370 giugno 2016
Individui pericolosi, società a rischio Mario Colucci Individui pericolosi, società a rischio
Mauro Bertani La misura del pericolo (Lombroso & co.) Peppe Dell’Acqua, Silvia D’Autilia Il ladro di biciclette e il pugile assassino Giovanna Del Giudice, Stefano Cecconi Il caso StopOpg. Quando la partecipazione migliora il progetto politico Roberto Mezzina La contaminazione tra psichiatria e giustizia in Gran Bretagna Ernesto Venturini, Maria Stella B. Goulart L’insicurezza sociale in Brasile Alessandro Dal Lago Come cambia la percezione del pericolo al tempo del Califfo Ciro Tarantino L’individuo inaffidabile
3 21 39 60 74 92 104 116
MATERIALI Michel Foucault L’evoluzione della nozione di “individuo pericoloso” nella psichiatria legale del XIX secolo Robert Castel Dalla pericolosità al rischio Françoise Digneffe Genealogia del concetto di pericolosità Pierangelo Di Vittorio Degenerazione. Alle origini del rapporto tra psichiatria e giustizia
184
POST Pier Aldo Rovatti “Una società terribile”
193
125 147 167
rivista fondata da Enzo Paci nel 1951 direttore responsabile: Pier Aldo Rovatti redazione: Sergia Adamo, Paulo Barone, Graziella Berto, Deborah Borca (editing, deborah.borca@gmail.com), Damiano Cantone, Mario Colucci, Alessandro Dal Lago, Pierangelo Di Vittorio, Giovanna Gallio, Edoardo Greblo, Raoul Kirchmayr, Giovanni Leghissa, Massimiliano Nicoli, Ilaria Papandrea, Fabio Polidori, Pier Aldo Rovatti, Massimiliano Roveretto, Antonello Sciacchitano, Giovanni Scibilia, Davide Zoletto direzione: c/o il Saggiatore, via Melzo 9, 20129 Milano sito web: autaut.ilsaggiatore.com collaborano tra gli altri ad “aut aut”: G. Agamben, H.-D. Bahr, R. Bodei, L. Boella, S. Borutti, J. Butler, M. Cacciari, A. Cavarero, R. De Biasi, G. Dorfles, M. Ferraris, U. Galimberti, P. Gambazzi, S. Givone, A. Heller, F. Jullien, J.-L. Nancy, A. Prete, R. Prezzo, M. Serres, G.C. Spivak, G. Vattimo, M. Vegetti, P. Veyne, V. Vitiello, S. Žižek per proposte di pubblicazione: autaut@ilsaggiatore.com Si fa presente che “aut aut” non pubblica recensioni e non accetta testi di ampiezza superiore a 40.000 battute (note e spazi compresi).
il Saggiatore S.r.l. via Melzo 9, 20129 Milano www.ilsaggiatore.com ufficio stampa: stampa@ilsaggiatore.com abbonamento 2016: Italia € 60,00, estero € 76,00 servizio abbonamenti e fascicoli arretrati: Il Saggiatore S.r.l., via Melzo 9, 20129 Milano Telefono: 02 20230213 e-mail: abbonamentiautaut@ilsaggiatore.com Registrazione del Tribunale di Milano n. 2232 in data 13.1.1951 Proprietà: Francesca Romana Paci Stampa: Galli Thierry, Milano Spedizione in abbonamento postale 45% art. 1, comma 1, decreto legge 353/03 convertito in legge 46/04 – Filiale di Milano. Finito di stampare nel giugno 2016
Individui pericolosi, società a rischio MARIO COLUCCI
Q
ualche anno fa, partecipando a un convegno sulla situazione degli Ospedali psichiatrici giudiziari nel nostro paese, ebbi modo di ascoltare il presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta per l’efficienza ed efficacia del Sistema sanitario nazionale, che aveva documentato con le sue visite ispettive nel 2010 gli orrori dei sei manicomi criminali all’epoca ancora aperti in Italia: il senatore Ignazio Marino perorava la necessità di una loro immediata chiusura a fronte del drammatico degrado riscontrato e della possibilità di dimettere subito almeno la metà dei circa 1400 internati, in quanto non erano più da ritenere pericolosi. Per gli altri, “che pericolosi lo erano ancora”, bisognava trovare un’adeguata soluzione, ossia delle strutture residenziali regionali in cui accoglierli.1 Rimasi impressionato: nonostante la denuncia vibrante da parte della Commissione parlamentare della terribile condizione di vita degli uomini e delle donne internate in OPG, nessuna critica trapelava dalle parole di Marino – medico di professione – sulla incongruità della nozione stessa di pericolosità. Intuivo che implicitamente ne riconoscesse non tanto la legittimità, purtroppo ancora oggetto di una norma del codice, quanto la scientificità. E, in fondo, la sua permanente utilità. Partirei da qui, dalla difficoltà odierna da parte della politica e della scienza a riflettere nuovamente su questa nozione, che pure, in una sta1. Si tratta delle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza ( REMS), previste dalla legge 9 del 2012 e dai successivi provvedimenti in merito. Riguardo all’iter legislativo, si rimanda al dettagliato intervento di Giovanna Del Giudice e Stefano Cecconi pubblicato in questo fascicolo.
aut aut, 370, 2016, 3-20
3
gione non troppo lontana nel tempo, si era arrivati a criticare, ma che di fatto continua ancora a funzionare da tragico spartiacque tra sommersi e salvati. Cogliere quanto sia ambigua, dallo statuto epistemologico incerto, dalla natura socialmente e culturalmente costruita e all’origine di meccanismi d’esclusione, istituzioni aberranti e false verità, rinnova l’urgenza della sua demolizione. Ma bisogna andare con ordine e rileggere la sua storia tra teorie arcaiche e pratiche attuali. 1. Istinti Come ci ricorda Michel Foucault, la psichiatria inizia a intervenire nelle aule di tribunale nei primi decenni del XIX secolo in occasione di alcuni efferati delitti, apparentemente senza ragione, che suscitano grande sgomento popolare e numerosi interrogativi e che sembrano “sfuggire tanto all’assegnazione di ragione quanto all’assegnazione di follia”:2 in essi, risulta difficile rintracciare elementi suggestivi a carico della prima (motivo d’interesse) o della seconda (motivo delirante). La giustizia e l’opinione pubblica sono smarrite di fronte a vicende atroci come quella della donna di Sélestat, che uccide la figlia e se la mangia; o di Henriette Cornier che immotivatamente taglia la testa alla bimba della vicina e la getta dalla finestra; o di Catherine Ziegler, che uccide un figlio illegittimo, viene assolta per follia e una volta liberata commette di nuovo il medesimo delitto su un nuovo nato; o altri ancora.3 Tutto si presenta enigmatico e nulla, almeno all’epoca, può essere attribuito con certezza alla giustizia o alla psichiatria. Sono casi in cui, scrive Foucault, “si insiste sul fatto che non c’era nessun precedente, nessun disturbo preesistente del pensiero o del comportamento, nessun delirio: che non vi era nemmeno l’agitazione o il disordine caratteristici della furia: il crimine scaturiva da quello che poteva essere chiamato il grado zero della follia”.4 Qualcosa di nuovo è apparso all’orizzonte, una forma di alienazione mentale, i cui sintomi sono rappresentati dal crimine commesso: gli psichiatri si affrettano a coniare una nuova diagnosi, monomania omicida, “entità assolutamente fittizia 2. M. Foucault, Gli anormali. Corso al Collège de France, 1974-1975 (1999), trad. a cura di V. Marchetti e A. Salomoni, Feltrinelli, Milano 2000, p. 105. Cfr. anche Id., “L’evoluzione della nozione di ‘individuo pericoloso’ nella psichiatria legale del XIX secolo” (1978), in Archivio Foucault 3. 1978-1985, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 43-63 (ripubblicato in questo fascicolo). 3. Ivi, p. 45. 4. Ivi, p. 46.
4
di crimine-follia, di un crimine che è interamente follia, di una follia che è nient’altro che un crimine”.5 Lo scandalo di questi casi inquietanti sta nel fatto che essi inceppano la macchina della giustizia. Fino a questo momento, di fronte a un delitto, ci si è posti la semplice domanda preliminare se si tratti di un atto commesso in stato di assenza di ragione: in tale circostanza, come recita l’articolo 64 del Codice penale napoleonico, non può esserci imputabilità e l’individuo deve essere assolto. In altri termini, se la giustizia viene a conoscenza che l’individuo ha manifestato una qualche forma di follia sotto la specie della demenza, dell’imbecillità o della furia, non può giudicarlo perché non è imputabile. Ma in questi casi non sempre è possibile riscontrare uno stato di malattia al momento dell’osservazione. Allora vanno puniti? Qui tutto si complica: se prima bastava accertare lo stato di ragione del criminale, l’assenza di demenza, adesso bisogna dimostrare in modo esplicito quale sia l’intrinseca razionalità del crimine, il motivo d’interesse dell’atto commesso. È la stessa macchina della giustizia che lo richiede, altrimenti si blocca: essa, dice Foucault, “non può più funzionare solamente con una legge, un’infrazione e un autore responsabile dei fatti. Ha bisogno di altro, di un materiale supplementare”.6 All’accusato si chiede ben più che un’ammissione, “è necessaria una confessione, un esame di coscienza, una spiegazione di se stesso, uno svelamento di sé”,7 perché in loro assenza non si riesce a capire che cosa si dovrebbe davvero colpire attraverso la punizione. Quale interesse profondo e quale vantaggio motiva un delitto efferato e apparentemente senza ragione? Quale inconfessabile oscuro desiderio spinge verso un simile gesto? Se gli psichiatri non sono in grado di trovare traccia di follia e se la lucidità dei colpevoli spesso appare integra, allora vuol dire che qualcosa di nuovo, improvviso e irresistibile, ha fatto irruzione nelle loro menti, ne ha sconvolto l’equilibrio e ha fatto commettere il delitto: “Un istinto, di per se stesso mostruoso, malato e patologico, che attraversa il comportamento come una meteora, istinto di uccidere che non assomiglia a niente, che non risponde a nessun interesse e che non s’inscrive in 5. Ivi, p. 48. 6. Ivi, p. 44. 7. Ibidem.
