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372 dicembre 2016

Calvino sospeso Pier Aldo Rovatti Dentro i silenzi del signor Palomar Davide Zoletto Marcovaldo, straniero in città Antonello Sciacchitano “Una storia sui vari gradi di esistenza” Stefano Tieri Invisibili o invivibili? Le nostre città attraverso Calvino Paolo Zanotti Il gioco e il Grande Gioco. Sul Sentiero dei nidi di ragno Nicola Narciso Le altre Lezioni americane

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MATERIALI Edoardo Camurri Finnegans Wake, un’opera psichedelica

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Raoul Kirchmayr Warburg e l’antropologia evoluzionista. Note di metodo su survival e Nachleben Survival e Nachleben in Warburg. Breve antologia di testi di riferimento Linda Bertelli Osservazioni sull’inconscio ottico Diana Napoli Il fantasma del padre e la sua legge. Il Mosè di Freud da Certeau a Derrida

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rivista fondata da Enzo Paci nel 1951 direttore responsabile: Pier Aldo Rovatti redazione: Sergia Adamo, Paulo Barone, Graziella Berto, Deborah Borca (editing, deborah.borca@gmail.com), Damiano Cantone, Mario Colucci, Alessandro Dal Lago, Pierangelo Di Vittorio, Giovanna Gallio, Edoardo Greblo, Raoul Kirchmayr, Giovanni Leghissa, Massimiliano Nicoli, Ilaria Papandrea, Fabio Polidori, Pier Aldo Rovatti, Massimiliano Roveretto, Antonello Sciacchitano, Giovanni Scibilia, Davide Zoletto direzione: c/o il Saggiatore, via Melzo 9, 20129 Milano sito web: autaut.ilsaggiatore.com collaborano tra gli altri ad “aut aut”: G. Agamben, H.-D. Bahr, R. Bodei, L. Boella, S. Borutti, J. Butler, M. Cacciari, A. Cavarero, R. De Biasi, G. Dorfles, M. Ferraris, U. Galimberti, P. Gambazzi, S. Givone, A. Heller, F. Jullien, J.-L. Nancy, A. Prete, R. Prezzo, M. Serres, G.C. Spivak, G. Vattimo, M. Vegetti, P. Veyne, V. Vitiello, S. Žižek per proposte di pubblicazione: autaut@ilsaggiatore.com Si fa presente che “aut aut” non pubblica recensioni e non accetta testi di ampiezza superiore a 40.000 battute (note e spazi compresi).

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Calvino sospeso

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osa è rimasto “sospeso” nell’opera di Italo Calvino? Quale compito di pensiero da sviluppare ci ha lasciato in eredità, cosa effettivamente ha lasciato in sospeso e non ha potuto realizzare durante la sua vita? Gli interventi che pubblichiamo tentano di cominciare a rispondere a queste domande. Sergia Adamo ha dato spunto all’iniziativa curando la rassegna “Stai per cominciare a leggere… Italo Calvino, trent’anni dopo” (organizzata dal Comune di Monfalcone tra fine 2015 e inizio 2016).

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Dentro i silenzi del signor Palomar PIER ALDO ROVATTI

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el 1983 avevo pubblicato su “aut aut” alcune pagine dal titolo Narrare un soggetto. Nota su “Palomar” di Italo Calvino. A partire da una lettura puntuale dell’esperienza raccontata in Palomar (che era uscito allora presso Einaudi), ponevo una serie di domande di taglio filosofico e concludevo così: “Queste domande configurano un compito incerto e contraddittorio: un imparare a guardar di lato, a non guardare nel vuoto, pur sapendo che è lì sotto, e ciò nonostante un continuare a guardare, non abdicando al compito” (cfr. “aut aut”, 201, maggio-giugno 1983, pp. 36-37). Vorrei ora ripartire da qui, magari abbassando il tono e forse avvicinandomi un po’ di più alle pagine stesse di questo testo di Calvino che considero molto importante per rispondere alle domande che tuttora poniamo a noi stessi, dopo oltre trent’anni dalla sua pubblicazione. Mi pare che Palomar resti un’esperienza di scrittura e di pensiero che non solo non va dimenticata (e con essa Italo Calvino) come qualcosa che appartiene a una stagione trascorsa, ma che ci riguarda sempre più da vicino e che siamo ben lontani dall’aver fatta nostra. Complessivamente, è un’esperienza di “etica minima” che Calvino lascia sospesa e che sta a noi far affondare nell’oblio oppure riprendere e utilizzare come una sorta di antidoto alle crescenti inquietudini culturali del nostro presente. Personalmente ritengo che sia per noi fondamentale, quasi vi4

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tale, appropriarci di questi “silenzi del signor Palomar” che Calvino raccontava in primissima persona, silenzi che nell’andamento delle sue pagine diventano via via più “rimuginanti”, rivelandoci che le bizzarre e quasi disordinate “osservazioni” possono rappresentare un modo di pensare che è al tempo stesso un modo di vivere. Anche per me la parola “etica” fa problema, quasi che nel momento in cui la adoperiamo ci costruissimo da soli una specie di gabbia: ho tentato di liberarla un po’ con l’aggettivo “minima”, che la indebolisce, comunque non ho dubbi che ne abbiamo un gran bisogno, soprattutto adesso, e che Calvino/Palomar ci fornisce un prezioso suggerimento con quel suo “mordersi la lingua” prima di parlare, gesto semplice ma difficilissimo da eseguire, partendo dal quale cominciamo a capire di che natura siano quei “silenzi” e che conseguenze sociali potrebbero avere se riuscissimo a praticarli. Sempre che ci convincessimo che è essenziale, irrinunciabile, imparare a farlo. Il contesto di Palomar e il nostro Eravamo all’inizio degli anni ottanta, in un contesto culturale molto diverso, più ricco e inquieto. Non è un caso che delle “osservazioni” che Calvino fa fare al suo personaggio si parlò allora, tra l’altro, su una rivista di filosofia (“aut aut”, appunto) e specificamente in uno spazio dedicato alla ricezione del cosiddetto “pensiero debole”, che era appena entrato con qualche rumore nel dibattito pubblico. In questo spazio cominciavano a essere ospitate voci provenienti da varie sensibilità filosofiche, non solo di alcuni di coloro che avevano partecipato direttamente all’antologia feltrinelliana fresca di stampa, ma anche di altri che potevano entrare in risonanza con il progetto “debolista” anche in ambito internazionale (in seguito, e per parecchi anni, i reading di Filosofia curati da Gianni Vattimo per Laterza ampliarono tale iniziativa). Calvino non partecipò direttamente, tuttavia entrò nella scena attraverso le mie note sul signor Palomar. Fu una forzatura? Magari destò qualche sorpresa, o magari ci sembra oggi che potesse farlo guardando indietro da un contesto, quello attuale, nel 5


quale la “ricchezza” cui ho accennato, che significava maggiore libertà di pensiero, ha poi lasciato il posto a un senso di rigidità disciplinare e forse dunque di “povertà”, malcelato in uno sciame culturale che moltiplica vertiginosamente i rumori mediatici. L’osservatorio che Calvino installa nel suo personaggio tende a catturare onde minori e minimi dettagli, lavora per attutire i rumori e costruire dei silenzi. Mi sembrava del tutto consonante con l’esperienza di pensiero che alcuni di noi credevano importante, anche politicamente. La mia intenzione era l’opposto di un tirar dentro, magari per i capelli, un nome grosso della letteratura contemporanea (semplicemente, poi, non c’era alcun “dentro” o squadra che facesse campagna acquisti): vedevo, invece, in Calvino e in quel suo singolare tipo di narrazione, ciò che la mia (e nostra) esigenza di mettere in piedi un diverso esercizio di pensiero poteva assumere quasi a modello di scrittura. Oggi siamo preda di molte amnesie e prevale il cinismo dell’oblio, ma allora l’amicizia tra narrare e pensare appariva a molti una posta in gioco importante per la filosofia e per il sapere in generale. Calvino era, e resta oggi sotto traccia, un esempio di pensiero che decostruisce il monolitismo del discorso in una sequenza di segmenti e di episodi narrati, proprio come accade in Palomar: osservazioni all’apparenza disperse che sono esse stesse il filo che la nostra ansia speculativa pretenderebbe già lì, bene articolato in una premessa teorica. Il signor Palomar – è Calvino stesso a riconoscerlo – se è vero che cerca qualcosa di simile a una “saggezza”, di fatto non la troverà. Perciò non è affatto irrilevante considerare anche il microcontesto da cui si produce Palomar: Calvino appresta una specie di rubrica intitolata “le osservazioni del signor Palomar”, qualcosa di simile a una rubrica da terza pagina di quotidiano, e che infatti comparirà parzialmente sul “Corriere della Sera” e marginalmente anche su “la Repubblica”. Il tono dei suoi “pezzi”, che va accumulando e in parte pubblicando, è molto diverso da quello dell’invettiva piratesca di Pasolini, tuttavia è un particolare curioso il fatto che è proprio a Pasolini che per un certo periodo Calvino dà in qualche modo il cambio sul “Corriere”. 6


