del capitalismo contemporaneo (Bruno Mondadori, Milano 2012) e, con Mauro Turrini, Precarious Subjectivities Are Not for Sale (“Global Discourse”, 3, 2013). Nicoletta Masiero è dottoranda all’École doctorale “Cultures et société”, Université Paris XII e ricercatrice presso IRES Veneto, dove si occupa di ricerca sociale e trasformazioni del lavoro. Fra le ultime pubblicazioni, Esplorare il lavoro cognitivo: una ricerca alla prova della contemporaneità (con D. Dieci), in A. Verrocchio e E. Vezzosi (a cura di), Il lavoro che cambia (EUT, Trieste 2014), e VAE en Italie et paysages sociaux (con I. Padoan e C. Chiusso), in P. Lafont (a cura di), Politiques publiques et privées pour la mise en oeuvre des dispositifs de validation des acquis de l’expérience et leur internationalisation (UPE, Paris 2014).
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economica fordista e industriale, descritto in modo così prezioso da Robert Castel, perde infatti completamente “legittimità” con il precisarsi progressivo della nuova razionalità sociale neoliberale.1 Inutile allora, ci pare, tentare di esorcizzare l’evaporazione del lavoro,2 visto che viene progressivamente meno la sua esclusiva centralità nel processo di accumulazione capitalistico. Che cosa rimane, quindi, di ciò che ancora ci ostiniamo a chiamare un lavoro? Quali sono le misure del valore-lavoro nel capitalismo biopolitico e cognitivo? Come si ricostruiscono oggi i transiti sociali dentro il farsi confuso del confine tra vita e lavoro? In che modo la soggettività istruisce la sua dimensione produttiva e cooperativa se nel lavoro salariato (l’impiego) non può più trovare il suo dispositivo privilegiato di approdo sociale? Per poter tentare di dare alcune risposte a tali quesiti, dobbiamo, a nostro avviso, innanzitutto dotarci, seguendo Michel Foucault, di un metodo peculiarmente genealogico,3 capace cioè di rintracciare le sporgenze positive che attraversano e pongono in fibrillazione, a partire da un certo momento, le relazioni tra i poteri, i saperi e i corpi all’interno di quella che fu la “Società del lavoro”. Occorre allora fare i conti con ciò che Boltanski e Chiapello hanno weberianamente definito l’emergere di un nuovo spirito del capitalismo,4 spirito che comincia a fare presa sul piano economico e sociale già alla fine degli anni sessanta del secolo scorso. Secondo gli autori è l’imporsi di una nuova forma di critica, la “critique artiste”, che associandosi a quella più tradizionale di tipo sociale, introduce uno spostamento qualitativo in seno al capitalismo. Capitalismo che si rifonda, metabolizzando e neutralizzando perlopiù 1. Cfr. P. Dardot, C. Laval, La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista (2009), trad. di R. Antoniucci e M. Lapenna, DeriveApprodi, Roma 2013. 2. Cfr. F. Chicchi, Soggettività smarrita, cit. 3. La genealogia, come è noto e come è proposta da Foucault, è una pratica di ricerca che rifiuta di adottare un metodo di indagine storico di tipo tradizionale; si oppone alla ricerca dell’origine, alla distillazione del fenomeno per ricavarne una supposta purezza. Il suo obiettivo fondamentale è quello di “reperire la singolarità degli eventi, fuori da ogni finalità monotona” (M. Foucault, “Nietzsche, la genealogia, la storia”, 1971, trad. di A. Fontana, P. Pasquino, G. Procacci, in Microfisica del potere, Einaudi, Torino 1977, p. 29). 4. L. Boltanski, È. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo (1999), trad. di M. Schianchi, Mimesis, Milano-Udine 2014.
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tali critiche, dentro quella che gli autori chiamano la “cité par projets”.5 Se la critica sociale aveva come obiettivo fondamentale la denuncia delle diseguaglianze sociali e l’organizzazione della lotta contro lo sfruttamento del lavoro, la critica artistica rivolge invece la sua azione contro la disciplina, l’omogeneizzazione, la razionalizzazione e l’ortopedia della vita così come il fordismo l’aveva concepita, spingendo al contempo a valorizzazione un ideale sociale di autonomia e autenticità.6 Sotto la sferza della critica artistica, l’azienda viene ridotta alla funzione di istituzione oppressiva, analoga allo stato, all’esercito, alla scuola o alla famiglia. Di conseguenza, la lotta antiburocratica per l’autonomia sul luogo di lavoro ha preso il sopravvento sulle questioni relative all’eguaglianza economica e alla sicurezza dei più deboli e dei meno protetti. Le rivendicazioni “qualitative”, come si diceva al tempo, sembravano più rilevanti e, addirittura, più rivoluzionarie, di quelle “quantitative” per la loro capacità di agire sulle forme stesse dell’accumulazione capitalistica.7 Nella città per progetti si producono e annidano, quindi, le norme che sostengono le giustificazioni utili a far “funzionare” socialmente il terzo spirito del capitalismo. In questo senso è bene evidenziare come, secondo i due autori, la critica che viene rivolta al capitalismo svolge anche una funzione di indirizzo e sostegno normativo delle sue progressive trasformazioni, sia sul piano economico, sia sul piano della sua complessiva organizzazione sociale. 5. Le caratteristiche di questa nuova cité sono descritte nel volume Il nuovo spirito del capitalismo: “Abbiamo enumerato le qualità il cui possesso, all’interno di questa cité, porta a definire qualcuno come ‘grande’. Sono le caratteristiche per eccellenza del manager, del capo progetto, mobile, leggero, dotato dell’arte di stabilire e intrattenere numerose connessioni, diverse e arricchenti, e della capacità di estendere le reti” (L. Boltanski, È. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, cit., p. 411). 6. Su questo a nostro parere sono particolarmente preziose le riflessioni di Alain Ehrenberg contenute nel suo volume La società del disagio. Il mentale e il sociale (2010), trad. di V. Zini, Einaudi, Torino 2010. 7. L. Boltanski, È. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, cit., pp. 254-255.
