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367 luglio settembre 2015

Con Nietzsche

Con Nietzsche [P.A.R.] Pierangelo Di Vittorio Oscillazioni dell’identità filosofica. Nietzsche attraverso Derrida e Foucault Raoul Kirchmayr La storia, l’istante, l’oblio. Su una citazione di Nietzsche in Benjamin Massimiliano Roveretto Corrispondere al nulla. Bataille con Nietzsche Edoardo Greblo Agone omerico e agonismo democratico Giovanni Leghissa Nietzsche, Darwin e la postumanità Renato Moglia Il valore di Cartesio per Nietzsche Paolo Vignola Tutti i nomi della storia meno uno. Sul divenire nietzschiano di Deleuze Igor Pelgreffi Automatismo critico. Nietzsche letto da Derrida Andrea Muni La smorfia del genealogista. Foucault con Nietzsche Stefano Tieri Al di là di ragione e follia MATERIALI Gianni Vattimo Nietzsche 1994

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INTERVENTI Alessandro Dal Lago Ossessione. La fantapolitica trash di Houellebecq 219


rivista fondata da Enzo Paci nel 1951 direttore responsabile: Pier Aldo Rovatti redazione: Sergia Adamo, Paulo Barone, Graziella Berto, Deborah Borca (editing, deborah.borca@gmail.com), Damiano Cantone, Mario Colucci, Alessandro Dal Lago, Pierangelo Di Vittorio, Giovanna Gallio, Edoardo Greblo, Raoul Kirchmayr, Giovanni Leghissa, Massimiliano Nicoli, Ilaria Papandrea, Fabio Polidori, Rosella Prezzo, Pier Aldo Rovatti, Massimiliano Roveretto, Antonello Sciacchitano, Giovanni Scibilia, Davide Zoletto direzione: c/o il Saggiatore, via Melzo 9, 20129 Milano sito web: autaut.ilsaggiatore.com collaborano tra gli altri ad “aut aut”: G. Agamben, H.-D. Bahr, R. Bodei, L. Boella, S. Borutti, J. Butler, M. Cacciari, A. Cavarero, R. De Biasi, G. Dorfles, M. Ferraris, U. Galimberti, P. Gambazzi, S. Givone, A. Heller, F. Jullien, J.-L. Nancy, A. Prete, M. Serres, G.C. Spivak, G. Vattimo, M. Vegetti, P. Veyne, V. Vitiello, S. Žižek per proposte di pubblicazione: autaut@ilsaggiatore.com Si fa presente che “aut aut” non pubblica recensioni e non accetta testi di ampiezza superiore a 40.000 battute (note e spazi compresi).

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Con Nietzsche

I

n un intervento del 1996 (che il lettore ritrova qui nella rubrica “Materiali”), Gianni Vattimo faceva il punto sulla ricezione di Nietzsche constatando la fine di una fase “politica”, cominciata negli anni sessanta, e l’avvenuto ingresso in una fase che lui definiva “estetica”, attribuendo a questo termine un senso ampio, culturale, non disciplinare. Una messa a punto, comunque, non così rassicurante per le sorti del pensiero di Nietzsche, dalla quale emergono dubbi sull’intonazione derridiana del dibattito di allora, indicazioni pensose sull’attualità dell’interpretazione data da Bataille, e infine l’auspicio che il capitolo Heidegger non venga archiviato e se ne riconosca una portata “politica” ancora da valorizzare. Abbiamo ritenuto che questo testo possa funzionare come un sintomo del processo che oggi, 2015, ha condotto la ricezione di Nietzsche molto al di là di quelle previsioni ancora venate da qualche potenziale ottimismo: più che una ricezione intelligente, la situazione attuale assomiglia a un congedo da un pensiero considerato ormai fuori tempo. Naturalmente basta una rapida ricerca su Internet per verificare che su Nietzsche si scrivono ancora nel mondo migliaia e migliaia di pagine: tuttavia, Nietzsche è ormai diventato un semplice oggetto di studi, per quanto puntuali o approfonditi essi possano risultare. Nietzsche accademizzato sembra quasi una battuta o un’ironia storica, eppure di fatto Nietzsche è stato generalmente derubricato ad autore da biblioaut aut, 367, 2015, 3-6

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teca o da corso universitario, neanche più da simposi internazionali. Perciò il titolo che abbiamo dato alla presente raccolta di interventi e proposte di rilettura, “Con Nietzsche”, è quanto di più inattuale rispetto al trend dominante. Chi vuole attualmente schierarsi “con” Nietzsche? Siamo realistici: quasi nessuno, forse qualcuno, pochissimi. D’accordo sullo studiare, magari filologicamente, le opere di Nietzsche, ma mettersi dalla sua parte! Che significa: pensare in sintonia con lui, praticare le sue idee, ricavarne impulsi per orientare il nostro agire non solo intellettuale. E che di conseguenza significa: abbattere i pregiudizi e gli schemi prefissati, che nel suo caso sono tanti e non appartengono solo al lato del discredito ma anche a quello di un credito troppo affrettato. Questo gioco tra discredito e credito eccessivi è molto importante poiché l’uno e l’altro si sono storicamente dati il cambio e condizionati a vicenda in una dialettica assai poco virtuosa. Dunque, se oggi volessimo pensare “con” Nietzsche, o tentassimo di farlo, dovremmo sgombrare il campo non solo dagli interdetti, spesso radicali, che lo occupano e che hanno ridotto Nietzsche al paradosso di un cane morto che tuttavia seguita a ringhiare pericolosamente, ma dovremmo anche liberarci dagli effetti perversi di una dialettica culturale che ci vorrebbe schierati in una maniera sempre pregiudiziale. Schierarsi con Nietzsche non vuole più dire prendere partito per lui, bensì – al contrario – liberarlo e liberarci da tutte le prese di partito, comprese quelle che si alimentano di una semplice empatia emotiva. La storia di “aut aut” – innervata (nella misura delle nostre forze assai limitate) da un pensiero critico che dovrebbe trasformarsi in coraggio filosofico – può forse legittimare la mossa che tentiamo di fare e che in fondo chiederebbe qualcosa di simile a un azzeramento. Con Nietzsche = senza più incollarvi alcuna etichetta, né distruttiva né edificante. Operazione quasi impossibile, ma sembra arrivato il momento di tentarla se vogliamo districarci dalla melassa del benpensantismo che da ogni parte si incolla alle nostre menti e ai nostri corpi. D’altronde, è facile accorgersi che questo invito ci arriva proprio da 4


Nietzsche e che il suo pensiero si attaglia molto bene a un esperimento critico che sta diventando per noi ogni giorno più vitale. Non è più il momento di addomesticare Nietzsche modellando una filosofia che sia adatta a presentarlo come un pensatore equilibrato e maneggiabile, che passa attraverso fasi ben definibili, che approda a nozioni per lui (e per noi) fondamentali come “eterno ritorno” e “volontà di potenza”, destinate alla nostra sagacia interpretativa, o come “nichilismo”, che funzionerebbe quasi come un abbrivio della contemporaneità e dei suoi problemi. Se, infatti, non cambiamo passo, rischiamo ogni volta di ridurre il pensiero di Nietzsche alla storia e alla pratica teorica delle sue ricezioni (reazionarie o progressiste), creando, assieme alle invocate prossimità, una quantità di distanze e di alibi: come se tendessimo ad allontanarci proprio dal suo testo, dalle sue contraddizioni e dai suoi paradossi, e fabbricassimo tanti Nietzsche prêt-à-porter quanti sono gli alibi culturali che risultano via via comodi o accomodanti. Il tentativo di smontare le varie ideologie nietzschiane rivolgendosi alla biografia, cioè attribuendo alla dimensione biografica un ruolo operativamente filosofico, ha prodotto sicuramente dei risultati che vanno nella direzione che sto indicando, ma a propria volta corre il rischio di allontanare Nietzsche facendone un “ecce homo” che viaggia, per conto suo, sopra e sotto le righe, un caso singolare, eccezionale, inimitabile, al limite della follia, e infine qualcuno che esalta la propria malattia come premessa di una vera salute. Un uomo sorprendente, geniale, bizzarro, degno del massimo interesse, ma terribilmente lontano, estraneo alle nostre domesticità. Dire “con Nietzsche” significa additare un problema tutt’altro che addomesticabile: ci sposta sul versante meno attraversato, sempre che sia possibile l’attraversamento di un territorio pieno di buche, di trappole, e anche di finte e di trucchi. Per noi di “aut aut” sarebbe già un risultato positivo l’aver contribuito ad avvistare questo territorio e a considerare opportuno il disporsi in questo atteggiamento nei confronti di Nietzsche, senza mappe già chiaramente disegnate. Come il lettore potrà consta5


tare, se l’obiettivo può sembrare pretenzioso (o anche velleitario) nelle sue dimensioni generali, le tattiche per cercare di realizzarlo si articolano attraverso operazioni culturali pazienti e concretamente localizzate. Il “con Nietzsche” viene così articolandosi in una serie di approssimazioni nelle quali il “con”, il nostro stare dalla parte del suo pensiero, si declina attraverso accoppiamenti possibili che hanno come scopo quello di indicare percorsi significativi per l’attualità. In che modo, per esempio, Michel Foucault si schiera con la genealogia di Nietzsche al punto di considerarla uno spartiacque decisivo per le pratiche filosofiche? Dove potrebbe condurci la parentela filosofica tra Georges Bataille e Nietzsche e cosa può significare per noi oggi l’esperienza del “nulla” verso la quale veniamo così sospinti? O ancora – altro esempio – qual è l’effetto di pensiero che possiamo ricavare se leggiamo Walter Benjamin con Nietzsche a proposito della discontinuità della storia e dell’esigenza di una politica della memoria e dell’oblio? Ma anche Cartesio e Darwin vengono qui convocati, insieme a Deleuze e allo stesso Derrida, come cartelli indicatori di piste nuove o di percorsi che pensiamo di esserci lasciati alle spalle, dimenticati o fraintesi. E inoltre, accanto ai personaggi della filosofia e del pensiero, vengono convocati qui alcune questioni, come quella della “democrazia” o quella della “follia”, rispetto alle quali potremmo pensare che il capitolo Nietzsche sia già stato chiuso, mentre, probabilmente, non è stato ancora davvero aperto nelle sue implicazioni con la nostra attualità. Quello che, in conclusione, abbiamo cercato di allestire è una prima e parziale ricognizione, da integrare e completare, che potrebbe portarci nel cuore della questione che vorremmo riaprire – appunto: cosa vuol dire “stare” con Nietzsche oggi – nel momento in cui Nietzsche viene, per così dire, “oscurato” dal pensiero contemporaneo, cancellato o irrisoriamente monumentalizzato in un episodio del passato. [Pier Aldo Rovatti]

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Oscillazioni dell’identità filosofica. Nietzsche attraverso Derrida e Foucault PIERANGELO DI VITTORIO

I

n un saggio del 1994, Gianni Vattimo fa una sorta di diagnosi: la “finale affermazione della lettura decostruzionista di Nietzsche nella cultura contemporanea”, a scapito della “linea interpretativa Bataille-Klossowski-Deleuze”.1 Riletta a vent’anni di distanza, questa valutazione ha la capacità di scuoterci, come una piccola scossa elettrica, soprattutto a causa del presupposto su cui riposa: nel panorama filosofico degli anni novanta, Nietzsche e Derrida sembrano occupare un posto centrale. Potremmo allora domandarci: che ne è oggi di questa centralità? Nietzsche e Derrida, insieme e ciascuno per proprio conto, occupano lo stesso posto? E se così non fosse, quali sarebbero le ragioni del loro declassamento, della loro marginalizzazione? Tale declino corrisponderebbe all’emergere di nuovi astri filosofici? E, se sì, quali? Infine, quali effetti avrebbe prodotto questa riconfigurazione complessiva del firmamento, dal punto di vista, al tempo stesso, della produzione filosofica e della riproduzione istituzionale (accademica)? Domande forse facili da porre, ma cui è difficile rispondere in modo rigoroso ed esaustivo. Nel nostro intervento, proveremo prima a considerare le poste in gioco della ricezione di Nietzsche da parte di Derrida e di Foucault, per offrire poi qualche impressione, sparsa e un po’ epidermica, sullo stato at1. G. Vattimo, Nietzsche 1994, “aut aut”, 265-266, 1995, pp. 3-14, riprodotto nella sezione “Materiali” di questo fascicolo.

