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359 luglio settembre 2013

La potenza del falso Premessa [D.C.] Pierangelo Di Vittorio Come pesci nell’acqua. Prospettive genealogiche sulla mediatizzazione del quotidiano Raoul Kirchmayr Spettralità del falso. Hegel, Freud e al di là Antonello Sciacchitano O contraddittorio o non dimostrato o… Per l’epistemologia del falso Renato Moglia La verifica incerta Damiano Cantone Una richiesta di innocenza per il falso. A partire dalla “mimesis” di Platone Massimiliano Roveretto Lo specchio e il velo. Paradigmi del falso Alessandro Dal Lago, Serena Giordano Giochi di verità. O il contributo dei cosiddetti falsari all’arte Boris Groys Iconoclastia come strumento artistico. Strategie iconoclaste nel cinema Roy Menarini Strategie del falso nell’epoca del post-cinema Paolo Fabbri “Yes, we (Zombies) can”: attualità mordace del Non Morto Telmo Pievani Ingannare e ingannarsi: le ragioni del falso in natura Marcello Ghilardi Il vero, il falso, il Dao

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rivista fondata da Enzo Paci nel 1951 direttore responsabile: Pier Aldo Rovatti redazione: Sergia Adamo, Paulo Barone, Graziella Berto, Deborah Borca (editing, deborahborca@libero.it), Damiano Cantone, Mario Colucci, Alessandro Dal Lago, Pierangelo Di Vittorio, Giovanna Gallio, Edoardo Greblo, Raoul Kirchmayr, Giovanni Leghissa, Massimiliano Nicoli, Ilaria Papandrea, Fabio Polidori, Rosella Prezzo, Pier Aldo Rovatti, Massimiliano Roveretto, Antonello Sciacchitano, Giovanni Scibilia, Davide Zoletto direzione: c/o il Saggiatore, via Melzo 9, 20129 Milano sito web: autaut.ilsaggiatore.com collaborano tra gli altri ad “aut aut”: G. Agamben, H.-D. Bahr, R. Bodei, L. Boella, S. Borutti, J. Butler, M. Cacciari, A. Cavarero, R. De Biasi, G. Dorfles, M. Ferraris, U. Galimberti, P. Gambazzi, S. Givone, A. Heller, F. Jullien, J.-L. Nancy, A. Prete, M. Serres, G.C. Spivak, G. Vattimo, M. Vegetti, P. Veyne, V. Vitiello, S. Žižek per proposte di pubblicazione: autaut@ilsaggiatore.com Si fa presente che “aut aut” non pubblica recensioni e non accetta testi di ampiezza superiore a 40.000 battute (note e spazi compresi).

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Premessa

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ccuparsi del falso può apparire oggi una battaglia di retroguardia, addirittura nostalgica se non reazionaria. Siamo tutti ben consapevoli di vivere in una realtà intessuta di finzione, alla quale possiamo credere fino a un certo punto: lo abbiamo ormai accettato e ci siamo adattati. Da decenni con cinico buon senso ci ripetiamo che non possiamo credere a tutto quello che vediamo o sentiamo, e l’ingenuità di quanti rimangono vittime delle apparenze, siano migranti che vengono – forse è meglio dire venivano – in Italia sedotti dalla nostra televisione o elettori che non smettono di credere alle promesse dei demagoghi, non ci spinge più in là di uno stupore infastidito. Diamo per scontate la finzione e la simulazione, e del resto la storia degli ultimi due secoli (l’invenzione della fotografia risale proprio al secondo decennio dell’Ottocento) è il racconto di come le immagini abbiano progressivamente sostituito le cose nella nostra esperienza del mondo. Certo le immagini accompagnano l’umanità da ben prima che nascesse la scrittura e di conseguenza la storia, eppure solo la possibilità della loro riproduzione tecnica e seriale, mettendo fuori gioco la mano dell’uomo, ne ha scatenato la potenza omnipervasiva che le ha rese progressivamente un perfetto sostituto dell’esperienza. Il cinema, la televisione e poi il computer e gli smartphones presentano diverse versioni di uno schermo che cattura il nostro sguardo, le nostre attività coscienti e le nostre emozioni, occupando un tempo progressivamente crescente delle nostre vite. Lo schermo aut aut, 359, 2013, 3-8

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è l’oggetto della moderna contemplazione interattiva che di volta in volta definiamo lavoro, divertimento, amicizia, amore, gioco ecc. Come sottolinea Di Vittorio nel suo articolo, la vecchia coppia di nemici, realtà e finzione, si è trasformata in un groviglio di reality e fiction difficile da separare. Un groviglio permeabile e a prima vista a-problematico, nel quale ci muoviamo perfettamente a nostro agio, fino a essere “i primi medium della nostra suggestione”. Sappiamo benissimo che i nostri amici su Facebook non sono i nostri veri amici, e non confondiamo un amico virtuale con uno reale, eppure la loro distanza si assottiglia sempre di più. Al falso siamo dunque abituati, abbiamo imparato a non temerlo, e anzi a intuirne anche le potenzialità emancipatrici. L’ampliarsi delle possibilità di comunicazione, l’accesso a una quantità praticamente illimitata di informazioni sono indubbiamente dei fattori positivi, e pazienza se non è sempre facile verificare l’affidabilità delle notizie pubblicate in rete o se chattiamo un pomeriggio intero con qualcuno che si rivela essere solo un programma informatico che genera falsi accounts. Ci fanno sorridere i discorsi di quanti rimpiangono un mondo più semplice e in larga parte mitologico nel quale i rapporti personali erano più autentici, potevamo conoscere la provenienza del cibo che mangiavamo e riparare da soli gli oggetti che si rompevano senza necessariamente doverli buttare. Tuttavia spesso a questa trasformazione sul piano dell’esperienza non corrisponde un’adeguata comprensione del problema. Proprio in questa abitudine pacificata si nasconde, a nostro avviso, il motivo di interesse del tema del falso, il punto a partire dal quale rilanciare la questione al di là di ogni fatalistica accettazione del presente. Non si tratta certo di fare l’elogio del falso, ma neppure di indicare nuove forme di vero che a esso si oppongano, riproponendo la mossa classica e fatale della filosofia che intende proteggere la verità dai pericoli del falso. Se così facessimo, sarebbe difficile uscire dagli stilemi attraverso i quali il falso è sempre stato pensato, che fanno appunto riferimento al suo rapporto con il vero, un rapporto che è inevitabilmente destinato a gerarchizzarsi a vantaggio di quest’ultimo. 4


Nel presente fascicolo di “aut aut” cominciamo perciò a intraprendere un lavoro di mappatura del falso, cercando di osservarne gli effetti e di comprenderne i funzionamenti. Proprio per il suo carattere non unitario, il falso richiede di essere affrontato da prospettive e con approcci differenti. Cominciamo innanzitutto col chiarire quelli che sono i presupposti del discorso sul falso. A questo proposito Sciacchitano ripercorre la storia dell’epistemologia del falso, mostrando come con Cartesio, e dunque con quella particolare forma di sapere che prende il nome di scienza, si sia passati da una concezione negativa del falso in quanto contrapposto al vero al considerare il falso come verosimile, e quindi suscettibile di successivi miglioramenti. Se possiamo affermare che il falso rende possibile la scienza, dobbiamo tuttavia valutarne attentamente le forme: solo ripensandolo radicalmente possiamo ricavarne gli elementi fecondi per il sapere stesso. Alla fine, come intuì anche Freud senza comprenderlo del tutto, “il falso è il discorso dell’infinito”, un discorso che dobbiamo ancora imparare a maneggiare. Cartesio è il riferimento-cardine anche per Moglia, che ricostruisce la scena del passaggio chiave dell’epistemologia moderna, fondata sull’affermazione cogito ergo sum. Scena è certo un termine importante, perché è solo sullo sfondo del Barocco e della sua intrinseca teatralità che possiamo comprendere l’irruzione, in filosofia, del dubbio. Tale dubbio non è quello dello scettico, ma il dubbio scientifico, capace di revocare lo statuto di verità di ogni epistemologia precedente. La verità smette di essere considerata equivalente al sapere: “Cartesio istituisce eticamente il soggetto della scienza come soggetto diviso tra un intelletto finito e una volontà infinita, tra un sapere finito e una verità infinita”. La potenza del falso viene esplicitamente messa a tema da Kirchmayr, in un percorso che attraverso Hegel e Freud ci porta a confrontarci con le posizioni, apparentemente inconciliabili, della psicoanalisi lacaniana e delle filosofie di Lyotard e Deleuze. La posta in gioco, l’elemento di scambio che circola tra il vero e il falso è quello del fantasma, uno spettro che con il suo incerto statuto circola come una moneta falsa all’interno della filosofia degli 5


ultimi due secoli, scardinandone e confondendone continuamente le prospettive. Solo cominciando a pensare il falso a partire da questo resto spettrale, da questo elemento indefinibile, possiamo confrontarci con “quell’iscrizione sociale archi-originaria in cui si stringono le pulsioni di vita e di morte”. Ci sono poi dei punti di osservazione privilegiati a partire dai quali affrontare il problema degli effetti del falso: l’arte è sicuramente uno di questi, almeno per due motivi principali. Il primo ha a che fare con la storia della filosofia, e con il fatto che essa ha sempre guardato all’arte con un misto di interesse e diffidenza proprio per la sua capacità di relazionarsi con il falso in modo così disinvolto. Sono due gli articoli che, prendendo le mosse dal momento inaugurale di questo rapporto, sviluppano tesi complementari: nel mio ripercorro la concezione platonica del falso in relazione all’arte per mostrare come nel pensiero del filosofo ateniese convivano su questo argomento diversi livelli di discorso, trascurati dalle sistematizzazioni successive, ma che ancora hanno una notevole efficacia per ripensare la forma attuale del falso come potenza; Roveretto mostra come a partire da questo punto di scontro iniziale l’arte sviluppi una sua idea di falso che corre parallela al percorso storico della concettualizzazione filosofica. Anziché considerarlo un nemico da combattere, l’arte ha ricercato il falso puro, il falso che fosse tale in se stesso, slegato da ogni strategia che puntasse a ricondurlo a una qualche forma di realtà e di verità. Il secondo motivo è che l’arte è diventata un elemento pervasivo della nostra esperienza del mondo, estetizzando massicciamente la realtà con cui dobbiamo rapportarci. Dal Lago e Giordano ci mettono di fronte ai paradossi nei quali ci imbattiamo quando cominciamo ad analizzare il problema dei falsi in arte. Il falso non sta certo dalla parte dell’opera, né completamente da quella dell’autore: piuttosto esso è un effetto sociale, il risultato di un intreccio di intenzioni individuali e meccanismi culturali condivisi che vanno a formare una sorta di costellazione del falso, un’opera corale nella quale spesso gli attori recitano in modo involontario e inconsapevole. Le trasformazioni sociali generate dall’ambiguo rapporto tra arte e verità sono il punto di partenza anche del la6


