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376 dicembre 2017

Fantasmi neoliberali Premessa William Davies Lo stato neoliberale S.M. Amadae Neoliberalismo e governamentalità Lapo Berti Ripartire da Foucault. Economia e governamentalità Massimiliano Nicoli, Luca Paltrinieri “It’s still day one.” Dall’imprenditore di sé alla start-up esistenziale Mauro Bertani Individui molecolari e trasformazioni della soggettività CONTRIBUTI Rita Fulco Lotta disarmata. Politica e religione in Simone Weil Elettra Stimilli Jacob Taubes: genealogia di un percorso antinomico Emiliano De Vito Appunti di storia naturale. Warburg, Benjamin e Pauli François Jullien, Elena Nardelli Dialogo su una nuova etica della traduzione

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rivista fondata da Enzo Paci nel 1951 direttore responsabile: Pier Aldo Rovatti redazione: Sergia Adamo, Paulo Barone, Graziella Berto, Beatrice Bonato, Deborah Borca (editing, deborah.borca@gmail.com), Damiano Cantone, Mario Colucci, Alessandro Dal Lago, Alessandro Di Grazia, Pierangelo Di Vittorio, Giovanna Gallio, Edoardo Greblo, Raoul Kirchmayr, Giovanni Leghissa, Andrea Muni, Massimiliano Nicoli, Ilaria Papandrea, Fabio Polidori, Pier Aldo Rovatti, Massimiliano Roveretto, Antonello Sciacchitano, Giovanni Scibilia, Stefano Tieri, Carla Troilo, Davide Zoletto direzione: c/o il Saggiatore, via Melzo 9, 20129 Milano sito web: autaut.ilsaggiatore.com collaborano tra gli altri ad “aut aut”: G. Agamben, H.-D. Bahr, R. Bodei, L. Boella, S. Borutti, J. Butler, M. Cacciari, A. Cavarero, R. De Biasi, G. Dorfles, M. Ferraris, U. Galimberti, P. Gambazzi, S. Givone, A. Heller, F. Jullien, J.-L. Nancy, A. Prete, R. Prezzo, M. Serres, G.C. Spivak, G. Vattimo, M. Vegetti, P. Veyne, V. Vitiello, S. Žižek per proposte di pubblicazione: autaut@ilsaggiatore.com Si fa presente che “aut aut” non pubblica recensioni e non accetta testi di ampiezza superiore a 40.000 battute (note e spazi compresi).

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Premessa

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bbiamo smesso ormai da molto tempo di credere, con Hegel, che la filosofia sia il proprio tempo “appreso nell’elemento del pensiero”, o addirittura la rivelazione della sua verità segreta (magari con la inconfessata speranza di arrivare a orientarne il corso). E però con il nostro presente non cessiamo di misurarci, di fare i conti con tutta una serie di eventi che in esso insistono e che nella nostra attualità si ripetono, talvolta determinandoci a nostra insaputa. Quel che allora, assai più modestamente, la filosofia può fare, dinanzi a una attualità complessa ed enigmatica, che rischiamo di ripetere e confermare anche quando crediamo di opporci a essa, è di interrogarla nella sua singolarità e specificità, di interpellarla criticamente e, così, di problematizzarla, introducendo una “differenza”, qualche domanda e un po’ di inquietudine, laddove regnava la quasi-identità e omogeneità della ripetizione. È quel che abbiamo provato a fare in questo fascicolo: circoscrivere una realtà, che sembra per molti versi definire la nostra attualità, vale a dire il neoliberalismo, delineandone alcuni tratti, alcune dimensioni, alcune componenti, ma per mostrarne il carattere provvisorio e contingente, laddove esso vorrebbe imporsi come l’orizzonte intrascendibile di quella attualità. Lasciando così intravedere la possibilità che qualche evento nuovo possa introdursi, qualche trasformazione possa essere effettuata. Certo, non possiamo negare che le difficoltà sono enormi, a cominciare dalla definizione stessa dell’oggetto indagato. Tanto vale, dun3


que, ammetterlo subito: non sappiamo molto bene cosa il neoliberalismo sia, e potrebbe valere per esso quel che è stato detto dell’araba fenice: che vi sia, ciascun lo dice; dove sia (e soprattutto, aggiungiamo, cosa sia), nessun lo sa. La letteratura ormai accumulatasi sull’argomento è immensa, e le definizioni dell’oggetto numerose, disparate ed eterogenee, al punto che si potrebbe avere l’impressione di trovarsi nel celebre auberge espagnol, dove ciascuno porta (e trova) quel che ha. Oppure di essere di fronte a veri e propri abusi (o crampi) linguistici, tali per cui “neoliberalismo” è diventata la categoria onnicomprensiva sotto la quale ciascuno intende riferirsi, di volta in volta (e talvolta simultaneamente), alla globalizzazione, al primato incondizionato del libero mercato, e in particolare del mercato e delle istituzioni finanziarie, al capitalismo finanziario, alla deregulation, alla riduzione del ruolo degli stati rispetto alle politiche keynesiane, e al conseguente contenimento della spesa pubblica, alla riduzione della fiscalità per le imprese, all’inflessibilità (chiamata rigore) delle politiche monetarie da parte dell’FMI, ai processi sfrenati di privatizzazione dei cosiddetti beni comuni e delle imprese pubbliche, alle politiche di abbattimento del costo del lavoro (dalla delocalizzazione alla delegittimazione delle organizzazioni sindacali), alla sua metamorfosi in lavoro flessibile, precario, addirittura volatile, alla radicalizzazione del laissez-faire del liberalismo classico che ha consentito l’espansione di nuove forme di monopolio, oligopolio, corporativismo. Così come non possiamo dimenticare che la categoria in questione risulta associata a tutta una serie di processi e avvenimenti storici, come gli interventi nelle vicende politiche interne di interi stati, come nei casi del Cile o dell’Argentina, e addirittura continenti, in vista dell’instaurazione di forme di potere autoritarie, antidemocratiche, quando non dittatoriali. E neppure si può omettere il fatto che nel neoliberalismo risulta implicata tutta una morale, e persino un’etica, mirate a fare dell’incertezza e della concorrenza competitiva le regole (e le condizioni) dell’agire, e dell’impresa e della responsabilità i principi regolatori della condotta. Così come non si può evitare di rammentare che il 4


Lo stato neoliberale WILLIAM DAVIES

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ella sua monumentale critica all’ideologia vittoriana del laissez-faire e alle sue conseguenze, La grande trasformazione, Karl Polanyi sosteneva che “la fiducia nel progresso spontaneo ci impedisce di vedere il ruolo del governo nella vita economica”.1 Questa condizione di cecità può essere sopportata, argomentava Polanyi, solo grazie alla “separazione istituzionale della società in una sfera economica e una politica”.2 L’idea di mercato e stato come ambiti separati, che operano secondo logiche differenti, è alla base della concezione liberale della libertà. Il punto è se essa rappresenti una qualche realtà ontologica di fondo, ossia che mercato e stato sono indipendenti l’uno dall’altro, oppure se, come affermava Polanyi, essa celi un’agenda politica, per cui lo stato immagina e costruisce il libero mercato dal quale afferma di volersi assentare. Probabilmente la differenza fondamentale fra liberalismo e neoliberalismo è che il secondo abbandona l’idea di mercato e William Davies è Senior Lecturer presso la Goldsmiths, University of London, dove ricopre il ruolo di Co-Director del Political Economy Research Centre. È autore di The Limits of Neoliberalism: Authority, Sovereignty and the Logic of Competition (Sage, London 2014) e di L’industria della felicità. Come la politica e le grandi imprese ci vendono il benessere (Einaudi, Torino 2016). 1. K. Polanyi, The Great Transformation: The Political and Economic Origins of Our Time (1944), Beacon Press, Boston 1957, p. 37; trad. di R. Vigevani, La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca, Einaudi, Torino 2010, p. 50. 2. Ivi, p. 71.

