375 settembre 2017
Agonismo e gioco Pier Aldo Rovatti Il paradosso dell’agonismo 3 Allegato: Friedrich Nietzsche, da “Agone omerico” 19 Beatrice Bonato Giochi di potere, giochi di libertà Allegato: Peter Sloterdijk, da “Stress e libertà” 40 Massimo Recalcati Il gioco del desiderio Allegati: Jean-Paul Sartre, da “L’essere e il nulla” e Jacques Lacan, da “Scritti” Stefano Bartezzaghi “Chi vince non sa cosa si perde” 53 Allegato: Michel Leiris, da “Carabattole” 73 Davide Zoletto La scuola come “spazio” di gioco Allegato: Roger Caillois, da “I giochi e gli uomini” Eleonora de Conciliis Il gioco scolastico e la vertigine dello smascheramento 80 Allegato: Pierre Bourdieu, sul gioco di campo Antonello Sciacchitano “Bambino, vuoi giocare con me?” 101 Allegato: John F. Nash jr, da “Giochi cooperativi” Alessandro Dal Lago Per un’archeologia del combattimento sportivo 113 Allegato: miscellanea
MAL D’ARCHIVIO
Réné Major Il turbamento dell’archivio a partire da Freud Silvano Facioni L’iperbole dell’archivio Giovanni Leghissa Tra enciclopedia e archivio Diana Napoli “Mio nonno non era nazista”
INTERVENTI Tiziano Possamai Rimozione adattiva e sapere
129 131 139 153 165 181
Il paradosso dell’agonismo PIER ALDO ROVATTI
L
a domanda, sottesa alle riflessioni che danno corpo a questo fascicolo di “aut aut”, potrebbe avere la seguente formulazione: “Attraverso il gioco possiamo tentare di disattivare gli effetti negativi dell’attuale agonismo sociale?”. Prima di rispondere con un “sì” o con un “forse sì” bisogna intendersi sulle parole, a cominciare dalla parola “gioco” che è per sua natura sfuggente e difficile da usare. Nella domanda si dà per scontato che la pratica del gioco sia in grado di stare in una posizione più vantaggiosa rispetto a tutte le pratiche dell’agonismo che ormai caratterizzano le nostre relazioni quotidiane. La premessa è dunque che il gioco segni uno scarto significativo rispetto all’agonismo, non coincida né possa sovrapporsi con esso come invece tendiamo a credere. Ma riusciamo a parlare di gioco, a servirci del gioco, senza considerare che l’agone, l’agón per usare l’antico termine greco, insomma l’agonismo, anche nelle sue varianti più estreme o estremizzate di oggi, è qualcosa che ha a che fare con l’esperienza ludica? Possiamo introdurre tutti i distinguo del caso, comunque non arriveremmo al nocciolo della questione se disconoscessimo il fatto che sussiste sempre un’implicazione che dobbiamo portare alla luce e discutere. Scindere gioco e agonismo non ci fa guadagnare nulla: dovremmo invece guardare a come stanno insieme. Per farlo mi pare necessario introdurre un’altra parola, e cioè “paradosso” – quella che di solito adoperiamo per caratterizzare aut aut, 375, 2017, 3-18
3
proprio l’aspetto sfuggente del gioco – e considerare la paradossalità dell’agonismo stesso. L’agonismo è paradossale perché possiede due facce, potremmo dire una faccia “buona” e una faccia “cattiva”: quando perde la faccia buona e prevale solo la sua faccia cattiva, l’agonismo come tale è morto, cioè diventa un’altra cosa che non ha più alcuna parentela con il gioco. Ma non è neppure possibile ridurlo alla sua faccia buona (quella non violenta per intenderci) perché anche così perderemmo di vista il gioco. In breve, ritengo che, per “disattivare” gli effetti perniciosi e socialmente devastanti dell’agonismo, occorra tentare di conservarne la paradossalità, il suo carattere essenzialmente doppio, anziché incamminarci verso un elogio irenistico (e astratto) del gioco. Il lettore si chiederà cosa possa mai significare concretamente un simile salvataggio della duplicità dell’agonismo. Credo che il riferimento al vincere e al perdere, considerati assieme, sia quello più indicativo. Entrare in un qualsiasi tipo di agón è sempre accompagnato dal desiderio di vincere e dall’anticipazione del piacere ricavabile dalla vincita. Ma tutti sanno che se ci si mette in gara (con altri e/o con noi stessi) c’è ogni volta la possibilità di perdere. Noi tentiamo di scindere la buona dalla cattiva chance, magari ritenendo di essere i migliori, ma non ci sarebbe alcun agonismo se vincere e perdere non fossero essenzialmente mescolati nel gioco che intraprendiamo, sicché potremmo ragionevolmente pensare che agisce qui un godimento più sottile, meno semplicistico, secondo il quale l’elemento più importante è qualcosa che potremmo chiamare “saper vincere”. Capite bene che il “saper vincere” consiste nel tenere unite le due facce del paradosso dell’agonismo e implica allora, al tempo stesso, un “saper perdere”. Come se il piacere dell’agonismo in quanto gioco provenisse dalla capacità del giocatore di identificarsi paradossalmente sia con il vincente sia con il perdente. Nelle pagine che seguono cercherò di precisare meglio questa pista, che sembra sì molto lontana dalla competizione unilaterale che governa, nei piani alti come in quelli bassi, la scena socia4
le che stiamo abitando, ma che è comunque una pista possibile che ci viene aperta dall’esperienza del giocare. Dire che nell’attuale competitività non c’è più alcun gioco, o che ormai lo “spazio di gioco” è stato eliminato, non vuol dire né che l’esperienza ludica sia stata lasciata definitivamente alle nostre spalle né che non possa essere riattivata. Al contrario, è urgente riconoscerla, valorizzarla e metterla all’opera a vantaggio di ciascuno di noi. Se l’agonismo l’avesse davvero bruciata nella sua frenesia del prevalere, ci sarebbe da chiedersi di che natura sia il piacere al quale miriamo, o solo se abbiamo effettivamente da guadagnarci evacuando in questo modo il gioco. Oppure, rovesciando il ragionamento, domandarsi se non sia arrivato il momento di riempire nuovamente di senso l’agonismo così cadaverizzato per restituirgli ciò che ha “perduto” credendo di avere “vinto” la sua battaglia, insomma ciò che ho appena indicato con la parola paradosso. Propongo intanto al lettore un salto all’indietro attraverso alcune pagine in cui Nietzsche riflette su cosa fosse l’agone per gli antichi greci. Vorrei subito ringraziare Beatrice Bonato che mi ha messo sulle tracce di questo testo nietzschiano (cfr. il suo libro Sospendere la competizione, Mimesis, Milano-Udine 2015) e che ritorna sulla questione nel contributo che si può leggere in questo stesso fascicolo di “aut aut”. Tenderei a valorizzare in modo particolare le pagine di Nietzsche del 1872 (intitolate Agone omerico) perché le ritengo molto utili per capire da quale lontananza può arrivarci il discorso sulla paradossalità dell’agonismo. Nietzsche e le due “eris” Vale la pena di fornire qualche spunto di ciò che Nietzsche propone in questo breve scritto del 1872 dedicato a Esiodo e a ciò che sta dietro i poemi omerici. Chi ha un po’ di famigliarità con la quasi coeva Nascita della tragedia non si stupirà nel trovare un ulteriore smontaggio della retorica della felice “umanità” tradizionalmente applicata alla società e alla cultura dell’antica Grecia. “Un tratto di crudeltà” appartiene a tale cultura, così Nietzsche, 5
Giochi di potere, giochi di libertà BEATRICE BONATO
N
elle prossime pagine riprenderò la riflessione sul tema della competizione, a cui due anni fa ho dedicato un’analisi critica, compiendo un percorso di attraversamento che a un certo punto incrociava la questione del gioco.1 Mentre in quel contesto mi premeva soprattutto portare alla luce l’ambigua complicità tra gioco e agonismo, qui proverò a rispondere a una domanda un po’ diversa: se cioè si possa dare una relazione tra gioco e agonismo tale che, grazie al gioco, sia possibile allentare la pressione dell’agonismo. La affronterò, ancora una volta, come un esercizio senza un esito garantito, senza l’illusione di arrivare a una risposta univoca. L’esercizio ha luogo nella forma di un’analisi, ma quest’ultima raddoppia e accompagna pratiche di vita e lavoro nelle quali cerco di continuare a rimettere in gioco ipotesi che mi sembrano ancora convincenti. Vedo delinearsi due possibili strade. La prima disgiunge l’agonismo dal gioco, sulla base del fatto che esistono dopotutto giochi non agonistici.2 Nel saggio sulla competizione suggerivo di prendere questa strada, riconoscendo e rafforzando giochi, pratiche e forme di vita, libere dall’agonismo. La seconda è una via più stretta, più rischiosa. Senza pretendere di uscire dalla competizione, 1. B. Bonato, Sospendere la competizione. Un esercizio etico, Mimesis, Milano-Udine 2015, cap. “Mettersi in gioco”, pp. 49-63. 2. Cfr. R. Caillois, I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine (1967), trad. di L. Guarino, Bompiani, Milano 1995.
aut aut, 375, 2017, 19-39
19
si tratterebbe di scommettere su un’attenuazione della carica distruttiva, al limite violenta, che l’agonismo contiene, e di farlo proprio grazie allo spirito del gioco. Proprio gareggiando, nello spirito del gioco, le gare da cui siamo ossessionati potrebbero apparirci in una luce diversa. L’agonismo sarebbe disinnescato, o quantomeno indebolito, nel momento in cui fosse esercitato secondo il suo stesso gioco. Non escludo che questa seconda via si possa percorrere, nonostante i trabocchetti che ci riserva. Terrò sullo sfondo, per tornarci solo alla fine di queste pagine, un breve e denso testo di Peter Sloterdijk, autore che sull’agonismo ha da dirci moltissimo. Ma non vorrei arrivarci prima di aver fatto ancora qualche considerazione sul saggio, anch’esso breve e di straordinaria pregnanza, che il giovane Nietzsche dedicò all’agonismo, e dal quale questo fascicolo trae ispirazione.3 Nietzsche non esprime, né qui né altrove, una critica all’esasperazione dell’agonismo, e neppure agli ambigui usi strumentali del gioco. Egli deplora, semmai, l’illusione borghese, decadente, di salvare insieme la verticalità e la sicurezza di poter tranquillamente rimanere tutti allo stesso, mediocre livello, senza essere disturbati da contese troppo aspre. Nell’antica Grecia, al contrario, per tenere alto lo standard di eccellenza nelle arti e nelle tecniche, quando qualcuno si innalzava troppo sopra la media comune la competizione veniva riattivata: Questo è il nocciolo della concezione greca dell’agonismo: essa aborrisce il dominio esclusivo e teme i suoi pericoli; essa desidera, come strumento di difesa contro il genio, un secondo genio. Ogni attitudine deve svilupparsi attraverso la lotta: così ordina la pedagogia greca. Gli educatori moderni, per contro, di nulla hanno tanta paura quanto dello scatenamento della cosiddetta ambizione.4 3. “Agone omerico” è una delle “Cinque prefazioni per cinque libri non scritti” composte nel 1872; in F. Nietzsche, La filosofia nell’epoca tragica dei Greci e scritti 1870-1873, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1991. 4. Ivi, p. 123.