voro che Groys dedica al potenziale iconoclasta del cinema. Esso è caratterizzato da un paradosso di fondo: “Da una parte è una celebrazione del movimento, la prova della sua superiorità su tutti gli altri media; dall’altra, tuttavia, pone il suo pubblico in uno stadio di immobilità fisica e mentale che non ha eguali”. Al tempo stesso è cioè nemico di ogni iconizzazione e monumentalizzazione della realtà, che fa letteralmente a pezzi in un’ottica avvicinabile alle emergenze rivoluzionarie e carnascialesche della storia dell’umanità contro i sistemi di valori consolidati, e un formidabile dispositivo di passivizzazione dello spettatore. Al cinema, o per meglio dire al post-cinema, si rivolge anche l’attenzione di Menarini. Il suo saggio si interroga su come sia possibile parlare di falsificazione rispetto ai film: se infatti è piuttosto marginale il problema dei “film falsi”, almeno in proporzione a quanto avviene per la pittura o la scultura, si fa sempre più forte la questione della falsificazione del supporto. Il progresso tecnico dei media ha portato con sé una trasformazione della fruizione del film (dal dvd che si può arrestare quando si vuole al filmato su YouTube che si può manipolare a piacimento), che, al di là di un semplice problema di copyright, rilancia una questione di autenticità del cinema apparentemente distante dall’orizzonte problematico di un’opera che vive solo attraverso le sue copie. L’approccio semiotico al tema del falso passa, nell’articolo di Fabbri, attraverso l’analisi del termine “zombi”, protagonista dell’immaginario orrorifico contemporaneo. Lo zombi è una buona cartina di tornasole per dirci cosa siamo “in verità”, dato che intercetta in modo trasversale tutta una serie di dibattiti filosofici sul rapporto mente-corpo, vita-morte, responsabilità individuali ecc. È un esempio calzante di quanto intendiamo per “effetti del falso”, ovvero di come un’invenzione letteraria così radicale ci costringa a ripensare profondamente le categorie con le quali giudichiamo “chi siamo davvero”. Passando a un approccio che prende le sue mosse dalla filosofia della scienza, e in particolare dalla biologia evoluzionista di stampo darwiniano, ci misuriamo con l’ipotesi di Pievani, secondo la quale ci sarebbe una predisposizione biologica al falso, nella doppia 7


accezione dell’ingannare e del farsi ingannare. La natura ci mostra mirabili strategie del falso, dalle rane pescatrici alle orchidee, ma se veniamo all’analisi della nostra specie ci imbattiamo in un elemento ancora più inquietante. Sembrerebbe esserci una naturale tendenza dell’uomo ad autoingannarsi, a sviluppare credenze che non sono corroborate da alcun dato, e che pure possono avere una loro importanza in termini di mantenimento della coesione sociale e del rispetto delle regole. Il falso dunque è una presenza costante, “tanto nella specie umana quanto negli altri animali, per ragioni autonome e non come riflesso negativo di una ricerca della comunicazione veritiera”. Infine il testo di Ghilardi ci invita a spostare radicalmente il nostro punto di vista, proponendoci un confronto con la concezione del falso presente nel pensiero cinese. Innanzitutto scopriamo che la distinzione tra vero e falso non è un problema prioritario per il pensiero cinese, ma è subordinato a quello dell’efficacia del loro uso nella realtà concreta. Essi non si contrappongono come le due istanze consegnateci dalla tradizione occidentale, ma sono predicabili solo a partire dall’unico corso degli eventi. Il compito del pensiero sarà dunque “saper cogliere ed esprimere non tanto ciò che è nettamente definito, separando in maniera univoca il vero dal falso, ma al contrario ciò che sta tra il vero e il falso”. [D.C.]

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Come pesci nell’acqua. Prospettive genealogiche sulla mediatizzazione del quotidiano PIERANGELO DI VITTORIO

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ogno o realtà? Con questo dubbio Inception prende congedo dallo spettatore fissando il disagio che non ha smesso di crescere nel corso del film.1 Dominic Cobb è un “estrattore” che entra nei sogni per rubare informazioni, e che un giorno accetta di “innestare” nella mente di Robert Fischer, erede di un grande impero economico, l’idea di smantellarlo. In cambio, gli viene promesso di cancellare le false accuse che gli impediscono di rientrare nel suo paese. Alla fine del film, dopo aver portato a termine l’innesto, grazie a una peripezia onirica degna di un action movie, il protagonista passa senza problemi la dogana e può finalmente riabbracciare i suoi figli. Il disagio esplode nel momento in cui il dubbio – sogno o realtà? – ricompare nel finale, prendendo in contropiede lo spettatore già pronto all’happy end. Quando appare il “totem” – un oggetto strettamente personale e segreto, che dovrebbe offrire la certezza di non essere nel sogno di un altro o di poter distinguere il sogno dalla realtà –, vediamo una piccola trottola di metallo girare, vacillare, girare ancora, prima che la schermata nera sancisca la fine del film. Lo spettatore non può decidere se essa ricadrà sul tavolo, come avverrebbe nella realtà, o se continuerà invece a girare all’infinito, come in un sogno. La Una precedente versione di questo saggio è stata pubblicata in Envoûtements médiatiques, “Multitudes”, 51, 2012. 1. C. Nolan, Inception, Usa/Regno Unito 2010.

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fine è quindi “aperta”, e questa sospensione produce l’effetto di implicare gli spettatori nel problema dell’erosione delle frontiere tra il sogno e la realtà. La sensazione di smarrimento, rinforzata dalla sospensione dell’happy end, serve a impiantare nella loro mente l’idea, o almeno il sospetto, che la realtà sia, in generale, solo la continuazione di un sogno o di un film. La scena dell’ipnosi Inception interroga il rapporto tra la realtà e il sogno, pensandolo in termini di continuum, di confusione delle frontiere o di rovesciamento gerarchico. Significativa la scena nel retrobottega del chimico che elabora i sedativi necessari a sprofondare nei sogni. Simile a una fumeria d’oppio, si vedono alcune persone distese sul letto: “Vengono qui, non per essere addormentate, ma per essere svegliate, perché il sogno è diventata la loro realtà”. Questo rovesciamento allude alla questione del “sovrappiù” di sogno necessario alla realtà per manifestarsi come tale. Questione che rinvia senza dubbio al surrealismo, con la sua idea del “meraviglioso”, frutto della costante espansione della vita cosciente da parte della vita onirica, e capace di sospendere la realtà aprendola ad altre possibilità di senso e di esistenza. Ma si può pensare anche a un’altra forma di “surrealismo”, che non ha affatto la stessa portata, e che è il prodotto massiccio e industrializzato del medium televisivo. In Videodrome, il professor Brian O’Blivion, fondatore della “Chiesa Catodica”, fa l’annuncio apocalittico di una nuova religione universale: “Lo schermo televisivo è ormai il vero occhio dell’uomo… La televisione è la realtà, e la realtà è meno che la televisione”.2 Il riemergere di questa problematizzazione del rapporto tra sogno e realtà può essere interpretato in due modi diversi, che non si escludono a vicenda. In primo luogo, è evidente che tale questione è come una freccia che, percorrendo tutta la curva storica del cinema, torna a interrogare le sue origini segrete: “A causa della sua natura ipnotica, il cinema costituisce il linguaggio più penetrante che il genere umano abbia concepito, essendo 2. D. Cronenberg, Videodrome, Canada 1983.

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capace di inoculare a grande velocità concetti e desideri nella nostra mente”.3 Il cinema sarebbe in fondo, in quanto tale, una pratica di innesto, che potrebbe trovare la propria origine nella “scena dell’ipnosi”: matrice comune dalla quale sorgono e si sviluppano, al tempo stesso, il cinema e le scienze psicologiche, tra cui la psicoanalisi, ossia una forma di spettacolo e una forma di scienza. È questa genealogia che cercheremo di tracciare, per considerare se il fenomeno della reality television, e più in generale l’universo attuale del reality show come fusione di realtà e spettacolo, non si inscrivano ancora, in un modo o nell’altro, nella scena originaria dell’ipnosi. La seconda chiave di lettura è che la confusione delle frontiere tra la realtà e il sogno (o più in generale tra la realtà e tutte le sue mediatizzazioni a livello di finzione o di spettacolo) sia sentita oggi con una preoccupazione accresciuta, per ragioni al tempo stesso politiche e culturali in senso ampio, concernenti le condizioni di produzione della “verità” nel mondo contemporaneo.4 Basti pensare alle ricorrenti prese di posizione in favore di un certo “realismo” – si tratti di letteratura, di arte o di sapere scientifico e filosofico –, il cui limite è che ignorano, o fanno finta di ignorare che oggi i prodotti culturali capaci di sedurre un pubblico e di trovare un posto nel mercato sono quelli che riescono a fondere la realtà e la finzione, fino a non poterli più distinguere. Si predica il realismo, ma si finisce spesso per contribuire alla “messa in spettacolo” della realtà. Vecchi e nuovi carismi Il reality show rappresenta l’incarnazione operativa di una sorta di double bind: fusione perfetta della realtà e della sua mediatizzazione spettacolare; della banalità o della trivialità quotidiane e della loro trasposizione onirica o ipnotica; della vita ordinaria e 3. O. Senna, citato in R. Bellour, Le corps du cinéma. Hypnose, émotions, animalités, Paris 2009, p. 21. 4. In Italia, questa discussione intorno al rapporto tra la realtà e il sogno, la finzione, lo spettacolo ha potuto appoggiarsi su un’evidenza politica maggiore: il “populismo mediatico” di Silvio Berlusconi. POL,

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Spettralità del falso. Hegel, Freud e al di là RAOUL KIRCHMAYR

1. Hegel, la moneta e il diavolo Il discorso filosofico pone se stesso come accesso alla verità e come modo cui giungervi. Cammino e metodo sono i due poli tra cui la filosofia si colloca e si dibatte, nella contesa tra pensiero e calcolo, tra esperienza e ragione. A seconda del maggiore o minore rilievo dato al cammino o al metodo, il pensiero si presenterà più nei termini di un’esperienza che di una scienza o viceversa, accentuando così la sua apertura ad altri discorsi o, al contrario, la sua volontà egemonica a porsi quale fondamento stesso del discorso. Nel caso dell’accentuazione del percorso, il pensiero fa esperienza dell’altro da sé, toccando ciò che gli è eterogeneo, attraversandolo e serbandone la memoria. Nel caso dell’accentuazione del metodo, esso tende a presentarsi come un’architettura razionale del sapere collegata a una logica apofantica. Il XX secolo ha imbrogliato i cammini, confuso i percorsi, destituito le ragioni. Le vicissitudini del pensiero contemporaneo hanno rimescolato i termini. Dopo Nietzsche non possiamo non vedere come la messa in questione della verità sia un tratto specifico di quel che rimane della metafisica occidentale. Se il compito del pensiero è di mettere in questione tale volontà di verità – con i suoi effetti di dominio e potere –, allora non sarà più possibile ripetere il gesto con cui la metafisica ha preteso di gettare le fondamenta di una conoscenza vera, di svelare ciò che è vero e reale di contro a ciò che è falso e apparente, di definire le metodologie per una esatta (o logica) rappresentazione del mondo. aut aut, 359, 2013, 27-43