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tuale dell’identità filosofica, in collegamento con la ricezione di questi autori, in particolare di Foucault. Prima di cominciare, però, è necessaria una precisazione: come qualsiasi “identità”, anche quella filosofica non sfugge al rapporto con i “modelli”. Certo, nel caso della filosofia, questo rapporto deve tener conto della specificità del campo in cui nasce e si sviluppa: la filosofia stessa, con i suoi linguaggi e le sue tradizioni, la pratica del pensiero, la ricerca, l’insegnamento ecc. Il rapporto con i modelli filosofici è mediato da un complesso tessuto culturale, e ognuno è libero di scegliersi il modello che vuole. Anzi, il fine dell’attività filosofica potrebbe essere proprio questo: scegliere come modello l’autore o lo stile di pensiero verso cui ci si sente liberamente – ossia, ancora una volta, filosoficamente – portati. Nonostante questa precauzione, sembra legittimo parlare, anche per la filosofia, di modelli “sociali”, per due ragioni connesse tra loro. La prima è che il termine filosofia designa anche, sin dall’inizio, una forma e una modalità di “legame sociale”: filosofia è sempre il nome di una comunità (che non si riduce mai alla “comunità scientifica” dei filosofi). La seconda ragione è che, proprio per questo, la filosofia è sempre immersa in un determinato paesaggio storico; di conseguenza anche i modelli, attraverso cui coltiviamo la nostra identità filosofica, lungi dall’essere astratti, sono determinati dal punto di vista sociale, culturale, politico ecc. Insomma, giusto per fare un esempio, il mio modello elettivo potrà essere ancora Platone, cambierà tuttavia la corrente di pensiero o l’autore attraverso cui, hic et nunc, avrò accesso a questo modello. In altri termini, l’accesso alla mia libera disposizione filosofica sarà sempre mediato da una serie di fattori e di vincoli esteriori e contingenti (appartenenza, riconoscibilità, prestigio, convenienza ecc.), ossia da tutta un’“economia” sociale o comunitaria, che non potrà fare a meno di condizionarlo e di delimitarlo. Parlare di una sorta di “borsino” dell’identità filosofica potrebbe sembrare riduttivo e magari un po’ cinico. Ma forse non è del tutto sbagliato né privo d’interesse. Il rapporto con i modelli filosofici è anche un mercato nel quale la nostra identità si nego8


zia senza sosta, alla ricerca delle collocazioni e degli investimenti in grado di accrescerne il capitale. Da qui, come in ogni mercato, una serie di oscillazioni, le cui curve possono essere tracciate e analizzate nel tempo. Una storia della filosofia come analisi delle oscillazioni dei titoli filosofici? Operazione difficile, forse impossibile, e probabilmente ingiusta. Tuttavia, potrebbe essere utile quanto meno segnalare queste oscillazioni, perché il problema del mercato identitario della filosofia merita di essere posto. Il vecchio articolo di Vattimo è interessante perché fa venire il prurito: e se osassimo, se provassimo a fare una nuova diagnosi? Se fotografassimo lo stesso paesaggio – la scena filosofica – vent’anni dopo? Consapevoli del rischio che si corre assecondando questo genere di impulsi, eccoci con la macchina fotografica, pronti a catturare l’immagine fuggente: oggi sembra di essere passati dalla vittoria di Derrida con Nietzsche, alla vittoria di Foucault senza Nietzsche. Una vittoria, quindi, che potrebbe avere il sapore della sconfitta. Almeno per alcuni. Il Nietzsche di Derrida Derrida lancia la sua offensiva nel corso degli anni sessanta. L’attacco è affidato a una serie di conferenze e di testi, poi raccolti in La scrittura e la differenza (1967), volume che può essere visto come il documento vivente di questa particolare battaglia filosofica. Che cosa ha fatto Derrida? Qual è stato il suo gesto? Schematizzando, si può affermare che la sua strategia sia consistita nel colpevolizzare le avanguardie francesi (in nome di Heidegger), per poi sopravanzarle sul loro stesso terreno (in nome di Nietzsche, ossia di una lettura decostruzionista di Nietzsche, mirante a rinchiudere Heidegger nello stesso recinto in cui quest’ultimo aveva permesso di catturare le avanguardie). La battaglia è tutta una storia di linee – linee rette e linee curve – e di pieghe. Una battaglia nella quale perde chi pensa di essere fuoriuscito dalla tradizione filosofica (la “metafisica”); e vince invece chi, dopo essersi inscritto, rinchiuso in tale tradizione, la ripiega dall’interno, mostrando quali siano le condizioni di una trasgressione legittima e perciò radicale, ossia radicalmente “critica”, in senso kantiano (la “decostruzione” della 9


La storia, l’istante, l’oblio. Su una citazione di Nietzsche in Benjamin RAOUL KIRCHMAYR

1. L’oblio e la memoria. Benjamin con Nietzsche Un filo lega il Nietzsche della Seconda inattuale a Walter Benjamin. È il filo di una doppia necessità, con cui la condizione storica è pensata come un intreccio di memoria e oblio. La comprensione della storia dipende dal riconoscimento del suo andamento irregolare e discontinuo, dei suoi punti di faglia o di frattura nei quali essa apre dei crepacci che fendono la sua superficie apparentemente liscia, il suo andamento presunto lineare. A questi punti di faglia o di frattura, a queste discontinuità che fessurano il tempo storico possiamo anche dare il nome di oblio. È infatti l’oblio, come “forza plastica della vita” (die plastische Kraft des Lebens),1 il motivo polemico mobilitato da Nietzsche contro una concezione lineare e progressiva della storia che di Sull’utilità e il danno della storia per la vita è il bersaglio grosso, cioè gli storicismi che agiscono come vestali di una cattiva memoria. Per distinguere tra una buona e una cattiva memoria e, conseguentemente, tra un oblio buono e uno cattivo, tra un oblio che è forza con cui una cultura è in grado di “plasmare in sé forme spezzate” (zerbrochene Formen aus sich nachzuformen)2 e un oblio che è estenuazione della memoria, Nietzsche introduce il 1. F. Nietzsche, Unzeitgemäße Betrachtungen. Zweites Stück. Vom Nutzen und Nachteil der Historie für das Leben, in Die Geburt der Tragödie. Unzeitgemäße Betrachtungen IIV. Nachgelassene Schriften 1870-1873, a cura di G. Colli e M. Montinari, de Gruyter, Berlin 1988, p. 329 (ma l’espressione plastische Kraft compare anche alle pp. 251 e 271); trad. di S. Giametta, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, Adelphi, Milano 1973, 200618, p. 94 (cfr. anche pp. 8-9 e 30). 2. Ivi, p. 251; trad. p. 9.

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registro metaforico della salute e della malattia per rendere conto di uno scarto etico nella concezione della storia e per indicare la differente posizione dell’uomo storico rispetto al décadent che, vivendo ancorato al presente, riduce la storia a mero oggetto di erudizione. Nietzsche indica pertanto nell’ipermnesia la radice della malattia storica mentre riconosce nell’oblio il farmaco che, con le sue virtù, è in grado di lenire le sofferenze che tale malattia procura. “Abbiamo bisogno di storia, ma diversamente da come ne ha bisogno il perdigiorno viziato nel giardino del sapere”3 è l’esergo con cui Benjamin introduce la dodicesima delle Tesi sul concetto di storia. La frase è una citazione dalla Seconda inattuale di Nietzsche e la prenderemo come guida. Rileggere la Seconda inattuale alla luce di uno dei suoi sviluppi più originali, quale quello di Benjamin, dovrebbe permettere di rendere conto del nodo etico-politico relativo al tema della memoria vivente e della forza dell’oblio che farebbe da guida per una rinnovata messa in questione del senso dell’accumulo del sapere, e dell’ipermnesia e dell’amnesia come fenomeni solidali correlati ai processi di archiviazione massiccia delle informazioni. Più in particolare, l’orientamento per questo tipo di rilettura è dato dal pensare le condizioni di possibilità (finite, storiche e contingenti) affinché possa avvenire un’interruzione del corso storico. A questa interruzione diamo il nome, con Benjamin, di “rivoluzione”. Sulla vetta filosofica di un pensiero della vita storica Benjamin ritrova Nietzsche. Se per Nietzsche si trattava di rendere conto di tale posizione etica pronunciata in nome della vita, per Benjamin tale posizione diventa la posta in gioco politica di una riflessione critica sull’oblio e sulla memoria. Se Nietzsche disegna i tratti di un’etica della memoria, denunciando con ciò l’inaridi3. W. Benjamin, Über den Begriff der Geschichte, in Gesammelte Schriften, vol. I-1, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1991, pp. 691-704, qui p. 700; trad. di G. Bonola e M. Ranchetti, Sul concetto di storia, in Opere complete, vol. VII: Scritti 1938-1940, a cura di E. Ganni con la collaborazione di H. Riediger, Einaudi, Torino 2006, pp. 483-493, qui p. 489; cfr. anche Id., Sul concetto di storia (1940), a cura di M. Ranchetti, Einaudi, Torino 2004, dove in una sezione apposita sono raccolti i materiali preparatori (p. 71 sgg.), qui pp. 42-43.

