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371 settembre 2016

Bernard Stiegler Per una farmacologia della tecnica a cura di Paolo Vignola e Sara Baranzoni

Premessa 3 Paolo Vignola L’animale proletarizzato. Stiegler e l’invenzione della società automatica 16 Carlo Molinar Min, Giulio Piatti Stiegler e l’individuazione “social” 31 Riccardo Fanciullacci Oltre l’apocalisse. Tecnica, storia e conflitto politico nel pensiero di Stiegler 46 Sara Baranzoni La funzione della ragione. Per non divenire folli nella società automatica 61 Francesco Vitale Politiche dell’attenzione. La scrittura performativa di Stiegler 75 Pietro Montani Schematismo tecnico e immaginazione interattiva 90 Antonio Lucci Antropotecnica e Negantropocene: un confronto tra Sloterdijk e Stiegler 105 Bernard Stiegler Negantropologia dell’Antropocene. Il pensiero come biforcazione 119 Bibliografia di Bernard Stiegler 136 INTERVENTI Edoardo Greblo Niente altro che esseri umani Antonello Sciacchitano Verso una psicoanalisi del soggetto collettivo Paolo Godani Per un’archeologia del carattere

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Premessa

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iò che Derrida, poco prima degli eventi del 1968, aveva annunciato in Della grammatologia, ossia il sorgere di una scrittura generalizzata in grado di scardinare e rivoluzionare tanto i fondamenti epistemici quanto le relazioni sociali, sembra compiersi oggi sotto le sembianze esacerbate delle società di controllo descritte da Deleuze agli inizi degli anni novanta. Le trasformazioni indotte dalle tecnologie digitali, che paiono annunciarsi “nella forma dell’assoluto pericolo”,1 riguardano sempre più aspetti della vita psichica e sociale, ormai in quasi ogni parte del globo. In tale situazione, nulla delle grandi teorie critiche e decostruttive del Novecento può essere messo da parte, né tanto meno le analisi sulle macchine presenti nei Grundrisse di Marx e la sintomatologia della decadenza di Nietzsche, ma occorre riarticolare tali prospettive in funzione di una ricognizione accurata del milieu tecnico e sociale odierno, in cui tutti i suoi elementi sembrano entrare in crisi, a partire dalle forme di governance neoliberali. È in questa direzione che si muove il lavoro di Bernard Stiegler, il quale, riformulando il ruolo della tecnica nella costituzione dell’umano e nello sviluppo della società occidentale, propone un’interpretazione della filosofia novecentesca per il ventunesimo secolo, attraverso una sua rilettura radicale, ossia finalizzata 1. J. Derrida, Della grammatologia (1967), trad. di R. Balzarotti et al., Jaca Book, Milano 1998, p. 22.

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a far emergere le condizioni tecno-logiche del pensiero e del sociale, a suo vedere quasi sempre rimosse o lasciate insolute dalle stesse prospettive teoriche da cui egli prende spunto. Per il filosofo francese è infatti solo a partire dalla consapevolezza di tali condizioni che può essere sviluppata una risposta politica ai disagi del presente. L’invenzione della tecnica In La technique et le temps 1. La faute d’Epiméthée,2 Stiegler sostiene che il ruolo della tecnica, rimosso da tutta la storia della filosofia in favore della purezza della vita e dell’episteme, sia quello di formare l’orizzonte dell’esistenza umana, non solo contribuendo all’antropogenesi, ma, da un lato, aprendo la questione stessa della temporalità e, dall’altro, nel suo essere “la prosecuzione della vita con altri mezzi rispetto alla vita”,3 indicando una possibilità ulteriore dell’uomo rispetto all’evoluzione darwiniana e alla selezione naturale. Ne consegue che, da un lato, l’umanità non può più essere pensata come il “soggetto” della storia e che, dall’altro, la tecnica non è un semplice mezzo per realizzare quest’ultima, poiché l’uomo e la tecnica sono da sempre presi in un rapporto di coevoluzione, a partire dalla scheggiatura della selce fino ai computer. L’operazione di Stiegler nei confronti dell’intera tradizione del pensiero, filosofico, politico e antropologico, in buona misura supportata dall’analisi di Derrida, suo maestro, si rende allora palese proprio nel libro che li vede come co-autori, Ecografie della televisione. L’obiettivo è, letteralmente, teleologico, nel senso di una decostruzione della teleologia: “Nella tradizione occidentale, praticamente finora, la tecnica è stata pensata essenzialmente sotto la categoria del mezzo, ovvero come pura strumentalità che non partecipa in se stessa alla costituzione dei fini”.4 2. B. Stiegler, La technique et le temps 1. La faute d’Epiméthée, Galilée, Paris 1994. La technique et le temps è la serie di libri (tre volumi pubblicati, ma ne sono previsti almeno altri tre) che rappresenta l’esposizione più sistematica del pensiero di Stiegler. 3. Ivi, p. 135. 4. J. Derrida, B. Stiegler, Ecografie della televisione (1996), trad. di L. Chiesa, Raffaello Cortina, Milano 1996, p. 67.

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Dalla fenomenologia trascendentale di Husserl all’analitica esistenziale di Heidegger, dalla paleo-antropologia di LeroiGourhan alla storia greca di Vernant e Detienne, dalla différance e dalla logica del supplemento di Derrida al processo d’individuazione di Simondon e ai sistemi tecnici di Bertrand Gille, la rete tessuta da Stiegler ha il compito di sostenere la tesi che pone la tecnica non più come strumento atto a realizzare i fini dell’uomo stabiliti a monte, bensì come co-protagonista dell’antropogenesi e della civilizzazione. Se la critica all’antropologia filosofica che ne deriva ha come sfondo la prospettiva derridiana della traccia, della différance e del supplemento, il movente etico-politico di questa filosofia della tecnica ha origine dalla constatazione di una generale impreparazione teorica ad analizzare la portata sociale delle tecnologie attuali e la loro progressiva accelerazione innovativa. L’obiettivo è allora quello di ritornare alle origini dell’uomo, o meglio al suo difetto d’origine,5 per ripensare le basi dell’epistemologia, dell’economia e della politica, così come della teoresi, a partire da una tecnicità originaria – unica chiave di lettura, secondo Stiegler, per poter al tempo stesso interpretare e trasformare la società contemporanea nell’ottica di una “organologia generale”, da intendersi nel senso di una riformulazione del materialismo e della sua opposizione all’idealismo come nuova critica dell’ideologia e dell’economia politica.6 Sul piano dell’interpretazione, strettamente legato a tale ripensamento, il cammino che Stiegler prova a tracciare con la serie La technique et le temps può essere definito post-fenomenologico, nella misura in cui il concetto principale, ossia la ritenzione terziaria, è volto a mostrare come le condizioni di possibilità della coscienza e della sua temporalità si fondino su un’esteriorizzazione materiale, ottenuta mediante un supporto fisico di memoria, che, condizionando sempre e già da sempre 5. B. Stiegler, La technique et le temps 1, cit., p. 188. 6. L’organologia generale è l’analisi delle relazioni reciproche e di co-evoluzione tra gli organi o apparati psico-fisiologici, gli organi o artefatti tecnici e le organizzazioni sociali.

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L’animale proletarizzato. Stiegler e l’invenzione della società automatica PAOLO VIGNOLA

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differenza di molti critici radicali della società contemporanea, Bernard Stiegler, pur impegnato costantemente nella denuncia degli effetti tossici delle tecnologie sulla vita sociale – appartenendo così a tale insieme di pensatori –, non può essere considerato né tecnofobico né desideroso di salvaguardare una purezza originaria dell’uomo rispetto all’ambiente tecnologico nel quale esso si trova immerso. Un aspetto infoderato nel titolo del suo libro La société automatique permette di cogliere il singolare posizionamento dell’autore, tanto nei confronti dei suoi contemporanei, quanto dei suoi intercessori. Se il tema a cui la società automatica fa riferimento, come risultato di un capitalismo totalizzante, è sicuramente posto in linea con quello della società dello spettacolo (Debord), delle società di controllo (Deleuze) e della governamentalità algoritmica (Rouvroy e Berns), un particolare essenziale contraddistingue l’obiettivo di Stiegler. Il problema per il filosofo francese non è quello di analizzare i rischi, i disagi e i problemi di tale società da lui definita appunto automatica, se non per mostrare che, alla lettera, essa non esiste. Ciò che Stiegler descrive e denuncia è inPaolo Vignola, PhD in filosofia, studioso di filosofia francese contemporanea e di filosofia della tecnologia, è attualmente ricercatore universitario Prometeo presso il ministero dell’Istruzione superiore e della ricerca dell’Ecuador.

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fatti una “dis-società”1 basata su algoritmi e automatismi tecnologici, dove il sociale, inteso à la Simondon come individuazione collettiva e trans-individuazione, viene tendenzialmente, ma sistematicamente, annichilito. Dove risiede, allora, la differenza rispetto agli altri critici radicali? Sognare nel nichilismo La dis-società automatica è descritta da Stiegler come il compimento digitale del nichilismo nietzschiano e gemellata con l’Antropocene, ossia la supposta nuova era geologica in cui l’uomo sarebbe diventato il principale fattore di trasformazione delle condizioni di vita globali. Se tale processo di antropizzazione del mondo, iniziato con la rivoluzione industriale, rappresenta la “svalutazione di tutti i valori […] concretizzatasi come l’età del capitalismo planetarizzato”,2 il motivo risiede nel filo conduttore della mathesis universalis che, in un divenire tecnico incessante, dalla meccanica guida l’umanità verso l’automazione integrale della società automatica su base algoritmica. In tal senso, sebbene il concetto di Antropocene sia stato tanto sviluppato quanto decostruito da diversi autori,3 l’originalità dell’approccio di Stiegler risiede nel porlo in relazione sia con la governamentalità algoritmica di Thomas Berns e Antoinette Rouvroy, come controllo e anticipazione computazionali dei comportamenti, sia con il capitalismo 24/7 impiegato da Jonathan Crary per descrivere lo sfruttamento delle facoltà fisiologiche e psichiche degli individui, 24 ore al giorno, 7 giorni alla settimana, fino alla tendenziale scomparsa del sonno libero dall’estrazione di valore.4 Ciò significa un sistematico annichilimento della facoltà protensionale, tanto conscia quanto inconscia, fino 1. B. Stiegler, La société automatique, vol. I: L’Avenir du travail, Fayard, Paris 2015, p. 178. 2. Ivi, pp. 24-25. 3. Per una presentazione generale del termine, cfr. P.J. Crutzen, Benvenuti nell’Antropocene, a cura di A. Parlangeli, Mondadori, Milano 2005. Un’ottima ricognizione critica è presente in T. Cohen, C. Colebrook, J. Hillis Miller, Twilight of the Anthropocene Idols, Open Humanities Press, London 2016. 4. Cfr. J. Crary, 24/7. Late Capitalism and the End of Sleep, Verso, New York 2013.