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Di contro alla volontà della filosofia di presentarsi come il discorso che giunge all’evidenza quale fonte di verità, occorre procedere su un terreno impervio e cedevole dove l’opposizione tra il vero e il falso smette di fare la legge, rivelandosi piuttosto l’effetto sistematico di un’articolazione archi-originaria e mai riducibile a un’onto-teologia. Tale terreno instabile è più antico dei fondamenti della metafisica, ne fornisce il fondo mobile e irriducibile alla semplice presenza: non ci troviamo più in regime di sola rappresentazione, siamo in un altro ordine discorsivo, spazio-temporale e di visibilità, dove prevale la logica della simulazione, del simulacro e del sembiante, delle “potenze del falso” (Deleuze). Non possiamo più solamente pensare in termini di falso e di falsificazione, quando l’opposizione tra vero e falso è usurata, quando vale tutt’al più in settori parziali di “realtà” e quando ciò che garantisce la rappresentazione è piuttosto una incessante produzione tele-tecnica di spettralità. Per scelta e per un certo gusto dell’intempestività mi accingo a indicare un percorso che, dentro e fuori la filosofia, ritorna a Hegel e a Freud per mostrare alcuni punti in cui la metafisica della presenza e della rappresentazione mostra smagliature e cedimenti. Per iniziare prenderò a esempio una pagina, tratta dalla Premessa della Fenomenologia dello Spirito di Hegel, dove ne va appunto del vero e del falso. Mi limiterò a indicare dei tracciati che sono altrettanti bordi di una scucitura, quella che il discorso metafisico mostra ogni qualvolta tenta di mettere economicamente a regime il falso. L’ipotesi che mi guida è che in trasparenza al tessuto del testo, una certa imbastitura del discorso si lascerà vedere. Per mostrare, nel movimento testuale, il lavoro di imbastitura, si rende necessario un contro-movimento, una scucitura-ricucitura che farà appello a una certa psicoanalisi freudiana. Non tanto nel senso che riferendosi alla sua eredità ne imiterà il gesto – poiché lo stesso Freud, come si sa, non riuscì a prendere congedo da una certa volontà di verità e da una certa metafisica rappresentativa – quanto nel senso che sono i tracciati della psicoanalisi a mostrarci il revers del discorso filosofico. Perciò mi limito ad affermare la necessità metodologica di questa scelta in ordine al problema del falso, delle sue 28


potenze e della falsificazione: la psicoanalisi ha fornito un accesso discorsivo al fondo archi-originario, aprendo e aprendosi a esso, in modo tale da porre una delle grandi questioni teoriche che sono in grado di dislocare in un colpo solo l’intera pretesa metafisica di fornirci l’accesso alla verità. Con la questione del fantasma (ancora solo in parte metafisica) la psicoanalisi effettua la dislocazione, a patto che con essa non riduca il significante “fantasma” alla sola sfera soggettiva, ma lo si disponga in uno spazio che non è né soggettivo né oggettivo e in un tempo che è quello della sua apparizione fugace nell’attimo; in altre parole, che lo si reperisca nello spazio-tempo, sempre anacronico, di una fantasmagoria e di un’apparizione spettrale. I fantasmi e gli spettri: Hegel avrebbe voluto saperne, o quanto meno ci ha fatto credere di saperne, se non altro convocandoli come effetto di doppio prodotto dal discorso del Geist. La lezione che Hegel ci ha lasciato circa la sintassi del vero e del falso, circa il movimento del Geist – che per lui non poté che essere un progredire, tappa dopo tappa, verso l’autò del pensiero stesso –, dà ancora oggi da pensare. E ciò che ci dà da pensare è, in primo luogo, lo scambiarsi dei posti tra il vero e il falso, secondo un principio di permutabilità che sembra appartenere, più che alla tragica durezza di un Weltgericht (in cui ne va di un giudizio che vuole affermare la verità), al mobile mascheramento di una commedia teatrale. Contro una concezione statica del rapporto tra vero e falso, Hegel rivendica la loro reciprocità come altrettanti movimenti del Geist. Dopo aver fissato il rapporto tra il vero e il movimento del Geist nel circolo della “logica o filosofia speculativa”,1 egli si domanda retoricamente: “A che scopo infatti occuparsi del falso?”.2 In effetti, Hegel mette in guardia dalla tentazione di voler disfarsi del negativo riducendolo semplicemente al falso e di commisurare il progresso del sapere come percorso che conduce “senz’altro alla verità”.3 Di conseguenza scrive: “Il vero e il falso appartengono 1. G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito (1807), trad. a cura di G. Garelli, Einaudi, Torino 2008, p. 27. 2. Ibidem. 3. Ibidem.

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O contraddittorio o non dimostrato o… Per l’epistemologia del falso ANTONELLO SCIACCHITANO Veritas odium parit. Cicerone En logique classique […] le faux ne s’aperçoit pas qu’à être de la vérité l’envers, il la désigne aussi bien. J. Lacan, L’étourdit

1. Cosa dobbiamo intendere per “falso”? Sul piano strettamente logico le concezioni del falso che in filosofia hanno tenuto banco sono essenzialmente due, con prevalenza della prima sulla seconda: la classica e l’intuizionista; la prima, ontologica, intende il falso come contraddittorio; la seconda, epistemica, concepisce il falso come non dimostrato. Aristotele pose il principio di non contraddizione a fondamento della logica classica come principio metalogico, che non si può dimostrare contraddittorio senza implicarlo. Inteso come contraddittorio, il falso fu espulso – Lacan direbbe “fuorcluso” – dalla buona logica, cioè dal pensiero; così è stato da Platone in poi fino al galileiano Simplicio.1 Il campo della verità logica è classicamente coesteso al campo del non contraddittorio. In Kant il non contraddittorio stabilisce la portata necessaria e universale delle categorie trascendentali. Per Hilbert, fondatore della matematica formalista, il non contraddittorio fornisce il criterio di esistenza di un oggetto matematico, anche quando non lo si sappia effettivamente individuare per via algoritmica. La coppia

1. “Sembra impossibile opinare alcunché falsamente” (Platone, Teeteto, 188c). “La scienza è de’ veri e non de’ falsi” (G. Galilei, Dialogo dei massimi sistemi, 1632, in Opere, a cura di F. Flora, Ricciardi, Milano-Napoli 1953, p. 506). Cfr. anche: “Delle cose che io tengo false non credo di poterne saper nulla” (ibidem). Da contraddittorio, il falso non si può pensare; renderebbe il pensiero contraddittorio.

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non contraddittorio-contraddittorio equivale formalisticamente alla coppia esistente-non esistente senza margini di incertezza.2 (Qui dovrei aprire un’ampia parentesi psicoanalitica sui rapporti tra falsità e incertezza, magari spinta fino a mettere in questione tutta la portata del dubbio cartesiano. I presupposti di ogni dubbio risalgono alla questione infantile: “Chi è mio padre?”. Pater incertus, si sa. Allora le religioni corrono ai ripari e propongono la certezza del padre unico uguale per tutti. Una soluzione evidentemente troppo drastica. Freud a suo modo, alquanto riduttivo, offre delle certezze soggettive, rispondendo: “È tuo padre chi ti castra”, cioè, lacanianamente parlando, chi ti separa dalla madre. Come si vede, pur di avere delle certezze, il soggetto è disposto ad ammettere il falso, “a fare carte false”, come si dice. Segnalo il punto e procedo oltre con il discorso epistemologico.) In effetti, più che metalogica la proposta di Aristotele era metafisica. Infatti, lo Stagirita intendeva convalidare l’ontologia parmenidea dell’essere che è e del non essere che non è, nel momento in cui tentava di indebolirla – generalizzandola – come passaggio dall’ontologia della potenza a quella dell’atto. Per Aristotele l’ontologia in potenza era regolata dal principio di ragion sufficiente, secondo cui c’è sempre una causa che regola la transizione (metabolé) dalla potenza all’atto; concretamente, nella fisica aristotelica occorre sempre un corpo in moto per muovere un altro corpo; e questo lo crede tuttora il senso comune.3 L’ontologia in atto era governata da tre principi logici che, per millenni, fino alla Grande logica di Hegel, sono state verità

2. Il principio di esistenza, che vale in logica classica ma non in logica intuizionista, è una variante della legge di doppia negazione: se qualcosa non implica contraddizione, allora quel F) x.f(x), dove è il simbolo della negazione, qualcosa esiste. In formule, ( x.f(x) il quantificatore esistenziale applicato alla variabile x, il simbolo dell’implicazione e F) equivale a x.f(x), il principio classico F è la marcatura del falso. Poiché ( x.f(x) x.f(x) x.f(x). In logica classica il principio di non di esistenza si può scrivere: contraddizione, essendo non contraddittorio, esiste onticamente. Ciò rende la logica classica una logica “interna” all’ontologia. 3. Sotto l’occhiuta sorveglianza del buon senso medico o giuridico in posizione superegoica.

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indiscusse – “logiche” per antonomasia;4 precisamente, per ogni proposizione A valgono: 1. principio d’identità: è impossibile che A abbia un valore di verità diverso dal valore di A;5 2. principio di non contraddizione: è impossibile che A e non A siano entrambe vere; 3. principio del terzo escluso: è impossibile che A e non A siano entrambe false.6 L’abbozzo di formalizzazione aristotelica, fortemente binaria, regolava il funzionamento degli operatori logici non, vel ed et, nonché parzialmente dei quantificatori per ogni ed esiste; la formalizzazione sarà perfezionata nel XIX secolo da Boole nell’algebra che fornisce una semantica della logica classica. Perché dico fortemente binaria? Perché prevede solo due valori di verità: il vero e il falso? No, anche nell’approccio intuizionista i valori di verità sono due. Le differenze tra le due logiche stanno nelle transizioni tra i due valori di verità. Il passaggio dal vero al falso attraverso la negazione avviene in logica intuizionista come nella classica: la negazione del vero è il falso. Dico che la logica classica è fortemente binaria perché la negazione inversa dal falso al vero avviene incondizionatamente: la negazione del falso è sempre e comunque vera. Allora dico che l’intuizionismo è debolmente binario perché la transizione dal falso al vero è soggetta a certe restrizioni; 4. In effetti, in logica classica i tre principi sono uno solo, essendo equivalenti. Si tratta di binarismo forte. Nel Libro IV della Metafisica Aristotele considera il principio del terzo escluso un corollario del principio di non contraddizione. Curiosamente, i tre principi si differenziano solo all’interno della logica intuizionista, che indebolisce il binarismo sospendendo il terzo escluso, considerato non equivalente agli altri due principi, a loro volta considerati tra loro equivalenti. Classicamente si parla, infatti, di principio di identità-non contraddizione, che fonda tutto il logocentrismo occidentale. 5. Il principio di identità viene meno in logica lineare, dove le singole occorrenze di A possono assumere valori di verità diversi, per esempio in funzione del tempo. 6. È in un certo senso naturale elevare la logica modale del “necessario” e del “possibile” a metalogica della logica apofantica. Il contraddittorio, infatti, dà dell’impossibile un modello non esistente “interno” alla sintassi. La catena logica delle implicazioni è: contraddittorio impossibile. Questa logica modale corrisponde al sistema formale S4 di Lewis, che tratta l’impossibile come “dimostrazione del contrario”. Con un’opportuna trascrizione Gödel provò S4 equivalente alla logica intuizionista (K. Gödel, “Un’interpretazione del calcolo proposizionale intuizionista”, 1933, in Opere, a cura di S. Feferman, trad. di S. Bozzi, Bollati Boringhieri, Torino 1999, vol. I, p. 222).