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mento del coevo sapere storico, Benjamin tratteggia nei suoi ultimi scritti, e in particolare nelle sue Tesi sulla filosofia della storia, i contorni di una politica della memoria che, anch’essa, si articola a partire da una concezione della forza: si tratta di quella “debole forza messianica” (eine schwache messianische Kraft) di cui Benjamin parla nella seconda tesi, centrata sulla nozione di “redenzione” (Erlösung) e che, con la prima tesi, fornisce il nucleo teologico-politico del testo benjaminiano.4 2. Fuochi d’artificio La breve prosa intitolata Seducente orrore (Schönes Entsetzen) fu composta da Walter Benjamin parallelamente alla stesura dei brani di Strada a senso unico.5 La pagina non entrò nella versione finale del volume,6 ma resta tuttavia un esempio straordinario di scrittura per immagini, in verità la scrittura di un Denkbild, di un’immagine di pensiero. Se la città letteraria disegnata da Benjamin in Strada a senso unico fa pensare anzitutto a una città tedesca, la Berlino rievocata in Infanzia berlinese intorno al millenovecento,7 qui la città che fornisce la scena della miniatura è Parigi, più precisamente uno dei suoi punti più caratteristici e popolari, cioè la butte del Sacré Coeur. È la festa nazionale del 14 luglio, in cui si festeggia la presa della Bastiglia nella rivoluzione del 1789. Durante la festa sono lanciati nel cielo e fatti esplodere dei fuochi d’artificio. La vista dei fuochi che illuminano la notte prelude a un esercizio di ascolto della folla che si è radunata per lo spettacolo. Nella not4. W. Benjamin, Über den Begriff der Geschichte, cit., p. 694; trad. p. 484; cfr. anche Id., Sul concetto di storia, 2004, cit., pp. 22-23. Sul nesso tra la “forza plastica” di Nietzsche e la “debole forza messianica” di Benjamin, cfr. E. Mazzarella, Nietzsche e la storia: storicità e ontologia della vita, Guida, Napoli 20002, pp. 183-185. 5. W. Benjamin, Schönes Entsetzen (1929), in Gesammelte Schriften, cit., vol. IV-1, pp. 434-435, sezione “Denkbilder”; trad. di G. Carchia, Seducente orrore, in Opere complete, vol. III: Scritti 1928-1929, Einaudi, Torino 2010, p. 278. 6. Cfr. G. Schiavoni, “Avvertenza”, in W. Benjamin, Strada a senso unico, Einaudi, Torino 2006, p. 75. 7. W. Benjamin, Berliner Kindheit um neunzehnhundert (Fassung letzter Hand, 1938), in Gesammelte Schriften, cit., vol. VII-1, pp. 385-433; trad. di E. Ganni, Infanzia berlinese intorno al millenovecento, in Opere complete, cit., vol. VII, pp. 17-51.

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Corrispondere al nulla. Bataille con Nietzsche MASSIMILIANO ROVERETTO

Un pensiero senza impiego Benché Bataille avesse per la prima volta letto Nietzsche già nel 1922,1 è soltanto nel 1937 che comincia a scriverne organicamente, sotto l’urgenza di sottrarne l’opera, in un contesto storico-politico già drammatico, all’appropriazione compiutane dalle destre e più in particolare dagli ideologi del nazionalsocialismo. Lo fa con la pubblicazione di un fascicolo doppio della rivista “Acéphale”, da lui stesso fondata l’anno precedente, dopo che, con l’uscita dal Cercle communiste démocratique di Boris Souvarine, aveva interrotto la sua collaborazione a “La Critique sociale”, sulle cui pagine aveva pubblicato alcuni importanti testi tra cui quelli su La nozione di “dépense” e La struttura psicologica del fascismo. A prima vista piuttosto eteroclito, il fascicolo, intitolato Nietzsche et les fascistes. Une réparation,2 sviluppa in realtà un unico assunto: l’impossibilità di fare di Nietzsche qualsivoglia uso. Anche l’accusa di falsificazione mossa alla sorella e al cugino del filosofo tedesco – destinata a far testo in relazione alla questione del suo presunto antisemitismo3 – dev’essere considerata in questa chiave. Senza entrare nel merito dei fatti ripor1. Cfr. M. Surya, Georges Bataille. La mort à l’œuvre, Gallimard, Paris 2012, p. 70. 2. G. Bataille, Nietzsche e i fascisti (1937), in G. Deleuze, Nietzsche. Con antologia di testi, a cura di F. Rella, Bertani, Verona 1973. Il testo, per la prima volta pubblicato in Italia sul numero 39-40 della rivista “Il Verri”, si trova anche in G. Bataille, La congiura sacra, a cura di M. Galletti, Bollati Boringhieri, Torino 1997, pp. 13-29. 3. La questione è stata abbondantemente discussa nella letteratura critica. Nella Storia della volontà di potenza che si trova in appendice alla riedizione da lui stesso curata del fantomatico Hauptwerk nietzschiano (F. Nietzsche, La volontà di potenza, 1906, a cu-

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tati da Bataille e della loro interpretazione, basti constatare come, nella misura in cui la sua argomentazione punta a dimostrare il carattere fondamentale e d’insieme dell’incompatibilità tra Nietzsche e il fascismo, essi non vi aggiungano nulla di essenziale. Mentre conviene prestare la massima attenzione al modo in cui, oltre a confutarne le diverse interpretazioni fasciste e in particolar modo quella di Bäumler, Bataille si applica a difendere Nietzsche dai rilievi critici di Emmanuel Lévinas, il quale, in un articolo pubblicato nel 1934 su “Esprit”,4 gli aveva imputato di aver fornito alla futura Germania nazionalsocialista, con la nozione di volontà di potenza, non solo e non tanto un tema ideologico, quanto la forma stessa del suo progetto politico. Interrogandosi circa la natura del razzismo che costituisce com’è noto uno dei cardini, se non il principale, dell’ideologia nazista, Lévinas ne aveva individuato le radici nella concezione secondo cui “il biologico, con quel tanto di fatalità che esso comporta, diviene, più che un oggetto, il cuore della vita spirituale”, cosicché “le misteriose voci del sangue, gli appelli dell’eredità e del passato ai quali il corpo serve da enigmatico veicolo perdono la loro natura di problemi la cui soluzione viene rimessa a un Io libero” per convertirsi nella sostanza che lo costituisce. Una volta prodottasi questa “concretizzazione dello spirito”, le conseguenze che ne discendono sono gravi: dal fatto che l’essenza dell’uora di M. Ferraris e P. Kobau, Bompiani, Milano 1992), Maurizio Ferraris, citando un passo di Nietzsche e i fascisti in cui Bataille scrive “Mme Elisabeth Judas-Förster”, depreca che “in un testo che condanna l’antisemitismo” non si trovi “epiteto peggiore che ‘Giuda’ per biasimare la sorella pretesamente antisemita”, sulla quale intere generazioni di interpreti nietzschiani avrebbero scaricato, come su un “parafulmine”, le responsabilità che si rifiutavano di contro pregiudizialmente di imputare al fratello (p. 620). La stessa allusione si trova anche nel recente Spettri di Nietzsche (Guanda, Parma 2014, p. 214, ma cfr. anche p. 33 sgg.). Altrove, invece, pur affermando che, “inequivocabilmente avverse all’equazione Nietzsche-Hitler”, le prese di posizione di Bataille lo sarebbero tuttavia “sino alla falsificazione”, Ferraris osserva contro la tesi, avanzata da Habermas, di una contiguità tra le posizioni di Bataille e il conservatorismo irrazionalistico nazista, che “la ricerca di una dépense assoluta rende l’interpretazione batailliana del tutto antitetica rispetto a qualsiasi programma politico che voglia richiamarsi al nome di Nietzsche” (M. Ferraris, Nietzsche e la filosofia del Novecento, Bompiani, Milano 1989, p. 98). 4. Cfr. E. Lévinas, Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo (1934), trad. di A. Cavalletti e S. Chiodi, Quodlibet, Macerata 1996.

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mo non può più essere collocata nella dimensione della libertà fino alla posizione della consanguineità come il solo fondamento possibile della società. Soltanto che questo “nuovo tipo di verità” non appare disposto a rinunciare alla sua “natura formale”, né alla pretesa all’universalità che vi è insita. “Per quanto la verità sia la mia verità nel più forte senso del possessivo, essa deve comunque tendere – e qui cade il riferimento a Nietzsche – alla creazione d’un mondo nuovo. Zarathustra non s’accontenta della sua trasfigurazione, scende dalla montagna e porta un vangelo. In che modo l’universalità è compatibile col razzismo? Si avrà con ciò una sostanziale modificazione dell’idea stessa di universalità. Quest’ultima deve far posto all’idea d’espansione, perché l’espansione d’una forza presenta una struttura ben diversa dalla propagazione di un’idea […]. La volontà di potenza di Nietzsche che la Germania moderna ritrova e onora non è semplicemente un nuovo ideale, è piuttosto un ideale che reca in sé anche una forma propria di universalizzazione: la guerra, la conquista.”5 A una simile conclusione, Bataille muove un solo appunto: essa assume tacitamente che Nietzsche fosse razzista, laddove la comunità di sangue e il concatenamento al passato cui Lévinas fa riferimento sono quanto mai distanti dal sentire di un uomo che rivendicò sempre con orgoglio gli appellativi di “senza-patria” e di “figlio dell’avvenire”. Nondimeno, l’errore di Lévinas non toglie il valore euristico delle sue osservazioni, in quanto esse illuminano, al di là del ruolo assegnato a Nietzsche e al concetto di volontà di potenza, uno dei corni dell’alternativa cui veniva in quegli anni riducendosi, agli occhi di Bataille, ogni possibile progetto politico – quella tra l’appello minaccioso a forme di autoritarismo che si erano illusoriamente ritenute estinte e il richiamo asfittico all’autorevolezza di una ragione ridotta alla sua funzione strumentale: tra l’esigenza, in cui versava la vita, di essere affrancata “da un sistema di misurazioni razionali, amministrative” e il dato per cui qualunque tentativo di rispondere a tale esigenza sul

5. Citato in G. Bataille, Nietzsche e i fascisti, cit., pp. 122-123.

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Agone omerico e agonismo democratico EDOARDO GREBLO

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Com’è ampiamente noto, per lungo tempo il nome di Nietzsche è stato accostato alla dottrina nazifascista e si è ritenuto che ben poco delle sue concezioni potesse essere recuperato a una politica democratica. Non c’è dubbio, infatti, che la riduzione di ogni esigenza di giustizia a una forma di invidia, l’etica eroica e il disprezzo per le masse, la democrazia e l’eguaglianza politica esprimano una prospettiva radicalmente elitaria e legata a una incondizionata tendenza all’individualismo radicale. Lo Stato, il suo ordine e i suoi valori, nascono da una violenza che ha bisogno di mascherarsi con il diritto e di valori “alti” per dare forma alla propria immoralità organizzata. E lo Stato democratico, in particolare, è sinonimo di mediocrità, di conformismo di massa e di spirito di risentimento: esso consiste nel dominio delle forme di vita più basse. La democrazia è la forma tipica di una civiltà “degli zero sommati – dove ogni zero ha ‘diritti uguali’, dove è virtuoso essere zero…”.1 Non può pertanto sorprendere che persino gli interpreti più sensibili alle sue istanze scettiche e decostruttive riguardo alla consistenza giuridica dello Stato ritengano che, almeno per “la forma in cui la propone”, “la critica di Nietzsche della democrazia [sia] per lo

1. F. Nietzsche, Frammenti postumi 1888-1889, in Opere, trad. di S. Giametta, Adelphi, Milano 1975, vol. VIII, tomo III, p. 29.

