373 marzo 2017
Individui pericolosi, società a rischio 2 a cura di Mario Colucci e Pier Aldo Rovatti
Premessa Michel Foucault Pericolo, crimine e diritti. Conversazione con Jonathan Simon Bernard E. Harcourt Breve genealogia della razionalità attuariale americana Fabienne Brion Delinquenza, pericolosità, etnicità. Una prospettiva marxista in criminologia Christophe Adam Le peregrinazioni della “pericolosità” attraverso la criminologia clinica Andrea Muni L’invidia degli anormali Piero Cipriano Lo specialista del pericolo Edoardo Greblo Pericolo in movimento. I migranti e la produzione legale dell’illegalità Dario Melossi Marx e Foucault tra penalità e critica dell’economia politica Ilaria Papandrea La nostra incorreggibile (a)normalità Francesco Stoppa L’insostenibile libertà dell’essere. Sulle radici infantili della violenza di genere POST Daniele Piccione Pericolosità sociale del non imputabile e Costituzione
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rivista fondata da Enzo Paci nel 1951 direttore responsabile: Pier Aldo Rovatti redazione: Sergia Adamo, Paulo Barone, Graziella Berto, Beatrice Bonato, Deborah Borca (editing, deborah.borca@gmail.com), Damiano Cantone, Mario Colucci, Alessandro Dal Lago, Alessandro Di Grazia, Pierangelo Di Vittorio, Giovanna Gallio, Edoardo Greblo, Raoul Kirchmayr, Giovanni Leghissa, Andrea Muni, Massimiliano Nicoli, Ilaria Papandrea, Fabio Polidori, Pier Aldo Rovatti, Massimiliano Roveretto, Antonello Sciacchitano, Giovanni Scibilia, Stefano Tieri, Carla Troilo, Davide Zoletto direzione: c/o il Saggiatore, via Melzo 9, 20129 Milano sito web: autaut.ilsaggiatore.com collaborano tra gli altri ad “aut aut”: G. Agamben, H.-D. Bahr, R. Bodei, L. Boella, S. Borutti, J. Butler, M. Cacciari, A. Cavarero, R. De Biasi, G. Dorfles, M. Ferraris, U. Galimberti, P. Gambazzi, S. Givone, A. Heller, F. Jullien, J.-L. Nancy, A. Prete, R. Prezzo, M. Serres, G.C. Spivak, G. Vattimo, M. Vegetti, P. Veyne, V. Vitiello, S. Žižek per proposte di pubblicazione: autaut@ilsaggiatore.com Si fa presente che “aut aut” non pubblica recensioni e non accetta testi di ampiezza superiore a 40.000 battute (note e spazi compresi).
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Premessa
Questo fascicolo prosegue l’indagine sulla pericolosità che abbiamo avviato nel n. 370 (giugno 2016), mantenendone il titolo e ampliando i diversi percorsi collegati o collegabili a una questione che riteniamo attuale e decisiva. Il passaggio dall’individuo pericoloso alla società a rischio viene inizialmente sviluppato attraverso alcuni materiali: un’inedita conversazione che Michel Foucault tenne negli Stati Uniti nel 1983, la ricostruzione di Bernard Harcourt di come si è imposto il concetto di analisi attuariale e due interventi della scuola belga di criminologia a firma di Fabienne Brion e Christophe Adam. Ma il fascicolo, come il lettore può subito verificare, apre anche una serie di altri fronti che vanno dal terreno giuridico e dal problema del carcere all’emergenza sociale e politica del “pericolo” immigrati, oggi molto dibattuto in Italia e in Europa, a quella della violenza sulle donne, indagata dalla prospettiva della psicoanalisi. Siamo una rivista che cerca di mettere alla prova ogni volta il pensiero critico: l’allargamento della questione a partire dal nodo storico e teorico della pratica psichiatrica si accompagna di conseguenza a un tentativo di approfondire ulteriormente il tema della pericolosità. La questione della pericolosità non va sfumando in quella del calcolo del rischio, all’opposto sembra intensificarsi come domanda teorica, certo non semplice, che dobbiamo continuare a rivolgere a noi stessi, dovunque operiamo: tale domanda dovrebbe mettere in gioco radicalmente le nozioni di normalità e 3
anormalità, la loro tenuta e i loro confini, dato che non possiamo pensare di disfarci davvero delle categorie di pericolo e di pericolosità senza indagare gli effetti che esse hanno sulla nostra stessa idea di soggetto, cioè i pregiudizi e le relative forme di violenza che impugniamo quotidianamente contro le persone deboli e che tali pregiudizi continuano a innervare. Tutti quanti noi operiamo all’interno di una cultura asfittica nella quale dobbiamo immettere ossigeno critico, cioè, in breve, interrogarla. Questo fascicolo vorrebbe allora suggerire che il tema del pericolo, individuale e sociale, ha necessariamente un rimbalzo su quell’idea di “soggetto normale” che molto spesso consideriamo un’acquisizione comune e tranquillizzante. [M.C., P.A.R.]
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Pericolo, crimine e diritti. Conversazione con Jonathan Simon MICHEL FOUCAULT
Premessa Il dialogo tra Michel Foucault e Jonathan Simon si è svolto in inglese alla fine di ottobre del 1983, nell’abitazione di Foucault a San Francisco. All’epoca Foucault ricopriva la carica di Joint Visiting Professor di francese e filosofia presso l’Università della California a Berkeley,1 dove teneva un ciclo di lezioni sulla nozione di parresia, pubblicato inizialmente sotto forma di trascrizione fatta circolare in modo informale e successivamente in forma di libro col titolo Fearless Speech, a cura di Joseph Pearson.2 Un’edizione critica è apparsa di recente in francese.3 Accanto al ciclo di lezioni istituzionali, Foucault organizzò un gruppo di ricerca che si incontrava con cadenza settimanale presso la casa di Paul Rabinow e comprendeva Arturo Escobar, Keith Gandal, Kent Gerard, David Questo articolo è la trascrizione di una conversazione tra Michel Foucault e Jonathan Simon avvenuta a San Francisco nell’ottobre del 1983. È stata pubblicata per la prima volta su “Theory, Culture & Society”, 1, 2016, trascritta da Katie Dingley e curata da Stuart Elden (dell’Università di Warwick). Qui viene presentata nella traduzione di Giovanni Vezzani, che ne ha mantenuto la struttura informale, conservandone pause e incisi. 1. Cfr. K. Gandal, S. Kotkin, Foucault in Berkeley, “History of the Present”, 1, 1985, pp. 6 e 15; J. Simon, Foucault in America, “Actes: Cahiers d’action juridique”, 54, 1986, pp. 24-29. 2. M. Foucault, Discourse and Truth: The Problematization of Parrhesia. Notes to the Seminar Given by Foucault at the University of California at Berkeley, Edited by Joseph Pearson, 1985, disponibile in <foucault.info//system/files/pdf/DiscourseAndTruth_MichelFoucault_1983_0.pdf>; trad. a cura di A. Galeotti, Discorso e verità nella Grecia antica, Donzelli, Roma 1996; Id., Fearless Speech, a cura di J. Pearson, Semiotext(e), Los Angeles 2001. 3. M. Foucault, Discours et vérité précédé de la parrêsia, a cura di H.-P. Fruchaud e D. Lorenzini, Vrin, Paris 2016; trad. Discorso e verità nella Grecia antica, cit.
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Horn, Stephen Kotkin, Cathy Kudlick e Jonathan Simon. Una foto del gruppo assieme a Foucault (con indosso il cappello da cowboy che gli donarono) compare nella biografia di Foucault di Didier Eribon.4 Il ciclo di lezioni verteva sugli inizi del XX secolo e mirava a ricostruire i meccanismi della governamentalità durante la Prima guerra mondiale e il periodo tra le due guerre. Sebbene [a quel tempo] fossero state decise future collaborazioni, esse non si poterono realizzare a causa della morte di Foucault l’anno successivo.5 Mentre si trovava a Berkeley, sia in quest’occasione che nell’anno precedente, Foucault prese parte a un gran numero di discussioni, alcune delle quali furono registrate e in parte pubblicate. Tra le pubblicazioni si annoverano l’intervista Politica ed etica e la conversazione Sulla genealogia dell’etica, apparsa per la prima volta nella seconda edizione del libro su Foucault di Hubert Dreyfus e Paul Rabinow.6 I nastri originali di alcune di quelle conversazioni (insieme ad alcune trascrizioni) si trovano presso la Bancroft Library di Berkeley. La conversazione pubblicata qui risale alla seconda visita del 1983 (una registrazione del dialogo è archiviata alla Bancroft Library dell’Università della California a Berkeley, nastro 2222 C 70 e CD 961). In essa, Jonathan Simon (all’epoca dottorando in giurisprudenza e politiche sociali a Berkeley e oggi Adrian A. Kragen Professor di diritto presso la stessa università) ritorna su uno dei temi di interesse per Foucault negli anni settanta. Il tema concerne la questione del diritto, della perizia psichiatrica nell’azione penale e la nozione di “pericolosità”. La conversazione inizia con una discussione del saggio di Foucault L’evoluzione della nozione di “individuo pericoloso” nella psichiatria le4. D. Eribon, Michel Foucault (1989), trad. di A. Buzzi, Leonardo, Milano 1991. 5. Cfr. K. Gandal, S. Kotkin, Governing Work and Social Life in the USA and the USSR, “History of the Present”, 1, 1985, pp. 4-14; K. Gandal, New Arts of Government in the Great War and Post-War Period, conservato presso IMEC, Caen s.d., documento E.1.29/ FCL2.A04-06. 6. M. Foucault, “Politics and ethics: An interview”, in P. Rabinow (a cura di), The Foucault Reader, Penguin, London 1991; H. Dreyfus, P. Rabinow, Michel Foucault: Beyond Structuralism and Hermeneutics, University of Chicago Press, Chicago 1983 2; trad. di D. Benati et al., La ricerca di Michel Foucault, La Casa Usher, Firenze 2010.