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La verifica incerta RENATO MOGLIA

1. Avanzando sotto mentite spoglie Il tema del falso in filosofia mi suggerisce qualche rapsodica considerazione sul secolo – il XVII – in cui nasce il moderno soggetto della scienza. Soggetto che nella sua prassi intellettuale indebolisce la categoricità del rapporto vero-falso, indebolendo la logica binaria aristotelica. L’epoca barocca, infatti, presenta in un nuovo intreccio il rapporto intercorrente tra menzogna e verità. In questo senso, il secolo XVII rappresenta un modello di transizione e di passaggio da uno statuto ontologico del sapere e della verità a uno statuto epistemico del sapere e della verità. Con Cartesio, vero e falso entrano in una dimensione meno assoluta, meno binaria; il principio del terzo escluso – e con esso anche i principi di non contraddizione e di identità – viene indebolito dalle bordate della letteratura, del teatro, della pittura, della musica e dell’architettura – oltre a quelle derivanti dalla performance cartesiana. Nell’epoca barocca il nuovo avanza: assistiamo allo svilupparsi delle moderne forme espressive del romanzo e del dramma; viene alla luce il melodramma moderno, nuova unione tra parole, rappresentazione teatrale e musica. Una nota sociologica: nasce il teatro pubblico a pagamento. I potenti nelle città concedono alla popolazione “luoghi dati al pubblico per l’esercizio di spettacoli”; così il teatro diventa “stabile” nel tessuto urbano. Nasce il pubblico pagante che determina autonomamente il successo o l’insuccesso di una rappresentazione. Questo pubblico, col suo gusto nascente, diventa parte attiva dello spettacolo, entrando di fatto nella rappresentazione e influenzando aut aut, 359, 2013, 63-72

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l’intera macchina teatrale. Il teatro diventa lo spazio fisico – nella disposizione dei posti e nella planimetria ellittica della platea – di rappresentazione sinottica dell’ordine sociale. Diventa anche luogo di controllo, di tartuferia, di delazione e verifica dell’ortodossia. È proprio questo controllo rigido, equivalente nell’area riformistica e in quella controriformistica, che obbliga le modalità espressive a perseguire la dissimulazione, l’allusione e la doppiezza. Si tratta di una vera e propria rivoluzione culturale. “Io non sono quel che sono” proclama Jago, che trasforma un fazzoletto nella vela che raccoglie il vento tempestoso della gelosia. “Sono un uomo senza nome” dice il seduttore e adescatore Don Giovanni. Le maschere, se con l’anonimato salvano dagli agguati, dall’altro lato rendono anonimi anche i sicari e i loro mandanti. Le maschere rendono invisibili, impenetrabili, allusivi, elusivi e sfuggenti, anonimi e insidiosi, ipocriti, impostori e traditori.1 Sul palcoscenico del secolo i personaggi si impossessano di altre identità, a volte inventate ex nihilo; a volte ci si impossessa dell’identità di un altro, spesso attraversando in entrambi i sensi l’incrocio delle differenze sessuali. Infatti, mai come in questo secolo il maschio della nostra specie risulta imbellettato, adornato e travestito, tutto impegnato in una performance di femminilizzazione nei modi e nella figura del cicisbeo. La scrittura e la sua rappresentazione diventano cifra di un discorso dissimulato che nei suoi travestimenti rende incerta anche l’identità sessuale. La teatralità, il gusto ridondante della rappresentazione e del rappresentarsi coinvolgono anche le altre arti: la musica, con l’arte della fuga e dell’improvvisazione; l’architettura, con il trionfo di forme ellittiche e iperboliche, la contaminazione dei generi e degli spazi e con un prospettivismo ingannatore; la pittura, dove il pittore si rappresenta e appare sulla scena del quadro.2 Ma è 1. Cfr. S. Nigro, Impostura e verità: il modello barocco, in N. Borsellino e W. Pedullà (a cura di), Storia generale della letteratura italiana, vol. VI: Il secolo barocco. Arte e scienza nel Seicento, Motta, Milano 2004, pp. 1-18. Devo a questo testo alcuni spunti e riferimenti necessari all’impostazione del presente paragrafo. 2. Ormai classico è il caso di Velázquez che, in Las meninas del 1656, fa della metapittura rappresentandosi sul palcoscenico della rappresentazione pittorica. Rimandiamo all’analisi di M. Foucault (Les mots et les choses, 1967).

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sempre il teatro che ci presenta un’infinita sequela di coscienze false e instabili, lacerate, se oneste, altrimenti tenebrose, diaboliche, vischiose e gaglioffe, furbe e attentatrici. Nel secolo l’onestà e la sincerità diventano modalità della menzogna: propugnare il vero traveste e veicola il falso e viceversa. Si tratta di un continuo gioco della variazione, dello scambio di astuzie e contro astuzie, una volpineria infinita. L’onesta sagacia, all’interno della commedia degli equivoci, può ingannare con la verità medesima una volta che tutto è avvolto nel dubbio e nel sospetto. Al lettore di Freud viene in mente il riferimento – in un testo chiave della produzione freudiana – all’amletico Polonio, relativamente alla possibilità di catturare la carpa della verità proprio con l’esca della menzogna.3 Così anche l’anima più candida e pia può essere stratagemma di falsità, ovvero giocare o essere giocata sul palcoscenico di una comunicazione che diventa addobbo di enigmi e festa d’inganni della ben rotonda verità. In un contesto così complicato, labirintico e pericoloso la prudenza intellettuale si presenta in scena con la maschera della falsità, per proteggere un sapere appena nato, perché allora ne andava della vita.4 Se la vita diventa recita in maschera ed esercizio del falso, imperano lo sconcerto conoscitivo e l’angoscia identitaria;5 allora anche la verità necessita di maschere cautelative. La prudenza si istituisce allora come stilema dialettico che mette in tensione ciò che nel discorso è ammesso con ciò che nel discorso è meglio omettere; tensione tra ciò che si mette in linea di principio sotto la luce del lumen naturale e ciò che della verità è bene che resti par provision innominato. Ben lo sapeva Cartesio che nel Discours de la méthode (1637) teorizzò e praticò la necessità di una scrittura 3. Scrive Freud: “Mit Polonius zu reden, den Wahreitskarpfen grade mit Hilfe des Lügenköders gefangen”, in Konstruktionen in der Analyse (1937), in Sigmund Freud gesammelte Werke, Fischer, Frankfurt a.M. 1999, vol. XVI, p. 48 (“Per dirla con Polonio, catturare la carpa della verità proprio grazie all’esca della menzogna”, S. Freud, Costruzioni in analisi, in Opere, Boringhieri, Torino 1979, vol. XI, p. 546, trad. modificata). 4. Ai nostri tempi la maschera che va per la maggiore è quella di un sapere perverso e onnisciente di proprietà esclusiva del maître. 5. Il riferimento canonico è a La vida es sueño (1635) di Calderón de la Barca, che mette a fuoco un altro luogo peculiare della modernità, fonte di incertezza, inganno e sgomento, ma anche motore di ricerca per nuove verità e nuova fonte conoscitiva: il sogno.

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Una richiesta di innocenza per il falso. A partire dalla “mimesis” di Platone DAMIANO CANTONE

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a sempre la filosofia ha preso partito per il vero. La sua stessa ragione di esistenza risiede nel ricercare la verità, nel portarla alla luce, nello svelarla, e poi nel dirla, nel testimoniarla, nel chiarirla, nel sopportarne il peso e la fatica. Questa ricerca, come ovvio, non è priva di ostacoli e pericoli: la verità va salvata dall’opinione, dall’illusione, dall’errore: in una parola, dal falso. Fin dalla celebre sentenza di Parmenide, il falso, lo pseudos, è stato il grande avversario del vero, una spina nel fianco e un nemico spietato: prendere il falso per vero ha significato, secondo le parole che la divinità rivolge al padre della filosofia, “percorrere il sentiero della notte”, condannarsi a una vita di oscurità e ignoranza. Il filosofo è ossessionato dal falso, lo teme, e lo sospetta celarsi sotto ogni verità comunemente accettata come tale. La verità è una, ma il suo dominio è insidiato da ogni sorta di pretendenti, di falsari, di spacciatori di verità contraffatte, imbonitori convincenti e persuasivi ai quali è facile arrendersi. Socrate, il grande amante della verità, non cessa di ricercarla al fondo dei discorsi dei sapienti. Egli rimane in silenzio di fronte agli equilibrismi verbali dei sofisti che strappano applausi agli astanti, togliendo sgabelli logici da sotto il sedere dei loro malcapitati interlocutori per vederli cadere in confusione,1 ma poi interviene per censurarne il comportamento e per mostrare i loro errori. Socrate si rende spiacevole agli occhi dei suoi concittadini, che non 1. Cfr. Eutidemo, 278.

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hanno nessuna propensione naturale alla verità e che sono invece pragmaticamente più interessati all’efficacia persuasiva dei discorsi e al loro possibile sfruttamento. Va così incontro alla sua tragica condanna, anch’essa basata su false accuse, e apre in tal modo gli occhi del suo allievo Platone sui limiti della democrazia ateniese. Perciò Platone costruisce la sua filosofia sulla base di una nuova pratica, la politica, che è il tentativo di rispondere alla domanda su cosa siano il giusto e il vero in relazione all’uomo e alle sue azioni, anziché alla natura. Egli non sottovaluta la potenza del falso: per Platone la verità che pretende di fare a meno del falso, di negarlo completamente, cade nel paradosso di diventare non meno falsa dell’avversario che vuole combattere. Per questo dà così tanto spazio al tema della finzione, del fare finta e della simulazione. Tutta la sua opera, se si eccettuano le lettere, è un’opera di finzione, il cui protagonista è, di nuovo, Socrate, l’istanza veritativa della filosofia. Un Socrate fittizio, tuttavia, che da sempre ha creato agli storici della filosofia il problema di distinguerlo da quello autentico, e di separarne il pensiero vero da quello attribuitogli dal suo allievo. Un’operazione di restituzione resa ancor più complicata dal fatto che non esiste un pensiero autografo di Socrate, che non ama la scrittura, poiché, come afferma nel Fedro, “chi crede di poter tramandare un’arte affidandola all’alfabeto e chi a sua volta l’accoglie supponendo che dallo scritto si possa trarre qualcosa di preciso e di permanente, deve essere pieno d’una grande ingenuità”. E d’altra parte “la scrittura è in una strana condizione, simile veramente a quella della pittura. I prodotti cioè della pittura ci stanno davanti come se vivessero; ma se li interroghi, tengono un maestoso silenzio”.2 Nel discorso di Socrate la scrittura è solo un’immagine del discorso vero, quello orale vivo e animato, in grado di dire la verità, e dunque è una sua falsificazione. Questa radicale posizione socratica (ma di quale Socrate: quello vero che non scrive o di quello fittizio platonico che conosciamo solo attraverso la scrittura?) non è condivisa da Platone. La forma del dialogo, la vera e propria immagine letteraria silenziosa del discorso vivo, l’uso dei miti per spingere il 2. Fedro, 275c-276a.

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pensiero oltre e prima della filosofia, dimostrano la sua capacità di fare un uso della finzione finalizzata al vero. In questo uso è però implicito un grande rischio, come puntualizza a più riprese lo stesso Platone, che è quello di scambiare l’immagine del vero per il vero. Non stupisce dunque che nella principale opera della maturità, la Repubblica, dedichi ampio spazio a questo rischio all’interno del suo grandioso tentativo di pensare la forma del governo giusto. Si tratta del problema della mimesis e del suo rapporto con il vero. È un tema troppo complesso per essere risolto in questo rapido excursus nella filosofia platonica, ma è importante fissarne alcune caratteristiche.3 Nella mimesis si assommano infatti sia il carattere imitativo, attraverso il quale Platone fonda la relazione gerarchica tra modello e copia, sia quello produttivo, ovvero il fatto che la mimesis sia essenzialmente un’attività e dunque una forma di techne. È la mimesis, infatti, che nel mito del Demiurgo guida felicemente la creazione del mondo naturale (physis) a partire dalle idee-modello, sancendone il rapporto di continuità e partecipazione. Le idee sono causa del mondo in un rapporto di produzione tecnica che ne garantisce la qualità, la corrispondenza al modello. Allo stesso modo, il buon falegname quando produce il letto usa la mimesis,4 e il suo lavoro sarà tanto più riuscito quanto più il suo prodotto sarà una copia pedissequa dell’idea cui fa riferimento. Il rischio della mimesis non risiede allora tanto nel suo carattere imitativo fondato sulla contemplazione quanto in quello produttivo, dove può annidarsi un elemento imprevisto, secondario o ornamentale che fa saltare il buon rapporto modello-copia. È quello che accade nella poesia, che ha come suo intento primo non di riprodurre semplicemente i fatti come sono accaduti, ma di ricordarli e dunque di celebrarli in quanto appartenenti a un passato al contempo mitico e condiviso. La polemica che Platone conduce nel libro II della Repubblica, sempre nell’ottica di pensare quale sia la forma di educazione politicamente migliore, è rivolta proprio verso i due padri della poesia greca, Esiodo 3. Per una prima introduzione al tema, si veda P. Montani, Arte e verità dall’antichità alla filosofia contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2002, p. 45 sgg. 4. Repubblica, 597b sgg.