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all’incapacità da parte degli individui di proiettare, ossia di immaginare, sognare e inventare un futuro collettivo. Ecco dunque realizzarsi, agli occhi di Stiegler, il nichilismo prefigurato da Nietzsche,5 relativo al livellamento delle differenze e alla volontà del nulla, che si traduce nell’annichilimento progressivo dei processi di individuazione psichica e collettiva, alla base dell’avvenire di una società. Tale annichilimento, che riguarda infine la stessa volontà collettiva e consiste nell’indebolimento dei legami sociali e dei saperi condivisi, è concepito come il risultato di un rapporto entropico tra apparati psico-fisiologici, sistemi tecnici e istituzioni sociali. Piuttosto che metafisico, il nichilismo stiegleriano è organologico, dettato cioè da un disaggiustamento del rapporto tra gli organi psicofisiologici, gli organi artificiali e le organizzazioni sociali.6 Ora, l’annichilimento della volontà come perdita di immaginazione del futuro e il livellamento delle differenze biologiche e culturali sono tra le caratteristiche essenziali dell’Antropocene. Per Stiegler, a legare questi due aspetti è il rapporto tra tecnica ed entropia che si manifesterebbe tanto sul piano geofisico e biologico, quanto su quello sociale: La tecnica è un’accentuazione della neghentropia, nel senso che è un agente di incremento della differenziazione […]. Ma essa è, al tempo stesso, un’accelerazione dell’entropia, non solo perché è sempre in qualche modo un processo di combustione e di dissipazione di energia, ma poiché la standardizzazione industriale sembra condurre l’Antropocene contemporaneo alla possibilità di una distruzione della vita in quanto sviluppo e proliferazione di differenze – come biodiversità e sociodiversità.7 Se quindi la globalizzazione neoliberale sta distruggendo la biodiversità con l’inquinamento e la devastazione degli habitat, le tecnologie del capitalismo cognitivo accelerano l’omogeneizza5. Stiegler si riferisce spesso a F. Nietzsche, Frammenti postumi 1887-1888, in Opere, trad. di S. Giammetta, Adelphi, Milano 1971, vol. III, tomo II, 362 [119]. 6. B. Stiegler, La société automatique 1, cit., p. 167. 7. Ivi, p. 31.

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Stiegler e l’individuazione “social” CARLO MOLINAR MIN GIULIO PIATTI

1. Pharma.com: ricordare il futuro e trasformare il presente Quando nel 1995 uscì il film diretto da Robert Longo, Johnny Mnemonic, chi scrive non aveva ancora sufficiente cognizione per cogliere il valore storico del distopico straniamento che la cinematografia sci-fi aveva allora escogitato al fine di immaginare futuri iper-tecnologici. Non potevamo ancora sapere che cosa si sarebbe installato di lì a poco all’orizzonte. Oggi, però, a vent’anni abbondanti di distanza, ritornando sulla sceneggiatura di William Gibson e sull’omonimo racconto del 1981,1 possiamo azzardare valutazioni retrospettive intorno al peso di quelle proiezioni narrative. Ci siamo allora domandati che cosa renda questa storia uno straordinario reperto della nostra epoca. È vero, il pensiero filosofico degli ultimi due decenni non ha di certo esitato ad addentrarsi nel vasto ed eterogeneo ambito di temi aperto dagli eccezionali mutamenti nel campo della ricerca digitale. Tuttavia, anche considerando le migliori tra le articolate e ben ponderate indagini filosofiche, notiamo una significativa difficoltà nell’adeguare i propri mezzi riflessivi alle velocità Carlo Molinar Min svolge attività di ricerca presso l’Università di Torino. Si occupa prevalentemente di filosofia contemporanea di area francese e tedesca. È membro fondatore e redattore del progetto editoriale “Philosophy Kitchen”. Giulio Piatti è dottorando in Scienze filosofico-sociali presso l’Università di Roma Tor Vergata, in co-tutela con l’Università di Toulouse Jean Jaurès. Il suo progetto di ricerca verte sulla questione dell’impersonale tra Bergson e Deleuze. (Il primo e il terzo paragrafo dell’articolo sono stati scritti da Carlo Molinar Min, il secondo e il quarto da Giulio Piatti.) 1. W. Gibson, La notte che bruciammo Chrome (1986), trad. di D. Zinoni, Mondadori, Milano 1993, pp. 13-39.

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con cui si muovono e trasformano i fenomeni trascinati dai flussi digitali. Del resto, come sovente è accaduto nella storia della civilizzazione e delle sue autodescrizioni, è stata proprio la letteratura posta sotto l’egida dell’immaginazione – anche la più fervida – a venire in soccorso alle lentezze dell’otium philosophicum, conducendo in molti casi a previsioni ben calibrate. Questo è senz’altro il caso di Johnny Mnemonic, nel quale i temi e i risvolti della presente congiuntura storica vengono fotografati e previsti con stupefacente sensibilità. Ora, a colpire non è soltanto l’acume visionario, capace di anticipare scenari sino ad allora impensabili. La sua efficacia emerge bensì nell’individuare e poi nel penetrare il senso di problemi specifici, che solo questa precisa svolta storica avrebbe potuto produrre. Intorno al 1995, data di uscita della trasposizione cinematografica del racconto di Gibson, in ambito strettamente filosofico si assisteva a un generalizzato infiacchimento del tono speculativo e della presa sull’attualità: l’onda lunga della teoria critica francofortese, così come l’esausta ermeneutica di lignaggio heideggeriano e gli ultimi colpi di coda dei post-strutturalismi, non sembravano cogliere l’urgenza della rivoluzione digitale, la cui reale portata, evidentemente, restava ancora impercepibile al lavoro del concetto. In questo panorama, tuttavia, il filosofo francese Bernard Stiegler aveva già iniziato a gettare le basi della sua filosofia della tecnica, in tempestiva sintonia con quello che noi, ex post, identifichiamo agevolmente con l’inizio dello Zeitgeist digitale. Il suo testo La technique et le temps, pubblicato nel 1994, segue di poco la decisione da parte del CERN di Ginevra di estendere a un uso pubblico la tecnologia del WWW (World Wide Web), ideata due anni prima dall’informatico inglese Tim Berners Lee. Pur rimanendo fortemente legato alle circostanze del dibattito filosofico dell’epoca, La technique et le temps può a giusto titolo essere considerato un testo di rottura, sia dal punto di vista metodologico che per la radicalità delle tesi proposte. Addirittura, come vedremo meglio in seguito, le idee e le intuizioni contenute in nuce in quest’opera anticipano con precisione 32


“fantascientifica” le conseguenze, positive e deleterie, di quanto nel 1994 poteva essere avvertito soltanto per avvisaglie e presentimenti. Ma chi è Johnny Mnemonic? Gibson lo descrive come un “corriere mnemonico” errabondo, una specie di sofista postumano che commercia informazioni sensibili, immagazzinate all’interno di una memoria artificiale impiantata nel suo cervello. Questa volta, però, la missione che Johnny deve compiere è di importanza capitale: stando alla versione cinematografica, un gruppo di ribelli ha caricato nella sua memoria di silicio la cura per il NAS (Nerve Attenuation Syndrome), la patologia epidemica che sta indebolendo e facendo precipitare la popolazione sotto il definitivo controllo delle Corporations. Al di là dell’ingenuità dello schema pro bono, contra malum che – soprattutto nel film – risulta funzionale alla fluida e ordinata articolazione delle scene, l’avvicendarsi manicheo dei LoTeks (Low-Technology) e della multinazionale, curiosamente chiamata Pharmakom, pone in risalto alcuni aspetti interessanti. Al netto della scorza distopica caratteristica del discorso fantascientifico, le prospettive di Stiegler e di Gibson sono avvicinabili su almeno tre punti essenziali. 1. Secondo Gibson, al pari di Stiegler, la natura dell’oggetto tecnico – di qualsiasi foggia esso sia – non è costitutivamente né buona né cattiva, e va ricercata nella specificità delle sue declinazioni storiche, a partire dalle modalità attraverso cui le “tendenze tecniche” attualmente egemoni l’hanno collocata nella posizione e nel ruolo di “fatto tecnico”.2 Nel caso dell’epoca del digitale – così come in quelle precedenti del libro e della selce scheggiata – l’oggetto tecnico è dunque derridianamente concepito come pharmakon, ossia come realtà sempre suscettibile di produrre esiti contrastanti, tanto vantaggiosi quanto tossici.3 Johnny, nella sua ambiguità di uomo-macchina, assume questa dupli2. B. Stiegler, La société automatique 1. L’Avenir du travail, Fayard, Paris 2015, pp. 174-175. 3. Id., Pharmacologie du Front national, suivi de “Vocabulaire d’Ars Industrialis” par Victor Petit, Flammarion, Paris 2013, pp. 421-422.

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Oltre l’apocalisse. Tecnica, storia e conflitto politico nel pensiero di Stiegler RICCARDO FANCIULLACCI

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Tutti i libri, e sono più di trenta, che Bernard Stiegler ha pubblicato si raccolgono intorno a un progetto fortemente unitario. Ne sono una prova i frequenti rimandi tra l’uno e l’altro, che non di rado diventano addirittura rinvii a volumi non ancora scritti. Eppure questi libri non si dividono il lavoro come se a ciascuno toccasse l’esposizione di una parte diversa di uno stesso sistema già definito. Piuttosto, il progetto alla cui realizzazione tutti contribuiscono viene ogni volta sottoposto a una nuova formulazione e definizione, a una nuova individuazione. Questa nozione tecnica nel lavoro di Stiegler (e a sua volta ripresa da Gilbert Simondon) serve anche a designare il più profondo rapporto che si può intrattenere con un concetto o una teoria: non la sua conservazione o ripetizione, bensì un’attività da cui quel concetto e quella teoria escono ulteriormente determinati, per esempio perché posti in relazioni precise con altri concetti da cui prima erano tenuti isolati. L’unità dell’opera di Stiegler sta nel fatto che ogni volta viene rilanciata, attraverso una nuova appropriazione e un approfondimento, la stessa sfida teorica avanzata la prima volta vent’anni fa. Questo comporta, tra l’altro, che è dall’altezza cui è giunto il primo (e per ora ancora unico) tomo

Riccardo Fanciullacci, assegnista post-doc in Filosofia morale dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, si è occupato, tra l’altro, di Guy Debord, Louis Althusser e Iris Murdoch.

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di La société automatique (2015)1 che bisogna rileggere gli scritti precedenti. 2. Una caratteristica di questo volume, che salta subito all’occhio, è il tono apocalittico che Stiegler spesso vi si concede, come quando afferma che lo stato di fatto in cui ci troviamo è la “disintegrazione totale”2 o che è molto prossimo a una “catastrofe incommensurabile che è un cataclisma entropico”3 o, ancora, che è uno stato di idiozia (bêtise) generalizzata.4 Questo tono apocalittico non è mai del tutto mancato nei suoi scritti, ma di recente si è accentuato.5 Ritengo che, per interpretarlo, lo si debba riferire non all’intenzione teorica ma all’altra, che contribuisce ad animare il lavoro di Stiegler: quella pratica. Questa demarcazione è resa necessaria dal fatto che, se le formule in cui si esprime quel tono fossero prese come parte del discorso teorico, genererebbero cortocircuiti di vario tipo. Il più evidente, sebbene non il più importante, su cui torneremo, può essere chiarito nel modo seguente. Prendiamo l’affermazione secondo cui “tutti noi diventiamo più o meno stupidi, se non del tutto idioti”;6 qualcuno vi riconoscerà immediatamente una lucida presa d’atto della nostra attuale condizione, ad altri susciterà una non meno immediata perplessità, se non una reazione di rigetto. Queste risposte, ovviamente legittime nella loro immediatezza, non hanno però a che fare con il lavoro del pensiero, il quale vorrà invece esaminare le prove su cui quell’affermazione si appoggia; salvo che, se quell’affermazione è presa nel suo senso ordinario, allora non può essere verificata in alcun modo perché il suo significato è troppo indeterminato (che cosa esattamente dovrebbe implicare, dal punto di vista empirico, l’ipotesi che sia1. B. Stiegler, La société automatique 1. L’Avenir du travail, Fayard, Paris 2015. Cfr. inoltre Id., Dans la disruption. Comment ne pas devenir fou, Les liens qui liberent, Paris 2016. 2. Id., La société automatique, cit, p. 115. 3. Ivi, p. 87. 4. Cfr. anche B. Stiegler, États de choc. Bêtise et savoir au XXIe siècle, Mille et une nuits, Paris 2012. 5. Cfr. per esempio Id., Ce qui fait que la vie vaut la peine d’être vécue. De la pharmacologie, Flammarion, Paris 2010, il cui primo capitolo si intitola “Apocalypse sans Dieu”. 6. Id., La société automatique, cit., p. 55.