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gale del XIX secolo, apparso prima in inglese7 e successivamente in una versione in francese lievemente modificata.8 (Non esiste una versione pubblicata in francese del primo testo, né una versione inglese del secondo. Entrambi i testi sono riapparsi in raccolte successive.) Tale comunicazione venne originariamente presentata a Toronto, nel corso di una conferenza su diritto e psichiatria il 24-26 ottobre 1977 (nell’intervista Foucault suggerisce erroneamente che la lezione sia stata tenuta a Montréal). Lo studio alla base della lezione poggia sul seminario che Foucault tenne contemporaneamente al suo corso “Bisogna difendere la società” nel 1976, insieme ad alcuni temi indagati durante il corso su Gli anormali dell’anno precedente. La descrizione del seminario del 1976 non compare nel “Riassunto del corso” delle lezioni pubblicate, ma può essere rinvenuto in versioni precedenti: Il seminario di quest’anno è stato dedicato allo studio della categoria di “individuo pericoloso” nella psichiatria criminale. Le nozioni collegate al tema della “difesa sociale” sono state messe in relazione alle nozioni connesse alle nuove teorie riguardanti la responsabilità civile, quali sono apparse alla fine del XIX secolo.9 Vi si ritrovano anche alcune considerazioni di rilievo sul passaggio dalla società disciplinare, con la sua idea di individuo pericoloso, alla società di sicurezza, con l’analisi statistica delle popolazioni. Queste osservazioni si riferiscono ai corsi di Foucault sulla nozione di governamentalità della fine degli anni settanta. Verso la fine della conversazione Simon e Foucault rivolgono l’attenzione al problema dei diritti e Foucault fornisce alcuni importanti chiari7. M. Foucault, About the Concept of the “Dangerous Individual” in 19th Century Legal Psychiatry, trad. ingl. di A. Baudot e J. Couchman, “International Journal of Law and Psychiatry”, 1, 1978, pp. 1-18; trad. di S. Loriga, in Archivio Foucault 3. 1978-1985, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 43-63; ripubblicato in “aut aut”, 370, 2016, pp. 125-146. 8. Id., L’évolution de la notion d’“individu dangereux” dans la psychiatrie légale du XIXe siécle, “Déviance et société”, 4, 1981, pp. 403-422. 9. Id., Resumé des cours 1970-1982, Juilliard, Paris 1989; trad. di A. Pandolfi e A. Serra, I corsi al Collége de France. I resumé, Feltrinelli, Milano 1998, p. 94; Id., Ethics, Subjectivity and Truth: Essential Works, vol. I, a cura di P. Rabinow, Allen Lane, London 1998, p. 64.
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Breve genealogia della razionalità attuariale americana BERNARD E. HARCOURT
Premessa La genealogia della rapida ascesa – nel campo giuridico-penale statunitense – di logiche e strumenti provenienti dall’attuariato è molto più ricca e complessa di quello che potrò dirne in queste poche pagine. A questo proposito, vorrei precisare, in primo luogo, che non intendo minimamente strumentalizzare una questione così delicata, estraendone magari delle azzardate analogie con le logiche penali europee. Quel che vorrei fare in questo testo, piuttosto, è provare ad approfondire le discipline, i discorsi, le professioni, i desideri – e al contempo le frizioni e le resistenze – che hanno presieduto all’affermazione, nell’odierna penalità statunitense, di una razionalità di ispirazione esplicitamente attuariale. L’impiego di algoritmi per prevedere l’evasione fiscale, l’utilizzo di profili per decidere chi perquisire negli aeroporti (o per le strade), così come l’uso di strumenti di valutazione del rischio per determinare la custodia cautelare (o la scarcerazione), sono tutti esempi concreti di come i metodi attuariali abbiano, ormai indiscutibilmente, colonizzato il campo della penalità americana. I primi passi della razionalità attuariale negli Stati Uniti Credo sia importante sottolineare innanzitutto che i semi di questa svolta sono stati gettati storicamente sul terreno americano da un movimento di filosofia del diritto chiamato American legal realism. Bernard E. Harcourt insegna Legge alla Columbia University di New York. Titolo originale: Une généalogie de la rationalité actuarielle aux États-Unis aux XIXe e XXe siècles, “Revue de sciences criminelles et de droit pénal comparé”, 1, 2010, pp. 29-45.
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Questo movimento “realista” – scatenando profondi dubbi in seno alla disciplina giuridico-penale e giungendo addirittura a minarne progressivamente l’autonomia – si proponeva, a cavallo tra XIX e XX secolo, di mettere radicalmente in discussione il formalismo implicito nella cosiddetta teoria “classica” del diritto. Il movimento si impegnava infatti a mettere in evidenza fino a che punto i concetti giuridici astratti – tra cui, per esempio, spicca la nozione giuridica di consenso (consent) – non fossero minimamente in grado di presiedere in maniera neutra, né vincolante, alla concreta soluzione delle dispute giudiziarie. Il campo giuridico, infatti, secondo l’American legal realism è strutturalmente caratterizzato da un elevato grado di indeterminazione, che permette a fattori “esterni” – politici, sociali, economici e persino psicologici – di influenzare pesantemente le sentenze. Rigettando la concezione più “classica” del diritto (che persisteva nel miraggio di una possibile autonomia della “scienza” giuridica) e rifiutando il formalismo della teoria classica, il movimento “realista” aveva scatenato negli Stati Uniti, all’alba del Novecento, un clima di insicurezza che a molti pensatori e a molti giuristi risultava semplicemente insopportabile. La tendenza al realismo infatti non faceva che produrre – come proprio paradossale controeffetto – un rinnovato desiderio di certezza che con sempre maggior vigore spingeva la disciplina a contaminarsi, incorporare e assimilare altre scienze, più “esatte” e più “sociali”, come la criminologia e la sociologia. Questo progressivo avvicinamento – che non ha ancora smesso di incrementarsi – tra la giurisprudenza e le scienze cosiddette “esatte” e “sociali”, ha caratterizzato infatti tutto il XX secolo. All’alba del secolo breve, il sentimento di insicurezza e di inferiorità che pervadeva l’ambiente giuridico-penale americano era palpabile, talmente palpabile che non sarebbe esagerato parlare di un vero e proprio complesso di inferiorità (testimoniato nei loro stessi scritti) provato da quasi tutti i più importanti giuristi americani dell’epoca. I giuristi americani di inizio secolo ritenevano che il diritto non avesse fatto progressi all’altezza di quelli di altre discipline più “scientifiche”, e che gli Stati Uni31
ti dovessero assolutamente colmare un imbarazzante ritardo rispetto ai progressi europei. Gli echi di questa “fretta” e di questo “complesso di inferiorità” si percepiscono nettamente, per esempio, nella dichiarazione di apertura dell’importante convegno della National Conference on Criminal Law and Criminology, tenutosi a Chicago nel 1909, che segnò l’inizio ufficiale dell’integrazione delle scienze sociali nel diritto penale. Questo convegno, organizzato da importanti accademici e specialisti di diritto penale – tra cui i professori Ernst Freund e Roscoe Pound dell’Università di Chicago –, fu l’occasione per annunciare una nuova era del diritto penale americano fondata sul trattamento individuale di pena e sull’analisi scientifica delle cause della delinquenza dei singoli soggetti.1 Freund e Pound ritenevano infatti che la nuova scienza criminologica fosse profondamente implicata nel diritto penale, e sulla base di questa convinzione durante il convegno lamentarono il grave ritardo maturato dalla giurisprudenza americana nell’adozione del paradigma statistico. “Tutto ciò si è prodotto in Europa nel corso dei passati quarant’anni [...], tutte le branche delle scienze ausiliarie hanno fatto progressi – l’antropologia, la medicina, la psicologia, l’economia, la sociologia, la filantropia, la penologia. Soltanto il diritto – che pure sarebbe quella che dovrebbe maggiormente beneficiarne – è rimasto indietro.”2 Tali erano le affermazioni d’impotenza e di inferiorità di uno dei più importanti giuristi americani dell’epoca. Per questi grandi accademici era assolutamente necessario colmare una lacuna che pure – è fondamentale rimarcarlo – era avvertita come tale in virtù dell’instabilità prodotta proprio da quel movimento “realista” di cui loro stessi erano i corifei. Roscoe Pound era infatti il fondatore di un movimento chiamato “giurisprudenza sociologica” (sociological jurisprudence) che, pur 1. J.H. Wigmore et al., General Introduction to the Modern Criminal Science Series, VII, in R. Saleilles, The Individualisation of Punishment, Little Brown, Boston 1911; cfr. anche T.A. Green, Freedom and Criminal Responsibility in the Age of Pound: An Essay on Criminal Justice, “Michigan Law Review”, 93, 1915, 1949-1964 (1995). 2. Ibidem.