5
La misura del pericolo (Lombroso & co.) MAURO BERTANI
P
oco dopo la metà del XIX secolo lo Spirito ridiventò “un osso”. Ma non più, questa volta, per assecondare le peripezie di una Ragione che, pur prendendo “un interesse universale per il mondo”, cercava “un Altro” sapendo che non avrebbe in verità posseduto, come aveva scritto Hegel nella Fenomenologia dello Spirito, “nient’altro che se stessa”, fosse nei tratti della fisionomia, come voleva Lavater, o nelle “protuberanze del cranio”, studiate da Gall e Spurzheim. Se infatti continueranno a essere in gioco un certa ricerca e un certo “riconoscimento”, non saranno più quelli di se stessa. L’Altro stava diventando “un” altro – in realtà, tanti “altri”. Tutti quelli che, proprio nella (e per via della) loro alterità anomala, manifesta e visibile, stavano per essere designati con il marchio a fuoco della pericolosità. Eppure a lungo la pericolosità, nella storia delle società occidentali, era stata ricondotta a cause formali e materiali oscure, misteriose e inquietanti, come dalla Storia della follia a Sorvegliare e punire, nei suoi corsi e soprattutto nei suoi seminari al Collège de France, ha mostrato Michel Foucault. Vi erano state le masse erratiche e indistinte della lebbra e della peste, e quelle della “eretica pravità”; erano poi venuti gli individui sragionevoli, gli oziosi, i libertini e i vagabondi, quelli infami e ancora i folli, i criminali e i delinquenti. Rispetto a cui non si è mai smesso di organizzare degli spazi istituzionali e di predisporre dei regimi discorsivi destinati a Mauro Bertani, independent researcher, ha avviato agli inizi degli anni novanta, con Alessandro Fontana, la pubblicazione dei corsi al Collège de France di Michel Foucault, del quale ha curato poi l’edizione italiana di varie opere. Si occupa di storia della psichiatria e di storia dell’antisemitismo, nonché di storia della filosofia.
aut aut, 370, 2016, 21-38
21
identificare, isolare, rimuovere, cancellare, tali pericoli, che si trattasse degli spazi liminari dell’esclusione esterna, oppure di quella interna del quadrillage, del manicomio o della prigione; che si trattasse del discorso teologico, di quello del diritto o di quello tenuto dal sapere medico. E un episodio particolare di tale lunga e dolorosa storia è quello che ha riguardato la psichiatria, a partire dal momento in cui ha avviato un lento processo di insediamento all’interno del dispositivo giudiziario e che (ma è una semplice ipotesi, un po’ arbitrariamente desunta dai corsi e seminari di Foucault) potrebbe essere ripartito in base alla seguente scansione. Il primo momento segue di poco la nascita dell’alienismo come disciplina e istituzione responsabile della presa in carico del “male mentale” all’interno di quelle istituzioni specializzate che saranno, a partire dall’inizio dell’Ottocento, i manicomi. L’asilo di Pinel, sosteneva Foucault, è il luogo in cui viene messo in atto un modello puro di relazioni di potere: una struttura d’ordine, condizione tanto del trattamento quanto dell’osservazione e accumulazione di conoscenze, che organizza un regime di sorveglianza permanente e generalizzata – come nello schema messo a punto, all’incirca alla stessa epoca, da Bentham, anche se realizzato con altri mezzi – sotto quel “centro generale d’autorità” che è il medico. Se infatti la malattia è disordine del pensiero causato dalle pressioni sociali o dallo sregolamento delle passioni, occorre innanzitutto sottrarre il malato a tali eccessi, inducendolo a sostituire “una passione reale a una immaginaria”, e ciò potrà avvenire solo in un quadro rigorosamente regolamentato e gerarchizzato, in cui il medico, guadagnata la fiducia del malato, potrà esercitare la sua “influenza morale”, che non esclude il ricorso, accuratamente modulato, anche ai “metodi più vigorosi”. L’isolamento, tuttavia, non si giustifica solo con la necessità di sottrarre i malati alle cause patogene esterne e di assicurare un contesto terapeutico idoneo. Sempre più, anzi, la reclusione dei folli negli asili verrà giustificata in nome di un’esigenza di protezione dal pericolo che essi rappresentano. È quanto emerge, come ha mostrato Robert Castel, dalla legge del 30 giugno 1838, la cui architettura era stata definita da Esquirol, da Ferrus e da Falret, e che delinea in Europa il primo coerente disegno di assistenza psichiatrica pubblica, definendone gli aspetti inestricabilmente medici, amministrativi e giudiziari. In essa si stabiliva che ogni dipartimento avrebbe dovuto essere dotato di uno stabilimento destinato ad accogliere e trattare gli alienati, fissando due modalità d’internamento: 22
quello forzato, detto anche volontario, dietro domanda della famiglia o di terzi, e quello d’ufficio, sotto la responsabilità dell’autorità prefettizia, dando allo psichiatra un potere illimitato sul destino dei malati affidatigli. Contemporaneamente, a partire dai grandi casi studiati da Foucault, come quello di Pierre Rivière o di Henriette Cornier, si era aperto in tutta Europa (con Georget, Metzger, Hoffbauer, Marc, Fodéré, Orfila ecc.) il grande dibattito medico-legale sugli “individui pericolosi” che vedrà contrapposti alienisti e magistrati a proposito della responsabilità e punibilità dei reati commessi da soggetti che al momento del delitto si trovavano “in stato di demenza”. È in tale contesto che verrà avviato, con l’elaborazione della nozione di “monomania omicida” e di irresponsabilità dell’alienato, il processo di “patologizzazione del crimine”, uno dei primi eventi significativi nel processo di trasformazione della medicina mentale in igiene pubblica del corpo sociale, accompagnata dall’apparizione di strutture che porteranno alla nascita di sezioni speciali all’interno degli asili o, in Italia, alla costituzione dei manicomi criminali. È l’epoca in cui nasce un nuovo dispositivo all’interno della pratica psichiatrica che verrà progressivamente incorporato all’interno dei procedimenti della giustizia penale: la perizia psichiatrica. Tutto comincia all’epoca della Restaurazione, a partire dai crimini “senza ragione”, quelli che per il sistema penale – a causa della loro mancata corrispondenza con una qualche “meccanica degli interessi” – risultano alla lettera “inintelligibili”, paralizzando così il potere di punire e inducendo i giudici, come ha scritto Foucault, “a porre delle domande alla psichiatria” per produrre una “verità”, un “discorso di verità”, che procede da un sapere che rivendica di possedere uno “statuto scientifico”. Tutto ciò non si è fatto senza tensioni e contraddizioni, che hanno dato luogo a un vero e proprio agone, tanto all’interno del campo psichiatrico quanto nei rapporti tra psichiatria e giustizia, che si scioglierà solo tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento. È questa l’epoca della trasformazione del regime di verità della psichiatria, che si inquadra nel contesto più generale che sta provocando la trasformazione della disciplina in vera e propria “scienza di Stato”. Alla psichiatria – sempre più destinata a diventare sapere e tecnologia di controllo dell’anomalia e sempre più contrassegnata da un sostanziale pessimismo terapeutico a fronte della crescita dei fenomeni della cronicità – non si richiede più di contribuire a stabilire l’eventuale responsabilità e la conseguente punibilità dell’individuo, bensì di indagarne la 23
Il ladro di biciclette e il pugile assassino PEPPE DELL’ACQUA SILVIA D’AUTILIA
1.
Milano, estate 2010. Una donna filippina di quarant’anni viene aggredita mentre si reca al lavoro, presa a pugni e uccisa. La donna muore col volto fracassato dai colpi potentissimi di Oleg Fedchenko, ucraino di venticinque anni, che da qualche tempo vive in Italia. Abita con la madre, è impegnato in lavori saltuari e frequenta una palestra, fa uso di sostanze stupefacenti. Vuole fare il pugile, è molto ben allenato. Cosa succede quella mattina? Oleg è stato lasciato dalla fidanzata. Il giorno del fatto, in crisi di astinenza da cocaina o ancora sotto l’effetto della sostanza, esce di casa con l’intenzione di vendicarsi. Dopo l’aggressione, immediatamente catturato, portato in carcere, dirà che nel volto della sua vittima, la prima donna incontrata, aveva colto i tratti di un diavolo. La sua evidente condizione di eccitamento, il comportamento esplosivo e le parole palesemente deliranti e allucinate inducono il giudice a emettere un’ordinanza di misura di sicurezza provvisoria (art. 206 del Codice penale)1 e l’avvio in Ospedale psichiatrico giudiziario (OPG). Il giudice nomina un perito psichiatra che confermerà l’infermità mentale e con questa l’incapacità di intendere e di volere al momento del reato, la non imputabilità e, rilevata la pericolosità sociale, Oleg viene prosciolto. La misura di sicurezza da provvisoria diviene definitiva (art. 222 del CoPeppe Dell’Acqua, psichiatra, già direttore del Dipartimento di salute mentale di Trieste, dirige dal 2011 la Collana 180 – Archivio critico della salute mentale (edizioni alpha beta, Merano) ed è tra i fondatori e animatori del Forum salute mentale. Silvia D’Autilia è dottoranda di ricerca in Filosofia presso l’Università di Trieste, collabora con la Collana 180 e si occupa dei nodi tra psichiatria e soggetto, follia e potere. 1. Articolo 206 del Codice penale, “Applicazione provvisoria delle misure di sicurezza”: “Durante l’istruzione o il giudizio, può disporsi che il minore di età o l’infermo di mente […] siano provvisoriamente ricoverati in un riformatorio o in un manicomio giudiziale”.
aut aut, 370, 2016, 39-59
39
dice penale):2 dovrà restare in OPG per un minimo di cinque anni. Non ci sarà il dibattimento, il reato perde la sua consistenza, Oleg scompare, al suo posto rimane la malattia mentale e la pericolosità. Dopo circa tre anni, la misura di sicurezza verrà revocata. Gli psichiatri dell’OPG presenteranno al tribunale di sorveglianza l’istanza di revoca, su sollecitazione della difesa. Il quadro psicopatologico è migliorato e non è più evidenziabile la pericolosità sociale. Oleg usufruisce di alcuni permessi e si comporta adeguatamente. Nel settembre 2014 il magistrato di sorveglianza revoca la misura di sicurezza. Oleg torna in libertà. Oggi vive in Ucraina, nella sua città. 2. In tutto il mondo si ritiene che gran parte dei reati commessi dalle persone con disturbo mentale siano influenzati da questa condizione e possano determinare particolari percorsi processuali. In Italia, chiunque commetta un reato è responsabile e dunque punibile se è in possesso della capacità di intendere e di volere. Nel caso di infermità di mente, questa capacità può risultare parzialmente o totalmente assente. In breve, in presenza di reato, se vi sia sospetto di malattia mentale, si avvia una sequenza: reato, sospetto di malattia mentale, perizia, infermità di mente, incapacità di intendere e di volere, non imputabilità, proscioglimento,3 pericolosità sociale, OPG (ora REMS).4 Oppure: reato, sospetto di malattia mentale, perizia, seminfermità mentale, capacità ridotta, imputabilità, processo, eventuale condanna, carcere.5 Il Codice penale definisce negli articoli 88 e 896 la questione dell’imputabilità in rapporto all’infermità mentale e il perito deve rispondere 2. Articolo 222 del Codice penale, “Ricovero in un OPG”: “Nel caso di proscioglimento per infermità psichica, […] è sempre ordinato il ricovero dell’imputato in un OPG, per un tempo non inferiore a due anni”. 3. Il proscioglimento è la sentenza emessa in fase istruttoria o dibattimentale in cui si dichiara di non doversi procedere nei confronti dell’imputato. 4. Cfr. legge 81/2014. 5. Benché sia entrata in vigore la legge 81/2014 di cui si parlerà nei prossimi paragrafi, con la finalità di chiudere gli OPG, l’impianto del Codice penale del 1930 è rimasto totalmente invariato a tutt’ora. 6. Articolo 88 del Codice penale, “Vizio totale di mente”: “Non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da escludere la capacità d’intendere o di volere”. Articolo 89 del Codice penale, “Vizio parziale di mente”: “Chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da scemare grandemente, senza escluderla, la capacità d’intendere o di volere, risponde del reato commesso; ma la pena è diminuita”.
40
alle domande del giudice che vengono così formulate: “Dica il perito se al momento in cui commise i fatti, l’imputato si trovasse in stato di infermità mentale tale da escludere o da scemare grandemente le sue capacità di intendere e di volere; quale sia la sua attuale condizione mentale; se sia persona socialmente pericolosa”. L’esito della perizia può essere: assenza di infermità mentale, in questo caso la persona viene sottoposta a giudizio e il processo proseguirà; presenza di infermità, in questo caso si verificano due condizioni tra loro alternative: l’infermità esclude la capacità (vizio totale di mente) oppure l’infermità è tale da scemare grandemente, senza escluderla, la capacità (vizio parziale di mente o seminfermità). Nel caso della totale incapacità, il giudice stabilisce che la persona non è imputabile e la proscioglie, perché non è possibile riconoscere la responsabilità personale, non c’è stata colpevolezza. La malattia diventa il colpevole; il disturbo mentale sovradetermina il comportamento e gli atti criminosi conseguenti. In questo caso, in presenza di pericolosità, la persona viene inviata in OPG (REMS) in esecuzione della misura di sicurezza detentiva per due, cinque o dieci anni, in relazione alla risonanza sociale del reato e alla pena prevista dal Codice. Diverso è il caso della seminfermità: la capacità, per quanto ridotta, sussiste. La persona è imputabile e viene processata. In caso di condanna, la pena verrà diminuita di un terzo. Se riconosciuta anche socialmente pericolosa, la persona verrà inviata in OPG (REMS), solo dopo aver scontato la pena detentiva in carcere. 3. L’automatismo descritto è parte di quanto da più di ottant’anni accade in Italia per accantonare il “pazzo criminale” in un altro luogo. La pericolosità contemplata dal Codice penale riguarda pregiudicati che hanno reiterato reati e comportamenti della stessa natura, rivelandosi recidivi e continuando a creare turbamento sociale (art. 203 del Codice penale).7 La pericolosità sociale che si riconosce nella persona con disturbo mentale ha a che vedere con la sua malattia. Il reato, banale o efferato che sia, agli occhi del giudice e dell’opinione pubblica, assume 7. Articolo 203 del Codice penale, “Pericolosità sociale”: “Agli effetti della legge penale, è socialmente pericolosa la persona, anche se non imputabile o non punibile, […] quando è probabile che commetta nuovi fatti preveduti dalla legge come reati” (cfr. anche l’articolo 133 del Codice penale).