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ra le varie definizioni e riflessioni sulla crisi che Antonio Gramsci sviluppò nei Quaderni ve n’è una, forse meno nota, dalla quale vorremmo partire per rendere conto della serie di rovesci prospettici che la recente crisi finanziaria ha generato. Ciò ci permette di tracciare il contesto genealogico in cui inserire una discussione sulla condizione del lavoro culturale non strutturato in Europa ed esaminare, per questa via, alcune pratiche di autoorganizzazione articolate attorno all’esperienza del comune. Nel 1933, proponendo di valorizzare la nozione di “svolgimento” in alternativa a quella assai diffusa di “evento”, Gramsci chiariva, in un frammento, che la crisi si dispiega come “l’intensificazione quantitativa di certi elementi, non nuovi e originali, ma specialmente l’intensificazione di certi fenomeni, mentre altri che prima apparivano e operavano simultaneamente ai primi, immunizzandoli, sono divenuti inoperosi o sono scomparsi del tutto”.1 Si è ampiamente discusso di come, a livello di iscrizione simbolica, la recente crisi si sia giocata, assieme ad altri fattori, sul piano Andrea Mura è ricercatore in Filosofia politica presso la Facoltà di scienze sociali della Open University. Ha contribuito a numerosi volumi e riviste internazionali in ambito di filosofia comparata, psicoanalisi e analisi delle ideologie e dei discorsi. È in corso di pubblicazione presso Ashgate la sua monografia The Symbolic Scenarios of Islamism: A Study in Islamic Political Thought. 1. A. Gramsci, “Q 15 (II) § 5, Passato e presente. La crisi” (1933), in Quaderni dal carcere, Einaudi, Torino 2001, vol. III, p. 1756.
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dell’intensificazione del dispositivo del debito.2 In un processo di progressiva torsione, il paradigma dell’indebitamento avrebbe finito per sostituire o parzialmente immunizzare la posizione dominante che la correlata retorica del credito e della libertà aveva giocato negli anni della prosperità neoliberale, quando l’Europa si autorappresentava come superficie illimitata di credito innanzi a un Terzo Mondo in attesa di una “benevola” rinegoziazione del debito. Che la discussione sulla rinegoziazione del debito traversi oggi lo spazio europeo, a poco più di dieci anni di distanza dall’emblematica esperienza del social forum, ponendosi come segno di rinnovate pratiche disciplinari a livello continentale, fa parte della serie di ritorni dal campo dell’Altro e di conseguenti rotazioni dell’immaginario europeo che la crisi ha prodotto. Secondo la recente analisi di Maurizio Lazzarato, la crisi, “svelando la natura delle relazioni di potere, porta a forme di controllo molto più ‘repressive’ e ‘autoritarie’, che non devono più preoccuparsi della retorica della ‘libertà’, della creatività e dell’arricchimento come negli anni Ottanta e Novanta”.3 Per Lazzarato, tale passaggio segna una rottura e una “nuova fase” rispetto a quel modello di cattura biopolitica che l’ideale di libertà mobilitava all’interno del discorso neoliberale postbellico, e che Foucault aveva posto al centro della sua analisi indicando una cruciale transizione dalla prospettiva liberale classica dell’homo oeconomicus, soggetto di scambio nel mercato all’interno di una logica utilitaristica, alla figura neoliberale dell’imprenditore di se stesso, organizzata attorno all’idea “che l’analisi economica debba ritrovare, come elemento di base per le sue decifrazioni, non tanto l’individuo, non tanto dei processi o meccanismi, ma delle imprese”.4 In questa prospettiva, inserito in un quadro di crescente competitività, l’imprenditore di se stesso era così agganciato a un 2. Per una discussione recente sul tema si rimanda all’insieme di contributi apparsi nel numero The Greek Symptom: Debt, Crisis and the Left, “Radical Philosophy”, 181, 2013. 3. M. Lazzarato, La fabbrica dell’uomo indebitato. Saggio sulla condizione neoliberista (2011), trad. di A. Cotulelli e E. Turano Campello, DeriveApprodi, Roma 2012, pp. 121-122. 4. M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France, 1978-1979 (2004), trad. di M. Bertani e V. Zini, Feltrinelli, Milano 2005, p. 186.
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sistema di valutazioni e calcoli attraverso cui si costituiva la sua responsabilità e razionalità imprenditoriale, la sua capacità duttile di assumere decisioni di investimento atte ad assicurare l’accrescimento e la valorizzazione di sé in quanto capitale umano.5 Il lavoro su di sé poteva però contare sulla promessa di un ritorno produttivo, nella forma di un soddisfacimento o di un resto, attraverso il consumo di godimento e l’offerta retorica di forme nuove di autorealizzazione, riconoscimento ed emancipazione. Si è visto come Lazzarato evidenzi il lato della rottura rispetto a tale modello, annunciando l’irruzione di una “svolta autoritaria” che trasforma quella promessa di libertà e autorealizzazione annessa al lavoro su di sé in un “imperativo a farsi carico dei rischi e dei costi che non vogliono assumersi né lo Stato, né le imprese” e che costringe l’imprenditore di se stesso a essere sempre più imprenditore dei propri debiti.6 Rispetto all’enfasi qui posta sull’emergenza di una svolta autoritaria, suggeriamo tuttavia di considerare la dimensione illiberale che il discorso dell’austerity ha impegnato in seno all’orizzonte neoliberista come indicativa, piuttosto, di un rovescio discorsivo e simbolico del neoliberalismo stesso, rovescio che manterrebbe intatta, a nostro avviso, la sua contiguità strutturale con quel fantasma di libertà a cui Foucault aveva dato particolare rilievo nella sua analisi sulla Nascita della biopolitica. In linea con l’idea di crisi come svolgimento complesso elaborata da Gramsci, tale svolta, più che una rottura, parrebbe infatti denotare una torsione dell’ideale neoliberale di libertà, torsione che evidenzierebbe la diminuita operatività della retorica sulla liberalità, sul successo, sulla prosperità e sul credito a fronte di quei termini di correlazione – pratiche illiberali, fallimento, povertà e debito – che un tempo erano posti a margine (o al di fuori dei confini autorappresentativi dell’Europa), e che andrebbero ora a intensificarsi, tornando nel campo europeo e producendo un evidente effetto di desedimentazione del discorso sull’Europa. 5. Si veda l’attenta analisi di E. Stimilli, Il debito del vivente. Ascesi e capitalismo, Quodlibet, Macerata 2011. 6. M. Lazzarato, La fabbrica dell’uomo indebitato, cit., p. 107.