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Delinquenza, pericolosità, etnicità. Una prospettiva marxista in criminologia FABIENNE BRION
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lla tesi secondo cui “la prigione servirebbe a ridurre i crimini” Michel Foucault oppone, fin dal 1975, l’ipotesi che la prigione, piuttosto, abbia come propria funzione essenziale quella di “produrre la delinquenza”,1 vale a dire un tipo specifico, politicamente ed economicamente meno pericoloso (e al limite utilizzabile), di illegalismo. Inoltre la prigione, secondo Foucault, ha la funzione di produrre i delinquenti: una categoria umana socialmente marginalizzata e strettamente controllata dalle forze di polizia. Infine, in terzo luogo, la prigione serve per Foucault a produrre la figura stessa del delinquente come soggetto patologico. Le forme più in voga di lotta contro la sovrappopolazione carceraria sembrano aver paradossalmente accreditato l’idea che la prigione sia degradante e inumana soltanto per via dell’eccessivo numero (e delle pessime condizioni di vita) dei detenuti che vi risiedono. Sulla base di questa convinzione, infatti, l’Europa è andata recentemente riformando sia il proprio sistema (e il proprio regime) penale, sia l’utilizzo della prigione, sia lo statuto giuridico dei detenuti. In controtendenza rispetto a questa opinione dominante, alcuni autori contemporanei – avvalendosi delle analisi dei criminologi “francofortesi” Rusche e Kirchheimer, e distanziandosi Fabienne Brion insegna diritto e criminologia all’Università di Lovanio. 1. M. Foucault, Sorvegliare e punire (1975), Einaudi, Torino 1993, p. 27.
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dalle dominanti teorie sulla sovrappopolazione carceraria – sostengono che, ancora ai giorni nostri, esista una stretta correlazione tra la disoccupazione e l’inflazione carceraria. Questa correlazione, secondo loro, non è solo un elemento essenziale al sistema di produzione capitalista, ma è anche la vera causa delle variazioni dei tassi di detenzione. Le prigioni (secondo Samuel Myers e William Sabol) servirebbero infatti sostanzialmente ancora oggi a drenare la classe dei lavoratori superflui, ossia la classe socialmente più minacciosa (quella che Spitzer definiva la “dinamite sociale”). In questo senso la lotta alla sovrapopolazione carceraria è una scottante questione politico-economica, ben prima che una questione banalmente “umanitaria”. Ma attraverso quali modalità le prigioni si farebbero carico di questa funzione drenante? Su scala individuale: le pene e le misure penali, in periodi di bassa congiuntura economica, funzionerebbero come equivalenti (o supplenti) di quei meccanismi di controllo sociale che, invece, in periodi di alta congiuntura economica, sarebbero incentrati sul lavoro.2 Su scala sociale e collettiva: le pene e le misure penali permetterebbero allo Stato di regolare e gestire la popolazione in surplus. I procedimenti penali sono infatti molto utili per tenere sotto controllo, e calcolare razionalmente, le dimensioni di quello che Marx chiamava l’“esercito industriale di riserva”.3 Sulla scala del sistema di produzione: le pene e le misure detentive servirebbero a una continua autolegittimazione dell’apparato statale capitalista, il quale, attraverso il proprio sistema penale previene – prima ancora di abbassare alcuni uomini al rango di individui “ridondanti”4 – ogni possibile messa in discussione 2. C. Adamson, Toward a Marxian Penology. Captive Criminal Populations as Economic Threats and Resources, “Social Problems”, 4, 1984, pp. 435-458; M.J. Lynch, The Extraction of Surplus Value, Crime and Punishment. A Preliminary Examination, “Contemporary Crises”, 4, 1988, pp. 329-344. 3. I. Jankovic, Labor Market and Imprisonment, “Crime and Social Justice”, 8, 1977, pp. 17-31; R. Quinney, Class State and Crime, David McKay & Co., New York 1977. 4. T.G. Chiricos, M.A. Delone, Labor Surplus and Punishment: A Review and Assessment of Theory and Evidence, “Social Problems”, 4, 1992, pp. 421-446.
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della legittimità del proprio modo di produzione (che riduce gli esseri umani a pura “forza-lavoro”, e la “forza-lavoro” a semplice merce). In quest’ottica, le pene e le misure penali svolgerebbero quindi un ruolo di tutela dell’“ideologia pseudo-egualitarista così essenziale alla legittimazione politica di tutte le relazioni capitalistiche di produzione”.5 Queste tre macroaree ci aiutano a contornare un fenomeno enorme, attualissimo, e dalla portata ancora imponderabile: il grand renfermement degli stranieri. Il grand renfermement (grande reclusione) degli stranieri in atto in Europa – non solo nelle prigioni statali, ma anche nei cosiddetti centri di individuazione ed espulsione – può essere criticamente analizzato, a sua volta, su tre distinti livelli. 1) Un livello ideologico (che Marx avrebbe definito sovrastrutturale), che ci impone di analizzare, storicamente e politicamente, la “coscienza” che abbiamo oggi della effettiva relazione che esiste tra etnicità e delinquenza. 2) Un livello giuridico-politico, che ci chiama invece a studiare i meccanismi e i processi politici che inducono l’aumento del tasso di detenzione di individui che non sono cittadini dell’Unione europea. 3) Un livello più generale, o economico, che analizzi il grand renfermement degli stranieri come un effetto del sistema economico peculiare della nostra società e delle sue principali funzioni di controllo e produzione (il livello che Marx avrebbe chiamato l’infrastruttura). Per portare subito un esempio pratico a rinforzo di queste premesse teoriche, vorrei chiamare in causa l’esempio del paese in cui vivo e lavoro: il Belgio. Nel mio paese, infatti, il tasso di detenzione dei cittadini belgi è rimasto stabile (negli ultimi vent’anni) nonostante che il numero di cittadini belgi di origine straniera non abbia mai smesso di aumentare;6 mentre al contrario, il tas5. Cfr. S. Spitzer, Toward a Marxian Theory of Deviance, “Social Problems”, 5, 1975, pp. 638-651. 6. Il numero di belgi di origine marocchina è passato da 151.265 nel 1991 a 279.694 nel 2010. Mentre il numero di cittadini marocchini presenti in Belgio è passato da 142.098 nel 1991 a 81.943 nel 2010, il numero di detenuti marocchini è passato da 740 (popolazione di fine anno) a 1132 (popolazione giornaliera media).
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Le peregrinazioni della “pericolosità” attraverso la criminologia clinica CHRISTOPHE ADAM
Premessa Nonostante la “pericolosità” sia divenuta ormai un concetto celebre e di dominio pubblico, mi piacerebbe cominciare questo saggio ricordando fino a che punto essa sia in primo luogo una parola di senso comune. Può essere interessante, e curioso, constatare infatti di sfuggita – con Alain Rey1 – che la parola dangerosité esiste nella lingua francese soltanto a partire dal 1969, e che la sua area di riferimento è quella della psicologia (e del suo linguaggio didattico). Inoltre, come quello di “pericolosità”, anche il termine “pericolo” (danger) ha una storia del tutto particolare, che rimanda esplicitamente agli ambiti del possesso e del potere. Il Littré2 riporta infatti che nel diritto medievale il feudo di “pericolo” (fief de danger) era un feudo il cui erede – nell’atto di prenderne possesso – doveva rendere i propri omaggi al signore, a pegno di confisca. Sulla falsariga di questa piccola incursione etimologica cercherò dunque, se mi è concesso giocare un po’ con le parole, di rendere i miei omaggi a coloro che hanno saputo trattare meglio la spigolosa nozione di “pericolosità”, cercando al contempo di non restare insolvente rispetto al debito che avverto nei confronti della storia della criminologia clinica. In questo saggio cercherò di fare un po’ di chiarezza sul modo in cui questo significante (la “pericolosità”) si è impresso nelChristophe Adam insegna Diritto e Criminologia all’Università di Bruxelles. 1. A. Rey (a cura di), Dictionnaire historique de la langue française, Le Robert, Paris 2002. 2. Le Littré, Dictionnaire historique de la langue française, Hachette, Paris 2000.
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la storia delle idee criminologica e clinica, ed è stato a sua volta marcato da essa. Ho selezionato due momenti, certamente parziali, e per così dire “regionali”, che trovo al contempo estremamente utili per approfondire la questione che sto cercando di circoscrivere. Per quanto legati all’ambiente criminologico francofono, e belga in particolare, trovo infatti che essi abbiano un valore e un interesse che travalicano di molto il loro specifico contesto di provenienza. Mi riferisco in primo luogo al Deuxième cours international de criminologie3 del 1952, curato da Jean Pinatel e interamente consacrato al problema della pericolosità; e in secondo luogo al Colloquio di Lovanio, tenutosi nel 1979, in onore dei cinquant’anni della Scuola di criminologia.4 Un primo passaggio all’atto terminologico: dallo “stato” pericoloso alla pericolosità Prima di ripercorrere alcuni tra i momenti più importanti del Deuxième cours international de criminologie, vorrei risalire brevemente al Premier cours (dell’anno precedente), dove era già emerso un rilevante interesse scientifico e metodologico per la “pericolosità”. Non è raro infatti imbattersi, già nel Premier cours, in riferimenti puntuali al termine “pericolo”. Inoltre, il Premier cours era già dotato di una sezione interamente dedicata alla questione, presieduta da Étienne De Greeff (per la parte biologica) e da Georges Heuyer (per la parte psichiatrica). In questa cornice Olof Kinberg pronuncia il suo discorso sulla pericolosità, articolandolo in maniera originale e trattandola come un concetto già capace di circoscrivere, di per sé, una problematica autonoma. Kinberg infatti si confronta già, nel suo studio delle situazioni criminali del 1951, con termini del tutto specifici quali “diagnosi di pericolosità” e “situazioni specifiche di pericolo”5 (anche se forse 3. J. Pinatel (a cura di), Deuxième cours international de criminologie. Le problème de l’état dangereux, Ministère de la Justice, Paris 1954. 4. C. Debuyst (a cura di), Dangerosité et justice pénale. Ambigüité d’une pratique, Masson, Genève 1980. 5. O. Kinberg, “L’étude psychiatrique des situations précriminelles”, in G. Heuyer (a cura di), Premier cours international de criminologie. L’examen médico-psychologique et social des délinquants, Ministère de la Justice, Paris 1952, p. 189.