20
Continuo a pensare che una grande distanza ci separi da entrambe le scene evocate da Nietzsche, la più antica e la più recente. La società “filistea” dell’Ottocento somiglia così poco alla nostra da sembrarci forse ancora più lontana del mondo greco. Non credo perciò di poter trarre da queste righe elementi per una rivalutazione del ruolo dell’invidia sociale, la cattiva eris di Esiodo che aveva tanto colpito il filosofo. Non vorrei però allontanarmi da quel testo senza averne afferrato un altro filo, che mi aiuterà a procedere in una direzione un po’ diversa. Mentre descrive e confronta impietosamente i giocatori antichi e moderni, Nietzsche dà in un certo modo per scontato il gioco che li coinvolge, l’attività che li gioca e li mobilita e le persone in carne e ossa che tengono le fila del gioco stesso. Ora, è proprio su questo secondo livello che vorrei spostarmi. Grandi giochi La questione del gioco, posta in questi termini, è complementare a quelle della valutazione e del governo. Chi decide chi sono i migliori, chi sono i vincitori nelle competizioni? Quale meccanismo selettivo sarà in grado di portare al vertice i più adatti a misurare, valutare, governare i giochi sociali? Proviamo a immaginare alcune risposte politiche concrete. La prima sarà quella aristocratica: un’élite coopta i suoi successori, distribuisce i ruoli e stabilisce le regole, eventualmente spariglia le carte nel caso si creino pericolosi fenomeni di appiattimento. Riattiva la competizione, suscitando, contro l’eccesso del genio, un secondo genio. Tutto questo avviene all’interno di una cerchia limitata, distinta dalla massa in base a un’eccellenza di vita già condivisa, che non necessita di venir negoziata o definita oggettivamente. L’altra è la variante democratica contemporanea, dove a fare la differenza non è soltanto l’ampliamento del numero dei concorrenti, ma soprattutto il venir meno di standard qualitativi di eccellenza riconosciuti. Ciononostante si deve valutare, si deve competere, si deve giocare. È quasi impossibile sottrarsi al richiamo della sfida. Ma se coloro che governano i giochi non hanno modelli né fini a cui guardare, essi tenderanno a utilizzare 21
Il gioco del desiderio MASSIMO RECALCATI
Due sogni Un paziente porta questo sogno in analisi: è al tavolo da poker insieme ad altri giocatori. Ogni volta che riceve le carte per iniziare una nuova partita si trova tra le mani quattro assi che lo rendono ogni volta vincitore. Dopo diversi giri di carte dove questo schema si ripete inesorabile gli altri giocatori, stanchi di perdere, lo lasciano solo. Nessuno vuole più continuare a giocare con lui. Il sogno termina con una sensazione di disperata impotenza. In questo sogno emerge una verità prima del gioco: non si può giocare se si vince sempre, se ogni volta ci troviamo nelle mani quattro assi. Non solo: nessuno, in quel caso, è più disposto a condividere il gioco con noi. Questo sogno illustra altresì un fantasma fondamentale della nevrosi: rifiutare in tutti i modi il costo della castrazione e della sua Legge comporta l’impossibilità del legame con l’Altro e la pietrificazione amorfa della propria vita che non può più giocare la partita della propria esistenza. Un altro paziente che condivide, se fosse possibile, questo fantasma sogna di essere pronto per entrare in campo con la propria squadra di calcio quando l’allenatore, improvvisamente, gli dice di mettersi in panchina perché non ha più un ruolo di titolare nella sua squadra. Dovrà osservare la partita senza giocare. Mentre però gli comunica questa decisione, l’allenatore – che le associazioni condurranno alla figura tirannica del padre – gli passa di nascosto un sacco che contiene una somma di denaro che nel racconto del sogno il paziente definisce “smisurata”. Con tutto quel denaro tra le mani – simile ai quattro assi del sogno 40
aut aut, 375, 2017, 40-52
precedente –, il soggetto resta con la netta e bizzarra sensazione di essere stato truffato. Anche in questo sogno non c’è possibilità di partecipare al gioco. La posizione del soggetto è quella di uno sguardo che contempla da fuori quello che accade sul campo di gioco. Con l’aggiunta che questa posizione comporta un guadagno “smisurato” quasi a sottolineare che, nella prospettiva della nevrosi, è sempre più redditizio evitare il gioco, che, come tale, implica sempre la possibilità della perdita. Nondimeno, in questo guadagno sproporzionato, il soggetto avverte che è in atto una truffa: la solitudine colpevole di escludersi dal gioco. In entrambi questi due sogni in primo piano è il desiderio di evitare il gioco del desiderio. Questo evitamento si produce come un guadagno ripetuto e privo di perdita (primo sogno) o “smisurato” (secondo sogno), il quale ostacola la possibilità del gioco stesso o, se si preferisce, si sostituisce alla possibilità del gioco. Non c’è gioco, quanto piuttosto un tornaconto “smisurato” nel sottrarsi al gioco che, tuttavia, mutila drasticamente la vita del soggetto. Il gioco è sempre senza padronanza I due sogni che ho brevemente commentato realizzano il desiderio paradossale di evitare l’evento senza padronanza del gioco. È il fantasma fondamentale della nevrosi: evitare il rischio del desiderio assecondando la domanda dell’Altro, facendosi il servo impotente del suo desiderio (nevrosi ossessiva), oppure liberando il desiderio dalla domanda dell’Altro nella rincorsa utopica di una realizzazione sempre differita di se stesso (isteria). Il logos filosofico che abita questi due sogni vorrebbe garantire al soggetto una padronanza impossibile. Tuttavia, questa impossibilità appare proprio laddove l’illusione della padronanza pare realizzarsi: i quattro assi e la somma “smisurata” rendono impossibile l’arte del gioco. Se si è i soli padroni del gioco è letteralmente impossibile giocare perché si gioca sempre con l’Altro.1 L’indebolimento della padronanza è infatti un motivo es1. Solo il fantasma perverso stabilisce che è possibile giocare incarnando la posizione.
41
senziale e costituente di ogni gioco. È un tema che ritroviamo in quelle pagine di L’essere e il nulla dove Sartre contrappone l’attività del gioco allo “spirito di serietà”. I materialisti e i rivoluzionari di professione (gli psicoanalisti?) non sanno giocare perché leggono il mondo a partire dal dominio serioso dell’oggetto. “L’uomo”, scrive Sartre, “è serio quando si prende per un oggetto.”2 Ma cosa significa prendersi per un oggetto? E di quale gioco si sta parlando? Prendersi come oggetto significa rinunciare alla propria singolarità e al senza fondo – senza garanzia – dell’Altro che questo comporta. Il gioco di cui si parla è quello fondamentale della psicoanalisi, ovvero il gioco del desiderio. Questo gioco implica un paradosso di fondo che è al cuore della trovata freudiana dell’inconscio: il soggetto non è padrone di questo gioco, non può insignorirsi delle sue regole, né governarne l’esito: “Il soggetto non è padrone in casa propria”, ripete insistentemente Freud. Esso, in quanto giocatore, appare come, innanzitutto, giocato dal gioco del desiderio. È quello che lo “spirito di serietà”, secondo Sartre, esclude radicalmente: il materialista e il rivoluzionario di professione (lo psicoanalista?) percepiscono i valori solo attraverso il loro “consolidamento rassicurante e cosista”,3 ovvero li ipostatizzano trasfigurandoli in idoli immobili, in una Causa universale che vorrebbe annientare ogni increspatura della singolarità – sempre senza alcun modello – della vita. Questo significa prendersi come un “oggetto”, come un oggetto, appunto, al servizio dell’Altro. Lo spirito di serietà fonda l’essenza del totalitarismo che rende impossibile ogni forma di gioco perché nell’attività del gioco è la libertà della soggettività che pone “il valore e le regole dei suoi atti”.4 Come accade nello spirito di del padrone assoluto, ma il suo gioco – il gioco feroce della perversione – non può più essere un gioco del desiderio, quanto quello della sua completa distruzione nella sua forma sadica o masochistica. Su questo tema mi permetto di rinviare al mio Jacques Lacan. La clinica psicoanalitica: struttura e soggetto, Raffaello Cortina, Milano 2016, pp. 395-451. 2. Cfr. J.-P. Sartre, L’essere e il nulla. Saggio di ontologia fenomenologica (1943), trad. di G. Del Bo, il Saggiatore, Milano 1980, p. 697. 3. Ivi, p. 78. 4. Ivi, p. 697.
42
“Chi vince non sa cosa si perde” STEFANO BARTEZZAGHI
0. Il titolo in gioco Ambigua e paradossale, la forma del motto che appare nel titolo è ciò che più lo rende adeguato ad aprire un discorso sull’agonismo. Delle sue tre sezioni [/Chi vince/ /non sa/ /cosa si perde/] quella sensibile è certamente l’ultima, sensibile perché vi si manifestano sia l’ambiguità sia il paradosso. In quanto all’ambiguità, il /si/ può avervi [1.] valore intensivo (come in: “l’appassionato non si perde neanche una puntata del programma”)1 e [2.] valore di pronome impersonale (come in: “in questi casi si perde la pazienza”). La differenza fra i due casi si fa lampante quando si agisce sulla prima sezione, per esempio commutandola alla prima persona singolare. Nel caso [1.], bisogna variare anche la terza sezione: “Se vinco, non so cosa mi perdo”; nel caso [2.], non è necessario: “Se vinco, non so cosa si perde”. Ma è anche vero che, fra [1.] e [2.] poco cambia nel senso generale del motto: “(Chi vince non 1. In modo meno generico, il motto e l’esempio fra parentesi sono entrambi casi di proposizioni antipassive. Cfr. N. La Fauci, Compendio di sintassi italiana, il Mulino, Bologna 2009. Ringrazio lo stesso La Fauci per le amichevoli osservazioni su questo paragrafo inaugurale.
aut aut, 375, 2017, 53-72
53
sa) cosa egli, vincendo, si sia perso / cosa, in generale, vincendo [ci] si perda”. Il vero punctum del motto sta quindi nel suo carattere di paradosso, che a sua volta è fondato innanzitutto sulla relazione semantica fra “vincere” e “perdere”. È un’opposizione di reciprocità, in cui avviene un’inversione del punto di vista da cui si considera la medesima azione. In questo caso si tratta dell’azione agonistica, che implica la presenza di almeno due soggetti e ha un compimento necessario che può essere descritto in due modi: /A ha vinto su B/ o /B ha perso da A/.2 Che un soggetto nasca non ha come conseguenza, o implicazione, che un altro soggetto muoia; nella relazione agonistica invece non si vince senza che qualcuno perda.3 Accade lo stesso alla coppia “acquistare/vendere”. Avrebbe senso una versione commerciale del nostro motto, che dica: “Chi acquista non sa cosa si vende”? Forse no, ma ai lettori di Marcel Mauss potrebbe risultare soddisfacente la versione donativa del motto stesso: “Chi dona non sa cosa riceve”. Il motto innesca un’attesa: l’attesa che venga confermata l’ovvietà doxastica per la quale uno vince, uno perde. Nei giochi con il danaro, la vincita del primo corrisponde alla perdita dell’altro, tanto è vero che un costrutto come “la perdita del vincitore” avrebbe un ethos perfettamente ossimorico. Ma qui è nascosta una seconda ambiguità. “Perdere” non è solo il reciproco (o inverso) di “vincere”; equivale anche (e questa volta senza correlazione a “vincere”) a “non avere più”, come si osserva nel luogo 2. Il pareggio è l’esito incompiuto di un evento agonistico, tanto è vero che in certi giochi e sport la sua eventualità è esclusa dal regolamento, che prevede una delle diverse possibili modalità di “spareggio”. Il pareggio, o “patta” è invece logicamente obbligato nel gioco del tris (fra due giocatori di uguale competenza): questo è l’elemento che nel film Wargames (John Badham, Stati Uniti 1983) impegna il computer auto-epistemologico Joshua fino a bloccarne il processo automatico con cui sta per iniziare una guerra termonucleare globale e fino a “convincerlo” che esistono giochi in cui “l’unica mossa vincente è non giocare”. 3. Per quanto remota possa sembrare la relazione, in giochi come le lotterie, soprattutto quando vi è una sproporzione enorme fra l’entità della puntata e quella della posta (sproporzione paragonabile a quella, del tutto inappariscente, fra puntata e probabilità di vittoria).