Marcovaldo, straniero in città DAVIDE ZOLETTO

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a lunga e magra figura di Marcovaldo chinata mani sulle ginocchia a osservare incuriosito (e forse – almeno all’inizio – un po’ perplesso) una manciata di funghi spuntati ai piedi di un albero in un’aiuola cittadina è l’illustrazione di copertina – disegnata da Sergio Tofano (il celebre “Sto” creatore del Signor Bonaventura) – della prima edizione completa di Marcovaldo ovvero Le stagioni in città di Italo Calvino, uscita nel novembre 1963 nella collana “Libri per ragazzi” dell’editore Einaudi. 1 Questa immagine di Marcovaldo chino a osservare “i funghi in città” mi sembra possa essere una bella illustrazione del paradossale “esercizio” che Marcovaldo/Calvino possono indicare anche oggi a quanti lavorano come insegnanti o educatori nei quartieri delle città contemporanee, pur così diversi da quelli nei quali Marcovaldo cercava – negli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso – le tracce della natura e delle stagioni. Mi sembra che ce lo suggerisca lo stesso Calvino nel finale di 1. Com’è noto, i racconti di Marcovaldo vennero scritti da Calvino in tempi e per destinazioni diverse. Per esempio, un primo gruppo di racconti erano stati pubblicati sulle pagine del quotidiano “l’Unità” già nel 1952-53, mentre un ultimo gruppo di novelle aveva visto la luce nel 1963 (l’anno stesso della pubblicazione del volume completo) sulle pagine del “Corriere dei Piccoli”. Ma altri racconti vennero pubblicati nel corso degli anni cinquanta anche in altre riviste, e dieci di essi erano stati già raccolti nel 1958 in un più ampio volume calviniano di Racconti. Si veda, per una ricostruzione puntuale, M. Barenghi, “Note a Marcovaldo ovvero Le stagioni in città”, in I. Calvino, Romanzi e racconti, edizione diretta da C. Milanini, a cura di M. Barenghi e B. Falcetti, “I Meridiani”, Mondadori, Milano 1991, vol. I, pp. 1366-1389 (in particolare pp. 1367-1368).

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un breve testo introduttivo scritto appositamente per l’edizione “scolastica” di Marcovaldo, uscita nel 1966 nell’einaudiana collana di “Letture per la scuola media”. Fra l’altro, Calvino intitola quel breve testo “Prefazione seria e un po’ noiosa d’un libro che non vuol essere tale, ragion per cui i nostri lettori possono benissimo saltarla (ma se qualche professore volesse leggerla, vi troverà alcune istruzioni per l’uso)”. Allora è forse proprio da qui che possiamo legittimamente partire per provare a cercare delle istruzioni per un uso pedagogico di Marcovaldo in contesti educativi come quelli odierni segnati da una pluralità di differenze che non può essere letta solo attraverso le lenti delle cosiddette “culture”.2 Si chiede dunque Calvino, in queste righe finali della “Prefazione”, se “attraverso lo schermo di strutture narrative semplicissime” l’autore non avesse voluto, fra le altre cose, esprimere “il proprio rapporto, perplesso e interrogativo, col mondo”.3 Ma aggiunge poi, subito dopo: “Presentando questo libro per le scuole vogliamo dare ai ragazzi una lettura in cui i temi della vita contemporanea sono trattati con spirito pungente, senza indulgenze retoriche, con un invito costante alla riflessione”.4 Troviamo in queste righe quella che un paio di pagine prima Calvino stesso aveva chiamato una “vena didascalica […] discreta, sommessa, mai perentoria”5 che lo porta, anche in questo finale di “Prefazione”, a lasciare aperte “varie alternative di lettura”: non a caso, i vari suggerimenti di lettura sono quasi tutti proposti sotto forma di domande a cui Calvino sembra non voler dare una risposta definitiva. Del resto, l’intero Marcovaldo tiene 2. Per un’ampia e aggiornata discussione dei vari campi di ricerca e intervento pedagogico e didattico in ambito multi- e interculturale si veda il recente M. Fiorucci, F. Pinto Minerva, A. Portera (a cura di), Gli alfabeti dell’intercultura, ETS, Pisa (in corso di stampa). Per alcune proposte di analisi dei punti di forza e debolezza degli approcci culturalisti, si vedano D. Zoletto, Dall’intercultura ai contesti eterogenei. Presupposti teorici e ambiti di ricerca pedagogica, Franco Angeli, Milano 2012 e M. Tarozzi, Dall’intercultura alla giustizia sociale. Per un progetto pedagogico e politico di cittadinanza globale, Franco Angeli, Milano 2015. 3. I. Calvino, Marcovaldo, ovvero Le stagioni in città (collana: “Letture per la scuola media”), Einaudi, Torino 1966, p. 11. 4. Ibidem. 5. Ivi, p. 9.

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fede a questo proposito: si pensi al “misterioso” finale dell’ultimo racconto (richiamato anche nella “Prefazione”) con il leprotto che sfugge al lupo, zigzagando sulla distesa di neve bianca come la pagina… Per provare a tratteggiare una delle possibili letture di Marcovaldo nei contesti educativi di oggi, vorrei raccogliere in particolare “l’invito costante alla riflessione” sui temi della vita contemporanea, e il cenno al “rapporto perplesso e interrogativo col mondo”. Mi sembra che sia proprio questo tipo di atteggiamento quello che Sto coglie e illustra magistralmente nella copertina dell’edizione del 1963. È “l’occhio poco adatto alla vita di città” che Calvino descrive nel celebre incipit del primo racconto di Marcovaldo (appunto: “Funghi in città”): quell’occhio che faceva sì che l’attenzione di Marcovaldo non fosse quasi mai colpita dagli aspetti più consueti del paesaggio urbano (cartelli, semafori, vetrine ecc.), ma da altri particolari forse in apparenza meno urbani (per esempio, “la buccia di fico spiaccicata sul marciapiede” o per l’appunto i “funghi in città”…). Questi particolari, osserva Calvino, Marcovaldo li “faceva oggetto di ragionamento, scoprendo i mutamenti della stagione, i desideri del suo animo, e le miserie della sua esistenza”.6 Vorrei sottolineare soprattutto il carattere di esercizio che lo sguardo di Marcovaldo/Calvino suggerisce e fa sperimentare al lettore. Come ha sintetizzato efficacemente Domenico Scarpa nella “Postfazione” a una recente edizione di Marcovaldo, questo esercizio appare caratterizzato da almeno due tratti dello sguardo di Calvino sul mondo: da un lato, “la conoscenza della realtà per mezzo di piccoli indizi da cogliere”; dall’altro “uno straniamento per grandi e piccini”, ovvero “il procedimento letterario […] che consiste nel presentare un oggetto noto secondo un’angolazione che lo rende irriconoscibile a prima vista”.7 Scarpa stesso porta due esempi efficaci: da un lato proprio l’attenzio6. I. Calvino, Marcovaldo, ovvero Le stagioni in città, con illustrazioni di S. Tofano (collana “Libri per ragazzi”), Einaudi, Torino 1963, p. 7. 7. D. Scarpa, “Postfazione”, in I. Calvino, Marcovaldo, ovvero Le stagioni in città, Mondadori, Milano 2016, p. 135.

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“Una storia sui vari gradi di esistenza” ANTONELLO SCIACCHITANO

Ahimè, non mai due volte configura il tempo in egual modo i grani! E. Montale, Vento e bandiere (Ossi di seppia), 1925

L’antefatto Il Cavaliere inesistente (1959) è “una storia sui vari gradi di esistenza”. Così, di ritorno dall’America, Italo Calvino rispose alla malevola recensione di Walter Pedullà, intitolata Il romanzo di un ex comunista. Preso dalla polemica ideologica ad personam, a Pedullà sfuggì che, ipotizzando vari gradi di esistenza, compresi tra gli estremi dei due personaggi chiave: il cavaliere Agilulfo e lo scudiero Gurdulù, il primo minimamente, il secondo massimamente esistente, Calvino si allontanava da ogni intenzione ontologica, che secondo il millenario canone parmenideo può declinarsi solo in modo rigidamente binario: l’essere è, il non essere non è. Il romanzo si ispira, infatti, al non tanto paradossale motto cartesiano: “Anche ad essere s’impara”, che Calvino mise saggiamente in bocca a una donna, non a caso detta Sofronia. Gurdulù l’ha imparato? si chiede lo stesso Calvino nella sua bella favola. Noi l’abbiamo imparato meglio dello scudiero? Se no, cosa ce l’ha impedito? Domande cui tenterò di dare una risposta topologica, che ha il merito di essere breve, anzi “compatta”, nel senso specifico che dirò. Prima Cartesio Al liceo, sessant’anni fa, giusto quando Calvino scriveva il Cavaliere, mi insegnarono che Cartesio fu un filosofo razionalista di stampo idealista. In realtà idealista era lo stampo dell’insegnamento che ricevetti e che solo decenni dopo riesco a scalfire grazie anche a Calvino. Certo, Cartesio parlava di idee innate e tanto bastò a classificarlo come idealista. Si trascura, però, che l’idealismo servì 24