41
Il caso StopOpg. Quando la partecipazione migliora il progetto politico GIOVANNA DEL GIUDICE STEFANO CECCONI
È
ormai trascorso quasi un anno da quando, il 31 marzo 2015, in Italia sono stati “chiusi per legge” gli Ospedali psichiatrici giudiziari (OPG). Si tratta della legge 81 del 31 maggio 2014 che alla fine di un percorso durato tre anni, aperto dalla legge 9 del 2012, ha sancito quella chiusura ridefinendo la direzione nel processo di “superamento” degli OPG. Tuttavia il percorso avviato è ancora lungo e tortuoso e a maggior ragione necessita di vigilanza da parte dei tecnici, dei politici, della cittadinanza informata e di una messa in crisi e di una rivisitazione delle inerzie culturali e scientifiche, del modello organizzativo e delle prassi operative nella salute mentale. Dal 1° aprile 2015 nessun cittadino o cittadina è stato/a più inviato/a in misura di sicurezza detentiva negli OPG, ma le persone prosciolte e pericolose socialmente, anche quelle in fase di giudizio in misura provvisoria, sono inviate (e gli invii sono attuati) nelle Residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza (REMS), strutture sanitarie regionali previste dalla nuova legislazione. Attualmente sono meno di settecento le persone internate (con misura di sicurezza detentiva) – sommando le presenze dei quattro OPG ancora aperti, nella REMS/OPG di Castiglione Giovanna Del Giudice, psichiatra, ha lavorato a Trieste dal 1971 al 2001 partecipando all’intero processo di de-istituzionalizzazione dell’ospedale psichiatrico e alla costruzione dei servizi di salute mentale territoriali. È stata direttore del Dipartimento di salute mentale dell’Azienda sanitaria locale di Caserta 2 dal 2002 al 2006 e di Cagliari dal 2006 al 2009. Coordina progetti di cooperazione internazionale sui temi della salute mentale comunitaria. Dal novembre 2013 è presidente dell’associazione Conferenza Basaglia e membro del comitato nazionale StopOpg. Stefano Cecconi è sindacalista, responsabile nazionale CGIL Politiche della Salute, Non autosufficienza, Dipendenze, Terzo Settore. Fa parte del “Gruppo protezione sociale” della Confederazione europea dei sindacati. È direttore di “La Rivista delle Politiche Sociali”.
60
aut aut, 370, 2016, 60-73
delle Stiviere e nelle REMS regionali.1 Nel 2011 erano oltre millequattrocento. Sebbene le dimissioni abbiano dimezzato gli internati, da alcuni mesi i nuovi “ingressi dalla libertà”2 stanno aumentando: segno che la magistratura non sta attuando la legge 81 nella parte più “pregiata”, che privilegia misure alternative alla detenzione. Alcune premesse La necessità di affrontare, anche dal punto di vista legislativo, la questione degli Ospedali psichiatrici giudiziari – istituti inaccettabili per la loro natura, il loro mandato, per l’incongrua legislazione e il paradigma psichiatrico che li sostiene – è stata posta da giuristi e da psichiatri subito dopo l’emanazione della legge 180 di riforma psichiatrica, nel 1978. Si è messa in luce la contraddizione esistente tra la legge 180, che sanciva la fine dello “statuto speciale” per la persona con disturbo mentale (e la sua entrata nella cittadinanza), e il permanere, nel codice penale Rocco del 1930 che fonda l’OPG, di norme che tracciano percorsi “speciali” per la persona con problemi di salute mentale che ha commesso reato:3 il cosiddetto “doppio binario”. È stata la Corte costituzionale, con importanti e ripetute sentenze a partire dal 1981, a determinare un significativo processo di erosione del codice penale relativo all’invio in OPG della persona con disturbo mentale che abbia commesso un reato. In particolare, grande rilevanza va data alle sentenze 253 del 2003 e 367 del 2004 che, privilegiando la cura alla custodia, hanno ampliato alle persone autrici di reato con disturbo mentale le misure alternative all’internamento in OPG, dichiarando incostituzionale la non applicazione e rilevando che il ricovero in questi istituti costituisce una 1. Cfr. IV Relazione al Parlamento sul superamento degli OPG: <www.stopopg.it/ node/1362>. 2. Cfr. l’audizione al Senato del responsabile del Dipartimento amministrazione penitenziaria Santi Consolo il 17 settembre 2015. 3. Nel caso della totale incapacità di intendere e volere, definita attraverso una perizia, il giudice stabilisce che la persona non è imputabile e la proscioglie: non le si riconosce quindi nessuna responsabilità personale; è la malattia che ha condizionato e sovradeterminato il gesto reato. La persona prosciolta quindi non partecipa a un processo e, se riconosciuta pericolosa socialmente, viene sottoposta alla misura di sicurezza detentiva nell’Ospedale psichiatrico giudiziario per due, cinque o dieci anni, in relazione alla gravità e all’efferatezza del reato. Nel caso in cui la persona sia giudicata seminferma di mente, permanendo una seppur ridotta capacità di intendere e di volere, è imputabile e viene sottoposta al processo. In caso di condanna, la pena è diminuita di un terzo. Se la persona è riconosciuta socialmente pericolosa dopo aver scontato la pena detentiva in carcere viene inviata in OPG.
61
pesante disuguaglianza di trattamento rispetto a quanto prevede la riforma della psichiatria. I giudici costituzionali hanno rilevato che l’internamento è un “non soddisfacente trattamento” e che le cure psichiatriche si svolgono meglio in ambito territoriale. La sentenza 253 del 2003 è chiarissima: “Le esigenze di tutela della collettività non potrebbero mai giustificare misure tali da recare danno, anziché vantaggio, alla salute del paziente (cfr. sentenze n. 307 del 1990, n. 258 del 1994, n. 118 del 1996, sulle misure sanitarie obbligatorie a tutela della salute pubblica): e pertanto, ove in concreto la misura coercitiva del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario si rivelasse tale da arrecare presumibilmente un danno alla salute psichica dell’infermo, non la si potrebbe considerare giustificata nemmeno in nome di tali esigenze”. Il concetto è ribadito nella sentenza 367 del 2004: “Il giudice a quo ritiene che l’impossibilità di sostituire la misura di sicurezza con altra non detentiva si ponga in contrasto con gli articoli 3 e 24 della Costituzione (e implicitamente con il diritto alla salute)”. Non occorre sottolineare la portata storica di queste sentenze, che avrebbero permesso e permetterebbero, anche secondo le attuali norme del codice penale, il non invio in OPG dell’autore di reato con disturbo mentale. Ma l’inerzia, le omissioni, le cattive pratiche e le mancate assunzioni di responsabilità a livello politico, sanitario e giudiziario, hanno fatto sì che fossero scarsamente utilizzate e incidessero solo in misura parziale sul numero di trattamenti detentivi, in particolare nel caso di persone con una bassa contrattualità sociale che non trovano il necessario supporto per avere accesso a questi diritti. Va pure ricordato un ulteriore passo verso la chiusura degli OPG, anch’esso provocato dalle sentenze appena citate: la promulgazione nel 2008 del DPCM4 del 1° aprile con il “trasferimento delle competenze sanitarie, dei rapporti di lavoro, delle risorse sanitarie e delle attrezzature e dei beni strumentali” dalla sanità penitenziaria al Servizio sanitario nazionale.5 Il DPCM del 2008 definisce pure il trasferimento delle funzioni sanitarie degli OPG alle regioni in cui essi sono ubicati e indica le linee guida per gli interventi che le regioni devono progressivamente attuare, attraverso le aziende sanitarie, per la presa in carico degli internati degli OPG. Il decreto del 2008 sottolinea come il “successo” del programma sia “strettamente 4. Decreto del presidente del consiglio dei ministri. 5. Tale trasferimento era già previsto dal Decreto legislativo n. 230 del 1999, mai pienamente applicato, promosso dall’allora ministro della Salute Rosy Bindi.
62
La contaminazione tra psichiatria e giustizia in Gran Bretagna ROBERTO MEZZINA
Introduzione: scenari europei L’evoluzione dei sistemi di controllo e coercizione in psichiatria, in parallelo con il ridimensionamento o la scomparsa degli ospedali psichiatrici tradizionali, ha portato soprattutto nei paesi occidentali a una nuova serie di istituzioni che si dispongono in un continuum e includono gli ospedali giudiziari, le unità di sicurezza, i reparti chiusi, i reparti psichiatrici in carcere, e tutte le svariate forme, più attenuate, di obbligatorietà alle cure, fino agli interventi territoriali. Tutto ciò avviene in accordo con un’analoga differenziazione degli strumenti legislativi, sia in ambito sanitario che penale, con finalità di gestione, ma anche di controllo dei comportamenti. Al tempo stesso, si è verificata l’entrata dei saperi psichiatrici in ambito penale e carcerario, che all’interno degli obiettivi di trattamento prevedono, appunto, forme di controllo, determinando lo spostamento delle contraddizioni della psichiatria in ambiti finora mai direttamente interessati, come le stesse carceri. In Europa lo studio di DG SANCO,1 benché datato, è tuttora indicativo per aver indotto a verificare lo stato dell’assistenza psichiatrica nei vari paesi e lo sviluppo di queste istituzioni. È stato messo in evidenza l’aumento del ricorso, da parte della psichiatria di comunità, alle istituzioni Roberto Mezzina, psichiatra, è direttore del Dipartimento di salute mentale e del Centro collaboratore dell’OMS di Trieste, dove ha lavorato negli ultimi trentotto anni introducendo numerose innovazioni nei servizi e nelle pratiche, e ha sviluppato un’intensa attività internazionale in più di trenta paesi come formatore, docente, ricercatore, con numerose pubblicazioni. 1. H.J. Salize, H. Dreßing, C. Kief, Research Project “Mentally Disordered Persons in European Prison Systems. Needs, Programmes and Outcome (EUPRIS)”. Final Report – October 31, 2007, European Commission, The SANCO Directorate General, Central Institute of Mental Health.