54
comune: “Non sai cosa ti perdi”.4 Scardinando la tautologia “chi vince, vince” e innestandole il luogo comune “non sa cosa si perde”, il motto delude l’attesa che ha suscitato e ribalta la tautologia in un apparente nonsense: “Chi vince, perde (ma non lo sa)”.5 Una parola, infine, sulle virgolette. Ho trovato il motto del titolo in una raccolta di aforismi e citazioni legati al mondo del rugby.6 Non conosco il contesto originario, non saprei come verificarne l’attribuzione, non posso escludere che qualcuno avesse coniato il motto in precedenza e sono consapevole che potrebbe essere altrimenti coniato da chiunque si trovi a commentare una propria sconfitta e cerchi di uscire dalla lizza almeno come “vincitore morale”. Il mio interesse nel motto è nella sua capacità di confondere le acque frettolosamente separate da un’opposizione troppo rigida e piatta fra vincenti e perdenti. 1. Vincenti Nel corso degli anni ottanta dello scorso secolo, uno slittamento semantico non vistoso ma decisivo ha interessato il participio, aggettivo e sostantivo “vincente”. Nella sua accezione tradizionale, “vincente” è sinonimo di “vincitore” e di “vittorioso”. È quindi una qualificazione terminativa: giunge alla fine di un’azione. Sembra inoltre in relazione più stretta con la dimensione della “vincita” (“il cavallo vincente”, “la schedina vincente”, il “numero vincente”) piuttosto che con la dimensione della “vittoria”, che si correla più frequentemente al “vincitore”. Solo in seguito è parsa prevalere un’accezione, al contrario, “incoativa”, quella secondo cui “vincente” nomina la condizione di chi è “abituato a vincere”, ha “il giusto atteggiamento per vincere”, e alla fine dei conti è addirittura “destinato a vincere”. 4. Sul ruolo dell’ambiguità nei giochi linguistici, S. Bartezzaghi, Parole in gioco. Per una semiotica dei giochi linguistici, Bompiani, Milano 2017. 5. Sembrerebbe inoltre che la perdita del vincitore vada a compensarsi in una vincita del perdente, con in più il sospetto che chi, sul piano pragmatico, risulta perdente, sul piano cognitivo sia invece consapevole; viene così da concludere: chi perde sa cosa si vince. 6. M. Pastonesi, E. Pessina, In mezzo ai pali, Libreria dello Sport, Milano 2001.
55
La scuola come “spazio” di gioco DAVIDE ZOLETTO
La scuola, in quanto ludus, è uno spazio di gioco, ovvero un punto in cui vi è possibilità di movimento entro uno spazio ristretto.1 La realtà non ha di queste delicatezze.2
U
na delle prospettive centrali che attraversano oggi sia il dibattito teorico sulla scuola sia le pratiche quotidiane degli insegnanti è senz’altro quella dell’inclusione. E se, come ha sottolineato Charles Gardou, lavorare per l’inclusione dovrebbe voler dire impegnarci a modificare “i nostri valori e le nostre pratiche”,3 allora il fatto di scegliere una prospettiva di tipo inclusivo dovrebbe impegnarci a superare un focus centrato solo sull’allievo o l’allieva “altri” e sulla loro “diversità” per mettere al centro della riflessione e dell’azione educativa il contesto scuola nel suo complesso, la relazione fra l’istituzione scolastica (e gli insegnanti…) e gli allievi e le allieve percepiti come “altri”, e in ultimo – o forse in primis – le modalità con cui vediamo (o più spesso non mettiamo a tema, diamo per scontato…) il nostro stesso fare scuola. Si tratta in questo senso di continuare, certo, a prestare un’attenzione sempre molto concreta alle differenze che si incontrano nei contesti scolastici, ma si tratta anche nello stesso tempo di non irrigidire tali differenze in rappresentazioni astratte e stereo1. J. Masschelein, M. Simons, The Hatred of Public Schooling: The School as the Mark of Democracy, “Educational Philosophy and Theory”, 5-6, 2010, p. 674. 2. R. Caillois, I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine (1967), trad. di L. Guarino, Bompiani, Milano 20002, p. 15. 3. C. Gardou, Nessuna vita è minuscola. Per una società inclusiva (2012), trad. di A. Goussot, Mondadori Education, Milano 2016, p. 2.
aut aut, 375, 2017, 73-79
73
tipate (è il whiteheadiano rischio della “concretezza malposta”), e di prestare piuttosto particolare attenzione alla concretezza dei processi di differenziazione e identificazione. Jan Masschelein e Marteen Simons, in un recente saggio che fin dal titolo intende proporre una serrata “difesa della scuola”, hanno osservato, in questo senso, come una delle caratteristiche essenziali della scuola, starebbe proprio nella sua capacità di non identificare gli allievi e le allieve solo con una visione riduttiva e stereotipata delle differenze che loro porterebbero con sé. I due autori non negano certo che la scuola abbia concorso e concorra ancora oggi alla riproduzione di varie forme di stratificazione sociale e ineguaglianza, e tuttavia sottolineano anche con forza che una delle caratteristiche più essenziali della scuola stessa sarebbe anche quella di mettere in questione proprio tali processi. La scuola, scrivono Masschelein e Simons, “va contro le ‘leggi di gravità’ (per esempio la ‘legge naturale’ secondo cui gli studenti di un dato status socio-economico non avrebbero interesse a certe cose o a certe materie) e si rifiuta di legittimare le differenze basate sulla ‘gravità’ specifica degli studenti”.4 E vi riuscirebbe “non perché la scuola, nella sua ingenuità, neghi l’esistenza della gravità, ma perché la scuola costituisce una specie di vuoto nel quale a giovani e studenti viene data la possibilità di fare pratica e di svilupparsi”.5 In diversi punti del libro Masschelein e Simons sembrano suggerire che questa caratteristica sarebbe legata al fatto che la scuola pare poter “disattivare il tempo ordinario”, potendo essere vista in qualche modo come un tempo e uno spazio nei quali potrebbero essere “sospese” tutta una serie di regole e aspettative di tipo sociologico, economico, familiare e culturale: “In altre parole, dare forma alla scuola – fare scuola – ha a che fare con una sorta di sospensione del peso di queste regole”.6 È una tesi suggestiva perché sembra scommettere proprio sul4. J. Masschelein, M. Simons, In Defence of the School. A Public Issue (2012), E-ducation, Culture & Society Publishers, Leuven 2013, pp. 63-64 5. Ibidem. 6. Ivi, p. 35.
74
la possibilità per la scuola di costituire uno spazio nel quale rimettere in questione quei processi di differenziazione, identificazione ed esclusione che invece sembrano purtroppo trovare ancora oggi troppo spesso conferma proprio nei dati sui risultati dei vissuti scolastici di molti allievi e allieve (si pensi per esempio ad alcuni degli elementi che tuttora emergono in riferimento ai percorsi scolastici di allievi e allieve figli di genitori migranti7). Ma è, nello stesso tempo, anche una proposta paradossale, tenendo conto che, come osservano gli stessi autori, sembrano essere a volte anche alcuni aspetti del nostro modo di fare scuola a concorrere appunto alla riproduzione di tali processi. Non è un caso, forse, che per descrivere questa caratteristica del tempo e dello spazio scolastico, Masschelein e Simons attingano a un campo metaforico come quello dei giochi e del giocare che rimanda, tra gli altri elementi, anche a quello del paradosso.8 Ci aveva già pensato, a suo tempo, John Dewey quando, nel suo Esperienza e educazione, aveva scelto l’esempio del gioco per descrivere la paradossale compresenza di libertà e controllo che può caratterizzare un contesto educativo come l’aula scolastica.9 In questo caso, invece, il tratto ludico paradossale evocato da Masschelein e Simons è quello del delicato rapporto che separa (“sospende”) e a un tempo connette il gioco e la realtà, e al quale i due autori rimandano per descrivere una specifica caratteristica del tempo e dello spazio scolastico: ovvero il fatto che, pur mantenendo un collegamento con il mondo esterno, la scuola potrebbe permettere che venissero almeno a volte alleggeriti, cambiati di segno, sospesi, in una parola: “messi in gioco”, alcuni degli elementi di ineguaglianza che fuori dalle pareti scolastiche (e purtroppo, 7. Cfr. MIUR – Fondazione ISMU, Alunni con cittadinanza non italiana. La scuola multiculturale nei contesti locali. Rapporto nazionale a.s. 2014/2015, Fondazione ISMU, Milano 2016. 8. Il paradosso non è naturalmente l’unico tratto a cui può rinviare, anche a proposito del mondo della scuola, il campo metaforico dei giochi e del giocare. Si pensi per esempio, anche in riferimento ai temi affrontati da questo fascicolo di “aut aut”, alla possibilità di indagare il ruolo svolto oggi a scuola da un’altra dimensione importante evocata dal campo metaforico dei giochi e del giocare, ovvero quella che Roger Caillois chiamerebbe agon (cfr. in merito le considerazioni contenute in I giochi e gli uomini, cit., p. 30 sgg.). 9. J. Dewey, Esperienza e educazione (1938), trad. di E. Codignola, La Nuova Italia, Firenze 19672, p. 36 sgg.
75
Il gioco scolastico e la vertigine dello smascheramento ELEONORA DE CONCILIIS
Saˇ pere aude! Orazio
1.