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uando ci vediamo per la prima volta, Lorena si trova dai suoi, in un tranquillo quartiere medio-borghese di una città meridionale. Una casa in cui lei stessa ha abitato per tanti anni. Nella città in cui è nata e vissuta, che adora. Una città con cui Lorena sembra fare corpo attraverso il suo linguaggio, che nelle interazioni informali suona vivace, ricco di espressioni locali, e che può tuttavia prendere – improvvisamente – una piega formale, contrassegnata da un tono imparziale, tipico dell’atteggiamento professorale. Cosa che accade puntualmente quando Lorena parla delle sue ricerche. “A casa dei miei”, dice Lorena, anche se nel corso dell’intervista si farà sfuggire uno spaesante – unheimlich: è il caso di dirlo – “a casa mia”. La ricerca sociale si tiene generalmente a distanza dalla psicologia spicciola della vita quotidiana. Eppure i lapsus di questo tipo, che definirò a scanso di equivoci lapsus sociologici, sono atti mancati che, al di là, o meglio al di qua del loro significato psicologico, spesso aiutano a capire meglio il senso delle biografie delle persone incontrate dal ricercatore. Come tutti i precari, in effetti, Lorena sa cosa significa essere alla ricerca di una casa, cambiare Alessandro Manna svolge attività di ricerca e insegnamento presso l’EHESS di Parigi, dove sta terminando un dottorato in scienze sociali. Si occupa soprattutto di politiche della salute e psichiatria. Lavora inoltre come ricercatore sociale e traduttore free lance. Ha pubblicato con il collettivo “Action30” il libro L’uniforme e l’anima. Indagine sul vecchio e nuovo fascismo (Bari 2009).
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spesso casa, vivere nella paura di dover lasciare la propria casa, oppure essere tout court senza una casa, ritrovandosi sotto il tetto dei genitori. A dire il vero Lorena è una “fortunata”, è lei stessa a dirlo: “Non mi lamento”. Ha fatto un dottorato e un post-dottorato pagati. Ha lavorato in un’azienda con uno stipendio “di tutto rispetto”. Vale anche per la casa. Lorena ha battagliato per conquistarsi uno spazio suo. Ha cambiato tanti indirizzi ma è sempre riuscita a vivere da sola. Oggi però è dai suoi perché sua madre non sta bene. “Nulla di grave”, ma vuole starle vicino: la signora Elisa “non si ferma un attimo”. Nel corso dei nostri incontri Lorena si allontanerà spesso dallo schermo del computer per andare da sua madre, per controllare che tutto sia a posto. Con Lorena, infatti, si è deciso di incontrarci in videoconferenza: sarebbe stato troppo complicato e troppo costoso percorrere centinaia di chilometri per intervistarla. IYh_l[h[ bW fh[YWh_[j} Z[]b_ Wbjh_ f[h ded Z_h[ bW l[h_j} Z_ i[ ij[ii_5 Il fatto di cimentarsi in un’etnografia virtuale solleva degli interrogativi sul modo in cui le culture dell’immaterialità possono modificare, oggi, le pratiche della ricerca sociale. L’etnografia è tradizionalmente legata a doppio filo alla materialità dei luoghi in cui si svolge un’inchiesta: l’etnografo ama sentire con il proprio naso l’odore dei luoghi in cui conduce le sue inchieste e interagisce faccia a faccia con persone a cui fa delle domande, spesso indiscrete, perché desidera raccontarne le esperienze. Ma non ci sono soltanto l’epistemologia della ricerca e le riflessioni di rito sul metodo. C’è di più, e questo “di più” ha a che fare con ciò che gli antropologi chiamano “riflessività”, e che i filosofi definiscono “soggettivazione”. L’etica di sé. L’etnografia a distanza che sta alla base di questo articolo è anche una specie di ricerca low cost che interpella lo statuto sociale e la precarietà di chi scrive, di quel ricercatore che, facendo di necessità virtù, svolgendo le sue inchieste con gli elementi e attraverso i supporti di cui dispone, prova a comprendere la precarietà degli altri, assumendosi infine la responsabilità di metterla nero 100
su bianco. L’etnografo spesso nutre l’illusione del “sociologo re”1 e vuole dire la verità del mondo sociale illudendosi di osservare sovranamente ciò che gli accade intorno da una posizione ideale di presunta assoluta neutralità. Senza sporcarsi le mani con il mondo o con se stesso. Ma la precarietà che egli prova a descrivere è pure la sua precarietà, mentre parlare e scrivere della precarietà degli altri diventa un modo di sublimare e mettere a tacere la propria precarietà. L’etnografo evita di prendere pubblicamente la parola per fare la genealogia di se stesso; evita di raccontare la propria storia in prima persona a partire dal proprio nome, scandito a chiare lettere, in una ricostruzione pubblica priva di censure della traiettoria che lo ha fatto diventare quello che è. Strana macchinazione, attraverso la quale l’etica e la politica di sé si dissolvono in un’etica accademica della difesa della privacy degli intervistati (Lorena è infatti un nome di fantasia), e la parresia si sublima in una conoscenza distaccata dei “processi sociali”. Strano détournement, che spinge chi scrive a censurare la propria storia per raccontare la storia di un’altra persona la quale, privata a sua volta di un nome proprio, diventa un caso anonimo ed esemplificativo di come funziona la società. BW leYWp_ed[ Z_ Beh[dW$ E Yec[ i_ Z_l[djW bW h_Y[hYWjh_Y[ Y^[ i_ Lorena ha 33 anni e fa la ricercatrice in scienze umane e sociali. O meglio: è una ricercatrice in scienze umane e sociali. Lo è perché lei si sente tale e si definisce come tale, e non solo, o non tanto, perché c’è un curriculum a dimostrarlo. Una ricercatrice pura: l’insegnamento non la entusiasma. Impossibile sorprenderla a lamentarsi dell’impreparazione e dell’ignoranza degli studenti – che è poi uno degli atteggiamenti caratteristici dell’habitus professorale:2 1. J. Rancière, Le philosophe et ses pauvres (1983), Flammarion, Paris 2010. 2. Secondo Bourdieu e Passeron il discorso della “nullità degli studenti”, simmetrico rispetto a quello dell’“infallibilità del maestro”, è un motivo costante del discorso scolasticoprofessorale: P. Bourdieu, J.-C. Passeron, La reproduction. Éléments pour une théorie du système d’enseignement, Minuit, Paris 1970, pp. 81-82. Sul tema insiste anche Raffaele Simone in L’università dei tre tradimenti, Laterza, Roma-Bari 2000, p. 125 sgg.