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Lo specchio e il velo. Paradigmi del falso MASSIMILIANO ROVERETTO

Non mi piacciono le vostre labbra. Sono dritte come quelle di uno che non ha mai mentito. O. Wilde

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naugurando una concezione della verità destinata a costituire per oltre due millenni un vero e proprio canone del pensiero occidentale, Aristotele aveva circoscritto l’utilizzo dei termini “vero” e “falso” al ’ , ovvero alle sole proposizioni dichiarative, escludendone di contro l’impiego sia in relazione ai singoli elementi del discorso sia per i discorsi non apofantici quali per esempio esortazioni, preghiere ecc. Conseguentemente, aveva identificato la verità con la conformità della proposizione alla realtà e il falso con la sua difformità rispetto a essa.1 Se guardiamo tuttavia all’etimo del termine, la sua derivazione dal latino fallere (ingannare) evoca una scena molto più ampia, che nella varietà delle sue accezioni trova un puntuale riscontro. Oltre a ciò che è “contrario o non corrispondente al vero” nel senso di Aristotele, “falso” indica infatti tutto ciò che è “menzognero, bugiardo, [...] simulato, finto”. Falsi sono un ragionamento, una supposizione o una testimonianza qualora privi di un adeguato riscontro fattuale, ma false possono essere anche le promesse fatte senza l’intenzione di mantenerle, le lacrime che non riflettono un sentimento genuino e più in generale tutto ciò che risulta “man1. Cfr. Aristotele, Metafisica, libro VI, 1027b 18-28 e libro IX, 10. Cfr. inoltre Dell’espressione, 4, 17a, 1-8. Ma si veda anche Metafisica, libro V, 1024b 17-1025a 13, in cui Aristotele, sebbene a titolo di ricognizione preliminare dell’uso linguistico corrente, distingue tre ulteriori accezioni del termine “falso”: come inconsistente, come illusorio e come mendace (detto di un uomo).

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cante di naturalezza” o “artefatto”. Falsa è inoltre una nota che suona male, così come un evento o un oggetto il cui proprium non consiste nemmeno nel simulare ciò che non è, quanto piuttosto nel discostarsi da ciò che dovrebbe essere in base a una qualche norma.2 Ed è proprio all’ampiezza di tale spettro semantico che sembra corrispondere la presa in carico della dimensione del falso da Platone operata nel libro X della Repubblica, in relazione alla celebre condanna dell’arte imitativa che vi è contenuta. L’immagine fallace (Platone) Com’è noto, Platone considera l’opera dell’artista come la copia della copia, tre gradi “lontana dal vero”,3 il quale si identifica dal canto suo con l’essenza della cosa riprodotta. Se prendiamo un oggetto qualunque, come per esempio un letto, dovremmo cioè riconoscere che ve ne sono di tre tipi: quello naturale, che coincide con l’idea stessa di letto e che dobbiamo pertanto supporre sia opera di un dio; quello costruito, conformemente al modello fornito dal primo, dall’artigiano; e quello che il pittore rappresenta guardando a quest’ultimo. Nondimeno, le cose sono meno semplici di quanto a prima vista potrebbe sembrare, in quanto la serie che va dall’idea all’artefatto fino alla sua riproduzione pittorica può essere scomposta in due modi diversi. Da una parte, gli oggetti prodotti dall’artigiano e dal pittore, così come sarà per quelli forgiati dal demiurgo nel Timeo, si oppongono all’opera del dio in quanto molteplici. Se, oltre al letto che Platone definisce “secondo l’essenza”, il dio ne producesse un secondo, sarebbe poi necessario, per poterne riconoscere l’appartenenza a una medesima specie, ammetterne anche un terzo e così via, all’infinito. Dall’altra, laddove il lavoro del mobiliere presenta ancora una qualche analogia con quello del dio, in quanto, pur operando sul molteplice della materia, ne ripete nondimeno il gesto creatore, quello del pittore sembrerebbe non avervi più alcun rapporto. Dell’oggetto di cui 2. Cfr. la voce “falso” in G. Devoto, G.C. Oli, Il dizionario della lingua italiana, Le Monnier, Firenze 1990. 3. Cfr., anche per quanto segue, Platone, La Repubblica, libro X, 597a-598d (trad. di G. Lozza, Mondadori, Milano 1990, pp. 429-431).

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l’artigiano e il dio sono gli artefici, l’artista è un semplice imitatore: perché, nel riprodurlo, non solo non ne realizza l’essenza – cosa che nemmeno l’artigiano è in grado di fare – ma neppure la prende di mira, limitandosi a considerarne l’apparenza sensibile. Da cui il prodursi, tra creazione autentica e mera imitazione, di un vero e proprio iato, la cui portata resta tuttavia occultata proprio nella misura in cui, mantenendo fermo il paradigma della riproduzione mimetica, Platone lo ribatte sulla differenza tra mondo vero e mondo apparente in quanto realizzazioni più o meno compiute di un medesimo essere. L’ideale sarebbe per Platone che il falso sorgesse sempre assieme al vero, in modo da poter di volta in volta stabilire, tra i due, un immediato raffronto. Dopo aver ironicamente definito l’artista come un prodigio di sapienza “che fa tutto quanto gli artigiani fanno per uno”, Socrate ce lo mostra infatti nell’atto di tenere tra le mani uno specchio che volge da ogni parte, ciò che lo rende in grado non solo “di realizzare qualsiasi oggetto”, ma anche di far “spuntare tutte le piante dalla terra e [...] nascere tutti gli esseri viventi, sé compreso, e poi la terra e il cielo e gli dei del cielo e tutto quanto sta sotto terra nell’Ade”.4 Ma la sua opera, a prima vista prodigiosa e straordinaria, è in realtà di ben poco conto, in quanto priva di ogni intrinseca forza e capacità di generazione. Rappresentando l’artista come una sorta di regista cinematografico dotato sì di una macchina da presa, ma non della pellicola, Platone intendeva evidentemente negargli la facoltà di produrre dei simulacri della realtà sensibile sufficientemente consistenti da opporsi a quel poco di essere che quest’ultima conserva e da affermarsi, di contro a essa, nella loro autonomia. Ma è altrettanto chiaro che, così facendo, egli si fabbricava un obiettivo polemico ad hoc, del tutto slegato dalla realtà delle pratiche artistiche e letterarie di cui egli stesso, in altri passi della Repubblica,5 dimostra di possedere ben altra cognizione se non considerazione. Tanto che nel Gorgia, in cui a partire dall’interrogazione circa l’essenza 4. Cfr. ivi, libro X, 596c (p. 427). 5. Cfr. D. Cantone, Una richiesta di innocenza per il falso, in questo fascicolo.

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Giochi di verità. O il contributo dei cosiddetti falsari all’arte ALESSANDRO DAL LAGO SERENA GIORDANO

Si vede come si vuol vedere, ed è questa falsità che costituisce l’arte. motto attribuito a Edouard Manet

Crisi del dualismo estetico Che il dualismo, inteso come opposizione tra inconciliabili, governi i mondi simbolici è comprovato non tanto e non solo dai miti della caduta, in cui il mondo è il prodotto di una scissione, di una separazione dal Dio buono o dell’opera del Dio cattivo, il demiurgo;1 quanto soprattutto dalla costituzione dualistica dei significati fondamentali della nostra cultura: estetico, morale, scientifico, politico e così via. Si direbbe che l’umanità non possa esistere senza un altro da sé simmetrico e opposto, inevitabilmente negativo, insomma un nemico.2 Ed ecco che i concetti di sinistro, buio, cattivo, brutto, falso, illusorio ecc., pur non coincidenti – in quanto pertinenti alla topologia, all’ottica, alla morale, all’estetica, all’epistemologia, alla psicologia ecc. – finiscono per attirarsi e convergere, fino a rappresentare un’alterità negativa indispensabile a ogni discorso o retorica. 3 1. Valga per tutta la letteratura mitologica dualistica l’importante raccolta sapienziale nota come La rivelazione segreta di Ermete Trismegisto, a cura di P. Scarpi, Fondazione Lorenzo in Valla-Arnoldo Mondadori, Milano 2011. Non è privo d’interesse il fatto che Omero significhi “lavoratore libero” nel senso di “artefice che viene dal popolo”. In seguito, la parola indicò chi “lavora per il popolo” e quindi una sorta di magistrato. Nella letteratura gnostico-sapienziale i due significati si uniscono in quello di “Artefice-reggitore” del creato (proprio come Leopardi in un celebre frammento definisce Arimane, dio cattivo dello zoroastrismo, “reggitor del mondo”). Non è del tutto arbitrario sintetizzare l’ossessione per i falsari come riflesso di una sorta di ostilità di lunga data per gli artefici del male, i demiurghi cattivi. 2. C. Schmitt, “Il concetto del ‘politico’”, in Le categorie del “politico” (1922), trad. di P. Schiera, il Mulino, Bologna 1972. 3. R. Hertz, La preminenza della mano destra (1928), trad. di S. Vacca e A. Prosperi, Einaudi, Torino 1994.

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Nella sua critica alla metafisica, Nietzsche ha gettato le premesse per una decostruzione radicale del dualismo e dell’indebita traduzione da un dualismo all’altro. Qualche decennio dopo Nietzsche, Max Weber ha affermato con forza la non coincidenza di verità, bellezza, giustizia ecc. – e di conseguenza la non traducibilità dei relativi contrari.4 Questo vale soprattutto in campo artistico. Un’opera può essere vera (nel senso di autentica) senza avere alcun valore estetico riconosciuto (come le innumerevoli “croste” che riempiono i magazzini dei musei). Viceversa, un falso può essere (o essere considerato) bello, anche quando è stato smascherato.5 Le combinazioni sono molteplici e non possono essere schematizzate in una tabella a due valori. La ragione principale di questa indeterminatezza costitutiva del mondo artistico è nel fatto che l’arte è indissociabile dalla sua aura, cioè, in definitiva, dal giudizio del pubblico. E questo, per sua natura, è mutevole, socialmente condizionato e storicamente determinato.6 A pensarci bene, possiamo coinvolgere in questa considerazione la stessa realtà delle opere. Non è necessario che un’opera esista perché sia inclusa nel mondo dell’arte. Così è nel caso dell’orinatoio di Duchamp (Fountain, 1917), considerato un atto battesimale dell’arte contemporanea e celebrato in migliaia di articoli e saggi, un’opera di cui circolano però solo un paio di copie dallo statuto incerto (data la personalità di Duchamp, è persino possibile che l’originale non sia mai esistito).7 Ma consideriamo un caso ancora più famoso di opera ipotetica, La battaglia di Anghiari di Leonardo da Vinci.8 La storia del dipinto è istruttiva del rapporto tra arte, verità e 4. M. Weber, Il lavoro intellettuale come professione (1919), trad. di A. Giolitti, Einaudi, Torino 2004. Per uno sviluppo dell’argomento, si veda A. Dal Lago, Il politeismo moderno (1985), Ipoc Press, Milano 20132. 5. Anche i falsi accertati possono essere considerati più belli degli originali. Si veda il caso di Eric Hebborn, discusso qui alla nota 24. 6. H.S. Becker, I mondi dell’arte (1982), trad. a cura di M. Sassatelli, il Mulino, Bologna 2004. 7. Le copie, autenticate da Duchamp, appartengono alla collezione Arturo Schwarz. Esse potrebbero essere copie di un originale perduto. Se però l’originale non c’è mai stato, potrebbero essere due unici, ma anche due simulacri (nel senso in cui ne discute G. Deleuze, Differenza e ripetizione, 1968, trad. di G. Guglielmi, il Mulino, Bologna 1972). Duchamp amava molto disseminare equivoci intorno alle sue opere. 8. G. Vasari, “Vita di Lionardo da Vinci, pittore e scultore fiorentino”, in Le vite dei più eccellenti pittori, scultori e architetti (1550), Newton Compton, Roma 1991, pp. 564-565.

