369 marzo 2016
Michel de Certeau Un teatro della soggettività a cura di Diana Napoli Premessa Élisabeth Roudinesco Michel de Certeau o l’erotizzazione della storia Diana Napoli Il Don Coucoubazar Gaetano Lettieri Storia come promessa del corpo perduto Silvana Borutti Tracce e resti. Forme dell’alterità in Michel de Certeau Rossana Lista Il soggetto in Michel de Certeau: un’identità impossibile François Dosse Michel de Certeau e l’archivio. L’enigma irrisolto della storia Alfonso Mendiola L’altro del sapere
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CONTRIBUTI Bruno Latour Affetti dal capitalismo 111 Edoardo Greblo Al di là del sangue e del suolo. I dilemmi dell’appartenenza 128 Antonello Sciacchitano Certezza mitica vs incertezza scientifica 153 Tiziano Possamai La ripetizione come processo di rimozione adattiva. Da Samuel Butler a Peter Sloterdijk 164 DISCUSSIONI Andrea Zhok Rileggere Heidegger alla luce dei Quaderni neri
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POST Pier Aldo Rovatti “Mettersi in gioco.” Qualche istruzione per l’uso
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rivista fondata da Enzo Paci nel 1951 direttore responsabile: Pier Aldo Rovatti redazione: Sergia Adamo, Paulo Barone, Graziella Berto, Deborah Borca (editing, deborah.borca@gmail.com), Damiano Cantone, Mario Colucci, Alessandro Dal Lago, Pierangelo Di Vittorio, Giovanna Gallio, Edoardo Greblo, Raoul Kirchmayr, Giovanni Leghissa, Massimiliano Nicoli, Ilaria Papandrea, Fabio Polidori, Pier Aldo Rovatti, Massimiliano Roveretto, Antonello Sciacchitano, Giovanni Scibilia, Davide Zoletto direzione: c/o il Saggiatore, via Melzo 9, 20129 Milano sito web: autaut.ilsaggiatore.com collaborano tra gli altri ad “aut aut”: G. Agamben, H.-D. Bahr, R. Bodei, L. Boella, S. Borutti, J. Butler, M. Cacciari, A. Cavarero, R. De Biasi, G. Dorfles, M. Ferraris, U. Galimberti, P. Gambazzi, S. Givone, A. Heller, F. Jullien, J.-L. Nancy, A. Prete, R. Prezzo, M. Serres, G.C. Spivak, G. Vattimo, M. Vegetti, P. Veyne, V. Vitiello, S. Žižek per proposte di pubblicazione: autaut@ilsaggiatore.com Si fa presente che “aut aut” non pubblica recensioni e non accetta testi di ampiezza superiore a 40.000 battute (note e spazi compresi).
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Premessa
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isulta difficile ricondurre la produzione di Michel de Certeau a una tematica, a un ambito di interesse e perfino a una disciplina. Viaggiatore, come egli stesso si definiva, preferiva sempre praticare – rispetto alle istituzioni che autorizzano il “discorso vero”, agli oggetti di indagine – un pas de côté. Proporne una lettura significa semplicemente tracciarsi un cammino attraverso un’opera che non solo non appartiene ad alcuna disciplina ma che lui stesso ha costruito “in nome di un’incompetenza” (così recita l’incipit del suo capolavoro Fabula mistica). Prendendo in prestito l’espressione che Robert Klein aveva usato a proposito di Aby Warburg, probabilmente questa “disciplina senza nome” costituisce la più importante eredità di Certeau. Ma non si tratta solo di stabilire frontiere epistemologiche. A essere in gioco, più profondamente, in questa disciplina senza nome, è un’autorizzazione a scrivere, un’appartenenza, una pratica della soggettività (attraverso una scrittura in cui Certeau teorizza sempre l’operazione che compie sdoppiando il livello dell’indagine) in equilibrio tra istituzione e invenzione, all’interno di un’opera che gli studi filosofici non hanno percorso con sufficiente radicalità e che invece ci interroga rispetto a uno dei nodi essenziali proprio della tradizione filosofica: la domanda su cosa sia il soggetto. E Certeau, inserendosi pienamente in questa tradizione, dialogando con essa, attraversandola, rielabora e pratica tale questione centrale: esiste un soggetto che possa essere riconosciuto aut aut, 369, 2016, 3-8
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senza essere autorizzato? Esiste uno spazio della soggettività, oggi, in cui sia ancora possibile, come scriveva in La presa della parola, “prendere la parola come, nel 1789, si è presa la Bastiglia”? Michel de Certeau ha tentato di rispondere a questa domanda attraverso tutta la sua produzione, utilizzando la storiografia come uno strumento per interrogarsi non solo sul soggetto, ma sul suo altro, il suo specchio, il suo fantasma di cui tutta la sua opera sembra una ricerca. Qualcuno ha detto in una conferenza che Certeau era un “cacciatore di frodo” e i suoi testi, mai attuali come in questi giorni, sono una caccia al fantasma: chi è l’altro? È alle prese con le figure dell’alterità che si articola un’indagine sulla soggettività che si dibatte tra la frontiera dell’accesso al simbolico (e dunque la possibilità di autorizzare un discorso vero) e il tentativo di sabotarlo. Tra questi due confini, la soggettività copre lo spazio della teatralità facendo segno, a prescindere dalle sfumature tragiche o commedianti che di volta in volta mette in scena, alle risorse della finzione: quella necessaria a riconoscerla e quella necessaria a “sopportarla”. Michel de Certeau, muovendosi attorno alle fragili frontiere della soggettività (individuale, disciplinare, sociale), non ne elabora una teoria. A partire da questa problematica (la stessa per cui la psichiatria ha trasformato il folle in malato di mente) e al filtro dell’insegnamento lacaniano e del suo personale “ritorno a Freud”, egli interroga l’istituzione che ha reso “mistico” colui che la sabota e la storiografia che ha convertito l’altro in oggetto di studio facendone, come mostra il quadro che immortala Amerigo Vespucci nella pagina introduttiva di La scrittura della storia, “il corpo istoriato dei suoi blasoni e dei fantasmi”. Ma la storiografia non ha semplicemente convertito l’altro in corpo da scrivere con i propri fantasmi e si è trasformata, nel corso della modernità, in una vera e propria grande opera di costruzione di “strutture dell’istituzione psichiatrica” (come si esprime nell’ultima parte di La scrittura della storia), strutture di cui Certeau ha osservato vertiginosamente da vicino le frontiere, di cui ha svelato i trucchi e i passaggi ritrovandosi alla fine del suo percorso non con un sapere, ma con un “sapere a perdere”. In que4
sta caccia di frodo viene infatti il momento in cui deporre le armi, in cui tutta la scienza si rivela impotente di fronte all’enigma del soggetto e del suo fantasma, di fronte al quale lo storico si ritrova come di fronte alla Sfinge che domanda (come egli stesso scrive in Fabula mistica): “Cosa dici tu, di ciò che sei, credendo di dire quello che io sono?”. Qui vengono presentati alcuni contributi che cercano di indagare, ciascuno a suo modo, come la domanda su cosa sia il soggetto rappresenti un asse centrale attorno a cui si è costruita l’opera di Certeau. Ciò che li accomuna è l’idea che la sua produzione storiografica non possa essere scissa da una più profonda riflessione filosofica che egli ha condotto sulla relazione tra verità, soggettività, modernità e scrittura della storia. In questo senso Certeau può essere a pieno titolo inserito nel contesto filosofico della fine del XX secolo, con cui ha costantemente dialogato ma che ha allo stesso tempo contribuito a definire. Il suo costante dialogo con la filosofia francese (basti solo pensare a Derrida, Foucault o Lévinas) e la sua vasta riflessione sulla modernità costituiscono un ambito investigato solo parzialmente e con questi contributi speriamo di iniziare a spostare l’asse di indagine finora predominante. In Italia le sue opere sono state quasi tutte tradotte e l’interesse per la sua produzione si è fatto via via più articolato, tuttavia Certeau è stato accolto principalmente nelle università confessionali, dove ha trovato cittadinanza come il “gesuita scomodo”, o nel vasto ambito di studi che, prendendo in prestito i termini anglosassoni, potremmo definire come i cultural studies per i quali il testo di riferimento è L’invenzione del quotidiano. Vorremmo allora mostrare anche un versante meno praticato, seppure non sconosciuto, quello della portata teoretica della sua riflessione, i cui nodi vengono qui ripresi proprio a partire dalla produzione spiccatamente storiografica: Fabula mistica, La scrittura della storia e La possessione di Loudun sono infatti i testi ai quali si fa maggiore riferimento. Gaetano Lettieri e Silvana Borutti interpretano La scrittura della storia come il luogo in cui Certeau ha meditato il valore on5
Michel de Certeau o l’erotizzazione della storia ÉLISABETH ROUDINESCO
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torico aperto a ogni tipo di trasversalità disciplinare, gesuita lucido e generoso, Michel de Certeau è stato un innovatore nel campo di studi della mistica e, in virtù dell’interesse rivolto alla necessaria ripresa del messaggio freudiano, uno dei fondatori, insieme a Jacques Lacan, dell’École freudienne de Paris nel 1964.1 Grazie al suo insegnamento incisivo e alla sua capacità di ascoltare la parola altrui, ha lasciato una profonda impronta su molti giovani intellettuali degli anni settanta, me compresa, che sono stata una sua allieva e gli sono debitrice per avermi indirizzato verso il mestiere di storica. Ho seguito i suoi corsi all’Università di Parigi VIII (situata allora all’interno del parco di Vincennes) dove era stato accolto nel Dipartimento di psicoanalisi fondato da Serge Leclaire e dove il suo insegnamento era seguito solo da quattro o cinque studenti. Nel contesto di accesi dibattiti riguardanti la “testualità”, il ritorno a Freud o la questione del “processo senza soggetto”, qualsiasi approccio storico era tacciato di “storicismo”. Molti dei Élisabeth Roudinesco, storica e psicoanalista, direttrice di ricerca a Parigi VII e docente all’École normale supérieure di Parigi è una figura centrale nel panorama degli studi di storia della psicoanalisi. Tra le sue pubblicazioni: Histoire de la psychanalyse en France, 2 voll., Fayard, Paris 1994 2; Dictionnaire de la psychanalyse (con M. Plon), Fayard, Paris 20062; Lacan, envers et contre tout, Seuil, Paris 2011; e recentemente la sua biografia di Freud: Freud, nel suo tempo e nel nostro (2014), Einaudi, Torino 2015. 1. Per quest’articolo ho ripreso alcuni elementi di una conferenza tenuta a Città del Messico nell’ottobre del 2003 all’Università Iberoamericana.