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non è indifferente rilevare come l’autore faccia un uso metodico delle virgolette a ogni occorrenza di questi termini, e in particolare del termine “pericolosità”). Il Premier cours sarà concluso da De Greeff, direttore della sezione sulla pericolosità, con una conferenza interamente dedicata agli “indici dello stato pericoloso”. A un tratto, durante l’esposizione, De Greeff tira le somme del convegno e detta la propria linea: “È possibile calcolare la pericolosità teorica di un gruppo, o di un individuo facente parte di un gruppo, ma – in questi casi – si tratta soprattutto di aspetti teorici che trovo pericolosissimo applicare acriticamente a ogni caso particolare”.6 De Greeff dipinge esplicitamente, quindi, già durante il Premier cours, la pericolosità come una nozione potenzialmente “pericolosa”. A dire il vero, però, questo punto di vista riflessivo e autocritico sarà assunto unicamente da De Greeff, che lo ribadirà puntualmente nei momenti salienti della sua proposta (in particolare quando sosterrà che le certezze scientifiche rappresentano esse stesse degli “stati” pericolosi). Per De Greeff, infatti, non esiste uno stato pericoloso “in sé”: lo “stato” pericoloso non può che essere un “momento” differenziale all’interno del processo in cui si iscrive. Egli riteneva anche che occuparsi di pericolosità, per un criminologo, fosse un compito assai circoscritto, pur considerando che la riflessione sulla pericolosità non potesse essere saturata dalla criminologia (e ammettendo quindi indirettamente la validità di approcci alternativi al tema della pericolosità). Nel suo intervento al Premier cours De Greeff approfondisce anche la questione dei cosiddetti stati indiagnosticabili, filtrandone l’analisi attraverso una griglia che ne distingue quattro differenti tipi: 1) Gli stati che si evolvono, e risolvono, con un crimine “utilitario” (che resterà per lo più impercepito). 2) Le situazioni in cui si produrrà certamente la recidiva (per 6. E. De Greeff, “Les indices de l’état dangereux”, in G. Heuyer (a cura di), Premier cours international de criminologie. L’examen médico-psychologique et social des délinquants, cit., p. 639.
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L’invidia degli anormali ANDREA MUNI
Premessa Le riflessioni critiche sul tema della pericolosità sociale fanno parte, ormai da decenni, di una sterminata, preziosa e approfondita letteratura di genere. Mi permetto di esordire con questa considerazione, forse un po’ banale, perché ho intenzione di non lasciare dubbi riguardo alla dimensione discorsiva in cui desidero collocarmi. Vorrei infatti immediatamente smarcarmi rispetto alla prospettiva criminologica, psichiatrica e del diritto, cercando di assumere piuttosto la delicata (e rischiosa) posizione di chi non rinuncia a fare i conti con lo spiacevole fatto di essere – in prima persona e nella sua più immediata quotidianità – un ingranaggio ambocettore del grande dispositivo panottico (per dirla con Foucault), o degli apparati ideologici di Stato (per dirla con Althusser), che presiedono alla diffusione e riproduzione dei concetti di pericolosità sociale e di individuo (normale e non). In una parola, vorrei provare ad affrontare la questione dal punto di vista di un cosiddetto filosofo, per non rischiare di scimmiottare maldestramente altri approcci più “scientifici”. L’allergia “teorica” che spesso e volentieri si ascrive a Foucault – e dietro alla quale in molti si nascondono per timore di mettere mano a concetti totalmente fuori critica, quali sono oggi quello di soggetto, di individuo e di Io – rischia a volte di essere una scusa troppo comoda per non affrontare molte scottanti questioni politiche e sociali alla loro vera radice. Le riflessioni sull’individuo pericoloso e anormale, in questo senso, si arrestano infatti – a mio avviso – troppo spesso nel momento in cui dovrebaut aut, 372, 2016, 85-106
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bero realmente cominciare, vale a dire di fronte alla necessità di una critica radicale della nozione stessa di individuo. Vorrei approfondire, almeno parzialmente, questa critica riprendendo il “Post” con cui si conclude il precedente fascicolo di “aut aut” sul tema della pericolosità sociale, in cui Rovatti scrive: La nozione di individuo è diventata di per sé una nozione pericolosa: o meglio, è diventata un’idea cui affidiamo la possibilità di esportare la pericolosità fuori di noi. Il “mostro”, come continuiamo a chiamarlo, è un individuo: mentre lo esorcizziamo, tentando con ogni espediente conoscitivo di capirlo e di oggettivarlo come non-normale, cercando dunque disperatamente di allontanarlo da noi, in realtà lo avviciniamo proprio attraverso la categoria di individuo […], nella quale non possiamo fare a meno di collocare in qualche modo anche noi stessi. […] Invece, forse, dovremmo smontare quest’idea di individuo e metterne allo scoperto il fondo astratto e naturalistico che la governa. Dovremmo forse, lentamente, dal basso, distruggerla, il che significa riuscire a farne a meno.1 Due serie La critica alla nozione di individuo pericoloso – iniziata con i corsi di Foucault sul potere psichiatrico e sugli anormali, e proseguita fin dagli anni ottanta in particolare nelle opere di Robert Castel – è oggi molto diffusa negli ambienti più illuminati della psichiatria, del diritto e della criminologia. I quasi quattro decenni di critica e autocritica illuminate hanno permesso ai migliori esponenti di queste discipline di collocare la nozione di pericolosità sociale (e quella di soggetto anormale) in quella che a mio parere è la sua reale cornice politica: il controllo, la repressione e la selezione sociali. Credo però al contempo che, per affrontare la questione della pericolosità sociale nel suo versante più intimamente “soggettivo”, sia necessario sforzarsi di costruire una serie “micro” da affiancare alla ben più percorsa serie “macro”. Soltanto nel micro 1. P.A. Rovatti, Una società terribile, “aut aut”, 370, 2016, pp. 193-195.
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infatti possiamo indagare le reali ricadute soggettive (e gli effetti di controinvestimento sulla serie macro), prodotte nei (e dai) soggetti per mezzo della socializzazione dei discorsi istituzionali sulla pericolosità. In una parola: è solo nel micro che possiamo indagare le ragioni per cui la nozione di individuo pericoloso (o anormale) “fa politicamente presa” tra gli individui della nostra società. Se la serie macro è dunque quella in cui ricostruiamo la formazione storico-politico-discorsiva dell’oggetto “individuo pericoloso” o “anormale” – oltre che quella in cui possiamo, grazie agli strumenti foucaultiani, continuare ad aggiornarne la storia –, la serie micro – che mi pare lasciata molto più in disparte, per non dire totalmente in ombra – dovrebbe interessarsi piuttosto delle ricadute soggettive, e in certo senso imponderabili, che questo discorso dominante produce incessantemente a livello dei singoli. Se infatti le nozioni di pericolosità e di anormale hanno una collocazione storica precisa nell’economia dei discorsi giuridico, politico e pseudo-scientifico, quella di “pericolo” ha invece una genealogia molto diversa e molto più complessa, che si potrebbe far risalire senza difficoltà fino agli albori dell’umanità (vedi i tabù dei cosiddetti primitivi). Inoltre, la serie micro ci permette di osservare fino a che punto gli stessi individui “anormali” (o che si riveleranno tali a causa dei propri atti) il più delle volte svolgano in prima persona ruoli di normalizzazione per qualcun altro. Per esempio, un padre che stermina la propria famiglia, o che è un pervertito, può contemporaneamente svolgere in maniera impeccabile le proprie microattività di normalizzazione in seno al milieu familiare, al lavoro o chiacchierando con gli amici al bar. Trovo che concentrarsi sulla serie micro ci permetta di approfondire alcune questioni che considero di importanza capitale, prima tra tutte: per quale ragione una persona che ha comportamenti anormali viene percepita immediatamente e logicamente come un pericolo? Per cominciare a rispondere, in maniera inevitabilmente parziale, a questa domanda mi è parso necessario individuare uno strumento teorico capace di collegare le due serie (macro e micro) che ho brevemente tratteggiato. Mi sembra infatti che a mancare, nella contemporanea riflessione sulla peri87
Lo specialista del pericolo PIERO CIPRIANO
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a domanda più frequente che si rivolge a uno psichiatra è perché ha fatto lo psichiatra. E lo psichiatra quasi sempre risponde che l’ha fatto perché voleva semplificare la complessità. Perché pensava di poter diventare, finanche, lo specialista della complessità. Spiegare, o almeno comprendere, se non altro intuire, il mistero della vita, della morte, della salute, della malattia, della ragione, della sragione, della normalità, della follia. Lo psichiatra, però, quasi sempre, omette di aggiungere che tutto ciò non l’ha trovato. E non è riuscito a diventare l’esperto della complessità. Ma è diventato, più banalmente, suo malgrado, lo specialista del pericolo. Così lo definisce Michel Foucault, a commento del libro di Robert Castel, L’ordine psichiatrico. Gli alienisti del XIX secolo, scrive, si sono preoccupati innanzitutto di farsi riconoscere come sentinelle, esperti, specialisti di un pericolo generale che incombeva sul corpo sociale. L’alienista subito ha voluto assimilarsi all’igienista, il cui mandato non è tanto la cura delle malattie ma una sorta di moralizzazione (igiene, appunto) della società. Per cui questo ruolo normalizzatore dello psichiatra non si è esaurito soltanto nella possente ambiguità (carcere dalle sembianze d’ospedale) del manicomio, le cui mura si ergono ai margini della città, ma ha continuato nei succedanei del manicomio, in quelli che oggi si Piero Cipriano, psichiatra, lavora in un SPDC di Roma.