Il gioco è un oggetto bifronte della sociologia, che da un lato ne sottolinea la peculiarità all’interno dei sistemi sociali, dall’altro lo usa per spiegare il funzionamento stesso della società. In termini altrettanto bipolari, potremmo dire che nel gioco e attraverso il gioco – anzi, i giochi – gli esseri umani da un lato si confrontano (praticano forme complesse di comparazione), dall’altro si trasformano (si avventurano in esperienze metamorfiche),1 e che in entrambi i casi essi cercano, e a volte perdono, il senso della propria identità. Secondo Roger Caillois – al quale dobbiamo il principale tentativo di fondare una sociologia a partire dai giochi2 in cui, come vedremo, la coppia agon-alea (gara-sorte) rinvia alla comparazione, e quella mimicry-ilinx (maschera-vertigine) alla metamorfosi –, “il gioco è coesistente, inseparabile dalla cultura” (C 82), che tuttavia esso “sublima” in una dimensione meta-economica: “Chi ha fame non gioca” (C 14), e perciò solo al di là del bisogno, in un tempo libero ancorché ritualizzato, non segnato dal 1. Per un’analisi del “gioco” sociale della comparazione, mi permetto di rinviare a E. de Conciliis, Il potere della comparazione. Un gioco sociologico, Mimesis, Milano-Udine 2012; sul tema psico-antropologico della metamorfosi (senza la quale, paradossalmente, non vi sarebbe identità), cfr. le insuperabili pagine di E. Canetti in Massa e potere (1960), trad. di F. Jesi, in Opere, Bompiani, Milano 1992, vol. I, pp. 1386-1450. 2. R. Caillois, I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine (1958), trad. di L. Guarino, prefazione di P.A. Rovatti, Bompiani, Milano 2016, p. 86, d’ora in poi indicato dalla lettera C seguita dal numero di pagina.
80
aut aut, 375, 2017, 80-100
lavoro, si può provare il piacere di gareggiare o superare un ostacolo arbitrario. Del resto l’agone greco, esattamente come l’agire politico secondo Hannah Arendt,3 mette in forma la “rivalità tra uomini liberi”, aristotelicamente virtuosi e autosufficienti: una sorta di “atletismo generalizzato”,4 il cui nobile scopo comparativo consiste nel “fornire una prova incontestabile della propria superiorità” (C 130) partendo da una situazione di artificiale uguaglianza, dunque nel vederla riconosciuta senza imporla brutalmente come potere coercitivo. In tal senso il gioco (compreso quello filosofico) è “la forma pura del merito personale e serve a manifestarlo” (C 31) grazie a una regolazione “giusta”, sportiva, non servile e non violenta del confronto tra differenze: anche se la sua libertà è tale solo nei limiti delle sue regole, che lo rendono separato dal mondo ordinario, fittizio, incerto (poiché il suo esito è sconosciuto) e soprattutto improduttivo,5 il gioco non può essere imposto.6 Se limitiamo quest’ultima caratteristica al sistema d’istruzione superiore, posto per definizione al di là dell’obbligo, e consideriamo l’“incerta” metamorfosi comparativa prodotta negli studenti dal loro curriculum studiorum, notiamo che il mondo scolastico, nelle sue diverse forme istituzionali, può essere facilmente assimilato al gioco. Se infatti “ogni istituzione funziona in parte come un gioco” (C 83), in questa società in miniatura, apparentemente sottratta alla produzione e popolata da individui non ancora autosufficienti (“minori” anche in senso kantiano), funzionano, spesso inconsciamente, tutte le motivazioni “com3. H. Arendt, Vita activa. La condizione umana (1858), trad. di S. Finzi, Bompiani, Milano 1989. 4. G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia? (1991), trad. di A. De Lorenzis, Einaudi, Torino 2002, p. X. 5. In quanto “non crea né beni né ricchezza, né alcun altro elemento nuovo” (C 26), “il gioco è occasione di puro dispendio” (C 22): un’attività in pura perdita, su cui cfr. anche G. Bataille, Il dispendio (1967), a cura di E. Pulcini, Armando, Roma 1997. 6. “Il giocatore non può essere obbligato senza che il gioco perda subito la sua natura di divertimento attraente e gioioso” (C 26); perciò esso è impossibile in quei sistemi sociali in cui gli individui sono ridotti ai loro bisogni primari – per esempio nei lager, che la degenerazione totalitaria trasforma in “apparati” (P. Bourdieu, Risposte [1992], trad. di D. Orati, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 73).
81
parative” che per Caillois inducono al gioco: il gusto della sfida o della difficoltà da superare, l’ambizione a essere il migliore, il desiderio di misurarsi in una prova di abilità, velocità, resistenza, ingegnosità. Ma funzionano anche, e in modo ancor più nascosto, le motivazioni “metamorfiche”: il piacere della finzione e del travestimento, l’attesa e la ricerca del favore del destino, il desiderio di aver paura (per esempio prima di una prova) o di fare paura (a un compagno o al docente), e soprattutto, con la messa a punto di regole e norme, il dovere di rispettarle e insieme la tentazione di aggirarle (C 84). Se “non c’è alcuno di questi atteggiamenti o di questi impulsi, del resto spesso incompatibili fra loro, che non si ritrovi tanto nel mondo marginale e astratto del gioco quanto nel mondo non protetto dell’esistenza sociale” (C 84), essi si ritrovano anche nel mondo apparentemente protetto in cui i cuccioli di uomo “giocano” a diventare adulti. Nella scuola operano cioè in modo più o meno implicito i quattro “ludemi” di Caillois: l’agon (sia “muscolare” che “cerebrale”); l’alea, nella forma della (peraltro fittizia) uguaglianza di partenza o del sorteggio (C 34);7 la mimicry, il “farsi altro” (C 36), nella forma dell’imitazione del maestro ma anche della gregarietà metamorfica o dell’assunzione di ruoli istituzionali (tra cui appunto quello del maestro e dell’alunno, spesso abilmente “recitati” o al contrario vissuti come unica possibile identità); infine l’ilinx, la vertigine, ottenuta non attraverso le giostre, i girotondi o i luna park, ma proprio attraverso la pratica scolastica dei primi tre ludemi, ovvero in virtù di un talvolta solitario, talaltra socievole smarrimento “metamorfico” nel gorgo del sapere, o anche mediante un ripiegamento riflessivo del soggetto fatalmente “decentrato” dal gioco scolastico in cui è preso – da cui è in-luso.8 7. In tal senso uno dei compiti “impossibili” della scuola consiste nel mitigare l’agon con l’alea, la cui funzione è quella di abolire ogni superiorità naturale o acquisita (poiché davanti alla sorte, come davanti alla legge, siamo tutti uguali) – salvo poi negare quest’uguaglianza nella valutazione, che è un meccanismo differenziante. Su ciò mi permetto di rinviare al mio Che cosa significa insegnare?, Cronopio, Napoli 2014. 8. In quanto capacità di “provare piacere di fronte al panico, esporvisi spontaneamente per tentare di non soccombervi” (C 14), l’ilinx rappresenta il limite interno dei primi tre
82
“Bambino, vuoi giocare con me?” ANTONELLO SCIACCHITANO
Una definizione limitante La contrapposizione tra gioco e agonismo, di cui tratta questo numero della rivista, in un certo senso mi obbliga a riferirmi e a limitarmi alla versione matematica della teoria dei giochi, basata sulla netta dicotomia tra giochi agonistici o competitivi o a somma zero o nulli, da una parte, e giochi non agonistici o cooperativi o a somma diversa da zero o positivi, dall’altra. La somma è zero se nella competizione quel che guadagno io lo perdi tu; è positiva in valore assoluto se entrambi ci guadagniamo o ci perdiamo. Preciso che il mio riferimento alla teoria dei giochi non rientra nella problematica della scelta razionale e intelligente in situazioni conflittuali,1 come si usa nei corsi di economia, ma attiene al tema dell’intersoggettività più vasto e più vago. Un gioco individuale? Il gioco è la forma originaria di interazione con il “fuori”, grazie alla quale il soggetto fa esperienza dell’altro, a cominciare dall’esperienza autoerotica del proprio corpo. L’affermazione non è evidente. Nel gioco solitario l’altro c’è sempre: è il caso. Ma quale guadagno e quale perdita nel gioco corporeo? La domanda è imbarazzante per chi ha familiarità con l’algoritmo di von Neumann, che rappresenta il gioco con la matrice delle vincite e delle perdite 1. La razionalità è un concetto sintattico, prossimo a quello di coerenza, mentre l’intelligenza, intesa come capacità di intuire, ha una connotazione semantica. Non sviluppo la distinzione ma rimando al Nobel R. Myerson, Game Theory. Analysis of Conflict, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1991.
aut aut, 375, 2017, 101-112
101
all’incrocio delle strategie elementari dei due contendenti e calcola il valore del gioco nel punto di sella della superficie di tali valori (punto di minimax o punto di equilibrio o soluzione del gioco). Nel gioco con il corpo chi vince e chi perde cosa? A prima vista non si vede neppure chi sono i giocatori in gioco. Forse c’è un abbozzo di ego, ma poi? Del corpo si può dire che è un alter ego? La prospettiva darwiniana può forse chiarire la questione. Il piccolo uomo nasce immaturo. È una lunga storia che risale al bipedismo degli ominidi. Che non fu un’invenzione né recente né originale di Homo. Prima di noi nel Giurassico l’inventarono gli uccelli, dedicando gli arti superiori allo sviluppo delle ali, exadattando per il volo le penne, già dispositivi di termoregolazione dei dinosauri piumati. Ma c’è una differenza qualitativa non da poco: il bipedismo aviario è orizzontale o obliquo, l’ominide rigorosamente verticale. Ciò ha portato al profondo rimaneggiamento di tutto lo scheletro ominide. Gli arti superiori degli ominidi non hanno sviluppato ali ma mani, che hanno imparato a fare tante cose, tranne volare; gli arti inferiori e il rachide, che sostiene in equilibrio un cranio, destinato a un incremento volumetrico senza pari, hanno fatto pagare all’umanità il prezzo del restringimento del bacino e del canale del parto. L’esito fu che il prodotto del concepimento doveva essere espulso anzi tempo. Tuttora l’uomo nasce immaturo prima che sapiens; neotenico, si dice in gergo. Uno svantaggio? Non del tutto a ben vedere. La selezione naturale non è finalista ma opportunista: sa sfruttare il minimo vantaggio contingente. Nel lungo tempo della maturazione extrauterina – da due a tre lustri – il piccolo uomo che gioca con il proprio corpo (anche autoeroticamente) fa tesoro di una doppia esperienza accumulata nel tempo: biologica e culturale, insieme alla loro interazione. Il gioco con il corpo fa interferire l’eredità biologica, mediata dalla genetica, con il patrimonio culturale, mediato dal linguaggio e dalla tradizione collettiva.2 Nella ma2. Lascio ovviamente impregiudicata la questione “se sia stata più necessaria una società già costituita perché si formassero le lingue, o le lingue già inventate per la formazione delle società” (J.-J. Rousseau, Discorso sull’origine e sui fondamenti dell’ineguaglianza tra gli uomini [1755], trad. di V. Giarratana, Editori Riuniti, Roma 2006, p. 119).