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più impraticabile”.2 Eppure, negli ultimi anni, per lo meno nel mondo anglosassone, non sono mancati i tentativi di dare forma a un diverso modo di considerare il rapporto tra il pensiero nietzschiano e la teoria e la pratica della democrazia.3 Tentativi abbastanza sorprendenti, alla luce dei tratti compiutamente antipolitici e non democratici di un filosofo che non ha mai neppure provato a dissimulare la sua ostilità per la democrazia e per la stessa modernità e che nascono, però, da una non ingiustificata insoddisfazione per i modelli teorici prevalenti nel pensiero politico degli ultimi decenni. Alla base della cosiddetta teoria agonistica della democrazia vi è la delusione per le promesse mancate della “democrazia reale”, per l’inadeguatezza delle sue istituzioni politiche e della sua realtà sociale, per il fallimento delle sue politiche inclusive e per le sue persistenti (e anzi sempre più acute) diseguaglianze. Ma anche per la sua controparte teorica, e in particolare per i modelli deliberativi di democrazia, per i quali il processo politico, se basato sulla ragionevolezza e la qualità degli argomenti e non sulla manipolazione ideologica, non può che portare alla convergenza intorno a una posizione da tutti condivisa, che incorpora l’interesse generale o il bene comune, e che perciò considerano il conflitto – specie se endemico o persistente – come una minaccia da sedare o un pericolo da scongiurare. Questi modelli si scontrano con la concezione agonistica della democrazia, che considera la politica non tanto come lo spazio del2. W. Brown, La politica fuori dalla storia (2001), trad. di A. Minervini, prefazione e cura di P. Rudan, Laterza, Roma-Bari 2012, p. 142. 3. Oltre alla stessa Brown, della quale si veda il cap. 8 di La politica fuori dalla storia, cit., pp. 127-144, cfr. L. Hatab, A Nietzschean Defense of Democracy: An Experiment in Postmodern Politics, Open Court, Chicago 1995; Id., Prospects for a Democratic Agon: Why We Can Still Be Nietzscheans, “Journal of Nietzsche Studies”, 24, 2002, pp. 132-147; M. Warren, Nietzsche and Political Thought, MIT Press, Cambridge (MA) 1988; W.E. Connolly, Political Theory and Modernity, Basil Blackwell, Oxford-New York 1988; Id., Identity/ Difference: Democratic Negotiations of Political Paradox, Cornell University Press, Ithaca (NY) 1991; B. Honig, Political Theory and the Displacement of Politics, Cornell University Press, Ithaca (NY) 1993; D. Owen, Nietzsche, Politics, and Modernity, Sage, London 1995; Id., Equality, Democracy, and Self-Respect: Reflections on Nietzsche’s Agonal Perfectionism, “Journal of Nietzsche Studies”, 24, 2002, pp. 113-131; C. Daigle, Nietzsche: Virtue Ethics… Virtue Politics?, “Journal of Nietzsche Studies”, 32, 2006, pp. 1-21.

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la libertà e della deliberazione pubblica, quanto piuttosto come lo spazio dei conflitti e degli antagonismi che, all’interno di ogni unità politica, si producono fra forze politiche organizzate di differente orientamento ideale e materiale. Una concezione secondo la quale la realtà dell’antagonismo e del pluralismo dei modi di vita in cui si rispecchiano immagini del mondo di volta in volta diverse è lì a dimostrare come dietro la pretesa neutralità dello Stato democratico si nasconda, semplicemente, il dominio de facto di un’altra concezione del Bene, ossia l’ethos liberale. Per la teoria agonistica della democrazia, tentare di eludere questa verità non è solo irrealistico, ma anche pericoloso, perché il conflitto politico rischia di degenerare nella violenza e di trasformare gli avversari in “nemici assoluti” se agli antagonismi viene preclusa la possibilità di trovare forme di espressione agonistiche, e cioè legittime. Ora, l’interesse per la dimensione agonistica della politica – ossia per l’idea che una democrazia ben funzionante richieda lo scontro tra posizioni politiche legittime, poiché la perdita della dimensione del conflitto tra parti reciprocamente avverse impedisce la possibilità di offrire alle passioni e alle identificazioni collettive uno sbocco democratico, dal momento che nell’associarsi umano reciprocità e ostilità sono inseparabili – è alimentato da interrogativi decisamente estranei al pensiero di Nietzsche. Per esempio: come rimanere fedeli alle nostre aspirazioni democratiche di libertà, eguaglianza e di giustizia di fronte ai fallimenti della democrazia reale? Oppure: come conferire potere ai gruppi emarginati nella loro lotta di emancipazione contro la diseguaglianza? Anche se le domande suonano radicalmente estranee alla sensibilità antipolitica di Nietzsche, nella risposta emergono le ragioni che spingono la teoria agonistica a ritrovare in Nietzsche gli elementi suscettibili di rinnovare dall’interno una vita politica democratica per renderla nuovamente all’altezza delle sue promesse. A spingere in direzione di una convergenza non solo auspicabile, ma necessaria, è l’idea che l’antagonismo, la divisione e la lotta siano costitutivi delle politiche democratiche. In netto contrasto con il principa87


Nietzsche, Darwin e la postumanità GIOVANNI LEGHISSA

1. Giganti in lotta Analizzare in modo compiuto la relazione tra Nietzsche e Darwin significherebbe percorrere una storia complicata e lunga fatta di intrecci, filiazioni, cesure, occultamenti, rimandi espliciti e impliciti, significherebbe, in definitiva, attraversare la storia culturale e filosofica dell’intero secolo di cui i due autori furono protagonisti. Nietzsche fu infatti una figura di culto,1 al pari di Darwin. Per trattare questi due autori, in altre parole, si dovrebbe prendere in esame non solo la loro opera e il modo in cui fu letta dai contemporanei, ma anche il modo in cui si costruì attorno a essa un discorso che serviva a identificare campi e appartenenze – che serviva quindi a muovere emozioni e affetti, a determinare esclusioni e inclusioni, al fine di dar corpo a costruzioni immaginarie le quali poi finivano con l’avere solo un rapporto indiretto e mediato con il complesso teorico effettivamente contenuto in quell’opera. Ci si può rendere conto del fatto che si sia trattato di una gigantomachia che aveva luogo principalmente nell’immaginario considerando per esempio l’ironia pungente con cui Nietzsche era solito prendere posizione nei confronti del successo di cui godevano le teorie darwiniane – quasi si trattasse di attutire gli effetti di quella che poteva costituire una pericolosa concorrenza. In un frammento dell’autunno del 1884 (28 [46]), gli inglesi vengono rimproverati per l’eccessivo onore che tributano al lo1. Cfr. H. Cancik, H. Cancik-Lindemaier, Philolog und Kultfigur. Friedrich Nietzsche und seine Antike in Deutschland, Metzler, Stuttgart-Weimar 1999.

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ro Darwin, le cui competenze, in fondo, non si discosterebbero molto da quelle di un allevatore di bestiame; di conseguenza, è un delitto di lesa maestà pretendere che un Darwin possa stare sullo stesso piano di un Goethe, che qui evidentemente viene considerato non solo come naturalista, ma soprattutto come eroe nazionale (KGA VII, 3, 26).2 Tuttavia, quest’ironia occulta – in un modo che definirei ingenuo – la misura e la portata del debito intellettuale che Nietzsche ha comunque contratto nei confronti delle teorie dell’evoluzione. Del resto, quest’operazione ha un parallelo nel modo in cui pure Darwin avocò a sé un primato che avrebbe dovuto condividere, almeno in parte, con una folta schiera di studiosi che, più o meno contemporaneamente a lui, stavano definendo il paradigma evoluzionista.3 In questa sede, non essendo possibile affrontare le questioni appena evocate nella loro ampiezza, mi limiterò a esporre in che senso la volontà di potenza si pone per Nietzsche quale alternativa al lungo ragionamento darwiniano sull’evoluzione; tuttavia, tenterò poi di mettere in relazione il naturalismo nietzschiano con le versioni attuali della biologia evoluzionistica.4 Ma ciò non avrà lo scopo di proporre una conciliazione postuma delle rispettive posizioni; vorrei piuttosto suggerire che tanto l’eredità nietzschiana quanto quella darwiniana concorrono a modificare la nostra concezione dell’umano, indicando così un cammino comune verso una possibile postumanità.

2. Mi riferirò sempre all’edizione critica tedesca delle opere di Nietzsche curata da Colli e Montinari, ovvero alla Kritische Gesamtausgabe (KGA), pubblicata dall’editore berlinese de Gruyter. Il numero romano si riferisce al volume, il primo numero arabo al tomo e l’ultimo al numero di pagina. 3. Cfr. L. Eiseley, Il secolo di Darwin. L’evoluzione e gli uomini che la scoprirono (1958), trad. di L. Sosio, Feltrinelli, Milano 1975. 4. Per un inquadramento complessivo, si vedano: G. Moore, Nietzsche. Biology and Metaphor, Cambridge University Press, Cambridge 2002; J. Richardson, Nietzsche’s New Darwinism, Oxford University Press, Oxford-New York 2004; D.K. Johnson, Nietzsche’s Anti-Darwinism, Cambridge University Press, Cambridge-New York 2010. In P. Bornedal, The Surface and the Abyss. Nietzsche as Philosopher of Mind and Knowledge, de Gruyter, Berlin-New York 2010, si trova invece una disamina approfondita del pensiero scientifico di Nietzsche, senza però affrontare la questione della biologia evolutiva.

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2. La volontà di potenza e la causalità cosmica Il primo punto da cui partire consiste nell’osservare come la traduzione dell’opera di Darwin che Nietzsche aveva sotto gli occhi abbia giocato un ruolo non secondario nella sua lettura del biologo inglese. La traduzione tedesca dell’Origine della specie, redatta da Heinrich G. Bronn, esce nel 1860, ed è la prima traduzione in lingua straniera.5 Il sottotitolo dell’opus maius darwiniano uscito l’anno prima recita: or the Preservation of Favoured Races in the Struggle for Life, che in tedesco suona: oder Erhaltung der vervollkommneten Rassen im Kampfe um’s Daseyn. Ora, è precisamente contro due nozioni presenti nel sottotitolo che si scaglia Nietzsche nella sua presa di posizione critica nei confronti del darwinismo. Se il Wille zur Macht è chiamato a rispondere a domande essenziali circa le cause che determinano lo sviluppo dei viventi (e non solo di questi, come vedremo), ciò avviene in quanto esso sarebbe in grado di offrire spiegazioni che non hanno bisogno di ricorrere né alla nozione di sopravvivenza del più adatto, né a quella di lotta per l’esistenza. La lettura del darwinismo proposta da Nietzsche si basa su un fraintendimento di non poco conto – un fraintendimento che appunto le espressioni tedesche contenute nel titolo della traduzione dell’Origine lasciano presagire. Potremmo allora dire che la teoria dell’evoluzione nietzschiana si sia contrapposta a versioni “spenceriane” del darwinismo e che Nietzsche, quindi, si sia scagliato non tanto contro Darwin, quanto piuttosto contro una delle immagini allora possibili del darwinismo. Nel testo intitolato “Anti-Darwin” contenuto nella GötzenDämmerung, Nietzsche afferma a chiare lettere di ritenere la nozione di Kampf ums Daseyn un’assurdità – o al massimo un’ipotesi tutta da provare. Non si combatte per assicurarsi il possesso di mezzi scarsi, come quest’ultima suggerisce. È invece in condizioni dominate dal lusso, dalla Üppigkeit, che avviene la lotta – ed è una lotta che ha come posta in gioco la potenza. Inoltre, al fine di tener ben presente quanto sbagli “la scuola di Darwin”, 5. Cfr. S. Gliboff, H.G. Bronn, Ernst Haeckel, and the Origins of German Darwinism. A Study in Translation and Transformation, MIT Press, Cambridge (MA) 2008.