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Vincenzo Ostuni è dottore di ricerca in filosofia. Redattore di minimum fax, poi editor di saggistica e in seguito direttore editoriale di Fazi, oggi lavora per Ponte alle Grazie come editor di saggistica e narrativa. Il suo secondo libro di poesie, Faldone zero-venti. Poesie 1992-2006, è uscito per Ponte Sisto nel 2012. Una scelta dal suo terzo libro, Faldone zerotrentanove. Poesie 1992-2010, è stata pubblicata in volume da Aragno nel 2014, con il titolo Faldone zero-trentanove. Estratti 2007-2010, I. È stato tra i fautori di Generazione TQ. Il suo sito è www.faldone.it
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(«Arriviamo per tempo ovunque occorra», annunciano; «non c’è altra chance, capillarità e certezza sono marchi di fabbrica; voi dormite pure senza preoccupazioni: sta a noi cercare le chiavi nelle tasche giuste, scavalcare le gardenie, un salto al metro. Per i miglioramenti farete presto: basterà l’impellenza delle vostre determinazioni»).
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ell’estate del 2013 ho visitato la Biennale di Venezia. Il tema dell’anno era Il palazzo enciclopedico e uno dei primi padiglioni, appena varcato il cancello dei Giardini, era quello belga. All’interno, una grande installazione dal titolo Krippelwood di Berlinde De Bruyckere. Prima di poter accedere alla grande sala illuminata da una tenue luce grigiastra il visitatore doveva attraversare uno stretto e corto corridoio drappeggiato di nero, dove si potevano leggere, su un foglio in formato A4, senza alcuna pretesa grafica, poche righe a firma J.M. Coetzee dal titolo Kreupelhout. Ecco il testo: Crippelwood, il legno storto, non è legno morto, non è deadwood. Deadwood nella mitologia del Far West era il villaggio delle speranze fallite, dove finivano le piste. Il legno storto al contrario è vivo. Come tutti gli alberi, anche il legno storto anela al sole; ma qualcosa nella sua struttura genetica, qualche tara o veleno, ne deforma le ossa. In kreupelhout – legno storto – legno nodoso – legno torto c’è un groviglio lessicale (grommoso, noderoso, nocchioso: varianti della stessa parola): 1. kreupel – kruipen (storpio, strisciare) – gruccia – crucia (crocco) Alessandro Di Grazia, dopo essersi occupato per molti anni di pedagogia steineriana, attualmente lavora come consulente filosofico. Fa parte del Laboratorio di filosofia contemporanea di Trieste.
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2. nodo < gnocco, nocchiuto (annodato) 3. gnommero: (1) un groviglio (una trappola), (2) crocchia, nodo (di capelli) L’arbusto storto: quello che non può raddrizzarsi, che cresce piegato, accovacciato; dai cui rami strappiamo le grucce per coloro che possono solo strisciare; dalle membra nodose, distorte, aggrovigliate. I nodi sono di due tipi, quelli razionali, creati dalla ragione umana, che essendo stati annodati possono essere sciolti, e quelli che si trovano in natura, indissolubili, per i quali non c’è soluzione, non c’è oplossing. Storpio/kreupel: parola non più in uso nel vocabolario civile. Rifiutata come sordida, rispedita al mondo da cui proviene e cui pertiene, un mondo di tuguri e caseggiati popolari, di fogne allo scoperto e carbonaie, di carretti tirati dai cavalli e di cani famelici per le strade. Parola indesiderata, repressa, sotterrata. Dal passato sepolto l’albero storto spunta nel nostro terso presente, e insinua le dita nodose su per le sbarre/barre dietro cui l’abbiamo confinato. J.M. Coetzee Adelaide, 14 febbraio 2013 Superata questa pagina, tanto scarna quanto precisa e perfino didattica, si poteva accedere alla grande sala che ospitava l’opera dell’artista belga. Una volta entrati ci si trovava in presenza di un’installazione-opera scultorea dal materiale scarsamente identificabile. A uno sguardo superficiale si è convinti di essere di fronte a un enorme tronco ramificato di quello che un tempo poteva essere stato un albero. Ma avvicinandosi e guardando bene ci si rende conto che c’è qualcosa di più: striature di sangue, accenni di tessuti, groppi nascosti da bendature e insaccamenti suturati o cuciti. Una presenza scarnificata di uno strano essere, una “cosa” affondata in una luminescenza velata di scuro. L’illuminazione proveniente dall’alto soffitto del padiglione è attutita da tendaggi neri, ma non troppo spessi, tali da lasciar filtrare comunque la luce necessaria 140
per scorgere i dettagli dell’installazione. Lo sguardo è così attratto e catturato da una fascinazione a tratti macabra. Ma l’installazione non è solo Pagina-in-entrata + legno-tortonel-padiglione. In occasione dell’allestimento del padiglione belga è comparso anche un libro, We Are All Flesh,1 curato anch’esso da J.M. Coetzee e Berlinde De Bruyckere, che possiamo ritenere parte integrante di tutta l’operazione. Non è un libro nel senso convenzionale del termine, ma una vera e propria installazione cartacea: a fotografie di opere di De Bruyckere si alternano brani che Coetzee ha estratto chirurgicamente dai propri romanzi senza alcun riferimento cronologico. Se Kreupelhout, a un primo sguardo, appare come un resto, una sorta di relitto, questa serie di brani appare come un resto la cui storia non è rintracciabile in una narrazione ordinata. Il testo fa “gnocco” con Kreupelhout presente nel padiglione, in quanto a esso è annodato inestricabilmente e ne costituisce un rimando continuo. Ma anche il testo stesso, preso a sé, è una particolare raffigurazione di intrecci, nodi, rinvii e trappole, che si raddoppiano intersecandosi con le fotografie delle opere di De Bruyckere. Se Kreupelhout ha a che fare con l’interruzione continua di linee narrative, deformazioni, ritorni su se stesso di percorsi di un essere che inciampa, intoppa, è storpio e striscia, We Are All Flesh è costituito da brani d’autore che hanno perso una loro correlazione narrativa. I “brani” possono essere una parte di un racconto, o una parte di un’opera musicale, ma fare anche riferimento a dei tocchi di carne; una carne fatta a brani, strappati da quello che un tempo era stato un “corpo”. Fare a brani un “corpus letterario”; brani disposti a costituire una serie di nodi e ramificazioni tematicofigurali, il cui contenuto sembra strappato dal corpus di Coetzee stesso. Lo strappo e la disarticolazione del corpo appaiono come 1. We Are All Flesh, MER Paper Kunsthalle, s.l. 2013. Va notato che l’inglese flesh indica la carne animale viva, distinta da meat, che si riferisce alla preparazione delle carni a scopi culinari. Allo stesso modo, in francese abbiamo le parole chair e viande. Il tedesco ha solo Fleisch, potendo però distinguere con Quick la carne viva lesa o aperta, sia in senso concreto che in senso metaforico. Il tedesco sopperisce a questa parziale lacuna potendo distinguere tra Körper e Leib, distinzione fondamentale nella fenomenologia husserliana. In italiano queste distinzioni non sono date.