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a Cartesio per mascherare e far passare la dogana ecclesiasticoaristotelica al proprio pensiero che nella sostanza fu tutt’altro che idealista, addirittura meccanicista. Solo un secolo dopo le Meditazioni metafisiche, strappata la maschera platonizzante, La Mettrie rese giustizia al meccanicismo cartesiano nel suo L’uomo macchina, di recente opportunamente rimesso in circolazione da Mimesis. Cosa si intende per meccanicismo? La storia comincia nel V secolo a.C. con Leucippo e Democrito, i quali, come racconta Enzo Paci, contrapposero alla dicotomia idealistica parmenidea tra essere e non essere la materialistica tra pieno e vuoto. Vuoto, anzi nulla, è lo spazio che contiene il pieno, la materia, suddivisa in particelle elementari non ulteriormente divisibili. Lì, semplificando al massimo, sta la divaricazione fondamentale tra idealismo platonico e meccanicismo democriteo. Per il primo alla base dell’essere esistono essenze immutabili, per il secondo non c’è fondamento ontologico precostituito, ma solo interazioni variabili tra particelle, che nel loro diverso e praticamente irrepetibile modo di disporsi configurano la Lebenswelt, il mondo della vita (vita è nozione idealistica, però). Per il primo le essenze danno il senso alle cose, per il secondo il problema del senso non si pone, essendo le cose solo aggregati contingenti di particelle materiali tra loro in interazione. Per il prevalere dello schema idealista, più facile da immaginare e da trasmettere, grazie alla sua consistente dose di antropomorfismo, il pensiero meccanicista ebbe vita difficile. Per millenni l’idealismo impedì di concepire la variabilità, ingrediente base del meccanicismo. Le essenze ideali non variano. Al massimo si dà tra loro un polimorfismo, ma è assente qualunque forma di variabilità, che consenta, per esempio, di concepire il moto dei corpi, cioè la variazione di posizione dello spazio nel tempo – si pensi ai moti paradossalmente immobili di Achille e la tartaruga o alla freccia ferma di Zenone. Con il tempo meteorologico non andava meglio; gli antichi non avevano neppure la parola per dire “sereno variabile”. Senza variabilità non si concepiscono simmetrie; senza simmetrie, per esempio tra azione e reazione, non si concepiscono dinamiche. Nei tredici libri degli Ele25


menti di Euclide il termine summetros significa che due grandezze hanno unità di misura comune, stanno cioè in un rapporto “razionale” (logos), rigidamente definito e fissato. Anche il destino storico delle due forme di pensiero fu diverso. Mentre nei secoli il pensiero idealista variò poco, fissato com’era all’assetto platonico, quello meccanicista progredì gradualmente. A giorni aspettiamo dal CERN risultati potenzialmente rivoluzionari sull’esistenza di particelle supersimmetriche: gli s-fermioni che sono bosoni e gli s-bosoni che sono fermioni. La trasformazione radicale del pensiero meccanicista si deve a Epicuro; la registrò Lucrezio nel suo De rerum natura. Gli atomi si muovono nello spazio infinito a velocità infinita, perché non c’è nulla che la limiti. (Come tutti i classici Epicuro non aveva le idee chiare in fatto di velocità o di infinito, ma tant’è.) L’innovazione epicurea, prefigurazione delle interazioni molecolari, per esempio nella teoria cinetica dei gas di Boltzmann, fu l’introduzione della parenklesis, che Lucrezio tradusse clinamen; intendeva la deviazione dalla verticale. Gli atomi cadono nello spazio con un’inclinazione che li porta a collidere, aggregarsi, formare corpi e disgregarsi. Epicuro non concepì il clinamen in modo meccanico, ma come libera scelta del singolo atomo, dotato di forza vitale. Vitalismo con ricaduta idealistica a parte, la trama del pensiero meccanicista – precursore del pensiero debole scientifico – fu così fissata. Galilei e Cartesio lavorarono su Epicuro in estensione e in intensione approfondendo l’articolazione vuoto/pieno. Il modello galileiano di moto uniformemente accelerato fu epicureo in modo addirittura ipersemplificato: una sola particella, una singola sfera di bronzo, un solo clinamen, quello del piano inclinato su cui essa rotola. Semplice ma incredibilmente fecondo. Dal proprio modello Galilei derivò il principio d’inerzia, la legge quadratica del moto uniformemente accelerato e, soprattutto, il principio di relatività, il metaprincipio di invarianza secondo cui le leggi della meccanica si scrivono allo stesso modo in tutti i riferimenti inerziali – il tutto senza mai convocare il principio idealistico di ragion sufficiente. Galilei prescindette dalla causa 26


Invisibili o invivibili? Le nostre città attraverso Calvino STEFANO TIERI

La città vive in me come una poesia che non sono riuscito a fissare in parole. J.L. Borges, Fervore a Buenos Aires

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è bisogno di una particolare sensibilità per mettersi in ascolto di quella concrezione di edifici e rapporti umani che chiamiamo, quotidianamente, “città”. Una qualche grazia, dal tocco leggero, in grado di cogliere – senza schiacciare – la complessa stratificazione di vissuti collettivi, desideri realizzati o solo ideati, aspirazioni di affermazione o rivalsa. Il rischio di fraintendimento, l’incapacità di collocarsi nell’ambiguità che sembra caratterizzare – in ogni sua manifestazione – il tessuto urbano, può essere un limite invalicabile per chi non abbia vissuto la città (e pur volesse descriverla, pretendendo di racchiuderne una qualche verità) in tutte le sue sfumature, contraddizioni, stagioni – qualcuno ha nominato Marcovaldo? Con quale lingua parlare della città, permetterle di esprimersi attraverso la mediazione umana? Se tale sensibilità può esistere in una forma di espressione verbale – dove le ferree regole della grammatica vincolano ancor prima di ogni silenzio e parola –, è forse nella poesia, dove si ritrova una forma in grado di non forzare la mano ed emettere un giudizio sommario quanto prematuro. D’altronde, come osservava già Sartre in Che cos’è la letteratura?, la prosa è immersa nel “regno dei segni”, mentre la poesia – più slegata dalla dimensione del significato – dovrebbe essere considerata più vicina ad altre forme artistiche, come quella pittorica o quella musicale: proprio il vincolo a un determinato sistema di segni (solamente uno) conduce irrimediabilmente verso 36

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quei fraintendimenti prima accennati. La ricchezza della città sta altrove, nella sua impossibilità a essere ridotta a un mero elenco di cifre: chi volesse descriverla deve tenerne conto – e al tempo stesso imparare a districarsi da quel “conto” dalle sfumature statistico-matematiche, sempre più pressante nell’era dei Big Data e che sembra oggi definire l’essenza della città. Le città invisibili potrebbero essere considerate una prova a sostegno del fatto che la poesia può abitare anche gli spazi della prosa, sfuggendo alle forme metriche tradizionali per abbracciare la pagina in tutta la sua estensione. L’opera che Calvino definì, in una conferenza a New York del 1983, “un ultimo poema d’amore alle città, nel momento in cui diventa sempre più difficile viverle come città”,1 ci pone – già nell’anno della sua pubblicazione, il 1972, ma continua a farlo ancora oggi – dei precisi interrogativi su dove stia andando la città, e noi con lei, in quanto suoi abitanti e architetti (in)consapevoli delle sue innumerevoli strutture. È a partire – e attraverso – il romanzo di Calvino che qui proverò ad abbozzare una possibile risposta, interrogando proprio quegli aspetti delle nostre città che ci sembrano essere, nel frattempo, sfuggiti di mano. Viviamo in una società in cui le tecnologie sembrano aver portato, più che verso l’utopia di una “nuova Babilonia”,2 alla distopia di un mondo senza lavoro, dovuto non però a una qualche forma di liberazione ma al crollo della domanda, grazie anche alla possibilità – da parte di chi assume – di ricorrere in misura sempre maggiore alla “manodopera” robotizzata delle macchine.3 E dove la creatività – lungi dall’essere il fulcro dell’esistenza umana fondata sul gioco, come immaginato dall’utopia di Constant – si manifesta principalmente come la caratteristica che permette all’eterno precario di crearsi sempre nuove occupazioni per sbarcare il lunario. 1. I. Calvino, Le città invisibili, Mondadori, Milano 2008, p. IX. 2. Il riferimento è all’artista olandese Constant Nieuwenhuys, che nel 1956 immaginò una città futura in cui veniva meno la necessità di lavorare da parte degli uomini, che così potevano dedicarsi liberamente alle arti. 3. Secondo le ultime conseguenze di un processo individuato da Calvino già nel 1962, quando l’autore osservava come si fosse entrati “nella fase dell’industrializzazione totale e dell’automazione” (I. Calvino, Una pietra sopra, Mondadori, Milano 2011, p. 101).