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Il valore di Cartesio per Nietzsche RENATO MOGLIA I commedianti, perché non traspaia sul loro volto il rossore della vergogna, quando sono chiamati in scena, indossano la maschera; anch’io, al momento di entrare in questo teatro del mondo, dove ho interpretato sino ad oggi la parte di spettatore, procedo mascherato. Cartesio, Cogitationes privatae (Preambolo)

1. Il valore del dubbio L’interesse di Cartesio per il teatro è ben testimoniato nel corso della sua opera; nel suo orizzonte teorico l’altro, in quanto interrogante-interrogato o soggetto-oggetto di una sceneggiatura socratica, è sempre stato presente.1 Così, anche Cartesio va in scena, opportunamente mascherato; la sua è una vera e propria irruzione, un colpo di scena intellettuale. Trasloca dal vecchio scricchiolante palcoscenico della metafisica, sostituendo anche la compagnia con nuovi commedianti; si proclama insieme capocomico, regista e sceneggiatore di uno spettacolo mai visto prima. Dopo il trasloco Cartesio si rivolge a un pubblico nuovo, anch’esso appena apparso sulla scena del secolo. Non più pedanti accademici aristotelici, sordi al nuovo sapere emergente, ma un pubblico di laici, outsiders, ricercatori di nuove verità, un pubblico di uomini “onesti e abili”.2 La “commedia nuova” non solo rappresenta, ma addirittura inaugura la filosofia, la scienza e l’etica della modernità. Protagonista è il soggetto individuale, che teorizza la propria pratica scientifica e, nel farlo, si apre a un 1. Si vedano le lettere a Mersenne di fine dicembre 1637 e alla principessa Elisabetta, datate 18 maggio e 6 ottobre 1635, in R. Descartes, Tutte le lettere. 1619-1650, a cura di G. Belgioioso, Bompiani, Milano 2005. Va considerata la struttura teatrale dialogica della Ricerca della verità mediante il lume naturale, che mette in scena tre personaggi: il maieuta scientifico-socratico Eudosso, il diligente studioso tradizionalista Epistemone e l’honnête homme, il laico illetterato ma aperto al nuovo sapere, Poliandro. 2. La figura cui Cartesio pensa non ha nulla del gentiluomo. Il progenitore dell’honnête homme cartesiano si trova invece – almeno in parte – in Montaigne; sono uomini agli antipodi dei pedanti, ignorano la logica scolastica, prediligono un sapere piacevole, gaio, da attingere senza sottoporre a torture la nostra mente.

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nuovo soggetto collettivo, al quale espone le proprie congetture perché le corrobori o le confuti. La filosofia della modernità viene, così, istituita da Cartesio come libera pratica epistemica, meditazione autoriflessiva del soggetto sulla propria intelligenza alla prova dell’intelligenza dell’altro. Si chiamerà libertà di pensiero. Ci si chiede come sia stato possibile questo nuovo inizio, questa svolta tra epoche che Cartesio si autoimpone e ci impone ancora oggi, inaugurando la “sua” epoca? Il copione cartesiano realizza un salto epocale, salto che però è da ritentare, da riconquistare ancora e sempre soggettivamente “dentro” ogni epoca, in quanto ne costituisce l’etica. “Preparare la scienza correggendo la posizione dell’etica”, commentava Lacan nel 1963, nel testo in cui decostruì il kantismo.3 Da subito Cartesio ci prospetta un’etica epistemica laica dove libertà di pensare – l’intuizione al lume naturale della ragione – si coniuga alla necessità di provare con rigore. Ci porta a un guado che è anche un bivio; ci consente e pure ci obbliga a prendere posizione nella scienza moderna, soggettivando l’etica; ci invita a mettere alla prova, senza riguardi autoriali o dottrinari, il nostro itinerario epistemico. Come ha fatto a imporre questo spartiacque? Come ha imposto l’emersione – allora e ora – dell’evento che riassumiamo col termine di “modernità”? Mediante il dubbio. Il dubbio apre la porta alla teorizzazione del soggetto della scienza sulla propria pratica. Sta qui il passaggio chiave che dubitando del sapere chiede di sapere: “So o non so? da dove so? come so?”. Ma soprattutto: “Come faccio a sapere che so con certezza indubitabile?”. Il dubbio di Cartesio è un novum assoluto – nemo ante me – rispetto, per esempio, al dubbio dello scetticismo antico e moderno. Infatti, non mette in dubbio i sistemi filosofici imperanti, idealistici o empiristici, ma, essendo rivolto al proprio teorizzare, mette autoreferenzialmente in dubbio se stesso. In questo senso termini sinonimi di dubbio nel lessico cartesiano sono, per esempio, cogito, congettura e intuizione. Il dub3. J. Lacan, “Kant avec Sade” (1963), in Écrits, Seuil, Paris 1966, p. 765.

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bio è lo strumento utilizzato per interrogarsi sulla propria pratica intellettuale, interrogazione che diviene ipso facto teoria della pratica scientifica. Sostanziale è la differenza rispetto alla ratio pirroniana, che poggia sull’impossibilità di sapere. Cartesio accoglie e supera l’istanza critica dello scetticismo; da un lato fonda l’etica sul dubbio, revocando tutte le autorità e tutti i pregiudizi precedenti, dall’altro lato rifiuta la conclusione scettica: la non-curiosità, la non-ansia di sapere, la fine di ogni ricerca; non accetta l’atarassia etica e intellettuale che ne deriva. Il dubbio porge a Cartesio la possibilità logica ed etica di uscire dallo stallo epistemologico scettico. Partendo da questo dubbio “diverso”, sapere e ignorare diventano oggetto di decisione etica; la modernità è dire con un atto di volontà sì o no al sapere. La volontà istituisce la certezza soggettiva. Ribadisco il punto dirimente: il dubbio cartesiano è diverso dal dubbio pirroniano; è costruttivo tanto quanto quello è distruttivo. Lo scettico dubita contro i sistemi filosofici vigenti (idealismo platonico e realismo aristotelico). Cartesio dubita a proprio favore per edificare il proprio sistema di pensiero. In pratica Cartesio capisce che la posizione di Sesto Empirico secondo cui “a ogni ragione si oppone una ragione di ugual valore” è autocontraddittoria, nel senso che per ogni enunciato A esiste un enunciato non A che lo confuta. Cartesio esce da questo circolo vizioso: definisce, mediante il dubitare, che è un pensiero indubitabile, un ambito di pensiero potenzialmente non contraddittorio, dove almeno un enunciato non vale: “Pensare che tutto il verosimile sia falso”. Il resto di questa operazione di cernita – la verità residua – è scientificamente elaborabile mediante intuizioni e deduzioni. La rivoluzione che conduce alla modernità è il risultato della certezza del cogito, ottenuta mediante una variazione sul tema della dimostrazione per assurdo: esiste qualcosa di indubitabile, che è il dubbio, il pensiero dubitante; questo dubbio – che dubita anche del pensiero – è un pensiero indubitabile e pensandolo io esisto, sono. Se c’è dell’essere questo viene logicamente dopo 124


Tutti i nomi della storia meno uno. Sul divenire nietzschiano di Deleuze PAOLO VIGNOLA

L

a lettera che Nietzsche scrive a Burckhardt nel gennaio del 1889,1 sebbene comunemente annoverata tra i cosiddetti “biglietti della follia”, contiene per Gilles Deleuze l’emblematica espressione del pensiero nietzschiano del divenire – “io sono ogni nome della storia” – e fa da testimone per la corrente filosofica post-strutturalista, che tenderà a mettere in crisi l’idea di soggetto, di verità e di fondamento, usando come volano il clima e i testi della “Nietzsche renaissance”. Nell’arco di tempo che va dal convegno di Royaumont (1964) a quello di Cerisy-la-Salle (1972), sembra infatti che Deleuze, Foucault, Lyotard, Klossowski e Derrida, tra gli altri, abbiano trovato un piano strategico comune per condurre il pensiero al di là della dialettica, dell’esistenzialismo e dello strutturalismo, predominanti tra gli anni trenta e i sessanta, prediligendo in Nietzsche l’aspetto inattuale, vitalistico e affermativo, il metodo genealogico e lo stile della sua scrittura come evasione dalle categorie classiche della metafisica e dell’argomentare tipico della filosofia moderna. A rendere conto della rinascita di Nietzsche in seno alla fi1. F. Nietzsche, “Lettera a Burckhardt, 6 gennaio 1889”, in Carteggio NietzscheBurckhardt, trad. di M. Montinari, Boringhieri, Torino 1961. “Quel che è sgradevole e nuoce alla mia modestia è il fatto che in fondo io sono ogni nome della storia [...]. Per due volte questo autunno [...] mi sono trovato ai miei funerali, la prima volta come conte Robilant (no, questi è mio figlio, in quanto io sono Carlo Alberto, la mia natura sotto), ma Antonelli ero proprio io…”.

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losofia francese è allora, forse più di altri esempi, Pensée nomade, ossia il testo della conferenza tenuta da Deleuze a Cerisy-laSalle,2 poiché nel descrivere la grandezza del filosofo di Röcken traccia anche i sentieri da percorrere per una filosofia nietzschiana indirizzata alle trasformazioni della società contemporanea. Nomadismo e schizofrenia In Pensiero nomade Deleuze individua, all’interno del trio Nietzsche-Marx-Freud quale alba della cultura contemporanea, Nietzsche come alba di una controcultura in grado di sfuggire alle due grandi “burocrazie” del Novecento, ossia il marxismo e il freudismo. È un Nietzsche sicuramente diverso dalle interpretazioni che si erano susseguite nei decenni precedenti, non solo perché slegato da ogni compromissione con il nazionalsocialismo o con l’irrazionalismo borghese,3 ma soprattutto perché capace di ispirare la “causa rivoluzionaria” occidentale degli anni settanta, il cui problema era “trovare un’unità tra le diverse lotte locali senza ricadere nell’organizzazione dispotica e burocratica del partito o dell’apparato di Stato”.4 Tema caro a Deleuze e costante nei lavori svolti a quattro mani con Guattari, assieme al quale non smetterà mai di domandarsi “chi siano i nostri nomadi d’oggi, chi siano i veri nietzschiani”.5 Nietzsche sfuggirebbe alle ricodificazioni di cui sono stati vittime Marx e Freud, conferendo ai suoi aforismi una potenza intensiva, ossia una forza che faccia a meno delle rappresentazioni e che, mediante l’utilizzo di nomi propri – Cristo, l’Anti-Cristo, Cesare, Borgia, Zarathustra, Dioniso ecc. – riesca a sviluppare senso e valori direttamente legati ai vissuti di tutti. Per De2. Cfr. G. Deleuze, Pensée nomade, in AA.VV., Nietzsche aujourd’hui, UGE, Paris 1973, pp. 159-174 (poi in L’île déserte et autres textes, Minuit, Paris 2002, pp. 351-364); trad. di F. Polidori, “Pensiero nomade”, in Nietzsche e la filosofia e altri testi, Einaudi, Torino 2002. 3. Problemi che il convegno di Royaumont del 1964, celebratosi in occasione della pubblicazione dell’edizione critica dell’intera opera (a cura di Colli e Montinari), aveva già affrontato e ridimensionato. 4. G. Deleuze, “Pensiero nomade”, cit., p. 322. 5. Ibidem.