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H[ifediWX_b_j} [ fhe][jje$ BÊ[h[Z_j} Z_ ;dpe FWY_ [Z ;hd[ije DWj^Wd He][hi 97HBE :;H;=?8KI Forse la cosa migliore da dire circa l’etica e l’architettura è che è un argomento che riscuote interesse, ma non vi è né chiarezza, né consenso sull’argomento.1
L
a relazione tra filosofia e architettura negli ultimi anni si è sempre più rafforzata: non esiste oggi teoria del progetto che rinunci alla profusione di citazioni dei pensatori più alla moda (anche se per lo più decontestualizzati, quando non fraintesi).1E nella direzione inversa, l’architettura è privilegiato terreno di verifica per il pensiero filosofico, come mostrano a titolo di esempio i prolungati dialoghi derridiani su archi-scrittura e architettura della decostruzione.2 Eppure la reciproca contaminazione rimane al livello della fascinazione concettuale. D[Y[ii_j} Z_ [j_YW ' C’è un chiaro motivo per cui gli architetti oggi guardano al mondo filosofico. La polverizzazione degli approcci al progetto, divenuta endemica negli ultimi decenni,3 ha sempre più dissolto il limite Carlo Deregibus (Torino, 1982) è architetto e dottore di ricerca. Ha partecipato a convegni e mostre in tre continenti e pubblicato articoli su riviste quali “Construction History”, “Journal of the IASS” e “Il Giornale dell’Architettura”, oltre a contributi su monografie in Italia e all’estero. È del 2014 il saggio Intenzione e responsabilità. La consistenza etica dell’architettura contemporanea, edito dalla IPOC di Milano. 1. P. Bess, Communitarianism and Emotivism, “Inland Architect”, 5-6, 1993. L’autore poi prosegue, in realtà, in modo meno esaustivo e pervasivo di quanto l’inizio potrebbe indurre a pensare, restringendo il campo ai temi del politically correct. 2. Dialoghi su cui i dibattiti sono aspri. Cfr. per esempio, tra i “pro”, F. Vitale, Mitografie. Jacques Derrida e la scrittura dello spazio, Mimesis, Milano-Udine 2012 e, tra i “contro”, N.A. Salingaros, Anti-architecture and Deconstruction, Umbau-Verlag, Solingen 2005. 3. Come rilevava Manfredo Tafuri alla fine della sua Storia dell’architettura italiana 1944-
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tra poetica e teoria. In questa situazione, il tema dell’etica si è riproposto in modo radicale: che cosa è giusto progettare? E in che modo è giusto progettare? Quando Franco Purini, ormai quindici anni fa, inaugurava la ricerca di una nuova eticità dell’architettura,4 proponeva come strada la rinuncia all’autorialità o, al contrario, la sua esaltazione: ma entrambe queste strade non hanno mostrato sviluppi. In effetti, dalle (presunte) certezze, quali il rapporto forma-funzione, il riconoscimento sociale degli stilemi, la ratio delle tecniche di costruzione, il valore autoriale, si è passati ad approcci personalistici che spesso non sono nemmeno in diretto contrasto tra loro: concentrati su aspetti diversi del progettare, tendono ad assolutizzarli per connotarsi in modo chiaro e univoco e ottenere così una maggiore riconoscibilità. Possiamo facilmente interpretare la posizione che ognuna di queste “teorie” propugna come un esempio di monismo etico, secondo il fortunato concetto espresso da Isaiah Berlin.5 La tendenza al monismo è la tendenza a estremizzare un valore dandogli una rilevanza, esplicita o implicita, così forte da misurare ogni azione secondo quel valore. Come se risolvere quello specifico nodo che la teoria favorisce (e che naturalmente viene presentato come emergenziale nella contemporaneità: sia esso l’“atmosfera” dell’edificio, l’efficienza strutturale, la fedeltà costruttiva o la lotta contro il “falso”) automaticamente legittimasse ogni altro aspetto del progetto. E da questa situazione derivano due conseguenze importanti. Da un lato, è chiaro che una teoria di questo tipo consente di evi1985, Einaudi, Torino 1982, 20022. In effetti, tutti coloro che negli ultimi decenni hanno provato a tracciare geografie culturali dell’architettura hanno dovuto rassegnarsi a logiche compilative o percorsi parziali, come nel caso di Kate Nesbitt (Theorizing a New Agenda for Architecture: An Anthology of Architectural Theory 1965-1995, Princeton Architectural Press, New York 1996), o di Charles Jencks e Karl Kropf (Theories and Manifestoes of Contemporary Architecture, Wiley Academy, Chichester 1977-2006), o dell’ancor più recente Paola Gregory (Teorie di architettura contemporanea. Percorsi del postmodernismo, Carocci, Roma 2010). 4. “A fronte della caduta delle certezze teoriche e programmatiche che hanno sostenuto la cultura moderna del progetto si pone da più parti il problema di una nuova eticità dell’architettura”, F. Purini, Comporre l’architettura, Laterza, Roma-Bari 2000, p. 23. 5. Cfr. I. Berlin, Due concetti di libertà (1958), trad. di M. Santambrogio, Feltrinelli, Milano 1989, e Id., Quattro saggi sulla libertà (1969), trad. di M. Santambrogio, Feltrinelli, Milano 1989.