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Nelle nostre città il processo di gentrificazione dei quartieri popolari si accompagna all’espandersi infinito delle periferie, la cui ri-semantizzazione del termine ce le fa ormai percepire come degradate e pericolose, se non addirittura come spazio-ghetto – specie dopo la rivolta delle banlieue parigine del 2005, scaturita dall’emarginazione sociale dei loro abitanti considerati a tutti gli effetti di “serie B”. Per non parlare dell’inquinamento atmosferico, divenuto la prima causa di morte prematura nell’Unione Europea,4 ormai una piaga anche in quei paesi cosiddetti “emergenti” che cercano di rincorrere il benessere occidentale, purtroppo senza considerare adeguatamente le sue nefaste conseguenze a lungo termine. Un inquinamento che rende le città letteralmente invisibili (oltre che invivibili): le immagini di Pechino avvolta lo scorso inverno in una nebbia miasmatica ne sono una triste testimonianza. Nella lettura che Calvino fa delle città spesso questi aspetti sono già presenti, accennati a margine o affrontati direttamente, a volte soltanto annunciati, come a ricordarci l’imminente pericolo a cui stavamo (e stiamo tuttora) andando incontro. Si ritrovano soprattutto nella parte conclusiva del romanzo, a cui Calvino stesso dava primaria importanza:5 se nei primi racconti prevale una dimensione fiabesca,6 che colloca il lettore in un mondo più vicino a quello mediorientale di Le mille e una notte che a quello delle moderne città europee, è verso la fine del libro – principalmente in Le città continue – che il sogno si tramuta in incubo, svelando quanto la narrazione ci riguardi direttamente e ci chiami in prima persona alla mobilitazione. È qui che la cifra etica del romanzo emerge con più decisione, ricordandoci come la nostra diretta responsabilità inizi dalle più piccole scelte quotidiane. 4. <http://www.lastampa.it/2015/07/08/scienza/ambiente/il-caso/loms-linquinamentoatmosferico-uccide-milioni-di-persone-q4Nc1PiSYcibqiVR9PIL2M/pagina.html>. 5. Come scriverà l’autore in una lettera rivolta a Caterina De Caprio, l’“intenzione fondamentale del libro [è] la fase culminante che attraverso la negatività senza spiragli delle Città continue arriva alla sola positività delle Città nascoste” (I. Calvino, Lettere 19401985, Mondadori, Milano 1999, p. 1235). 6. Si pensi per esempio al racconto della città di Diomira, con cui si apre il romanzo, e a quelli subito successivi: Isidora, Dorotea, Zaira, Anastasia...

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Il gioco e il Grande Gioco. Sul Sentiero dei nidi di ragno PAOLO ZANOTTI

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i può provare a leggere Il sentiero dei nidi di ragno in parallelo con la tradizione della letteratura avventurosa per ragazzi (o con protagonisti ragazzi)? In particolare L’isola del tesoro di Stevenson e Kim di Kipling? Potrebbe sembrare un’ottica abbastanza ristretta, forse insoddisfacente, per avvicinarsi al Sentiero dei nidi di ragno. In realtà, è possibile affrontare i temi principali del primo libro di Calvino (prospettiva ridotta, soggettivismo e realismo, esperienza individuale e Storia) anche partendo da questo punto di vista, considerando cioè il modo in cui il Sentiero si riallaccia a una vecchia tradizione e ne riutilizza – a volte anche stravolgendoli – i modelli di eroe e di condotta dell’azione. Senza contare che l’avventura per ragazzi era una forma letteraria molto cara a Calvino, se a essa viene dedicata un’intera sezione del saggio Natura e storia del romanzo, in cui la tradizione dell’avventura per ragazzi viene opposta agli sviluppi della narrativa novecentesca sull’adolescenza (dai grandi testi d’inizio secolo – Il grande Meaulnes, I turbamenti del giovane Törless – in poi). D’altra parte, Calvino ribadì sempre il suo attaccamento a numerosi testi di questa tradizione, in particolare all’Isola del tesoro, al Gordon Pym di Poe e all’Huckleberry Finn. Nella sua celebre recensione al Sentiero dei nidi di ragno, CePubblichiamo qui un estratto della tesi di dottorato di Paolo Zanotti, saggista e scrittore scomparso nel 2012. Ringraziamo Sergia Adamo per averci trasmesso questo testo.

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sare Pavese non citò direttamente questa tradizione, ma parlò in generale della metamorfosi del romance, che ha portato dai cavalieri ariosteschi ai ragazzi di Stevenson, Kipling, Dickens e Nievo: Malgrado il carrugio, malgrado il sentore di chiasso e di feccia, la giornata di Pin ha una grande purezza; scontrosa sboccata maligna come trascorre, è tutta fresca, baldanzosa di scoperte, di gesta, di onore, proprio come la giornata di un Astolfo e di un Jim Hawkins. Infatti quello “schietto e goloso abbandono all’incalzare di eventi e catastrofi […], quella schietta e complicata ingenuità dei poemi, può ritrovarsi ai giorni nostri solamente dentro un cuore di fanciullo”.1 Si tratta quindi, anche se solo accennata, della stessa linea di trasformazioni ricostruita da Calvino in Natura e storia del romanzo. Il seguito dell’attività letteraria di Calvino diede sicuramente ragione a Pavese: Calvino si sarebbe dimostrato uno “scoiattolo della penna”2 e, nei panni del Barone rampante, si sarebbe “arrampicato sulle piante più per gioco che per paura”.3 Anche a proposito delle sue predilezioni letterarie, Calvino diede pienamente ragione a Pavese. Nella prefazione del 1964 al Sentiero dei nidi di ragno, infatti, possiamo leggere: Questa letteratura [Hemingway, Babel, Fadeev...] c’è dietro al Sentiero dei nidi di ragno. Ma in gioventù ogni libro nuovo che si legge è come un nuovo occhio che si apre e modifica la vista degli altri occhi o libri-occhi che si avevano prima, e nella nuova idea di letteratura che smaniavo di fare rivivevano tutti gli universi letterari che m’avevano incantato dal tempo dell’infanzia in poi... Cosicché, mettendomi a scrivere qualcosa come 1. C. Pavese, “‘Il sentiero dei nidi di ragno’” (1947), in La letteratura americana e altri saggi, Einaudi, Torino 1990, p. 246. 2. Ivi, p. 245. 3. Ibidem.

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Per chi suona la campana di Hemingway volevo insieme scrivere qualcosa come L’isola del tesoro di Stevenson.4 Ora, si sa che non conviene mai fidarsi delle dichiarazioni retrospettive, specialmente quando si tratta di Calvino, sempre pronto a far quadrare tutto. Questo per non incorrere nella tentazione – a nostra volta – di far quadrare tutto. La forma avventurosa – almeno quando vuole dare l’impressione di una minima coerenza psicologica – si basa sul confronto – che poi diventa mediazione e collaborazione – di due forze a prima vista contrastanti: la curiosità (e l’impulsività) e lo schema finalistico dell’impresa avventurosa. In uno dei grandi classici del romanzo di avventura, Kim di Kipling, per esempio, l’integrazione del protagonista eponimo all’interno della società indiana (tanto indigena quanto bianca) coincide con l’integrazione di queste due “spinte”: la naturale curiosità di Kim (vedere il mondo, conoscere gli uomini, agire di testa propria) è proprio quel che serve agli inglesi per inserirlo nel loro Gioco: la rete di spionaggio. Il gioco infantile, alla fine, diventa il Big Game (o, per usare termini più interni al tema, il play istintivo diventa un game fornito di regole certe). D’altro canto, in Stevenson le due forze vengono conciliate in modo quasi ironicamente meccanico: la curiosità e l’incoscienza di Jim, nell’Isola del tesoro, contribuiscono al buon esito dell’avventura in modo assolutamente casuale; e non c’è nessuna ragione apparente perché l’avventura debba essere condotta da Jim (o meglio, c’è solo una ragione letteraria: perché nell’avventura per ragazzi è il ragazzo che deve mettere tutto a posto). Se consideriamo l’opera di Calvino nel suo complesso, possiamo vedere che il rapporto tra queste due forze (la dispersione curiosa e ludica e l’ordine avventuroso) è spesso il vero centro problematico della narrazione. L’esempio più evidente è il Cavaliere inesistente: il Cavaliere incarna l’etica cavalleresca nella sua

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4. I. Calvino, “Prefazione 1964”, in Romanzi e racconti, Mondadori, Milano 1991, vol. p. 1196.