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chiamano ottimisticamente (e ciò è giusto, perché lo psichiatra ha il dovere di essere ottimista, mi piacerebbe poterlo definire lo specialista dell’ottimismo, ma purtroppo la grande maggioranza di essi è pessimista e nichilista) i Centri della salute mentale, ma non per caso moltissimi operatori, psichiatri, psicologi, infermieri, ancora oggi, in modo apparentemente anacronistico o forse ignorante, continuano a chiamarli CIM, perché per tutti gli anni settanta essi sono stati i Centri dell’igiene mentale (appunto), e ancora oggi, pur con diverso acronimo, moltissimi CSM sul territorio italiano continuano, nei fatti, a essere CIM, il CIM che sottende un altro modo, diverso ma contiguo al manicomio (infatti i CIM della legge Mariotti dovevano convivere col manicomio), di interpretare la salute psichica delle persone come igiene mentale, cioè come normalizzazione, cioè come moralizzazione, cioè come adeguamento a una norma che è sempre più utopistico definire e conseguire. D’altra parte, se è vero che gli ultimi manuali diagnostici (DSM-5) redatti dagli specialisti mentali spartiscono la follia in oltre trecento forme, vedi bene che nessuno più è folle, e però tutti sono anormali, tutti sono devianti, tutti sono potenzialmente candidati a finire nella rete dei nuovi servizi dove impera la cultura dell’igiene mentale, del pericolo, del rischio, servizi la cui risposta prevalente è il farmaco (e sì, sono ormai dei supermarket dello psicofarmaco, certi luoghi della cura mentale, inutile girarci intorno) e l’invio in luoghi a parte che non si chiamano manicomio eppure lo sono, case di cura, cliniche, SPDC, comunità (cosiddette) terapeutiche, centri diurni, REMS ecc. Manicomio diffuso, lo si è definito, o anche circolare, oppure illimitato, come meglio preferite. Una specie di assurdo gioco dell’oca in cui l’oca è il povero paziente, reso cronicamente anormale e pericoloso. Paziente oca che, per la tranquillità dello specialista del pericolo che l’ha in carico, è bene che stia non a casa sua ma in luoghi idonei a ospitare i devianti, e a custodire il pericolo che loro portano con sé. Luoghi che non sono più manicomi, ma sigle diverse. Ecco che l’aforisma basagliano che tutto ciò riassume, e spiega il dilemma dello specialista del pericolo (“quando il malato è internato il medico mentale si sente libero, quando il malato 108
mentale è libero è il medico mentale a sentirsi internato”), è valido ancora, oggi più che mai. Ciò che voglio dire è che, grazie agli specialisti del pericolo, non c’è neppure bisogno di delinquere, per essere reclusi in luoghi a parte. Certo, se una persona commette un reato, la cosa si complica. Soprattutto se si tratta di reati incomprensibili, inspiegabili, quelli alla Pierre Rivière raccontati da Foucault, per dire, i crimini senza ragione né finalità. Rispetto a questi la psichiatria, sin dalle sue origini, si propose come stampella della giustizia, le mise a disposizione la sua complessa nosografia, di cui il reato era mera conseguenza. La nosografia psichiatrica non ha nulla di scientifico, eppure la psichiatria lo dà a credere, e la giustizia le crede, perché le conviene. È l’unico modo, credere nella scienza psichiatrica, per uscire dall’aporia di giudicare un reato assurdo. Ecco, allora, il più paradossale dei dialoghi tra due poteri, tra due onnipoteri, il giudice che dice allo psichiatra: non so cosa farne di quest’uomo il cui reato mi è incomprensibile, è pericoloso? Lo capite anche voi che questa è una domanda da non fare agli uomini, fossero anche psichiatri, perché è la richiesta di una profezia, è domanda da fare a un mago, a un indovino, o meglio a un profeta, anzi a un dio. Lo psichiatra, però, cade nel tranello, e non dice: signor giudice, mi scusi, e io che ne so?, mica sono dio? Dice, invece, purtroppo: sì, signor giudice, io sono dio, io sono in grado di prevedere il destino di quest’uomo, e so che se non verrà custodito, delinquerà ancora, e ciò me lo dice la sua malattia, che io ho visto, e che si chiama, mettiamo… schizofrenia. Ecco. Così possiamo riassumere quest’assurdo scambio tra il giudice e lo psichiatra: lei è dio?, sì, io sono dio. Da qui deriva l’orrore dei manicomi del crimine, e degli ergastoli bianchi per i reati detti bagatellari, e delle morti sociali dei devianti. Ma due anni fa è stata approvata una buona legge (81 del 2014), che trentasei anni dopo la 180 che aboliva i manicomi civili, abolisce anche i manicomi criminali. Ma mettiamo pure che questa buona legge che abolisce gli OPG e istituisce le REMS porti all’estinzione perfino delle REMS, e porti a riscrivere perfino 109
Pericolo in movimento. I migranti e la produzione legale dell’illegalità EDOARDO GREBLO
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a storia europea è costellata di persecuzioni e violenze nei confronti degli stranieri, sia degli stranieri “interni”, come gli eretici o le streghe, sia di quelli “esterni”, come gli ebrei o gli zingari. Da quando però vi sono passaporti e controllo dei confini è una nuova figura, quella del migrante “illegale”, che attira su di sé l’attenzione e le paure dei governi, dei media e dell’opinione pubblica.1 Siccome, per gli schemi cognitivi di senso comune, i soggetti in transito sulle rotte migratorie di tutto il mondo e che violano i confini di Stato evocano un mondo minaccioso e incontrollabile, cresce la tendenza a equiparare i migranti “illegali” a nemici e ad alimentare il panico sulla “invasione” dei paesi ricchi da parte di immigrati poveri provenienti dal Terzo mondo. Sale così dagli umori più profondi della società una richiesta di ordine e sicurezza che trova la sua controparte in una forma di governo che opera attraverso le politiche della paura e le risorse 1. S. Mezzadra, B. Neilson, Confini e frontiere. La moltiplicazione del lavoro nel mondo globale (2013), trad. di G. Roggero, il Mulino, Bologna 2014, p. 183. Sui diversi significati di “illegale”, C. Dauvergne, Making People Illegal. What Globalization Means for Migration and Law, Cambridge University Press, Cambridge 2008, p. 15 sgg.; cfr. anche E. Guild, “Who is an irregular migrant?”, in B. Bogusz et al. (a cura di), Irregular Migration and Human Rights: Theoretical, European and International Perspectives, Martinus Nijhoff, Leiden 2004, pp. 3-28; J. Handmaker, C. Mora, “‘Experts’: the mantra of irregular migration and the reproduction of hierarchies”, in M. Ambrus et. al. (a cura di), The Role of “Experts” in International and European Decision-Making Processes: Advisors, Decision Makers or Irrelevant Actors?, Cambridge University Press, Cambridge 2014, pp. 263-287.
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della demagogia.2 Il diffondersi di categorie che governano i discorsi sullo straniero migrante attraverso rappresentazioni sociali basate su schemi interpretativi prefabbricati non è casuale. Nel momento in cui, con la rivoluzione neoliberale, il sistema economico non ha più la necessità di favorire l’inserimento stabile dei migranti ma ha, al contrario, tutto l’interesse a favorirne l’impiego in condizioni di flessibilità e subordinazione, l’immigrazione diviene un “problema” e richiede una gestione che ne garantisca il controllo.3 E chi meglio del migrante irregolare/illegale/criminale si presta a cadere vittima del nuovo populismo penale che serve a restituire coesione sociale a comunità politiche attraversate da insicurezze profonde? La figura del migrante “illegale” attira l’attenzione e le paure a seguito delle trasformazioni del capitalismo che hanno cominciato a prendere piede negli anni settanta.4 È all’incirca dalla fine dei “trenta gloriosi” (gli anni dello sviluppo economico che ha caratterizzato il secondo dopoguerra) che una serie di sviluppi apparentemente disparati, come il costante rafforzamento dei controlli di confine, l’inasprimento delle condizioni di ingresso, l’espansione della capacità di detenzione e di deportazione e la proliferazione di sanzioni penali per individui ritenuti responsa2. D. Bigo, “Sicurezza e immigrazione. Il governo della paura” (1998), in S. Mezzadra, A. Petrillo (a cura di), I confini della globalizzazione. Lavoro, culture, cittadinanza, manifestolibri, Roma 2000, pp. 213-231; A. Balch, Immigration and the State. Fear, Greed and Hospitality, Palgrave Macmillan, London 2016, in particolare il cap. 8. 3. A. De Giorgi, Immigration Control, Post-fordism, and Less Eligibility. A Materialist Critique of the Criminalization of Immigration across Europe, “Punishment & Society”, 2, 2010, pp. 147-167; S. Palidda, Polizia postmoderna. Etnografia del nuovo controllo sociale, Feltrinelli, Milano 2000, p. 219 sgg.; S. Karakayali, “Illegal migration in post-fordism”, in Y. Jansen, R. Celikates, J. de Bloois (a cura di), The Irregularization of Migration in Contemporary Europe. Detention, Deportation, Drowning, Rowman & Littlefield, LondonNew York 2015, pp. 31-52. 4. C. Withol de Wenden, Citoyenneté, nationalité, et immigration, Arcantére, Paris 1988; D. Massey et al., World in Motion: Understanding International Migration at the End of Millennium, Clarendon, Oxford 1998; C. Dauvergne, Making People Illegal. What Globalization Means for Migration and Law, cit., p. 65 sgg.; D. Bacon, Illegal People. How Globalization Creates Migration and Criminalizes Immigrants, Beacon, Boston 2008; B. Anderson, M. Ruhs (a cura di), Researching Illegality and Labour Migration, “Population, Space and Place”, 3, 2010, pp. 175-179; V. Squire (a cura di), The Contested Politics of Mobility. Borderzones and Irregularity, Routledge, London 2011.