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realtà storica. L’affresco, commissionato dalla repubblica di Firenze per il Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio, fu realizzato nel 1505 da Leonardo con una tecnica che si dimostrò fallimentare, l’encausto (la cui descrizione originaria si trova nella Storia naturale di Plinio il Vecchio), e in gran parte svanì letteralmente. Ciò che ne restava fu coperto da un dipinto di Vasari, che ammirava Leonardo e probabilmente voleva nascondere il suo scacco, oltre che completare la parete.9 Alcuni fortunati, come l’erudito Paolo Giovio, riuscirono a vedere La battaglia di Anghiari prima che sparisse e furono toccati proprio dal suo strano destino.10 Rubens ne fece una copia, ovviamente nel suo stile, che aveva poco a che fare con Leonardo (ma è certo che fece una copia di qualche altra copia, perché all’inizio del XVII secolo l’affresco originale era già scomparso, figura 1).11 A ben vedere, poi, anche l’evento che l’affresco doveva celebrare, la battaglia di Anghiari (tra fiorentini e milanesi, 1440) è incerto. Machiavelli così ne parla: “Ed in tanta rotta e in sì lunga zuffa che durò dalle venti alle ventiquattro ore, non vi morì che un uomo, il quale non di ferite né d’altro virtuoso colpo, ma caduto da cavallo e calpesto spirò”.12 Ecco dunque che una pseudo-battaglia è nota soprattutto per un non-affresco che esiste solo nella dubbia13 memoria dei contem9. L’affresco di Vasari La battaglia di Scannagallo in val di Chiana raffigura, tra l’altro, schiere di soldati con bandiere. In una di queste è riportata la scritta “cerca trova”, e ciò ha fatto pensare che Vasari alludesse alla sottostante Battaglia di Anghiari. 10. Secondo Giovio, quella che oggi chiameremmo aura dell’opera risiedeva proprio nella sua dissolvenza: “Il rammarico per il danno inatteso sembra avere straordinariamente accresciuto il fascino dell’opera interrotta”. La citazione si trova in M. Melani, “Il fascino dell’opera interrotta”. La Battaglia di Anghiari di Leonardo da Vinci, Edizioni CB, Poggio a Caiano (Po) 2012. 11. La storia della Battaglia di Anghiari è così stratificata da renderne difficile la decifrazione: Raffaello fu tra i primi a copiarla dal vero, ma in seguito fu possibile riprodurla solo attraverso copie secondarie (di vari autori, per lo più anonimi). Si veda C. Pedretti (a cura di), La mente di Leonardo. Al tempo della “Battaglia di Anghiari”, Giunti, Firenze 2006. 12. N. Machiavelli, Istorie Fiorentine, libro V, cap. 33. Più in là Machiavelli sostiene che comunque la “vittoria” dei fiorentini segnò una svolta politica, e ciò è ancora più straordinario perché getta una certa luce sulla “realtà” degli eventi storici. Si veda anche N. Capponi, La battaglia di Anghiari. Il giorno che salvò il Rinascimento, il Saggiatore, Milano 2011. 13. Giovio è uno scrittore affascinante, ma assai liberale in termini di accertamento dei fatti, date ecc. Cfr. P. Giovio, Elogi degli uomini illustri (1546), Einaudi, Torino 2006. La vita di Leonardo è un frammento di questa opera incompiuta.

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Iconoclastia come strumento artistico. Strategie iconoclaste nel cinema BORIS GROYS

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l cinema non ha mai fatto parte di un contesto sacro. Fin dai suoi albori ha sempre percorso la strada oscura della vita profana e commerciale, eterno compagno dell’intrattenimento di massa da quattro soldi. Anche i tentativi di elevare il cinema intrapresi dai regimi totalitari nel XX secolo non hanno mai ottenuto successo: il risultato fu solo una breve lista di film per scopi propagandistici. La ragione di tutto questo non va cercata tanto nella natura del cinema come medium: il cinema è semplicemente arrivato troppo tardi. Al tempo della nascita del cinema, la cultura aveva già perso il suo potenziale consacratorio. Quindi, date le sue origini laiche, sembrerebbe inappropriato associare a prima vista l’iconoclastia al cinema. I film, al massimo, sembrano solo in grado di rappresentare e illustrare scene storiche di iconoclastia, senza mai riuscire a essere iconoclasti di per sé. Nonostante ciò, si può sostenere che nel corso della sua storia di medium il cinema abbia intrapreso una lotta più o meno aperta contro altri media, tra cui pittura, scultura, architettura, compresi il teatro e l’opera lirica. Tutti questi media possono vantare origini sacre che nella cultura odierna ancora permettono uno status aristocratico di arte “alta”. Tuttavia è proprio la demolizione di Edizione originale: Iconoclasm as an artistic device: Iconoclastic strategies in film, in B. Latour, P. Weibel (a cura di), Iconoclash, MIT Press, Cambridge (Mass.) 2002. La presente traduzione è tratta da B. Groys, Art Power, Postmedia Books, Milano 2012. Ringraziamo l’editore per la gentile concessione.

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questi valori culturali alti che è stata ripetutamente rappresentata e celebrata nei film. L’iconoclastia cinematografica funziona in termini di conflitto tra media diversi piuttosto che sulle tensioni religiose o ideologiche; è un’iconoclastia che non si rivolge contro la sua provenienza sacra, ma contro altri media. Per lo stesso motivo, nel corso della lunga storia dell’antagonismo tra i media, il cinema si è guadagnato il diritto di agire da icona della modernità laica. Al contrario, il cinema, trasferitosi nel campo tradizionale delle arti, è divenuto a sua volta sempre di più il soggetto di gesti iconoclasti: grazie alle nuove tecnologie – video, computer e dvd – il movimento del film è stato fermato e dissezionato. In termini storici, il gesto iconoclasta non ha mai funzionato come espressione di un’attitudine scettica nei confronti della verità dell’immagine. Questa attitudine scettica si rispecchia di più in una curiosità spassionata verso una pletora di aberrazioni religiose e intensificata da una ben intenzionata conservazione museale dell’evidenza storica di tali aberrazioni (senza di certo accompagnarsi alla distruzione di queste prove). La dissacrazione degli antichi idoli è perseguita esclusivamente in nome di altre, più recenti divinità. Lo scopo dell’iconoclastia è provare che gli antichi dei hanno perso il loro potere e non sono più in grado, di conseguenza, di difendere i propri templi e immagini terrene. Così, l’iconoclasta dimostra con quanta serietà egli prenda le rivendicazioni degli dei al potere, contestando l’autorità degli antichi dei e affermando il proprio potere. Con questo spirito, per fare qualche esempio, i templi delle religioni pagane furono distrutti in nome del cristianesimo, le chiese cattoliche spogliate in nome dell’interpretazione protestante del cristianesimo, e più tardi, ogni sorta di chiesa cattolica fu distrutta in nome della religione della ragione, ritenuta più potente dell’autorità dell’antico dio biblico. A sua volta, il potere della ragione, come mostrato da un’immagine umana particolare, definita in termini umanistici, fu attaccato in modo iconoclasta in nome della crociata sponsorizzata dallo stato per ottimizzare le forze di produzione, per assicurare l’onnipotenza della tecnologia e promuovere la totale mobilitazione della società, almeno nel Centro e nell’Est europeo. Proprio di recente, abbiamo 134


assistito allo smantellamento cerimonioso e alla rimozione degli idoli caduti del socialismo, questa volta in nome dell’ancor più potente religione del consumismo sfrenato. Sembra che a un certo punto il progresso tecnologico sia stato realizzato per dipendere dal consumismo, in linea con il detto che l’offerta si alimenti con la domanda. Così, per il momento, i marchi restano la nostra ultima famiglia di divinità, almeno sino a quando una nuova rabbia iconoclasta si ergerà anche contro di loro. Si potrebbe quindi affermare che l’iconoclastia funga da meccanismo di innovazione storica, come strumento di rivalutazione dei valori attraverso un processo di costante distruzione dei vecchi valori e la loro sostituzione con i nuovi. Questo spiega perché il gesto iconoclasta sembra sempre puntare nella stessa direzione storica, almeno finché la storia sarà percepita nel tradizionale senso nietzschiano, come storia della scalata al potere. Da questo punto di vista l’iconoclastia appare come una serie di movimenti progressivi, storicamente ascensionali, continuamente impegnati a sgombrare le proprie vie da tutto ciò che è ridondante, senza potere e privo di significato interiore, per far posto a qualsiasi cosa riserbi il futuro. Ecco perché qualsiasi critica all’iconoclastia ha tradizionalmente avuto un retrogusto reazionario. Ciononostante, questa stretta connessione tra iconoclastia e progresso storico non è logicamente necessaria, dato che l’iconoclastia non è indirizzata solo al vecchio ma anche al nuovo: nella fase iniziale della loro missione, i devoti alle nuove divinità sono sempre stati soggetti a persecuzioni e alla dissacrazione dei loro simboli, sia che fossero i primi cristiani, i rivoluzionari, i marxisti e persino gli hippie, i martiri del consumismo e della moda. Essenzialmente, ogni volta, questa persecuzione è anche un segnale dello scarso potere delle nuove divinità, o perlomeno non sono potenti quanto quelle antiche. In molti casi, questo gesto si è dimostrato molto efficace: i nuovi movimenti religiosi sono stati soppressi ripristinando il potere degli antichi dei. Certo, volendo, qualcuno potrebbe disporre un circolo hegeliano su questo e interpretarlo come un’astuzia della ragione che presta un supporto reazionario al cammino del progresso. Comunemente, questi atti di soppressione 135


Strategie del falso nell’epoca del post-cinema ROY MENARINI

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ifficile trovare un mezzo più scivoloso del cinema per parlare di falso. Tanto vale sgombrare subito il campo dagli equivoci. Esiste una ricca letteratura giuridica a proposito di uno degli aspetti solitamente identificati con il falso cinematografico, ovvero il plagio. Molto meno noti gli esempi di vera e propria commercializzazione di oggetti scambiati per qualcosa di diverso, allografi, come accade invece in pittura e nelle arti rappresentative. In che senso, infatti, potremmo dire di aver spacciato un “falso” Alfred Hitchcock per un “vero” Alfred Hitchcock? Gli unici strumenti possibili sono quelli della filologia truffaldina. Un laboratorio di restauro cinematografico può affermare di aver ritrovato un film perduto di Hitchcock e magari servire al suo posto un’anonima pellicola inglese girata negli anni del periodo britannico del maestro della suspense, e attribuirla a lui. Anche in questo caso – come nelle arti tradizionali – tocca agli esperti e ai tecnici valutare credibilità della copia e autenticità della firma. Ma avrebbero poco da dire a proposito del supporto, che com’è noto fin dai tempi di Benjamin e del suo L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica possiede caratteristiche plurali e meccaniche che ne alienano il ricorso alla copia originale. Non a caso, ricco e dibattuto è il problema all’interno della filologia del cinema, che qui sarebbe dispersivo ricostruire interamente.1 1. Cfr. G. Bursi, S. Venturini (a cura di), Critical Editions of Film. Film Tradition, Film Transcription in the Digital Era, Campanotto, Udine 2008.