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leuze tali nomi, oltre a essere maschere, sono anche “personaggi concettuali” che esprimono i drammi del pensiero, vale a dire le forze e le tendenze che si agitano nella creazione dei concetti: “Io sono tutti i nomi della storia”6 non è allora espressione della follia di Nietzsche senza essere al tempo stesso il culmine del suo pensiero e la prospettiva da cui guardare l’intera sua opera, per ri-pensarla. In tal senso, Deleuze definisce “nomadismo” questo movimento di intensità mediante i nomi propri, anticipando una prospettiva etico-politica che raggiungerà i più fertili sviluppi in Mille piani. Detto altrimenti, oltre a rappresentare simbolicamente e storicamente il passaggio di testimone tra la filosofia moderna, caratterizzata dal soggetto rappresentativo, e quella contemporanea, che mette in questione la stessa soggettività, “io sono tutti i nomi della storia” è l’affermazione che funziona da commutatore tra il pensiero di Nietzsche e lo sviluppo originale dell’elaborazione etico-politica di Deleuze, che assieme a Guattari propone la schizoanalisi come alternativa alle rappresentazioni psicoanalitiche dell’inconscio. Ed è proprio il funzionamento la parola d’ordine che Deleuze e Guattari pongono alla base dell’inconscio molecolare e anti-edipico: molecolare, ossia pre-individuale, composto da singolarità nomadi e in divenire attraverso le quali si manifesta il desiderio (tutti i nomi della storia); e anti-edipico, dunque non-rappresentativo (non è un teatro) e non-nevrotico, bensì macchinico (è piuttosto una fabbrica, poiché produce la dimensione psichica della realtà sociale) e “metodologicamente” schizofrenico, in quanto connette elementi disparati della storia e della geopolitica senza chiudersi in triangoli famigliari. 7 Allo stesso modo degli aforismi di Nietzsche, si tratta di comprendere come funziona l’inconscio, piuttosto di interpretarlo per trovarne un significato profondo e univoco. 6. Nella traduzione italiana delle opere deleuziane, quando viene citato direttamente Nietzsche, compare “ogni nome della storia”, mentre quando l’argomentazione è quella di Deleuze si legge “tutti i nomi della storia”. 7. G. Deleuze, F. Guattari, L’anti-Edipo (1972), trad. di A. Fontana, Einaudi, Torino 2002, p. 108.

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Automatismo critico. Nietzsche letto da Derrida IGOR PELGREFFI

1. Filosofia come autoconfessione involontaria Che Jacques Derrida abbia letto Nietzsche prevalentemente mediante i concetti di stile e di scrittura è un fatto ben noto. Del resto, uno dei centri logici della sua riflessione è proprio il rapporto tra la filosofia e la sua produzione scritta (tra il senso e la sua forma materiale, virtualmente insensata). Sarebbe tramite un originale uso della scrittura, concepita come ordine del significante considerato nella propria autonomia, che Nietzsche sarebbe andato più lontano di Heidegger nella critica della metafisica occidentale: “Nietzsche ha scritto ciò che ha scritto. Ha scritto che la scrittura – la sua anzitutto – non è soggetta originariamente al logos e alla verità”.1 Questo saggio vorrebbe esplorare, nella lettura derridiana, la questione della scrittura come autobiografismo, riflettendo sulle dinamiche tra autos e automatismo e integrandole con i temi dell’animale e della disconnessione. Un’ipotesi forse meno battuta ma che, nella figura di un automatismo critico, vorrebbe anche suggerire qualche idea su un uso “emancipante” di Nietzsche via Derrida. Scriveva Nietzsche, in Al di là del bene e del male: “Mi si è chiarito poco per volta che cosa è stata fino ad oggi ogni grande filosofia: l’autoconfessione, cioè, del suo autore, nonché una specie di non volute e inavvertite mémoires”.2 La relazione tra filoso1. J. Derrida, Della grammatologia (1967), trad. a cura di G. Dalmasso, Jaca Book, Milano 19982, p. 39. 2. F. Nietzsche, Al di là del bene e del male (1886), trad. di F. Masini, Adelphi, Milano 1968, p. 11.

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fia e autobiografismo è strutturale.3 La filosofia è un’autoconfessione involontaria del suo autore: il corpo precede il concetto, che ne è una verbalizzazione scritta. Figura, questa, reversibilmente derridiana e nietzschiana. Del resto, la relazione Derrida/Nietzsche, qui come altrove, è fatta di scambi spesso impliciti: “Il mio rapporto con Nietzsche è molto denso e complicato (leggo Nietzsche ogni giorno)”.4 Talvolta il debito è dichiarato: “Se Nietzsche è stato e resta per me una referenza tanto importante è innanzitutto […] perché è un pensatore che pratica una psicologia dei filosofi […]. La filosofia è sempre anche una psicologia e una biografia: scrittura della vita come movimento della psyché vivente. È sempre una figura della vita individua, una strategia (armata e inerme) di quella vita, nella misura in cui ispira tutti i filosofemi e programma tutte le astuzie della verità”.5 Inoltre, dagli anni novanta nella produzione di Derrida si registra una consistente aderenza all’idea di autoconfessione automatica come dinamica indecostruibile nel filosofare.6 Potrei ricordare i tentativi di una scrittura autobiografica – sui generis: come potrebbe essere altrimenti? – nella quale Derrida ha esplorato il tema dell’antecedenza della corporeità e di una certa passività nel gesto della scrittura, specialmente nelle zone di soglia sonno/veglia. Una rapida scorsa, fra gli altri, a testi come Memorie di cieco,7 Un baco da seta8 o Circonfessione9 3. “Grammatologico, strutturalista, biografico”: così Behler legge la démarche di Derrida lettore di Nietzsche, in E. Behler, Derrida-Nietzsche. Nietzsche-Derrida, Schöningh, Padernborn 1988, p. 13 sgg. Sul senso filosofico dell’autobiografismo nietzschiano, messo organicamente in rapporto – anche tramite Derrida – ai temi della scrittura, del bios e dello stile come coazione a ripetersi, cfr. A. Nehamas, Nietzsche. La vita come letteratura (1985), Armando, Roma 1989, p. 27 sgg. 4. J. Derrida, L’ordine della traccia (intervista a cura di Gianfranco Dalmasso), “Fenomenologia e Società”, 2, 1999, p. 5. 5. J. Derrida, M. Ferraris, “Il gusto del segreto”, trad. di M. Ferraris et al., Laterza, Roma-Bari 1997, p. 32 (corsivo mio). 6. Cfr. J.-G. Kronick, Philosophy as Autobiography. The Confessions of Jacques Derrida, “MLN”, 5, 2000, pp. 997-1018. 7. J. Derrida, Memorie di cieco (1990), trad. di A. Cariolato e F. Ferrari, Abscondita, Milano 2003. 8. Id., Un baco da seta (1997), in J. Derrida e H. Cixous, Veli, trad. di M. Fiorini, Alinea, Firenze 2004, pp. 21-73. 9. J. Derrida, Circonfessione (1991), in G. Bennington, J. Derrida, Derridabase. Circonfessione, trad. di F. Viri, Lithos, Roma 2008.

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potrebbe agevolmente confermarlo.10 Riprendiamo però, l’assunto nietzschiano: la filosofia è interessata (d)al bios del suo autore, cioè (d)all’autos che telecomanda l’autobiografismo che la scrive. Occorre evidentemente soffermarsi sulla relazione tra autos e automatismo. 2. Autos e automatismo Il tema del Selbst in Nietzsche rinvia alla figura del corpo come grande ragione: “Dietro i tuoi pensieri e sentimenti, fratello, sta un possente sovrano, un saggio ignoto – che si chiama Sé [Selbst]. Abita nel tuo corpo, è il tuo corpo”.11 Il Selbst (o l’autos) abita ed è il corpo, il quale è anche la sede e l’origine del movimento automatico. È dal corpo, e dalla sua involontarietà, che origina anche la forma teorica di una filosofia (cioè quel kernel di figure, funzioni e schemi tipici, elaborati nel corso di una propria ricerca) la quale rappresenta l’habitus, ossia lo schema motorio intellettuale di quel filosofo. Ma, una volta prodotta, la forma teorica tende a riprodursi (quasi a vivere di vita propria) e ad assillarlo, inducendo il filosofo a inseguirla entro uno strano movimento automatico basale. Vi è, insomma, qualcosa di autobiografico nella costruzione di una filosofia, nella pulsione a riprodurre se stessi (autos) verso un’astrazione identitaria. Non potrebbe tutto questo applicarsi anche a Derrida? Che cos’è la decostruzione se non una forma autoprodotta, cioè un dispositivo che identifica il funzionamento basale della sua riflessione, ma che, una volta messo a punto, sopravvive al proprio autore e, persino, lo precede? Nel caso del rapporto con Nietzsche, Derrida ci fa pensare al fatto che ogni forma teorica ha a che vedere col desiderio di sé, con la tensione inspiegabile e tuttavia, a conti fatti (cioè storicamente), necessaria dell’inseguire paradossalmente quel che precede, cioè un “proprio” autos; e, di qui, di un riprodurre se stessi. Proprio come accade in un’au10. Mi permetto di rinviare qui a I. Pelgreffi, La scrittura dell’autos. Derrida e l’autobiografia, Galaad, Giulianova 2015, pp. 159-239. 11. F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra (1883-85), trad. di M. Montinari, Adelphi, Milano 1978, I, p. 34.

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La smorfia del genealogista. Foucault con Nietzsche ANDREA MUNI

Il desiderio del genealogista “Genealogia” è senza dubbio la parola che, più di ogni altra, richiama alla mente e collega i nomi di Nietzsche e Foucault. La pratica genealogica (seppur interpretata in maniere molto differenti) è stata per entrambi lo strumento privilegiato attraverso cui provare a mettere in scena una differente “politica” della filosofia, del “fare storia” e persino della soggettività. A cavallo tra gli anni sessanta e settanta Michel Foucault attraversa un periodo di profonda revisione del suo stile filosofico e del suo metodo di ricerca storica, una trasformazione in cui il pensiero nietzschiano svolge un ruolo chiave: il passaggio dal metodo archeologico a quello genealogico. Nonostante lo stesso Daniel Defert e buona parte della critica riconducano lo scarto tra archeologia e genealogia a questioni puramente metodologiche,1 personalmente non trovo che queste siano sufficienti a giustificare un’alterazione così radicale dello stile e del metodo del filosofo francese. Lo scarto effettivo tra genealogia e archeologia mi sembra essere piuttosto rintracciabile a livello di quello che si potrebbe chiamare il desiderio del genealogista/archeologo. Il desiderio del genealogista/archeologo Michel Foucault, dopo la “conversione” genealogica, sembra assumere tutt’altro valore: esso diviene esplicitamente parte integrante, elemento inse1. M. Foucault, La société punitive. Cours au Collège de France, 1972-1973, GallimardSeuil, Paris 2013, p. 95.