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stato come entità indipendenti e ontologicamente distinte. In tal senso, l’analisi di Polanyi viene condivisa dai pensatori neoliberali, ma con conseguenze molto diverse. Laddove Polanyi sosteneva che il mito del mercato autoregolato era indifendibile ed era indispensabile abbandonarlo completamente, gli intellettuali neoliberali si sono sempre battuti per un’agenda del mercato più realistica e dirigista, che è in sintonia con la dipendenza del liberalismo economico dal diritto della concorrenza, dal diritto alla proprietà, dalla cultura imprenditoriale, da un’efficiente forza di polizia, da rigorose politiche monetarie e così via. I pensatori neoliberali sono tutto tranne che “incapaci di percepire il ruolo dello stato nella vita economica”. Al riguardo, il punto di partenza della ragione e della riforma neoliberale è implicitamente sia politico che sociologico:3 esso riconosce che i mercati e la libertà economica individuale non prospereranno mai [solo] in virtù della propria iniziativa, ma necessitano di istituirla e di difenderla attivamente. Come ha sottolineato Phillip Mirowski, il neoliberalismo è un progetto politico costruttivista. Lo stato è lo strumento essenziale per l’avanzamento di un’agenda neoliberale. L’impegno a favore di uno stato forte, in grado di respingere le sfide politiche e ideologiche alla concorrenza capitalista, è un elemento caratteristico del neoliberalismo, sia come sistema di pensiero che come strategia politica applicata. Sussistono prove esigue in merito al fatto che le riforme neoliberali conducano a uno stato “più limitato” o “più debole”, anche se alcune funzioni vengono tolte allo stato attraverso politiche di privatizzazione ed esternalizzazione. Comunque, nel neoliberalismo lo stato è anche oggetto di un significativo esame critico e di risentimento. Come ha affermato Jamie Peck, “la maledizione del neoliberalismo è che non può vivere né con lo stato, né senza”.4 Il sospetto che lo stato e i suoi rappresentanti siano inefficienti, egocentrici, irrazionali, ciechi nei confronti dei meri3. N. Gane, Sociology and Neoliberalism: A Missing History, “Sociology”, 6, 2014. 4. J. Peck, Remaking Laissez-Faire, “Progress in Human Geography”, 32, 2008, p. 39.

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ti della concorrenza, eccessivamente “intellettuali” e contrari al cambiamento è un aspetto persistente della critica neoliberale. La condizione paradossale dello stato soggetto al neoliberalismo, ossia l’essere contemporaneamente l’artefice chiave della riforma e il principale ostacolo a essa, comporta che tale preoccupazione non potrà mai essere completamente alleviata. Di fronte a questa ambivalenza, la critica neoliberale si concentra sul cercare di razionalizzare lo stato impiegando le tecniche tratte dal mondo degli affari o di coinvolgere attivamente gli affari nella gestione dei settori pubblici. Le riforme conosciute come new public management sono decollate dagli anni ottanta del Novecento in avanti, cercando di rimodellare le burocrazie dello stato sul modello del settore dell’impresa privata, usando i processi di definizione degli obiettivi e di ispezione per fermare presumibilmente le ottuse e inefficienti amministrazioni del settore pubblico.5 L’esternalizzazione e la collaborazione pubblicoprivato hanno prodotto una nuova sfera istituzionale fra il mercato e lo stato intesi in modo convenzionale, che può essere analizzata in termini di reti di “governance” o di “governamentalità” e che ridistribuisce le funzioni dello stato verso nuove e diverse unità amministrative.6 Il neoliberalismo spesso implica un ostinato perseguimento dell’agenda degli stati, ma secondo modalità che aggirano gli strumenti di governo scomodi, “politici” o apparentemente inefficienti. Questo testo esamina lo stato neoliberale secondo tre percorsi. In primo luogo, discute dell’idea dello stato neoliberale, così come essa è presente nel pensiero neoliberale fra gli anni venti e gli anni settanta del Novecento. Mostrerò in che modo i neoliberali come Friedrich Hayek si sono consapevolmente allontanati dalla visione vittoriana del laissez-faire, e si sono impegnati a favore di un ruolo attivo dello stato. È un aspetto che Michel Fou5. C. Hood, The “New Public Management” in the 1980s: Variations on a Theme, “Accounting, Organizations and Society”, 20, 1995, pp. 93-109. 6. R.A.W. Rhodes, The New Governance: Governing without Government, “Political Studies”, 4, 1996, pp. 652-667; N. Rose, P. Miller, Governing the Present: Administering Economic, Social and Personal Life, John Wiley & Sons, Oxford 2013.

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Neoliberalismo e governamentalità S.M. AMADAE

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a Shock economy di Naomi Klein e Undoing the Demos di Wendy Brown, a Breve storia del neoliberismo di David Harvey e Democracy in Chains di Nancy MacLean, abbonda la letteratura critica che esamina approfonditamente il capitalismo neoliberale del XX secolo. Tuttavia, nonostante la crisi finanziaria del 2007, che ha messo in ginocchio l’economia politica globale e che ha trasformato i “governati” in “uomini indebitati” che devono espiare la propria colpa – il debito – pagando sempre nuove tasse,1 l’attività del capitalismo neoliberale rimane saldamente intatta in realtà come Uber, Facebook, Google e Airbnb. Queste compagnie competono con i governi nazionali nello stabilire e nel trarre profitto da piattaforme volte a strutturare le interazioni umane. E quando lo stesso “Economist” suggerisce che i leader di oggi dovrebbero rispolverare alcune lezioni apprese da Marx, allude al fatto che oggi i CEO guadagnano centotrenta volte in più dell’impiegato medio, numero che dal 1980 è quintuplicato. L’“Economist” osserva che la crescita dell’economia di Uber S.M. Amadae si è formata e ha lavorato a Berkeley, Cambridge, Harvard, New York e Londra e attualmente è ricercatrice all’Università di Helsinki e presso il MIT. Si occupa di teoria normativa, filosofia delle scienze sociali e di storia del pensiero politico ed economico. È autrice di Rationalizing Capitalist Democracy: The Cold War Origins of Rational Choice Liberalism (University of Chicago Press, Chicago-London 2003) e di Prisoners of Reason: Game Theory and Neoliberal Political Economy (Cambridge University Press, Cambridge 2015). 1. M. Lazzarato, Neoliberalism, the Financial Crisis and the End of the Liberal State, “Theory, Culture & Society”, 7-8, 2015, p. 67.

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minaccia di trasformare milioni di persone in lavoratori occasionali che “mangiano solo quello che cacciano”.2 Gli autori ammettono cioè che, in un regime neoliberale, i salari che i lavoratori domandano non garantiscono nemmeno la sussistenza. Giocano sull’immaginario della Uber-economy suggerendo che gli autisti di Uber sarebbero ridotti agli stenti perché il loro reddito non copre nemmeno le spese alimentari. Eppure, nonostante l’attacco populista nazionale contro la finanza globale e la precaria situazione dell’occupazione, e l’attenta analisi condotta dai critici del neoliberalismo, un’opposizione efficace non ha ancora preso piede. La resistenza è importante per mantenere diverse prospettive di vita e di pensiero. Inoltre, poiché il neoliberalismo è solitamente presentato come un sistema economico senza alternative, e le sue modalità di sviluppo colonizzano sistematicamente le soggettività alternative, è ancora più importante avere un’idea precisa di come esso si infiltri nella coscienza umana, fino a divenire il paradigma d’azione dominante. Cerchiamo qui di comprendere come, nella nostra esperienza contemporanea, “o siamo tutti lavoratori, o siamo tutti capitalisti: entrambe le visioni dipingono la società come un’estensione del lavoro attraverso tutte le altre sfere sociali, dalla fabbrica, alla scuola, alla casa, percorrendo tutti gli aspetti dell’esistenza umana, dal lavoro manuale a quello intellettuale; oppure la dipingono come un sistema basato sulla logica della competizione e dell’investimento che governano tutte le relazioni umane”.3 Soddisfare questa “economizzazione della società”4 richiede una particolare modalità di governo, o per dirla più chiaramente, una specifica forma di governamentalità, che consiste in “una particolare mentalità, una singolare maniera di governare attualizzata in abitudini, percezioni e soggettività”.5 Pertanto cerchiamo 2. “The Economist”, 13 maggio 2017, p. 28. 3. J. Read, A Genealogy of Homo-Economicus: Neoliberalism and the Production of Subjectivity, “Foucault studies”, 6, 2009, p. 34. 4. M. Lazzarato, Neoliberalism, the Financial Crisis and the End of the Liberal State, cit., p. 72. 5. J. Read, A Genealogy of Homo Economicus, cit., p. 34.