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mo tutti idioti?), mentre, se è parafrasata con una formula tecnica, qualcosa che la teoria di Stiegler consente nella misura in cui introduce una definizione speciale di idiozia come perdita del savoir-faire, del savoir-vivre e del savoir-penser (tra cui il sapersi rapportare a idealità),7 allora l’affermazione citata non solo non suscita più reazioni immediate, ma soprattutto perde la sua generalità semplice: che cosa può voler dire che nessuno ha più quei saperi? Forse che non sono più coltivati? Se sì, dov’è esattamente che non sono più coltivati? In qualunque istituzione educativa o in tutte? In tutto il mondo (e ovunque allo stesso modo) oppure con delle differenze tra un paese e l’altro ecc.? Domande come queste non sono pedanti, sono il lavoro della ragione quando viene esercitato su una tesi che riguarda uno stato di fatto. Sono pedanti per chi vuole tenere il discorso sul piano in cui è legittimo il tono apocalittico e i netti contrasti di colore, cioè sul piano del discorso pratico. Un piano che Stiegler coltiva, ma su cui non situa l’intero suo lavoro. Per chiarire questo punto, conviene riprendere brevemente il progetto di Stiegler mettendo in primo piano la sua intenzione pratica. È come se Stiegler partisse dalla constatazione pre-teorica che c’è qualcosa che non va, che c’è del marcio nello stato di cose presente: c’è della sofferenza che dilaga nelle sfere più diverse dell’esperienza. Combattere o ridurre questa sofferenza è il fine pratico nella sua formulazione pre-teorica.8 Ma per perseguire tale fine occorre innanzitutto elaborare una diagnosi di quella sofferenza avvertita e constatata: occorre elaborare un quadro teorico che renda intelligibile la natura di quella sofferenza e di quel marcio. Questo quadro, nell’ottica di Stiegler, deve essere quanto mai ambizioso: deve includere una teoria di ciò che è storia, di ciò che è società, di ciò che è tecnica, di ciò che è agire e pensare ecc.9 Gettando sulla realtà la rete dei nuovi concetti ela7. Su questo è decisiva la trilogia Mécréance et Discrédit, Galilée, Paris 2004-2006. 8. Cfr. B. Stiegler, Pharmacologie du Front national, Flammarion, Paris 2013, pp. XI-XVIII. 9. Per un’ottima sintesi di questo quadro, P. Vignola, “La tecnica innanzitutto. Breve introduzione ai concetti di Bernard Stiegler”, in B. Stiegler, Platone digitale. Per una filosofia della rete, trad. di P. Vignola, Mimesis, Milano-Udine 2015, pp. 7-32.

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La funzione della ragione. Per non divenire folli nella società automatica SARA BARANZONI La filosofia comincia nella meraviglia. E in fondo, quando il pensiero filosofico ha fatto del suo meglio, la meraviglia rimane. A.N. Whitehead

Dei limiti di un’epoca dei limiti Quella che Stiegler racconta è la storia di una frattura. Una storia che può essere riassunta nel gioco eterno e processuale di due tendenze contrapposte, che potremmo identificare in generale come entropia e neghentropia,1 e del tentativo del sistema che le contiene di procedere verso un equilibrio, seppure metastabile, che ne costituisca il punto di negoziazione: un’epoca che, volendo usare un concetto whiteheadiano, costituisce una durata, in quanto unità temporale-esperienziale.2 Partendo dalla connotazione fenomenologica dell’epoché, che fa del rimbalzo tra il significato di “era” e quello di “sospensione” il metodo noetico per eccellenza, Stiegler ha cercato fin dall’inizio del suo percorso filosofico di descrivere un processo in cui, tra interruzioni e assestamenti durevoli, e dunque sempre per intermittenza, il vivente ha tentato di produrre una différance rispetto all’entropia.3 Ed è proprio l’attività noetica che deriva da un tale procedere ad aver attivato le tendenze neghentroSara Baranzoni, PhD in studi teatrali e cinematografici, studiosa di filosofia della tecnologia, è attualmente ricercatrice universitaria Prometeo presso il ministero dell’Istruzione superiore e della ricerca dell’Ecuador. 1. Stiegler si appoggia sulla nozione di neghentropia fornita da Schrödinger, ossia la tendenza complementare all’entropia, dominata da finalità e differenziazione, che produrrebbe stati di ordine anche se solo a livello locale e temporaneamente (restando la tendenza entropica quella globale). Cfr. E. Schrödinger, Che cos’è la vita? La cellula vivente dal punto di vista fisico (1944), trad. e cura di M. Ageno, Adelphi, Milano 1995. 2. Cfr. A.N. Whitehead, Il concetto di natura (1920), trad. di M. Meyer, Einaudi, Torino 1948. 3. Il concetto di différance fa parte di quell’eredità derridiana che Stiegler riprende e

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piche sul piano psicosociale. Siamo però ben lontani dal supporre un’essenza basata sull’io penso o sull’intenzionalità di una coscienza: come si cercherà di precisare in seguito, secondo Stiegler il pensiero arriva unicamente in un secondo tempo rispetto alla temporalità dell’esperienza, la quale, a sua volta, si presenta come esperienza del caos in relazione alle differenti fasi tecniche del divenire.4 È cercando un po’ d’ordine che il pensiero si muoverà, e che il piano dell’individuazione psichica, così come quello dell’individuazione collettiva, potranno armonizzarsi con il piano dell’individuazione tecnica,5 in un procedere d’insieme che Stiegler definisce transindividuazione. Ebbene, afferma il filosofo francese, negli ultimi decenni della storia di questo procedere dettato dalla tecnica si è andata creando una spaccatura, determinata dall’effetto dirompente, o addirittura disruptivo, di un divenire ormai slegato da ogni preoccupazione organologica – rispetto cioè al legame fra i tre piani.6 Una nuova accelerazione della tendenza entropica che, proprio a causa della sua origine antropica, è oggi sempre più spesso identificata sotto il termine Antropocene, in quanto epoca-limite, per l’umano e non solo. Secondo Stiegler, l’Antropocene sarebbe il prodotto di una disinibizione che permette al sistema economico vigente di fomentare l’iper-accelerazione dell’innovazione tecnologica senza alcuna regolazione o pianificazione a lungo termine,7 aumentanallo stesso tempo trasforma, proprio attraverso l’affermazione del ruolo della tecnica. Cfr. B. Stiegler, La technique et le temps 1. La faute d’Épiméthée, Galilée, Paris 1994. 4. La concezione del tutto personale e distaccata da quella della tradizione post-strutturalista francese che Stiegler ha del termine “divenire” è indicativa di un procedere quasi automatico del flusso evolutivo, specialmente tecnologico, in quanto non deviato (non biforcato) da alcun tipo di differenza (o selezione artificiale) impressa dalla volontà collettiva, ossia in assenza di spinte protensionali che lo trasformino in un desiderio per il futuro (avenir). Cfr., tra gli altri, B. Stiegler, Dans la disruption. Comment ne pas devenir fou, Les liens qui libèrent, Paris 2016, p. 66. 5. Il concetto di individuazione è presentato da Stiegler con esplicito riferimento a Simondon, sebbene allargato anche al piano tecnico. Cfr. B. Stiegler, La technique et le temps 1, cit. Tutti insieme, i tre piani compongono quella che Stiegler ha definito un’“organologia generale”. 6. Cfr. B. Stiegler, La société automatique 1. L’Avenir du travail, Fayard, Paris 2015. 7. Ivi, p. 176.

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do così il ritmo della distruzione consumistica del mondo. Tale incuria, che in La société automatique è associata al capitalismo 24/7 e alla governamentalità algoritmica8 – ossia allo sfruttamento senza ritegno delle tracce digitali, come strumento di marketing iper-pervasivo e come dispositivo di controllo e gestione dei comportamenti attraverso la loro prevedibilità statistica –, è per Stiegler l’espressione contemporanea di quella particolare concezione di ragione razionalizzante che del capitalismo costituisce lo spirito.9 Già in passato Stiegler aveva esaminato come l’accoppiamento tra iper-capitalismo e neuro-marketing da una parte, e la condizione di miseria simbolica, con la conseguente perdita della capacità di sentire, e dunque del sentimento di esistere o della ragione di vivere dall’altra, generasse azioni letteralmente folli.10 Ma ciò che oggi appare ai suoi occhi maggiormente preoccupante è la potenza con cui tali fenomeni si sono fatti strada. La sinergia tra ipertrofia del mercato e nullità delle strategie politiche attuali, perfettamente declinata nel refrain neoliberale del “There is no alternative”, ha assecondato la diffusa incapacità di sviluppare collettivamente sogni, desideri e volontà, così come di esprimerli, proiettandoli in un avvenire possibile: e dunque, eliminando qualsiasi protensione collettiva intergenerazionale e transgenerazionale che non sia totalmente apocalittica.11 Ciò ha spinto non solo la società, ma anche il pensiero – inteso sia come il pensiero dell’aristotelica anima noetica, che più in generale come sistema di pensiero, ossia la filosofia in quanto tale – a loro 8. Ivi, p. 34. Le analisi di Stiegler in questo senso si ispirano esplicitamente ai lavori di Jonathan Crary (24/7. Il capitalismo all’assalto del sonno, 2013, trad. di M. Vigiak, Einaudi, Torino 2015) e Antoinette Rouvroy (cfr. in particolare A. Rouvroy, T. Berns, Gouvernementalité algorithmique et perspectives d’émancipation: le disparate comme condition d’individuation par la relation?, “Réseaux”, 177, 2013, pp. 163-196). 9. Cfr. M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1905-06), trad. di A.M. Marietti, Rizzoli, Milano 1997. 10. Si vedano in particolare due tra le “serie” stiegleriane dei primi anni duemila: quella sulla miseria simbolica (ora edita congiuntamente in De la misère symbolique, 2 voll., Flammarion, Paris 2013), e quella su Mécréance et Discrédit, i cui tre volumi (editi presso Galilée, Paris) sono stati pubblicati tra il 2004 e il 2006. 11. B. Stiegler, Dans la disruption, cit., p. 26.