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miei colleghi filosofi diffidavano della storia invocando la necessità di studiare, al suo posto, il primato dell’elemento teorico o delle strutture. L’antistoricismo di Jacques Lacan e di Louis Althusser faceva scuola e ogni tentativo di storia della psichiatria veniva congedato, senza nemmeno conoscerlo, col pretesto che Michel Foucault aveva posto fine a questo genere di studi con la sua concezione della storia della follia come storia di un silenzio e di una separazione tra la ragione e la sragione. Pur condividendo l’approccio foucaultiano così come le innovazioni dello strutturalismo, Certeau restava comunque uno storico rigoroso e dedicò il suo corso allo studio di un testo magistrale di Freud considerato minore dalla vulgata dell’epoca: Una nevrosi demoniaca nel XVII secolo.2 Consapevole dell’interesse che suscitava in me una tale riflessione, Michel de Certeau mi incoraggiò, senza volermi trasformare in un’adepta, a occuparmi di storia della psicoanalisi e fu proprio questo fatto che mi permise di staccarmi dal teoricismo lacaniano e dal dogmatismo in cui si rinchiudevano le avanguardie. Così, dopo avermi chiesto di commentare durante il suo corso l’articolo di Althusser su Freud e Lacan (1964), mi spinse a riflettere sul modo in cui i marxisti avevano trattato la psicoanalisi e, viceversa, sul modo in cui i freudiani avevano guardato al marxismo. Il risultato di quest’indagine fu per me una lunga pubblicazione su Wilhelm Reich e Georges Politzer e le differenti forme del freudo-marxismo (russo e tedesco), prima tappa di uno studio che mi avrebbe poi condotto verso un più ampio orizzonte storico. Certeau non solo mi ha iniziato alla storia del freudismo, ma è stato anche il primo a chiedermi di pubblicare un libro in una collana di scienze umane appena creata presso l’editore Mame e nella quale egli stesso stava per pubblicare L’absent de l’histoire (1973).3 2. S. Freud, Una nevrosi demoniaca (1922), trad. di C. Conterno, Il notes magico, Padova 2010. [Tutte le note sono della traduttrice.] 3. M. de Certeau, L’absent de l’histoire, Mame, Paris 1973.
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In una conversazione direi sorprendente che Certeau ebbe con Jean-Marie Benoist per un’emissione radiofonica, si scopre uno degli aspetti più sottili del suo percorso. Si tratta di una serie di interviste realizzate nel 1975, subito dopo la pubblicazione di L’écriture de l’histoire (1975),4 in cui Michel de Certeau parlava essenzialmente della sua relazione con la storiografia, indicando anche ciò che lo accomunava e allo stesso tempo lo differenziava da altri autori, come Michel Foucault o Jacques Derrida, che pure si interessavano a oggetti di studio identici ai suoi. Definendo il discorso della storia come una presa di potere del presente sul passato, egli mostrava come a partire dal XVII secolo la storiografia occidentale avesse messo a debita distanza il vissuto soggettivo e sociale per farne l’oggetto di un sapere indissociabile dal destino della scrittura. Scrivere la storia sarebbe stato, per una società statuale, sostituire una razionalità coerente a un’esperienza eterogenea, affettiva o ineffabile con lo scopo di enunciare meglio che cosa devono essere e significare la norma e il progresso. Ma eliminando ciò che fonda la possibilità del suo sguardo, la storia non fa che assomigliare a un grande sforzo di esclusione nel senso che, come un racconto etnografico, esorcizza le tradizioni orali che studia. La storia dunque onora gli attori, gli eroi, i testimoni o i popoli come si onorano i morti: richiudendoli nelle tombe. Tuttavia, allo stesso tempo e proprio attraverso queste operazioni di scrittura e presa del potere, la storia si confronta per forza di cose con un grande ritorno del rimosso. Utilizzando i concetti freudiani, Certeau sottolinea che il rimosso ritorna nelle configurazioni inattese o impensate dagli storici: la parola dei posseduti nel XVII secolo o ancora il discorso mistico che rompe con gli enunciati dell’ordine stabilito. Per non sprofondare né nello zelo dell’archivio – come fanno gli eruditi – né nel rifiuto di qualunque tipo di relazione ontologica con la traccia – come vorrebbero gli adepti di una storia 4. Id., La scrittura della storia, trad. di A. Jeronimidis, a cura di S. Facioni, Jaca Book, Milano 2006.
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Il Don Coucoubazar DIANA NAPOLI
1. Il soggetto moderno: la perdita di sé In un passaggio delle “Scritture freudiane”, nella quarta e ultima parte di La scrittura della storia, Michel de Certeau si riferisce all’ultimo libro di Freud, L’uomo Mosè e la religione monoteistica come a un “discorso di frammenti” paragonabile al Don Coucoubazar di Dubuffet.1 Ma non è solo il testo a essere incarnato dalla maschera dell’artista francese. Anche il soggetto della scrittura può essere descritto facendo riferimento a quest’opera d’arte: mai completamente compiuto, si ridetermina a ogni movimento inscenando di volta in volta la sua identità. Chi scrive? Del resto nella lettura certiana il caso di Freud è paradigmatico: scrivendo di un’identità essenzialmente divisa (Mosè che però è l’egizio) e strutturata come commedia, il padre della psicoanalisi dà luogo a un testo “diviso” la cui scrittura può solo tracciarsi “un cammino in una lingua indissociabile da una disgrazia primitiva e da inganni permanenti”.2 Attraverso di essa, Freud costruisce una finzione teorica che è innanzitutto, a tutti i livelli (da Mosè a Freud stesso) la finzione del Diana Napoli si è addottorata all’École des hautes études en sciences sociales di Parigi con una tesi sulla storiografia contemporanea a partire dall’opera di Certeau. Ha poi svolto attività di ricerca in Francia, all’École pratique des hautes études, e in Messico, all’Università Iberoamericana. Su Certeau ha pubblicato in Italia Michel de Certeau. Lo storico smarrito, Morcelliana, Brescia 2014. 1. M. de Certeau, La scrittura della storia (1975), trad. di A. Jeronimidis, a cura di S. Facioni, Jaca Book, Milano 2006, p. 323. 2. Ivi, p. 330
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soggetto “che si produce in quanto può solo inscriversi, analiticamente, nella forma del qui pro quo”.3 Certeau non ha esplicitamente messo al centro della sua opera quella che Pier Aldo Rovatti in un testo ormai classico ha definito “la posta in gioco”,4 la questione del soggetto, eppure è proprio a partire da questa problematica che la sua produzione, consacrata a un’analisi della scrittura della storia (un lavoro di storico accompagnato da una riflessione teoretica sulla pratica della scrittura), potrebbe essere attraversata, tracciando un cammino che, mai compiuto una volta per tutte, assomiglia alle “lignes d’erre” di Deligny.5 Studiando i testi di alcuni personaggi centrali della storia della Compagnia di Gesù e riflettendo sul significato ontologico della pratica scritturale della storia, analizzando l’enunciazione mistica in relazione alla modernità, la sua indagine si struttura attorno alla questione della relazione tra scrittura e soggettività. È a partire da questo rapporto che Certeau si interroga a più riprese sul legame tra la strutturazione del soggetto e la possibilità di un discorso riconosciuto come vero e, ancor più specificamente, sul ruolo esercitato dall’Istituzione in questo riconoscimento. In La scrittura della storia, la figura di Freud è emblematica, ultimo capitolo di un percorso che problematizza la soggettività a partire dall’età moderna, quando la scoperta dell’altro (immortalata dal quadro di Van der Straet che vede Amerigo Vespucci e l’indiana America) porta il “conquistatore” a scriverne il corpo tracciandovi la propria storia e facendone il corpo istoriato dei propri blasoni e dei propri fantasmi. Ma se ci poniamo agli inizi della modernità – che è un luogo problematico di tutta la produzione certiana –, agli inizi della strutturazione della soggettività come asse centrale del discorso filosofico, capiamo che sono altri i personaggi che Certeau ha scelto come i “Don Coucoubazar” di questo percorso rendendo la sua opera un luogo di indagine e problematizzazione non tanto della soggettività ma, come vedremo, del de3. Ivi, p. 348. Cfr. anche D. Napoli, Michel de Certeau. Lo storico smarrito, cit., cap. I. 4. P.A. Rovatti, La posta in gioco. Heidegger, Husserl, il soggetto, Mimesis, Milano 20102. 5. Così descrive Certeau il suo itinerario in una conversazione con Régine Robin nel 1976 (M. de Certeau, R. Robin, Débat: l’histoire et le réel, “Dialectiques”, 14, 1976, p. 45).
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siderio di essere un soggetto, questione completamente rimossa da una scrittura, quella storica, che si pretende scientifica.6 Come ha sintetizzato efficacemente Michel Foucault, il soggetto moderno si è delineato all’interno della pratica filosofica nel momento cui “l’essere del soggetto non è più rimesso in questione dalla necessità di avere accesso alla verità” inaugurando così “un’altra età nella storia dei rapporti tra la soggettività e la verità”.7 In altri termini, il soggetto moderno è l’invenzione filosofica frutto della divaricazione tra due elementi che invece costituivano, almeno a partire da Socrate, la sfera della soggettività: il “conosci te stesso” e la “cura di sé” inquadrati all’interno della parresia. Tale divaricazione,8 che ha avuto il suo apice teorico con Cartesio, aveva portato alla definizione di un soggetto capace di verità ma, allo stesso tempo, incapace di trovare in essa la salvezza nel senso che la conoscenza, strutturata oramai come obbedienza di un soggetto a una legge, non implicava alcuna trasformazione del sé.9 Questo processo era stato il risultato non tanto della nuova visione dell’universo inaugurata dalla cosiddetta scienza moderna, quanto di cambiamenti verificatisi più anticamente in tutt’altro ambito: quello della teologia dove si era assistito a un progressivo scontro, culminato nel Basso Medioevo, tra la teologia razionale e le forme di quella che Foucault definisce la “spiritualità”, la cura di sé. Foucault rimarca la derivazione di questa “nuova” soggettività moderna da una matrice cristiana, sottolineando come il legame tra la cura di sé e il “conosci te stesso” si fosse logorato, facendo 6. M. de Certeau, La scrittura della storia, cit., p. 3. 7. M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France, 1981-1982 (2001), trad. di M. Bertani, Feltrinelli, Milano 2003, p. 20. 8. Foucault sottolinea comunque come il legame tra l’accesso alla verità e l’esigenza di una trasformazione del soggetto non sia mai stato spezzato una volta per tutte e anzi, nello sviluppo che egli traccia, lo troviamo come filo rosso in tutta la filosofia moderna e oltre, fino a Heidegger (ivi, p. 24 sgg.). Su questa tematica, si veda anche M. Foucault, Sull’origine dell’ermeneutica del sé (1980), trad. a cura di “Materiali foucaultiani”, Cronopio, Napoli 2012. 9. È questa trasformazione, scrive Foucault, a rendere possibile l’istituzionalizzazione della scienza moderna.