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La gran parte delle contraffazioni riguardanti il cinema hanno dunque a che fare con i supporti. Un falso dvd, venduto (ma è già archeologia della modernità) nelle bancarelle di una grande città, è una copia non autorizzata di un film verissimo, e viene perseguita dalla legge per violazione di copyright. Di recente, Valentina Re si è occupata delle strategie retoriche attraverso le quali gli spot anti-pirateria di questi anni hanno cercato di costruire consenso nei confronti della repressione e hanno provato a colpevolizzare coloro che, magari scaricando i film via web, colpiscono la filiera della distribuzione e della protezione degli autori.2 Pur non entrando nel problema specifico del rapporto tra falso e digital piracy – su cui esistono alcuni testi molto bene informati3 – Valentina Re richiama l’attenzione sul filmato più celebre, quello in cui si paragona l’acquirente di un film contraffatto a colui che ruba un’automobile, con la voce fuori campo che afferma: “Ruberesti mai un’auto?”, o altri oggetti, e conclude che – per lo stesso motivo – non bisogna rubare i film. Il ragionamento è semplice: portare a coscienza del consumatore il peso dell’atto che compie, protetto dalla mancanza di una vera e propria sanzione sociale. Peccato, però, che lo spot denunci un vuoto teorico grande come una casa. Ovvero, se rubo un’auto sottraggo il mezzo al legittimo proprietario. Se scarico un film da Internet non tolgo niente a nessuno. E non è nemmeno detto che sottragga me stesso all’acquisto del biglietto di quel singolo film, poiché chissà se lo sarei andato a vedere a pagamento? Dunque, il problema degli oggetti infinitamente riproducibili viene semplicemente enfatizzato dalla scomparsa del suo supporto in epoca digitale. Infatti non sottraevo un oggetto al suo legittimo proprietario nemmeno quando acquistavo un vhs o un dvd alla bancarella del viale centrale della mia città, e nemmeno quando registravo un lungometraggio dalla televisione sul mio videoregi-

2. V. Re, “Get the real film”: la sala e la pirateria, “Cinergie” (nuova serie), 2, 2012, pp. 12-21. 3. R. Braga, G. Caruso (a cura di), Piracy Effect. Norme, pratiche e casi studio, Mimesis, Milano-Udine 2013.

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stratore, pratica comunissima ma (forse si è dimenticato) per un certo periodo di tempo considerata illegale.4 Ecco, la premessa riguardante il “falso” supporto e la sua recente trasformazione in assenza di supporto e dunque in contraffazione digitale, ci avvicina al primo paradosso del falso nel cinema: il film è vero e riproducibile, dunque l’industria protegge il supporto attraverso cui circola l’opera d’arte. Valentina Re spiega ancora meglio: “Le riproduzioni (per esempio, la riproduzione fotografica di un dipinto, in un libro d’arte o in un manifesto) costituiscono una manifestazione indiretta dell’opera originale, vale a dire ‘tutto ciò che può fornire una conoscenza più o meno precisa di un’opera, in sua assenza definitiva o momentanea’; si tratta di manifestazioni ‘qualitativamente parziali’ dell’opera (della quale condividono solo alcuni tratti), di ‘artefatti intenzionali e tipicamente funzionali’ e che tuttavia non necessariamente implicano un’esperienza estetica meno gratificante di quella che possiamo avere attraverso l’originale. L’attento esame di una riproduzione può insegnarmi benissimo più cose su un quadro di quanto possa fare la sua frequentazione furtiva e strattonata dalla calca di un’esposizione”.5 Come si vede, la questione si fa intricata e la stessa studiosa conclude ricordando che “le campagne antipirateria rapidamente esaminate fanno appello (non importa quanto consapevolmente o intenzionalmente) a una cultura dell’originale che viene fatta coincidere (così come coincide nella percezione comune) con la cultura della sala cinematografica. Questo appello, tuttavia, rischia di rivelarsi controproducente e inefficace, perché automaticamente esclude dal dominio dell’originale tutte le forme di circolazione e di esistenza del film diverse dalla sala. Un dvd, dunque, non sarà mai originale o falso: al limite, sarà “commercialmente fraudolento”.6 4. Cfr. M. Boldrin, D.K. Levine, Abolire la proprietà intellettuale (2008), trad. di E. Corbetta e M. Molinari, Laterza, Roma-Bari 2012. 5. V. Re, “Get the real film”, cit., p. 19. 6. Ivi, p. 20. Ma sulla comprensione dello statuto delle “copie digitali” del film ha riflettuto recentemente anche Leonardo Quaresima in un intervento (Du cimetière des éléphants au parc thématique? L’archive à l’époque de la numérisation) presentato al Convegno Afeccav (Association française des enseignants et chercheurs en cinéma et audiovisuel) presso l’Université Paris-Est-Marne-la-Vallée (9-11 luglio 2012), dedicato al tema: Des sources aux réseaux:

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“Yes, we (Zombies) can”: attualità mordace del Non Morto PAOLO FABBRI Arte di creare esseri che non sono, imitando quelli che sono, [sarebbe] la vera poesia. D. Diderot, Il sogno di D’Alambert Si scopron le tombe, si levano i morti.1 Inno di Garibaldi

1. Epidemie: un saldo di qualità1 Negli anni obamitici, dal 2008 a oggi, prolifera lo Zombi.2 Attante epidemico dell’orrore che infesta tutto il mediascape, cinema, televisione, video e videogiochi, canzoni, romanzi e fumetti, moltiplicando remake, varianti narrative (prequel e sequel), variazioni di generi (thriller e parodia) e varietà fisiognomiche.3 Un trattamento anti-age del mostro morfologicamente deforme, isolato e infecondo, legato alla colpa o al rimorso, ammonitore e morale – mentre lo Zombi è mutante anomalo –, un errore innocente di copiatura nel brogliaccio genetico, anche se le sue apparizioni hanno la più disparata eziologia (radiazioni cosmiche, droga, inquinamento, pandemie ecc.). Il suo apparire – un baudelairiano sovrapporsi della vita sulla morte – non comporta una rivelazione ma una revulsione (Barthes). I “Non Morti”, vivi in articulo mortis o diversamente estinti, so1. È legittimo per un/a italiano/a l’interesse portato al fenomeno Zombi, iscritto com’è nel primo verso dell’inno garibaldino: ringrazio quindi Hiroko Fudemoto. Al patriota è suggerito lo scandaglio scaramantico del semiologo: ringrazio quindi Nicola Dusi. 2. Per l’orrendo periodo precedente a Obama vedi gli studi di R. Wood, Hollywood from Vietnam to Reagan, Columbia University Press, New York 1986; J. Halberstam, Skin Shows: Gothic Horror and the Technology of Monsters, Duke University Press, Durham (N.C.) 1995; J. Hawkins, Cutting Edge: Art Horror and The Horrific Avant Garde, University of Minnesota Press, Minneapolis 2000; K. Gelder (a cura di), The Horror Reader, Routledge, New York 2000; R. Greene, K.S. Mohammad (a cura di), The Undead and Philosophy: Chicken Soup for the Soulless, Open Court, Chicago 2006; W.S. Larkin et al. (a cura di), Zombies, Vampire and Philosophy, New Life for the Undead, Carus Publishing Co, Chicago 2006. 3. Vedi l’indimenticato Thriller di Michael Jackson, del 1984.

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no l’opposto semantico dei Non Vivi, cioè i sopravvissuti lungodegenti in coma profondo o i sottovissuti embrioni della fecondazione artificiale in vitro – con trapianto di personalità, se non d’anima. I Non Morti e i loro Zombi sinonimi sono diventati icone della mondializzazione e il luogo sinistro per cui hanno abbandonato i cimiteri, lo Zombistan, è infiltrato nell’immaginario collettivo: il people-lore, più che folk-lore, della cosiddetta postmodernità. E poiché la cultura “bassa” irriga le opere “maggiori” e il processo di “artificazione” è inarrestabile, si parla già di Halloween o Horror Art. A giusto titolo: l’eredità culturale è “nepotista”, non assicura la discendenza diretta delle storiografie estetiche, procede per parentele trasverse (Jenkins). Lo Zombi ha buon pedigree letterario (Edgar Allan Poe, Howard Phillips Lovecraft, Richard Matheson) e cinematografico (Howard Hawks, Victor Halperin ecc.), e anche una mitica radice creola: il vudù haitiano (Alfred Métraux). Invasivo e pervasivo infesta definitivamente il cinema dalla Corsa all’Orrore dei cupi settanta, con la figura eponima e ancora attivissima di George Romero (coadiuvato da Dario Argento), autore di La notte dei morti viventi (1968), mitografo creatore di una vera saga e inventore del termine gore film – “il cruento” (Diary of the Dead, 2008; Survival of the Dead, 2009). E ha dato luogo a saghe ininterrotte come il sestetto di Romero o il Resident Evil (2002) negli anni dei due zeri. Ma la trasmissione delle semiologie ha un percorso punteggiato: come nelle scienze, i momenti inventivi sono seguiti da revisioni e sistemazioni. Così negli anni obamitici, lo Zombi, cittadino planetario dei nostri incubi, ha fatto un salto di qualità: partecipando all’ibridazione generalizzata delle figure dell’Orrido e precisando i suoi connotati. Rigenerato e degenerato che sia, il Non Morto infatti non è solo una definizione privativa: lento, purulento, afasico, ha occhi cerchiati e giallastri, andatura dinoccolata, abbigliamento trasandato, gestualità catatonica e carnagione putrefatta. Non ci sono prove etnografiche che sia fecondo o sappia nuotare, ma ha buona dentizione e solido appetito, nonostante la poca coordinazione tra occhio, mano e lingua. I precedenti folklorici comunque ci 164


rassicurano: è l’anticomportamento dei vivi che provoca il contatto con lo sterminato mondo dei morti (Uspenskij). Trova un posto di spicco, se non di dominanza nel diorama spettrale della cosiddetta cultura demassificata, nella sua biodiversità immaginaria. Lo Zombi ha affrontato tutti gli eroi dei comics, dall’Uomo Ragno a Hulk, da Giant-man a Wolverine; non si è limitato a sostituire con la sua iniziale, Z, quella già celebre di Zorro. Si è fatto largo tra un campo semantico di peri-Zombi, figuri di spavento come Angeli e Robot, Cyborg e Alieni, Replicanti e Fantasmi, Mummie e Vampiri con cui condivide differenze che si somigliano. Lo Zombi, solidamente intra-terrestre è contrario, per la sua corrotta fisicità, agli ectoplasmatici Angeli e Fantasmi e alla perfezione meccanica del Robot; come il carnalissimo scudiero Gurdulù, si oppone all’armatura vuota e angelicata del cavaliere inesistente, il calviniano Agilulfo. Tra i morti di ritorno dalla loro società di conservazione, lo Zombi si ridesta come la Mummia o lo Scheletro, da cui si differenzia per lo stadio di decomposizione. Lo scheletro è secco e articolato come il Robot, mentre il Non Morto suscita il disgusto per l’avanzato marciume; la Mummia, meglio conservata, pour cause, si situa tra lo Scheletro e lo Zombi di cui condivide l’incerta andatura. Ma è nel Vampiro, per i condivisi istinti cannibali, che il Non Morto trova il competitor dai maggiori addentellati nella semantica sepolcrale. Un “mitema” con le stesse proprietà “emergenti”, ma ne differisce nello stile di vita e di consumi: il Vampiro è (ancora, ma per poco) l’elegante abitatore di dimore e sepolcri, gli Zombi frequentano fosse comuni in periferia e supermercati middle class, parchi di attrazioni, isole-prigione e persino set del Grande Fratello; il seducente per quanto declassato Vampiro sugge sangue da zone erogene, mentre gli Zombi escono sgualciti dalle bare e divorano surplace lacerti di carni umane, crude e scondite. Lo Zombi segue una dieta strettamente cannibale; non è vegano ma è rispettosamente animalista: non consuma carne animale (meat) ma solo flesh. Ci sono peraltro anche animali Zombi, com’era prevedibile tenuto conto dell’aumento dei pet-cimiteri, per animali di compagnia. 165