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tare la scelta demandandola a principi ritenuti superiori: traccia in sostanza un’etica dell’intenzione, in cui la responsabilità viene aggirata e in cui il risultato, come troppo spesso dimostrato da architetture più o meno recenti, non riesce ad andare oltre le perverse logiche del suo creatore. Dall’altro, se ognuno di questi manifesti si pone secondo un atteggiamento monistico, il risultato è una serie di alternative non commensurabili e scarsamente oggettive, tra le quali la scelta non potrà che essere radicale. Troveremo allora che nell’attualità il conflitto tra valori, più che fisiologico, è patologico: e poiché essi non sono effettivamente confrontabili, allora la preferenza per uno degli alternativi ordini di valori proposti potrà essere espressa solo in base a una propensione personale, un’attitudine emotiva. Perciò Philip Bess afferma: “Al posto di un qualche standard oggettivo, le recenti teorie offrono solo ‘emotivismo’”,6 riferendosi a quella vasta corrente del pensiero filosofico del Novecento che può essere chiamata, seppur con molte diramazioni, emotivismo etico. Ma l’architettura non può eludere la responsabilità, giacché produce trasformazioni i cui effetti ricadranno sugli altri. Forse un ordine di valori, o una teoria è in sé più convincente di un’altra, o ci pare istintivamente più valida: ma un’etica della responsabilità nell’architettura richiede la costruzione di un più complesso sistema di valutazione. D[Y[ii_j} Z_ [j_YW ( Eppure, in questa frammentazione degli approcci, ci sono anche proposte che si pongono programmaticamente in una prospettiva etica, seppure spesso sfumata nel politically correct. Per esempio, viene generalmente riconosciuta come etica l’idea che il processo di definizione delle trasformazioni sia condiviso, e non semplicemente imposto: principio alla base dei vasti e vari temi della partecipazione.7 6. Lo diceva in Communitarianism and Emotivism, cit., a proposito appunto dei diversi approcci, anche relativi a un tema più ristretto dell’agire architettonico, ovvero il suo rapporto con la società. 7. Per una breve panoramica, cfr. F. Pace, Forme di partecipazione e acquisizione della conoscenza nella pianificazione urbanistica locale, in G. Maciocco, G. Delpiano,
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MWbj[h 8[d`Wc_d" Yebb[p_ed[ fh_lWjW BK?=? 7PP7H?J?#<KC7HEB?
'$ BW l_jW feijkcW Z[]b_ e]][jj_ Il collezionismo – ha scritto Hermann Broch1 – è smania di infinito che in ogni cosa morta ritiene sia contenuto, ma forse pure nascosto e protetto, qualcosa di vivo che traspare oltre la semplice presenza a sé dell’oggetto, rivendicando un nuovo e diverso ordine storico.2 Questo, però, non coincide in modo esatto con quel significato che i secoli XVII e XVIII avevano voluto conferire alla storia facendo ricorso non più a una grande raccolta di documenti e segni riuniti in testi e archivi, bensì a spazi chiari in cui le cose potevano giustapporsi, dando vita a erbari, collezioni, giardini: a un “rettangolo intemporale, in cui, spogliati di ogni commento, di ogni linguaggio periferico”, gli oggetti si potessero presentare come portatori solo del loro nome.3 Nel gesto del collezionista che isola l’oggetto e lo pone in un microcosmo, l’intenzione di connettere le cose contemporaneamente allo sguardo e al discorso tende Luigi Azzariti-Fumaroli, dottore di ricerca in filosofia presso l’Istituto italiano di scienze umane di Napoli, attualmente è titolare del David Baumgardt Fellowship Award del Leo Baeck Institute di New York. È autore di numerosi articoli e saggi monografici, fra cui L’oblio del linguaggio (Guerini, Milano 2007); Alla ricerca della fenomenologia perduta. Husserl e Proust a confronto (Mimesis, Milano-Udine 2009); Brice Parain. Impromptu (Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2010); Giuseppe e i suoi fratelli: dalla filosofia narrante alla rivelazione (Editoriale scientifica, Napoli 2012). 1. Cfr. H. Broch, Die Schlafwandler (1932), Rhein Verlag, Zürich 1958; trad. di C. Bovero, I sonnambuli, Einaudi, Torino 1997, p. 73. 2. W. Benjamin, Das Passagenwerk (1927-40), in Gesammelte Schriften (d’ora in poi abbreviato in GS), vol. V, tt. 1 e 2, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1991, p. 271; trad. di M. De Carolis et al., I “passages” di Parigi, 2 voll., Einaudi, Torino 2002, vol. I, p. 214 (H 1a, 2). 3. M. Foucault, Les mots et les choses, Gallimard, Paris 1966; trad. di E. Panaitescu, Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1967, p. 147.