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Storia come promessa del corpo perduto GAETANO LETTIERI
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ueste pagine vorrebbero rilevare, tramite la rilettura di poche e brevi citazioni, l’intima relazione certiana tra teoria e pratica della storia come eterologia e interpretazione delle origini cristiane, incentrate sulla memoria della perdita del corpo di Cristo, sulla reviviscenza eucaristica del corpo morto, risorto e asceso/sottrattosi, quindi sul farsi presente di un’assenza irrecuperabile, di cui pure si vive nell’attesa dell’avvento promesso. La scrittura della storia, se capace di autentica eterologia, dipenderebbe da una storicamente determinata fabula mistica. Essa ripeterebbe o manterrebbe, pure con tutta l’autonomia e il rigore della scienza che indaga eventi del passato, una traccia memoriale cristiana, capace di distendere la presenza del soggetto – che assume il ruolo e il luogo dello storico scrittore/narratore – nella a) memoria di un passato che è lacuna, assenza cifrabile, eppure in sé irrecuperabile, e b) ferita che si converte in protensione verso un avvento indisponibile.1 In questa prospettiva, la Gaetano Lettieri è professore ordinario di Storia del cristianesimo e delle chiese e di Storia delle dottrine teologiche presso l’Università La Sapienza di Roma. Dal 2012 è presidente nazionale della Consulta universitaria per la storia del cristianesimo e delle chiese. Ha pubblicato, tra gli altri, saggi sulle origini cristiane, lo gnosticismo, Origene, Agostino e la loro fortuna sino alla contemporaneità, Machiavelli, Pascal e il giansenismo, il pensiero teologico contemporaneo, la storia della mistica cristiana, il rapporto tra cristianesimo e democrazia, la teologia politica. 1. “La figura del passato conserva il suo valore originario, che consiste nel rappresentare ciò che fa difetto. Con un materiale che, per il fatto di essere oggettivo, si trova neces-
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stessa spiazzante conclusione di La scrittura della storia, con due densissimi capitoli dedicati a Freud e al rapporto tra psicoanalisi, storia e interpretazione del religioso, restituirebbe come legge della coscienza l’affermazione, rintracciata a partire dal Mosè freudiano, ma enunciata come segreto dello stesso annuncio cristiano, secondo la quale: “L’identità non è uno, ma due”. La scrittura della storia, pertanto, si costituirebbe a partire da questa verità davvero “apocalittica”, in quanto decostruttiva di qualsiasi identità: cristologicamente, il soggetto vive della sua morte, si identifica nel suo rapporto con un’alterità irriducibile, è aperto progettualmente soltanto a partire dalla memoria di un’assenza. Sicché un accenno, almeno, sarà dedicato a indicare un possibile legame – lacaniano? – tra Freud e Agostino (il quale è una strana lacuna nella documentazione della produzione di Certeau, forse presto colmata attraverso la pubblicazione di alcuni inediti), tra analisi e confessio, decostruzione dell’io padrone di sé e apertura all’evento dell’Altro, che sola costituisce la soggettività come temporalità consapevole, crisi e decisione, perdita e protensione, quindi come storicità. 1. La matrice dell’opera di Certeau: il differire dell’origine cristiana La storia delle origini cristiane dipende da due perdite irreparabili: la perdita di Gesù, il Messia, l’Amato, il porta Parola di Dio, in particolare la perdita del suo corpo come oggetto storico d’amore; la perdita dell’identità religiosa, culturale, nazionale subita dagli ebrei assolutamente erranti, che perdono Israele, inseguendo colui che è ri-apparso sottraendosi:
sariamente lì, ma in forma tale da connotare un passato nella misura in cui rinvia innanzitutto a un’assenza, l’operazione storica introduce anche la faglia di un futuro. Come è noto, un gruppo può esprimere quello che gli si trova di fronte – quello che ancora manca – soltanto tramite una ridistribuzione del suo passato. Così la storia è sempre ambivalente: il suo ritagliare un posto per il passato è anche un modo per far posto a un avvenire” (M. de Certeau, L’écriture de l’histoire, Gallimard, Paris 1975; trad. di A. Jeronimidis, La scrittura della storia, a cura di S. Facioni, Jaca Book, Milano 20062, cap. “L’operazione storiografica”, pp. 62-120, in particolare p. 100).
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In effetti il cristianesimo si è istituito su la perdita di un corpo – perdita del corpo di Gesù, raddoppiata dalla perdita del “corpo” d’Israele, di una “nazione” e della sua genealogia. Una scomparsa effettivamente fondatrice. Essa specifica l’esperienza cristiana rispetto alla certezza che mantiene il popolo ebraico ancorato alla sua realtà biologica e sociale, dunque a un corpo presente, distinto e localizzato, separato in mezzo agli altri dall’elezione, ferito dalla storia e inciso dalle Scritture. La parola cristiana assume forma “cattolica” (universale) e “pentecostale” (spirituale) solo grazie al distacco che la separa dalla sua origine etnica e da un’eredità. […] Nel Vangelo di Giovanni, il corpo di Gesù è strutturato dalla disseminazione, come una scrittura. Da allora i credenti continuano a interrogarsi – “Dove sei?” – e, di secolo in secolo, domandano alla storia che passa: “Dove l’hai messo?”.2 Questo significa identificare la scaturigine “mistica” di qualsiasi discorso cristiano, ove per “mistica” si intende qui non una tecnica spirituale o la definizione oggettiva di una disciplina, bensì la struttura paradossalmente aperta, per questo irriducibilmente soggettiva, confessiva, narrativa del vivere/pensare/parlare di Dio e del sé come eterologico.3 Proprio in quanto fondato sul corpo di Gesù, “luogo” storico irrinunciabile di rivelazione e oggetto assolutamente privilegiato di amore, il discorso mistico non può essere che eterologico, fratto, differente, quindi inconcludente. 2. Id., La fable mystique, 1. XVIe-XVIIe siècle, Gallimard, Paris 1982; trad. di S. Facioni, Fabula mistica. XVI-XVII secolo, Jaca Book, Milano 2008, cap. “La scienza nuova”, pp. 85127, in particolare pp. 87-88. 3. Cfr. P. Royannais, Michel de Certeau: l’anthropologie du croire et la théologie de la faiblesse de croire, “Recherches de science religieuse”, 91, 2003, pp. 499-533: “Plutôt que de partir à la recherche d’un dit qui caractériserait la mystique, Certeau, comme Foucault et le structuralisme, repère une structure de la parole mystique. Plutôt que de comparer la pertinence dogmatique des énoncés, il se met à l’écoute des textes comme l’analyste à celle de l’analysant. La mystique étudiée apparaît comme un discours nouveau, à la première personne, qui tente d’arracher à l’objectivité du discours de la théologie devenue scientifique une possibilité de parler de Dieu autrement qu’à le réduire à un savoir. Là où le discours scientifique objectivise, rend présent en représentant, assigne à résidence, la stratégie des mystiques pour parler de l’autre, sans le réduire à ce que l’on en peut connaître, consiste à inscrire le manque dans le discours; inscrire le manque au cœur du discours c’est, pour les mystiques, la possibilité de recueillir, évanescent, le discours de l’autre” (ivi, p. 500).
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Tracce e resti. Forme dell’alterità in Michel de Certeau SILVANA BORUTTI
1. Dall’epistemologia all’ontologia storica Storiografia ed etnografia sono per Michel de Certeau le forme fondamentali secondo cui l’Occidente organizza il proprio rapporto con l’alterità: ma non perché questi saperi realizzino ermeneutiche degli “altri” attraverso ricostruzione e interpretazione scritturale di resti e di tracce. Con una vera e propria inversione di prospettiva, Certeau studia resti e tracce non come condizioni della scrittura savante, ma come suoi prodotti: il lavoro presente della storia e dell’etnografia come produzione dell’altro, della sua assenza e delle sue tracce. “La ricerca – egli scrive in La scrittura della storia – parte non più da ‘rarità’ (resti del passato) per giungere a una sintesi (comprensione presente), ma da una formalizzazione (un sistema presente)1 per dar luogo a ‘resti’ (che sono indizi di limiti e quindi di un ‘passato’ che è il prodotto del lavoro).”2 Egli fonda in questo modo l’epistemologia dei saperi del passato e dell’alterità su temi ontologici e politici. Nel mio intervento, considererò una declinazione Silvana Borutti insegna Filosofia teoretica all’Università di Pavia. Le sue ricerche riguardano le categorie delle scienze umane, il rapporto tra immaginazione e conoscenza, la traduzione. Tra le sue pubblicazioni: Filosofia delle scienze umane. Le categorie dell’antropologia e della sociologia, Bruno Mondadori, Milano 1999; Filosofia dei sensi. Estetica del pensiero, tra filosofia, arte e letteratura, Raffaello Cortina, Milano 2006; Leggere il Tractatus logicophilosophicus di Wittgenstein, Ibis, Como-Pavia 2010; con U. Heidmann, La Babele in cui viviamo. Traduzioni, riscritture, culture, Bollati Boringhieri, Torino 2012. 1. Con “formalizzazione” Certeau si riferisce al modo di funzionamento della pratica storiografica. 2. M. de Certeau, L’écriture de l’histoire, Gallimard, Paris 1975; trad. di A. Jeronimidis La scrittura della storia, Jaca Book, Milano 2006, p. 91.
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specifica del tema della traccia, considerata da Certeau non come semplice luogotenenza, ma come revenance dell’altro, che ritorna come un rimosso. Mi baserò sull’analisi di immagini considerate da Certeau come produzione di tracce: tracce che finiscono per definire il regime ontologico e il regime di parola dei soggetti implicati. Questo procedimento viene in primo piano soprattutto nell’analisi della storia come scrittura. In La scrittura della storia, Certeau afferma che l’operazione storica si riferisce al “combinarsi di un luogo sociale, di pratiche ‘scientifiche’ e di una scrittura”.3 Se pur sinteticamente, questa definizione presenta in modo efficace la strutturazione triangolare della storiografia, intesa non come sapere codificato di cui dare le regole, ma come un atto, o, meglio, un’operazione che viene realizzando l’unione tra gli ambiti costituiti dal lavoro tecnico (le pratiche documentarie, la raccolta di informazioni e la formazione degli archivi), dal rapporto con un interesse pubblico e con i suoi luoghi sociali e le sue pratiche (ieri il potere del principe, oggi l’istituzione scientifica, non disgiunta da interessi e strategie di potere), e dalla scrittura come separazione che istituisce il tempo presente proprio in quanto definisce il tempo del soggetto passato. Le fonti di questa strutturazione triangolare sono facilmente riconoscibili: sono, per dirlo in sintesi, il tema foucaultiano del sapere come pratica; la storiografia delle “Annales” e la rivoluzione introdotta dalla “nuova storia” nelle tecniche documentarie e nell’analisi delle forme temporali; la psicoanalisi freudiana e lacaniana, e in particolare la questione del rapporto tra l’ordine simbolico e la mancanza.4 Con il tema della scrittura della storia, Certeau offre una concezione insieme ontologica, politica ed epistemologica dell’operazione che è la storia. Se epistemologicamente la storia è un fare e un insieme di operazioni che producono un oggetto attraverso una costruzione testuale, ontologicamente la storia organizza per la nostra autocomprensione le for3. Ivi, p. 63. 4. Per il rapporto di Certeau con la nuova storiografia, cfr. F. Dosse, Michel de Certeau. Le marcheur blessé, La Découverte, Paris 2002, cap. 17.