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Le altre Lezioni americane NICOLA NARCISO

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isale agli inizi degli anni settanta il progetto per una rivista letteraria che avrebbe dovuto raccogliere i propositi, i pensieri e le scritture di Italo Calvino, Claudio Rugafiori e Giorgio Agamben, il quale è rimasto, a ben guardare, poco investigato dalla critica, forse per la sua mancata realizzazione, e sul quale ancora non sufficientemente si è scritto, se non in certe esigue pagine dal carattere rievocativo e memorialistico, più che storico-letterario e critico. Il proponimento di questa rivista era di tracciare, mediante l’identificazione di coppie concettuali contrapposte, nulla meno che le categorie fondamentali della cultura e della tradizione italiane: tale germoglio trovò senz’altro radice attecchendo in un secondo dopoguerra che nutriva un’appassionata esigenza di risollevare le sorti di un paese dalla troppo fervida tradizione culturale per poter restare in un certo sordo immobilismo di prospettive. Già a partire dalla fine degli anni cinquanta, infatti, il tracciato fu in questa direzione segnato a Torino da “Il Menabò di letteratura” di Vittorini e dello stesso Calvino e, due anni dopo la morte del primo, quasi in eredità e naturale sviluppo, da un’ulteriore rivista, “Alì Babà”, alla quale, questa volta, al fianco di Calvino vi furono Gianni Celati e Carlo Ginzburg. In coda dunque alle intensità, neorealistiche e non solo, di quegli anni si situa il progetto con Rugafiori e Agamben, di cui oggi restano poche tracce e lontani echi. La testimonianza più si66

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gnificativa di quel cantiere di studi così abbandonato si cela laddove più semplicemente potrebbe risiedere, come in una finzione di Borges, in cui l’ultima lettera del nome di Dio si nasconde nella geometria cristallina del Tetragràmaton. Se ne ha infatti traccia in alcuni passaggi introduttivi di un testo dello stesso Agamben, esemplare già solo nel titolo; rebus sic stantibus è dunque doveroso segnalare quelle righe di Categorie italiane in cui se ne scorge il disegno: Fra il 1974 e il 1976 m’incontravo regolarmente a Parigi con Italo Calvino e Claudio Rugafiori per definire il programma di una rivista che, nelle nostre intenzioni, avrebbe dovuto essere pubblicata dall’editore Einaudi. Il progetto era ambizioso e nelle conversazioni s’inseguivano, a volte senza contrappunto, i motivi dominanti e gli echi smorzati dell’officina di ciascuno. Su una cosa eravamo, però, tutti d’accordo: una sezione della rivista doveva essere dedicata alla definizione di quelle che fra noi chiamavamo “categorie italiane”. Si trattava di identificare, attraverso una serie di concetti polarmente coniugati, nulla di meno che le strutture categoriali della cultura italiana. Claudio aveva subito suggerito architettura/vaghezza (cioè il dominio dell’ordine matematico-architettonico accanto alla percezione della bellezza come cosa vaga); Italo già ordinava ossessivamente immagini e temi lungo le coordinate velocità/ leggerezza; io (che stavo lavorando allo studio sul titolo della Commedia che apre questa raccolta) proponevo di esplorare le opposizioni tragedia/commedia, diritto/creatura, biografia/ favola. Per ragioni che non è qui il luogo di chiarire, il progetto non si realizzò. Rientrati in Italia, ci urtammo tutti, del resto, sia pure in modo diverso, alla svolta politica che si preparava e che avrebbe impresso il suo cupo conio agli anni Ottanta: non era tempo, evidentemente, di definizioni programmatiche, ma di resistenza ed esodo. Del progetto comune, oltre che in un ampio scartafaccio rimasto fra le carte di Italo, è possibile trovare qualche eco nelle sue 67


Materiali

Pubblichiamo la trascrizione, rivista dall’autore, della conferenza tenuta da Edoardo Camurri il 16 giugno 2016 a Trieste, in occasione del Bloomsday, dal titolo “Free leaves for ebribadies! Dionisismo e psichedelia per leggere Finnegans Wake”. All’incontro erano presenti anche Renzo Crivelli (ordinario di Letteratura inglese all’Università di Trieste) e Riccardo Cepach (responsabile del museo Joyce e del museo Svevo di Trieste). Ricordiamo che è in corso di pubblicazione, presso l’editore Mondadori, la prima traduzione integrale in lingua italiana di Finnegans Wake, a cura di Enrico Terrinoni e Fabio Pedone, che riprendono il lavoro lasciato incompiuto da Luigi Schenoni, e che lo stesso Camurri ha presentato alcune parti del Finnegans Wake nella traduzione di J. Rodolfo Wilcock (Giometti & Antonello, Macerata 2016).


Finnegans Wake, un’opera psichedelica EDOARDO CAMURRI

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aspetto più interessante – o meglio: uno degli aspetti che mi interessano maggiormente del Finnegans Wake di Joyce – è quello psichedelico. In senso stretto: penso all’LSD, al peyote, alle esperienze lisergiche, alle uscite dal mondo attraverso l’utilizzo di sostanze psichedeliche. Riccardo Cepach mi chiede cos’è il Finnegans Wake. Proverò allora a illustrare una possibile risposta proprio prendendo la strada del discorso psichedelico. Inizierò raccontandovi la storia del cognato di Italo Svevo, Bruno Veneziani. Sua sorella, Livia Veneziani, oltre a essere la moglie di Ettore Schmitt (Italo Svevo), è anche la figura che ha ispirato Joyce per descrivere la figura femminile del Finnegans Wake. Si ispira a Livia per i suoi capelli lunghi e fluenti, che gli ricordano il fiume Liffey di Dublino. Bruno Veneziani, omosessuale e morfinomane, era la pecora nera della famiglia: non riesce a lavorare, spende un sacco di soldi, impensierisce tutti; eppure (anzi, proprio per questo) fa esperienza di alcuni dei momenti più importanti del Novecento: proprio per il suo essere la pecora nera della famiglia viene infatti curato da Freud. Va dunque a Vienna, la capitale dell’impero, dove Freud lo visita ma a un certo punto nemmeno il padre della psicoanalisi sa più cosa fare. Però non cede e lo passa al suo collega, l’inventore del termine Es: Georg Groddeck. Groddeck – chi ha mai letto uno dei suoi splendidi e matti libri lo sa – è un uomo di amplissime vedute, la sua coscienza e la sua intelligenza sono tanto libere da aut aut, 372, 2016, 75-91

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riuscire ad accettare e accogliere qualunque elemento instabile dell’esistenza. Eppure lo stesso Groddeck a un certo punto scrive alla famiglia Veneziani: “Io con Bruno Veneziani non so che fare”, e così lui torna a Trieste, con più problemi di prima, rifiutato da due giganti della psicoanalisi. Le tracce di Bruno Veneziani ora si perdono, e le ritroviamo sul frontespizio della prima traduzione italiana dei Ching, il libro sapienziale cinese, un oracolo. L’ha tradotto lui, dal tedesco, dalla traduzione che aveva fatto fare Jung dei Ching, ma Bruno Veneziani aveva anche fatto un confronto con il testo cinese. Chi l’aveva messo a tradurre i Ching? Ernst Bernhard, psicoanalista allievo di Jung, chirologo, astrologo e chiromante; fu lui, insieme a Roberto Bazlen, ad affidare a Bruno Veneziani la traduzione dei Ching. Questa è una storia magica: un uomo che ha attraversato da outsider la parte più pulsante del Novecento e che, dopo aver sconfitto Freud e Groddeck e la loro volontà terapeutica, riemerge come traduttore di uno dei libri chiave per intendere la seconda metà del Novecento. Ora il punto è questo. Quali erano i libri più letti, studiati, commentati, analizzati, dibattuti, in uno dei luoghi più importanti per la storia dell’umanità contemporanea, la California degli anni sessanta, all’interno della controcultura americana che ha ideato quel mondo dentro cui ancora siamo immersi oggi con Internet, tablet e smartphone? I Ching e il Finnegans Wake. Quel mondo è paragonabile, come importanza e come conseguenze, a un altro momento facilmente circoscrivibile della storia del pensiero occidentale: Heidelberg, fine Settecento, quando tre giovani amici – Hegel, Schelling e Hölderlin – piantano l’albero-simbolo dell’idealismo tedesco. È stato uno dei rari momenti di grazia in cui tutte le energie dell’umanità erano concentrate simbolicamente lì, con quel gesto è cambiato il modo di pensare di tutti noi. I ragazzi della controcultura, gli sperimentatori delle sostanze psichedeliche nella San Francisco degli anni sessanta, vivono un momento per certi versi analogo, avendo cambiato il nostro modo di pensare, con i computer e l’idea elettrica della realtà come flusso. Bruno Veneziani lo ritro76


viamo lì, spedito come un razzo dalla Trieste asburgica agli States della controcultura, in quanto testimone fisico del Finnegans Wake – Livia Veneziani arrivò a raccomandarlo a James Joyce a Parigi – e del testo sapienziale cinese, molto avvicinabile per certi versi a lettori “strani” (Timothy Leary, Philip Dick, Terence McKenna, Robert Anton Wilson, nomi di figure molto controverse e per niente sistematizzate e addomesticate dallo studio cosiddetto scientifico). In quegli anni, negli Stati Uniti, intervistano alla televisione Marshall McLuhan, l’autore della Galassia Gutenberg, primo grande testo che riflette sui media. Quando gli viene chiesto se abbia mai provato l’LSD, McLuhan risponde: “Non l’ho mai provato, ma in compenso ho letto Finnegans Wake”.1 Sono d’accordo con lui: l’LSD è in fondo, a detta di chi li ha provati entrambi, una forma debole di Finnegans Wake. Per rispondere alla domanda su cosa sia il Finnegans Wake abbiamo messo in campo uno scenario a dir poco eteroclito, con personaggi e storie che non è facile incontrare quando si parla di Joyce. Proviamo ora a rispondere in maniera più apollinea alla domanda. A voler semplificare molto – questo è ciò che di solito si legge sui manuali –, se l’Ulisse è la storia di una giornata, il 16 giugno, trascorsa a Dublino, in cui il protagonista principale è Leopold Bloom, ed è quindi un libro del giorno (si chiude proprio quando Leopold Bloom torna a casa e si infila sotto le lenzuola fino a quando non lo sveglia la moglie Molly che parte col suo soliloquio), il Finnegans Wake è il libro della notte. C’è un uomo, Earwicker, solitamente caratterizzato dalle lettere HCE (“here comes everybody”, ecco qui l’uomo qualunque, l’uomo che è tutti, l’uomo universale), che dorme. Stiamo parlando di un libro che ancora adesso non si capisce bene cosa contenga: per esempio a un certo punto il protagonista compie un reato sessuale al Phoenix Park, ma non c’è ancora un interprete che sappia dire cosa abbia fatto davvero. È un libro