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infatti a combinarsi con la volontà di una storia restituita alla forza travolgente del tempo, a una Naturgeschichte, che esprime come nella “caducità [Verfall], e solo e unicamente [in] essa, l’accadere storico si contrae ed entra in scena”.4 Dialetticamente sospesa fra l’affermazione di un possesso e un’inevitabile consunzione,5 la passione del collezionista esprimerebbe la necessità di accedere a una dimensione cui è consustanziale un’assoluta debolezza o, meglio, a una dimensione nella quale la decomposizione, la rovina, la “facies hippocratica della storia”6 si svela senza più alcuna reticenza. Si scorge qui in modo esplicito il motivo che induce a osservare come in ogni collezionista si nasconda un allegorista e viceversa.7 Tuttavia, laddove l’allegorista costruisce una configurazione totalmente nuova e arbitraria, secondando la propria natura melanconica,8 il collezionista si volge verso gli oggetti quasi con compassione: “Toccarli non significa per lui violentarli, bensì sfiorarli amorevolmente”,9 così che essi possano rivelarsi e subito disgregarsi, lasciando che a restare sia “l’autentico: la cenere”.10 In tal senso la pratica del collezionismo si mostra affine a una forma 4. W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels (1928), in GS, vol. I, t. 1, pp. 207430: 355; trad. di G. Cunico, Il dramma barocco tedesco, in Opere complete (d’ora in poi abbreviato in OC), vol. II, Einaudi, Torino 2001, pp. 69-268: 215 (trad. modificata). 5. Come nota Pierre Missac, la sorte della collezione di libri e giocattoli raccolta da Benjamin insegna con forse maggiore efficacia ancora dei suoi scritti che la passione del collezionista tende gradualmente a cambiare di significato e, in luogo del fervore della conquista, essa indica le tappe che conducono a una “spogliazione [dépouillement]” (Id., Passage de Walter Benjamin, Seuil, Paris 1987, p. 56). 6. W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit., p. 343; trad. p. 202. 7. Id., Das Passagenwerk, cit., p. 279; trad. p. 222 (H 4a, 1). 8. Id., Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit., p. 359; trad. p. 219: “Se l’oggetto diventa allegorico […] il suo significato sarà quello che l’allegorista gli assegna. Egli l’inserisce e lo cala profondamente nell’oggetto: e la situazione non è psicologica ma ontologica”. 9. M. Pensky, Melancholy Dialectics. Walter Benjamin and the Play of Mourning, University of Massachussetts Press, Amherst 2001, p. 243. Ma si veda pure M.P. Steinberg, The Collector as Allegorist: Good, Gods, and the Objects of History, in Id. (a cura di), Walter Benjamin and the Demands of History, Cornell University Press, Ithaca-London 1996, pp. 88-118: 115, che sottolinea come il collezionista sia sì un allegorista, ma i suoi modelli di significato siano capricciosi, sparsi: “Egli non è un tassonomista”. 10. W. Benjamin, Gesammelte Briefe, vol. I, Suhrkamp, Frankurt a.M. 1995, pp. 348351: 349; trad. di M. Marietti e G. Backhaus, Lettere 1913-1940, Einaudi, Torino 1978, pp. 25-27: 26 (lettera a H. Belmore della fine del 1916).
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di fisiognomica che tende, recuperando la lezione di Riegl, Usener e Warburg, a insistere sul piccolo e sull’insignificante, integrando fra loro, per mezzo di una concezione più che storica, “eidetica”, fenomeni che solo in apparenza sono isolabili secondo una divisione territoriale.11 Ma invero la prossimità fra il collezionista e il fisiognomo risiede soprattutto nel sapere entrambi “divinare il destino”.12 Come infatti la fisiognomica è impegnata a conoscere la “costituzione naturale del vivente”,13 in quanto “pura vita [bloßes Leben]”, che resta dopo che ogni elemento fisico, ogni visibilità, ogni storicità è trapassata nella sua totalità spazio-temporale, così il collezionismo volge il suo sguardo sugli oggetti con il fermo proposito di far emergere il loro “archetipo immutabile”,14 quale appare una volta che essi siano deprivati della loro funzionalità. In ragione di ciò, il collezionare coincide per Walter Benjamin non già con un’attitudine a conservare e preservare, ma, all’opposto, con una volontà di infrangere il contesto nel quale l’oggetto è convenzionalmente collocato, mondandolo da tutto ciò che in esso vi è di tipico.15 Lungi dall’ideale rinascimentale che nel collezionista faceva convergere gusto per il raro e per l’esotico e orgoglio signorile,16 la passione del collezionista tratteggiato da Benjamin 11. Cfr. W. Benjamin, Lebenslauf (III), in GS, vol. VI, pp. 217-219: 218; trad. di G. Gurisatti, Curriculum (III), in OC, vol. III, 2010, pp. 37-38: 38. Per una più distesa analisi al riguardo deve vedersi almeno R. Kany, Mnemosyne als Programm: Geschichte, Erinnerung und die Andacht zum unbedeutenden im Werk von Usener, Warburg und Benjamin, Niemeyer, Tübingen 1987; nonché W. Kemp, Fernbilder. Benjamin und die Kunstwissenschaft, in B. Lindner (a cura di), “Links hatte noch alles sich zu enträtseln…” Walter Benjamin im Kontext, Syndikat, Frankfurt a.M. 1978, pp. 224-257. 12. Cfr. W. Benjamin, Das Passagenwerk, cit., p. 274; trad. p. 217 (H 2,7; H 2a, 1); Id., Ich packe meine Bibliothek aus (1931), in GS, vol. IV, t. 1, pp. 388-396: 389; trad. di P. Teruzzi, Tolgo la mia biblioteca dalle casse, in OC, vol. IV, 2002, pp. 456-463: 457; Id., Lob der Puppe (1930), in GS, vol. III, pp. 213-218: 217; trad. di G. Schiavoni, Elogio della bambola, in OC, vol. III, pp. 7-12: 11. 13. W. Benjamin, Schicksal und Charakter (1919), in GS, vol. II, t. 1, pp. 171-179: 175; trad. di R. Solmi, Destino e carattere, in OC, vol. I, pp. 452-458: 455. 14. W. Benjamin, Das Passagenwerk, cit., p. 271; trad. p. 214 (H 1a, 2). Suggestivamente, Hannah Arendt ebbe a osservare che Benjamin appariva come un pescatore di perle guidato dalla convinzione che le cose, dopo essersi in esse immerse, devono essere ricondotte in superficie per farle risplendere quali “eterni Urphänomene” (H. Arendt, “Walter Benjamin 1892-1940”, in Men in Dark Times, Harcourt, Brace & World, New York 1968, pp. 153-206: 206). 15. W. Benjamin, Lob der Puppe, cit., p. 216; trad. p. 10. 16. Cfr. al riguardo le esemplari pagine di J. Burckhardt, Das Altarbild – Das Porträt in der Malerei – Die Sammler. Beiträge zur Kunstgeschichte von Italien, a cura di H. Wölflin,
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'$ Ded Yeijhk_h[" l_l[h[ Proponiamo qui una rilettura delle pagine che Maurice MerleauPonty ha dedicato all’allucinazione nella Fenomenologia della percezione,1 che ben illustrano l’approccio fenomenologico a un sintomo psichiatrico. Mostreremo come proprio da questa analisi dell’allucinazione emergano con chiarezza i limiti filosofici dell’approccio fenomenologico in psichiatria, e alla soggettività in generale. Abbozziamo una decostruzione del discorso fenomenologico che metta in questione il senso profondo della psichiatria fenomenologica, e dei suoi presupposti teorici. Per Merleau-Ponty l’allucinazione svolge un ruolo filosoficamente strategico: la porta come “controprova” della riflessione da lui sviluppata nel capitolo “La cosa e il mondo naturale”. Controprova significa qui dimostrare in altro modo quel che si era già dimostrato prima. Siccome chiamiamo allucinazione la (apparente) percezione di cose che non esistono, per Merleau-Ponty questo caso-limite del nostro “essere nel mondo”, se correttamente descritto, comprova la descrizione fenomenologica del rapporto percettivo di ciascuno col mondo naturale. Merleau-Ponty contrappone la descrizione fenomenologica Sergio Benvenuto, psicoanalista e filosofo, ricercatore al CNR e professore di psicoanalisi all’Istituto internazionale di psicologia di Kiev. È fondatore e direttore dell’“European Journal of Psychoanalysis”, e autore di vari saggi e volumi, pubblicati in varie lingue. Il libro più recente, con Antonio Lucci, è Lacan, oggi (Mimesis, Milano-Udine 2014). 1. M. Merleau-Ponty, Phénoménologie de la perception, Gallimard, Paris 1945, pp. 391402; trad. di A. Bonomi, Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano 2003, pp. 434-445.