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qui di capire la formazione di una peculiare soggettività neoliberale intesa come quella specifica razionalità che ispira le pratiche dell’economia politica della tarda modernità. Considerando che gli analisti del capitalismo hanno a lungo esaminato la relazione tra razionalità e scambi economici, un metodo efficace potrebbe essere quello di seguire l’approccio genealogico di Michel Foucault, che ci aiuta a comprendere come la razionalità stessa trasformi le relazioni e la governance da essa ispirata in modo inscindibile dalla sua stessa manifestazione sul mercato.6 Si è creato un certo consenso nell’avvalorare la tesi secondo cui Foucault fu accurato nel leggere uno spostamento tra il moderno liberalismo, soggetto principale di Sorvegliare e punire (1975), e il neoliberalismo del tardo Novecento affrontato in Nascita della biopolitica (1979). Siano essi influenzati dagli studi di Foucault o ispirati da prospettive alternative, gli studiosi concordano che si sia verificato un cambiamento nel modo in cui il capitalismo mosse i primi passi negli anni settanta e quando si espresse pienamente negli anni ottanta. Secondo gli economisti e gli storici dell’economia,7 gli storici del pensiero economico,8 i teorici del pensiero critico9 e i teorici culturali,10 nell’ultimo ventennio del Novecento l’economia politica ha mostrato nuove tendenze. Le caratteristiche principali sono state la svolta verso la privatizzazione, la monetizzazione e gli incentivi, in opposizione alla sfera pubblica e alle azioni collettive, le diverse fonti di va6. N. Gane, Thinking Historically about Neoliberalism: A Response to William Davies, “Theory, Culture & Society”, 7-8, 2014, pp. 304-306. 7. D. Sornette, 1980-2008: The Illusion of the Perpetual Money Machine and What It Bodes for the Future, “Risks”, 2, 2014, pp. 103-131; D.M. Kotz, The Rise and Fall of Neoliberal Capitalism, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 2015. 8. Y.M. Madra, F. Adaman, Public Economics After Neoliberalism: A Theoretical-historical Perspective, “The European Journal of the History of Economic Thought”, 4, 2010, pp. 1079-1106. 9. W. Brown, American Nightmare: Neoliberalism, Neoconservatism, and De-democratization, “Political Theory”, 6, 2006, pp. 690-714; Id., Undoing the Demos: Neoliberalism’s Stealth Revolution, MIT Press, Cambridge (Mass.) 2015. 10. D. Harvey, Breve storia del neoliberismo (2007), trad. di P. Meneghelli, il Saggiatore, Milano 2007; B. Moreton, To Serve God and Wal-Mart, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 2009; W. Davies, The Limits of Neoliberalism: Authority, Sovereignty and the Logic of Competition, Sage, London 2014.

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Ripartire da Foucault. Economia e governamentalità LAPO BERTI

Il potere, per me, è ciò che deve essere spiegato. M. Foucault, Qu’est-ce que la critique?

Il problema del potere economico “Le nostre società sono ormai governate dall’economia e, più specificamente, dalla finanza?” Questo interrogativo, nella sua generalità e genericità, risuona ampiamente nel dibattito pubblico e si insinua minacciosamente nel lavoro di analisi della realtà politica ed economica attuale. A esso se ne accompagna, inevitabilmente, un altro: “In presenza di poteri abnormi e incontrollati, si possono ancora definire democratici i regimi cui formalmente affidiamo il governo della società?”. La questione che si pone è quella, eterna, del potere e delle modalità attraverso cui esso sorge e agisce nelle nostre società. Non è necessario produrre tabelle e serie storiche per rendersi conto che c’è un genere di potere, quello inestricabilmente connesso all’esercizio delle attività economiche, che ha accresciuto a dismisura la sua capacità di condizionamento, senza trovare limiti e contrappesi, in sistemi sociali che affondano le loro radici nella prima modernità e che avevano la preoccupazione opposta: quella di dare spazio all’affermazione del potere economico sotto la bandiera della libertà. Nell’arena globale, il potere economico, connesso alla quantità e alla natura delle risorse gestite, si è accresciuto e concentrato enormemente, specialmente attraverso l’utilizzo della leva finanziaria. Questa è la sua manifestazione più appariscente. È sotto gli occhi di tutti e costituisce la preoccupazione di molti. Uno studio pubblicato nel 2000 metteva in luce che, già allora, 51 delle più grandi organizzazioni economiche del mondo erano aut aut, 376, 2017, 49-78

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imprese e solo 49 erano paesi e che le loro vendite crescevano più rapidamente dell’attività economica globale.1 È abbastanza probabile che da allora il rapporto si sia ulteriormente spostato a favore delle imprese. Una chiara indicazione del fatto che è in atto un processo, presumibilmente irreversibile, di concentrazione del potere economico in mani private, che è ormai in grado di sovrastare anche gli stati nazionali, intaccandone la sovranità. La concentrazione del potere economico in mani private è, non da oggi, un problema. Già nel 1934, un economista americano, Henry Simons, esponente di spicco dell’orientamento liberale che avrebbe dato vita alla Scuola di Chicago, parlava di “usurpazione della sovranità” da parte dei grandi gruppi economici organizzati e ne denunciava l’“enorme potere di sfruttare la comunità in generale e perfino di sabotare il sistema”.2 Ma oggi, nel contesto della globalizzazione che le grandi imprese industriali e finanziarie hanno concorso a creare, questa usurpazione della sovranità costituisce una minaccia su scala globale, ed è in grado di travolgere il sistema di regole e di valori su cui si regge quello che eufemisticamente possiamo chiamare “l’ordine sociale” della modernità. Il potere economico ha fatto problema fin dalle sue prime manifestazioni. In una relazione di antagonismo/collaborazione con lo stato sovrano, con i governi, si è trasformato, a sua volta, in un potere sovrano deterritorializzato, che esercita il suo dominio in quell’area fisico-virtuale segnata dallo svolgimento delle attività economiche e da lì muove alla conquista degli altri territori dell’organizzazione sociale, primo fra tutti quello del governo. Questo potere sovrano, dai tratti nuovi e a un tempo antichi, un potere sovrano senza sovranità, si incarna nei “signori” dell’economia, che formano un consesso oligarchico che ricorda i signori feudali. La loro egemonia globale trova supporto in un sapere, in una dottrina, anch’essa globale, costituita dalla scien1. S. Anderson, J. Cavanagh, Top 200: The Rise of Corporate Global Power, “Institute for Policy Studies”, 4 dicembre 2000. 2. H.C. Simons, Economic Policy in a Free Society, University of Chicago Press, Chicago 1948, p. 43.

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za economica mainstream, che domina nelle università di tutto il mondo ed è riprodotta in centinaia di think tank che alimentano il lobbying politico. Questo è, credo, il problema politico cruciale del nostro tempo. La ricostruzione teorica delle relazioni di potere che governano la società globale non può prescindere dall’analisi di queste nuove forme di “sovranità”. Accanto a questa metamorfosi del potere economico che fa leva sull’abnorme concentrazione di ricchezza per condizionare l’ambiente in cui opera, c’è un’intensa proliferazione di canali e di modalità attraverso cui il sapere economico dissemina nella società dispositivi di controllo e di condizionamento che ampliano a dismisura la gamma di strumenti a disposizione della governamentalità attuale. L’incidenza del potere economico sul funzionamento della società diventa tanto più rilevante quanto più la sua azione si fa pervasiva. La sharing economy è l’ultima espressione della inarrestabile colonizzazione del vissuto collettivo da parte della logica capitalistica. Una dopo l’altra, forme di relazione e di scambio non mercantili, che facevano parte del nostro mondo relazionale privato, come l’offerta di ospitalità o la condivisione di un viaggio, vengono marchiate con il codice dell’economia e consegnate allo spazio degli scambi di mercato che generano guadagni monetari. È la deriva che segna la fase del rapporto fra capitalismo e società in cui stiamo vivendo. L’“economizzazione” progressiva della società, l’invasione di pressoché ogni ambito della vita sociale da parte della “logica” economica, la riduzione tendenziale di ogni scelta individuale e di ogni forma di relazione alla dimensione economica, alla meccanica del calcolo e dell’utile, ha prodotto un certo numero di dispositivi, in costante mutazione e in rapida espansione, che hanno ridotto l’individuo a homo œconomicus, trasformandolo in consumatore e in “imprenditore di se stesso”, come si è preso a dire, assimilandolo a un’azienda e facendo emergere la nozione di “capitale umano”: tutti questi processi, caratteristici della dinamica economica capitalistica, costituiscono una sorta di sistema nervoso della società che in larga misura ne governa i comportamenti. L’economia politica è il discorso che lo rende possibile e lo legittima. 51