1. Cfr. <https://www.youtube.com/watch?v=2JIjoBqbdhk>.

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Warburg e l’antropologia evoluzionista. Note di metodo su survival e Nachleben RAOUL KIRCHMAYR

1. Sul problema del Nachleben: indizi, prove e ipotesi Se nel discorso storico-artistico Warburg è l’autore che ha portato in auge la formula Nachleben der Antike, la “sopravvivenza dell’antico”, essa è ormai divenuta una specie di passe-partout linguistico da impiegare ogniqualvolta si citi o ci si riferisca alla sua “opera”.1 Tuttavia, resta da comprendere il paradosso del successo della formula: quanto più essa si è diffusa, diventando quasi una dévise retorica o uno stereotipo, tanto più essa ha celato il suo senso enigmatico, velatosi dietro la fortuna dell’espressione, analogamente, del resto, a ciò che è accaduto per l’altra grande invenzione linguistica di Warburg, cioè la nozione di Pathosformel.2 Forse il paradosso è in un certo qual modo legato a una duplice oscurità che avvolge la formula: da un lato quanto alla sua provenienza, dall’altro lato quanto alle sue filiazioni e al suo destino. Per le sue filiazioni ci troviamo dinnanzi al pericolo dell’abissalità dei riferimenti, al punto che “seguire le incarnazioni della sopravvivenza equivarrebbe – compito impossibile – a ripercorrere tutta la storia della disciplina dopo Warburg”.3 Per la provenienza il compito non è meno difficile. Andando alla ricerca delle radici del termine, una parte dei 1. Cfr. G. Didi-Huberman, L’immagine insepolta. Aby Warburg, la memoria dei fantasmi e la storia dell’arte (2002), trad. di A. Serra, Bollati Boringhieri, Torino 2006, p. 91. 2. Sulla genesi e sul significato della Pathosformel è ritornato recentemente C. Ginzburg in “Le forbici di Warburg”, in M.L. Catoni (a cura di), Tre figure. Achille, Meleagro, Cristo, Feltrinelli, Milano 2013, pp. 109-132. 3. G. Didi-Huberman, L’immagine insepolta, cit., p. 90.

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contributi più recenti si è soffermata su un’esperienza decisiva compiuta da Warburg, tanto per il conio della parola quanto per il senso che le è stato conferito, cioè il viaggio negli Stati Uniti del 1896 e il contatto con le popolazioni native hopi del Nuovo Messico.4 Secondo questa linea di ricerca, dimostratasi assai feconda, alla radice dell’iconologia e della storia dell’arte à la Warburg occorre riconoscere l’influsso dell’antropologia culturale che, motivo caratterizzante l’epoca in cui Warburg compì il viaggio, era contrassegnata da modelli esplicativi tratti dell’evoluzionismo. In quegli anni tali modelli operavano come sapere di sfondo e come schema direttivo della ricerca etnografica. Ogni epoca ha la sua atmosfera culturale: fin dall’inizio del suo percorso intellettuale Warburg aveva respirato quella del positivismo ed è in essa che trova degli strumenti di analisi del mito, del simbolo e dell’immagine. Dopo un lungo e spesso tormentato processo di elaborazione, questi si mostreranno fecondi quanto ai problemi di storia della cultura che Warburg affrontò in seguito all’esperienza americana. Nella letteratura critica l’importanza epistemologica dell’esperienza presso gli hopi è ormai ampiamente riconosciuta. Il viaggio negli Stati Uniti aveva avuto per Warburg un effetto après coup, con una funzione di rottura e di riorganizzazione sia della concettualizzazione sia della metodologia della ricerca. Il cortocircuito prodotto dal soggiorno americano gli permise di ricontestualizzare i problemi emersi nel corso delle sue indagini sul Rinascimento fiorentino. Quanto alle Wirkungen che il viaggio 4. Cfr. A. Warburg, Werke in einem Band, sezione “Anthropologie und Kulturgeschichte”, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2010, pp. 493-600; Id., Il rituale del serpente (1939), trad. di G. Carchia e F. Cuniberto, Adelphi, Milano 1998; A. Warburg, Gli Hopi, a cura di M. Ghelardi, Aragno, Torino 2006; cfr. E. Gombrich, Aby Warburg. Una biografia intellettuale (1970), trad. di A. Dal Lago e P.A. Rovatti, Feltrinelli, Milano 1983, 20022, pp. 8488; S. Settis, “Kulturgeschichte als vergleichende Kulturwissenschaft: Aby Warburg, die Pueblo-Indianer und das Nachleben der Antike”, in W.T. Gaehtgens, Kunstlerischer Austausch – Akten des XVIII internationales Kongresses für Kunstgeschichte, Akademie Verlag, Berlin 1992, pp. 139-158; cfr. anche le pagine di P.-A. Michaud dedicate al viaggio di Warburg in Aby Warburg et l’image en mouvement, Macula, Paris 1998, pp. 169-223; G. DidiHuberman, L’immagine insepolta, cit., pp. 327-333; cfr. anche C. Cieri Via, Nei dettagli nascosto. Per una storia del pensiero iconologico, Carocci, Roma 2014, p. 48.

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avrebbe prodotto sulle sue riflessioni storico-artistiche, il rapporto tra le osservazioni e le indagini da lui compiute in Nuovo Messico, la conferenza di Kreuzlingen sul rituale del serpente e il progetto di Mnemosyne offrono ampie e convincenti prove circa il riconoscimento di linee di continuità nelle sue ricerche. 5 I maggiori problemi interpretativi si aprono invece circa l’impatto che l’evoluzionismo ha avuto sulla concezione del sapere storico elaborata da Warburg. Qui le certezze scemano e si aprono diverse ipotesi che, pur convergendo su una comune idea di “influenza” dell’evoluzionismo sul pensiero di Warburg, incontrano diverse difficoltà a rendere conto della genesi del concetto-chiave di Nachleben. Per circoscrivere la dimensione del problema, esamineremo alcuni dei più rilevanti tentativi di spiegazione che sono stati avanzati in merito alla genesi del Nachleben, mostreremo dove e fino a che punto paiono essere delle ipotesi da accogliere e, infine, cercheremo di avanzare un’ipotesi ulteriore che possa permettere di superare le attuali impasses interpretative. Partiremo dalla seguente constatazione: il significante-guida di Nachleben è usurato e la sua traduzione – anzitutto con “sopravvivenza” – non ci garantisce più una comprensione né dell’intenzione di Warburg né, tantomeno, degli oggetti che egli aveva scelto per le proprie indagini storico-artistiche. Ben lungi dall’essere perspicuo, il concetto-chiave di Nachleben è tuttora problematico se esaminato sotto il profilo del prestito linguistico, della traduzione parola per parola e della sovrapposizione di significati avvenuta a seguito dell’innesto linguistico da una lingua all’altra, cioè dall’inglese survival, voce attestata nel lessico dell’antropologia evoluzionista, al tedesco Nachleben. I problemi nascono qui, a proposito di questa doppia fonte di un concetto-chiave dell’iconologia warburghiana. In quest’occasione ci limiteremo a esaminare il modo in cui il problema è stato posto e risolto in alcune tra le principali li5. Cfr. la Vorbemerkung der Herausgeber alla sezione “Anthropologie und Kulturgeschichte”, in A. Warburg, Werke in einem Band, cit., pp. 506-507.

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Survival e Nachleben in Warburg. Breve antologia di testi di riferimento

Presentiamo qui alcuni testi che forniscono al lettore dei punti di riferimento in merito al dibattito sulla nozione di Nachleben in Aby Warburg, che si ipotizza sia imparentata con la nozione di survival per com’è stata elaborata dall’antropologia evoluzionista della seconda metà dell’Ottocento. La scelta è caduta su due fonti (Edward Burnett Tylor e Augustus Lane Fox Pitt-Rivers) messe particolarmente in rilievo dalla letteratura critica. Gli altri brani scelti sono un passo del Rituale del serpente di Warburg, un brano del capitolo dell’Immagine insepolta di Didi-Huberman dedicato ai rapporti tra Tylor e Warburg e, infine, alcune pagine del lavoro di Michaud che quasi vent’anni fa ha rilanciato l’interesse per il viaggio etnografico di Warburg in Nuovo Messico nella prospettiva degli studi visuali e di cinema. [R.K.] E.B. Tylor, Primitive Culture (1871) Tra le prove che ci aiutano a rintracciare il cammino che le civiltà mondiali hanno realmente seguito, c’è quell’ampia classe di fatti per indicare i quali ho ritenuto fosse opportuno introdurre il termine di “sopravvivenze” (survivals). Sono processi, costumi, opinioni ecc. portati dalla forza dell’abitudine in una nuova configurazione della società, diversa da quella in cui erano nati, sicché rimangono come prove ed esempi di uno stato della cultura più antico, da cui uno più nuovo si è evoluto. Così, conosco una vecchia donna del Somersetshire il cui telaio a mano risale all’epoca precedente l’introduzione della “spoletta volante”, uno strumenaut aut, 372, 2016, 121-132