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parabile, soggetto e oggetto, della ricerca e dell’indagine storica. “Là dove l’anima ha la pretesa di unificarsi, là dove l’Io s’inventa un’identità o una coerenza, il genealogista parte alla ricerca dell’inizio […] l’analisi della provenienza permette di dissociare l’Io e di far pullulare nei luoghi della sua sintesi vuota mille eventi ora perduti.”2 La genealogia foucaultiana assume quindi nettamente, rispetto all’archeologia, una portata “etica” e autotrasformante. La genealogia, afferma Foucault senza troppi giri di parole, deve produrre la dissociazione dell’io. Una prima ipotesi introduttiva che vorrei avanzare in questo saggio è che la genealogia non ha alcun valore pratico fintanto che l’io – che desidera dissociare – resta inteso come una semplice nozione teorica, filosofica o psicologica. L’io che il genealogista dovrebbe piuttosto avere di mira – specialmente se pretende che la sua pratica sia davvero un’etica e una politica – non può essere altri che l’io storico e concreto a cui ognuno di noi (ed egli stesso) è stato “accoppiato” attraverso le pratiche disciplinari (e biopolitiche) che innervano la nostra società. A ben guardare, infatti, la pratica genealogica si regge sulla volontà di sapere, sul desiderio, sulla certezza che la verità (e il soggetto identificato con l’io) siano qualcosa di storico. Questa particolare forma di volontà di sapere conduce il genealogista ad aggredire quell’io, e quella verità, il cui significato e valore appaiono oggi a molti come trans-storici e universali. L’azione pratica, e politica, del genealogista consiste nel mostrarne la storicità, e quindi fondamentalmente la non universalità e la non necessità, suggerendo così – neanche troppo velatamente – che un’altra esperienza della verità e un altro valore dell’io siano non soltanto possibili, ma addirittura preferibili e socializzabili. Il desiderio di considerare l’esperienza genealogica da un punto di vista radicalmente etico-politico mi ha condotto a cercare di approfondire la componente autoaggressiva che mi sembra pervadere tale pratica (e il desiderio stesso del suo attore): 2. Id., “Nietzsche, la genealogia, la storia” (1971), trad. di A. Fontana, P. Pasquino, G. Procacci, in Il discorso, la storia, la verità, Einaudi, Torino 2001, p. 48.

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L’Occidente ha cercato a lungo, durante la propria storia, di forgiare l’uomo identificandolo al soggetto-della-conoscenza, ma quest’immagine sta scomparendo. E vi ripeto: io non dico le cose perché le penso, le dico piuttosto in uno sforzo di autodistruzione, le dico per non pensarle più.3 Il genealogista è un soggetto che vuole “entrare nel gioco”, includendosi coraggiosamente (e attivo-passivamente) nella propria ricerca storica. Nell’atto concreto e attuale della genealogia, egli si esercita a rompere con l’io che ha ricevuto in dote dalla Storia, sovra-producendosi in essa come differenza derisoria, come errore di sistema, come illogica causa di sé. Il genealogista si fa sintomo e aborto della Storia; egli si mette in scena (per i suoi lettori/uditori) come il figlio e la smorfia della Storia. Osservata da questa differente angolatura, più evidente in Nietzsche che in Foucault, la stessa genealogia foucaultiana sembra assumere retroattivamente i contorni della parresia, indicandoci velatamente una possibile continuità teorico-pratica del complessivo progetto del filosofo francese. Una strana sensazione insiste per un po’, per poi svanire rapidamente, dopo ogni lettura (e rilettura) della Genealogia nietzschiana: la sensazione che il suo autore scrivesse innanzitutto contro se stesso. La scrittura graffiante e aggressiva di Nietzsche sembra continuamente rovesciarsi in una selvaggia (e affascinante) autoaggressione. Non cogliere questa dimensione della scrittura nietzschiana credo significherebbe cancellarne praticamente tutto il valore etico-pratico, attutirne la tensione intrasoggettiva, per ridurla a nient’altro che ai vaneggiamenti biliosi e autocontraddittori di un povero folle. Anche lo sterminato progetto genealogico di Foucault rischierebbe di vedere polverizzata quasi tutta la sua sovversiva portata etico-pratica, se gli facessimo il torto (in verità molto comodo per alcuni) di considerarlo una semplice ricostruzione storicistico-oggettivistica delle forme di dominio perpetrate in Occidente. Il personale “ritorno a Nietzsche” di 3. Intervista a Michel Foucault del 1971, <www.youtube.com/watch?v=qzoOhhh4aJg>.

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Al di là di ragione e follia STEFANO TIERI

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asilea, 10 gennaio 1889: Friedrich Nietzsche viene ricoverato nella clinica psichiatrica Friedmatt. Queste le parole con cui i medici dell’istituto descrivono lo stato del paziente nel Krankenjournal: Nessuna vera conoscenza della malattia; si sente straordinariamente bene e sollevato. Dichiara di essere malato da otto giorni e di aver sofferto spesso di violenti mal di testa. Avrebbe avuto anche alcuni attacchi. Durante questi, il paziente si sarebbe sentito straordinariamente bene e sollevato […]. Il paziente è difficile a fissare, risponde solo parzialmente e incompletamente o per niente alle domande rivoltegli, procedendo senza posa nei suoi discorsi confusi […]. Il contenuto dei suoi discorsi è un confuso miscuglio di ciò che ha vissuto prima; un pensiero scaccia l’altro senza alcun nesso logico.1 Il Nietzsche-folle eccede la logica comune: malattia e salute, confusione e lucidità si manifestano nel discorso del paziente come aspetti compresenti, che si implicano a vicenda. È il manifestarsi del male a far stare bene il paziente, in un discorso, esattamente come appare Nietzsche agli occhi dei medici, “difficile a fissare”: i cardini sono saltati, il logos (logica) non è sufficiente a collocarsi 1. A. Verrecchia, La catastrofe di Nietzsche a Torino, Einaudi, Torino 1978, p. 270.

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nel logos (discorso). Tutto si sfalda, la comprensione (da parte del paziente, dei medici o da entrambe le parti?) viene meno, il dialogo si interrompe, resta il silenzio. Siamo dinanzi alle esternazioni di un folle? Un simile sfasamento tra malattia e salute, che a tratti ha l’aspetto dell’identificazione, era già stato teorizzato da Nietzsche ben prima del “crollo” del 1889 e dell’internamento in manicomio. Nizza, inverno 1885: Nietzsche scrive la parte conclusiva di Così parlò Zarathustra. “L’uomo più brutto” (l’assassino di dio) giunge a far proprio il pensiero abissale dell’eterno ritorno, il più difficile da accettare per chi sia ancora legato ai fini e ai perché. Solo allora gli “uomini superiori” prendono coscienza della loro guarigione e iniziano a ringraziare Zarathustra, il quale si fa però silenzioso per poi annunciare, portandosi un dito alla bocca, il giungere della mezzanotte. Nell’attimo di inizio e fine di ogni giornata, punto estremo che unisce il precedente al successivo (in un processo che sempre ritorna), Zarathustra sembra cadere in estasi: Uomini superiori, che vi sembra? Sono un indovino? Un sognatore? Un ubriaco? Un interprete di sogni? Una campana di mezzanotte? Una goccia di rugiada? Un vapore e profumo di eternità? Non lo udite? Non lo odorate? Proprio ora, il mio mondo divenne perfetto, mezzanotte è anche mezzogiorno, – dolore è anche un piacere, maledizione è anche una benedizione, notte è anche un sole, – andate via o vi toccherà imparare: un saggio è anche un folle.2 Oltre ogni contraddizione, nell’unione degli opposti, il suo mondo diviene perfetto: saggezza e follia costituiscono qui un unico nucleo, dove la contrapposizione “storica” viene meno. O meglio: è la ragione stessa – che prima tracciava i suoi limiti e confini tramite la formulazione di concetti (attraverso, quindi, la messa in atto del logos) – a venire meno e a mostrare la propria arbitrarietà, dissimu2. F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra (1883-85), trad. di M. Montinari, Adelphi, Milano 2010, p. 376.

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lata dietro le pretese assolutistiche della Parola. Questo discorso, al di là di ragione e follia, è intrecciato alla teoria dell’eterno ritorno: Avete mai detto di sì a un solo piacere? Amici miei, allora dite di sì anche a tutta la sofferenza. Tutte le cose sono incatenate, intrecciate, innamorate, – – se mai abbiate voluto “una volta” due volte e detto “tu mi piaci, felicità! guizzo! attimo!”, avete voluto tutto indietro! – tutto di nuovo, tutto in eterno, tutto incatenato, intrecciato, innamorato, oh, così avete amato il mondo.3 Il dolore è anche un piacere “semplicemente” perché lo comporta, essendone profondamente intrecciato. Possiamo allora dire, al tempo stesso, che ogni ragione comporti una follia? E che, al venir meno della ragione, cada anche la stessa idea di follia? Occorrerà precisare come ragione e follia, all’interno della storia del pensiero occidentale, non siano sempre state ritenute due mondi a sé stanti, incomunicabili tra loro. Tutt’altro: risalendo alle origini della sapienza nella Grecia arcaica, l’idea stessa di conoscenza (legata al fenomeno della divinazione) vede nella manía – termine che, con le dovute accortezze, possiamo tradurre con “follia”4 – un elemento fondamentale. Giorgio Colli, a tale riguardo, dirà che “la follia è la matrice della sapienza”.5 Torino, autunno 1888: a pochi giorni dal “crollo”, Nietzsche è alle prese con la stesura di Ecce homo. L’idea emersa nel passo dello Zarathustra prima citato si ritrova ora, con le dovute differenze, espressa sul piano autobiografico. Il filosofo ripercorre, nel corso del testo, l’intera propria esistenza, a partire – dettaglio non trascurabile – dall’esperienza della malattia, che iniziò a manifestarsi nel 1879, quando dette le dimissioni dalla cattedra di Basilea. La descrizione del suo stato non risparmia i dettagli: 3. Ivi, pp. 376-377. 4. Cfr. G. Guidorizzi, Ai confini dell’anima. I Greci e la follia, Raffaello Cortina, Milano 2010, p. 63. 5. G. Colli, La nascita della filosofia, Adelphi, Milano 1978, p. 21.

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Nietzsche 1994 GIANNI VATTIMO

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entocinquant’anni dalla nascita di Nietzsche: non sono tantissimi, eppure forse, per un autore come Nietzsche che in tanti sensi si è considerato inattuale, postumo, destinato al fraintendimento, la cosa giusta da fare nella circostanza non è tanto di rievocare, di rifare presente un assente, ma di installarsi decisamente nella distanza e cercare di guardare alla situazione attuale della sua Wirkung, della sua fortuna, dei suoi effetti sulla nostra cultura. Non cercheremo, insomma, di illuminare questo o quell’aspetto della filosofia di Nietzsche, riesaminando i suoi testi; ma di prendere in considerazione qualcosa che è certo molto più sfuggente, ed esposto a identificarsi con impressioni e opinioni, cioè lo stato delle interpretazioni oggi. Se anche, non potendo né volendo proporre un inventario bibliografico completo, si partirà qui da una impressione, la relativa arbitrarietà del punto di partenza si potrà riscattare negli sviluppi di riflessione a cui darà luogo (del resto, così in fondo funzionerebbe anche una esplorazione che si pretendesse più completa, obiettiva, documentata…). L’impressione da cui propongo di partire è questa: che l’immagine di Nietzsche oggi tenda a riacquistare quei caratteri “estetici” o estetistici o estetizzanti che nei decenni passati – diciaPubblicato in origine su “aut aut”, 265-266, 1995, pp. 3-14; poi in G. Vattimo, Dialogo con Nietzsche. Saggi 1961-2000, Garzanti, Milano 2000, pp. 281-295.