102
turazione interagiscono due corpi: il corpo fisico – o somatico – dell’individuo, e il corpo spirituale – o sociale – del collettivo. Il gioco è interattivo ma non a somma zero (quel che guadagna l’uno non lo perde l’altro); a parte incidenti di percorso, che portano o all’autismo o alla nevrosi, il soggetto individuale ci guadagna sempre qualcosa: la capacità di stare al mondo, una volta assimilato il doppio retaggio biologico e culturale. Nell’allevamento del piccolo ci guadagna anche il soggetto collettivo che rinforza la propria coesione interna, cioè la propria topologia. Perciò Darwin poté a ragion veduta parlare di prolungamento dell’affettività collettiva degli animali nei sentimenti morali dell’uomo, che rendono il gruppo coeso. Nella transizione dall’animale all’uomo si producono strutture epistemiche inconsce. Come effetto del gioco corporeo, nel soggetto si deposita per via linguistica, giochi di parole compresi, un sapere che il soggetto non sa di sapere.3 Fu messo in evidenza da Freud e allievi con la psicoanalisi, dove – come si sa – non vale il principio del terzo escluso, per cui o si sa o non si sa. Si può sapere che non si sa (Socrate) o non sapere che si sa (Freud). E sono entrambi guadagni epistemici.4 Insomma, il gioco con il corpo individuale non è né solipsistico né nullo. Crea qualcosa ex nihilo, il soggetto collettivo, o meglio, integra il soggetto individuale nel collettivo. Crea legame sociale all’interno di un corpo sovraindividuale, nonostante inevitabili sbavature. Realizza, secondo Rousseau, il passaggio dallo stato di natura allo stato civile,5 passando dal gioco individuale al gioco collettivo. Il gioco collettivo Il gioco nullo è il gioco di puro divertimento. Non crea nulla; nelle varie versioni a informazione perfetta (gli scacchi) o imperfetta (il 3. La tesi lacaniana secondo cui l’inconscio è organizzato come un linguaggio è plausibile solo nel senso che il sapere inconscio è organizzato dal linguaggio. 4. Freud è più vicino all’intuizionismo di Brouwer che al binarismo classico. Nel Teeteto Socrate si chiedeva, anticipando Freud: “Come è possibile che quella stessa cosa che uno sa, lo stesso che la sa non la sappia?” (165b). 5. J.-J. Rousseau, Il contratto sociale (1762), trad. di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1994, p. 29.
103
Per un’archeologia del combattimento sportivo ALESSANDRO DAL LAGO Holly Holm ha messo a segno un brutale ko con un calcio alla testa di Bethe Correia nell’incontro principale di Ufc Fignt 111 a Singapore. […] Holm ha sferrato il suo colpo dopo che Correia l’aveva provocata con un gesto di scherno all’inizio del terzo round. Uno splendido calcio alla testa con il piede sinistro ha mandato al tappeto Correia. Un pugno a seguire ha chiuso l’incontro, ma questo era già stato deciso.1
1.
Quello descritto in epigrafe è un incontro di Mma (Mixed martial arts, Arti marziali miste) tenutosi a Singapore il 16 giugno 2017 e valido per il campionato mondiale femminile dei pesi gallo. Questo tipo di combattimento gode da una ventina d’anni a oggi di un successo mediale travolgente, fino a conquistare uno dei primi posti nella classifica mondiale degli eventi trasmessi dalle televisioni a pagamento. Ecco alcune informazioni indispensabili su questa pratica agonistica che si fa fatica a definire sport.2 Le Mma combinano svariati tipi di arti marziali: pugilato, karate, savate, boxe thailandese o kickboxing, judo, jujjitsu, nelle due versioni, giapponese e brasiliana, ecc. Qualsiasi tecnica marziale è ammessa nelle Mma, purché si conformi al regolamento adottato dalle commissioni sportive di alcuni Stati americani (primi fra tutti, New Jersey e Nevada) e recepito dalla Ufc, la più importante organizzazione professionistica. Il regolamento proibisce alcune mosse, che potrebbero risultare letali o procurare lesioni permanenti ai fighter: colpi alla gola, alla nuca o alla spina 1. <sbnation.com/2017/6/17/15822254/ufc-fight-night-111-live-results-winnersupdates> (consultato il 20 giugno 2017). 2. Le considerazioni che seguono si rifanno a un volume, Sangue nell’ottagono. Antropologia del combattimento sportivo, in preparazione per le edizioni del Mulino, Bologna. Ho dedicato recentemente alcuni saggi al significato culturale delle Mma: A. Dal Lago. Pugni, professori e pregiudizi. Una nota su genere e cultura nelle arti marziali miste, “Etnografia e ricerca qualitativa”, 2, 2016 e Id., Il senso della brutalità. Per un’antropologia delle arti marziali miste professionistiche, “Etnografia e ricerca qualitativa”, 3, 2016.
aut aut, 375, 2017, 113-128
113
dorsale, tentato accecamento (eye gouging), morsi e pochi altri. Per il resto, tutto è permesso o vale tudo, come si dice in Brasile (una delle patrie originarie di questo sport), con un gioco di parole tra il termine latino valetudo, forza fisica, e l’espressione brasiliana che significa, appunto, “vale tutto”. Per intendersi, è possibile colpire l’avversario sull’intera figura con pugni, ginocchiate, calci e gomitate, nonché bloccargli e torcergli gli arti, strangolarlo e così via. Inoltre, le Mma prevedono una fase di lotta sconosciuta a quasi tutte le singole arti marziali, il cosiddetto ground and pound, “atterra e picchia”. Quando un fighter finisce al tappeto per un pugno, un calcio, uno sgambetto ecc., l’avversario può continuare a picchiarlo sino alla resa o all’intervento dell’arbitro. Un incontro è deciso quando un atleta è ridotto all’incoscienza, quando si arrende, battendo un paio di colpetti con le dita sul tappeto o sul corpo dell’avversario (tap out), e per decisione arbitrale. Data la pericolosità dei colpi e delle mosse, gli incontri finiscono dopo il primo KO e comunque se un fighter perde conoscenza, diversamente dalla boxe, in cui i pugili possono essere contati più volte, se sono in grado di rialzarsi entro dieci secondi. Ma la possibilità della morte aleggia sugli incontri professionistici di Mma. Il grappling (“intrappolamento”) è una tecnica di combattimento a terra che prevede tra le numerose mosse il rear naked choke (o “strangolamento alle spalle”), con cui si blocca il collo dell’avversario e si esercita con l’avambraccio una pressione sulla sua carotide sino a fargli perdere conoscenza. Se l’arbitro non fermasse subito il combattimento, gli atleti potrebbero subire lesioni cerebrali gravissime e anche mortali. Ma non sempre gli arbitri sono così attenti o abili da intervenire prima che l’incontro divenga veramente pericoloso. Al di là dei tredici decessi avvenuti negli ultimi trent’anni in incontri di Mma ufficiali e non (di cui però dieci dal 2007 a oggi), sono numerosi i casi di interruzioni tardive, controverse e che hanno suscitato vivaci dibattiti nell’ambiente. Mi basta citare un caso. Un terribile errore di giudizio dell’arbitro stava quasi costando la vita a Kim Couture. 114
In una fase di lotta a terra, Couture è stata bloccata da una mossa di strangolamento con le gambe a forbice [leg scissors choke] da Sheila Bird, un asso del grappling. Dopo un paio di tentativi disperati di liberarsi, Couture ha ceduto senza resistenza al soffocamento e ha perso conoscenza. […] È vero che molti incontri di Mma potrebbero essere sospesi un istante prima o dopo, ma il comportamento dell’arbitro in questo caso costituisce un notevole passo indietro per uno sport già soggetto ad aspre critiche. Il video dell’incontro mostra una scena orribile. Couture giace a terra chiaramente priva di sensi per diversi secondi prima che l’arbitro decida di intervenire e interrompere l’incontro. […] Fortunatamente, Couture non ha subìto gravi danni e ha potuto lasciare il luogo dell’incontro con le sue gambe.3 In pochi anni, le Mma hanno attirato l’attenzione di antropologi, sociologi dello sport, filosofi, esponenti dei movimenti femministi e così via,4 proprio come qualche decina d’anni fa era successo con sociologi e filosofi nel caso della boxe.5 Una prima differenza tra boxe e Mma, tuttavia, sta nel fatto che queste ultime sono molto più spettacolari e non mancano di gore, cioè di effusione di sangue (figura 1). Termini come bloodbath o bloodshed, “bagno di sangue”, sono comuni nei resoconti degli incontri, non solo nei siti specializzati, ma anche in quotidiani seri e autorevoli come “The Guardian”
3. J. McElroy, MMA: Awful Refereeing Nearly Kills Kim Couture, “Bleacher Report”, 11 luglio 2011, <bleacherreport.com/articles/763587-awful-refereeing-nearly-kills-kim-couture> (consultato il 21 giugno 2017). 4. Per una sintesi degli studi, si veda D.C. Spencer, Ultimate Fighting and Embodiment. Violence, Gender and Mixed Martial Arts, Routledge, London 2013. Includendo anche le autobiografie dei fighter, la bibliografia è ormai molto vasta. 5. Si veda, per esempio, A. Philonenko, Storia della boxe, Il melangolo, Genova 1992. Si veda anche Id., Du sport et des hommes, Michalon, Paris 1999 e Mohamed Alì. Un destin americain, Bartillat, Paris 2007. Philonenko, noto e stimato storico della filosofia, ha pubblicato numerosi volumi su Kant, Nietzsche, Bergson, la filosofia della guerra e così via. In realtà, l’interesse della filosofia per gli sport, e in particolare per quelli di combattimento, è antico. Si dice che Pitagora frequentasse gli atleti e che il celebre Milone fosse suo allievo. Ma si veda qui anche il secondo testo in allegato.
115
Mal d’archivio
Nel 1994 Élisabeth Roudinesco e Réné Major organizzarono un convegno al Freud Museum di Londra sul tema degli archivi della psicoanalisi e degli archivi in generale. Con il suo intervento, Derrida tenne impegnati gli ascoltatori per più di tre ore sulle problematiche di quello che diventò, l’anno seguente, Mal d’archivio. Un’impressione freudiana, una riflessione estremamente densa e articolata in un lungo confronto con Il Mosè di Freud. Giudaismo terminabile e interminabile dello storico Y.H. Yerushalmi (che sebbene fosse tra gli invitati e fosse arrivato a Londra, non poté assistere alla conferenza a causa di una bronchite). Ma, esattamente, qual è l’oggetto di Mal d’archivio? Derrida, nella Preghiera da inserire posta all’inizio del testo, ci indica che il suo saggio si muove attorno a una domanda: “Perché rielaborare oggi un concetto dell’archivio? In una sola e stessa configurazione, nello stesso tempo tecnica e politica, etica e giuridica?”. Nonostante questa dichiarazione che definisce un’esigenza precisa, Mal d’archivio resta un testo che concettualizza con difficoltà proprio l’archivio, il quale al
massimo si iscrive nell’orizzonte del nostro sapere come un’impressione. Un’impressione sviscerata, utilizzando tutta la forza euristica della psicoanalisi e attingendo al suo archivio (ancora da ereditare, come dimostra il suo “corpo a corpo” con Yerushalmi), convocando la storiografia in primo luogo, ma anche l’etica, la politica, la moltiplicazione degli strumenti di “impressione” e quindi di archiviazione che abbiamo a disposizione e soprattutto la dimensione del potere che si configura (anche solo in quanto potere ermeneutico) come l’elemento centrale della riflessione: “I disastri che segnano questa fine di millennio sono anche degli archivi del male: dissimulati o distrutti, interdetti, deviati, ‘rimossi’. […] Ma a chi spetta in ultima istanza l’autorità sull’istituzione dell’archivio?”. Il testo di Derrida non si conclude con una risposta, ma con una tesi che apre differenti piste interpretative. Questa breve sezione vuole essere solo uno spunto di riflessione per mostrare cosa si può dire oggi dell’archivio a partire da Mal d’archivio. I quattro contributi che seguono si limitano a far emergere alcune delle problematiche che l’analisi derridiana, in maniera a volte estremamente esplicita, a volte meno, permette di indagare: la verità storica e il male radicale secondo quella scienza dell’archivio che è la psicoanalisi (Réné Major), come archiviare l’inarchiviabile (Silvano Facioni), le possibilità di decostruzione del sapere di cui l’archivio è metafora (Giovanni Leghissa) e il modo in cui è possibile (ma è possibile?) ereditare l’archivio della Shoah (Diana Napoli). [D.N.]