“It’s still day one.” Dall’imprenditore di sé alla start-up esistenziale MASSIMILIANO NICOLI LUCA PALTRINIERI

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Se entrate nella sede parigina di Amazon. com, a Clichy, una volta superati i controlli di sicurezza vi troverete in una sala d’attesa molto confortevole, dotata di divano, poltrone, cucina e macchine del caffè. Se poi vi guardate intorno, mentre attendete che vi venga stampato il badge che vi consentirà di passare gli ulteriori tornelli, noterete, un po’ dappertutto, degli schermi fissati alle pareti sui quali scorrono le ultime notizie riguardanti la vita aziendale. Noterete inoltre che tale flusso di notizie è regolarmente intervallato da una frase che ricorre senza sosta: “It’s still day one” – letteralmente, “è ancora il giorno 1”. Qualsiasi dipendente di Amazon, interrogato a proposito, potrà spiegarvi il significato di questo ritornello: è un invito a lavorare come se fosse sempre il primo giorno, come se Amazon fosse nata ieri – anzi, no, oggi stesso – mantenendo uno spirito startup pure all’interno di un simile colosso del commercio elettronico.1 Del resto, è lo stesso fondatore e CEO di Amazon, Jeff Bezos, a illustrare il concetto nella lettera agli azionisti pubblicata il 12 aprile 2017:2 il giorno 2 è la stasi, la lentezza, il declino, la morte; il giorno 1 è sperimentazione, innovazione, energia, velocità, dinamismo, vitalità. Ecco perché bisogna riuscire a conservare una 1. Sulle reali condizioni di lavoro nei magazzini di Amazon, esistono diverse inchieste giornalistiche, come quella di Jean-Baptiste Malet, “En Amazonie”. Un infiltrato nel “migliore dei mondi” (2013), trad. di L. Minuto, Kogoi, Roma 2013. 2. Disponibile sul sito di Amazon: <amazon.com/p/feature/z6o9g6sysxur57t>.

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mentalità da start-up anche in un’impresa che nel 2015 ha fatturato 79,3 miliardi di dollari.3 Concetti non dissimili da quelli rapidamente enucleati da Bezos nella sua lettera agli azionisti erano già stati espressi in Italia il 22 novembre 2016 da Diego Piacentini – “commissario straordinario per l’attuazione dell’Agenda digitale” per il governo italiano – al “Bocconi Start-up Day”, iniziativa annuale dell’Università Bocconi “finalizzata a promuovere l’imprenditorialità e le start-up e a valorizzare le molteplici attività promosse dall’Ateneo in tali ambiti”.4 Non a caso, Piacentini è attualmente in aspettativa da Amazon.com, dove ha lavorato per sedici anni, ricoprendo il ruolo di Senior Vice President International.5 Titolo del suo speech alla Bocconi: Una start-up a Palazzo Chigi.6 Era stato l’ex primo ministro italiano Matteo Renzi a convincere il supermanager di Amazon a tornare in Italia per “aiutare il Paese a non perdere il treno dell’innovazione e del digitale” e per “costituire una sorta di start-up all’interno di una macchina antica come l’amministrazione statale”.7 Del resto, la passione di Renzi per l’innovazione digitale e il mondo start-up è nota e ben testimoniata dalla scelta di un incubatore, l’H-Farm in provincia di Treviso, come luogo della sua prima visita ufficiale in qualità di presidente del Consiglio,8 ma soprattutto dai provvedimenti del suo governo in termini di detassazioni, agevolazioni negli investimenti, disciplina agevolata del lavoro.9 Come fanno notare Alessandro Gerosa e Adam Arvidsson in 3. E. Scarci, Amazon entra nella top ten dei retailer globali e cresce in Italia, “Il Sole-24 ore”, 19 gennaio 2017. 4. <startupday.unibocconi.it/Home>. 5. <teamdigitale.governo.it/it/people/1-profile.htm>. 6. <unibocconi.it/wps/wcm/connect/ev/Eventi/Eventi+Bocconi/Bocconi+Startup+Day+2016>. 7. Intervista di Mario Calabresi a Diego Piacentini del 30 settembre 2016, disponibile su “Repubblica.it”: <repubblica.it/economia/2016/09/30/news/digitale_diego_piacentini-148802419/>. 8. Il senso di Renzi per le start-up: <ilfattoquotidiano.it/2014/02/27/il-senso-di-renziper-le-start-up/896231/>. 9. Per una sintesi di tali provvedimenti, si veda EconomyUp, Innovazione e start-up, le 15 eredità del governo Renzi: <economyup.it/startup/innovazione-e-startup-le-15-ereditadel-governo-renzi/>.

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un articolo pubblicato sul sito “cheFare”, attento alle start-up in Italia, la stagione di investimenti pubblici era già iniziata con il governo Monti e il suo ministro per lo Sviluppo economico Corrado Passera, il quale aveva prima di tutto costituito una task force incaricata di redigere un rapporto sulle start-up come volano della crescita.10 Al rapporto, pubblicato nel 2012 e intitolato Restart, Italia!,11 ha fatto seguito una serie di misure, proseguite dai governi successivi, aventi lo scopo di “rafforzare la molto fragile economia della conoscenza nazionale che, in assenza di un sistema di ricerca e innovazione funzionante, in Italia stenta a emergere e parrebbe frenare quel naturale spirito di auto-imprenditorialità e di auto-realizzazione con cui vengono contraddistinte le nuove generazioni di nativi digitali”.12 Sempre Gerosa e Arvidsson sottolineano come diverse misure di sostegno alla creazione di imprese e di start-up siano state intraprese da tutti i paesi dell’Unione europea per far fronte alla disoccupazione seguita alla crisi del 2008, come testimoniato anche dal rapporto 2016 di Eurofound (Fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro) intitolato Sostegno alle start-up per i giovani nell’UE: dall’attuazione alla valutazione.13 In Francia, per esempio, dopo aver creato nel 2008 lo statuto giuridico dell’auto-entrepreneur (l’auto-imprenditore) per rispondere alla crisi promuovendo la creazione di micro-imprese individuali,14 uno dei principali fronti di investimento per far ripartire la crescita economica è costituito proprio dall’ecosiste10. A. Gerosa, A. Arvidsson, Start-Up in Italia: limiti e potenzialità, “cheFare”, 17 febbraio 2017. 11. Il rapporto è disponibile sul sito del ministero: <sviluppoeconomico.gov.it/images/ stories/documenti/rapporto-startup-2012.pdf>. 12. A. Gerosa, A. Arvidsson, Start-Up in Italia: limiti e potenzialità, cit. 13. Eurofound, Start-up support for young people in the EU: From implementation to evaluation, 13 aprile 2016, <eurofound.europa.eu/publications/report/2016/labour-market-business/start-up-support-for-young-people-in-the-eu-from-implementation-to-evaluation>. 14. Sulla storia dell’introduzione del regime dell’auto-entrepreneur, si veda S. Abdelnour, A. Lambert, “L’entreprise de soi”, un nouveau mode de gestion politique des classes populaires? Analyse croisée de l’accession à la propriété et de l’auto-emploi (1977-2012), “Genèses”, 95, 2014.

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Individui molecolari e trasformazioni della soggettività MAURO BERTANI L’homo œconomicus è, insomma, colui che risulta eminentemente governabile. M. Foucault

Intraprendere e competere Come è stato possibile che, a partire da un certo momento della nostra storia, abbiamo cominciato a pensare la piena legittimità, se non addirittura la necessità, di trasformare non solo i quadri socio-economici e politico-istituzionali, ma anche quelli intellettuali, e persino morali, delle nostre esistenze, ricodificandoli integralmente in base alle cosiddette leggi, ai meccanismi e ai principî, del mercato? Si dirà che la storia è cominciata molto presto, tanto tempo fa, ma non è affatto sicuro che il mercato di cui parlavano Quesnay e i fisiocratici sia lo stesso di cui parleranno Adam Smith o la Scuola di Manchester, e soprattutto che sia ancora, dopo von Hayek, o dopo Becker, il nostro, oggi. Così come non è detto che la riflessione politico-filosofica che ha accompagnato – o che si è sovrapposta, non sempre pacificamente, a – tale trasformazione, sia sempre rimasta, salvo qualche aggiustamento, la stessa. Ma qui non ci occuperemo di tali solenni e complesse questioni. Tenteremo, piuttosto, un’operazione assai più grigia, bassa, modesta, suggerita da quel che Michel Foucault aveva avanzato nel suo corso del 19781979 al Collège de France consacrato alla Nascita della biopolitica,1 cercando di misurarne, attraverso l’applicazione di alcuni dei principî di analisi lì messi in atto a un campo limitato e circoscritto, quello della sanità, e in particolare all’ambito di quella che si designa ormai come “salute mentale”, la pertinenza e l’efficacia. 1. M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France, 1978-1979 (2004), trad. di M. Bertani e V. Zini, Feltrinelli, Milano 2005.