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bili dei crimini più disparati accompagna come un’ombra la diffusione di una retorica imperniata sulla pericolosità sociale del migrante. Le restrizioni introdotte nel campo delle politiche migratorie allo scopo di promuovere la riorganizzazione dei mercati del lavoro hanno costruito le varie categorie di stranieri e le diverse forme di migrazione, per esempio distinguendo tra migrazione forzata e migrazione economica, e hanno dato vita a “un processo attivo di inclusione attraverso l’illegalizzazione”.5 La spettacolare moltiplicazione dei confini che caratterizza le trasformazioni in corso nello spazio globale corrisponde precisamente all’esigenza di controllare, gestire e filtrare la mobilità migrante in funzione dei bisogni dell’economia. E a questa funzione fanno da controcanto i processi di illegalizzazione che di fatto modellano le condizioni in cui è possibile l’attraversamento del confine – attraversamento che può essere, a seconda delle necessità e in risposta al dinamismo dei sistemi economici rispetto allo spazio, impedito, rallentato oppure facilitato. La produzione legale dell’illegalità si sviluppa nella scia dei processi di disaggregazione e riconfigurazione della sovranità che lo Stato mette in gioco nella formazione, nel rafforzamento e nell’attraversamento selettivo dei confini. Se il migrante “clandestino” rappresenta attualmente l’archetipo del soggetto pericoloso è perché la sua figura investe una prestazione cruciale della sovranità statuale, ossia la decisione su chi ammettere nel territorio nazionale. Il migrante “illegale” è infatti un individuo che sembra rimettere in discussione i presupposti territoriali della politica moderna, ossia la capacità dello Stato di proteggere le coordinate spaziali che hanno lo scopo di definire l’esistenza giuridica e politica dei cittadini e difendere un immaginario nazionale delimitato, sovrano e omogeneo. Non a caso, “quanto più gli Stati investono capitale politico nella effettività dei controlli sui movimenti delle per5. N. De Genova, Working the Boundaries. Race, Space, and “Illegality” in Mexican Chicago, Duke University Press, Durham (N.C.) 2005, p. 234. Cfr. anche M. Samers, Emerging Geopolitics of Illegal Immigration in the European Union, “European Journal of Migration and Law”, 1, 2004, pp. 27-45.
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Marx e Foucault tra penalità e critica dell’economia politica DARIO MELOSSI
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ubblicammo, insieme a Massimo Pavarini, Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario esattamente quarant’anni fa.1 Essenzialmente il libro si basava su una ricostruzione di materiale storico sulle origini del carcere (diviso in due parti, l’Europa e l’Italia da un lato, gli Stati Uniti dall’altro), ordinato intorno a una visione di matrice marxista. Questa era anche la sua ambizione all’originalità nel senso che, attraverso una lettura marxista di tale materiale storico, emergeva chiaramente come la stessa origine, la vera e propria “invenzione” del carcere, fosse strettamente connessa al processo storico-economico che Marx, nel primo volume del Capitale, chiama accumulazione “originaria” o “primitiva”. Inoltre, nei secoli che seguirono, la logica stessa di questa accumulazione primitiva si sarebbe riprodotta ed espansa attraverso la conquista incessante e la colonizzazione di aree pre-capitaliste della società, non solo, naturalmente, per quanto riguardava l’economia capitalista di per sé, ma sinanco nei sistemi penaDario Melossi insegna Criminologia presso la Scuola di giurisprudenza dell’Università di Bologna. 1. Si riproduce qui ampia parte della mia introduzione a una nuova edizione inglese, di Macmillan Palgrave, di The Prison and the Factory, un libro che, con il titolo Carcere e fabbrica, avevamo pubblicato per i tipi del Mulino nel 1977 (D. Melossi, M. Pavarini, Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario, il Mulino, Bologna 1977) e che era stato poi tradotto in inglese nel 1981 (The Prison and the Factory, Macmillan, London 1981). La versione italiana integrale di tale introduzione apparirà in un fascicolo speciale dedicato alla memoria di Massimo Pavarini della rivista “Studi sulla questione criminale” (1, 2017).
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li, a causa della caratteristica essenziale della “disciplina” (come si cercherà di mostrare più in dettaglio nelle pagine che seguono). Economia politica della pena Affrontando la questione delle origini dell’incarcerazione, due strade sembravano schiudersi davanti a noi. Una l’avevamo trovata menzionata in un famoso lavoro di Maurice Dobb, Problemi di storia del capitalismo2 e si intitolava Punishment and Social Structure di Georg Rusche e Otto Kirchheimer.3 Tuttavia, l’enfasi di Rusche sull’importanza del mercato del lavoro – che gli veniva da maestri di impostazione sostanzialmente liberale classica – mi sembrava un buon esempio di “economicismo”, più che di “marxismo”.4 L’altro percorso fu quello che noi seguimmo (e che a mio avviso anche Foucault seguì, in Sorvegliare e punire) e cioè la centralità del concetto di disciplina. Come veniva naturale a chi vivesse nell’atmosfera italiana degli anni settanta, vedevamo le radici della lotta di classe nella fabbrica, intorno all’estrazione del “plusvalore”. Secondo tale punto di vista, presentato da Marx nel primo volume del Capitale, alla fine di ciascuna giornata di lavoro, il valore della produzione deve essere più grande della somma dei costi dei vari fattori della produzione. Questo concetto assai semplice, quasi banale, è tuttavia il nocciolo della lotta di classe. Il governo della produzione è infatti nelle mani del capitale da un lato e della resistenza dei lavoratori dall’altro. Quando si ricostruisce la storia del carcere, quindi, non si può assolutamente trascurare l’importanza cruciale di un’istituzione 2. M. Dobb, Problemi di storia del capitalismo (1946), Editori Riuniti, Roma 1972, pp. 55-56, 273, 277. 3. In seguito, nel mio lavoro di ricostruzione della biografia di Georg Rusche, il vero ideatore delle tesi di Pena e struttura sociale (come l’avremmo chiamato nella traduzione che di lì a poco ne facemmo io e Massimo Pavarini: G. Rusche, O. Kirchheimer, Pena e struttura sociale, il Mulino, Bologna 1978) scoprii che Maurice Dobb aveva anche aiutato Rusche, di origini ebree, a rifugiarsi e cercare lavoro nella Londra degli anni trenta, scrivendo lettere di presentazione per lui (D. Melossi, Georg Rusche: A Biographical Essay, “Crime and Social Justice”, 14, 1980, p. 57). 4. D. Melossi, “The Simple ‘Heuristic Maxim’ of an ‘Unusual Human Being’”, introduzione a G. Rusche, O. Kirchheimer, Punishment and Social Structure (1939), Transaction Publishers, New Brunswick (N.J.) 2003, pp. 9-46.