Il turbamento dell’archivio a partire da Freud RÉNÉ MAJOR “Archivia”, mi dice una voce in tono imperativo, “o altrimenti finirai per dimenticare.” “Anarchivia”, mi dice un’altra voce, in maniera ugualmente perentoria, “perché è meglio dimenticare quello che non ricordi.” Poi, entrambe le voci tacciono e ciascuna fa il suo lavoro in silenzio.
1. Dalla protesi interna a quella esterna Nulla è incerto come il significato della parola archivio ogni volta che la utilizziamo. Sicuramente il termine evoca un luogo in cui viene custodito un insieme di documenti, l’accesso ai quali potrebbe avere dei limiti superabili o insuperabili, che si tratti di limiti imposti dal diritto di uno Stato, dai diritti che esso si arroga o che gli sono riconosciuti, dai diritti delle famiglie e degli eredi, dai diritti sulla corrispondenza, e in considerazione del potere che comporta detenere tali diritti, conservarli, dei segreti che potrebbero essere rivelati o anche solo immaginati, in considerazione di tutto quello che ha a che vedere con la sfera pubblica o privata, sfere la cui separazione si può considerare più o meno importante in base all’oggetto di indagine o al regime politico. Alcuni biografi si trovano in un mal d’archivio1 più o meno segreto o privato per soddisfare la curiosità dei loro lettori a proposito di un autore conosciuto principalmente per la sua opera. Gli storici che conducono le loro ricerche sui genocidi del secolo scorso (o che si verificano ancora oggi) possono trovarsi di fronte al divieto, alla distruzione o alla dissimulazione degli archivi del male. E anche nelle nostre democrazie, documenti custoditi come “segreti di Stato”, “segreti militari”, o appartenenti ai “servizi segreti”, restano a lungo, se non per sempre, inaccessibiIl testo è apparso per la prima volta in L’archive – O arquivo, “SIGILA”, 36, 2015. 1. Come recita il titolo dell’importante libro di Jacques Derrida, Mal d’archivio. Un’impressione freudiana (1995), trad. di G. Scibilia, Filema, Napoli 2005.
aut aut, 375, 2017, 131-138
131
li. Altri, forse meno carichi di conseguenze (e dico forse), ma non meno significativi, spariscono quando cambia un governo. Questi elementi ci ricordano quello che Derrida sottolinea fin dalle prime pagine del suo testo, cioè che arché indica allo stesso tempo sia l’inizio, là dove le cose cominciano, l’origine cui si rivolge il desiderio di sapere o di memoria, sia il comando, il luogo in cui si esercita l’autorità, dove gli arconti dell’archeion greco erano i depositari e i guardiani dei documenti ufficiali. Essi disponevano, per gli archivi che custodivano, del potere di interpretarli. Cosa accade oggi? Da qualche decennio assistiamo a un’evoluzione velocissima della tecno-scienza dell’archivio e a uno sconvolgimento senza limiti delle tecniche di archiviazione. La rivoluzione psicoanalitica non può essere considerata estranea a questa profonda trasformazione del concetto di archivio. Volendo presentare e rappresentare un modello esterno all’apparato psichico, un modello protetico di registrazione e memorizzazione che integrasse la rimozione, la censura, la conservazione delle tracce, Freud ha utilizzato il “Notes magico” il cui funzionamento era per lui determinato dalle questioni emerse in Al di là del principio di piacere, ovvero la coazione a ripetere e l’intreccio tra le pulsioni di vita e quelle di morte. Prima di arrivare al disordine introdotto da questo dualismo pulsionale, vorrei solo ricordare che un’economia politica, essa stessa libidinale, costituendo un archivio tendente a capitalizzare ogni cosa, compreso ciò che ne contesta radicalmente il potere e ne mette in discussione l’immunità, è capace di utilizzare tutti gli strumenti tecno-scientifici disponibili per esercitare una sorveglianza quasi senza limiti, a partire dal nostro pc, nel quale si può “entrare”, e il cui disco rigido conserva qualunque traccia avessimo voluto cancellare, fino alle mail immagazzinate in archivi virtuali e addirittura le nostre conversazioni telefoniche o le impronte digitali. D’altro canto però, queste nuove tecniche di archiviazione hanno permesso, in campo medico per esempio, di raccogliere informazioni provenienti da iscrizioni corporee altrimenti invisibili, proprio come la posta elettronica o i social network hanno permesso ad alcuni movimenti rivoluzionari una mobili132
tazione la cui rapidità è stata in grado di mettere in difficoltà la forza del potere costituito. Ma in queste tecniche, il male radicale trova anche i mezzi per reinvestirsi in una teodicea che un altro male, potendo contare sui propri valori particolari ritenuti tuttavia universali, ha in gran parte contribuito a far emergere. Bisogna tenere in considerazione le conseguenze socio-giuridico-politiche, statal-nazionali e mondiali di tali trasformazioni delle tecniche di archiviazione, di iscrizione, di riproduzione, di decifrazione delle tracce e della loro cancellazione. Ma poiché l’archivio è una questione che riguarda l’avvenire, e anche l’avvenire della psicoanalisi, vorrei portare l’attenzione su due tesi implicite del pensiero freudiano, tesi a cui ho già fatto allusione e che stanno alla base di ulteriori riflessioni: la prima, quella della psicoanalisi come progetto di una scienza dell’archivio; la seconda, quella del segreto del male radicale legato alla pulsione archivistica e alla pulsione di potere che gli è associata. 2. Il progetto di una scienza dell’archivio Elaborando la prima topica dell’apparato psichico, Freud, attraverso il sistema inconscio e preconscio, ha definito luoghi tra di loro differenti per la registrazione (Niederschrift) delle percezioni uditive, visuali e cinestetiche, e ha articolato questo punto di vista topico con uno dinamico ed economico per regolare gli scambi, gli spostamenti, le condensazioni, ma anche la censura e la rimozione. Con l’ipotesi di spazi, interni alla psyché, di registrazione, di consegna, di impressione, ci si ritrova in un archivio psichico, una protesi potremmo dire interna, distinta dalla memoria spontanea. In questo senso, Derrida ha evidentemente ragione nel dire che la teoria psicoanalitica non è solo una teoria della memoria, ma anche dell’archivio2 che tiene conto sia delle tracce inconsce che restano tali in virtù del rimosso, sia della repressione che opera a sua volta una seconda cesura tra il conscio e il preconscio, sposta un affetto, sostituendolo con un altro. Partendo da questo cambiamento fondamentale introdotto da Freud, ci si 2. Citato in J. Derrida, Mal d’archivio, cit., p. 30.
133
L’iperbole dell’archivio SILVANO FACIONI
U
na riflessione che assuma l’“archivio” quale motivo o dorsale (più e prima ancora che “oggetto”) del percorso teorico derridiano, instancabilmente impegnato nell’indagine sul senso della registrazione, della traccia, delle derive o degli inganni della “presenza”, rischia sempre di rimanere prigioniera di una sorta di contraddizione performativa in cui, per discutere dell’idea stessa di archivio (statuto di legittimazione, storicità, istituzionalità ecc.), si deve necessariamente ricorrere a un indiscusso “archivioDerrida” costituito anche solo dalle opere pubblicate. Occorre, dunque, un sovrappiù di attenzione critica che impone al pensiero un movimento, una cadenza, un tono in cui la singolarità dell’“archivio-Derrida” viene, per così dire, proiettata nell’insieme di domande che l’idea stessa di archivio pone, e senza tralasciare che sarà proprio la singolarità dell’archivio (ogni archivio è singolare, è il punto di emergenza della singolarità) e, in questo caso, la singolarità dell’“archivio-Derrida”, a mettere in discussione, a rilanciare, a decostruire l’idea e anche la pratica dell’archivio e dell’archiviazione così come si è venuta costruendo nella nostra storia. Si tratterà allora di parlare dell’archivio “in generale” tenendo presente l’“archivio-Derrida”, e dell’“archivio-Derrida” tenendo presente le domande che esso pone all’archivio “in generale”, alla sua idea, alla sua storia, alla sua istituzione.1 1. Nella vasta bibliografia sul tema, cfr. lo studio di S. Margel, Les archives fantômes.
aut aut, 375, 2017, 139-152
139
Creatura bizzarra, l’archivio, sempre singolare e dunque sempre al plurale, sprovvista di statuto ontologico e portatrice di uno statuto geologico (o, forse, di uno statuto onto-geo-logico). Geologico, lo statuto dell’archivio incista la scrittura di domande che ne delimitano i contorni e che istituiscono un dentro e un fuori dell’archivio stesso: l’archivio istituisce i suoi confini da se stesso, ma tali confini, inevitabilmente porosi, permeabili, mobili, lo frastagliano come un’isola su una carta geografica e ne impediscono una presa, una letterale “de-finizione” (dove finisce la terra emersa e dove comincia il mare?). Ma lo statuto dell’archivio è geologico anche perché tiene uniti – inestricabilmente uniti – il tempo e lo spazio: l’archivio istituisce lo spazio, uno spazio fisico, spazialmente determinato (sia che si tratti di scaffali, cartelle, casellari, sia che si tratti, oggi, di chiavi USB o memorie elettroniche offerte in diversi supporti), che custodisce il tempo (di un’opera, di una scrittura, di una documentazione, forse di un’esistenza) e gli permette di ordinarsi spazialmente, come le epoche che si sovrappongono negli strati di roccia sedimentaria. Un’indagine archivistica, infatti, è massimamente stratigrafica e, da ultimo, ha a che fare con pietre, rocce, materiali non sempre scalfibili o penetrabili: penetrarli, o aprirli, significa mettere a repentaglio i loro assetti, e dunque la durezza della roccia, in questo senso, non è svincolabile dalla sua estrema fragilità. Un archivio (termine qui utilizzato nell’accezione corrente, senza ulteriori specificazioni), allora, è un monumento (monumentum da mone¯ re che significa “ammonire, ricordare”, ma anche, è fondamentale ricordarlo, “sepolcro”) e – insieme – un luogo fragile, sempre prossimo alla sua scomparsa quanto più se ne penetrano, per così dire, le viscere o l’interno. Altro tratto o carattere paradossale: l’interno, l’interiorità di un archivio è, in un certo senso, il suo “più proprio”, mentre il “fuori”, l’esterno che pure ne legittima l’esistenza, si direbbe non intaccarne l’essenza, nonostante l’istituzione “archivio”, il suo isti-
Recherches anthropologiques sur les institutions de la culture, Lignes, Fécamp 2013.