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Annunciato come un corso dedicato alla genealogia di quel regime specifico e peculiare di “governamentalità” a cui Foucault aveva dato il nome di “biopolitica”, il ciclo di lezioni di quell’anno, a una prima lettura, sembra concentrarsi unicamente sulla genealogia di due tecnologie, o “arti”, di governo, quella liberale e quella neoliberale, quest’ultima esaminata poi quasi esclusivamente nelle due varianti dell’“ordoliberalismo” tedesco e dell’“anarcoliberalismo” americano, che nulla sembrerebbero avere a che fare con il problema della biopolitica. Ma Foucault era stato chiaro fin da subito, dichiarando che solo se si fosse compreso “in che consiste propriamente il regime di governo chiamato liberalismo” – e beninteso quell’aggiornamento dell’“autolimitazione della ragione di governo” che è il neoliberalismo – sarebbe diventato possibile “comprendere che cos’è la biopolitica”, e che insomma si trattava di studiare il liberalismo come “quadro generale della biopolitica”. Ma una biopolitica profondamente mutata, le cui strategie e i cui dispositivi non mirano più (solo) a governare quelle grandi unità che sono le popolazioni, le etnie, le razze, in funzione delle politiche imperialiste degli stati nazionali nel tempo della Machtpolitik. E il cui obiettivo, la cui posta in gioco e la cui superficie di iscrizione è diventato piuttosto l’individuo. È allora come programma di governo, nonché indicazione del telos perseguito e della materia utilizzata dal neoliberalismo, anche se in una versione particolarmente triviale, che dovrà essere inteso l’ormai celebre enunciato formulato da Margaret Thatcher il 23 settembre 1987: “Come sapete, la società non esiste. Esistono gli individui, gli uomini e le donne, ed esistono le famiglie. E il governo non può fare niente se non attraverso le persone, e le persone devono guardare per prime a se stesse”. La sostanza da investire, e gli agenti da attivare, la stessa Thatcher li aveva già indicati nell’intervista al “Sunday Times” del 1° maggio 1981: “L’economia è il mezzo, l’obiettivo è quello di cambiare il cuore e l’anima”. Per contro, di quegli stessi individui, nonché di quella strana entità a cui nel 1977 aveva dato il nome di “sottoindividui”, Foucault farà l’elemento – il punto di resistenza – “primo e ultimo”. Eccoci dunque condotti alla domanda centrale: chi è, e in che 110


consiste, quell’individuo che inizia a delinearsi, anche solo in controluce, nel punto di giunzione delle quattro cause (finalità, materia, sostanza e agenti) sopra sommariamente evocate e che emerge come puro prodotto del programma di governo neoliberale? Da quali dispositivi di assoggettamento, e pertanto anche da quali procedure di oggettivazione, risulta fabbricato? E tuttavia, quali processi di soggettivazione, e quindi quali meccanismi di costituzione di sé, è in grado di attivare, se è in grado di farlo, anche nel cuore della più profonda delle costrizioni, ma soprattutto nell’esercizio di quella libertà che risulta, alla lettera, “vitale”, per quel programma di governo? Il problema, insomma, è quello della formazione della soggettività all’interno di quel particolare “regime di veridizione” che è il neoliberalismo, in cui l’homo œconomicus, il soggetto d’interesse destinato a raddoppiare il soggetto di diritto, verrà a sua volta reduplicato dal soggetto definito da tutte le psicologie succedutesi a partire dal XVIII secolo, dalla psychologia rationalis alla psicologia comportamentale, dalla psicologia cognitivista alla psiconeuroendocrinologia dell’homo neuronalis ai nostri giorni. I modi di razionalizzazione dell’esercizio di governo, con la riflessività critica che li accompagna, che sono il liberalismo e il neoliberalismo, si correlano infatti, secondo una necessità immanente, a uno dei processi sicuramente più importanti della nostra attualità, ovvero la crescente “medicalizzazione” della nostra società e delle nostre esistenze, come Foucault aveva cominciato a sostenere a partire dal 1968. Dopo avere mostrato, nella Nascita della clinica,2 come si fosse lentamente formata, nel corso del XVIII secolo, una medicina “nazionale” incaricata di preservare la salute e la forza fisica – condizioni della capacità produttiva e della potenza militare – delle popolazioni, e conseguentemente degli stati, nelle lezioni sulla storia della medicina, tenute nel 1974, Foucault interverrà su una mutazione decisiva, fatta risalire al 1942, anno dell’approvazione in Gran Bretagna del pia2. M. Foucault, Nascita della clinica. Una archeologia dello sguardo medico (1963), trad. di A. Fontana, Einaudi, Torino 1998.

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Contributi


Lotta disarmata. Politica e religione in Simone Weil RITA FULCO

1. Lo spirito del potere Interrogandosi sull’ermeneutica del potere proposta da Simone Weil non si può prescindere dalla sua attenzione al ruolo svolto dall’elemento religioso.1 Soprattutto nelle opere weiliane degli ultimi anni trenta e degli anni quaranta – a partire dalle quali prendono le mosse queste mie riflessioni – è evidente l’influsso di nozioni mutuate da differenti tradizioni religiose e la loro ricaduta, più o meno evidente, non solo su altrettanti concetti politici, ma anche sulle scelte militanti e, in misura maggiore, su quelle im-politiche2 1. In Italia, già dai primi anni ottanta, l’implicazione ineludibile tra politica e religione è stata messa in luce da M. Cacciari, Note sul discorso filosofico e teologico di Simone Weil, “Il futuro dell’uomo”, 2, 1982; G. Gaeta, “Nota”, in S. Weil, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1983, pp. 148 e 154-155. Sul rapporto tra politica e religione importanti sono le riflessioni di R. Esposito, Categorie dell’impolitico, il Mulino, Bologna 1988, pp. 199-244, il quale, in pagine chiare quanto acute, offre un’originale e direi imprescindibile riflessione sull’orizzonte aperto dal pensiero di Simone Weil a partire dal limite del politico; sul rapporto metafisico tra soggettività e potere; sulla destituzione della centralità dell’io-posso e della sua prospettiva; sulla questione della forza. Sul linguaggio della politica, in relazione alle riflessioni weiliane radicate nel vasto ambito del religioso e della mistica si veda anche W. Tommasi, “Religione e politica”, in Simone Weil. Esperienza religiosa, esperienza femminile, Liguori, Napoli 1997. La continuità tra esperienza politica ed esperienza religiosa è condivisa dalla maggior parte degli studiosi, come testimoniano i recenti e documentati saggi di P. Rolland, “Un texte pour la France libre” e di R. Chenavier, “Les fondements d’un ‘pouvoir spirituel’”, in S. Weil, Œuvres complètes, vol. V: Écrits de New York et de Londres, tomo II, testi stabiliti, presentati e annotati da R. Chenavier e P. Rolland, con la collaborazione di M.-N. Chenavier Jullien, Gallimard, Paris 2013, pp. 11-45 e 46-86, ma anche D. Canciani, M.A. Vito, “Introduzione”, in S. Weil, Una costituente per l’Europa. Scritti londinesi, a cura di D. Canciani e M.A. Vito, Castelvecchi, Roma 2013, pp. 11-54. 2. Cfr. R. Esposito, Categorie dell’impolitico, cit.; Id., L’origine della politica. Hannah Arendt o Simone Weil?, Donzelli, Roma 20142, in particolare le pp. 61-121.