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me della distanza spazio-temporale dell’altro, ma in questo modo compie anche un gesto a efficacia politica, poiché esclude l’altro per darne una comprensione a partire dalla progettualità, che non è mai neutra, del presente dello storico.5 Nella sua interpretazione della complessità della scrittura storica, Certeau ricorre allo sguardo psicoanalitico per smascherare la strategia del tempo messa in atto dalla storiografia: lo sguardo psicoanalitico insegna a riconoscere il passato nel presente e a portare in luce i rapporti di imbricazione, ripetizione, equivoco, con cui un soggetto si istituisce su un’assenza.6 La storia pone a distanza un altro (qualcosa che è stato vissuto in un corpo e in un tempo, in un altro presente), e ne fa un “passato” costruendone una ragione nel presente. La storia tratta così il tempo, istituendo il passato con un gesto di esclusione (di messa a distanza), che è insieme una forma di auto-comprensione: un’autocomprensione che sfrutta la relazione con l’altro. Non si va dai resti alla loro comprensione, ma dal lavoro presente alla produzione del passato, della sua assenza e delle sue tracce. “Assenza” e “traccia” non come condizione, ma come prodotti della scrittura storica (ed etnografica), dunque: sono questi i concetti centrali dell’inversione di prospettiva operata da Certeau. In questo senso, il lavoro presente della storia è visto da Certeau come produzione del passato e della sua assenza. Il tema dell’assenza, o, meglio, dell’“assente della storia” – dove il genitivo rimanda al ruolo performativo della scrittura storica,7 che rende assente il suo oggetto – è la nozione centrale elaborata da Certeau, tema che analizzerò in primo luogo. Analizzerò poi il concetto di “traccia”, intesa non come resto, ma come ritorno dell’altro, un ritorno che ne altera l’identità. Considererò una declinazione specifica di questo tema, legata all’analisi di immagini. 5. Per un’analisi più articolata dell’epistemologia della storiografia di Certeau, mi permetto di rinviare a S. Borutti e U. Fabietti, “Introduzione. Scrivere l’assente”, in M. de Certeau, La scrittura dell’altro, Raffaello Cortina, Milano 2005. 6. Cfr. M. de Certeau, Histoire et psychanalyse entre science et fiction, Gallimard, Paris 1987; trad. di G. Brivio, Storia e psicoanalisi. Tra scienza e finzione, Bollati Boringhieri, Torino 2006, cap. 2. 7. Id., La scrittura della storia, cit., p. 120.
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Il soggetto in Michel de Certeau: un’identità impossibile ROSSANA LISTA
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a questione del soggetto è un asse portante e insieme trasversale, intorno al quale ruota la vasta opera storiografica ed epistemologica di Michel de Certeau. I passi in cui essa è esplicitamente teorizzata, a partire dal problema della soggettività dello storico posto dal Marrou di De la connaissance historique (1954), sono numerosi. Eppure è inutile cercarvi una “definizione” del soggetto, nel tradizionale senso tecnico del termine. La ragione di ciò è immanente al modo o meglio ai modi in cui Certeau pone la questione stessa. Nel concetto di “definizione” prevale una dimensione sostanzialista e spaziale che tradisce l’origine “militare” di un approccio epistemologico, in cui il soggetto e l’oggetto sono strategicamente schierati l’uno contro l’altro. Certeau segue tutt’altra strada. La coupure épistémologique consiste precisamente nel fatto che egli sottrae la soggettività alla delimitazione entro i ristretti confini del proprio e alla coincidenza con il luogo da essi circoscritto. Non si tratta solo di un’analogia con la concezione eraclitea dell’anima, i cui confini vai e non li trovi, tanto profondo è il suo logos (discorso?). Certeau va molto oltre: per lui il soggetto esiste e si manifesta proprio nell’atto di travalicare i confini – in altre parole, esso è transito e quindi uscita dai Rossana Lista è laureata in filosofia della storia e dottore di ricerca in letterature comparate. Ha tradotto di Certeau La possessione di Loudun (Clueb, Bologna 2012) e ha curato, insieme a Barnaba Maj, il numero monografico di “Discipline filosofiche”, Sulla “traccia” di Michel de Certeau. Interpretazioni e percorsi, 1, 2008.
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confini. Poiché il soggetto nasce da un esilio, la sua identità con un luogo è impossibile. La sua esistenza assume perciò la forma costante e sfuggente di una extase ovvero alla lettera di una “action d’être hors de soi”. Questa idea investe la soggettività nell’interezza delle sue manifestazioni esterne e quindi è di volta in volta diversamente declinata. Essa concerne il “soggetto”, infatti, in quanto soggetto del sapere, dell’agire, del credere e del volere. Nelle sue ricerche, Certeau ha esplorato a fondo tutte queste declinazioni. In apparenza distanti fra loro, esse sono invece riconducibili a un comune quesito di fondo, che è quindi il filo conduttore di opere su temi anche molto differenti. Dalla Prise de la parole alla Possession de Loudun, dalla Fable mystique all’Écriture de l’histoire, dall’Histoire et psychanalyse all’Invention du quotidien, la domanda sul soggetto resta sempre centrale. Esso è colto nell’imprescindibile trama delle sue relazioni ovvero nel suo rapporto costitutivo con l’Altro – con la sua assenza e il suo desiderio –, con il linguaggio, con le “finzioni dell’anima”, il nulla, la morte. 1. Soggetto e oggetto: la differenza delle parti nella rimozione e inversione del tempo La questione del soggetto è aurorale, si affaccia alla riflessione di Certeau fin dai primi studi e dalle prime ricerche storiche su figure importanti nella storia dell’Ordine dei gesuiti in Francia. L’incontro con Pierre Favre e Jean-Joseph Surin pone di fatto Certeau dinanzi alla sfida più grande che uno storico possa affrontare: accedere al segreto di un’anima nella sua relazione con Dio. A prescindere dal significato che si vuole dare ai singoli termini, qui l’oggetto dello storico è la più radicale mise en abîme del suo stesso sforzo: egli cerca di avvicinarsi all’altro, mentre questi è teso a raggiungere ancora un altro – in questo caso: un assolutamente altro. Così, l’indagine storica sulle forme dell’esperienza religiosa passata si intreccia fin da subito con l’interrogazione sulla natura, il senso e le condizioni di possibilità di una sfida posta nello scarto di differenti temporalità storiche. La singolarità dell’oggetto da conoscere 65
rimbalza sulla particolarità e peculiarità del soggetto conoscente. A partire dalla Correspondence (1966) di Surin (1600-1665), il problema del soggetto si delinea tuttavia come questione dalla precisa matrice storica e dall’imprescindibile connessione con una fenomenologia del linguaggio. Lo sgretolamento dell’insegnamento tradizionale, che va compiendosi nella prima metà del XVII secolo, orienta il “dialogo spirituale” non più o non solo verso gli antichi autori, ma piuttosto verso i contemporanei viventi. La “comunicazione spirituale” non si basa più su una “rilettura”, come lo era la lectio divina o l’esegesi spirituale praticata nei secoli precedenti, ma prende la forma di una scoperta reciproca che avviene nel corso di colloqui e corrispondenze epistolari. Costitutive dell’esperienza religiosa di Surin sono dunque le relazioni personali che prendono corpo in un nuovo linguaggio. La parola viva e le lettere non sono soltanto “l’esteriorizzazione di una presenza interiore, o il mezzo d’indicare e discernere le vie dello Spirito negli altri; […] costituiscono l’esperienza stessa, quella d’una Presenza interiormente riconosciuta grazie agli altri”.1 La parola, la presenza e l’Altro sono dunque i termini di una relazione nella cui articolazione si costituisce il soggetto stesso. Tuttavia, la lunga interrogazione dei mistici dei secoli XVI e XVII, simile al domandare dell’uomo di campagna fermo sulla soglia di Davanti alla legge di Kafka, porta Certeau a non parlare più di “presenza”, poiché essa non è più: i mistici vivono l’intima esperienza di una separazione da un essenziale, da un Uno, la cui mancanza mette in cammino e dà inizio a un’erranza, a un Wandern: “Il necessario, divenuto improbabile, è di fatto l’impossibile. È questa la figura del desiderio”.2 Si tratta di una fenomenologia dello spirito ma colta nelle sue determinazioni storiche, una fenomenologia trascendentale alla quale Certeau riconduce tanto il nuovo soggetto mistico, quanto 1. M. de Certeau (a cura di), Correspondance de Jean-Joseph Surin, Desclée de Brouwer, Paris 1966, p. 52. 2. Id., La fable mystique. XVIe-XVIIe, Gallimard, Paris 1982; trad. a cura di S. Facioni, Fabula mistica. XVI-XVII secolo, Jaca Book, Milano 2008, p. 1.
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Michel de Certeau e l’archivio. L’enigma irrisolto della storia FRANÇOIS DOSSE
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l passato “mi sfuggiva o piuttosto cominciavo a capire che mi sfuggiva. È in questo momento, sempre differito nel tempo, che nasce lo storico. È questa assenza che costituisce il discorso storico”.1 Con queste parole, Certeau definisce la scoperta dell’altro, dell’alterità come costitutiva non solo del genere storico, ma dell’identità dello storico, del suo mestiere. Egli insiste sulla distanza temporale che permette l’implicazione della soggettività dello storico, spingendolo a non accontentarsi di restituire il passato “così com’è stato”, ma a ricostituirlo, a riconfigurarlo in una dialogica che si articola a partire dall’insuperabile scarto con il presente. Lo storico, nel suo lavoro, si trova in una posizione incerta, preso in un incessante movimento tra ciò che gli sfugge, che resta assente e la volontà di mostrarlo nel presente a cui egli stesso appartiene. Ma è proprio questa tensione a generare la sensazione di una mancanza e a mettere in movimento la conoscenza storica, come mostra il percorso dello stesso Certeau che diventa uno storico di mestiere solo nella misura in cui i cristiani del François Dosse, storico, insegna all’Università di Parigi XII e all’Institut d’études politiques de Paris, oltre a svolgere attività di ricerca presso l’Institut d’Histoire du temps présent e presso il Centre d’histoire culturelle des sociétés contemporaines dell’Università SaintQuentin-en-Yvelines. Su Michel de Certeau ha curato diversi numeri monografici di riviste e ha pubblicato la sua biografia: Michel de Certeau. Le marcheur blessé, La Découverte, Paris 2002, di cui questo articolo è un estratto. 1. M. de Certeau, Histoire et structure, “Recherches et Débats”, 68, 1970, p. 168.
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secolo gli divengono estranei, resistendo alla sua comprensione. La storia “suppone uno scarto che altro non è se non l’atto stesso di costituirsi come esistente e pensante nel presente. La mia ricerca – scrive – mi ha insegnato che studiando Surin mi distinguevo da lui”.2 Lungi dall’essere un semplice gioco di specchi tra un autore e un insieme di documenti, la storia si fonda su una serie di operatori propri dello spazio tra passato e presente, uno spazio entre-deux mai veramente stabilizzato. Nella ricerca, troviamo da un lato colui che fabbrica la storia in un rapporto di urgenza verso il suo tempo, rispondendo alle sue sollecitazioni. Ma d’altro canto il soggetto storico si può riconoscere come tale solo a causa dell’alterazione frutto dell’incontro con diverse forme di alterità, alla maniera di Surin che scopre, meravigliato, la parola del povero di spirito: “Si scopre sulla scena dell’altro. Parla in questa parola venuta d’altrove e della quale non si tratta più di sapere se appartenga all’uno o all’altro”.3 Per Certeau, lo storico si trova all’interno di questo universo mobile del pensiero, in una posizione di costante interrogazione, conscio che “la storia non è mai sicura”.4 L’“altro” resiste nonostante il dispiegarsi di molteplici modalità di interpretazione, facendo sì che del passato resti sempre vivo un elemento enigmatico contro l’illusione di poterlo rinchiudere nei dossier d’archivio una volta per tutte. Definendo l’operazione storiografica, Michel de Certeau l’articola attorno a tre dimensioni inseparabili e che insieme assicurano la pertinenza di un genere specifico. In primo luogo, essa è il prodotto del luogo sociale da cui proviene, proprio come i beni di consumo che sono prodotti nelle fabbriche. Certeau insiste sulla parola “fabbricazione” e soprattutto sulla dimensione strumentale che essa connota. L’opera dello storico è concepita come il prodotto di un luogo istituzionale che la sovradetermina come relazione a un corpo sociale. Questo elemento tuttavia resta imXVII
2. Id., L’absent de l’histoire, Mame, Paris 1973, p. 158. 3. Id., Fabula mistica. XVI-XVII secolo (1982), trad. di S. Facioni, Jaca Book, Milano 2008, p. 271. 4. Id., La possessione di Loudun (1970), trad. di R. Lista, Clueb, Bologna 2011, p. 27.