140
tuirsi come luogo riconosciuto, sia completamente storica e, dunque, sia influenzata e determinata da condizioni politiche, socio-culturali, forse anche ambientali (si pensi alla deperibilità dei materiali che contiene). L’archivio è un interno (cosa c’è di più intimo, di più intimamente inviolabile, di un archivio?), un “dentro” solo apparentemente immune dall’esterno, dal “fuori” che pure è la sua condizione di possibilità (politica, sociale, culturale). Il paradosso intrinseco, strutturale, dell’archivio (di ogni archivio, passato, presente o futuro) consiste dunque nella sua apparente estraneità, nell’“astrazione” rispetto alla storia e, insieme, nel suo essere un’istituzione massimamente storica (addirittura a fondamento della scienza storica), luogo le cui funzioni sembrano rimaste immutate nei secoli: a Ebla, per esempio (esempio qui assunto solo per la sua antichità, ma altri se ne potrebbero fare), sono state recuperate più di 17.000 tavolette cuneiformi degli Archivi reali, che derivano dalla frammentazione di circa 5000 tavolette originarie, di cui peraltro poco meno di 2000 ci sono pervenute intatte.2 Queste tavolette, che risalgono agli anni compresi tra il 2350 e il 2300 a.C., costituiscono un patrimonio di informazioni sulla struttura economica, l’articolazione sociale, le relazioni internazionali, le credenze religiose, l’amministrazione statale, la cultura letteraria, la vita quotidiana degli abitanti della città. Senza gli archivi di Ebla, niente o poco più di niente ci sarebbe noto di questa antica civiltà. Ma il materiale recuperato, sicuramente fondamentale, perimetra tale civiltà senza per questo rivelarcene tutte le sue dimensioni: se chiediamo agli archivi cosa sognavano gli uomini di Ebla, non otterremo nessuna risposta. Il dato, l’informazione materiale che l’archivio ha conservato apre e a un tempo sbarra l’accesso al senso, e per questo la necessità dell’archivio non può essere scissa dalla necessità di aprirlo ulteriormente, al di là di sé: l’archivio deve poter superare, oltrepassare se stesso. Archivio oltre l’archivio. 2. Tra la mole di studi ormai disponibili, cfr. P. Matthiae, Gli archivi reali di Ebla. La scoperta, i testi, il significato, Mondadori, Milano 2008, e sempre di P. Matthiae, Ebla, la città del trono. Archeologia e storia, Einaudi, Torino 2010.
141
Tra enciclopedia e archivio GIOVANNI LEGHISSA
S
critto in vista di una conferenza tenuta a Londra nel 1994 nell’ambito di un simposio organizzato da René Major ed Élisabeth Roudinesco,1 il testo di Derrida sull’archivio è pluristratificato, nel senso che contiene il rimando a una notevole varietà di temi e problemi. Qui ho scelto di concentrarmi solo su un punto: ovvero sul modo in cui Derrida, parlando dell’archivio, mettendo a frutto le risorse offerte dalla nozione di archivio, ridefinisce lo statuto del sapere in quanto produzione di significati condivisi da una comunità storica. Mi concentrerò insomma su cosa significa istituire il sapere – e interpretare il sapere come istituzione – a partire dal gesto derridiano della decostruzione. Ciò porta a un utilizzo della nozione di archivio che, a prima vista, potrebbe sembrare lontano dalle intenzioni espresse da Derrida. In fondo, in Mal d’archivio si parla principalmente di Freud e del modo in cui Yerushalmi legge il testo freudiano su Mosè e le origini del monoteismo ebraico.2 La scena della scrittura che Derrida in tal modo articola si presenta come un dialogo con Yerushalmi che dialoga con l’ebreo reticente Freud, e interrogando l’ebraismo di Freud, il carattere in qualche mo1. Come è noto, si tratta di due persone legate a Derrida da una profonda amicizia, le quali hanno variamente contribuito a definire il luogo istituzionale entro il quale Derrida ha portato avanti il suo dialogo con la psicoanalisi 2. Cfr. Y.H. Yerushalmi, Il Mosè di Freud: giudaismo terminabile e interminabile (1991), trad. di G. Bona, Einaudi, Torino 1996.
aut aut, 375, 2017, 153-164
153
do ebraico della psicoanalisi, Derrida giunge sino al punto da evocare, seppur in sordina, invitando l’uditorio a far quasi finta di niente, la questione del proprio ebraismo.3 Tuttavia, interrogando la costruzione freudiana della memoria ebraica, il discorso che viene poi articolato sulla memoria, sull’archiviazione e sul modo in cui questa permette la trasmissione di un sapere deborda il carattere in qualche modo locale, idiosincratico, del punto di partenza. Derrida, infatti, intende comunque interrogare la portata più generale della questione posta dall’archiviazione, e se sceglie di dialogare con la psicoanalisi ciò dipende dal fatto che grazie a quest’ultima si riesce a isolare meglio il momento generatore dell’istanza che risponde dell’archivio e della sua necessità in quanto condizione di possibilità del sapere. Quanto al senso delle considerazioni che seguono, il guadagno che vorrei ricavare da questa rilettura del testo derridiano è una ridefinizione della nozione di enciclopedia: quest’ultima esibisce meglio la propria funzione quale principio arcontico del sapere, infatti, se viene interpretata come un archivio. In altre parole, proporrò una sorta di estensione del gesto che Derrida compie nei confronti dell’archivio, cercando di mostrare che la decostruzione dell’archivio può fungere da modello di ciò che la filosofia in generale può e deve fare nei confronti dell’enciclopedia. Ma vediamo innanzi tutto perché Derrida sceglie il discorso psicoanalitico sulla memoria quale via di accesso all’archivio. Sin dagli inizi del proprio percorso teorico Derrida ha mostrato un 3. Cfr. J. Derrida, Mal d’archivio. Un’impressione freudiana, trad. di G. Scibilia, Filema, Napoli 1996, p. 91: qui Derrida si riferisce a un libro sul marranesimo di Yerushalmi, e coglie l’occasione per confessare che una mai dichiarata identificazione con la figura del marrano in qualche modo ha sempre segnato il rapporto che egli ha avuto, nel corso della sua vita, con il proprio ebraismo. Su tale rapporto, rimando a tre testi che introducono altrettanti lavori dello stesso Derrida nei quali la questione viene trattata in modo più o meno diretto: G. Leghissa, “Decostruire l’appartenenza”, in J. Derrida, Interpretazioni in guerra. Kant, l’ebreo e il tedesco (1989), trad. di T. Silla, Cronopio, Napoli 2001, pp. 111-135; G. Leghissa, T. Silla, “Le gallette di Purim”, in J. Derrida, Abramo, l’altro (2003), trad. di T. Silla, Cronopio, Napoli 2005, pp. 9-28; G. Leghissa, “Essere giusti con Israele”, in J. Derrida, Ebraismo, questione aperta. Conversazioni con Jacques Derrida, trad. di L. Salvarani, Medusa, Milano 2014, pp. 5-13.
154
forte interesse per l’opera di Freud in vista di una chiarificazione del funzionamento delle tracce.4 L’inconscio freudiano si presenta infatti come una colossale macchina per produrre tracce, immagazzinarle, e metterle poi in circolazione quali segni. Tale macchina funziona per rendere chiaro poi il senso di ciò che, grazie alle tracce, viene prima inscritto, conservato, raccolto. Il senso depositato nelle tracce non è mai stato presente a se stesso, in forma pura, accessibile cioè a una coscienza trasparente a se stessa. Ciò che esso permette di costruire, ovvero la fissazione di ciò che è presente, identico a se stesso, manipolabile in termini concettuali, si mostra sempre dopo, nachträglich, in un secondo momento, ma non in virtù di una riattivazione del senso che ha la forma dell’interpretazione, bensì in virtù degli effetti che esso stesso produce nel corso dell’esperienza. Ciò porta a dire sia che non vi è esperienza dell’origine, poiché le tracce inconsce in quanto tali sono inaccessibili, sia che l’esperienza non è originaria, poiché il soggetto rende chiare a se stesso le connessioni che tengono assieme la trama del proprio flusso esperienziale solo attraverso il lavoro supplementare compiuto dagli effetti lasciati dalle tracce. Pur non essendo originarie, dal momento che rimandano a qualcosa di altro da sé, le tracce fungono da origine, suppliscono cioè all’assenza di un’origine pura dell’esperienza. Certo il tema della traccia – e quelli correlati della scrittura e della differenza – non dipendono solo da una ripresa di temi freudiani. La fenomenologia husserliana, fin da subito, gioca un ruolo centrale in vista della formulazione di un pensiero che interroga il carattere derivato e non originario della presenza.5 Ma appunto: fenomenologia e psicoanalisi sono i due grandi complessi discorsivi che rendono possibile il discorso decostruttivo in tutte le sue articolazioni. La rottura che Derrida si propone di effettuare rispetto alla tradizione filosofica precedente non può reggersi solo su una delle due piattaforme teoriche di partenza, 4. Cfr. J. Derrida, “Freud e la scena della scrittura”, in La scrittura e la differenza (1967), trad. di G. Pozzi, Einaudi, Torino 1982, pp. 255-297. 5. Cfr. Id., Introduzione a Husserl. L’origine della geometria (1962), trad. di C. Di Martino, Jaca Book, Milano 1987.
155
“Mio nonno non era nazista” DIANA NAPOLI
N
el 2002 è uscito in Germania, a cura del sociologo Harald Welzer, un libro assai interessante dal titolo “Opa war kein Nazi”.1 Si tratta di una serie di interviste familiari attraverso le quali emerge un aspetto significativo della memoria tedesca relativa alla Seconda guerra mondiale e alla Shoah. Per ciascuna famiglia, partendo dai testimoni diretti del conflitto fino ai figli e ai nipoti nati negli anni ottanta del secolo scorso, il processo di costruzione della memoria non sembra avere alcuna relazione con la pure precisa conoscenza storica degli avvenimenti da parte dei protagonisti e dei loro “eredi”. Anzi, paradossalmente, quanto più la conoscenza della catastrofe è complessa, articolata e condivisa, tanto più la propria storia familiare ne viene esclusa, al punto da indurre il curatore a scegliere questo titolo semplificante ma indicativo: “Nonno non era nazista” – e questo persino nei casi di memorie scritte, di autobiografie, diari in cui l’appartenenza al nazionalsocialismo era dichiarata. Anzi, simili casi – questo l’elemento che affiora dalle interviste – vengono inseriti in un’ampia e circostanziata descrizione della “vita al tempo del totalitarismo” per essere giustificati e mostrati come un esempio della capacità di un sistema totalitario di controllare e plasmare la visione del mondo dei singoli individui. È come se proprio il grande investimento in campo educativo 1. H. Welzer et al., “Opa war kein Nazi”. Nazionalsozialismus und Holocaust in Familiengedächtnis, Fischer, Frankfurt a.M. 2002.