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di Simone Weil. Il contributo da lei offerto alla comprensione delle possibili interazioni tra questi due ambiti mi sembra degno di nota, sia per originalità di intuizioni sia per abbondanza, direi, di ispirazioni, fondamentali per una, quanto mai necessaria, rilegittimazione etica dell’agire politico. Simone Weil, infatti, considera l’orizzonte della religio quale sorgente privilegiata di un’etica contronaturale, un vero e proprio contrappeso rispetto ai rapporti di forza presenti in natura. A suo avviso, infatti, lungi dall’identificarsi, natura e soprannaturale si contrappongono: non è possibile individuare alcun disegno inscritto nella natura e volto al progresso spirituale e sociale dell’umanità, al contrario di quanto aveva affermato Kant nei suoi scritti sulla filosofia della storia e nel suo progetto di pace perpetua.3 Non si può, tuttavia, neppure affermare che in Simone Weil vi sia una mera condanna dell’ambito naturale, letto come sede del male, ma piuttosto una separazione innanzitutto logica e ontologica: la natura segue un corso, nel quale, in linea generale, il forte prevale sul debole; gli esseri umani sono parte della natura, sono corpi tra altri corpi, esseri viventi tra gli altri; tuttavia, se essi sono nel mondo, non sono, però, del mondo. Hanno delle facoltà – tra cui la principale è l’attenzione – che permettono loro di compiere uno scarto rispetto alle leggi della natura. Essi, se lo desiderano, possono mettersi in ascolto di una realtà contronaturale. Le religioni – purché le divinità adorate siano non violente – vengono considerate da Weil come finestre aperte su questa realtà altra e, quindi, il contatto autentico con una di esse potrebbe rappresentare l’inizio di un mutamento che, partendo dall’io, dal soggetto singolare, comporterebbe importanti ricadute sugli ambiti di azione nei quali ciascuno esercita il proprio potere: “I carnefici della città di Melos […] hanno definito in modo completo e perfetto la concezione pagana: […] ‘ciascuno comanda ovun3. Cfr. I. Kant, Zum ewigen Frieden (1795); trad. di G. Solari e G. Vidari, Per la pace perpetua. Progetto filosofico, in Scritti politici, a cura di N. Bobbio, L. Firpo, V. Mathieu, UTET, Torino 2010, p. 306.

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que ha potere’. La fede cristiana altro non è se non il grido che afferma il contrario. È la stessa cosa per le antiche dottrine della Cina, dell’India, dell’Egitto e della Grecia”.4 Volendo, dunque, definire la questione che lega politica e religione in Simone Weil, ci si troverà necessariamente a confronto con il problema del potere e della sovranità in rapporto alla giustizia. Simone Weil tenta, infatti, di dimostrare che la maggior parte delle religioni affermano l’opposto di Tucidide e, dunque, che esse possono costituire uno strumento di decostruzione di una certa idea di potere e di potenza, perché decostruiscono una certa idea di soggetto.5 2. La via all’elevazione A partire dall’elaborazione di un’energetica metafisica6 pensata per analogia alle teorie della fisica naturale – “Tutto è combinazione di energia solare e di gravità (a parte il pane soprannaturale)”7 –, Simone Weil ha disancorato l’energia spirituale, chiamata soprannaturale o contronaturale, intrinseca alle singole tradizioni religiose, dal loro contenuto strettamente confessionale, rivelandone 4. S. Weil, “Luttons-nous pour la justice?”, in Écrits de Londres et dernières lettres, Gallimard, Paris 1957, pp. 47-48; trad. di D. Canciani e M.A. Vito, “Stiamo lottando per la giustizia?”, in Una costituente per l’Europa. Scritti londinesi, cit., p. 180. Il riferimento è a Tucidide, La guerra del Peloponneso, V, 105, 2. Non a caso Gianfranco Miglio pensa a Tucidide e alla guerra contro Melo in riferimento a Carl Schmitt: “In fondo vien fatto di pensare che a nessuno dei suoi grandi predecessori Schmitt assomiglia come a Tucidide. Tucididea infatti è l’esperienza postbellica della ‘reversibilità delle parti’; tucididea è la scoperta dell’eterna antitesi ‘amicus-hostis’, che completa e spiega la ‘legge naturale’ della potenza rivelata dagli ambasciatori ateniesi ai reggitori di Melos” (G. Miglio, “Presentazione”, in C. Schmitt, Le categorie del “politico”, trad. di G. Miglio e P. Schiera, il Mulino, Bologna 1972, p. 8). 5. Sulla questione della soggettività in Simone Weil, mi permetto di rinviare a R. Fulco, Les Cahiers de Marseille et l’architecture du Je. L’“égoisme sans je” ou l’“annihilant” impersonnel, “Cahiers Simone Weil”, 3, 2012, pp. 337-368. 6. Sulla nozione di energia e sulle sue diverse forme cfr. G. Kahn, Les notions de pesanteur et d’énergie chez Simone Weil, “Cahiers Simone Weil”, 1, 1986, pp. 22-31; M.-A. Fourneyron, “La science de l’âme, une énergétique (Avant-propos 3)”, in S. Weil, Œuvres complètes, vol. VI: Cahiers, tomo II: (septembre 1941 - février 1942), testi stabiliti e presentati da A. Degràces, M.-A. Fourneiron, F. de Lussy e M. Narcy, Gallimard, Paris 1997, pp. 35-50. 7. S. Weil, Œuvres complètes, vol. VI: Cahiers, tomo II, cit., p. 205; trad. di G. Gaeta, Quaderni, vol. II, Adelphi, Milano 1985, p. 50.

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Jacob Taubes: genealogia di un percorso antinomico ELETTRA STIMILLI

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a quando, all’inizio degli anni novanta, è stato pubblicato Die politische Theologie des Paulus – il testo del seminario sulla Lettera ai Romani che Jacob Taubes ha tenuto a Heidelberg, nel 1987, poco prima di morire – è iniziata una lenta ma progressiva riscoperta di questo autore tanto geniale quanto scomodo nel panorama intellettuale della fine del secolo scorso. Il “secolo breve”, che nei primi cinquant’anni aveva conosciuto rivolgimenti epocali e catastrofi senza precedenti come la Shoah e che nella sua seconda metà aveva vista quasi realizzata la possibilità di una “fine della storia”. Dopo la “controrivoluzione” successiva ai grandi movimenti del Sessantotto, la plausibilità di questa “fine” è stata tragicamente messa in dubbio tra le macerie delle torri del World Trade Center di New York, all’alba del nuovo secolo, proprio quando il pensiero di Taubes cominciava a essere riscoperto. Al Sessantotto Taubes ha attivamente partecipato durante il suo insegnamento alla Freie Universität di Berlino, negli stessi anni in cui ha cominciato ad avvicinarsi al giurista teorico del nazionalsocialismo Carl Schmitt. Il loro rapporto ha fatto scalpore nella cultura europea del dopoguerra e il suo ostinato tentativo di seguire le orme di Walter Benjamin e di leggere “contro pelo” in senso rivoluzionario la letteratura fascista non è risultato facile da elaborare soprattutto in Germania. Ci sono voluti alcuni anni prima che il suo dirompente penaut aut, 376, 2017, 149-172