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plicito e costituisce il non-detto del dire storico: “Viene definita astratta, in storia, ogni ‘dottrina’ che rimuove il suo rapporto con la società […]. Il discorso ‘scientifico’ che non parla della sua relazione con il corpo sociale non può articolare una pratica. Cessa di essere scientifico. Si tratta di un problema centrale per lo storico. Questa relazione con il corpo sociale è proprio l’oggetto della storia”.5 In secondo luogo la storia è una pratica, mediata dalla tecnica e i confini del suo ambito si spostano continuamente tra il dato e il creato, tra il documento e la sua costruzione, tra il supposto reale e le infinite maniere di dirlo. E infatti lo storico è colui che padroneggia una serie di tecniche, dall’operazione attraverso cui stabilisce le fonti, alla loro classificazione, fino alla loro redistribuzione in funzione di un altro spazio utilizzando un certo numero di operatori. A quest’ultimo livello, si dispiega tutta una dialettica singolarizzante del soggetto storico costretto tra la quantità di documenti e la necessità di dover operare delle scelte dato che in storia tutto inizia “con il gesto di mettere da parte, di raccogliere e quindi di trasformare in ‘documenti’ alcuni oggetti suddivisi in altro modo”.6 In terzo luogo, e questo spiega il titolo del suo lavoro di epistemologia storica del 1975, la storia è scrittura. L’attenzione che Certeau porta alle modalità di scrittura della storia non significa affatto che egli la riduca, come disciplina, alla sua sola dimensione discorsiva dato che essa resta controllata dalle pratiche di cui è il risultato ed è essa stessa una pratica sociale. La scrittura storica tuttavia, come luogo in cui si realizza e si concretizza la storia, è anche il luogo di un’ambivalenza, a causa della sua natura doppia, di scrittura allo specchio che rinvia al presente, di finzione che fabbrica da un lato il segreto e la menzogna, dall’altro la verità, ma anche di scrittura performativa in virtù del suo ruolo più importante che è quello di costruire un “tombeau” per i 5. Id., La scrittura della storia (1975), trad. di A. Jeronimidis, Jaca Book, Milano 2007, p. 70. 6. Ivi, p. 83.
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L’altro del sapere ALFONSO MENDIOLA
1. Un “passo di lato” Nelle ultime pagine di La scrittura della storia troviamo un paragrafo che ci aiuta a riflettere sul modo di procedere di Michel de Certeau: Freud vuol dire che ogni scienziato prende in giro la propria scienza così come Haitzmann prende in giro la legge della sua Congregazione? Ci sarebbe un’ebbrezza del “tatto”, una follia dell’atto […]. A una follia che viene prima della scienza si oppone, in Freud, una “follia” che parla la scienza; alla scienza che “permette”, si unisce lo scienziato che “si permette”.1 Come lo studioso che si prende gioco della propria scienza, anche lo storico attraverso “la follia dell’atto” arriva a prendersi gioco della storia (sono tuttavia in pochi a compiere questo esercizio, dato che in generale si continua a parlare della conoscenza storica con grande serietà). Certeau prende come esempio di questo genere di follia il personaggio di Haitzmann vissuto nel XVII secolo (a cui Freud aveva dedicato un saggio2), che stipulava patti con il diavolo ogni Alfonso Mendiola è docente di storiografia contemporanea e teoria della storia all’Università Iberoamericana e all’Istituto nazionale di antropologia storica di Città del Messico. Direttore della rivista “Historia y Grafía”, ha pubblicato su Certeau: Michel de Certeau. Epistemologia, erótica y duelo, Navarra, México City 2013. 1. M. de Certeau, La scrittura della storia (1975), trad. di A. Jeronimidis, a cura di S. Facioni, Jaca Book, Milano 2006, pp. 317-318. 2. S. Freud, Una nevrosi demoniaca (1922), trad. di C. Conterno, Il notes magico, Padova 2010.
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volta che sentiva il bisogno della sicurezza di un padre. Al sopravvenire degli attacchi di panico, invece di prendere una medicina, offriva la sua vita al diavolo e risolveva il suo problema. La sapienza di Haitzmann era tale da permettergli di conoscere il momento in cui rompere il patto: il momento in cui il diavolo era sul punto di condurlo all’inferno. Alla fine della propria vita, egli sostituì il diavolo con una congregazione religiosa, anche se non sempre la sua saggezza lo seguiva dato che, come scrisse il superiore del suo monastero, ogni tanto rompeva il patto con la congregazione con un bicchiere di troppo. Haitzmann aveva bisogno del padre come di una figura attraverso cui strutturare la propria personalità, ma necessitava anche di separarsene, facendo, ogni tanto, “un passo di lato”. Certeau, per certi versi, aveva questo stesso modo di procedere: sapere sempre quando fare “un passo di lato”. Si ha bisogno di una figura paterna, quel che Freud ha definito la legge dell’allontanamento erotico dalla madre che consente all’individuo di socializzarsi; tuttavia è anche necessario sapere, di quando in quando, ridere della legge, prendendosi gioco, per usare un linguaggio certiano, della scienza che si pratica. La storia impone, in quanto disciplina, una legge, cioè una serie di procedimenti che è necessario seguire per fabbricare (come si esprime Certeau) il passato, ma dev’essere accompagnata dal “tatto” – dal “fiuto” – di sapere che ciò che fabbrichiamo come passato è in fin dei conti un artificio. Non c’è alcun dubbio che esso rispetti tutte le regole assai stringenti che impone l’istituzione storica, ma è importante non dimenticare che fabbrichiamo un passato “di carta”, conservato in testi scritti che non ritorneranno mai come vita o come esistenza. Fare un “passo di lato” è l’idea che guida l’insieme dell’opera e della vita di Michel de Certeau, che ebbe sempre il “tatto” di ridere dei suoi libri e delle istituzioni a cui apparteneva (forse il suo trucco era, di tanto in tanto, bere un bicchiere di troppo come Haitzmann). Tutti i suoi studi cominciano interrogandosi su ciò che deve essere o essere stato rimosso per istituire un’identità cosciente e prossima alla stabilità. 96
Prendersi gioco della scienza è una necessità frutto di una domanda chiave del percorso certiano, ovvero quale sia il contenuto che la modernità ha dovuto rimuovere per esistere, con quale diavolo essa ha dovuto combattere per non essere portata all’inferno. L’identità della scienza si costituisce rimuovendo la finzione, ma Certeau sa bene, con la lucidità del suo “tatto”, che il rimosso ritorna sempre, anche se come fantasma. La sua opera è infatti dedicata a cacciare i fantasmi, alla ricerca di cosa abbiamo dovuto occultare per costruire un territorio di cui appropriarci – in questo caso un territorio scientifico. Quest’operazione è ciò che produce l’identità, ma l’identità di una differenza che si percepisce solida e ordinata solo nei termini di un’illusione. L’illusione che la finzione sia ciò che manca di “verità” e di “legge”, mentre la scienza sia il “vero” che si oppone al falso. Contrariamente a questo inganno, per Certeau lo storico che cerca la verità del passato lo fa solo utilizzando la struttura narrativa della letteratura, nel senso che la storia trae la sua capacità esplicativa proprio da ciò da cui si vuole differenziare: la letteratura. Come la follia è ciò che rende possibile la ragione, la finzione è l’armamentario argomentativo del reale. Quest’analisi ci invita a un’esperienza limite – ubriacatura, follia – per arrivare al sapere in cui tutto dipende da una questione di tatto, tatto che non ha nulla a che vedere con l’apprendimento della scienza perché consiste nel comprendere proprio ciò che essa rimuove, da cui desidera differenziarsi per poter esistere. Ma che tipo di conoscenza può essere il “tatto”? Per Certeau la risposta è chiara: la conoscenza del corpo. Per l’autore di L’invenzione del quotidiano la conoscenza non appartiene alla scienza, ma al corpo: la gestualità, il toccare, il muoversi, il sentire, l’odorare. Certeau muove una critica alla scienza a partire dalla corporeità come sapere. Il saper fare resta iscritto nella memoria corporea come le “arti manovriere” che […] estranee ai “linguaggi” scientifici, costituiscono tuttavia al di fuori di essi un assoluto (ab-solutus) del fare (un’efficacia che, slegata dal discorso, testimonia nondimeno del suo ideale 97
Affetti dal capitalismo BRUNO LATOUR
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e il mondo fosse una banca, loro l’avrebbero già salvato.” È lo slogan dipinto dai militanti di Greenpeace in una delle loro recenti campagne. Il fatto che troviamo la battuta non solo ironica, ma anche tragicamente realistica, la dice lunga sul livello di decadenza in cui ci troviamo. Lo slogan ha lo stesso desolante realismo della famosa battuta di Frederick Jameson: “Al giorno d’oggi pare più facile immaginare la fine del mondo che immaginare la fine del capitalismo”. Se chiamiamo il mondo, il mondo in cui viviamo, “prima natura” e il capitalismo “seconda natura” – nel senso di ciò a cui siamo totalmente abituati e che si è del tutto naturalizzato –, allora ciò che questi aforismi ci dicono è che la seconda natura è più solida, meno transitoria e meno deperibile della prima. Non c’è da stupirsi: il mondo trascendente dell’aldilà è sempre stato più duraturo del povero mondo di quaggiù. La novità sta nel fatto che il mondo dell’aldilà non è più una dimensione di salvezza e di eternità, ma è il mondo dell’economia. Per dirla con Karl Marx, le banche si sono pienamente appropriate del mondo della trascendenza! Con un colpo di scena inaspettato, il mondo dell’economia, lungi dal rappresentare un materialismo solido e con i piedi per terra, un robusto appetito di beni terreni o di dati di fatto tangibili, ora costituisce invece il mondo ultimo e assoluto. Non avevamo capito nienLezione tenuta all’Accademia Reale di Copenhagen il 26 febbraio 2014. Titolo originale: On Some of the Affects of Capitalism.