74
aut aut, 370, 2016, 74-91
psichiatrico-giudiziarie (dette “forensi” o “speciali”), in particolare per i pazienti difficili da trattare a causa di disturbi comportamentali. Il numero di posti letto è risultato particolarmente elevato in alcuni paesi del Nord Europa, come il Belgio, oltre 10/100.000 abitanti, ma anche la Germania e l’Olanda, a fronte di poco più dei 2,2/100.000 dell’Italia degli OPG di allora. In quasi tutti i paesi, salvo l’Italia e il Portogallo, si affiancava un’aumentata capacità di posti letto psichiatrici in generale e spesso anche l’uso del carcere (certamente in Belgio, Francia, Germania, Grecia tra gli altri) in risposta alla carenza di posti letto, in un trend chiaramente definito come trans-istituzionalizzazione. Il report ha messo in chiaro la relazione, e l’intercomunicazione, tra i settori della psichiatria generale (in particolare nella misura in cui preveda trattamenti obbligatori e coercitivi), le istituzioni e i servizi di psichiatria forense e l’ambito carcerario. Un famoso articolo di Priebe e colleghi2 dichiarava la fine dell’era della de-istituzionalizzazione, iniziata negli anni cinquanta, e ipotizzava, pur cautamente, una tendenza verso la “re-istituzionalizzazione” (anche attraverso forme nuove di istituzionalizzazione) a partire dagli anni novanta, più chiaramente evidente dai dati riferiti alla Gran Bretagna, ma estendibile ai sei paesi europei studiati. A fronte della riduzione di posti letto psichiatrici veniva riportato, e descritto come possibilmente collegato alle questioni di cui sopra, l’aumento della popolazione carceraria (fino al 104 per cento dell’Olanda), l’incremento del settore forense, della residenzialità psichiatrica (entrambi i fenomeni venivano inferiti anche per l’Italia, sia pure sulla base di dati regionali), mentre i trattamenti obbligatori aumentavano in alcuni paesi ma diminuivano in altri. I fenomeni chiamati in causa variavano a seconda della maggior frequenza e gravità delle malattie mentali e del concomitante aumento del consumo di sostanze illegali. Benché l’articolo in questione all’epoca abbia suscitato notevoli reazioni (tra cui quella del direttore della Divisione di salute mentale dell’OMS europea), è un fatto che dappertutto in Europa, a fronte della persistenza dei vecchi manicomi, si costruiscano reparti chiusi per i 2. S. Priebe, A. Badesconyi, A. Fioritti, L. Hansson, R. Kilian, F. Torres-Gonzales, T. Turner, D. Wiersma, Reinstitutionalisation in Mental Health Care: Comparison of Data on Service Provision from Six European Countries, “British Medical Journal”, 330 (7483), 2005, pp. 123-126.
75
casi con elevato disturbo del comportamento, mentre, in una gradualità di percorsi e strumenti di intervento fino a quelli collocati a livello comunitario, troviamo anche servizi forensi esterni (per outpatients) in diversi paesi. Il caso della Gran Bretagna, paese che ha quasi completamente chiuso i tradizionali ospedali psichiatrici, resta di grande interesse per l’Italia. Esso è esemplare per la rapida crescita di questo nuovo assetto, che ha portato a triplicare in quindici anni circa i posti letto “forensi”, col proliferare di strutture a media e bassa sicurezza, che non sono riuscite comunque a sostituire i vecchi ospedali ad alta sicurezza, sebbene ridotti di dimensioni. Inoltre qui si è configurato, come vedremo, un processo di “convergenza” tra salute mentale e giustizia penale, che si riflette a livello legislativo, per esempio nei trattamenti di comunità obbligatori, nella collocazione immediata in luoghi di sicurezza, negli interventi sul comportamento antisociale. Come sfondo, la nozione di pericolosità sembra evolvere in quella, apparentemente più neutra e impersonale, di rischio. Alcuni dati sulla costituzione del sistema psichiatrico forense in Gran Bretagna Nei documenti ufficiali, i servizi di salute mentale in ambito giudiziario in Gran Bretagna (o forensic mental health services, dove il termine “forense” indica pertinent to law, cioè attinente alla giustizia) trattano individui con disturbi mentali che pongono rischi agli altri, quindi nella misura in cui tale rischio risulta collegato a condizioni alterate di salute mentale.3 Viene precisato che essi offrono trattamenti nella comunità, in ospedale – in particolare l’ospedale “di sicurezza” – e in ambiente carcerario. Questi servizi lavorano con altri professionisti della salute mentale, con i medici di base, con i servizi sociali, con le agenzie che operano nel sistema penale. Sono considerati servizi specialistici per persone che sono in stato di arresto, di custodia cautelare, o che sono state giudicate colpevoli di reato, che possono esservi trasferite dal tribunale, durante il processo, o dalla prigione, sulla base di una valutazione o di un apposito report. 3. Joint Commissioning Panel for Mental Health, Guidance for Commissioners of Forensic Mental Health Services, <www.jcpmh.info>, maggio 2013. I dati che seguono sono tratti da tale documento governativo.
76
L’insicurezza sociale in Brasile ERNESTO VENTURINI MARIA STELLA B. GOULART
I
l Brasile ha sempre sofferto di una certa insicurezza sociale, politica ed economica, nonostante la ricchezza delle sue materie prime, le straordinarie potenzialità della sua gente e la sua storia fatta di riscatti e rilanci. Si potrebbe dire che questo paese ha subìto, e subisce ancora, una condizione di insicurezza proprio in ragione di un aggressivo processo di sfruttamento delle sue risorse, che ha finito per provocare lotte interne, ingerenze esterne e pesanti ricadute nell’economia sociale. Solo recentemente – con i governi di Fernando Henrique Cardoso, ma soprattutto durante quelli di Lula da Silva e del primo mandato di Dilma Rousseff – il paese ha incontrato una relativa stabilità politica e sociale e un’indubbia prosperità economica, tale da far includere il Brasile tra i paesi emergenti (i famosi BRIC). I governi del Partito dei trabalhadores hanno sicuramente migliorato le condizioni di vita dei più poveri e degli emarginati (circa 30 milioni di persone sono uscite dalla condizione di povertà), attraverso facilitazioni del credito per il consumo, realizzazione di nuovi posti di lavoro, aumento graduale del salario minimo. Ha influito anche l’avvio di alcuni programmi sociali, quali Borsa Famiglia, Pro Uni, Minha Casa, Minha Vida e tante altre iniziative riguardanti i diritti all’abitazione, al lavoro, all’educazione. Un particolare rilievo ha assunto la realizzazione di un Sistema unico di sanità (SUS) e la riforma Ernesto Venturini, psichiatra, ha lavorato nei processi di de-istituzionalizzazione dei servizi psichiatrici a Gorizia, Trieste, Imola. È stato esperto della Cooperazione italiana allo sviluppo e consulente dell’Organizzazione panamericana dell’OMS. Maria Stella B. Goulart insegna Psicologia sociale all’Università federale del Minas Gerais, e all’interno della stessa università è presidente della Commissione istituzionale della salute mentale, coordina il Programma di attenzione in salute mentale e il Laboratorio di diritti umani e trans-disciplinarità.
92
aut aut, 370, 2016, 92-103
che si è proposta di chiudere gli ospedali psichiatrici e di sviluppare servizi comunitari aperti. Si tratta, forse, di uno dei migliori risultati nel panorama mondiale, come ha riconosciuto l’ex responsabile della salute mentale dell’OMS Benedetto Saraceno. È però vero che i governi di sinistra non hanno affrontato il tema della distribuzione della ricchezza, non hanno toccato i privilegi e non hanno promosso le riforme popolari necessarie ai lavoratori. Inoltre hanno conservato il modello esistente di governabilità conservatrice. Il tentativo di limitarsi a cambiamenti possibili, senza conflitto e mobilitazione, ha circoscritto questa fase politica a una gestione del bilancio pubblico e all’uso delle banche per stimolare l’economia. Questa scelta è stata sufficiente per generare una crescita economica, fin quando la tendenza internazionale era favorevole. Ma poi il trend è cambiato, e durante il secondo mandato presidenziale di Dilma Rousseff il paese ha cominciato ad attraversare un periodo di recessione economica, anche per ragioni che sfuggono alla responsabilità dei suoi governanti e si inscrivono in una più complessa crisi globale, che ridisegna i rapporti di forza tra gli Stati, o forse globalmente tra il neocapitalismo e il socialismo politico. In questi ultimi due anni è aumentata la disoccupazione e la moneta è stata svalutata del 30 per cento. Con la recessione è arrivata una grave crisi politica che ha messo in conflitto il potere legislativo con quello esecutivo e giudiziario. Il governo non ha più la maggioranza parlamentare ed è diventato ostaggio dell’opposizione. I parlamentari, frammentati in ventotto partiti, esprimono una mentalità da possidenti terrieri e da esponenti di frange religiose radicali. Un quinto di loro è indagato per corruzione. Attraverso i loro atti legislativi, i senatori hanno assunto, sempre più, un comportamento golpista, che richiama alla mente i “signori degli schiavi”, di passata memoria. Vi è un atteggiamento di totale chiusura verso ogni forma di riconoscimento dei diritti degli omosessuali; la legge sull’aborto terapeutico è diventata molto più restrittiva, criminalizzando i medici che agevolano l’interruzione di gravidanza. In contrasto con il potere esecutivo è stata varata una legge – lo “Statuto della Famiglia” – che riconosce i diritti del matrimonio solo alle coppie etero, rilevando esplicitamente che l’unico scopo del matrimonio è la procreazione della specie. Sembra quasi che il potere legislativo voglia gestire le conquiste democratiche di questi anni con l’uso del frustino (chibata) e con la negazione della diversità e del principio di inclusione sociale. 93
Oltre a questa drammatica incertezza civile e istituzionale, vi è anche un’altra ragione che motiva l’attuale insicurezza: esiste un crescente timore della popolazione di essere implicata in una diffusa violenza legata alla criminalità, particolarmente pronunciata nei contesti metropolitani. In realtà quello che, a nostro modo di vedere, è ben più preoccupante è piuttosto la violenza esercitata dalle istituzioni dello Stato nei confronti dei cittadini. Questa violenza, come ci insegna Machiavelli, non dovrebbe sorprendere, perché in ogni società è quasi implicitamente connessa all’uso del potere da parte del “principe” (la metafora del governo dello Stato) e perché essa prevede una dialettica democratica che la contrasti. Tuttavia oggi, in Brasile, questa dialettica è molto indebolita e la violenza delle istituzioni sempre più rinforza, se non produce, una forte disuguaglianza sociale. Un esempio manifesto di questo pensiero sono i soprusi esercitati, in alcune occasioni, dalle forze dell’ordine: si tratta di una violenza gratuita e sproporzionata rispetto alla capacità offensiva dei cittadini autori di reato e che porta alla loro uccisione. Naturalmente ciò avviene con più facilità quando questi cittadini sono dei semplici marginali. In un gioco di luci e ombre appare, infatti, del tutto evidente come sia insufficiente, e non sempre democratica, la capacità di gestione dei conflitti sociali da parte della polizia. Un altro esempio è offerto dal comportamento brutale dei poliziotti durante le manifestazioni di piazza: i poliziotti mostrano una non professionalità identica a quella dell’esercito, che strutturalmente è preparato a scontrarsi solo contro un nemico esterno. Le forze dell’ordine, in sostanza, anche dopo la fine della dittatura dei militari, non hanno cambiato l’insidioso impianto ideologico, che le vuole protagoniste di una battaglia contro chi insidia la stabilità dello Stato. Il problema, però, è che sono identificati come “terroristi” i poveri, le donne, gli indigeni, gli insegnanti, gli attivisti, tutti coloro, in sostanza, che lottano contro le ingiustizie sociali. A dire il vero questo comportamento è sostenuto anche da certi settori del mondo politico, preoccupati dall’esigenza di offrire all’estero un’immagine di ordine e di controllo del paese, in occasione di importanti eventi internazionali (coppa mondiale di calcio, giochi olimpici). Una recente legge contro il terrorismo (legge 2016/15 del 12 agosto 2015), all’ultimo momento, ha escluso dal testo un emendamento che identificava come terrorismo l’adesione a ideologie criminali. Ma anche con tale esclusione si pensa che questa legge rischi di dare adito alla criminalizzazione delle manifestazioni politiche. E tuttavia ciò che colpisce maggiormente non è solo questa violenza 94
Come cambia la percezione del pericolo al tempo del Califfo ALESSANDRO DAL LAGO Guerra all’Isis. L’Ue teme l’arrivo di 3 milioni di profughi siriani. È l’avvertimento della Turchia rilanciato dal presidente del Consiglio Ue Donald Tusk: “Il conflitto può avere portata mondiale”. Tgcom.24, 6 ottobre 2015 In caso di necessità, sparare ai profughi. F. Petry, leader del partito AFD1
L’uomo più odiato di Svezia La donna anziana sale lentamente le scale della metropolitana. L’uomo alle sue spalle cerca di mettere le mani nella borsa della donna, senza che questa lo veda. La giovane madre, che sta scendendo insieme ai suoi due bambini, si accorge del tentativo di scippo e interviene bloccando la mossa dell’uomo. Questo reagisce colpendola con un calcio e un pugno e si allontana. Poi ci ripensa, passa accanto alla giovane, le sputa in faccia (forse, l’immagine non è chiara) e corre via. Il video della scena, ripreso dalle telecamere di sicurezza della metropolitana di Stoccolma il 24 gennaio 2016, ha fatto il giro del mondo. Il capo della polizia svedese ha promesso di fare qualsiasi cosa per catturare l’uomo, il quale, infatti, è stato arrestato poco dopo in un centro profughi. Accusato di violenza e tentato furto è stato immediatamente espulso in Danimarca, paese da cui proveniva. Dopo di che non se ne è saputo più nulla. L’episodio ha portato a galla l’umore prevalente nei media e in vasti settori della popolazione europea verso gli stranieri, migranti o profughi che siano: “Ecco il video che fa tremare l’Europa”, ha commentato “Vanity Fair”.2 Si è appreso che l’aggressore, definito dalla stampa “l’uomo più odiato di Svezia”,3 era un tunisino senza permesso di soggiorno, e quindi tecnicamente non un profugo. Poiché però erano passate poco più di tre settimane dalla famigerata Silversternacht di Colonia, la notte 1. “Notfalls auf Flüchtlinge schießen”, intervista a Frauke Petry al secondo canale tedesco ZDF, 30 gennaio 2016. Per un approfondimento, cfr. AfD will Flüchtlinge notfalls mit Waffengewalt stoppen, “Zeit online”, 30 gennaio 2016. 2. L’immigrato, la mamma svedese, il pugno: perché questo video fa tremare l’Europa, “Vanity Fair”, 25 gennaio 2016. 3. Fermato ed espulso l’uomo più odiato di Svezia, <www.direttanews.it/2016/01/28/ fermato-ed-espulso-luomo-piu-odiato-di-svezia-video/>.