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siero cominciasse a circolare e ad avere i suoi effetti. Non è allora un caso che i suoi scritti siano stati progressivamente ristampati in Germania e tradotti in varie lingue1 e che ultimamente siano usciti diversi e importanti epistolari,2 a testimoniare l’importanza del suo pensiero segnato da un percorso essenzialmente antinomico.3 1. Taubes e la cultura tedesca del dopoguerra Se il legame tra studio e vita è sempre individuabile, ma non necessariamente va reso esplicito in ogni autore, ci sono alcuni casi in cui questo nesso diventa imprescindibile. Taubes è uno di questi. Non è possibile ricostruire ora adeguatamente questo rapporto. Bastino solo pochi cenni biografici per dare almeno un segnale in questa direzione. Taubes nasce a Vienna nel 1923. Nel 1937 si trasferisce insieme alla sua famiglia a Zurigo, dove suo padre, Zwi Taubes, è nominato rabbino capo. Grazie a questo trasferimento viene risparmiato dalla persecuzione nazista, un fatto che segna la sua vita 1. Cfr. almeno J. Taubes, Die politische Theologie des Paulus, Fink, München 1993, 2010; trad. di P. Dal Santo, La teologia politica di San Paolo, Adelphi, Milano 1997; Id., Abendländische Eschatologie (1947), Matthes & Seit Verlag, München 1991, 2007; trad. di G. Valent, Escatologia occidentale, prefazione di M. Ranchetti, a cura di E. Stimilli, Garzanti, Milano 1993; cfr. infine la nuova raccolta Id., Apokalypse und Politik Aufsätze, Kritiken und kleinere Schriften, a cura di H. Kopp-Oberstebrink, M. Treml, W. Fink, München 2017. 2. Cfr. M. Voigts (a cura di), Jacob Taubes und Oskar Goldberg: Aufsätze, Briefe, Dokumente, Königshausen & Neumann, Würzburg 2011; H. Kopp-Oberstebrink, T. Palzhoff, M. Treml (a cura di), Jacob Taubes - Carl Schmitt. Briefwechsel, W. Fink, München 2012; H. Kopp-Oberstebrink, M. Treml (a cura di), Hans Blumenberg - Jacob Taubes. Briefwechsel 1961-1981, Suhrkamp, Berlin 2013; S. Taubes, Die Korrispondenz mit Jacob Taubes. 1950-1951, a cura di C. Pareigis, W. Fink, München 2011 e Id., Die Korrispondenz mit Jacob Taubes. 1952, a cura di C. Pareigis, W. Fink, München 2014. È nota poi la corrispondenza con Ingeborg Bachman, con cui Taubes ha avuto un’importante relazione sentimentale: cfr. “Trajekte (Zeitschrift des Zentrums für Literaturforschung Berlin)”, 10, 2005. Di recente è anche uscita l’edizione aggiornata e accresciuta di J. Taubes, Il prezzo del messianesimo. Una revisione critica delle tesi di Gershom Scholem, a cura e con un saggio di E. Stimilli, Quodlibet, Macerata 2017, che comprende l’epistolario con Scholem, già pubblicato anche in tedesco: cfr. Id., Der Preis des Messianismus. Briefe von Jacob Taubes an Gershom Scholem und anderen Materialen, a cura di E. Stimilli, Königshausen & Neumann, Würzburg 2006. 3. Per una ricostruzione più ampia del pensiero di Taubes rimando alla monografia: E. Stimilli, Jacob Taubes. Sovranità e tempo messianico, Morcelliana, Brescia 2004.

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per sempre. Dopo essere diventato rabbino egli stesso a vent’anni, nel 1947 termina gli studi in filosofia a Zurigo e nello stesso anno pubblica Escatologia occidentale, che resta fino alla fine il suo unico libro vero e proprio. Altrimenti la sua riflessione è legata a saggi brevi o alla lingua parlata. Grazie alla fitta corrispondenza con i maggiori intellettuali dell’epoca (Hans Blumenberg, Leo Strauss, Karl Löwith ecc.) sono note soprattutto le sue lettere, spesso veri e propri testi teorici di volta in volta animati dalle questioni sollevate dall’interlocutore. Negli Stati Uniti, dove si trasferisce dopo gli studi, conosce Gershom Scholem. Dopo questo incontro emerge in lui il desiderio di andare a studiare a Gerusalemme con il più grande studioso di mistica ebraica. Ma la sua relazione con Scholem si rivela presto molto complicata: motivi personali e teorici portano a una rapida interruzione del rapporto.4 Dopo il 1953 da Gerusalemme torna definitivamente negli Stati Uniti, dove diventa professore di Storia e filosofia della religione presso la Columbia University di New York e dove insegna anche in altre prestigiose università americane. La fase tedesca della sua vita ha inizio, invece, quando gli viene assegnata la prima cattedra di Giudaistica inaugurata, nel 1966, presso la Freie Universität di Berlino, che Taubes occupa fino al 1979, quando assume la direzione del nuovo Dipartimento di ermeneutica.5 Sono questi gli anni in cui subisce due gravi perdite: quella di sua moglie, Susan Anima, che si uccide dopo aver pubblicato il libro autobiografico Divorsing e la morte suicida del padre. In seguito a questi eventi drammatici, che segnano il suo equilibrio già piuttosto precario, Taubes è costretto a numerosi ricoveri psichiatrici. Dopo il suo secondo matrimonio con Margherita von Brentano, negli anni della contestazione, diventa il simbolo

4. Sul rapporto personale e teorico tra Taubes e Scholem cfr. le lettere e i materiali contenuti in J. Taubes, Il prezzo del messianesimo, cit. 5. Sulle vicende berlinesi e su molti altri aspetti legati alla vita di Taubes cfr. l’intervista a Jean Bollack contenuta nell’edizione aggiornata e accresciuta di Il prezzo del messianesimo, cit., pp. 151-162.

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Appunti di storia naturale. Warburg, Benjamin e Pauli EMILIANO DE VITO

Panser est le même que penser. É. Littré

Un libro particolare Il celebre Dürers “Melencolia I” pone suo malgrado un problema di continuità con il metodo warburghiano che pure lo ispirò. Da subito i richiami a questo “libro particolare” pubblicato nel 1923 da “due seguaci [di Aby Warburg] ricchi d’ingegno e di dottrina” – così Pasquali nel 1930, a pochi mesi dalla scomparsa del grande amburghese – non si contano. Alcuni casi eminenti: i marginalia apposti da Franz Boll alla copia personale della seconda edizione del suo Sternglaube und Sterndeutung, poi riportati in quella postuma del 1926; un’ampia sezione di Individuum und Kosmos (1927) di Ernst Cassirer; l’excursus sull’incisione di Dürer in quanto germe dello spirito barocco nell’opus maius di Walter Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels (1928). Un’altra, a noi più prossima, stagione di studi storici e critici, quella italiana del secondo Novecento, non mancò di confrontarsi direttamente con il volume del 1923 (pensiamo all’importante studio del 1960 di Eugenio Garin su Le “elezioni” e il problema dell’astrologia), anche dopo l’uscita, nel 1964, della nuova edizione. È il caso, in particolare, di Stanze, l’esordio warbughiano con cui Giorgio Agamben nel 1977 irruppe nel mondo scientifico con una rigorosa “protesta” – così Davide Stimilli in occasione di una recente ristampa del saggio – “contro risultati apparentemente inattaccabili, canonici o classici che dir si voglia, della critica”, ivi inclusi quelli dello studio che qui interessa. Lo scritto del 1923, Dürers “Melencolia I”, di Erwin Panofsky e Fritz Saxl, e quello del 1964, Saturn and Melancholy, di aut aut, 376, 2017, 173-192

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Raymond Klibansky, Erwin Panofsky e Fritz Saxl, sono in effetti due opere distinte, nel senso che, quando gli autori dell’opera del 1923, esaurita la prima tiratura, vi rimisero mano, sentirono l’esigenza di riscriverla a capite ad calcem e non di approntare una semplice versione rivista e ampliata. Avvenne però che, se lo studio moltiplicava il materiale storico discusso, e con esso la sua mole, mutava sensibilmente anche il suo oggetto, e da monografia sulla celebre incisione düreriana virò, sbilanciandosi, verso la trattazione del tema di filosofia naturale che quella incisione, ora, sembrava esprimere quasi come un caso – sia pure il più significativo – tra gli altri. L’equilibrio espositivo raggiunto nella prima opera risultò peraltro, se non compromesso, almeno in parte occultato, quasi a riprova del fatto che l’intenzione sistematica del trattatista e quella cumulativa del filologo à la Wilamowitz, i quali sentono rispettivamente il dovere di esaurire il proprio tema punto per punto e di convocare tutte le fonti conosciute su un certo argomento, non sempre, non necessariamente chiariscono, talvolta opacizzano il gesto gnoseologico. In un certo senso, infatti, fu proprio nell’edizione del 1923 che l’impresa rivelò in modo trasparente la natura del proprio metodo, quasi si trattasse dell’originaria versione cameristica di un’opera sinfonica, dove proprio il sinfonismo finisce per opacizzare la trama contrappuntistica che la innerva. E quel metodo pratica senz’altro magistralmente il contrappunto di conio warburghiano tra Wort und Bild, tra fonti documentarie e figurative; tuttavia, cogliamo qui l’occasione per formulare l’invito a considerare come mai questo studio di Panofsky e Saxl abbia potuto costituire al contempo il primo anello di una tradizione e un precoce tradimento. La linea Giehlow-Warburg-Panofsky-Saxl, “vale a dire la scuola degli occhi più sapienti che abbiano letto, in questo secolo [s’intende il XX], le immagini del nostro passato” (così Roberto Calasso in un breve ma essenziale contributo del 1971), non è in effetti una linea. Il congedo da quel metodo sarebbe venuto in piena luce solo nei lavori successivi di Panofsky e Saxl, e avrebbe trovato il suggello dell’irreversibile nella seconda generazione 174