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mo, a partire dai primi anni sessanta – erano sembrati soverchiati dall’immagine di un Nietzsche più politico. Si intende che il termine politico qui non ha un significato ristretto, giacché quasi mai si è pensato di poter legare Nietzsche a un programma politico preciso, facendone l’ideologo di un partito, di un movimento, il profeta di una forma ideale di società ecc. L’eccezione più vistosa e sciagurata è naturalmente rappresentata dalla pretesa dei nazisti di arruolarlo tra i partigiani della selezione razziale, dello Stato totalitario, della violenza senza limiti. Ma forse proprio il ricordo bruciante dell’uso nazista ha vaccinato gli interpreti dei decenni successivi contro i rischi della politicizzazione troppo letterale, banalizzante, strumentale. Resta però vero che, nel periodo a cui penso, che include anche il Sessantotto della contestazione studentesca, e gli anni immediatamente successivi in cui una larga parte dell’intellighenzia europea si sentì coinvolta in qualcosa che appariva, allora, come un movimento in qualche senso rivoluzionario, non si guardò in genere a Nietzsche come a un autore il cui pensiero si potesse risolvere nei termini di una poetica, di un programma d’arte, o anche di una teoria dell’esistenza dell’artista. Il libro che pubblicai nel 1974, e che aveva al suo centro l’idea che l’oltreuomo di Nietzsche potesse, in molteplici sensi, essere la più autentica realizzazione dell’uomo disalienato di Marx, sebbene abbia sollevato numerose discussioni e obiezioni, non mi pare abbia suscitato scandalo in quanto eccessivamente politico. Per fare un esempio concreto: un titolo come quello del libro di Alexander Nehamas, Nietzsche. La vita come letteratura,1 che ha avuto di recente un buon successo negli Stati Uniti, sarebbe stato considerato probabilmente un’espressione critica e limitativa negli anni in cui Foucault e Deleuze si richiamavano a Nietzsche per mettere in discussione la società borghese, il capitalismo ecc. È vero che la lettura “estetizzante” di Nietzsche, che da ultimo si esprime appunto nell’opera di Nehamas, ha le sue radici proprio in Francia, anche in autori come i due nominati; ma negli anni 1. A. Nehamas, Nietzsche. La vita come letteratura (1985), trad. di D. Stimilli, Armando, Roma 1989.

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sessanta e settanta il suo lato estetistico era come lasciato in ombra, a favore di preoccupazioni che, sia pure nel senso largo di cui parlavo, si possono legittimamente chiamare politiche. Se si rileggono oggi i due volumi che riportano gli atti del colloquio su Nietzsche tenutosi a Cerisy-la-Salle nel luglio 19722 si può cogliere, fin dalle poche righe che illustrano l’opera nella quarta pagina di copertina, la caratteristica mescolanza di tensione politica e di avanguardismo letterario, una mescolanza che però, negli stessi termini in cui si formula, mostra l’intensità, e a mio parere la netta predominanza, della dimensione “politica”. “Il colloquio […] confronta le letture più sovversive di Nietzsche con esegesi stilistiche, filosofiche, politiche spogliate di ogni accademismo. I sottotitoli dei due volumi richiamano i temi dell’intensità libidinale, del complotto, della maschera, ma anche la messa in questione radicale di ogni umanismo, sia pure rivoluzionario, che non sarebbe anzitutto se non béance e parodia, crocifissione di Dioniso nell’estasi impossibile di un mondo trasfigurato.” Naturalmente, si osserverà subito che qui è messo in questione anche l’“umanesimo rivoluzionario”, a favore di termini come parodia, béance, estasi impossibile. Ma si provi a immaginare una simile presentazione fuori dal clima anzitutto politico di quegli anni. Sono gli anni in cui in Italia, per esempio, i dibattiti culturali organizzati dai cosiddetti “comuni rossi” erano dedicati a Nietzsche e al nichilismo, e riunivano migliaia di persone che certo non si sarebbero mosse per un incontro accademico o di interesse estetico-letterario. Sebbene in maniera oscura e confusa, in quegli anni si cercava in Nietzsche non solo il critico “moralista” della cultura borghese, ma anche il teorico di una possibile alternativa carica di implicazioni politiche e sociali. Questa portata rivoluzionaria della filosofia di Nietzsche era già allora, nei principali interpreti francesi presenti a Cerisy, fortemente caratterizzata in senso estetico, come ora cercherò di chiarire; ma questo carattere non si mostrava mai separato da un discorso il cui tono restava principalmente politico. L’anti-Edipo di Deleuze e Guattari 2. AA.VV., Nietzsche aujourd’hui?, 2 voll., UGE, Paris 1973.

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Ossessione. La fantapolitica trash di Houellebecq ALESSANDRO DAL LAGO

Quale orrore! Quale orrore! J. Conrad, Cuore di tenebra

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econdo l’opinione corrente il pensiero politicamente corretto, ipocrita e moralista sarebbe appannaggio esclusivo della “sinistra”, una galassia in cui rientrerebbero quelli che non votano a destra, gran parte dei professori universitari di materie umanistiche, gli intellettuali nostalgici del Sessantotto, i postmoderni ecc. ecc. Una rapida indagine sui principali quotidiani di destra (nonché conservatori o “indipendenti”) rivela che nella “sinistra” vengono inclusi, oltre ai tradizionali “comunisti”, anche “multiculturalisti”, “amici dell’Islam” e altri tipi di nemici della libertà. Tra gli ispiratori della congiura della sinistra contro l’Occidente sono spesso citati i cattivi maestri francesi Bourdieu, Foucault, Lacan, Derrida, per non parlare di Sartre e Simone de Beauvoir. Una denuncia del sessantottismo si trova, per fare un esempio, nel romanzo (abbastanza brutto) di Mario Vargas Llosa Avventure della ragazza cattiva, in cui il rifiuto del “nichilismo” francesizzante attraversa la Manica e si estende ai Rolling Stones, alla swinging London e ad altri miti della cultura del “proibito proibire”.1 La denuncia del sessantottismo è dilagante. Così dilagante, da una trentina d’anni, che c’è da chiedersi se non siamo di fronte a una moda ancora più stucchevole delle mitologie sessantottiste. 1. M. Vargas Llosa, Avventure della ragazza cattiva (2006), trad. di G. Felici, Einaudi, Torino 2007.

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Il classico in materia, La pensée 68. Essai sur l’anti-humanisme contemporain di Luc Ferry e Alain Renaut è del 1985,2 mentre il Sessantotto è ormai remoto, una faccenda di una cinquantina d’anni fa, che può interessare solo gente come me, che si avvicina, ahimè, ai settanta… Una denuncia incessante, tambureggiante, monotona, una vera e propria ossessione che sa di risentimento e vendetta tardiva. Dopotutto, è da più di trentacinque anni, dai tempi di Reagan e Thatcher, che la destra stravince, costringendo quella che passa per sinistra a copiarla in tutto e per tutto, se vuole guadagnare ogni tanto qualche elezione. Un’egemonia politica apparentemente fatale. E allora, come spiegare la moda di un interminabile anti-sessantottismo? La sola spiegazione convincente per me è quella di un senso d’inferiorità duro a morire. Nessuno può credere seriamente che la cultura francese abbia guadagnato qualcosa perdendo Michel Foucault o Jacques Derrida e restando con Alain Finkielkraut o Bernard-Henri Lévy. E ciò vale a maggior ragione per l’Italia, in cui intellettuali che si dichiarano di destra si lamentano da anni della prepotenza dei loro colleghi di sinistra. Nel 2002, due editorialisti del “Corriere della Sera”, Angelo Panebianco ed Ernesto Galli Della Loggia, montarono una polemica nell’associazione il Mulino (di cui facevano parte), sostenendo che l’omonima casa editrice avrebbe dovuto occuparsi di più di temi “di destra”, come la crisi del welfare, il thatcherismo e così via.3 L’idea soggiacente era che la cultura “di sinistra” fosse ingiustamente egemonica e quindi bisognasse cominciare a metterne in discussione il potere. Ma perché e come sarebbe stata egemonica? All’epoca della polemica una delle più grandi case editrici italiane, Mondadori, era da una decina d’anni di proprietà della Fininvest, cioè di Silvio Berlusconi, e quindi nulla le impediva di pubblicare libri culturalmente influenti “di destra” (e lo stesso vale per l’altro grande gruppo editoriale, Rcs). Ma in Italia c’erano davvero libri 2. L. Ferry, A. Renaut, Il 68 pensiero. Saggio sull’antiumanesimo contemporaneo, trad. di E. Renzi, Rizzoli, Milano 1987. 3. Ovviamente, la polemica finì in nulla. Cfr. V. Monti, La guerra al Mulino si è sfarinata, “Corriere della Sera”, 3 febbraio 2002.

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“di destra” pubblicabili? Oppure non venivano pubblicati perché brutti o irrilevanti? Da noi, quando si solleva il caso degli intellettuali conservatori o reazionari boicottati o ignorati dalle élite culturali prevalenti, si fanno sempre i soliti nomi: Augusto Del Noce o Elémire Zolla, per non parlare dell’impresentabile Julius Evola. Ma non molti di più. Non sarà allora che il vero problema è che la cultura di destra italiana è sempre stata ben poca cosa? Da almeno cinquant’anni, chiunque di noi ha potuto leggere in traduzione (e non in samizdat in lingua originale), Nietzsche e Heidegger, Céline e Eliot, Tolkien e C.S Lewis, Cioran e Ionesco, Schmitt e Hayek e, oggi, Richler o Houellebecq. Quindi, la letteratura conservatrice è sempre stata a disposizione dei lettori volonterosi. E allora perché ammorbare il mondo con la polemica contro il Sessantotto, l’egemonia culturale della sinistra e altri luoghi comuni del pensiero politicamente corretto di destra? Per vendere di più e realizzare un’egemonia alternativa, è ovvio. Il caso più significativo al riguardo è proprio quello di Michel Houellebecq, lo scrittore oggi più scandaloso per definizione, il Céline del terzo millennio, l’autore dalla scrittura “sbalorditiva”, il fustigatore del Sessantotto (siamo sempre lì), lo smascheratore della nostra viltà verso l’Islam, per citare alcune definizioni più o meno amene che ne accompagnano la presentazione su quotidiani, siti e blog.4 Ora, a me Houllebecq sembra uno scrittore mediocre (darò sotto qualche prova di questa affermazione) e deliberatamente sgradevole, anche se riconosco che è abbastanza abile nel portare a galla un certo fondo limaccioso della condizione maschile contemporanea, stretta tra la compulsione all’erotismo e il disgusto per la cultura mediale che lo esalta, tra consumo ed esasperazione per il consumismo e lo strapotere del mercato, tra crisi della democrazia ed evidente estinzione di qualsiasi idea alternativa all’ordine politico 4. Per avere un’idea complessiva dello scrittore e intellettuale Houellebecq, nonché delle sue ossessioni, si veda M. Houellebecq, La ricerca della felicità, Bompiani, Milano 2008, assemblaggio di testi vari e occasionali.

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