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come la “workhouse” o la casa di lavoro.5 La casa di lavoro, nella sua versione più famosa, la Rasphuis, fu inventata all’inizio del XVII secolo nelle province olandesi, da poco indipendenti e libere di professare la loro religione protestante. Tale istituzione avrebbe costituito il nesso cruciale con la futura istituzione “penitenziaria”, soprattutto attraverso l’opera di William Penn e dei suoi quaccheri.6 Centrale quindi nel prefigurare la forma moderna del carcere, a causa della fama e della notorietà della Rasphuis. Ma centrale, specialmente, nel costituire il nesso tra penalità e capitalismo. Quale altra istituzione infatti poteva meglio rappresentare l’“affinità elettiva” weberiana7 tra il capitalismo e la penalità moderna? Una nuova forma di penalità che era in grado essa stessa di rappresentare lo “spirito del capitalismo”, una configurazione materiale della stessa “etica protestante”.8 Invero, si potrebbe sostenere che la stessa “invenzione” del capitalismo prese forma nell’invenzione della casa di lavoro. “La questione penale” è infatti sempre stata vicina al cuore degli innovatori sociali, e sia i riformatori sia i rivoluzionari sono stati spesso presi in un 5. T. Sellin, Pioneering in Penology, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 1944. 6. Nemmeno nelle lezioni raccolte in La società punitiva (Feltrinelli, Milano 2016), ove, contrariamente a Sorvegliare e punire, Foucault nota l’importanza del ruolo giocato dai quaccheri nella penalità moderna, egli coglie l’importanza della casa di lavoro e del fatto che questa costituì un passo assai importante verso la creazione del penitenziario, specialmente per l’iniziativa di William Penn e dei quaccheri. Penn era probabilmente venuto a conoscenza della nuova istituzione della casa di lavoro – della quale la Rasphuis di Amsterdam era l’esempio più famoso – durante i suoi viaggi del 1677 nei Paesi Bassi e nella Germania settentrionale (dove pure si era visto un fiorire di “case di lavoro” e di “case di correzione”; cfr. O.F. Lewis The Development of American Prisons and Prisons Customs 1776 to 1845 [1922], Kessinger, Whitefish 2005, p. 10 e O. Seidensticker, William Penn’s Travels in Holland and Germany in 1677, “The Pennsylvania Magazine of History and Biography”, 2, 3, 1878, pp. 237-282). Nella sua riforma penale di alcuni anni dopo (1681), che anticipò di un secolo alcune delle future riforme leopoldine e illuministe, e che era parte del più ampio “sacro esperimento” quacchero della Pennsylvania, Penn pose il più chiaro ed esplicito nesso tra le case di lavoro e quelli che saranno i moderni penitenziari quando decretò che, “tutte le Prigioni saranno case di lavoro per felloni, ladri, vagabondi, e persone licenziose, aggressive e pigre, e una [casa di lavoro] dovrà essere costruita in ogni contea” (T.L. Dumm, Democracy and Punishment: Disciplinary Origins of the United States, University of Wisconsin Press, Madison 1987, p. 79). 7. R.H. Howe, Max Weber’s Elective Affinities: Sociology within the Bounds of Pure Reason, “American Journal of Sociology”, 84, 1978, pp. 366-385. 8. M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1904-05), Sansoni, Firenze 1965.
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La nostra incorreggibile (a)normalità1 ILARIA PAPANDREA
L’istituzione manicomiale [...] spesso paragonata a una nave che affonda nel mare in tempesta [è] oggi definitivamente affondata. Ciò che resta è il mare tumultuoso in cui dobbiamo affrontare la vita, non la malattia o la salute.1
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alute, malattia, individui sani, individui malati, soggetti innocui, soggetti pericolosi: una serie di coppie di contrari con cui vorremmo acquietarci, piccole zattere su cui salire, per metterci al riparo da quella vita, troppo vaga, troppo poco definibile come il dritto di qualcosa, il cui rovescio sarebbe la malattia/la morte. “Da giovane sono stato ricoverato in SPDC (reparto di diagnosi e cura). Mi hanno diagnostico un disturbo mentale. Di tutte le malattie che mi potevano capitare, perché a me, proprio questa?” Lorenzo ha una misura di sicurezza, è stato giudicato pericoloso socialmente, e ha l’obbligo di risiedere in una comunità. Anche Giacomo è in comunità. Stessa misura di sicurezza, pericolosità sociale, interdizione. In più di un’occasione ci tiene a spiegarmi che è entrato in comunità “volontariamente, per curarsi”. Non vuole vivere da solo, perché è “claustrofobico”. Se sta da solo di notte, delle voci potrebbero parlargli e a lui verrebbe voglia di scappare per la città. Per Fausto il mondo si divide in competenti e incompetenti. Se qualcuno, chiamato a svolgere una funzione, commette un errore, afferma di non sapere qualcosa o semplicemente non è così efficiente come lui vorrebbe, Fausto è certo che lo stia facendo apposta per farlo saltare. 1. F. Basaglia, F. Ongaro Basaglia, A. Pirella, S. Taverna, La nave che affonda, Raffaello Cortina, Milano 20082, p. 24.
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A Lorenzo, a Giacomo, a Fausto, così come a molti altri soggetti che la salute mentale o i servizi per le tossicodipendenze hanno in carico, la psichiatria può attribuire e ha attribuito delle diagnosi. È intervenuta spesso anche la legge, per stabilire misure di sicurezza a “tutela” del paziente e del corpo sociale. Ma con Lorenzo, Giacomo e Fausto si produce, ciascuna volta, un incontro singolare. È l’incontro di Fausto con quello psichiatra o con quell’operatore. È l’incontro di Giacomo con un infermiere o con uno psicoterapeuta, o ancora l’incontro di Lorenzo con qualcuno a cui può decidere di raccontare qualcosa solo se è presente un altro, di sua fiducia, perché non parliamo con tutti delle cose strane che ci possono capitare, cose che hanno dell’incredibile se si discostano da quanto la maggior parte delle persone presume normale. Quel “mare tumultuoso in cui dobbiamo affrontare la vita” è costellato di un’infinità di questi incontri, sarebbe forse meglio dire, di situazioni in cui si sarà potuto produrre un incontro se lo psichiatra, l’operatore, l’infermiere, lo psicoterapeuta avranno saputo abbassare, depotenziare, indebolire la maestosità dell’articolo determinativo. Il luogo in cui questi incontri possono realizzarsi ha un peso enorme, perché il dispositivo in cui siamo presi ci padroneggia e i significanti che lo governano, quelli scelti (più o meno consapevolmente) come ideali che lo fondano, ci determinano, che lo si voglia o no. Ma quale che sia l’istituzione in cui ci è dato di incontrare Lorenzo, Giacomo o Fausto, ciò che più conta è il modo in cui siamo disposti ad accogliere lo scuotimento che le loro parole possono apportare al nostro sapere/potere istituito. Constatiamo allora che, innanzitutto e per lo più, quel che facciamo è difenderci dalla minaccia di questo scuotimento. Lo facciamo nei modi e nelle forme più diverse. Mentre ascoltiamo Lorenzo potrà attraversarci la mente il pensiero che la sua sventura non è la nostra, e poi, subito dopo, che dalla malattia mentale si può guarire e noi siamo nella condizione di poterlo accompagnare in questo cammino di guarigione. Con Giacomo ci troveremo a pensare che la “claustrofobia” è tutt’altro da quello che lui intende, e che si tratterà proprio di insegnargli a esse164
re autonomo, zittendo le voci che lo incalzano di notte. E infine con Fausto, in cui ci è forse più facile riconoscerci, non potremo trattenerci dal pensare che ce la mettiamo tutta per fare al meglio il nostro lavoro e che sarebbe il caso di farla finita con la sua insistenza disturbante. In ognuna di queste situazioni, quello che fatichiamo a dismettere è l’abito ben tagliato con il quale ci presentiamo loro. Lo psichiatra, l’operatore, lo psicoterapeuta, l’infermiere ci stanno cuciti addosso come una seconda pelle, acquisita in anni di lunga formazione. Sappiamo qual è la salute e quale la malattia, quale il male e quale il rimedio, occorre solo che ci si lasci fare indisturbati, meglio se complianti – orribile storpiatura dalla lingua inglese – con la terapia che vorremo somministrare. Ci saranno allora pratiche di cura più o meno buone, perché più o meno accorte a prendere in carico la persona nella complessità dei suoi bisogni. Se solo si pensa ai modi in cui ogni regione d’Italia ha affrontato l’affondamento della nave manicomiale – per accogliere le parole e i corpi di tanti soggetti che ci ostiniamo a considerare radicalmente diversi da noi –, ci si accorgerà che la differenza fra le “buone” e le “cattive” pratiche è notevole, addirittura abissale. È opportuno, però, non accomodarci troppo su questa dicotomia. Per quanto essenziale sul piano dei diritti, essa rischia infatti di farci credere che esistano modi sicuri per metterci al riparo dal mare tumultuoso, vale a dire modi capaci di placare il tumulto che toccherebbe alcuni più di altri. Forse occorre piuttosto essere disposti a scavare, dentro ognuna di quelle pratiche che presumiamo “buone”, il posto per degli incontri sempre contingenti e, nella loro contingenza, perturbatori della nostra pratica stessa. La vita, non la malattia o la salute In una delle sue Conferenze brasiliane, Franco Basaglia ricorda che la legge 180 non ha solo chiuso i manicomi, essa ha anche “inserito la psichiatria all’interno dell’assistenza sanitaria”.2 Lo dice, e subito si affretta a precisare che ci troviamo di fronte a un “nuovo ma2. F. Basaglia, Conferenze brasiliane, Raffaello Cortina, Milano 20002, p. 181.
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L’insostenibile libertà dell’essere. Sulle radici infantili della violenza di genere FRANCESCO STOPPA La donna è diversa dall’uomo, eternamente incomprensibile e misteriosa, strana e perciò apparentemente ostile. L’uomo teme di essere indebolito dalla donna, di essere contaminato dalla sua femminilità […] rifiuta la donna come estranea e ostile. Sigmund Freud
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n linea di massima, una donna è consapevole del ruolo che ricopre nei percorsi di soggettivazione del partner almeno quanto questi, da parte sua, tende invece a dimenticare fino a che punto le sarebbero preziose la presenza e la vicinanza di un uomo. Potremmo ricondurre il fenomeno allo stato di congenita disattenzione in cui versa l’uomo se non fosse che in realtà, nella sua relazione con la donna, egli recalcitra un po’ sempre all’idea di essere, tra le altre cose, il partner della mancanza che la abita; che abita, certo, in tutti i viventi ma che in lei assume dei tratti particolarmente destabilizzanti per la mentalità maschile. È in fondo il ritorno di un antico timore, il vago sentore, nell’adulto di oggi, di quel senso di profondo, abissale smarrimento che a suo tempo, nel momento della scoperta del sesso femminile, aveva sovvertito gli equilibri del bambino. L’uomo non tarda ad avvertire la problematicità di fondo insita nella sua vicinanza alla donna: lei lo divide, lo distoglie da sé, dai suoi riferimenti di genere, sembra addirittura essere lì per sottrargli qualcosa. Gli sottrae, per esempio, le sue certezze a proposito di cosa si debba intendere per identità.1 Per quanto lo conFrancesco Stoppa, psicoanalista EPFCL e psicologo presso l’Azienda per l’assistenza santiaria del Friuli Occidentale. 1. Sulla questione dell’identità femminile e della relazione tra i sessi, rimando al mio lavoro La costola perduta. Le risorse del femminile e la costruzione dell’umano, Vita e Pensiero, Milano 2017.