104
aut aut, 370, 2016, 104-115
di capodanno 2015-2016 con centinaia di denunce per molestie sessuali attribuite ai richiedenti asilo in Germania, l’uomo è stato immediatamente etichettato come profugo.4 Il video di Stoccolma è una perfetta rappresentazione del potere dei simboli nella percezione della cosiddetta realtà. L’aggressore ha l’aspetto di chi è estraneo alla vita ordinata di un paese (apparentemente) pacifico come la Svezia. Ha la barba incolta, è vestito dimessamente e non ha un convenzionale aspetto europeo. Le sue vittime, al contrario, corrispondono a immagini del tutto familiari e rassicuranti: la donna anziana con la borsa della spesa, e la giovane madre snella, ben vestita e con due bambini che cerca di difendere dall’improvvisa furia dell’uomo. È la scena di una violenza che, senza essere particolarmente grave negli effetti, è decisamente stupida. Il che rivela semplicemente la disperazione dell’aggressore. Bisogna essere ridotti letteralmente alla fame per tentare uno scippo in pieno giorno in un luogo frequentato e sorvegliato. E per reagire così all’intervento della giovane madre. A qualche mese dall’episodio, tutto questo sembra ovvio, ma sul momento nessuno ha chiamato in causa la disperazione. I fatti di Colonia e il video di Stoccolma rappresentano uno spartiacque nella definizione pubblica dei profughi, perché la parola, come già era avvenuto per “immigrati” e soprattutto “clandestini”, ha acquistato un valore del tutto negativo, quasi diabolico. Il “profugo” (nella realtà, qualcuno che fugge dalla guerra e dalla fame) è ora una minaccia, una fonte di pericolo o, meglio, il negativo assoluto che minaccia l’Europa – un negativo che può incarnarsi, volta per volta, nel terrorista, nello stupratore o comunque nell’aggressore e nel criminale. Ecco la sintesi di una cronaca, che mescola fantasiosamente crimine, droga, migrazioni e richieste d’asilo: Un migrante è più redditizio di una grossa partita di cocaina. Il contrabbando di profughi nel 2015 ha portato nelle casse della malavita internazionale oltre 5 miliardi di euro ed è quindi diventato la Champions League della delinquenza. L’Europa è entrata in una drammatica spirale negativa: più profughi accoglie, più foraggia la criminalità. La crisi dei rifugiati e le migrazioni di massa hanno ar4. Si veda per esempio L. Romano, Prova lo scippo, poi la pesta davanti ai bimbi: è un profugo, già espulso, “Il Giornale”, 25 gennaio 2016.
105
ricchito enormemente una rete delittuosa che non soltanto incassa somme enormi grazie al traffico ma poi sfrutta questi stessi esseri umani disperati come pedine delle organizzazioni criminali.5 Di conseguenza il profugo, o migrante che sia, è oggetto di ripulsa, violenta e non. Già nel settembre 2015, poco dopo la famosa apertura di Angela Merkel ai profughi, questi temevano che i cittadini tedeschi marciassero contro di loro.6 A fine febbraio 2016, viene incendiato un rifugio per richiedenti asilo a Bautzen, in Sassonia, e durante l’intervento dei vigili del fuoco si sentono slogan di estrema destra e applausi all’incendio.7 Negli stessi giorni, a Clausnitz, non lontano da Dresda, una folla minacciosa circonda un autobus di profughi, tra cui diversi bambini.8 Nel video, anch’esso circolato rapidamente in rete, si vedono i bambini che piangono terrorizzati. Mentre sto ultimando questo testo, sono ancora fresche le elezioni in tre Länder tedeschi, che hanno visto la straordinaria affermazione del partito xenofobo e iper-identitario Alternative für Deutschland (23 per cento in Sassonia-Anhalt). Come ho riportato qui in esergo, la leader del partito, Frauke Petry, ha dichiarato recentemente che, per respingere i migranti, la polizia dovrebbe essere autorizzata a sparare. Ma la sua vice, Beatrix von Storch, parlamentare europea, è andata oltre: [Von Storch] ha scritto su Facebook che chi non si ferma a un alt delle guardie di frontiera è un aggressore. E contro le aggressioni dobbiamo difenderci. Alla domanda di un utente se, per difendersi, è necessario usare le armi anche contro donne e bambini che attraversano illegalmente i confini, l’europarlamentare ha riposto: sì.9 5. F. Angeli, L’immigrazione è la Champions dei criminali, “Il Giornale”, 16 gennaio 2016. L’articolo riprende dati di Europol da “The Independent on Sunday”. 6. D. Neurer, Ich habe Angst, dass Bürger gegen Uns marschieren, “Handelsblatt”, 29 settembre 2015. 7. Bautzen in Sachsen: Brand in künftigem Asylbewerberheim – Schaulustige jubeln, “Spiegel online”, 21 febbraio 2016, <www.spiegel.de/panorama/bautzen-brand-inkuenftiger-asylbewerberunterkunft-a-1078501.html>. 8. Fremdenfeindlicher Mob in Sachsen verängstigt Flüchtlinge, “Die Welt”, 16 febbraio 2016. 9. Waffengewalt auch gegen Kinder, “Tageszeitung”, 31 gennaio 2016. Ambienti della polizia hanno criticato queste posizioni, affermando che nessun poliziotto potrebbe fare nulla del genere. Resta il fatto che le posizioni di Petry e von Storch sono abbastanza popolari in Germania.
106
L’individuo inaffidabile CIRO TARANTINO
U
ltimo lascia l’ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa nella primavera del 2016. Ora l’istituto non ha più internati, sono stati tutti trasferiti in altre case della follia. Dunque, il più antico manicomio criminale d’Italia è ormai chiuso; gli altri lo hanno di poco preceduto o seguito. Alcuni sono destinati a farsi spazio di città, altri attendono nuove incarnazioni del male. È ancora presto per sapere se abbiamo assistito alla dissoluzione dell’istituzione dell’estremo o alla trasmutazione della sua forma compatta, per quanto non ci vorrà molto a capire se si è stati testimoni della dismissione di una logica o della sua disseminazione in miniatura, della sua riterritorializzazione pulviscolare. Certo è che si è provveduto a sopprimerne la forma architettonica senza incidere sull’architettura istituzionale, dato che sono rimasti pressoché immutati i codici giuridici dell’imputabilità e della pericolosità a basamento della struttura. A sostegno di questa modalità di soppressione si è mobilitato un discorso più morale che politico, che ha ritenuto intollerabili le condizioni igienicosanitarie più che quelle di pensabilità dell’istituzione. La psichiatria è stata così riproposta nella sua matrice storica di costola dell’igiene pubblica, e si è coagulato consenso attorno a un certo dissenso del decoro.1 Ciro Tarantino insegna Sociologia dei codici culturali presso l’Università della Calabria. È condirettore del Centre for Governmentality and Disability Studies “Robert Castel” dell’Università di Napoli “Suor Orsola Benincasa” e della rivista “Minority Reports. Cultural Disability Studies”. 1. Cfr. C. Tarantino, “La strategia della lumaca. Appunti sulla dismissione degli ospedali psichiatrici giudiziari”, in C. Tarantino, A.M. Straniero, La Bella e la Bestia. Il tipo umano nell’antropologia liberale, Mimesis, Milano-Udine 2014, pp. 77-96.
116
aut aut, 370, 2016, 116-123
Nuovi princìpi di organizzazione dei servizi e nuove tecnologie di trattamento degli individui avevano da tempo creato le condizioni per una diversa gestione dei rischi in campo psichiatrico, come annunciato da Robert Castel con discreto anticipo.2 Un movimento giurisprudenziale ha poi accompagnato la rimodulazione del sistema di prevenzione, spostando la responsabilità del controllo dalla capacità di tenuta delle mura manicomiali a quelle profetiche dello psichiatra, attribuendogli una “posizione di garanzia” in funzione della quale dovrebbe rispondere degli atti dei suoi pazienti, che si trovano così nella strana condizione di essere ritenuti, nello stesso tempo, più prevedibili e più imprevedibili del resto della popolazione;3 un semplice aggiornamento, in sostanza, dell’omessa custodia degli alienati di mente, sanzionata dagli articoli 714 e 715 del Codice penale fino al 1978. Oggi, dunque, l’ospedale psichiatrico giudiziario non si frantuma per il cedimento del suo piano d’appoggio: l’associazione tra follia, incapacità e pericolosità. Questa equazione elastica, che periodicamente allenta o serra i nessi – come in alcuni interventi di ideoplastica riduttiva effettuati dalla Corte costituzionale4 o come, a contrario, nell’attuale propensione al neurodeterminismo di alcune branche dei saperi forensi5 –, è infatti un’equazione resistente, che pervade la doxa e permea la missione del dotto. Esempio ne è un articolo sulla dismissione degli OPG apparso sul domenicale del “Sole 24 Ore”, a firma di Gilberto Corbellini – maître à penser in storia della medicina e in bioetica – ed Elisabetta Sirgiovanni, assegnista di ricerca in Storia della medicina. Nell’incipit si legge che: “È sbagliato mescolare i violenti criminali con gli altri malati mentali. Un errore simile fu fatto ai tempi della legge 180”.6 Questa asserzione 2. Cfr. R. Castel, La gestion des risques. De l’anti-psychiatrie à l’après-psychanalyse, Minuit, Paris 1981 e Id., Dalla pericolosità al rischio (1983), in questo fascicolo. 3. Per un’introduzione al tema, cfr. E. Venturini, D. Casagrande, L. Toresini, Il folle reato. Il rapporto tra la responsabilità dello psichiatra e la imputabilità del paziente, Franco Angeli, Milano 2010 ed E. Pozzi, Posizione di garanzia: premessa necessaria per la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, “Psicoterapia e scienze umane”, 3, 2015, pp. 480-486. 4. Cfr., per esempio, la sentenza 139 del 1982, con la quale si subordina l’internamento in OPG all’accertamento della persistenza di pericolosità sociale al momento dell’applicazione della misura. 5. Per un’introduzione al dibattito, cfr. I. Merzagora Bestos, Colpevoli si nasce? Criminologia, determinismo, neuroscienze, Raffaello Cortina, Milano 2012. 6. G. Corbellini, E. Sirgiovanni, Giustizia: chiusura degli OPG, chi curerà i “pazzi morali”?, “Il Sole 24 Ore/Domenica”, 29 marzo 2015. Cfr. anche G. Corbellini, E. Sirgiovanni, Tutta colpa del cervello. Un’introduzione alla neuroetica, Mondadori, Milano 2013.