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Politiche dell’attenzione. La scrittura performativa di Stiegler FRANCESCO VITALE

“F

ais attention!”1 – questa ingiunzione, “fai attenzione!”, che Stiegler rivolge al lettore di Pharmacologie du Front national, potrebbe essere considerata il movente che orienta la sua produzione testuale, esplicitamente quella più recente, almeno a partire dalla costituzione dell’associazione Ars Industrialis,2 condizionandone non solo le coordinate tematiche e le strategie interpretative ma anche la struttura, il ritmo, il tenore. La produzione testuale di Stiegler sarebbe dunque performativamente orientata, e quindi strutturata, dalla stessa ingiunzione che rivolge al lettore che, in questo modo, vi si ritrova coinvolto, inscritto: la scrittura filosofica di Stiegler, infatti, non si limita a richiedere per sé un’attenzione ermeneutica di tipo tradizionale – comprensione “oggettiva” di contenuti teorici “oggettivi”, assimilati innanzitutto passivamente e in modo impersonale – ma suFrancesco Vitale insegna Storia delle dottrine estetiche presso l’Università di Salerno. Il suo lavoro riguarda la filosofia francese contemporanea e in particolare l’opera di Derrida, al quale ha dedicato numerosi saggi e volumi. 1. B. Stiegler, Pharmacologie du Front national. Suivi du Vocabularie d’Ars Industrialis par Victor Petit, Flammarion, Paris 2013, p. 15. 2. Ars Industrialis è “un’associazione internazionale per l’ecologia industriale dello spirito” che coniuga critica teorica, proposta programmatica e invenzione di strumenti tecnologici di fruizione pedagogica e intellettuale. Il primo manifesto dell’associazione risale al 2005 ma è a partire dal 2010 che l’associazione orienta esplicitamente le proprie attività al contrasto della crisi globale in corso. Cfr. B. Stiegler, Ars Industrialis, Réenchanter le monde. La valeur esprit contre le populisme industriel, Flammarion, Paris 2006; trad. a cura di P. Vignola, Reincantare il mondo, Orthotes, Napoli-Salerno 2012.

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bordina questo tipo tradizionale di lettura all’attenzione che pretende di suscitare nel lettore; un’attenzione “attiva”, si potrebbe dire, e cioè tale che deve farsi presa di coscienza individuale e quindi decisione responsabile rispetto a ciò che accade: “Fare attenzione, vale a dire, prenderci le nostre responsabilità”.3 Si tratta – questa la nostra ipotesi – di una scrittura performativa che, all’ordine dell’ingiunzione “fai attenzione!” e dell’urgenza che sembra implicare come tale, è necessariamente, strutturalmente, orientata alla prassi, deve farsi pratica, precipitarsi in effetti concreti,4 per giustificarsi quale teoria: “Fare attenzione: questo titolo all’infinito richiama un imperativo. Il passaggio dall’infinito all’imperativo (che è anche un passaggio dal teorico al pratico), imponendosi in questo momento critico in cui ogni passo conta, è un ingiunzione: Fai attenzione!”.5 Si potrebbe dunque estendere, se non a tutta la produzione testuale di Stiegler, almeno a quella più recente, lo statuto che lo stesso Stiegler attribuisce a Pharmacologie du Front national, in virtù del quale la si dovrebbe intendere come produzione di strumenti di lotta che richiedono la loro pratica e non solo una semplice lettura: Quest’opera è uno strumento. È stato concepito come tale – e in vista di condurre delle lotte. Come ogni strumento, bisogna praticarlo. E come ogni strumento, dovrebbe istruire quelli che lo praticano: attraverso le sue pratiche, lo strumento tende a istruire un aspetto del mondo che i suoi praticanti hanno in comune e soprattutto fanno in comune.6 Dunque, non si può non prestare la dovuta attenzione a questa ingiunzione – “Fai attenzione!” – se si vuole provare a rendere conto del lavoro di scrittura di Stiegler e in particolare della sua irriduci3. B. Stiegler, Pharmacologie du Front national, cit., p. 14. 4. “Precipitazione” da intendersi sia come effetto di una reazione chimica, sia come tempo dell’agire dettato dall’urgenza di ciò che in pratica si deve fare. 5. B. Stiegler, Pharmacologie du Front national, cit., p. 16. 6. Ivi, p. XI.

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bile condizione performativa. D’altra parte, l’attenzione costituisce la vera e propria posta in gioco delle lotte alle quali questo lavoro di scrittura vuole preparare: bisogna fare attenzione all’attenzione, perché l’attenzione, la nostra attenzione, è oggi minacciata più che mai dallo sfruttamento commerciale delle tecnologie del digitale da parte del marketing strategico e in particolare da parte delle “industrie di programmi” e di intrattenimento (dalla televisione ai vari social network e relativi supporti mobili), all’ordine di un unico principio – il consumo – la cui legge domina incontrastata nonostante la crisi economica che pure ha contribuito a produrre: Quanto alla crisi attuale, che è già così complessa e vasta, così immensa, bisogna inoltre e perfino innanzitutto fare attenzione all’attenzione: bisogna fare attenzione alle condizioni stesse della formazione dell’attenzione in generale, quali che siano la sua forma e i suoi oggetti, e a ciò che minaccia e rende fragili queste condizioni nel momento in cui l’attenzione è diventata la posta principale dell’economia planetaria – la sua captazione sistematica avendo condotto alla sua fragilità, se non alla sua distruzione. La minaccia contro l’attenzione, che è una iperminaccia nella misura in cui rovina ogni possibilità di presa di coscienza e di responsabilità, di ciò che permette di immaginare un’uscita dalla crisi iper-sistemica, è la dimensione essenziale e specifica di ciò che costituisce un’iper-crisi. E questo stato di fatto risulta dalla dominazione sull’economia mondiale di un sistema speculativo che sfrutta a sua volta un sistema consumista basato sulla disattenzione, l’obsolescenza, la gettabilità, l’imprevidenza, il “menefreghismo” e l’incuria.7 Da questo punto di vista, il discorso di Stiegler si inscrive nella tradizione della critica dei mezzi di comunicazione di massa quali strumenti di condizionamento sociale. Una tradizione che potremmo far risalire a Walter Benjamin, alla sua attenzione per la “distrazione” quale condizione psicologica indotta dalla fruizione 7. Ivi, p. 6.

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Schematismo tecnico e immaginazione interattiva PIETRO MONTANI

1.

Nel terzo capitolo di La société automatique,1 intitolato “La destruction de la faculté de rêver”, Bernard Stiegler apre un dettagliato confronto con alcune delle tesi sostenute da Jonathan Crary nel suo fortunato pamphlet 24/7.2 Si tratta di una discussione piuttosto importante non solo per i suoi contenuti – su uno dei quali mi propongo di intervenire qui in modo tematico –, ma anche perché si costituisce come un’occasione per ribadire efficacemente una differenza di orientamento tra la filosofia della tecnica di Stiegler e gli innumerevoli pronunciamenti, di volta in volta apocalittici o apologetici, sulle implicanze antropologiche della rivoluzione digitale, nei quali, con poche eccezioni, l’altissima posta filosofica in gioco nell’attuale modo di essere della tecnica viene minimizzata o ignorata del tutto. La differenza, di fondo e irriducibile, consiste in questo: che la filosofia della tecnica di Stiegler si caratterizza per il suo radicale orientamento “farmacologico”, secondo la ben nota accezione del termine che designa al tempo stesso il carattere tossico del pharmakon e il suo potere terapeutico. Da questo punto di vista, Crary Pietro Montani insegna Estetica all’Università La Sapienza di Roma. Curatore dell’edizione italiana dei testi teorici di Ejzenštejn e Vertov, il suo attuale campo di interesse è la filosofia della tecnica. 1. B. Stiegler, La société automatique 1. L’Avenir du travail, Fayard, Paris 2015. 2. J. Crary, 24/7. Il capitalismo all’assalto del sonno (2013), trad. di M. Vigiak, Einaudi, Torino 2015.

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coglie aspetti importanti e del tutto qualificanti della rivoluzione digitale – come, in primo luogo, il suo carattere di “mobilitazione totale”3 – ma poi non riesce a impegnare lo sforzo di pensiero necessario per metterne in luce il profilo affermativo e le concrete opportunità di carattere emancipativo: vale a dire quell’importo potentemente “neghentropico” che, invece, sta a cuore a Stiegler per il buon motivo che si tratta dell’unica chance di cui l’essere umano potrebbe ancora avvalersi nel momento in cui l’“antropocene” dà segni di essere divenuto un “entropocene”, un’epoca di devastante disorientamento entropico. Ho corsivato l’aggettivo “concrete” per enfatizzare un onere specifico connesso col versante terapeutico e affermativo del pharmakon tecnico: se gli apocalittici se la possono cavare con diagnosi più o meno raffinate e inquietanti e gli apologeti con la prefigurazione di esaltanti scenari avveniristici, lo sforzo di pensiero dei filosofi della tecnica in senso rigoroso è tenuto a onorare con particolare cura il principio dell’adeguatezza empirica che investe ogni teoria meritevole di questo nome. È in questo quadro che vorrei provare a mantenere, per quanto è possibile, il mio contributo. Ciò giustificherà, mi auguro, il suo carattere molto circoscritto: affronterò la questione – spesso ingenuamente fraintesa – della cosiddetta “interattività” e la riferirò a un tema filosofico classico, quello dell’immaginazione e del suo ruolo nel dispositivo che Kant definì “schematismo” (un tema, quest’ultimo, che attraversa come un filo rosso l’intera riflessione di Bernard Stiegler). Su questo fondamento di carattere teorico proverò a far apparire, nelle battute finali, il frame applicativo che ne potrebbe conseguire, e in particolare i suoi requisiti di specifica creatività politica. Nel far questo – vorrei aggiungere – rispondo a una sollecitazione dello stesso Stiegler che, nel discutere in particolare il concetto di una interattività automatizzata, o di sistema, stigmatizzato da Crary, accenna alla possibilità che delle pratiche interatti3. L’espressione, mediata da Ernst Jünger, è stata utilizzata da Maurizio Ferraris in diversi contributi e, da ultimo, in Mobilitazione totale, Laterza, Roma-Bari 2015.

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ve si possa dare un’interpretazione diversa e meno semplificata, osservando, in nota, che “bisognerebbe aprire una discussione tra Jonathan Crary e Pietro Montani […] sulla questione dell’interattività e del suo carattere farmacologico”.4 Ciò che mi riprometto di fare, in quel che segue, consiste nell’esplicitare i presupposti filosofici ai quali una tale discussione dovrebbe far riferimento per conseguire qualche risultato. 2. Entro immediatamente nel vivo della discussione osservando che il primo problema incontrato da chi affronti in una prospettiva filosofica il fenomeno dell’interattività postulata dall’uso comune delle tecnologie digitali ha a che fare con il tempo. Tali tecnologie, infatti, dopo aver acquisito per delega una parte cospicua delle nostre funzioni mnemoniche,5 avrebbero l’ulteriore caratteristica di “bruciare sul tempo”, per così dire, la prestazione protensionale della nostra immaginazione neutralizzando la sua normale attitudine a produrre – o ipotizzare – delle sintesi grazie a un dispositivo computazionale che gliele fa trovare già belle e pronte. Ciò addestra l’immaginazione a un’assunzione acritica del “dato percettivo” nel cui raggio d’azione non risulta più riconoscibile alcunché di nuovo o imprevedibile o non-ancora-processato. Stando così le cose, “interagire” con i dispositivi digitali significherebbe in realtà abbandonarsi a una sostanziale passività, peraltro fortemente “innaturale” in quanto fa violenza all’attitudine inferenziale, ipotetica e sperimentale tipica della nostra immaginazione. Prima di proseguire in questa analisi, sarà bene notare che nel processo che ho appena descritto non c’è nulla che non sia già noto da tempo. Il fenomeno, per esempio, fu già stigmatizzato acutamente da Horkheimer e Adorno nel loro classico studio sull’industria culturale,6 dove a questo proposito ci si riferisce (in 4. Cfr. B. Stiegler, La société automatique, cit., p. 126. 5. Stiegler, com’è noto, propone di integrare l’analisi husserliana dei processi ritenzionali introducendovi una forma (ipomnestica) specificamente tecnica: la ritenzione terziaria. 6. Cfr. M. Horkheimer, T.W. Adorno, “L’industria culturale”, in Dialettica dell’illuminismo (1947), trad. di R. Solmi, Einaudi, Torino 1966, pp. 131-180. Per una critica delle tesi di Horkheimer e Adorno si veda: B. Stiegler, La technique et le temps, vol. III: Le temps du cinéma et la question du mal-être, Galilée, Paris 2001.