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to di nuovo conio che lei non aveva mai imparato a usare. L’ho vista passare la spoletta da una mano all’altra nel modo più classico; quest’anziana donna non è indietro di secoli rispetto alla sua epoca, ma è un caso di sopravvivenza. Tali esempi spesso ci riportano alle abitudini di secoli e perfino di millenni fa. L’ordalia della Chiave e della Bibbia,1 ancora in uso, è una sopravvivenza; il falò di Mezza estate è una sopravvivenza; la cena per gli spiriti dei morti che i contadini bretoni preparano per Ognissanti è una sopravvivenza. La semplice conservazione di antichi costumi è solo una parte della transizione dal vecchio al nuovo e del mutamento dei tempi. Si può vedere come le serie occupazioni dell’antica società siano assorbite nello sport delle generazioni posteriori, e le sue serie credenze permangano nel folklore infantile, mentre le abitudini tramontate della vita del mondo antico, ancora potenti per il bene e per il male, possono essere modificate nelle forme del mondo nuovo. Talvolta pensieri e pratiche del passato esplodono nuovamente, con lo stupore di un mondo che li credeva già morti o moribondi; in questo caso la sopravvivenza diventa un revival, come è ultimamente accaduto nel caso della storia del moderno spiritismo, un tema ricco di spunti per il punto di vista dell’etnografo. Invero, lo studio dei principi della sopravvivenza non ha una piccola importanza pratica perché buona parte di ciò che chiamiamo superstizione rientra nella sopravvivenza, e in questo modo si rende disponibile all’attacco del suo nemico mortale, cioè la spiegazione razionale. Inoltre, per quanto siano di per sé insignificanti moltissimi esempi di sopravvivenza, il loro studio è così efficace per tracciare il corso dello sviluppo storico, solo per mezzo del quale diventa possibile comprendere il loro significato, al punto da diventare un elemento vitale della ricerca etnografica volta a pervenire alla visio1. È un’antica ordalia in uso in Gran Bretagna presso le classi popolari. Consiste nel porre la chiave in un capitolo della Bibbia, per essere quindi chiusa e legata strettamente. Appesa la Bibbia a un chiodo, uno dei presenti ripete per tre volte il nome della persona accusata, mentre viene recitata la frase “se gira a te tu sei il ladro e noi tutti siamo liberi”. Se, una volta aperto il libro, la chiave è trovata girata, allora l’accusato è giudicato colpevole. [N.d.T.]

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ne più chiara della loro natura. Questa importanza giustifica l’attenzione qui data all’analisi della sopravvivenza, con l’ausilio di prove fornite da giochi, detti popolari, costumi, superstizioni e simili, per ciò ch’essi possono servire allo scopo di portare alla luce il modo in cui essa funziona. Progresso, degradazione, sopravvivenza, revival, modificazione sono tutti modi di connessione che legano assieme la complessa rete della civiltà. Basta gettare uno sguardo nei dettagli banali della nostra vita di tutti i giorni per farci pensare quanto lontani siamo dall’esserne i suoi artefici e quanto invece trasmettiamo e modifichiamo i conseguimenti ottenuti in epoche passate. Guardando nella stanza in cui viviamo, possiamo provare quanto poco sia in grado di comprendere esattamente il suo tempo colui che vive solamente in esso. Qui c’è il caprifoglio assiro, là il giglio d’Angiò, una cornice con bordatura greca corre lungo il soffitto, lo stile di Luigi XIV e del Rinascimento che lo ha generato si rispecchiano reciprocamente. Trasformati, spostati o mutilati, questi elementi artistici portano ancora con sé la loro storia chiaramente impressa su di essi; e se la storia passata più lontana è meno facile da leggere, non dobbiamo certo affermare che non esista alcuna storia dal momento che non possiamo discernerla con chiarezza. [E.B. Tylor, Primitive Culture (1871), John Murray, London 18732, pp. 16-17.] Confrontando diversi stadi di civilizzazione tra razze storicamente note, con l’ausilio dell’inferenza che l’archeologia fa partendo dai resti di tribù preistoriche, sembra possibile giudicare in modo incompleto una precedente condizione generale dell’uomo, che dal nostro punto di vista dovrebbe essere considerata come primitiva, indipendentemente dallo stato precedente che in realtà può essere stato superato. Questa ipotetica condizione primitiva corrisponde, in misura considerevole, a quella delle moderne tribù di selvaggi che, nonostante la loro differenza e la loro distanza, hanno in comune alcuni elementi di civilizzazione, che paiono essere ampiamente dei residui di uno stato precedente del cammino umano. Se questa ipotesi fosse vera, allora, nonostante la continua interferenza della 123


Osservazioni sull’inconscio ottico LINDA BERTELLI

1. Inconscio ottico e alienazione Nella seconda stesura del suo saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Walter Benjamin descrive le caratteristiche di un peculiare rivolgimento percettivo avvenuto grazie al cinema. Il cinema è un’apparecchiatura che consente all’uomo non solo di rappresentarsi di fronte alla macchina da presa, ma anche di rappresentarsi il mondo per mezzo di essa. La psicologia della prestazione e la psicoanalisi sono le due facce della stessa medaglia: la capacità di portare in primo piano ciò che, prima di tale rivolgimento, semplicemente non veniva considerato in quanto fuggevole, non meritevole di attenzione. Con il cinema e con Freud il mondo si mostra come più ricco, ma anche più facilmente analizzabile e misurabile. La Psicopatologia della vita quotidiana, infatti, […] ha isolato e reso analizzabili cose che in precedenza fluivano inavvertite dentro l’ampia corrente del percepito. Il cinema ha avuto come conseguenza un analogo approfondimento dell’appercezione su tutto l’arco del mondo della sensibilità ottica, e ora anche di quella acustica. Il fatto che le prestazioni che il film propone sono analizzabili in modo molto più esatto e da punti di vista molto più numerosi di quelle che si rappresentano in un dipinto o sulla scena costituisce soltanto l’altra faccia di questa situazione. Rispetto alla pittura, la maggiore analizzabilità della prestazione rappresentata nel film è determinata dalla resa incomparabilmente più precisa della situazione. Rispetto aut aut, 372, 2016, 133-156

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al palcoscenico, la maggiore analizzabilità della prestazione rappresentata nel film è condizionata dalla maggiore isolabilità.1 Se il cinema permette di isolare di più e meglio l’oggetto da analizzare rispetto alla percezione, ciò dipende da una discontinuità rispetto al potere rappresentativo della pittura o del teatro. L’oggetto selezionato dalla cinepresa, per esempio il muscolo di un corpo, è così visto con una ricchezza maggiore rispetto alla percezione senza apparati tecnici. Con il guadagno di precisione nella rappresentazione dell’oggetto il confine tra arte e scienza si assottiglia fino a far prefigurare la loro reciproca compenetrazione. Questa circostanza, e precisamente in ciò sta il suo significato principale, comporta una tendenza a promuovere la vicendevole compenetrazione tra l’arte e la scienza. Infatti, di un atteggiamento chiaramente circoscritto nell’ambito di una determinata situazione – come di un muscolo in un corpo – è difficile dire che cosa sia più affascinante: il suo valore artistico o la sua applicabilità scientifica.2 Costruendo una diade cinema-fotografia, che certo non è cronologica ma è dipendente dalla medesima funzione in relazione alla percezione, Benjamin conclude il passo in questo modo: “Una delle funzioni rivoluzionarie del cinema sarà quella di far riconoscere l’identità dell’utilizzazione artistica e dell’utilizzazione scientifica della fotografia, che prima in genere divergevano”.3 La compenetrazione e l’identità di arte e scienza, permesse dalla rottura nel regime rappresentativo dovuta all’introduzione di tecniche di riproduzione meccanica dell’immagine, non sono affatto neutre. Infatti, esse comportano un’importante riscrittura dello statuto dell’immagine 1. W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, seconda stesura (1939), trad. di E. Filippini, in Opere complete (da adesso OC), vol. VII: Scritti 19381940, Einaudi, Torino 2006, p. 323. 2. Ibidem. 3. Ibidem.