117
categorica dall’apodissi morbida funge da monito verso una incombente recidiva storica, che si nutrirebbe del retaggio degli anni sessanta e del “clima ideologico anti-asili degli anni settanta”, quando “in Italia si affermava un movimento culturale, ispirato al pensiero di Franco Basaglia, avverso ai manicomi in quanto frutto anche se non soprattutto di una concezione medica della malattia mentale. Queste idee contenevano gravi errori, dovuti a pregiudizi anti-illuministi e anti-scientifici”. Ora, siccome “non è il caso di cadere negli stessi errori della legge 180”, è, al limite, ipotizzabile dismettere l’OPG ma non la nozione di pericolosità sociale. Infatti, scrivono ancora gli autori, “aiutare la costruzione di strutture che puntino alle migliori condizioni per il trattamento dei malati psichiatrici criminali non dovrebbe sfociare automaticamente nell’idea che queste persone non siano malate, o peggio che non siano pericolose socialmente. Si va dai killer seriali a sangue freddo, agli stupratori, agli stalker, agli affetti da psicosi deliranti e allucinatorie violenti: tutti con alto grado di recidivismo. In molti casi, per sfortuna, la medicina non è ancora in grado di guarirli e riabilitarli ed è compito delle istituzioni e dei governi garantire la sicurezza per tutti gli altri”. Ed eccolo grondare da queste righe il folle pericoloso, che si contorce e confonde nelle nosografie, a volte si contrae, altre si espande, si dirada e poi si addensa, ma non smette di ripresentarsi. Lo ammanta una duplice pericolosità: una pericolosità sociale post delictum, possibile conseguenza giudiziaria di un reato, e una pericolosità praeter delictum, automatismo sociale che si innesta sull’idea di una totipotenza criminogena, una sorta di generica e indefinita capacità a delinquere la norma sociale quanto quella giuridica. Nell’immaginario collettivo, infatti, non si dà un pazzo non pericoloso, poiché tassi variabili di pericolosità si distribuiscono lungo l’intera scala della follia, che una lunga tradizione ha racchiuso fra la dementia e il furor.7 Difficilmente però l’aura di pericolosità che avvolge la follia sarebbe così densa e intensa se fosse riducibile al solo potenziale di minaccia nell’interazione faccia a faccia. Altri strati panici devono aver ispessito questa paura nella sua storia. La maschera del folle custodisce una te7. Cfr. E. Nardi, Squilibrio e deficienza mentale in diritto romano, Giuffrè, Milano 1983; O. Diliberto, Studi sulle origini della “cura furiosi”, Jovene, Napoli 1984; F. Zuccotti, “Furor haereticorum”. Studi sul trattamento giuridico della follia e della persecuzione della eterodossia religiosa nella legislazione del tardo impero romano, Giuffrè, Milano 1992.
118
L’evoluzione della nozione di “individuo pericoloso” nella psichiatria legale del XIX secolo (1978) MICHEL FOUCAULT
C
omincerò riportando alcune frasi scambiate l’altro giorno presso la corte d’assise di Parigi. Veniva giudicato un uomo accusato di cinque stupri e di sei tentativi di stupro, distribuiti tra il mese di febbraio e il giugno 1975. L’accusato era pressoché muto. Il presidente gli domanda: “Ha cercato di riflettere sul suo caso?”. Silenzio. “Perché, a ventidue anni, si scatenano in lei simili violenze? Lei deve compiere uno sforzo analitico. Solo lei possiede le chiavi di se stesso. Me lo spieghi.” Silenzio. “Per quale motivo lo rifarebbe?” Silenzio. Allora un giurato prende la parola ed esclama: “Ma, insomma, si difenda”. Non vi è nulla d’eccezionale in un simile dialogo, o, per meglio dire, in questo monologo interrogativo. Probabilmente potremmo ascoltarlo in molti tribunali e in molti paesi. Ma, se l’osserviamo con un po’ di distacco, non può che suscitare la sorpresa dello storico. Ecco un apparato giudiziario destinato ad accertare dei fatti delittuosi, a identificare il loro autore e a sanzionare questi atti infliggendo le pene previste dalla legge. Ora, in questo caso ci sono dei fatti accertati, un individuo che Fonte originale: About the Concept of the “Dangerous Individual” in 19th Century Legal Psychiatry, “Journal of Law and Psychiatry”, vol. I, 1978, pp. 1-18 (comunicazione al simposio di Toronto “Law and Psychiatry”, Clarke Institute of Psychatry, 24-26 ottobre 1977); trad. di S. Loriga, in Archivio Foucault 3. 1978-1985, a cura di A. Pandolfi, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 43-63. Ringraziamo l’editore Feltrinelli per la gentile concessione.
aut aut, 370, 2016, 125-146
125
li riconosce e dunque accetta la pena che sta per essergli comminata. Dovrebbe andare tutto per il meglio nel migliore dei mondi giudiziari. I legislatori, i redattori del Codice della fine del secolo XVIII e dell’inizio del secolo XIX non avrebbero potuto sognare una situazione più limpida. Eppure la macchina si blocca, il meccanismo s’inceppa. Come mai? Perché l’accusato tace. Su che cosa tace? Sui fatti? Sulle circostanze? Su come si sono svolti gli eventi? Su ciò che in quel frangente avrebbe potuto provocarli? Niente affatto. L’accusato si sottrae dinanzi a una domanda essenziale per un tribunale di oggi, ma che sarebbe suonata ben strana centocinquant’anni fa: “Ma lei chi è?”. E il dialogo che ho appena citato prova chiaramente che a questa domanda non è sufficiente che l’accusato risponda: “Sono io l’autore dei crimini in questione: punto e basta. Giudicatemi, giacché questo è il vostro dovere, e se volete condannatemi”. Gli si chiede ben di più: oltre l’ammissione, è necessaria una confessione, un esame di coscienza, una spiegazione di se stesso, uno svelamento di sé. La macchina penale non può più funzionare solamente con una legge, un’infrazione e un autore responsabile dei fatti. Ha bisogno d’altro, di un materiale supplementare. I magistrati e i giurati, ma anche gli avvocati e il pubblico ministero, non possono fare realmente la loro parte se non viene fornito un altro tipo di discorso: quello che l’accusato tiene su se stesso o quello che consente di fare sul proprio conto, grazie alle sue confessioni, ai suoi ricordi, alle sue confidenze ecc. E se questo discorso viene a mancare, il presidente si accanisce, la giuria si irrita; l’accusato viene incalzato, sollecitato, non sta al gioco. Ricorda quei condannati che devono essere portati di peso alla ghigliottina o alla sedia elettrica perché trascinano le gambe. Bisogna che camminino da soli almeno un po’, se davvero vogliono essere giustiziati; bisogna che parlino un po’ di se stessi, se vogliono essere giudicati. L’argomento impiegato di recente da un avvocato francese in un caso di rapimento e omicidio di un bambino mette bene in evidenza come questo elemento sia indispensabile alla scena giudiziaria, come non si possa giudicare, non si possa condannare, senza che esso venga fornito in un modo o nell’altro. Per tutta una serie di ragioni, questo caso ebbe una grande risonanza, non soltanto per la gravità dei fatti, ma perché nel processo era in gioco il ricorso o l’abbandono della pena di morte. Prendendo posizione contro la pena di morte, più che a favore dell’accusato, l’avvocato fece valere il fatto che si sapeva ben poco di lui e che nel corso degli interrogatori o delle perizie psichiatriche non era emerso 126
nulla. E fece questa riflessione stupefacente (la cito in modo approssimativo): “Si può condannare a morte qualcuno che non si conosce?”.1 L’intervento della psichiatria in ambito penale è avvenuto all’inizio del secolo XIX, a proposito di una serie di casi simili tra loro, verificatisi tra il 1800 e il 1835. Il caso riferito da Metzger: un ex ufficiale in pensione si è affezionato al figlio della sua affittacamere. Un giorno, “senza nessun motivo e senza che fosse in gioco nessuna passione, come può essere la collera, l’orgoglio, la vendetta”, si getta sul bambino e lo colpisce per due volte con un martello, senza ucciderlo. Il caso di Sélestat: in Alsazia, durante il rigidissimo inverno del 1817, sotto la minaccia della carestia, una contadina approfitta dell’assenza del marito, che se ne è andato a lavorare, per uccidere la loro figlioletta, tagliarle una gamba e cuocerla nella minestra. A Parigi, nel 1825, una serva, Henriette Cornier, va a trovare la vicina dei suoi padroni e le chiede insistentemente di affidarle per un po’ la figlia. La vicina esita, acconsente e poi, quando torna a riprendere la bambina, scopre che Henriette Cornier l’ha appena uccisa, le ha tagliato la testa e l’ha buttata dalla finestra. A Vienna Catherine Ziegler uccide il figlio bastardo. In tribunale spiega di essere stata spinta da una forza irresistibile. Viene assolta per follia e liberata. Ma lei dichiara che farebbero meglio a trattenerla in prigione, perché lo rifarà. Dieci mesi dopo, partorisce un bambino che uccide immediatamente e al processo dichiara di essere rimasta incinta al solo scopo di uccidere il neonato. Viene condannata a morte e giustiziata. In Scozia un certo John Howison penetra in una casa, uccide una vecchia che non conosce e se ne va senza aver rubato nulla, ma non cerca di nascondersi. Arrestato, nega contro ogni evidenza; ma la difesa sostiene che si tratta del crimine di un demente, giacché privo d’interesse. Howison viene giustiziato e, retrospettivamente, sarà interpretato come un ulteriore segno della sua follia il fatto che avesse detto a un funzionario lì presente che aveva voglia di ammazzarlo. Nel New England Abraham Prescott uccide, in aperta campagna, la madre adottiva, con la quale aveva sempre avuto buoni rapporti. Rientrato a casa, scoppia a piangere di fronte al padre adottivo; questi 1. Si tratta della causa Patrick Henry, patrocinata da Élisabeth Badinter. Cfr. M. Foucault, “L’angoisse de juger”, in Dits et écrits, Gallimard, Paris 1994, vol. III, pp. 282-297.