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Antropotecnica e Negantropocene: un confronto tra Sloterdijk e Stiegler ANTONIO LUCCI

1. Piani Con modestia si potrebbe ridurre un poco la sentenza di Borges “Forse la storia universale è la storia di alcune metafore”,1 e sostenere che “forse la storia della filosofia è la storia dell’uso di alcune parole”. Senza voler azzardare una storia di parole dalla rilevanza teoretica incalcolabile, come “essere”, “tempo” e “divenire”, è forse interessante considerare come, perlomeno nella filosofia del secolo scorso, una parola apparentemente innocua come “piano” sia stata la posta in gioco di alcune teorie, e sia stata al centro di alcune dispute dal peso decisivo per il pensiero contemporaneo. Come esempio paradigmatico dell’uso della parola possono essere presi anzitutto i piani “di consistenza” e “di immanenza” di Deleuze e Guattari, i quali hanno sempre mostrato una particolare attenzione per la metafora delle superfici. Tuttavia, la più importante distinzione tra “piani” offerta dalla filosofia del secolo scorso, sulla quale si è incentrato gran parte del dibattito sull’umanismo nel secondo dopoguerra, è quella tra Sartre e Heidegger: per il primo il piano è quello in cui “c’è solamente l’uomo”,2 mentre per il secondo è quello su cui “c’è principalmente l’essere”.3 Antonio Lucci è docente di Filosofia della tecnica e della cultura presso l’Institut für Kulturwissenschaft della Humboldt Universität di Berlino. 1. J.L. Borges, La sfera di Pascal (1951), in Opere complete, trad. di F. Tentori Montalto, a cura di D. Porzio, vol. I, Mondadori, Milano 1984, p. 911. 2. J.-P. Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo (1945), trad. di G. Tosco, introduzione di P. Caruso, Mursia, Milano 1963, p. 46. 3. M. Heidegger, Lettera sull’“umanismo” (1946), trad. a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1995, p. 61.

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Il contesto in cui sono poste la sovrapposizione e la distinzione dei due piani è noto: dopo gli orrori della guerra, in L’esistenzialismo è un umanismo, Sartre aveva rilanciato la questione dell’umanismo, incentrandola sulla libertà della réalité humaine come fondamento assente di ogni ordine di trascendenza, compresi i valori politici e religiosi. Di contro, Heidegger, nella sua Lettera sull’“umanismo”, aveva operato un’importante modificazione della prospettiva. Heidegger aveva infatti interpretato l’asserzione sartriana per cui saremmo su un piano in cui c’è solamente l’uomo, contrapponendole l’idea per cui saremmo su un piano in cui c’è principalmente l’Essere. Lo slittamento di piano operato da Heidegger è sostanziale perché, così facendo, l’Essere è il piano.4 Infatti, egli riformula la tesi sartriana inserendola nella tradizione umanistica occidentale che, in quanto ancora metafisica,5 paradossalmente non riconosce una sufficiente dignità all’essere umano. L’uomo dovrebbe invece essere pensato nel suo rapporto con l’Essere, cioè con quel piano che è l’Essere. La puntualizzazione ontologica di Heidegger è importante per l’ipotesi che cercheremo di dimostrare: la differenza che separa la riflessione sulla tecnica di Peter Sloterdijk da quella di Bernard Stiegler è sostanzialmente una differenza di “piano”. Le teorie di entrambi si sviluppano tematizzando un “piano” su cui c’è principalmente la tecnica. Ma, mentre quella di Sloterdijk resta di ispirazione heideggeriana, in quanto pensa il “piano” e la “tecnica” come coincidenti, senza tenere conto del tertium rappresentato dalla “politica” e dal “fare”, quella di Stiegler, ponendo l’accento sul “principalmente”, non pensa unitariamente i tre elementi della tecnica, del piano e dell’Essere e apre così lo spazio possibile della dimensione propriamente politica del piano. 2. Sloterdijk e il piano dell’antropotecnica Il luogo in cui Sloterdijk introduce il concetto di antropotecnica 4. Cfr. ivi, p. 62. 5. Cfr. ivi, pp. 42-43.

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è il famoso saggio Regole per il parco umano, il cui sottotitolo è Una risposta alla Lettera sull’“umanismo” di Heidegger.6 La posta in gioco del saggio riguarda il significato del termine umanismo, con cui Sloterdijk intende tutte quelle pratiche culturali che, fin dall’antichità, hanno mirato all’addomesticazione dell’uomo, in generale attraverso la scrittura, in particolare mediante la trasmissione dei classici, da intendersi strictu sensu come i testi classici della letteratura universale. Entro il concetto di antropotecnica da lui introdotto, Sloterdijk opera l’importante distinzione tra antropotecniche primarie e secondarie. Le prime rappresentano il modo in cui l’uomo ha storicamente sempre agito sull’uomo, tramite la cultura, l’educazione, le pratiche e le ripetizioni di moduli comportamentali. Le antropotecniche secondarie, invece, fondate sulle moderne conquiste dell’ingegneria genetica, sono quelle che in futuro permetteranno all’uomo di manipolare attivamente la propria evoluzione biologica, per la prima volta in maniera pianificabile. Il passaggio da queste analisi a quelle di Devi cambiare la tua vita7 comporta un’ulteriore specificazione del concetto, che in parte sarà una rivisitazione della suddivisione qui riportata. In Devi cambiare la tua vita, infatti, Sloterdijk supera la distinzione tra antropotecniche primarie e secondarie in direzione di un’antropotecnologia generale basata sulla nozione di esercizio. Le antropotecniche secondarie sono ricondotte nell’alveo di quelle primarie, intese nel senso ampliato di pratiche di esercizio autoplasmatore,8 mirato o all’autoperfezionamento o al cambiamento radicale del mondo esterno. A mio parare, l’acquisizione fondamentale di questo testo è la scoperta dell’esercizio quale nucleo fondamentale dell’antropotecnica. Il concetto di esercizio svuota quello di antropotecnica secondaria, in quanto esso è

6. P. Sloterdijk, Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger (2001), trad. a cura di A. Calligaris e S. Crosara, Bompiani, Milano 2004, pp. 239-266. 7. Id., Devi cambiare la tua vita. Sull’antropotecnica (2009), trad. di S. Franchini, a cura di P. Perticari, Raffaello Cortina, Milano 2010. 8. Ivi, p. 15.

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Negantropologia dell’Antropocene. Il pensiero come biforcazione BERNARD STIEGLER

Per Sara Baranzoni, Benoît Dillet, Gerald Moore, Anaïs Nony, Dan Ross, Paolo Vignola e Alexander Wilson

1. La messa in questione della presenza Sollecitato da Alley Eldebi sulla questione relativa a ciò che si chiama pensare, devo anzitutto ricordare il punto di vista da me sostenuto in Ce qui fait que la vie vaut la peine d’être vécue. De la pharmacologie: se ciò che Heidegger chiama Dasein è costituito dalla sua possibilità di mettere in questione l’essere, in effetti il Dasein può farlo solo perché è a sua volta messo in questione. La messa in questione è il fatto della tecnica. Nata da questioni precedenti a cui ha risposto in quanto operazione del Dasein messo in questione (l’insistenza sulla parola operazione verrà precisata alla fine del mio intervento), la tecnica provoca sempre nuove messe in questione, ponendo sempre nuovi problemi. Oggi, dinnanzi ai problemi posti dalle risposte alle precedenti questioni, la messa in questione evidentemente varca una soglia e costituisce una biforcazione dall’ampiezza incommensurabile, tanto nella storia di ciò che Heidegger ha chiamato Dasein, quanto di ciò che Derrida ha chiamato différance. Questa biforcazione è un salto nell’immenso, cioè nello smisurato: nella hybris. La messa in questione che deriva dal salto è tale da poter mettere fine a ogni possibilità di questionare e instaura l’avvento dell’Antropocene. Questo avvento è il tempo del riconoscimenNel tradurre il testo ci siamo avvalsi del manoscritto originale francese, offertoci dall’autore, e di alcuni accorgimenti bibliografici suggeritici dal traduttore inglese, Daniel Ross. A Stiegler e Ross vanno dunque i nostri ringraziamenti. [N.d.T.]

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to (intuitivo o riflessivo, da parte del papa o del GIEC1) dell’Evento Antropocene, come lo hanno definito Christophe Bonneuil e Jean-Baptiste Fressoz.2 Una simile messa in questione è molto più che “istoriale” (geschichtlich), dal momento che mette in questione la stessa istorialità, e invita a rivisitare l’intero corpus heideggeriano. È ciò che inizierò a fare nuovamente in questa sede, riferendomi al notevole articolo Pensée et technique di Rudolf Boehm.3 Al presente, ossia a pubblicazione dei Quaderni neri avvenuta, è opportuno precisare che l’involuzione che condusse Heidegger sulla scia del movimento nazista rende ancor più indispensabile una lettura meticolosa del suo pensiero e della sua storia. A questo proposito Rudolf Boehm mostra quanto la questione della techne sia inaugurale, complessa e persino tortuosa. L’involuzione storica di Heidegger nel nazismo, infatti, dev’essere vista unitamente alle deviazioni impostegli dal tentativo di pensare la techne, che talvolta lo conducono a quelle che appaiono come delle contorsioni noetiche. Pensare autenticamente è sempre pensare il presente nel presente: è questo ciò che Heidegger intendeva, parlando di Gegenwart. La presenza intesa in questo modo coincide sempre con la messa in questione che sconvolge il presente, ossia coincide con il suo assentarsi (absentement). Oggi, questo sconvolgimento raggiunge quel limite, peras, che è l’assenza d’epoca: l’epoché negativa dell’assenza d’epoca è il compimento del nichilismo. L’assenza d’epoca costituisce quell’assenza di fondamento chiamata Antropocene. Allora il pensiero oggi non può essere che l’esperienza di pensare ciò che l’assenza d’epoca, in ultima istanza, dovrebbe costituire: se non una “nuova epoca”, almeno 1. GIEC è l’acronimo francese di Groupe d’experts intergouvernemental sur le changement du climat (Gruppo di esperti intergovernativi sul mutamento climatico, in inglese IPCC, Intergovernmental Panel on Climate Change), organismo aperto a tutti i paesi ONU, creato nel 1988, che ha per scopo lo studio scientifico dei dati sul mutamento climatico del pianeta e l’individuazione dei rischi a esso collegati. [N.d.T.] 2. C. Bonneuil, J.-B. Fressoz, L’Événement Anthropocène, Seuil, Paris 2013. 3. R. Boehm, Pensée et technique, “Revue Internationale de Philosophie”, 14, 1960, pp. 194-220.