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te. Evidentemente erano le leggi del capitalismo che Gesù aveva in mente quando avvertiva i suoi discepoli che “il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno” (Matteo 24,35). Questo rovesciamento di ciò che è transitorio e di ciò che è eterno non è più uno scherzo, specialmente da quando quella che potremmo chiamare “la strategia australiana di sonnambulismo volontario verso la catastrofe” dopo le ultime elezioni viene applicata a pieno regime.1 Non pago di aver smantellato le istituzioni, le organizzazioni e gli strumenti scientifici grazie ai quali la sua legislatura avrebbe avuto l’occasione di prepararsi ad affrontare la nuova minaccia globale dei cambiamenti climatici,2 il primo ministro Tony Abbott sta smantellando uno dopo l’altro anche la maggior parte dei dipartimenti di scienze sociali e di studi umanistici.3 Una strategia di questo tipo ha perfettamente senso: non pensare al futuro è probabilmente la cosa più razionale da fare, se sei australiano e hai dato un’occhiata a quello che sta per accadere. “Non pensare” pare lo slogan del momento, se si considera che solo negli Stati Uniti vengono spesi qualcosa come un miliardo di dollari4 per generare ignoranza riguardo alle origini antropiche dei cambiamenti climatici. In altri tempi gli scienziati e gli intellettuali si lamentavano del poco denaro speso per l’istruzione, ma non si erano mai visti tanti fiumi di denaro spesi per disimparare ciò che si sapeva già. Mentre in passato il pensiero critico era associato al guardare avanti e all’emanciparsi da un vecchio passato oscurantista, oggi si spendono soldi per diventare più oscurantisti di ieri! L’“agnotologia”, la scienza del generare ignoranza di cui parla Robert Proctor, è diventata la disciplina più importante del momento.5 È grazie a questa grande scienza che tante persone in cuor lo1. Il riferimento è alle elezioni federali australiane del 7 settembre 2013, vinte da Tony Abbott, rimasto in carica fino al 15 settembre 2015. [N.d.T.] 2. www.desmogblog.com/2013/10/09/australia-s-new-prime-minister-surrounded-climate-science-denying-voices-and-advisors 3. www.australianhumanitiesreview.org/archive/Issue-November-2012/bode&dale.html 4. www.theguardian.com/environment/2013/dec/20/conservative-groups-1bnagainst-climate-change 5. R. Proctor, L. Schiebinger, Agnotology: The Making and Unmaking of Ignorance, Stanford University Press, Stanford (CA) 2008.
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ro si sentono di poter dire: “Che crepi il mondo, basta che la mia banca sopravviva!”. Continuare a pensare è un compito disperato quando i poteri dell’intelligenza sono concentrati a far cessare ogni attività di pensiero per procedere a occhi ben chiusi. Che cos’è che genera, in questa seconda natura, una tale mancanza di sensibilità per le condizioni mondane della nostra esistenza? Questo è il problema che dobbiamo affrontare. Propongo di considerare il capitalismo non come una cosa nel mondo, ma come un particolare modo di essere affetti nell’atto di sbrogliare l’inquietante matassa di miseria e lusso che ci troviamo davanti, nel momento in cui affrontiamo il suo fumoso intreccio di “beni” e di “mali”. Il capitalismo è un concetto inventato per tenere insieme questa strana miscela di entusiasmo per la cornucopia dell’abbondanza, che ha risollevato miliardi di persone dalla povertà più abbietta, e di indignazione, collera, furia in risposta alla miseria rovesciatasi su miliardi di altre persone. Ciò che trovo particolarmente insopportabile è il sentimento di impotenza che accompagna ogni discussione di carattere economico, e che trovo completamente inconciliabile con ciò che considero gli effetti più importanti della scienza e della politica, dal momento che queste ultime hanno proprio il compito di aprire possibilità e margini di manovra. Come mai, quando siamo chiamati in causa contro il capitalismo, ci sentiamo – e anch’io mi sento – così impotenti? Trovatomi di fronte a questa questione, ho deciso di cominciare con quest’idea, vale a dire che una delle affezioni del capitalismo, cioè del pensare in termini di capitalismo, è quella di generare, per la maggior parte delle persone che non beneficiano della sua ricchezza un sentimento di impotenza, e per le poche che ne beneficiano un immenso entusiasmo e un ottundimento dei sensi. Quindi, quando usiamo il capitalismo come chiave di interpretazione degli eventi, otteniamo, da un lato, necessità imposte dalle quali non si scappa e un sentimento di rivolta contro di esse che spesso finisce in impotenza; e dall’altro, possibilità illimitate accompagnate da una totale indifferenza per le conseguenze a lungo termine. 113
Al di là del sangue e del suolo. I dilemmi dell’appartenenza EDOARDO GREBLO
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e è vero, come ha scritto Michael Walzer, che l’idea stessa di giustizia distributiva implica un mondo delimitato, ovvero l’esistenza di un gruppo di persone che spartiscano, scambino e condividano beni sociali prima di tutto “fra di loro”,1 è evidente che, almeno inizialmente, in ogni comunità politica la sfera dell’appartenenza è qualcosa di dato – alcuni vi rientrano, altri no. E a ogni comunità di appartenenza – aggiunge Walzer – dovrebbe essere riconosciuto il diritto di porre limiti all’ingresso allo scopo di difendere la libertà, il benessere, la politica e la cultura di persone che sono e si sentono legate l’una all’altra e alla loro vita in comune.2 Le comunità politiche devono essere libere di definire le condizioni di primo ingresso “radicate nella concezione che una particolare comunità ha di se stessa”,3 dal momento che l’ammissione e l’esclusione rappresentano il presupposto dell’autodefinizione e dell’autocostituzione del sistema politico – altrimenti non avrebbe neppure senso porsi il problema di come distribuire il bene sociale che condiziona ogni ulteriore scelta distributiva, ovvero l’appartenenza. La distribuzione dell’appartenenza non è “completamente soggetta ai vincoli della giustizia” 4 poiché, per quanto possano apparire arbitrari i confini di una so1. M. Walzer, Sfere di giustizia (1983), Feltrinelli, Milano 1987, p. 41. 2. Ivi, p. 49. 3. Ivi, p. 60. 4. Ivi, p. 70.
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cietà dal punto di vista storico, senza il privilegio sovrano del popolo democratico di definire le regole che determinano l’attraversamento dei confini non sarebbe neppure possibile parlare di una comunità in senso proprio – ossia di un mondo delimitato in cui abbiano luogo delle distribuzioni. In generale, la stragrande maggioranza delle persone acquisisce il bene dell’appartenenza, e quindi i privilegi della cittadinanza, sulla base di un diritto di nascita territorialmente definito. Per questo Joseph Carens ha sostenuto, in modo volutamente provocatorio, che “la cittadinanza, nelle democrazie liberali dell’Occidente, è l’equivalente moderno dei privilegi feudali”.5 Nel bene e nel male, il luogo di nascita è, di norma, il fattore che più incide sulle possibilità e i progetti di vita delle persone.6 Eppure, la filosofia contemporanea è stata singolarmente restia ad affrontare il problema. L’esempio di John Rawls è rivelatore di questa tendenza omissiva. Se da un lato, infatti, Rawls ritiene necessario correggere, perché arbitraria dal punto di vista morale, quella che chiama la “lotteria naturale”, ossia una distribuzione sociale della ricchezza e del reddito determinata dalla distribuzione naturale delle abilità e dei talenti,7 dall’altro non ritiene invece necessario spendere una sola parola per affrontare i problemi posti dalla “lotteria della nascita”.8 E cioè proprio per il principale fattore predittivo riguardo alle opportunità che gli individui trovano (o non trovano) a loro disposizione: i confini entro i quali è loro capitato di venire al mondo. Le opportunità che hanno (o non hanno) a disposizione dipendono da un fattore che non è meno arbitrario, da un punto di vista morale, della distribuzione naturale delle abilità e dei talenti. C’è qualcosa che non torna, in altre parole, nel fatto che qualcuno debba essere condannato a una partenza a handi5. J. Carens, Aliens and Citizens: The Case for Open Borders, “The Review of Politics”, 2, 1987, p. 252; cfr. L. Ferrajoli, Dai diritti del cittadino ai diritti della persona, in D. Zolo (a cura di), La cittadinanza. Appartenenze, diritti, identità, Laterza, Roma-Bari 1994, p. 288. 6. C. Offe, From Migration in Geographic Space to Migration in Biographic Time: Views from Europe, “The Journal of Political Philosophy”, 3, 2011, p. 261. 7. J. Rawls, Una teoria della giustizia (1971), Feltrinelli, Milano 1997, p. 76. 8. A. Shachar, The Birthright Lottery: Citizenship and Global Inequality, Harvard University Press, Cambridge (MA) 2009.
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cap per ragioni che sfuggono completamente alla sua responsabilità. Come ha sostenuto Michael Sandel, “la circostanza accidentale della nascita non può fondare il diritto”.9 1. Le regole dell’appartenenza Anche se la cittadinanza moderna è formalmente universale, è lo Stato a prescrivere le regole dell’appartenenza: se prevale il territorio in cui si nasce o in cui si vive, vige lo jus soli, se prevale l’elemento della nascita, della cittadinanza dei genitori, vige lo jus sanguinis. Lo jus soli, che trae origine dalla tradizione di common law, implica un’interpretazione territoriale della cittadinanza. Esso riconosce il diritto di ogni persona nata entro la giurisdizione di un determinato Stato di acquisire la piena ed eguale appartenenza al popolo di cui esso è l’espressione istituzionale. Lo jus sanguinis, invece, non innalza le particolarità del luogo di nascita a principio guida, ma conferisce l’appartenenza politica a seconda della discendenza: vale a dire, conferisce automaticamente lo status di cittadini a pieno titolo ai figli dei membri della comunità. In generale, nessuna comunità politica si basa esclusivamente su uno soltanto dei due principi, ma a prevalere è piuttosto una qualche combinazione di jus soli e di jus sanguinis. Sebbene i principi differiscano a seconda che l’accento cada sul territorio o sulla discendenza, alla base sia dell’uno che dell’altro vi è l’idea che le circostanze relative alla nascita debbano avere un ruolo decisivo nel determinare l’appartenenza politica. La differenza è riconducibile al fattore di connessione che va considerato quale presupposto normativo dell’integrazione politica. A un primo sguardo, si potrebbe pensare che una regola suscettibile di rendere la cittadinanza per diritto di nascita “contingente riguardo al luogo della nascita […] sia in qualche modo più egualitaria di una regola che vorrebbe rendere la cittadinanza per diritto di nascita contingente riguardo allo status giuridico dei figli dei genitori”.10 Ma questa distinzione può facilmente portare fuori 9. M. Sandel, Giustizia. Il nostro bene comune (2009), Feltrinelli, Milano 2012, p. 261. 10. C. Eisgruber, Birthright Citizenship and the Constitution, “New York University Law Review”, 72, 1997, p. 59.