aut aut, 375, 2017, 165-180
165
(oltre che storiografico e, nel caso della Germania, persino giudiziario) relativamente ai crimini del passato avesse spinto le generazioni del secondo dopoguerra a escludere le proprie famiglie dall’universo del nazionalsocialismo. Come se la memoria familiare funzionasse in maniera simile a un “telefono senza fili” in cui la trasmissione dell’informazione si deforma di generazione in generazione. L’aspetto più paradossale di questa deformazione concerne l’attribuzione dello statuto di “vittima” a tutti coloro che hanno avuto una qualunque forma di “contatto” col nazionalsocialismo, compresa la piena adesione (in quanto vittime, appunto, di un sistema di controllo totalitario). Per i tedeschi, i momenti finali della guerra, quelli della disfatta, vengono raccontati (e tramandati) addirittura facendo ricorso a termini, espressioni, avvenimenti indiscutibilmente appartenenti all’immaginario della Shoah, utilizzato, in modo del tutto a-referenziale, come il simbolo del male e della sofferenza a cui attingere per qualunque circostanza (in molti dei contesti familiari analizzati, episodi come la fuga dai russi o la cacciata dai territori a Est, appena terminata la guerra, vengono fatti rivivere attraverso espressioni ed eventi che richiamano nel lettore le deportazioni degli ebrei: i treni simili a “carri bestiame”, le morti durante il tragitto, la fame, la mancanza di acqua…). In altri termini, emerge dall’analisi di queste interviste il fatto che tutti gli accadimenti traumatici relativi al secondo conflitto mondiale, pur essendosi scolpiti, in virtù dell’abbondante ed eccellente produzione storiografica, nella didattica e nella fenomenologia politica (il dovere di memoria espresso dalle diverse leggi sulla memoria che i parlamenti di molti paesi hanno, spesso tra molte polemiche, emanato), non appartengono ancora all’esperienza storica. Questa espressione indicava per lo storico Reinhart Koselleck2 un livello di comprensione della realtà non limitato alla re2. “Spazio di esperienza” e “orizzonte d’attesa” sono due categorie centrali nell’ermeneutica storica di Koselleck e ricorrono in molti suoi scritti. In particolare ricordiamo: R. Koselleck, Futuro passato. Per una semantica dei tempi (1979), trad. di A. Marietti Solmi, Clueb, Bologna 2007.
166
gistrazione di un cambiamento, ma capace di riscrivere, retrospettivamente, la relazione tra “spazio di esperienza” e “orizzonte di attesa”. Relazione centrale perché a suo avviso la dimensione della temporalità storica, costitutiva della modernità e dell’emergere del concetto di Geschischte, si sostanzia proprio nella coscienza di un divario, e quindi di un’articolazione possibile, tra esperienza e attesa. In questo divario c’è tutta la “non disponibilità della storia”, ovvero l’impensabile che solo al livello dell’esperienza storica si trasforma in una conoscenza. Il carattere “non disponibile” della storia sembra proprio l’anello mancante nei racconti riportatici da Welzer che restituiscono fatti e avvenimenti del Novecento senza che mai appaia la problematicità del divario tra l’orizzonte di attesa e lo spazio di esperienza. Lo scrittore tedesco W.G. Sebald ha fatto notare in un breve testo assai discusso, Storia naturale della distruzione,3 come nonostante lo scacco della fine della guerra, il capitale di esperienza dei tedeschi non solo non sembrava essere stato intaccato, ma continuava anzi a essere semantizzato dallo stesso orizzonte di attesa, nella misura in cui, solo per fare un esempio, la distruzione delle città tedesche a opera dei bombardamenti inglesi sembrava aver attraversato la coscienza collettiva non tanto come un epilogo della disfatta, quanto come (paradossalmente) la prima tappa di una ricostruzione in grande stile del tutto riuscita in grado di mostrare la saldezza delle virtù tedesche. Ne sono un esempio, limitato ma significativo tra i tanti che lo scrittore raccoglie, le cartoline degli anni sessanta – più o meno rivolte ai turisti – che riportavano le immagini delle città prima e dopo la ricostruzione o scenari di idilliaca e sana vita di campagna accompagnate da didascalie edificanti per celebrare la prosperità del paesaggio o le prodezze dei tedeschi che, nonostante le crudeltà (subite!) della guerra, non erano state scalfite. In effetti le politiche della memoria, la mole eccezionale di produzione storiografica rispetto alla Shoah e alla Seconda guer3. W.G. Sebald, Storia naturale della distruzione (1999), trad. di A. Vigliani, Adelphi, Milano 2004.
167
bolizzando il limite, “rende possibile l’oltrepassamento”. Esercita il suo potere ermeneutico sul passato (quello che la società le attribuisce essendo la storiografia il frutto di un’operazione sociale) in senso archivistico, come un potere di consegna dei segni del passato articolandone l’unità, come abbiamo già scritto, di una “configurazione ideale”. Ma in questa operazione occorre appunto rivolgersi ai fantasmi, oltre la malinconica luttuosità del presentismo e oltre le illusioni di una storiografia romantica che vorrebbe una volta per tutte “seppellire i morti”, celebrarne l’ufficio funebre. E in questo la storiografia e l’archivio rivestono un importantissimo ruolo politico. Probabilmente è proprio questo elemento politico che Mal d’archivio ha voluto rimettere al centro del dibattito storiografico. Nel modo in cui la storiografia archivia il passato, nel modo in cui riesce a stare nell’aporia tra la febbre dell’archivio e la necessità di superarlo (nel modo in cui parla agli spettri, anche quelli del male radicale), acquistano un significato vecchi slogan come “le lezioni della storia”,39 lezioni che, a partire da Derrida, rimandando l’archivio irrimediabilmente all’avvenire (“all’avvenire dello spettro”, come scrive), non smettono di mandare il presente “fuori di sesto”, di essere rivoluzionarie.
39. Ivi, p. 101.
180
Interventi Rimozione adattiva e sapere TIZIANO POSSAMAI
1.
In linea generale si può dire che di tutto l’insieme di operazioni e di processi che a diversi livelli di profondità sottostà e rende possibile lo svolgimento di una qualsiasi nostra azione – dalla più elementare, come spostare un braccio, alla più complessa e articolata, come il movimento delle dita necessario per suonare il pianoforte – possiamo essere consapevoli solo di una minima parte. Quella più superficiale e visibile, e relativa, a ben riflettere, più ai risultati di tali operazioni e processi che a tali operazioni e processi in sé1 (per esempio il tipo di disposizione delle dita sulla tastiera del pianoforte necessario per eseguire un determinato accordo o il tipo di posizionamento delle gambe grazie al quale riusciamo a stare in piedi in equilibrio). Questa consapevolezza di norma è massima la prima volta che compiamo una determinata azione, quando il nostro saper fare è minimo, mentre poi a forza di ripetere quella stessa azione essa si riduce fino a scomparire, ossia è minima quando il nostro saper fare è massimo. La parte restante di quell’insieme di operazioni e processi, la meno superficiale e visibile, quantitativamente più rilevante e presumibilmente destinata ad ampliarsi in termini di percezione 1. Se è evidentemente possibile essere coscienti dei contenuti di ciò che vediamo, sentiamo e pensiamo, non altrettanto si può dire dei processi che ci permettono di vedere, sentire e pensare quei contenuti.
aut aut, 375, 2017, 181-198
181
con l’aumentare della potenza e della precisione dei nostri strumenti di investigazione scientifica, non è accessibile alla coscienza. Lo può diventare però, in forma indiretta, nel momento in cui per qualsiasi motivo dovesse smettere di funzionare. In questo caso infatti anche ogni nostra capacità di azione relativa verrebbe meno, pur non scomparendo necessariamente dalla nostra memoria, che a questo punto tuttavia da implicita tornerebbe a farsi esplicita. In questa inversione sta il dramma di certe lesioni traumatiche e malattie degenerative o del semplice decadimento fisico a cui può condurre il processo di invecchiamento: non riuscire più a compiere non tanto le attività più complesse, quanto quelle attività di base – per esempio correre e camminare – che prima riuscivamo a svolgere senza doverci pensare, mentre adesso riusciamo solo a pensare e non più a svolgere. Viene subito in mente il fenomeno dell’arto fantasma, anche se il fantasma in questo caso non è un arto del corpo ma una sua capacità. Nella persona rimane la sensazione di possedere e di poter esprimere un’abilità che di fatto non possiede e non riesce più a esprimere. Ed è solo attraverso il ripetersi nel tempo di questa mancanza che il soggetto a un certo punto può riuscire a smettere di percepirla, ad allontanarla pur conservandola, facendo della propria condizione di sopraggiunta anomalia la propria condizione di sostanziale normalità. Il termine utilizzato comunemente per questo processo, che io chiamo rimozione adattiva, è abitudine. Ma ritorniamo per il momento ai punti ciechi del nostro agire. Ne avevo introdotti almeno due. Uno che accompagna da sempre ogni nostra azione e movimento, l’altro che si produce nel corso del tempo e che riguarda solo determinate azioni (le cosiddette azioni acquisite). Un conto è non percepire l’attività neuromuscolare di base coinvolta in ogni nostro movimento, dal più semplice, come spostare un dito, al più articolato, come camminare mantenendo l’equilibrio, un altro è camminare mantenendo l’equilibrio senza percepire il fatto di farlo, pensando magari a tutt’altro mentre lo facciamo, cosa che ci accade tutti i giorni e alla quale (a differenza di quando ci sforzavamo di fare i primi passi) ormai non 182
prestiamo più attenzione, se non in condizioni eccezionali o di problematicità (per esempio quando ci troviamo a percorrere un tratto di strada particolarmente pericoloso o impegnativo o quando ci capita di avere un qualche impedimento fisico). Se nel primo caso non si può parlare di sapere perduto, per il semplice motivo che quel sapere non è mai stato acquisito, che da sempre opera al di fuori della coscienza (prima ancora della sua stessa formazione), nel secondo caso si tratta propriamente di un sapere perduto a livello conscio, nella misura in cui a livello inconscio è stato acquisito. Ora, diversamente dal primo, questa seconda forma di sapere tende in parte a riemergere quando nel suo abituale dispiegarsi si imbatte in qualcosa di non familiare, degli imprevisti, delle difficoltà. Basta una parola scritta con caratteri sconosciuti o di cui ignoriamo il significato e la nostra capacità di lettura automatica si inceppa, e questo suo incepparsi riporta la nostra attenzione su ciò che stiamo facendo o cercando di fare. Allo stesso modo basta un qualsiasi problema che limiti la nostra capacità di camminare per riacquisire coscienza di tale capacità (una capacità che abitualmente ignoriamo). Insomma, come dice il proverbio, la lingua batte dove il dente duole. E qui la lingua sta per pensiero cosciente, il dente per sapere non cosciente. Un problema a questo punto si pone se la lingua batte e il dente non duole. Nel momento in cui cioè quell’attenzione dovesse permanere anche in assenza di motivi concreti – per esempio degli impedimenti o pericoli effettivi – che ne giustifichino la permanenza, come se quei pericoli o impedimenti fossero frutto dell’attività ideativa del soggetto (se la lingua batte e il dente non duole il problema si situa presumibilmente a livello della lingua e non del dente). Questa sorta di disturbo da eccesso di attenzione nei confronti di se stessi e del proprio agire può essere dovuto al fatto che tale sapere non è stato acquisito, e quindi fondamentalmente neanche perduto (cioè rimosso in senso adattivo), in maniera appropriata. La conservazione di questa attenzione, normalmente destinata a scomparire (a essere appunto rimossa), impedirebbe al soggetto di agire senza la continua sorveglianza del183