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una tutt’altra epocalità. Chiamiamo Negantropocene la possibilità di questa impossibilità totalmente altra. 2. Prometheia, epimetheia, hermeneia Fin dal mio primo tentativo di interpretare (ermeneuô) il mito di Prometeo, Epimeteo ed Hermes contenuto nel Protagora, ciò che chiamo pensare oggi, cioè nell’Antropocene, è un prendersi cura del pharmakon che costituisce lo choc a partire da cui c’è pensiero: il pensiero è sempre una forma di Sorge. Pensare consiste sempre nel tracciare dei circuiti di transindividuazione (come concatenamenti di ritenzioni e protensioni) inter- e trans-generazionali, attraverso i quali si metastabilizza ciò che Gilbert Simondon chiama il transindividuale. Il pensiero nelle sue diverse forme, ossia la noesi, la vita dello spirito in tutte le sue forme, viene oggi distrutto dalla proletarizzazione generalizzata di cui l’Antropocene è la prova. La vita dello spirito è un’esteriorizzazione dall’andamento circolare. Il circolo consiste nell’interiorizzare ciò che era stato precedentemente esteriorizzato. Questo movimento costituisce a posteriori la noesi come tecnesi e come pharmakon generato dalla condizione organologica dell’anima, che è noetica in quanto essa sogna, ossia in quanto può realizzare i suoi sogni, ma sempre col rischio di trasformarli in incubi.4 I circuiti di transindividuazione in cui consiste la vita dello spirito, in seno alla quale il pensiero si presenta sotto le più diverse forme, sono indotti dagli choc provocati dai tipi successivi di ritenzioni terziarie che costituiscono l’organogenesi dei pharmaka nel corso del tempo della noesi, cioè nel corso della sua evoluzione, quell’evoluzione che Georges Canguilhem ha descritto come la forma tecnica della vita.5 Ciò che chiamo pensiero è la storia, accumulata ma continuamente rinnovata e riattivata, dei modi di pensare, i quali a loro volta sono il risultato della serie di messe in questione provo4. Cfr. B. Stiegler, La société automatique 1. L’Avenir du travail, Fayard, Paris 2015 e le video-conferenze dell’Académie d’été della scuola pharmakon.fr (www.pharmakon.fr). 5. Cfr. Id., Ce qui fait que la vie vaut la peine d’être vecue. De la pharmacologie, Flammarion, Paris 2010, pp. 51-56.

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Bibliografia di Bernard Stiegler

Monografie La technique et le temps, vol. I: La faute d’Epiméthée, Galilée, Paris 1994. Échographies de la télévision. Entretiens filmés (con J. Derrida), Galilée-INA, Paris 1996; trad. di L. Chiesa, Ecografie della televisione, Raffaello Cortina, Milano 1996. La technique et le temps, vol. II: La désorientation, Galilée, Paris 1996. La technique et le temps, vol. III: Le temps du cinéma et la question du mal-être, Galilée, Paris 2001. Passer à l’acte, Galilée, Paris 2003; trad. di E. Imbergamo, Passare all’atto, Fazi, Roma 2008. Aimer, s’aimer, nous aimer. Du 11 septembre au 21 avril, Galilée, Paris 2003; trad. e cura di A. Porrovecchio, Amare, amarsi, amarci, Mimesis, Milano-Udine 2014. Mécréance et Discrédit, vol. I: La décadence des démocraties industrielles, Galilée, Paris 2004. Philosopher par accident. Entretiens avec Elie During, Galilée, Paris 2004. De la misère symbolique, vol. I: L’époque hyperindustrielle, Galilée, Paris 2004. De la misère symbolique, vol. II: La catastrophè du sensible, Galilée, Paris 2004. L’attente de l’inattendu, École supérieure des beaux arts, Genève 2005. Constituer l’Europe, vol. I: Dans un monde sans vergogne, Galilée, Paris 2005. 136

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Constituer l’Europe, vol. II: Le motif européen, Galilée, Paris 2005. Le théâtre, le peuple, la passion (con J.-C. Bailly e D. Guénoun), Les solitaires intempestifs, Paris 2006. La télécratie contre la démocratie, Flammarion, Paris 2006. Réenchanter le monde. La valeur esprit contre le populisme industriel (con M. Crépon, G. Collins e C. Perret), Flammarion, Paris 2006; trad. e cura di P. Vignola, Reincantare il mondo. Il valore spirito contro il populismo industriale, Orthotes, NapoliSalerno 2012. Mécréance et Discrédit, vol. II: Les sociétés incontrôlables d’individus désaffectés, Galilée, Paris 2006. Mécréance et Discrédit, vol. III: L’esprit perdu du capitalisme, Galilée, Paris 2006. Des pieds et des mains. Petite conférence sur l’homme et son désir de grandir, Fayard, Paris 2006. De la démocratie participative. Fondements et limites (con M. Crépon), Fayard, Paris 2007. Avril-22. Ceux qui préfèrent ne pas (con A. Jugnon, A. Badiou e M. Surya), Le grand souffle, Paris 2007. Économie de l’hypermatériel et psychopouvoir, Fayard, Paris 2008. Prendre soin, vol. I: De la jeunesse et des générations, Flammarion, Paris 2008; trad. e cura di P. Vignola, Prendersi cura. Della gioventù e delle generazioni, Orthotes, Napoli-Salerno 2014. Pour une nouvelle critique de l’économie politique, Galilée, Paris 2009. Pour en finir avec la mécroissance, Flammarion, Paris 2009. Faut-il interdire les écrans aux enfants? (con S. Tisseron), Mordicus, Paris 2009. Ce qui fait que la vie vaut la peine d’être vécue. De la pharmacologie, Flammarion, Paris 2010. États de choc. Bêtise et savoir au XXIe siècle, Fayard, Paris 2012. L’école, le numérique et la société qui vient (con P. Meirieu e D. Kambouchner), Fayard, Paris 2012. Pharmacologie du Front national, Flammarion, Paris 2013. L’emploi est mort, vive le travail! (con A. Kyrou), Fayard, Paris 2015. 137


La société automatique, vol. I: L’Avenir du travail, Fayard, Paris 2015. Dans la disruption. Comment ne pas devenir fou, Les liens qui libèrent, Paris 2016. Raccolte di articoli in italiano Il chiaroscuro della rete, trad. e cura di P. Vignola, Youcanprint, Tricase 2014. Platone digitale. Per una filosofia della rete, a cura di P. Vignola e F. Vitale, Mimesis, Milano-Udine 2015. Articoli principali Eidos et télévision, “Digraphe”, 1984. Technologies de la mémoire et de l’imagination, “Réseaux” (Centre national d’étude des télécommunications), aprile 1986. La faute d’Épiméthée, “Technologos” (CNRS), settembre 1986. La reproductibilité à l’œuvre, “L’Imaginaire numérique” (Hermès), ottobre 1986. Productions et reproductions technologiques des savoirs, “Arsenal des Seele” (Fink Verlag), ottobre 1986. Programmes de l’improbable, court-circuits de l’inouï, “Inharmoniques” (IRCAM/Christian Bourgois), novembre 1986. Technologiques et traduction, “Protée” (Québec), primavera 1987. Réseaux et communauté, “Les annales de la recherche urbaine” (Dunod), giugno 1987. Les temps de la lecture, “Signes du present” (Université de Rabat), 1988. Une insensible incertitude (l’histoire et la technique), “Les cahiers de l’ENS de Fontenay”, 1989. Urgence technologique et technologies de l’anticipation, “Actions et Recherches Sociales” (Erès), 1989. L’artifice technologique. Six thèses sur le temps, “Semiotica”, 1989. La lutherie électronique et la main du pianiste, “Cahiers du Centre international de recherches en esthétique musicale”, 1990. Mémoires gauches, “La revue philosophique” (PUF), giugno 1990. Machines à lire, “Autrement”, marzo 1991. 138


L’art des machines et la pénurie de l’être, “Art-Press”, settembre 1991. Leroi-Gourhan, part maudite de l’anthropologie, “Les Nouvelles de l’Archéologie”, dicembre 1992. La programmatologie de Leroi-Gourhan, “Les Nouvelles de l’Archéologie”, dicembre 1992. L’hypertraitement de texte, “Les technologies de l’intelligence” (Descartes), 1992. Genèse d’une philosophie du dilemme phénoménologique: sur Le problème de la genèse dans la philosophie de Husserl de Jacques Derrida, “Papiers du Collège international de philosophie”, 1992. Temps et individuation technique, psychique et collective dans l’œuvre de Gilbert Simondon, “Futur anterieur”, 5-6, 1993; trad. di C. Molinar Min e G. Piatti, Tempo e individuazione tecnica, psichica e collettiva nell’opera di Simondon, “Philosophy Kitchen”, 1, 2014, pp. 226-246. La maïeutique technologique de l’objet industriel, “Autour de Gilbert Simondon” (Albin Michel), 1994. Quand faire c’est dire – biologie et performativité, “Passage des Frontières” (Galilée), febbraio 1994. Aménager la déterritorialisation, “Alliage”, 1994. Ce qui fait défaut, “Césure”, settembre 1995. Être là-bas. L’arche-Terre de Husserl, “Alter” (ENS), 1996. Dérushages, “Revue de littérature générale”, 2, 1996. Vers la numérisation totale, “Dossiers de l’audiovisuel” (INA), 1997. Le temps du cinema, “IRIS, revue de théorie de l’image et du son”, primavera 1998. La fidélité aux limites de la déconstruction, “Alter” (Revue de phénoménologie de l’ENS de Fontenay), 2000; poi in T. Cohen (a cura di), Jacques Derrida and the Humanities, Cambridge University Press, Cambridge 2001. “De quelques nouvelles possibilités historiographiques”, in S. Lindeperg, Clio de 5 à 7, CNRS éditions, Paris 2000. “La désindividuation”, in F. Godard, F. Hascher (a cura di), La nouvelle carte du temps (Colloque de Cerisy), éditions de l’Aube, Paris 2003. 139


Bouillonnements organologiques et enseignement musical, “Revue du Centre national de documentation pédagogique”, 2003. La numérisation du son, “Culture et recherche” (ministère de la Culture), gennaio 2003. “Les guerres du temps”, in L. Gwiazdzinski (a cura di), La ville en continu, éditions de l’Aube-Datar, Paris 2003. “Sociétés d’auteurs et sémantiques situées”, in C. Jacob (a cura di), Des Alexandries II. Les métamorphoses du lecteur, Bibliothèque nationale de France, Paris 2003. L’esthétique comme arme, “Alliage”, aprile 2004. Le règne de la grande misère symbolique (con G. Collins), “Art Press”, aprile 2004. Chute et élévation. L’apolitique de Simondon, “Revue Philosophique”, 2006. “Préface”, in G. Simondon, L’individuation psychique et collective, Aubier, Paris 2007. L’extra-ordinario, trad. di S. Baranzoni e P. Vignola, “La Deleuziana”, 0, 2014, pp. 211-228. Sortir de l’Anthropocène, “Multitudes”, 3, 2015; trad. di S. Baranzoni e P. Vignola, Uscire dall’Antropocene, “Kaiak”, 2, 2015. Numeri monografici di riviste Félix Guattari, Bernard Stiegler. La catastrofe dell’immaginario, “Millepiani”, 30, 2006. Bernard Stiegler and the Question of Technics, “Transformations”, 17, 2009. Bernard Stiegler, “Cultural Politics”, 2, 2010. Bernard Stiegler. Technics, Politics, Individuation, “New Formations. A Journal of Culture, Theory & Politics”, 77, 2013. Bernard Stiegler. Amateur Philosophy, “Boundary 2”, 2015. Opere collettive dedicate B. Dillet, A. Jugnon (a cura di), Technologiques. La pharmacie de Bernard Stiegler, Cécile Defaut, Nantes 2013. C. Howells, G. Moore (a cura di), Stiegler and Technics, Edinburgh University Press, Edinburgh 2013. 140


Archivio Enzo Paci

A oltre trent’anni dalla morte di Enzo Paci, con il moltiplicarsi degli studi e delle iniziative legate alla sua opera, l’Archivio chiede a chi ha scritto e scriva su Enzo Paci di voler gentilmente inviare copia del proprio lavoro all’Archivio stesso. Lo scopo evidente è quello di riunire e fare conoscere lavori e ricerche, e i loro autori, per favorire altri studi. Nello stesso tempo si intende garantire la presenza di una collezione completa di scritti di e su Enzo Paci nel luogo che ne conserva manoscritti e biblioteca. L’invito si rivolge anche a chi abbia scritto una tesi di laurea o una dissertazione di dottorato su Enzo Paci e/o sul contesto culturale in cui si è mossa la sua attività. Al momento la collezione è parziale e sembra utile completarla. Si potrà in questo modo compilare anche un elenco degli studiosi interessati. Inoltre si è avviata l’acquisizione e la catalogazione dell’epistolario. Chiediamo pertanto a chi sia in possesso di lettere di Enzo Paci di collaborare, inviandoci fotocopia delle lettere; se ne ha tenuto copia e non ha nulla in contrario, sono benvenute anche fotocopie delle lettere del corrispondente. L’indirizzo al quale inviare il materiale è:

Archivio Enzo Paci via Beato Angelico 5 20133 Milano Ringraziamo tutti anticipatamente e raccomandiamo di accludere al materiale anche il proprio recapito.