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Certezza mitica vs incertezza scientifica ANTONELLO SCIACCHITANO
Il teologo deve amare la mitologia. R. Panikkar
Primo tempo Quanto segue è tutto contenuto nell’esergo. Per ragioni sostanzialmente diverse dalle sue, giustifico Pannikar, anche se non pratico né condivido alcuna mitologia, tanto meno teologie. Lo giustifico, però, perché la mitologia va incontro al bisogno primordiale dell’uomo – l’esigenza di certezza –, che il teologo conosce bene e si industria di soddisfare, per esempio, attraverso il trucco ontologico dell’essere che è e del non essere che non è. Ben venga il trucco, perché più della verità, più della felicità, più dell’amore, l’uomo vive di certezze come dell’aria. Magari di false, perfino di ideologiche, per sopravvivere nell’interazione con l’ambiente e il proprio simile, per decidere con sicurezza e agire con risolutezza, l’uomo necessita di certezze; gli occorrono per procedere lungo l’incerto sentiero della vita. A cominciare dalla prima incertezza: chi è mio padre? da dove vengo? dove vado? Pater incertus. La psicoanalisi freudiana ha dato la mitica risposta definitiva, che toglie di mezzo ogni incertezza. “Tuo padre è colui che tu vorresti uccidere, perché ti vuole castrare”. È il mito del complesso edipico, che addirittura Freud eresse a scibbolet della psicoanalisi. (Ogni ebreo conosce bene la natura sanguinaria dello scibbolet, invocato da Freud.) La psicoanalisi vende Al Festival della Scienza di Roma del gennaio 2015, Carlo Rovelli tenne una conferenza dal titolo: Scienza e certezza, dove il fisico sviluppò un discorso sostanzialmente parallelo al mio (cfr. C. Rovelli, Scienza e certezza, “MicroMega”, 5, 2015, p. 3). Purtroppo, quando composi questo testo non ne conoscevo il contenuto.
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(vendeva) questa certezza mitica, che non ha alcuna base biologica, ma si pretende certa in sé e per sé, quindi anche per altri, parlando alla Hegel. La realtà biologica è però un po’ diversa. Non è il figlio che vuole uccidere il padre, ma è il padre a eliminare di fatto il figlio; tra gli scimpanzé il padre uccide il figlio che la compagna ha avuto da un partner precedente, giusto per promuovere il proprio patrimonio genetico. Non è il padre che vuole castrare il figlio, ma è il figlio a castrare il padre, come riconosce con acume il mito di Crono, che castrò il padre Urano, poco prima che si accoppiasse a Gaia, che non voleva più saperne di quell’invasore di pudicizia.1 Ma tant’è, le inversioni nell’inconscio non contano; anzi, si contano a bizzeffe. “L’emittente riceve dal ricevente il proprio messaggio in forma invertita”, insegnava il mio maestro.2 Tra le inversioni l’inconscio pascola a proprio agio e con gran soddisfazione; così l’Edipo continua a funzionare da bancomat psicoanalitico di mitiche certezze, almeno finché la psicoanalisi dura sulla scena della cultura. Religioni, miti, teologie offrono certezze sui generis; sono parvenze di certezza; oggi la certezza o è scientifica o non è, mi si dice. Conosco bene questo discorso, avendo avuto una solida preparazione scientifica. So bene che la certezza assoluta – e se non è assoluta che certezza è? – semplicemente non esiste nella scienza. La certezza è appannaggio della teologia e della fede. La certezza scientifica è a sua volta un mito positivista, sopravvivente nella cosiddetta e vituperata tecnoscienza (o nella sua immagine popolare, lo scientismo), che la fenomenologia husserliana non è riuscita a decostruire. Con il che si torna alla certezza mitica in versione ideologica e con l’ideologia torna la mitologia. Mitologia e ideologia hanno la stessa funzione “psicollettiva”: annunciare a tutti il vangelo della verità senza bisogno di dimostrarla, semplicemente rappresentandola in figure metaforiche. La scien1. Nei manuali di teologia morale del Seicento gli stupratori erano detti “invasori della pudicizia”. 2. J. Lacan, “Le séminaire sur ‘La Lettre volée’” (Il Seminario su “La lettera rubata”), in Écrits, Seuil, Paris 1966, p. 41.
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za cartesiana, che esordisce dal dubbio, per definizione non bazzica il campo delle rappresentazioni, tanto meno delle certezze evangeliche. Ma come! mi si ribatte. 2 + 2 non fa 4? Non è certezza scientifica questa? Certo che 2 + 2 fa 4, anch’io l’ho imparato a scuola, ma quel risultato, 4, non ha in sé alcuna certezza assoluta. La sua verità dipende dagli assiomi dell’aritmetica, per esempio da quelli di Peano, che stanno a monte e potrebbero benissimo essere falsi in universi culturali diversi dal nostro. Sì, ma noi ci accontentiamo del nostro, dove 2 + 2 fa 4 e non si discute; non è un mito. Ci andrei più piano e non perché ami lo scetticismo. Cartesio ha superato la prova dello scetticismo e noi con lui. E andrei più piano, neppure perché sia fanatico del relativismo. È la mia pratica psicoanalitica a consigliarmi prudenza. Per esperienza so che l’esigenza di certezza è un a priori; vien prima delle certezze di fatto; anzi, regolarmente le determina ideologicamente, cioè senza nessuna prova. Quindi... Quindi torniamo al mito, inevitabilmente. Anche Cartesio mitizzò un genio maligno, che gli avrebbe fatto credere che 2 + 2 fa 4, mentre in realtà fa 5. Su questo punto sono agguerrito. D’accordo, Cartesio mitizzava. Larvatus prodeo, fu il suo motto giovanile. Il mito gli serviva per pensare il falso e pubblicare la sua filosofia. La maschera cartesiana era teologica; la teologia ha sempre spadroneggiato nella casa del pensiero, dove la filosofia faceva da ancella. Da Platone in poi la filosofia ha subìto l’interdetto teologico (ideologico): non si deve pensare il falso, perché il falso è ontologicamente impossibile; non esistendo, non va pensato. E poi Dio non può aver creato il falso, che è opera del diavolo. Tu non devi pensare il falso, perché al falso ci penso io, sembra dire l’ideologia dominante. Invece, Cartesio trasgredisce diabolicamente. Pensa il falso addirittura all’interno del verosimile. Tutto il verosimile è potenzialmente falso. E cosa si ottiene? Incredibile, si ottiene una cer155
La ripetizione come processo di rimozione adattiva. Da Samuel Butler a Peter Sloterdijk TIZIANO POSSAMAI
Ripetizione e inconscio in Samuel Butler Prendo le mosse da alcune riflessioni sull’inconscio formulate da Samuel Butler nel suo libro Life and Habit, pubblicato a Londra nel 1877, e poi riprese in un altro suo libro dal titolo Unconscious Memories pubblicato sempre a Londra nel 1880. Questi scritti precedono la cosiddetta scoperta freudiana dell’inconscio senza appartenere, e questo è probabilmente uno dei motivi per cui mantengono inalterata la loro originalità, a quella vasta tradizione di studi sull’inconscio che ha anticipato e da cui è scaturita la grande sintesi freudiana. Butler fu a tutti gli effetti un outsider della ricerca. Tanto è celebre la sua opera in campo letterario quanto poco sono conosciute le sue incursioni in campo scientifico. Eppure tali incursioni contengono in nuce alcune delle questioni che permettono alle attuali scienze cognitive di parlare, proprio in contrapposizione al tradizionale inconscio psicoanalitico, di un nuovo inconscio.1 In Life and Habit Butler mette in luce una dimensione inconscia che potremmo definire parallela e al tempo stesso capovolta rispetto a quella su cui qualche anno dopo Freud costruirà il suo edificio psicoanalitico. Se per Freud l’inconscio ha a che fare, per definizione, con ciò che non conosciamo, con ciò che non riusciamo a esprimere se non in forma alterata, per Butler l’inconscio ha piuttosto a che fare con ciò che conosciamo ed espri1. Cfr. R.R. Hassin, J.S. Uleman, J.A. Bargh, The New Unconscious, Oxford University Press, New York 2005.
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miamo così bene da poterci permettere, in un certo senso, di non doverlo più conoscere. Questo apparente paradosso è dovuto a una sorta di rimozione della ripetizione in ordine opposto e in senso diverso rispetto a quelli indicati da Freud, secondo il quale la ripetizione, innanzitutto della crisi isterica e poi dei fenomeni di traslazione, è, almeno all’inizio della sua ricerca, un frutto involontario e inconsapevole della rimozione e più tardi (dopo la svolta di Al di là del principio di piacere), in quanto forma più generalizzata di coazione a ripetere, una pulsione di morte. Al contrario per Butler la ripetizione non è tanto un effetto inconsapevole e involontario dell’inconscio (il cosiddetto ritorno del rimosso) quanto un processo volontario e consapevole che produce rimozione e inconscio. Con le parole di Gilles Deleuze, che ebbe modo di leggere e di apprezzare gli scritti di Butler, potremmo sintetizzare così questo significativo capovolgimento: “Io non ripeto perché rimuovo. Rimuovo perché ripeto, dimentico perché ripeto. Rimuovo perché, innanzitutto, non posso vivere certe cose o certe esperienze se non nel modo della ripetizione”.2 Queste cose ed esperienze, come le chiama Deleuze, si possono distinguere fondamentalmente in due tipi, o se si preferisce si possono situare a due livelli strettamente connessi fra di loro. Il primo riguarda le nostre abilità motorie e comportamentali, il secondo le nostre capacità percettive e cognitive. Life and Habit si apre con l’ormai classico esempio del suonatore di pianoforte, il quale più si esercita (ripete) più incorpora (rimuove) la sua capacità di suonare. Per cui alla fine maggiore è la sua conoscenza (knowledge), nel senso di abilità nell’eseguire un determinato brano musicale, minore è la sua conoscenza (consciousness), nel senso di controllo consapevole del proprio sapere. Il pianista esperto, a differenza del pianista alle prime armi, quando esegue un brano non deve riflettere continuamente su dove mettere le dita mentre formula le note e gli accordi. E se prova a farlo rischia di perdere la sua sicurezza e di commettere qualche errore. Il pianista alle prime armi, invece, se non riflette continua2. G. Deleuze, Differenza e ripetizione (1968), Raffaello Cortina, Milano 1997, p. 29.
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mente su dove posizionare le sue dita non riesce a eseguire alcun accordo né di conseguenza ad acquisire alcuna abilità musicale. Saper suonare il pianoforte, e questo vale naturalmente per molti altri strumenti musicali (si pensi, per esempio, alla chitarra o al violino), significa saper svolgere tutta una serie di operazioni complesse e coordinate in tempi estremamente rapidi. Eppure chi ha acquisito questo sapere compie quelle operazioni in modo pressoché spontaneo e naturale, e soprattutto riesce a svolgerle anche se il suo pensiero è impegnato altrove, se sta parlando o cantando. Il suonatore esperto quando esegue un brano – conclude Butler – “è come se lo conoscesse troppo bene per essere in grado di sapere di conoscerlo, e sa di conoscere solo quei passaggi che non conosce così a fondo”.3 Riprendendo la nota formula freudiana, secondo la quale “l’io non è padrone in casa propria”, si potrebbe dire che in questo caso l’io mostra di non esserlo proprio nella misura della sua presenza e, viceversa, mostra di esserlo proprio nella misura del suo venire meno. Ed è un prolungato esercizio di ripetizione a permettere all’io di raggiungere questa padronanza paradossale. Butler riporta anche altri esempi di quelle che chiama azioni acquisite (acquired actions), alcune molto importanti e comuni, come camminare, leggere, scrivere, parlare una lingua. Anche in questi casi, come nel caso del pianista esperto, possedere tali abilità equivale a saperle esprimere senza più porvi attenzione, in forma sostanzialmente automatica. Non solo è impossibile, rileva Butler, parlare una lingua ed essere al contempo consapevoli di tutti i movimenti muscolari necessari per pronunciare quella determinata lettera o sillaba, ma la quantità di sillabe e di parole che ognuno di noi è in grado di pronunciare e di decifrare durante una conversazione è normalmente superiore alla nostra facoltà di elaborazione conscia e di memorizzazione esplicita. Lo stesso vale per azioni come camminare, leggere, scrivere. A proposito della scrittura, Butler ricorda il grande sforzo di attenzione richiesto inizialmente a noi tutti per la realizzazione di 3. S. Butler, Life and Habit (1878), Dutton, New York 1911, p. 4.