di warburghiani, ben rappresentata da una “biografia intellettuale” dedicata a Warburg, ma “priva – così lo stesso Calasso in una lezione del 1992 al Collège de France – di qualsiasi congenialità con il soggetto”. Quanto agli sviluppi delle produzioni dei due autori si può osservare – come ha fatto Carlo Ginzburg ricordando Momigliano – che se “Saxl tende a privilegiare l’analisi iconografica, fino a farne uno strumento di ricostruzione storica generale”, in Panofsky si registra una prevalenza delle ricerche iconografiche su quelle tese verso lo strato iconologico del significato di un’opera, cioè verso – nel lessico panofskiano – quella “regione del ‘senso essenziale’” (Region des “Wesenssinns”) che pure rappresentò per questo studioso il momento più alto dell’indagine su opere d’arte figurative. E se il primo – seguiamo le osservazioni critiche dello stesso Ginzburg relative al saggio del 1948 su Dürer and the Reformation – ripiega sull’analisi stilistica ogni volta che “il dato iconografico risulta indifferente o marginale”, il secondo rischia sovente di ricadere nell’estetica tradizionale, cosa che ex post dà piena conferma al giudizio espresso da Benjamin già nel 1928, secondo cui Panofsky sarebbe in fondo “uno storico dell’arte ‘di mestiere’” (“Daß er ‘von Fach’ Kunsthistoriker ist, war mir bekannt”, si legge nella lettera a Hofmannsthal dell’8 febbraio). Dunque non solo l’esigenza di una sapiente vanificazione dei confini disciplinari, così acutamente sentita e costantemente praticata da Warburg, finirà per essere disattesa, ma la sottile facoltà di riconoscimento di cui questi diede prova individuando e definendo Pathosformel quel luogo di equilibrio in cui si neutralizza la distinzione operata dalle categorie estetiche di stile e tema iconografico, di forma e contenuto, non verrà più esercitata con pari forza e coerenza. Gianni Carchia infatti aveva indicato tra le principali cause della dissoluzione dell’eredità di Warburg la panofskiana “preminenza della dimensione del significato”, ovvero l’indebolimento del polo immaginale e visivo rispetto al polo testuale e verbale con cui si compie lo sfaldamento di quello spazio simbolico che invece Warburg aveva colto e conservato nel suo teso equilibrio costitutivo tra contenuto e forma, tra parola e immagine. È pos175


Dialogo su una nuova etica della traduzione FRANÇOIS JULLIEN ELENA NARDELLI

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e è vero che François Jullien non è il primo studioso europeo a confrontarsi con i testi della tradizione classica cinese, è anche vero che da questo incontro egli ha tratto uno stile filosofico inedito ed estremamente efficace, per molti aspetti inimitabile, un hapax nel panorama filosofico contemporaneo. L’ipotesi da cui Jullien prende le mosse potrebbe sembrare una variante dell’ipotesi di Sapir-Whorf dove la grammatica svolge il ruolo dominante: cuius grammatica, eius philosophia, così potrebbe suonare l’assunto di Jullien, poiché ogni filosofia risulta in un primo momento imprigionata nelle strutture portanti della specifica lingua storica nella quale ha luogo. Tuttavia la sua prospettiva non è deterministica, ma trasformativa poiché indica e pratica la possibilità di sfruttare a fondo le risorse interne, spesso nascoste, che ciascuna lingua porta con sé. A condizione, però, di cominciare a frequentarne un’altra le cui strutture differiscano radicalmente da quelle nelle quali siamo abituati a pensare. E la scelta di Jullien non ricade sulla lingua araba o persiana, a suo avviso troppo compromesse dagli scambi con la cultura europea, ma sulla lingua cinese poiché in essa viene custodita una lunga tradizione di pensiero sviluppatasi in maniera più autonoma e originale. Il testo del dialogo è stato stabilito e tradotto da Elena Nardelli sulla base dell’incontro con François Jullien avuto luogo a Milano il 4 aprile 2017. Un ringraziamento va a Marcello Ghilardi per la sua generosa consulenza.

aut aut, 376, 2017, 193-205

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Ne risulta una filosofia dell’écart dall’impianto al contempo semplice e potente. Semplice perché si basa sull’esperienza – ampiamente diffusa e appartenente al senso comune – dello straniamento provocato dal contatto con una cultura differente, in particolare quella cinese. L’esperienza archetipica diviene quella del viaggiatore che, entrando in contatto con l’alterità, prende coscienza di ciò che ha dato fino a quel momento per scontato rimettendolo in discussione. Davanti al tentativo di comprendere la cultura e la lingua cinesi ci sentiamo disarmati e dunque ci lasciamo guidare da Jullien in un percorso curioso e affascinante lungo il quale ci specchiamo nell’alterità che egli tratteggia per noi. Potente perché proprio facendo leva su queste esperienze condivise permette ai testi filosofici di varcare le soglie dell’accademia verso un pubblico più ampio. Il discorso di Jullien è inoltre difficilmente contestabile dall’interno se non da coloro in grado di battagliare con lui ad armi pari nel campo della lingua cinese. Questa filosofia cerca di smarcarsi attraverso il concetto di écart dalle filosofie della differenza che, secondo Jullien, correrebbero il rischio di continuare a giocare alle regole dettate da quello di identità. Essa si muove così in termini non dialettici lavorando sui binari delle alternative più che su quelli dell’opposizione dei contrari, in un duplice gioco di specchi. Il gesto di Jullien si descrive, mostrando il suo debito, come una déconstruction du dehors, mimando quello derridiano nella misura in cui entrambi mirano a riconsiderare gli impliciti della nostra tradizione. Jullien si distacca però dalla déconstruction, pervertendola, nel momento in cui cerca di guadagnare un punto di vista di per sé esterno, un dehors prospettico che non oscilli più tra Atene e Gerusalemme, i pilastri della tradizione occidentale. Questo décalage all’interno del pensiero viene inteso da Jullien come uno scarto, una messa in tensione che producendo un disturbo ci sottrae all’agio della nostra abitudine, lasciandoci in un primo momento spiazzati. Come accade nella saggezza orientale, anche nella filosofia di Jullien la dimensione storica perde il suo peso e sembra invece preponderante la dimensione spaziale, dove la Cina non co194


stituisce tanto una forma di alterità, ma appunto un’eterotopia. Questo passo a lato apre uno spazio di riflessione dove i percorsi filosofici proposti da Jullien attorno ai temi rimasti fino a oggi marginali nel discorso europeo (come per esempio il paesaggio, l’insapore o l’efficacia) rimbalzano tra le pareti della cultura cinese e di quella europea che si fronteggiano specchiandosi. Ne deriva che i pensatori – con un occhio di riguardo forse solo per Nietzsche – vengono sostanzialmente ricondotti al loro blocco unitario e di volta in volta colti per l’esemplarità con la quale incarnano la tradizione, che viene così interpretata come la costante ripresa di un’unica idea in un’infinita serie di emendamenti. Nella filosofia di François Jullien c’è un’invisibile protagonista che silenziosamente muove il pensiero, ma non appena si tenta di coglierla, questa si ritrae e sfugge alla presa: la traduzione. Quella di Jullien non è una vera operazione di risemantizzazione, né uno scavo o una critica del concetto di traduzione. Forse per fare ciò si potrebbe specchiare anche la traduzione nella tradizione cinese al fine di rimodularne i margini e un’opzione potrebbe consistere nell’indagare, come ha fatto per esempio Maurizio Bettini per il mondo romano in Vertere, quale è stato il rapporto della cultura cinese con i processi traduttivi, specialmente prima del violento impatto con l’Occidente all’inizio del secolo scorso. La traduzione viene invece ripetutamente praticata da Jullien e presupposta come momento essenziale e delicato del lavoro filosofico; talvolta, questo momento viene poi esposto e commentato, fornendoci un modello preziosissimo. Qui il filosofo-traduttore, dopo aver forzato i limiti della sua lingua madre, prova a cogliere questo processo descrivendolo nei termini volutamente contraddittori dell’assimilazione e della dis-assimilazione. Tradurre diviene momento preliminare, essenziale ed esemplare per la filosofia, un momento che obbliga chi vuole praticare quest’attività a scomodarsi, a uscire dall’agio del senso comune e di una lingua che si crede propria, per rimettersi in movimento. Da una comune esigenza di accerchiare, al meglio, con un’azione combinata a più mani, quest’operazione per sua natura sfuggente nasce questo colloquio. [E.N.] 195


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