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dello stato allucinatorio ai due approcci filosofici classici, che chiama “empirismo” e “intellettualismo”. Di fatto intende le propaggini dei due grandi filoni filosofici del Sei-Settecento: l’empirismo e il razionalismo cartesiano. Il primo punta alle spiegazioni scientifiche dell’allucinazione, il secondo si focalizza sul rapporto tra credenza allucinatoria e cogito. Eppure, egli nota una parentela profonda tra “spiegazione empirista” e “riflessione intellettualista”: “Entrambe costruiscono il fenomeno allucinatorio anziché viverlo”.2 Questa opposizione tra costruire e vivere va ben oltre il caso dell’allucinazione: abbiamo da una parte la costruzione delle filosofie classiche – empirista e razionalista –, dall’altra il vivere fenomenologico di fronte a ogni esperienza. Ovvero, la fenomenologia non ricostruisce mai la nostra esperienza perché non la dà come qualcosa di costruito, e che quindi potrebbe essere decostruito, scomposto: descrive la nostra esperienza nel suo darsi immediato, intero, indivisibile alla nostra coscienza. La formulazione di Merleau-Ponty è equivoca, tuttavia, in quanto certo il fenomenologo, da filosofo, non “vive” l’allucinazione più di quanto non la viva l’empirista e il cartesiano. Comunque Merleau-Ponty non restringe il suo esame all’allucinazione negli stati psicotici, considera qualsiasi caso allucinatorio, anche di chi ha preso sostanze allucinogene o è alcolizzato. Il filosofo “vive” l’allucinazione nel senso che egli riporta l’esperienza allucinatoria alla nostra esperienza detta normale delle cose e del mondo; essendo “normale”, si presume che tale esperienza sia vissuta da tutti (o quasi). Perché, come si vedrà, anche se l’allucinazione è un’esperienza del tutto speciale, essa risulta comprensibile (non spiegabile!) se ci riportiamo a qualcosa che lui chiama il “mondo antepredicativo”. Questo mondo si era affermato in un’epoca (la prima infanzia?) in cui il mondo non era ancora stabilmente costituito dall’intenzionalità della coscienza. Merleau-Ponty riconosce alla tradizione intellettualista in psichiatria il merito di una distinzione fondamentale: che le allucinazioni sono qualcosa di assolutamente diverso dalle percezioni. 2. Ivi, p. 394; trad. p. 436.
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Ovvero, le allucinazioni non sono percezioni di oggetti inesistenti. (Va detto che le neuroscienze confutano questa tesi almeno per quanto riguarda le allucinazioni di non psicotici, dette sindrome di Bonnet: quando queste visioni o ascolto di voci si producono, si attivano le stesse aree e percorsi cerebrali di quando si percepiscono immagini e suoni.3) È vero comunque che gli psicotici allucinati distinguono nel loro discorso percezioni e allucinazioni, non le situano sullo stesso piano ontologico. O le separano come appartenenti a due livelli del tutto diversi di contatto con il reale, o le descrivono come un contatto con realtà di ordine diverso dalla realtà con cui le percezioni ci mettono a contatto. “L’allucinato”, precisa Merleau-Ponty, “non può udire o vedere nel senso forte di queste parole.”4 E scrive: “Se i malati dicono così spesso che si parla loro per telefono o per radio, è appunto per esprimere che il mondo morboso è fittizio e che gli manca qualcosa per essere una ‘realtà’”.5 Comunque, per Merleau-Ponty il razionalista cartesiano, anche se intuisce che gli allucinati non percepiscono, descrive però l’allucinazione come un giudizio o una credenza infondati. Invece, ribatte Merleau-Ponty, “i pazzi non credono di vedere” gli oggetti allucinati. Siccome l’allucinato non pone l’allucinazione come vera, non bisogna considerare quest’ultima un giudizio o una credenza. Certo potremmo obiettare a Merleau-Ponty che il termine “credenza” è quanto mai problematico, ed esprime posizioni soggettive molto diverse. Merleau-Ponty dà a “credenza” una precisione semantica che nell’esperienza e nel linguaggio concreti non si dà mai. Per esempio, spesso gli allucinati descrivono quel che vedono o sentono allucinatoriamente come certezze. Che rapporto c’è tra certezza e credenza? Non è detto che la certezza sia un caso-limite della credenza, che sia una credenza senza dubbi. Del resto, se qualcuno si dice “certo” dell’esistenza di Dio, allora certezza ha lo stesso senso di quando lo stesso dice di essere 3. D.H. Ffytche, Visual Hallucinatory Syndromes: Past, Present and Future, “Dialogues in Clinical Neurosciences”, 9, 2007, pp. 173-189. 4. M. Merleau-Ponty, Phénoménologie de la perception, cit., p. 393; trad. p. 436. 5. Ivi, p. 391; trad. p. 434.
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