127
Dalla pericolosità al rischio ROBERT CASTEL
V
orrei proporre una linea di riflessione sulle strategie preventive che si stanno sviluppando, in particolar modo negli Stati Uniti e in Francia, e che mi sembrano profondamente innovative rispetto alla tradizione della medicina mentale e del lavoro sociale. In prima battuta e molto schematicamente, l’innovazione sarebbe questa: le nuove strategie passano per la dissoluzione della nozione di soggetto o di individuo concreto, che rimpiazzano con una composita combinatoria di fattori, i fattori di rischio. Se ciò è corretto, una tale trasformazione comporta implicazioni rilevanti per la pratica. Il momento essenziale dell’intervento cessa di essere una relazione diretta, un faccia a faccia tra, per esempio, un curante e un curato, un aiutante e un aiutato, uno specialista e il suo cliente, e si sposta nella costruzione di un flusso di popolazione a partire dall’assemblaggio di fattori astratti che sono suscettibili di produrre del rischio in generale. Questo spostamento produce uno squilibrio tra il punto di vista dei tecnici e quello degli amministratori che definiscono e rendono operative le politiche sanitarie. I primi si trovano subordinati ai secondi, e una politica gestionale può rendersi completamente autonoma, sfuggire totalmente al controllo degli operatori territoriali che diventano così dei semplici esecutori. Ma questi risvolti pratici potrebbero anche avere implicazioni politiche, se è vero – come cercherò almeno di suggerire – che queste nuove formule di gestione delle popolazioni sembrano inscriversi in un piano di governabilità specifico delle società attuali. Come tutte le trasformazioni importanti, anche questa presuppone Fonte originale: R. Castel, De la dangerosité au risque, “Actes de la recherche en sciences sociales”, 47-48, 1983, pp. 119-127.
aut aut, 370, 2016, 147-166
147
una preliminare lenta evoluzione delle pratiche che, a un dato momento, supera una soglia e si dà allora sotto forma di mutazione. Così, tutta la medicina moderna è trascinata in una lenta deriva in funzione della quale la moltiplicazione degli “esami” porta a economizzare sull’incontro del medico col suo cliente. L’esame del paziente tende a divenire l’esame dei suoi incartamenti, così come determinati in situazioni diverse da professionisti differenti (i differenti specialisti) che non hanno alcun rapporto tra loro, se non tramite la circolazione dei dossier. È quanto Balint già chiamava “la collusione dell’anonimato”. Il momento sintetico della diagnosi non è più la relazione concreta con la persona ammalata, ma il rapporto stabilito tra le diverse expertises che compongono il suo dossier. In questo c’è già il passaggio dalla presenza a una memoria, dallo sguardo allo stoccaggio oggettivo dei dati. Crisi della clinica, se si vuole, intesa come crisi della relazione personalizzata tra un professionista e il suo cliente, o piuttosto passaggio da una clinica del soggetto a una clinica epidemiologica: la perizia puntuale e moltiplicata prende il sopravvento sulla concreta relazione medico-paziente. Questa non è certo la fine della medicina, ma è sicuramente una trasformazione profonda delle sue forme d’esercizio. Una tale ridefinizione del mandato medico alimenta da una ventina d’anni le discussioni che vertono sull’evoluzione della medicina e sulla ricerca delle soluzioni, o dei palliativi, per controllare le sue controfinalità (gruppi Balint, medicina di comunità, tentativi di riabilitazione del medico generico). Essa riposa del resto su un insieme di condizioni oggettive molto precise, anch’esse studiate abbastanza bene: evoluzione delle tecnologie della cura in un senso sempre più “scientifico”, crescente importanza acquisita dall’ospedale come spazio privilegiato dell’emergenza e dell’esercizio di una medicina avanzata ecc. In medicina mentale, tuttavia, la discussione è meno evoluta: essa si svolge sempre come se l’essenziale delle poste in gioco nella pratica si cristallizzasse ancora sulla relazione terapeutica, sia che si tratti – come in generale pensano gli specialisti che la mettono in opera – di migliorarla, di adattarla a situazioni via via più complesse arricchendola di nuovi apporti, sia che si denuncino le funzioni non terapeutiche, di repressione o di controllo per esempio, che pervertono questa relazione. Può darsi però che questa problematica, senza essere completamente superata, non sia più all’altezza delle più recenti innovazioni che sono sul punto di trasformare il campo della medicina mentale. È almeno quanto vorrei 148
suggerire, accontentandomi qui di segnalare il percorso che, in un centinaio d’anni, è giunto a sostituire la nozione di “pericolosità” con quella di “rischio” come obiettivo privilegiato delle strategie preventive.1 Ma che cosa significa storicamente, teoricamente e praticamente “dalla pericolosità al rischio”? Le aporie della pericolosità Per la psichiatria classica, il “rischio” si presentava essenzialmente sotto la forma del pericolo incarnato dal malato mentale capace di un passaggio all’atto imprevedibile e violento. “Pericolosità” è una nozione abbastanza misteriosa e profondamente paradossale, poiché implica contemporaneamente l’affermazione della presenza di una qualità immanente al soggetto (“è pericoloso”) e una semplice probabilità, un dato aleatorio, in quanto la prova del pericolo ci sarà solo après coup, nel caso in cui il passaggio all’azione avvenga effettivamente. Stricto sensu, ci sono sempre e solo imputazioni di pericolosità, cioè l’ipotesi di un rapporto, più o meno probabile, tra questi o quei sintomi attuali e il tale atto a venire. Persino se si teme una recidiva, esiste sempre un coefficiente d’incertezza tra la diagnosi di pericolosità e la realtà del passaggio all’azione. Per esempio, affermare di qualcuno che è “monomaniaco” o “istintivo perverso” significa già presupporre un rischio, ma un rischio che, paradossalmente, si presume risieda “in” un soggetto, anche se spesso non si è ancora manifestato nei fatti. Da qui l’imprevedibilità della manifestazione patologica: tutti gli alienati, anche quelli che sembrano calmi, sono portatori di una minaccia, la cui concretizzazione resta però incerta. “Inoffensivi oggi, possono divenire pericolosi domani.”2 Di fronte a questa aporia che ha rappresentato un po’ la croce della medicina mentale classica, gli psichiatri hanno scelto generalmente di adottare quella forma parossistica di prudenza che è l’interventismo. Nel dubbio, meglio agire, poiché se si sbaglia a intervenire senza ragione, di certo non lo si saprà mai (“avrebbe sempre potuto fare 1. Ho tentato una esplicitazione più sistematica di questa nuova problematica in La gestion des risques. De l’antipsychiatrie à l’après-psychanalyse (Minuit, Paris 1981), in particolare nel capitolo III, “La gestion prévisionnelle”. 2. Rapport général à Monsieur le Ministre de l’Intérieur sur le service des aliénés en 1874, par les Inspecteurs Généraux du Service MM. les Drs Constans, Lunier et Dumesnil, Imprimerie Nationale, Paris 1878, p. 67.
149
Genealogia del concetto di pericolosità FRANÇOISE DIGNEFFE
N
el 1981 la rivista “Déviance et société”, specializzata nelle questioni riguardanti la devianza e il suo controllo, pubblica un dibattito dal titolo: “Il domatore di fronte alla pericolosità”. Vi sono sostenute tre posizioni: una, fiduciosa nella scienza, presenta lo scienziato come un domatore che si affida interamente all’efficacia dei suoi strumenti statistici o clinici per ridurre il suo animale (la pericolosità) all’obbedienza. Una seconda posizione, più sfumata e meno ottimista, mette in evidenza la complessità e le contraddizioni interne al concetto di pericolosità. Assiste allo spettacolo del domatore pieno di sicurezza, ma è inquieta. La terza, infine, è sostenuta da Michel Foucault che, analizzando “l’evoluzione della nozione di ‘individuo pericoloso’ nella psichiatria legale”, mostra che girando intorno al “problema della pericolosità” non facciamo che rinforzare il nodo inestricabile formato dall’alleanza psichiatrico-giudiziaria. Egli vuole, dice il moderatore del dibattito, “sopprimere lo spettacolo del domatore”. Queste posizioni riassumono, in poche parole, le diverse attitudini assunte dalla criminologia di fronte a ciò che costituisce uno dei concetti chiave della disciplina. Inoltre, la costruzione della nozione di pericolosità attesta – insieme a quella di delinquente nato – la creazione, alla fine del XIX secolo, della criminologia come fatto istituzionale. Tracciare la genealogia della “pericolosità” equivale quindi, in qualche modo, a descrivere la storia Testo pronunciato nel corso del convegno “Culture psychiatrique/Culture judiciaire: relire Michel Foucault” (Parigi, 15-16 settembre 2008), e pubblicato col titolo “Généalogie du concept de dangerosité”, in P. Chevalier, T. Greacen (a cura di), Folie et justice: relire Foucault, Érés, Toulouse 2009, pp. 139-157. Françoise Digneffe, filosofa e criminologa, professore emerito all’Università di Lovanio, si occupa di questioni di etica e di storia della criminologia.
aut aut, 370, 2016, 167-183
167
della criminologia in uno dei suoi aspetti centrali e, allo stesso tempo, più problematici. Significa anche fare il punto su alcuni dei suoi usi. In questo breve testo tenterò di mostrare, a partire da alcuni riferimenti storici, i diversi significati che sono stati dati alla pericolosità e soprattutto le funzioni che ha assolto e che assolve tuttora nell’interstizio tra campo penale e psichiatrico, così come in seno alla giustizia penale stessa. La criminologia vi gioca diversi ruoli: talvolta si pone “al servizio” di un diritto penale più preoccupato della difesa della società che garante di diritti, talvolta denuncia le false evidenze del concetto di pericolosità, talvolta, infine, appare scissa tra una criminologia gestionale e una che analizza lo stato attuale di una penalità sempre più manageriale. Prenderò in considerazione quattro “momenti” storici e analitici di questa genealogia della pericolosità, quattro modalità di situarla tra la follia e il crimine, o tra l’istanza psichiatrica e quella penale che, sotto diverse forme, si ripetono per più di due secoli. Il primo momento si situa prima dell’emergere della criminologia come disciplina. Esso mette in risalto ciò che abbiamo chiamato, sulla scorta di Canguilhem, “saperi diffusi” riguardo alla questione criminale, che si sviluppano contemporaneamente sia nel campo delle inchieste sociali e di igiene pubblica, sia in quello della psichiatria.1 Il secondo prende forma all’inizio del XX secolo e dà sostegno al cosiddetto movimento della “difesa sociale” che unisce, curiosamente, nell’individuo pericoloso un sapere scientifico che lo rappresenta come determinato nei suoi atti e una finzione giuridica che lo considera libero e responsabile. Il terzo è quello della decostruzione del concetto di una parte della criminologia che, intorno agli anni 1960-1980, moltiplica ricerche e convegni per mettere in evidenza il carattere ideologico e politico della nozione. Il quarto è quello che viviamo oggi. Abbiamo un bel da fare, i dibattiti scientifici non hanno cambiato nulla, l’uso della nozione sembra avere ancora giorni luminosi davanti a sé. Tuttavia, sembra che l’attenzione non sia tanto focalizzata sul soggetto pericoloso passibile di punizione oppure reinseribile, quanto sulla ricerca e la messa in opera di politiche di gestione attuariale del rischio, a cui la nozione funge da pretesto. Considerati questi quattro momenti, i dibattiti tra responsabilità e re1. Cfr. C. Debuyst, “Les savoirs psychiatriques sur le crime”, in C. Debuyst, F. Digneffe, J.-M. Labadie, A.P. Pires, Histoire des savoirs sur le crime et la peine, vol. I: Des savoirs diffus à la notion de criminel-né, Larcier, Bruxelles 2008, pp. 229-314.