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Discussioni Rileggere Heidegger alla luce dei Quaderni neri ANDREA ZHOK
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a pubblicazione degli ultimi volumi della Gesamtausgabe heideggeriana1 ha avuto ampia eco, tanto accademica che mediatica. Questi volumi (GA 95, GA 96, GA 97), noti nel dibattito pubblico come Quaderni neri (d’ora in poi QN), includono le riflessioni svolte da Heidegger negli anni della Seconda guerra mondiale. Non si tratta di scritti privati, ma di scritti destinati a un pubblico, e l’autore stesso ne ha approvato la pubblicazione. Il dibattito seguito alla pubblicazione dei QN ha preso prevalentemente di mira le esternazioni di tenore antisemita dell’autore. Su questo tema si sono ricreati fronti che ripercorrono in parte le fazioni formatesi anni or sono rispetto alla questione del nazismo di Heidegger.2 Da un lato vi sono coloro i quali ritengono che la condanna morale nei confronti dell’antisemitismo (e/o nazismo) di Heidegger implichi una condanna, se non una proscrizione, della sua opera intera,3 altri ritengono che si possa e deb1. M. Heidegger, Überlegungen VII-IX (Schwarze Hefte 1938-1939), Gesamtausgabe 95, Klostermann, Frankfurt a.M. 2014 (d’ora in poi GA 95); Id., Überlegungen XII-XV (Schwarze Hefte 1939-1941), Gesamtausgabe 96, Klostermann, Frankfurt a.M. 2014 (d’ora in poi GA 96); Id., Anmerkungen I-V (Schwarze Hefte 1942-1948), Gesamtausgabe 97, Klostermann, Frankfurt a.M. 2015 (d’ora in poi GA 97). 2. Cfr. V. Farìas, Heidegger et le nazisme, Verdier, Lagrasse 1987; H.-G. Gadamer, Superficialità e ignoranza. In merito alla pubblicazione di Victor Farìas, in AA.VV., Risposta. A colloquio con Martin Heidegger, Guida, Napoli 1988, pp. 175-179. 3. E. Faye, Heidegger: l’introduction au nazisme dans la philosophie. Autour des séminaires inédits de 1933-1935, Albin Michel, Paris 2005.
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ba separare il contributo teoretico dall’errore umano.4 Trasversalmente a questa contrapposizione, alcuni autori hanno cominciato a sollevare una questione più specifica, osservando come il problema nuovo posto dai QN non abbia tanto a che fare con una rinnovata condanna morale dell’autore quanto con la manifesta integrazione teorica dei giudizi antisemiti nella cornice complessiva del pensiero heideggeriano. Questa è la posizione che in Italia è stata sviluppata in particolare nel volume Heidegger e gli ebrei di Donatella Di Cesare.5 L’idea che vogliamo succintamente sviluppare assume come problema proprio l’organicità delle tesi dei QN nel pensiero del “secondo” Heidegger. L’intento è tuttavia quello di suggerire, sia pure solo in nuce, una chiave interpretativa differente, volta a mettere in discussione il modo di leggere l’elaborazione heideggeriana a partire dalla cosiddetta “svolta” degli anni trenta. 1. Cosa c’è di filosoficamente problematico nelle tesi dei Quaderni neri? Per ovvie ragioni di contesto storico, l’attenzione del lettore dei QN tende a concentrarsi sulle espressioni di connotazione antisemita. Come noto, queste espressioni sono presenti in numero piuttosto esiguo e, se dovessero essere messe in fila, esse occuperebbero circa tre pagine sulle oltre settecento di GA 95 e GA 96 (o circa quattro pagine su milletrecento, includendo GA 97). Naturalmente la mera quantità non è un indice determinante in una valutazione filosofica, ma suggerisce che sarebbe probabilmente azzardato far gravitare una reinterpretazione dell’opus heideggeriano su quelle sole, pur significative, espressioni. Cosa dice di fatto Heidegger sulla “questione ebraica”? Secondo Heidegger l’ebraismo (Judentum) mancherebbe in modo essenziale di un radicamento in una terra (Bodenlosigkeit) e in un mondo cui riferirsi (Weltlosigkeit); inoltre agli ebrei sarebbe ascritta una naturale disposizione a mescolarsi e confondersi con 4. F. Fédier, Heidegger. Anatomie d’un scandale, Robert Laffont, Paris 1988. 5. D. Di Cesare, Heidegger e gli ebrei, Bollati Boringhieri, Torino 2014.
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gli altri (Durcheinandermischen).6 Fin qui, questi tratti sembrano ricalcare, con un sottotono critico, tratti tradizionali di una visione popolare dell’ebraismo, visto come apolide e mescolato con gli altri popoli, serbandosene distinto. Il quadro però si complica quando a quei giudizi si unisce un’altra idea diffusa nella cultura centroeuropea dell’Ottocento, ovvero quella del “talento per il calcolo” che sarebbe tipico degli ebrei. Infatti, scrive Heidegger, la “temporanea crescita di potere dell’ebraismo” avrebbe il suo radicamento nel fatto che la metafisica occidentale avrebbe offerto un punto di inserzione per il diffondersi di “una razionalità e capacità di calcolo altrimenti vuote”.7 Inoltre, tale razionalità andrebbe a scapito della capacità di assumere decisioni esistenzialmente profonde: “Quanto più originarie e inaugurali divengono le domande e decisioni future, tanto più inaccessibili esse rimangono a questa ‘razza’”.8 Se si rammenta il ruolo essenziale giocato dalla denuncia della razionalità calcolante come nocciolo del processo di ontificazione dell’essere,9 l’associazione dell’ebraismo con la “naturale predisposizione al calcolo” comincia ad acquisire una connotazione metafisica. Il quadro acquisisce tinte fosche, quando Heidegger inizia a parlare del “giudaismo internazionale” (das internationale Judentum) che riuscirebbe a servirsi per i propri scopi tanto dell’atteggiamento imperialistico-belligerante che di quello umanistico-pacifista.10 E così, nel 1941, in concomitanza con le prime serie difficoltà per la Wehrmacht, ritroviamo Heidegger menzionare il giudaismo mondiale, visto come un movimento inafferrabile, alimentato dall’emigrazione dalla Germania, che nel mezzo della guerra non ha bisogno di impegnarsi in azioni guerresche, mentre “a noi rimane solo il sacrificio del sangue migliore dei migliori del nostro popolo”.11 E ancora in un passaggio successivo, del 1942, lo ritro6. GA 95, p. 97. 7. GA 96, p. 46. 8. GA 96, p. 46. 9. M. Heidegger, Beiträge zur Philosophie (Vom Ereignis), Gesamtausgabe 65, Klostermann, Frankfurt a.M. 1989 (d’ora in poi GA 65), pp. 277 e 443. 10. GA 96, p. 133. 11. GA 96, p. 262.
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Post “Mettersi in gioco” Qualche istruzione per l’uso PIER ALDO ROVATTI
È
il titolo che abbiamo dato al programma 2016 della Scuola di filosofia di Trieste (72 ore di lezioni e seminari organizzati dal Laboratorio di filosofia contemporanea da gennaio a maggio 2016). Già nelle discussioni preparatorie era emerso che si tratta di un tema complesso, non così facile da maneggiare e suscettibile di equivoci. Anzi, questo monito, se non lo intendiamo in maniera critica, sembra corrispondere a quell’ingiunzione a diventare imprenditori di se stessi che ci arriva di continuo dall’attuale dispositivo di potere: un’ingiunzione al tempo stesso catturante e derisoria, in cui sembra condensarsi uno degli aspetti principali dell’ideologia del nostro presente. Qual è dunque l’uso critico che possiamo farne? Qui di seguito il lettore trova alcuni spunti per rispondere a questa domanda: una serie di istruzioni per l’uso, per chiamarle così, che si propongono di orientare l’atteggiamento di pensiero di cui abbiamo bisogno per difenderci dagli effetti ideologici e dalle loro conseguenze, ma soprattutto per aprire un positivo orizzonte di riflessione teorico-politico. Insomma, per ricominciare un poco a pensare dentro la palude del benpensantismo in cui stiamo sprofondando. 1. Mettersi in gioco non è un gioco Ecco una frase che mi è capitato di ascoltare in un dibattito pubblico attorno al “competere” come carattere della società contemaut aut, 369, 2016, 191-195
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poranea. La richiamo poiché contiene un aspetto essenziale e cioè che la parola “gioco”, in cui sta la chiave di tutta la questione, ha un significato e un’operatività non univoci: va bene “mettersi in gioco” purché il gioco non sia quella ovvietà cui solitamente ci riferiamo ma qualcos’altro. Che cosa? Qualcosa di molto “serio” e coinvolgente che ci mette radicalmente all’opera. Come negarlo? Ma, attenzione, così la parola “gioco” perde o guadagna qualcosa? Guadagna e perde. Un poco si snatura. Il giocare si trasforma in altro, può essere sostituito da altre parole più precise, ma al tempo stesso cede – per dir così – la propria mobilità: non è più qualcosa di oscillante e paradossale, perde una parte decisiva della sua specificità di gioco. L’istruzione numero uno potrebbe allora essere la seguente: facciamo in modo che la frase “mettersi in gioco” non si svuoti di ciò che è più importante, ovvero del gioco stesso, delle risorse di pensiero che nella sua performatività, cioè nella sua pratica, il gioco può mettere a nostra disposizione. Il gioco è per noi una “x” che va sondata e tradotta in un “esercizio” che non ci è affatto abituale. 2. Mettere “se stessi” in gioco Il dispositivo sociale ci esorta a far emergere le nostre qualità individuali, la nostra individualità, attraverso l’attivazione di uno spirito creativo di intrapresa personale. Il punto non è discutere quanto sia astratta o velleitaria tale esortazione, ma rendersi consapevoli di come venga penalizzata in questo modo l’idea stessa di soggettività e che cosa diventi ciò che chiamiamo “proprio”: quanta metafisica del soggetto forte e padrone di sé (con le modalità “violente” che essa ha per secoli veicolato) sopravviva nel modello dell’individuo/ imprenditore di se stesso. È quindi necessario un paradossale esercizio di de-soggettivazione che metta a nudo tale sopravvivenza criticando ogni ritorno del Soggetto-padrone di sé come una pericolosa illusione di potenza. Paradossale perché abbiamo bisogno di operatori di pensiero che agiscano nello spazio che separa e unisce due idee di soggetto, quella che vorremmo perdere e quella che vorremmo guadagnare, una de-soggettivazione e una ri-soggettivazione. 192