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e dell’oggetto rappresentato, con delle conseguenze decisive circa il modo di pensare e rappresentare il soggetto vivente, colto nella sua dimensione corporea, dinamica e gestuale. C’è un punto teorico capitale che Benjamin afferma nella sua Breve storia della fotografia (1931) e che è, tra l’altro, una delle ragioni della fortuna del saggio, cioè l’introduzione dell’espressione “inconscio ottico”. Benjamin la impiega anzitutto quando fa riferimento alla dimensione descrittiva della relazione tra l’immagine foto-cinematografica e il mondo da essa rappresentato. In particolare, Benjamin indica in questo contesto la capacità dell’apparecchio fotografico e cinematografico a cogliere degli aspetti della realtà materiale che sono invisibili a occhio nudo, così come, e soprattutto, il tipo di ristrutturazione percettiva che questo costituisce. Benché la nozione benjaminiana di “inconscio ottico” possieda altri significati, legati alla possibilità di pensare una nuova temporalità nell’esperienza cinematografica, 4 qui prenderò in esame quasi esclusivamente il primo significato, per interpretare la nozione di inconscio ottico alla luce della relazione storica tra la nascita della tecnica cinematografica e le indagini in campo fisiologico, condotte nello stesso periodo e volte ad analizzare il movimento umano e animale. Nella Breve storia della fotografia la nozione di inconscio ottico è difatti collegata da Benjamin all’analisi dell’andatura. Qui Benjamin si concen4. Un riferimento può costituirlo un breve testo del 1927, una risposta che fu un lavoro su commissione per “Die literarische Welt” all’articolo di Oscar Schmitz su La corazzata Potëmkin, comparso anch’esso sullo stesso numero del periodico. Scrive Benjamin: “Il cinema è l’unico prisma nel quale, in maniera intelligibile, significativa, appassionante, si dispiegano all’uomo odierno l’ambiente immediato, gli spazi nei quali vive, attende alle sue faccende, si diverte. In se stessi, questi uffici, queste camere ammobiliate, queste bettole, queste strade metropolitane, queste stazioni e fabbriche sono odiosi, insensati, disperatamente tristi. Piuttosto, così erano e sembravano, finché non ci fu il film. Esso ha allora fatto saltare, con la dinamite del decimo di secondo, tutto quest’universo carcerario così che, adesso, intraprendiamo viaggi lontani, avventurosi, fra le sue rovine sparse in un vasto raggio. L’ambito di una casa, di una stanza, può racchiudere in sé dozzine di stazioni fra le più inaspettate, di nomi di stazione fra i più sorprendenti” (Replica a Oscar A.H. Schmitz, 1927, trad. di G. Carchia, OC, vol. II, p. 618). Sono chiaramente qui presenti elementi ed espressioni linguistiche ripresi nel noto saggio sull’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (cfr. OC, vol. VI, trad. di E. Filippini e H. Riediger, p. 295; OC, vol. VII, p. 324).

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Il fantasma del padre e la sua legge. Il Mosè di Freud da Certeau a Derrida DIANA NAPOLI

Poi, cinque o sei settimane dopo, verso le quattro del mattino, avvolto in un bianco sudario venne a rimproverarmi. Disse: “Avrei dovuto indossare un vestito. Hai fatto la cosa sbagliata”. Mi svegliai urlando. Tutto ciò che faceva capolino dal sudario era il rammarico sulla sua faccia morta. E le uniche parole che disse erano una ramanzina: l’avevo vestito per l’eternità con i panni sbagliati. Al mattino mi resi conto che aveva inteso alludere a questo libro, che, in carattere con l’indecenza della mia professione, avevo continuato a scrivere mentre lui era malato e moriva. Il sogno mi diceva che, se non nei miei libri o nella mia vita, almeno nei miei sogni sarei vissuto in eterno come il suo figlio piccolo, con la coscienza di un figlio piccolo, proprio come lui sarebbe rimasto vivo non soltanto come mio padre ma come il padre, per giudicarmi qualunque cosa io faccia. Non devi dimenticare nulla.1 Patrimonio, di cui abbiamo riportato le parole conclusive, è un racconto sull’origine della scrittura come relazione a una perdita, una scrittura “indecente” che si produce e prolifera a partire dalla morte del padre e che consente a Roth di congedarsi dal ruolo del figlio “ribelle” – quello, per esempio, del Lamento di Portnoy2 –

1. P. Roth, Patrimonio (1991), trad. di V. Mantovani, Einaudi, Torino 2013, p. 187. 2. Id., Il lamento di Portnoy (1969), trad. di R.C. Sonaglia, Einaudi, Torino 2014.

aut aut, 372, 2016, 157-173

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per riconoscersi, seppur in sogno, quasi un caso di obbedienza a posteriori, sottoposto al giudizio della legge del Padre. Questo libro ci sembra essere una buona introduzione ad alcuni testi che hanno, a loro volta, come protagonista la scrittura, articolando le figure del padre, che ritorna sempre come fantasma, e del figlio che non riesce né a integrarlo nel proprio mondo né a disfarsene completamente, dato che il fantasma si presenta sempre là dove egli non lo attende finendo per determinarne gli spostamenti. Il testo padre, o il testo-palinsesto di queste problematiche è forse l’ultimo libro di Freud, L’uomo Mosè e la religione monoteista,3 pubblicato a Londra, nella forma in cui lo conosciamo, nel 1939. Si tratta di un saggio piuttosto ermetico4 che noi intendiamo avvicinare partendo dalle letture di Michel de Certeau e Jacques Derrida, accomunate dal fatto di averlo interpretato come un luogo da cui pensare la possibilità del gesto che regola il rapporto tra passato e presente sulla falsariga di una relazione pressoché schizofrenica tra alterità e identità, tra negazione e ripetizione. Un gesto che – come ci mostrerà Mal d’archivio5 – si rende pensabile a due condizioni: la prima riguarda la sua incompiutezza, come di un atto che richiama sempre se stesso a una coazione a ripetere; la seconda richiama invece, letteralmente, la sua utopia, nel senso che, pur avendo alla sua origine un principio topologico, di luogo, e quindi anche di esclusione, resta non localizzabile. E laddove si tentasse di tracciarne la 3. S. Freud, L’uomo Mosè e la religione monoteistica (1939), trad. di P.C. Bori, G. Contri, E. Sagittario, Bollati Boringhieri, Torino 2013. I primi due capitoli erano comunque già stati pubblicati sulla rivista “Imago” nel 1937. Freud esitò a lungo prima della pubblicazione definitiva. Per una precisa ricostruzione delle sue perplessità si veda Y.H. Yerushalmi, Il Mosè di Freud. Giudaismo terminabile e interminabile (1991), trad. di G. Bona, Einaudi, Torino 1996, in particolare i capitoli 2 e 3. 4. Per Yerushalmi bisogna avvicinarsi al testo in maniera indiretta, “prenderlo come Gerico” (Y.H. Yerushalmi, Il Mosè di Freud, cit., p. 6). Per Certeau il testo “conserva i termini di una contraddizione che, operando a vari livelli (biografia di Mosè, storia dell’ebraismo, autobiografia, ecc.), mira al punto cieco di un non so ripetuto a proposito di ciascuno dei suoi oggetti” (M. de Certeau, La scrittura della storia, 1975, trad. di S. Facioni, Jaca Book, Milano 2006, p. 344). 5. J. Derrida, Mal d’archivio (1995), trad. di G. Scibilia, Filema, Napoli 1996.

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topografia, di delimitarla e archiviarla, tale ricerca non potrebbe che rinviare allo spettro del gesto, al suo fantasma (da cui, come principio, finirebbe per essere organizzata). In questa direzione, la lettura più radicale del Mosè ci sembra essere quella che Certeau ha proposto nell’ultima parte di La scrittura della storia.6 Certamente Freud non aveva intenzione di scrivere un libro di storia e nemmeno di storiografia, facendo piuttosto il suo ingresso – è proprio Certeau che lo ricorda – nel territorio dello storico con “il passo incerto della ballerina”. Tuttavia Certeau riesce a utilizzare tutte le potenzialità euristiche del Mosè, “fantasia” o “romanzo storico”, che diventa il terreno per un’indagine non solo sul senso della pratica storiografica, ma, ben al di là dei tradizionali enjeux dell’epistemologia, sulla pensabilità del passato in relazione al gesto scritturale che lo istituisce, lo archivia e lo consegna. La tesi di Freud, peraltro ben nota, è presto sintetizzata: Mosè sarebbe un egizio, epigonale seguace del monoteismo imposto per un periodo dal faraone Akhénaton. Egli avrebbe insegnato tale religione a una popolazione rozza e incolta che viveva schiava nel territorio dei faraoni, facendone il suo popolo, il popolo ebraico; dopo aver condotto gli ebrei fuori dall’Egitto, Mosè fu però assassinato a causa della rigidità della nuova religione, troppo difficile da rispettare. Gli ebrei, pur rimuovendo il fatto materiale dell’assassinio, conservarono tuttavia (grazie all’azione silenziosa dei leviti) il ricordo dell’idea di Mosè e si sottomisero alla sua legge a posteriori. Trovatisi infatti a contatto con una popolazione madianita che credeva in un’onnipotente divinità vulcanica, essi operarono una sorta di composizione tra il “nuovo” (il Dio dei madianiti, uno dei loro capi chiamato poi Mosè) e il “vecchio” (il monoteismo del 6. La quarta e ultima parte di La scrittura della storia, intitolata “Scritture freudiane”, si compone di due capitoli; il primo, “Quello che Freud fa della storia. A proposito di ‘Una nevrosi demoniaca nel XVII secolo’”, dedicata all’analisi dello studio di Freud relativo alla nevrosi del pittore austriaco Haitzmann (cfr. anche S. Freud, Una nevrosi demoniaca nel secolo decimosettimo, 1922, in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1989, vol. IX, pp. 522-558), il secondo, “La finzione della storia. La scrittura di Mosè e il monoteismo” che analizza invece il Mosè.

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