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cerne, lui è per antonomasia il soggetto del significante: il fallo – il significante dei significanti – lo arruola, lo inquadra, non gli lascia troppi margini di dubbio su di sé, sulle sue appartenenze e sul suo posto nel mondo. Proprio per questo, all’entrata in scena di quella che biblicamente è la sua costola perduta e la cui natura non è immediatamente iscrivibile nel registro fallico, l’impalcatura delle sue identificazioni si mette pericolosamente a traballare: è in certo qual modo il mistero dell’essere che gli si spalanca davanti, e non solo perché evidentemente esiste qualcosa di cui il significante non sa pressoché nulla, ma perché questo essere di cui una donna è l’incarnazione prima “non ha uno statuto ontico, ma etico”. In altre parole, “non c’è perché c’è, ma c’è quando c’è; solo possibile e sempre possibile”:2 appare, scompare, si dà per intermittenze, abbandoni e ritrovamenti. E come se non bastasse, la donna, che sembra appunto lì per mutilare le sue certezze, non ha nemmeno da proporgli nulla di alternativo, un rimedio, un integratore, il conforto di un’altra divisa alternativa a quella fallica. Certo, ci si può, anzi ci si deve ridere sopra, è la commedia dei sessi, diceva Lacan. Tuttavia, in un’epoca come la nostra, che è l’epoca del riconoscimento dei diritti, dove l’istanza paritetica per certi versi accorcia, sul piano identitario, le distanze tra i due sessi, l’orrore del contatto col sesso Altro tende a farsi più insidioso, perfino feroce. Si mostra con una frequenza preoccupante assumendo forme di rancorosa e inaudita violenza che vanno dal distacco affettivo alla vessazione domestica, fino all’aggressione fisica del partner. Un troppo di vita L’aspetto perturbante, nella scoperta del sesso femminile da parte del bambino, non è riconducibile all’apparizione di un altro sesso, provvisto quindi di un organo sessuale alternativo a quello maschile. Al contrario, siamo di fronte allo spalancarsi di una visione sul vuoto, dove non c’è nessuna immagine a mediare la situazione e 2. A. Davanzo, Formazione e desiderio dell’analista, “L’Ippogrifo” (numero monografico: La formazione impossibile), 11, 2004, p. 61.
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niente viene in soccorso allo spettatore:3 pura, abissale mancanza, punto di vertigine davanti al quale la fantasia della castrazione della madre, cioè di una ipotetica mutilazione subita dalle donne, non rappresenta in fondo che una formazione reattiva, un male minore che ha il valore di una congettura teorica la cui finalità è quella di razionalizzare l’impensabile.4 Un impensabile, va detto, che non ha per oggetto il solo corpo materno perché in questa fase il bambino si specchia ancora nella madre e di conseguenza, in questa visione del vuoto che squarcia il suo orizzonte, perde di vista se stesso e avverte il rischio di precipitare nella voragine che gli si spalanca davanti. La rivelazione della femminilità della madre è in sostanza una piccola rivoluzione copernicana che mette in discussione la centralità e l’integrità della sua figura di riferimento, fino ad allora perno del suo mondo, e allo stesso tempo compromette la sua stessa identità. Non ci vuole molto, in sostanza, a capire che la donna è diversa in una maniera tutta speciale e la sua identità, così indefinibile, non aiuta l’altra, quella maschile, a definirsi meglio, ma la confonde. Torniamo però al punto culminante della scena in questione al fine di cogliere cosa, più nello specifico, motivi l’angoscia del soggetto. La “sparizione” dell’organo maschile dal corpo della madre non segnala infatti solo il rischio che anche il proprio, oggetto di particolare culto narcisistico, possa subire la stessa sorte. Viene a rappresentare anche altro, l’eclissi di una garanzia data per certa, il dileguarsi di un elemento regolatore, unità di misura, principio d’ordine del mondo infantile, almeno fino a una certa epoca. Ed è così che il prodursi di un simile cataclisma apre un interrogativo piuttosto angoscioso a riguardo della posizione materna: che cosa ne è ora di lei, del suo corpo e del suo godimento, una volta saltato l’elemento stabilizzatore del mondo e 3. Freud sostiene che il soggetto si aggrapperà allora all’ultima immagine precedente la rivelazione della castrazione materna – un particolare, per esempio, del vestiario della donna – eleggendola a proprio feticcio. Cfr. S. Freud, Feticismo (1927), trad. di R. Colorni, in Opere, vol. X, Boringhieri, Torino 1977, e J. Lacan, Il seminario. Libro IV. La relazione d’oggetto. 1956-1957 (1994), trad. a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 1996. 4. In realtà, “la castrazione non è un mito ma un osso, diceva Lacan, cioè un reale che non deve nulla al padre fustigatore. Il padre non è l’agente della castrazione”: in C. Soler, Lacan, l’inconscio reinventato (2009), Franco Angeli, Milano 2010, p. 150.
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Pericolosità sociale del non imputabile e Costituzione DANIELE PICCIONE
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l concetto di pericolosità sociale del non imputabile, disciplinato dall’articolo 203 del Codice penale vigente, è ormai assediato da più parti. Dal punto di vista scientifico, si può dire che non vi sia un sapere o un sistema di conoscenze che se ne dica soddisfatto, che consideri il lemma meritevole di sopravvivenza o provvisto di un qualche residuo fondamento epistemologico. Il pericoloso socialmente dovrebbe dirsi di quell’individuo di cui si possa prevedere che: “È probabile che commetta nuovi fatti preveduti dalla legge come reati”. Questa previsione, in tutta la sua indeterminatezza cognitiva, è quella di una prognosi postuma, effettuata con riguardo alla vita di un soggetto che abbia commesso in precedenza un reato “anche se non imputabile o non punibile”. Infine la pericolosità si rinviene nel presupposto che il soggetto mantenga, qualora permanesse immerso nella società, il contatto e la pienezza di relazioni con gli altri. Dunque, è come se la sua natura, la sua personalità si caratterizzassero per un potenziale nocumento, quasi questa fosse una qualità del singolo. Di qui originano nella giurisprudenza, oltre cinquantennale, tentazioni di accostare al lemma in questione, aggettivi ulteriori quali latente, potenziale, persistente, cronica, coessenziale, grave. Quest’ultima osservazione occupa un posto rilevante perché rivela come, in definitiva, la risposta al soggetto pericoloso sia Daniele Piccione è consigliere parlamentare del Senato.
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proprio quella di limitare tale contatto applicandogli una misura di sicurezza sovente di carattere detentivo. Dunque, il sistema securitario ha un senso perché esiste il concetto di pericolosità sociale e, per converso, questa espressione è funzionale a poter impiegare lo strumentario delle misure di sicurezza a fini di controllo sociale. Ma non solo le scienze psichiatriche escludono di individuare un disturbo o un disagio di per sé tale da determinare la pericolosità in un individuo, ma si sforzano, non da oggi, di allontanare da sé l’ombra della funzione di contenimento, di custodia, di controllo, la quale si riaffaccia proprio in quei casi in cui si associa, al concetto di sofferenza mentale, l’etichetta della pericolosità. Gli studiosi dei sistemi di convivenza sanno che dietro a etichette quali quella in argomento, si celano le istituzioni totali, i luoghi di internamento, gli ordinamenti separati e sezionali. I giuristi democratici e progressisti hanno evidenziato che la pericolosità sociale è il frutto di una persistente eredità del positivismo criminale che trovava, nella tendenza ad assegnare attributi e qualifiche a categorie di persone, uno dei più inquietanti e deleteri tratti del proprio statuto di orientamento culturale. Ma lo studioso della Costituzione, rispetto a tale formula legislativa, ha un ulteriore tratto di analisi da aggiungere. Il costituzionalismo è, innanzitutto, la cultura dei limiti all’esercizio del potere. Non può, dunque, non entrare in rotta di collisione con una definizione giuridica che sposta sulla qualificazione della persona, rendendolo permanente e stigmatizzante, un significato che, invece, dovrebbe essere delle relazioni, degli oggetti, delle situazioni, delle circostanze transitorie e momentanee. E infatti la pericolosità sociale dell’individuo è lo stigma dietro al quale si sviluppa il potere autoritativo più forte che le democrazie costituzionali contemporanee conoscano: la privazione della libertà personale. Si tratta di uno dei grandi solchi in cui si snoda il rapporto tra individuo e autorità. Solo che la pericolosità sociale, proprio perché ha statuto scientifico culturale fragile, è circondata da numerose e ambigue ambivalenze. 198