Interventi


Niente altro che esseri umani EDOARDO GREBLO

N

on c’è dubbio che nel corso del tempo l’immagine del rifugiato sia decisamente mutata. Se si guarda al passato, essa richiama alla mente la figura dell’oppositore politico perseguitato per la sua scelta esistenziale di intransigente opposizione politica. Basti pensare alla storia del nostro paese, e cioè agli antifascisti esiliati in Francia e poi diventati una componente essenziale della classe dirigente che ha costruito la nostra democrazia. Uno di questi, costretto a lavorare da muratore per sopravvivere, una volta rimpatriato è salito alla carica più alta della Repubblica. Era Sandro Pertini.1 Oggi, invece, all’immagine del rifugiato corrisponde quella di una vittima anonima delle circostanze, indistinguibile da altre migliaia di vittime non meno anonime e tutte condannate a rimanere imprigionate nella gabbia dell’inazione e della passività. A mutare è anche, di conseguenza, il problema del diritto di asilo: mentre in passato poteva ancora riguardare singoli casi individuali, oggi tocca invece intere popolazioni, che cercano di superare gli ostacoli, i muri e gli sbarramenti eretti dagli Stati per impedire lo spostamento di esseri umani percepiti come un’unica massa indistinta e perciò naturalmente pericolosa. Ora, le circostanze drammatiche che costringono milioni di uomini, donne e bambini a fuggire da paesi flagellati da tirannie, corruzione, cleptocrazie, 1. S. Allievi, G. Dalla Zuanna, Tutto quello che non vi hanno mai detto sull’immigrazione, Laterza, Roma-Bari 2016, p. 96.

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colpi di Stato, guerre civili, dittatori, signori della guerra e funzionari corrotti non possono e non devono essere sottovalutate. Ciò nonostante, fare sistematicamente cadere l’accento soltanto sugli scenari di trauma e devastazione può avere un effetto paradossalmente controproducente, perché porta a concepire i doveri di accoglienza e di assistenza umanitaria quali atti gratuiti di generosità, quando, al contrario, dovrebbero essere considerati come il modo giuridicamente vincolante di onorare un impegno politico e giuridico tanto solennemente sottoscritto e retoricamente proclamato quanto concretamente disatteso. Non a caso, i rifugiati suscitano commozione, indignazione e rivolta morale quando la loro sofferenza risponde al modello del rifugiato-vittima, e alimentano paura e allarme sociale quando cercano di recuperare una qualche parvenza di soggettività autonoma. Ogni disponibilità umanitaria viene infatti immediatamente meno non appena essi rinunciano a esibire “il comportamento passivo considerato normale per le vittime”2 e cercano di sottrarsi alla invisibilità politica cui sono condannati per il fatto di essere, letteralmente, dei fuori-legge, perché non più sottomessi a quella oppressiva degli Stati di provenienza e perché dichiarati illegali da quella che incontrano negli Stati in cui approdano. I rifugiati – ai quali, come ai profughi e agli sfollati interni, non viene riconosciuto il diritto di organizzarsi, ma solo di sopravvivere – sono così costretti a cadere vittime del paradosso rilevato a suo tempo da Hannah Arendt, e cioè che per essere rispettati nei diritti devono diventare oggetto di repressione – a riprova, secondo Giorgio Agamben, dell’inefficacia pratica dei diritti umani fondamentali quando si tratta di proteggere le condizioni minime di esistenza dell’uomo genericamente vivente. 2. J. van Dijk, Free the Victim: A Critique of the Western Conception of Victimhood, “International Review of Victimology”, 16, 2009, p. 15. Cfr. anche D. Turton, Conceptualising Forced Migration. Refugee Studies Centre Working Paper Series, 12, University of Oxford, Oxford 2003; E. Mavroudi, C. Nagel, Global Migration. Patterns, Processes, and Politics, Routledge, London-New York 2016, p. 190; P. Mares, “Distance makes the heart grow fonder: Media images of refugees and asylum seekers”, in E. Newman, J. van Selm (a cura di), Refugees and Forced Displacement: International Security, Human Vulnerability, and the State, United Nations University Press, Tokyo-New York-Paris 2003, pp. 330-349.

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1. In alcuni testi che hanno fatto scuola e che si sono rivelati estremamente influenti,3 Agamben ha individuato nel rifugiato la figura che, invece di incarnare i diritti dell’uomo, ne segna la crisi irreversibile: “Se i rifugiati rappresentano […], nell’ordinamento dello Stato-nazione moderno, un elemento così inquietante, è in3. G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 1995, 20052, in particolare pp. 145-149; Id., “Al di là dei diritti dell’uomo”, in Mezzi senza fine. Note sulla politica, Bollati Boringhieri, Torino 1996, pp. 20-29. Per una rassegna, peraltro incompleta, degli autori che hanno commentato o ripreso le tesi di Agamben, si veda A. Dal Lago, Normalità dello stato di eccezione. A proposito di “Homo sacer”, “aut aut”, 271-272, 1996, pp. 87-92; J. Edkins, Sovereign Power, Zones of Indistinction, and the Camp, “Alternatives: Global, Local, Political”, 1, 2000, pp. 3-25; F. Jenkins, Bare Life: Asylum-Seekers, Australian Politics and Agamben’s Critique of Violence, “Australian Journal of Human Rights”, 1, 2004, pp. 79-95; D. Bülent, From Refugee Camps to Gated Communities: Biopolitics and the End of the City, “Citizenship Studies”, 1, 2004, pp. 83-106; P.K. Rajaram, C. Grundy-Warr, The Irregular Migrant as Homo Sacer: Migration and Detention in Australia, Malaysia, and Thailand, “International Migration”,1, 2004, pp. 33-63; J. Edkins, V. Pin-Fat, Through the Wire: Relations of Power and Relations of Violence, “Millennium: Journal of International Studies”, 1, 2005, pp. 1-24; D. Bülent, C. Bagge Lausten, The Culture of Exception: Sociology Facing the Camp, Routledge, London 2005, in particolare il cap. 1; R. Puggioni, “Resisting sovereign power: camps in-between exception and dissent”, in J. Huysmans, A. Dobson e R. Prokhovnik (a cura di), The Politics of Protection: Sites of Insecurity and Political Agency, Routledge, London 2005, pp. 68-83; P. Nyers, Rethinking Refugees: Beyond States of Emergency, Routledge, London 2006; M. Rovelli, Lager italiani, Rizzoli, Milano 2006; D. Costantini, L’eccezione coloniale, “Deportate, esuli, profughe”, 7, 2007, pp. 260-268; C. Mills, The Philosophy of Agamben, McGill-Queen’s University Press, Montreal & Kingston, Ithaca 2008, cap. 4; P. Owens, Reclaiming “Bare Life”?: Against Agamben on Refugees, “International Relations”, 4, 2009, pp. 567-582; S. Buckel, J. Wissel, State Project Europe: The Transformation of the European Border Regime and the Production of Bare Life, “International Political Sociology”, 4, 2010, pp. 33-49; S. Khosravi, “Illegal” Traveller. An Auto-Ethnography of Borders, Palgrave Macmillan, Basinstoke 2010, in particolare il cap. 7; M. Zembylas, Agamben’s Theory of Biopower and Immigrants/Refugees/Asylum Seekers Discourses of Citizenship and the Implications for Curriculum Theorizing, “Journal of Curriculum Theorizing”, 2, 2010, pp. 31-45; S. Colatrella, Nothing Exceptional: Against Agamben, “Journal for Critical Education Policy Studies”, 1, 2011, pp. 96-125; A. Murray, J. Whyte, The Agamben Dictionary, Edinburgh University Press, Edinburgh 2011, in particolare il lemma “Camp” (pp. 41-43); D. Farrier, Postcolonial Asylum. Seeking Sanctuary Before the Law, Liverpool University Press, Liverpool 2011; C. Ownbey, The Abandonment of Modernity: Bare Life and the Camp in Homo Sacer and Hotel Rwanda, “disClosure: A Journal of Social Theory”, 22, 2013, pp. 17-22; S. Parekh, Beyond the Ethics of Admission: Stateless People, Refugee Camps and Moral Obligations, “Philosophy and Social Criticism”, 7, 2014, pp. 645-663; E.C. Dunn, J. Cons, Aleatory Sovereignty and the Rule of Sensitive Spaces, “Antipode”, 1, 2014, pp. 92-109; K. Theodorakis, Refugees, Citizens and the Nation-State: Unrecognized Anomalies and the Needs for New Political Imaginaries, “The ANU Undergraduates Research Journal”, vol. 6, 2014, pp. 37-48; S. John-Richards, Asylum and the Common: Mediations between Foucault, Agamben and Esposito, “Birkbeck Law Review”, 1, 2014, pp. 13-36; T. Jalal, Re-imagining the Refugee, “Crossing: Journal of Migration & Culture”, 2-3, 2014, pp. 317-326; C.M.M. Bartolomé Ruiz, Il Diritto e la vita umana. Lo straniero e l’homo sacer, “Annali della Facoltà Giuridica dell’Università di Camerino”, 3, 2014, pp. 1-19.