168
sponsabilizzazione, pericolosità e antisocialità, assumono forme diverse. Le tensioni non saranno mai risolte, ma formule di superamento pragmatico (e politico) guidano il funzionamento di un’istituzione penale che permette, come afferma Dan Kaminski2 sulla scorta di Mary Douglas, di fare l’economia del “pensare”. Mi propongo qui di esplicitare le diverse versioni di ciò che definirei la costruzione sociale della pericolosità. Primo momento. Follia e pericolosità Ci troviamo all’inizio del XIX secolo. La psichiatria si introduce nella sfera della giustizia penale, abbandona l’ambito propriamente medico nel quale è nata per invadere non solo il campo giuridico, ma anche quello sociale. Le saranno fornite due occasioni. In primo luogo accadono crimini in apparenza insoliti, come quello di Pierre Rivière che sgozzò, a prima vista senza ragione, sua madre, sua sorella e suo fratello3 o ancora quello di una contadina alsaziana che approfittò dell’assenza del marito per uccidere sua figlia, tagliarle la gamba e farla cuocere nella minestra. Questi crimini sorprendono poiché, diversamente dai casi in cui la demenza o il furore momentaneo comportano l’esclusione della responsabilità penale, abbiamo a che fare con atti che, come scriveva Foucault, “non sono preceduti, accompagnati o seguiti da nessuno dei sintomi tradizionali, riconosciuti e visibili della follia”.4 Questi disturbi particolari saranno oggetto di numerose descrizioni e analisi, e saranno chiamati, sulla scorta della terminologia proposta da Esquirol in Francia, “monomanie omicide” dal momento che conducono al passaggio all’atto criminale. Si tratta a grandi linee di deliri parziali che si traducono in atti gravi, ma che si manifestano in persone che, di solito, hanno relazioni “normali” col loro ambiente, tengono discorsi sensati, tanto che la questione della loro eventuale irresponsabilità appare molto problematica. Gli psichiatri interverranno nei dibattiti giudiziari cercando 2. Cfr. D. Kaminski, Pénalité, management, et innovation, PU Namur, Namur 2009. 3. M. Foucault, Moi Pierre Rivière, aiant égorgé ma mère, ma sœur et mon frère…, Gallimard, Paris 1973; trad. di A. Fontana e P. Pasquino, Io, Pierre Rivière avendo sgozzato mia madre, mia sorella e mio fratello… Un caso di parricidio nel XIX secolo, a cura di M. Foucault, Einaudi, Torino 2000. 4. Id., “L’evolution de la notion d’‘individu dangereux’ dans la psychiatrie légale du XIXe siècle” (1978), in Dits et écrits, a cura di D. Defert e F. Ewald, Gallimard, Paris 1994, vol. II; trad. di A. Pandolfi, “L’evoluzione della nozione di ‘individuo pericoloso’ nella psichiatria legale del XIX secolo”, in Archivio Foucault 3. 1978-1985. Estetica dell’esistenza, etica, politica, Feltrinelli, Milano 1998, p. 46 (e in questo fascicolo).
169
Degenerazione. Alle origini del rapporto tra psichiatria e giustizia PIERANGELO DI VITTORIO
C
on la teoria della degenerazione, esposta nel 1857 da Bénédict-Augustin Morel nel Traité des dégénérescences physiques, intellectuelles et morales de l’espèce humaine (1857), la psichiatria acquista lo strano “potere di non dover cercare più di guarire”.1 Le degenerazioni sono deviazioni patologiche del “tipo umano normale” trasmesse ereditariamente. Le cause possono essere diverse, fisiche o morali, individuali o collettive: intossicazioni di vario tipo, influenze dell’ambiente sociale o dell’eredità, infermità congenite o acquisite. Queste cause, attraverso un’accumulazione ereditaria, costituiscono uno stato di fragilità denominato “predisposizione”. Le predisposizioni possono portare alla follia, se si manifestano delle “cause determinanti” che fanno precipitare gli individui predisposti verso diverse forme di degenerazione.2 La teoria di Morel fu in seguito sistematizzata da Valentin Magnan, il quale, nel 1895, ne propose una definizione che la collocava nel contesto biologico evoluzionista: “La degenerazione è lo stato patologico dell’essere che, rispetto ai suoi generatori più diretti, è costituzionalmente indebolito nella sua resistenza psicofisica e realizza solo in modo incompleto le condizioni biologiche della lotta ereditaria per la vita. Questo indebolimento, che si traduce in stigmate permanenti, è essenzialmente progressivo, salvo Tratto da R. Brandimarte, P. Chiantera-Stutte, P. Di Vittorio, O. Marzocca, O. Romano, A. Russo, A. Simone (a cura di), Lessico di biopolitica, manifestolibri, Roma 2006. 1. M. Foucault, Gli anormali. Corso al Collège de France (1974-1975), cura e trad. di V. Marchetti e A. Salomoni, Feltrinelli, Milano 2000, p. 281. 2. F. Bing, “La théorie de la dégénérescence”, in J. Postel, C. Quétel (a cura di), Nouvelle histoire de la psychiatrie, Dunod, Paris 1994; cfr. anche J.-C. Coffin, La transmission de la folie, 1850-1914, L’Harmattan, Paris 2003.
184
aut aut, 370, 2016, 184-191
una rigenerazione intercorrente; quando questa manca, conduce più o meno rapidamente all’annientamento della specie”.3 Contraddicendo la sua originaria vocazione terapeutica, sulla quale il movimento alienista aveva costruito il proprio successo nella prima metà del XIX secolo, la psichiatria comincia a proiettarsi con decisione all’esterno dei manicomi. Può così rispondere a un’altra vocazione, sociale e politica, che in realtà ha coltivato sin dall’inizio. Gli alienisti furono anche tra i principali promotori dell’igienismo in Francia. La loro alleanza con i riformatori filantropi fu essenzialmente un “patto di sicurezza”. Come disse il ministro degli Interni esponendo le motivazioni della legge del 1838 sugli alienati, “si tratta di prevenire incidenti analoghi a quelli che la polizia amministrativa affronta con sollecitudine, e in vista dei quali è stata istituita, quali le inondazioni, gli incendi, i flagelli di ogni genere, i pericoli che minacciano la salubrità pubblica o la pace dei cittadini”.4 La legge del 1838 fu, dunque, una legge di “polizia”. Attraverso la medicina mentale, che riusciva ad articolare l’intervento terapeutico con quello sociale, l’assistenza ai folli si collegava circolarmente con la prevenzione del pericolo di cui questi erano considerati portatori. Gli “incidenti” della follia erano nel frattempo assurti agli onori della cronaca, in occasione di grandi crimini mostruosi come quello compiuto da Pierre Rivière, il giovane contadino che, nel 1835, aveva sgozzato la sorella, il fratello e la madre, diventando improvvisamente l’oggetto di una smisurata “sollecitudine” da parte del gotha della psichiatria francese.5 Dal punto di vista teorico, con le ricerche sulla paralisi generale e il Traité des maladies du cerveaux et de ses membranes di Bayle (1826), aveva avuto inizio l’esodo della psichiatria dalla medicina psicologica che condurrà, all’inizio del XX secolo, alla definitiva affermazione dell’ideologia neuropsichiatrica.6 Lo sviluppo dell’organicismo e dell’idea di una sostanziale “incurabilità” della malattia mentale va posto in relazione con l’emergere di una nuova percezione della “pericolosità”. 3. V. Magnan, M.B. Legrain, Les dégénérés, état mental et syndromes épisodiques, Ruef, Paris 1895, p. 79. 4. R. Castel, L’ordine psichiatrico. L’epoca d’oro dell’alienismo (1976), trad. di G. Procacci, Feltrinelli, Milano 1980. 5. M. Foucault (a cura di), Io Pierre Rivière, avendo sgozzato mia madre, mia sorella e mio fratello… Un caso di parricidio nel XIX secolo (1973), trad. di A. Fontana e P. Pasquino, Einaudi, Torino 1976. 6. J. Postel, “La paralysie générale”, in J. Postel, C. Quétel (a cura di), Nouvelle histoire de la psychiatrie, cit.
185
La natura perversa del malato di mente è una stigmate indelebile che permane anche in presenza dei segni esteriori della guarigione e della normalità.7 L’effetto di questo doppio movimento, al cui punto di convergenza si trova la teoria della degenerazione, è un “pessimismo terapeutico” che farà implodere il dispositivo manicomiale. Saltato il contratto terapeutico che aveva consentito all’alienista di regnare incontrastato sul mondo della follia, i manicomi si trasformano in fabbriche di incurabili da rinchiudere a vita per garantire la sicurezza della società. La teoria della demenza precoce di Kraepelin, che fa della cronicità l’esito obbligato delle psicosi, fornisce una giustificazione scientifica alla deriva custodialistica della psichiatria manicomiale.8 La teoria della degenerazione segna un punto di rottura nella medicina mentale, equilibrio precario tra le ragioni dell’umanitarismo terapeutico e quelle dell’igienismo. Lo psichiatra è un medico che tanto meno sarà chiamato a guarire, quanto più avrà il compito di controllare la società e di proteggerla dai pericoli, riconducibili alla malattia, che la minacciano dall’interno. Medicalizzando la follia, il movimento alienista aveva per la prima volta reso possibile la sua codificazione in termini sociali e la sua presa in carico da parte dello Stato. Il ruolo sociale e politico degli alienisti restava, tuttavia, vincolato alla specificità della malattia che essi si erano dati il compito di curare. L’idea dell’incurabilità era già diffusa, ma si definiva sempre in rapporto alla missione principale della medicina mentale: guarire la follia, ossia, concretamente, soggiogare il delirio, in quanto suo segno distintivo, attraverso quella specifica forma di tecnologia disciplinare che era il trattamento morale.9 Con la medicalizzazione dell’anormale, il cui tassello teorico fondamentale fu la teoria della degenerazione, si verifica un cambiamento decisivo nel dispositivo psichiatrico: l’elemento “dominante” non si trova più a livello terapeuticodisciplinare, ma si riorganizza lungo l’asse sociale-biopolitico. Rottura anche di carattere epistemologico: parallelamente all’affermarsi dell’eziologia organica, la malattia mentale non è più identificata con i disturbi dell’intendimento, ma comincia a essere considerata nel quadro più ampio dei disturbi dell’istinto e della volontà. In particolare, 7. R. Castel, L’ordine psichiatrico, cit. 8. J. Postel, “La démence précoce et la psychose maniaco-dépressive”, in J. Postel, C. Quétel (a cura di), Nouvelle histoire de la psychiatrie, cit. 9. M. Foucault, Il potere psichiatrico. Corso al Collège de France (1973-1974), a cura di J. Lagrange, trad. di M. Bertani, Feltrinelli, Milano 2004; R. Castel, L’ordine psichiatrico, cit.
186
Post
“Una società terribile” PIER ALDO ROVATTI
L’
espressione “una società terribile” conclude in modo inquietante il testo del 1978 di Michel Foucault (ripubblicato in questo fascicolo di “aut aut”) sulla nozione di individuo pericoloso. Vorrei qui cercare di farne emergere alcune implicazioni che potrebbe avere per noi, oggi. Prima, però, è necessario ricordare brevemente il contesto discorsivo in cui essa compare. Foucault sta studiando come si sviluppa nell’Ottocento l’idea di pericolosità nell’accezione specifica di “individuo pericoloso”, e alla fine osserva l’esitazione del diritto penale a spostarsi dalla punibilità solo oggettiva (il crimine effettivamente compiuto) a una punibilità modulata anche sulla base di ciò che gli autori del delitto “sono o sono supposti essere”. Esitazione comprensibile, visto che si trattava di mettere in discussione il principio giuridico-morale che aveva ispirato tutta la penalità moderna, non importa – osserva Foucault – quanto di “utopico” contenesse il fatto di ritenerlo un principio esclusivo. Così, “è in modo insidioso, lento, frammentato, dal basso, che si organizza una penalità su ciò che si è”. È stato necessario un secolo – conclude Foucault – perché la nozione di individuo pericoloso venisse accettata dal pensiero giuridico e diventasse un elemento centrale nelle perizie psichiatriche. Ciò nonostante, il diritto stenta ancora ad accoglierla, perché? Forse perché – nonostante il bisogno di giudicare o di credere di giudicare gli uomini per quello che sono – si ha paura che così potrebbe prodursi “una società terribile”. Da qui, d’altronde, cominciava a interrogarsi Foucault fin dalle prime righe di questo suo testo: ma già in precedenza e poi insistentemente in diverse occasioni successive, il silenzio opposto dall’imputato alla aut aut, 370, 2016, 193-195
193