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Verso una psicoanalisi del soggetto collettivo ANTONELLO SCIACCHITANO Solo la cooperazione costituisce un processo generatore di ragione. J. Piaget, Studi sociologici, 1928 L’uomo è un essere razionale poiché è un essere sociale. George H. Mead, Mente, sé e società, 1934

Premessa alle premesse Prima di arrivare alla nozione freudiana di Kulturarbeit, che ispira il presente lavoro sul soggetto collettivo, devo passare attraverso una serie di premesse e détours, anche freudiani – allora saranno Umwege – che, se non mi porteranno fuori strada, mi consentiranno un non piccolo guadagno: l’iniziale demedicalizzazione dell’impostazione dottrinaria della psicoanalisi di Freud e l’apertura di una finestra scientifica sull’insegnamento freudiano. Sia detto questo senza alcuna animosità nei confronti del pensatore Freud, anche quando mi mostrerò critico nei confronti del suo pensiero. C’è un significante che è originariamente sfuggito all’esegesi ortodossa freudiana. Delle tredici ricorrenze del significante Kulturarbeit nelle 7070 pagine delle Sigmund Freud gesammelte Werke non una è censita nell’indice generale. E non parlo della traduzione ufficiale italiana particolarmente eterogenea, dove in corrispondenza ricorrono le espressioni più disparate: da “lavoro della civiltà”,1 “lavoro civile”, “costrizione al lavoro nella vita civile” (sic), a “opere della civiltà” e “lavoro di incivilimento”. Insomma, il messaggio freudiano o è stato frainteso o è andato perduto, nonostante Freud l’avesse rilanciato durante tutto il proprio iter intellettuale dall’Interpretazione dei sogni (1899) alla XXXI lezione su Scomposizione della personalità psichica (1932). Adottando l’ipotesi dello psicoanalista di Berlino Claus-Dieter Rath, die Kulturarbeit costituirebbe lo specifico oggetto del 1. È la traduzione di Elvio Fachinelli nell’Interpretazione dei sogni, che condivido.

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desiderio di analisi di Freud,2 a patto di non intenderla come intellettualistico lavoro culturale ma come concreta promozione di civiltà; è la Kulturentwicklung, di cui Freud scriveva nella lettera ad Einstein del 1932. Scopo del presente saggio è sviluppare le premesse freudiane con strumenti che non furono alla portata di Freud e che potrebbero ampliare la riflessione freudiana sul soggetto collettivo, anche quando sembrano apparentemente contrastarla. Premessa terminologica Traggo il termine “collettivizzante”, che secondo il vocabolario Treccani significa “ciò che riduce a proprietà collettiva”, dal primo volume degli Eléments de mathématique di Bourbaki (pseudonimo collettivo!), dedicato alla teoria degli insiemi: “Intuitivamente, dire che la relazione R è collettivizzante equivale a dire che esiste l’insieme a tale che gli elementi x dotati della proprietà R sono precisamente gli elementi di a”.3 Per esempio, “x non appartiene a x” non è una relazione collettivizzante. La problematica sottostante a questa terminologia si connette alle antinomie, scoperte all’inizio del secolo XX, della teoria cantoriana degli insiemi, la quale conteneva contraddittoriamente insiemi che non sono insiemi, come l’insieme di Russell, formato da tutti gli insiemi che non contengono se stessi. Oggi, al seguito di von Neumann e Gödel, si parla di classi, tra le quali si distinguono gli insiemi, che sono elementi di altre classi, e le classi proprie, che non sono elementi di altre classi. In altri termini, le classi proprie non appartengono a metaclassi; gli insiemi sì, ossia si possono costruire insiemi di insiemi. Gli insiemi sono determinati dalla “proprietà caratteristica” dei loro elementi, che rende il collettivo concettualmente “uno”, quindi inseribile in qualche classe come suo elemento. Filosoficamente parlando, la proprietà caratteristica è l’essenza concettuale che 2. “La cura psicoanalitica come freudiano lavoro della civiltà”, C.-D. Rath, Der Rede Wert. Psychoanalyse als Kulturarbeit, Turia + Kant, Wien-Berlin 2013, p. 157. 3. N. Bourbaki, Éléments de mathématique. Théorie des ensembles, Hermann, Paris 1970, E II 3 sgg.

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rende l’insieme un ente distinto dagli altri enti. È chiaro, allora, che all’interno della classe degli insiemi si possono pensare gerarchizzazioni (insiemi di insiemi che sono ancora insiemi, come nell’albero di Porfirio dei generi e delle specie); all’interno della classe delle classi proprie la gerarchizzazione è impossibile. Il discorso che segue orbita all’interno di questo schematismo, che ammette generalizzazioni, lasciando impregiudicata la successiva unificazione concettuale, che può esserci e può non esserci, cioè è contingente. Il lavoro del concetto è lasciato al filosofo. A noi tocca il lavoro con l’altro, magari per ricostruire qualche “noi” che ancora non esiste: le donne, i gay, gli islamici… e non può essere ricondotto ai modelli ideali delle psicologie collettive correnti. Premessa psicologica Se è vero, secondo Lacan, che l’inconscio è strutturato come un linguaggio, cioè se funziona attraverso concatenazioni (metonimie) e condensazioni (metafore), collettivamente codificate, allora il soggetto dell’inconscio è originariamente collettivo, perché ogni linguaggio (anche quello più privato) è sin dall’inizio condiviso con altri (o deriva da un linguaggio collettivo). Ai fini del discorso qui sviluppato, un ruolo più importante dell’Altro simbolico, secondo Lacan, lo gioca la nozione di “altro generalizzato”, il soggetto collettivo reale secondo Georg Herbert Mead.4 Di seguito contrappongo lo sviluppo solipsistico della psicologia freudiana, basata sulla topologia dell’uno incluso, dove ogni individuo è tale se identificato al Führer, agli sviluppi meno lineari e più complessi, che prevedono l’interazione del singolo individuo con l’altro del collettivo in tutte le sue manifestazioni. Si va dal grado zero dell’“alienazione”, cioè la scarica dei motoneuroni alla sola vista dell’azione dell’altro, grazie ai “neuroni specchio” secondo Rizzolatti e Iacoboni, alle forme più complesse di intenzionalità collettivamente distribuita e condivisa, estesamente analizzate, per esempio, da Michael Tomasel4. G.H. Mead, Mente, sé e società (1934), trad. di R. Tettucci, Giunti, Firenze 2010, p. 46.

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Per un’archeologia del carattere PAOLO GODANI

Introduzione Con il termine “carattere” si indicano, per lo più, tre oggetti di natura profondamente differente. Innanzitutto, nelle espressioni del tipo “è un uomo di carattere”, esso indica una qualità morale che confina con la “coerenza”, la “stabilità”, la “padronanza di sé”; in questo senso, il carattere è anche una qualità universale, parimenti partecipata da tutti gli uomini di carattere, dunque non soggetta a variazioni individuali. Secondariamente, con il termine “carattere” si indica una caratteristica del comportamento, per esempio l’essere avaro, misantropo ecc.; in tal caso, il termine può declinarsi al plurale, in quanto le caratteristiche del comportamento sono di natura molteplice, con la conseguenza che anche un singolo individuo può manifestare una pluralità di caratteri (per esempio può essere, al contempo, generoso e lussurioso) e che uno stesso carattere può essere condiviso da una pluralità di individui. Infine, nell’espressione paradigmatica “ognuno ha il proprio carattere”, il nostro termine indica quella che oggi chiamiamo personalità individuale, cioè il modo d’essere che caratterizza proprio e solo quel determinato individuo. Ciò che mi propongo in questo studio è di mettere in luce come, tra età classica e modernità, la nozione di carattere tenda a perdere sia il significato di qualità morale sia quello di tipo di comportamento, per divenire termine singolare, che nomina la qualità propria di un individuo. Soffermandoci soprattutto sulla transizione dal secondo al terzo dei significati sopra enumerati, vedremo come il carattere, da nozione utilizzata da commedio184

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grafi e moralisti per illustrare ciò che nel campo sociale è dell’ordine della forma di vita, dello stile o dei costumi, sia divenuto un concetto psico-fisiologico, atto a indicare la personalità individuale, e vedremo come questa trasformazione possa essere utile per tornare a osservare la rottura epistemologica che definisce l’età moderna. Una storia di lunga durata? Una storia delle idee di lunga durata suggerirebbe di cercare le tracce di questa trasformazione nell’affrontarsi delle due grandi tradizioni, greca e cristiana, che hanno segnato la cultura occidentale. I nomi di Aristotele e Agostino indicherebbero l’origine di due concezioni del carattere radicalmente differenti: la prima, per cui esso sarebbe un segno esteriore, acquisito e comune, la seconda, per cui il carattere sarebbe invece una determinazione interiore, innata e individuale. Ancora nel XVII secolo, le diverse declinazioni che alla questione del carattere danno, per esempio, La Bruyère e La Rochefoucauld, l’uno teofrastiano, agostiniano l’altro, testimonierebbero della permanenza di quelle due tradizioni. In questo senso, l’emergenza del carattere come qualità individuale, sarebbe un episodio tutto sommato secondario della storia in cui si afferma l’interiorità cristiana.1 Questo genere di spiegazione ha quantomeno il merito di individuare un lato dell’opposizione tra i caratteri e il carattere, ovvero tra una concezione dei caratteri come elementi esteriori e una concezione del carattere come determinazione interiore. Vale dunque la pena di approfondirlo. Tuttavia, come vedremo, ciò che segna il passaggio dai caratteri al carattere non è soltanto l’interiorizzazione dell’indagine sull’uomo, bensì soprattutto l’affermarsi dell’individuo non più inteso come variabile in una logica delle classi,2 ma come entità unica le cui caratteristiche gli appartengono in proprio e in esclusiva. In breve, l’e1. Cfr. H.R. Jauss, “Vom plurale tantum der Charaktere zum singulare tantum des Individuums”, in AA.VV., Individualität, W. Fink, Munich 1988, pp. 237-269. 2. Cfr. R. Barthes, “La Bruyère: du mythe à l’écriture”, in Essais critiques, Seuil, Paris 1964.

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mergenza del carattere è contemporanea a quella dell’individuo moderno. Più precisamente, il nostro assunto di base è che l’individuo diviene pensabile come tale, dando luogo a una “scienza dell’individuale” che la tradizione aristotelica riteneva letteralmente impossibile, dal momento in cui i tratti caratteristici smettono di essere generalità ripetibili per divenire qualità particolari. Agostino o Aristotele L’età classica eredita e in gran parte conserva immutata una nozione di carattere che si trova inizialmente elaborata nella filosofia greca. I Caratteri di Teofrasto, che La Bruyère riattualizza nel 1688, trovano la loro fondazione teorica in quanto Aristotele dice nell’Etica, nella Poetica e nella Retorica a proposito dell’ethos.3 Il primo punto che Aristotele, sulla scia di Platone (Leggi VII, 792e), mette chiaramente in luce (per esempio in Etica nicomachea II , 1103a) è il nesso tra carattere e abitudine, dunque la natura non innata del carattere. L’ethos è come una piega che l’anima acquisisce in quanto è mossa ripetutamente in un determinato modo. I caratteri sussistono negli individui che li manifestano, in quanto tali individui hanno contratto questa o quella abitudine – e non perché la natura li determini a comportarsi in un modo piuttosto che in un altro. Da ciò deriva che il carattere, pur costituendo un elemento dell’anima irrazionale, proprio in quanto non è per natura, è “capace di seguire la ragione” (Etica eudemia II, 1120b). Se il carattere fosse per natura, la ragione non avrebbe alcun potere su di esso. E poiché la trattazione del carattere costituisce il principio della politica (Grande etica I, 1181a-b), se il carattere fosse innato, e dunque immutabile, verrebbe a mancare non solo il fondamento per un’etica, ma anche il fondamento per ogni politica possibile. Il secondo tratto essenziale della nozione aristotelica di ethos 3. Cfr. J. La Bruyère, Les Caractères ou les Mœurs de ce siècle, Le Livre de Poche, Paris 2004. Per le opere di Aristotele si fa riferimento alle seguenti edizioni: Poetica, a cura di D. Guastini, Carocci, Roma 2010; Le tre etiche, a cura di A. Fermani, Bompiani, Milano 2008.

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