Ingannare e ingannarsi: le ragioni del falso in natura TELMO PIEVANI

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a sagoma di un piccolo pesciolino, simile a quella di uno scorfano o di altri pesci di scoglio, ondeggia sinuosa nei pressi del fondale, poco sopra le rocce incrostate di alghe e di spugne. Le macchie oculari, il profilo della bocca, le pinne, le complesse striature sul corpo sono proprio quelle tipiche di molte specie appartenenti alla fauna costiera. Non vi sarebbe nulla di strano se qualche predatore nei paraggi si preparasse ad avventarsi su questo gradito e familiare bocconcino. La sua sorpresa sarebbe però grande (se avesse il tempo di accorgersene), poiché la preda mostrerebbe di essere tutt’altro che un pesce. L’ingenuo cacciatore si renderebbe conto, troppo tardi, di essere cascato in una delle più incredibili e complesse trappole ordite da un animale. Il pesciolino è in realtà un falso, un’imitazione, e da una delle rocce lì accanto si aprirebbero di scatto in pochi millisecondi le fauci sull’ignaro predatore. Questo articolato marchingegno mimetico è un’invenzione della rana pescatrice Lophius piscatorius, che sulla punta della spina della sua lunghissima pinna dorsale ha sviluppato una controfigura di pesce che usa come richiamo per le sue prede. Completamente mimetizzata fra le rocce sottostanti, la rana pescatrice (più nota ai cuochi come coda di rospo) attende che la sua messinscena tragga in inganno i potenziali predatori del finto pesciolino. La spina della pinna dorsale è così lunga da poter essere usata come un’autentica lenza: l’estremità finisce davanti alla bocca e fa ondeggiare il finto aut aut, 359, 2013, 177-190

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pesciolino come esca. Di specie in specie, le falsificazioni ad arte sono molteplici: in alcuni casi l’esca è un pesce, in altri un verme, e così via. Strategie simili sono adottate anche da alcuni molluschi di acqua dolce, come il Lampsilis, che si immergono parzialmente nel fondale sabbioso facendo sporgere la parte posteriore del corpo dalla quale spunta quello che sotto ogni aspetto sembra un pesce. In questo caso, la strategia mimetica consiste nell’attrarre potenziali predatori del pesciolino (che presenta occhi, bocca e pinne realistici, ma in realtà è un’estensione di tessuto del mantello del mollusco) per poter iniettare in essi le larve, che in queste specie di acqua dolce crescono come parassiti all’interno delle branchie dei pesci. Il finto pesce sulle spalle del mollusco è dunque una sacca colma di larve che vengono lanciate verso i potenziali predatori in avvicinamento.1 L’inganno e la falsificazione sono frequenti strategie di sopravvivenza in natura: come possiamo interpretare questo dato nei termini della filosofia della biologia? Le strategie del falso nel mondo naturale Proviamo innanzitutto a identificare alcune categorie di “produzione del falso” che osserviamo con una frequenza significativa nell’evoluzione. In prima istanza, sappiamo che piante e animali hanno ripetutamente sviluppato, in molte linee filogenetiche non strettamente correlate, elaborate capacità di ingannare individui di altre specie per proprio vantaggio. Nelle diversificate dinamiche preda-predatore simulare il falso o sviare l’avversario con inganni è un’opzione assai promettente. Tramite “camuffamento”, o mimetismo criptico, il predatore cerca di confondersi nel contesto, per colpire più da vicino, mentre la preda da par suo vi ricorre per non farsi notare (spesso con virtuosismi eccezionali come negli insetti stecco o fasmidi, e nell’insetto foglia Phyllium giganteum): così un camaleonte scompare nel fogliame, pronto a sparare la sua lingua viscosa, e il cavalluccio marino Phycodurus eques è indistinguibile 1. S.E. Luria, S.J. Gould e S. Singer, Una visione della vita (1981), trad. di A. Novelletto, Zanichelli, Bologna 1984.

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da un’alga. Nel “mimetismo fanerico”, invece, predatori e prede riescono ad assomigliare fortemente per forme e colori a un oggetto specifico o a un altro animale, che respinge il predatore perché disgustoso o velenoso (mimetismo batesiano, spettacolare in certe farfalle che assomigliano in tutto e per tutto a un’ape) oppure attrae la preda. La rana pescatrice è un’artista di queste tecniche. Ancor più spesso l’inganno è funzionale non tanto all’approvvigionamento quanto alla riproduzione. Nella coevoluzione fra le numerose specie di orchidee e gli insetti che garantiscono la loro fecondazione assistiamo a un’escalation formidabile di inganni e di relative contromisure. Gli impollinatori vengono adescati con falsità di ogni tipo. Alcune specie di orchidee hanno fiori con forme che ricordano le sembianze delle femmine dei pronubi, inducendo i maschi a visitarle continuamente e a cercare di accoppiarsi con le loro inflorescenze. Altre, anziché affidarsi a forme sessualmente attraenti, emanano direttamente i feromoni delle femmine di insetto: mentre l’imenottero tenta invano di copulare con il fiore viene cosparso dal polline che dovrà trasportare. Orchidee ancor più estrose (come Dendrobium sinense, endemica dell’isola cinese di Hainan) liberano nell’aria messaggeri chimici simili a quelli rilasciati da prede in difficoltà, richiamando l’attenzione delle vespe predatrici. Altre ancora, come l’orchidea sudafricana Satyrium pumilum, producono sostanze odorose simili a quelle liberate da carcasse di animali in putrefazione, attirando così una grande varietà di insetti, in particolare ditteri, che depongono le uova proprio nelle carcasse. In cambio l’orchidea opportunista (e parassita) non concede nemmeno il nettare, che spesso è invece la ricompensa per l’insetto vettore del polline. Prima che l’insetto memorizzi l’inganno ed eviti in futuro quella pianta, ha già svolto a sufficienza il suo compito di impollinatore e l’orchidea può riprodursi. Si instaura insomma una rincorsa di coadattamenti reciproci tra ingannatore e ingannato, i quali possono anche scambiarsi di ruolo. L’uno funge da pressione selettiva per l’altro e l’equilibrio raggiunto di volta in volta è sempre precario. A volte il vantaggio è reciproco (mutualismo), ma non necessariamente (parassitismo). 179


Il vero, il falso, il Dao MARCELLO GHILARDI

1.

Ogni tentativo di circoscrivere e riassumere in poche pagine la complessità delle teorie sul vero e sul falso che emergono dal dibattito interno alla tradizione cinese non può certo pretendere di essere esaustivo, data la varietà delle proposte e la pluralità di approcci che si riscontrano all’interno del percorso anche di singoli autori. Tuttavia è non solo utile, ma anche auspicabile, un confronto con le modalità e con i termini principali che il pensiero cinese ha impiegato per identificare diverse “forme” del vero e del falso. Va innanzitutto sottolineato come indagare le nozioni di “vero” e “falso” non significhi tout court avanzare delle asserzioni sulla presenza o meno di una teoria della verità. A proposito di questo concetto il dibattito interno agli studi sinologici è vivo e serrato. Secondo Chad Hansen, “i filosofi della Cina classica non avevano alcun concetto di verità. Ovviamente, per i cinesi (sia filosofi che uomini comuni) la verità di una dottrina faceva senz’altro la differenza, e in generale i cinesi rifiutavano de re proposizioni false e ne adottavano di vere. Ma non usavano un ‘concetto di verità’ quando riflettevano filosoficamente su ciò che facevano”.1 Questa tesi provocatoria è stata variamente discussa e criticata; ciò che ora interessa, però, è considerare in che misura siano state elaborate e utilizzate espressioni per indicare il vero e il falso senza la necessità di erigere un concetto o una teoria della verità. 1. C. Hansen, Chinese Language, Chinese Philosophy, and Truth, “The Journal of Asian Studies”, 3, 1985, pp. 491-519.

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La parola cinese che esprime questa nozione, zhenli 真理, è di conio recente: ha circa un secolo e mezzo di vita e nasce per tradurre il termine occidentale (truth, Wahrheit, verité). Il carattere zhen non compare nei Dialoghi di Confucio, né in Mencio o in altri testi fondativi per la cultura cinese come il Classico dei documenti (Shujing), il Classico dei mutamenti (Yijing), il Libro dei riti (Liji) o gli Annali delle Primavere e degli Autunni (Chunqiu). Si trova nel testo taoista Zhuangzi, ma senza possedere il significato di “vero” o di “verità”, che assume solo in epoca moderna. È il saggio a essere definito come zhenren 真人, cioè “uomo autentico”: il carattere zhen non significa dunque “vero”, bensì genuino, schietto, attendibile, puro. Alcune traduzioni di testi taoisti in lingua inglese hanno proposto truth come parola per rendere dao 道, più spesso reso con “Via”, “processo”, o più impropriamente “principio”.2 Ma se da un lato una versione simile può essere accettabile a livello operativo, intendendo “verità” e dao come nozioni che rivestono un ruolo analogo all’interno delle rispettive tradizioni – Raimon Panikkar le avrebbe definite “equivalenti omeomorfici” –, dall’altro bisogna anche riconoscere il rischio di una totale incomprensione delle istanze proprie del pensiero classico cinese, se si accogliesse in maniera immediata una tale proposta di traduzione. Con una resa di questo tipo, sarebbe difficile aggirare l’accusa di addomesticare la specificità e l’alterità cinese, ingabbiandola e inscrivendola di forza all’interno di categorie eminentemente occidentali. Al tempo stesso non ci si può arrestare alla considerazione – pur supportata da elementi concreti – di chi sottolinea l’interesse soprattutto pratico dei pensatori della Cina classica. Secondo Donald Munro, “in Cina la verità e la falsità nel senso greco dei termini sono state considerate importanti solo di rado, in rapporto all’accettazione di una certa proposizione da parte di un filosofo; queste sono preoccupazioni occidentali. Per i cinesi è importante 2. Cfr. per esempio Lin Yutang, The Wisdom of China and India, Random House, New York 1942, e le riflessioni presenti in Xu Keqian, Chinese “Dao” and Western “Truth”: A Comparative and Dynamic Perspective, “Asian Social Science”, 12, 2010, pp. 42-49.

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piuttosto considerare le implicazioni per il comportamento, in rapporto alla credenza o alla proposizione in questione. Che effetto provoca sulle persone l’aderire a una certa credenza? Quali implicazioni si possono trarre da una certa affermazione?”.3 Eppure anche accettare un primato della ragione pratica, un interesse più concreto e rivolto all’efficacia, non implica il fatto che non vi fosse alcuna sensibilità per questioni di ordine teoretico e semantico. Le prospettive ermeneutiche rivolte allo studio del pensiero cinese tra l’epoca degli Stati combattenti (453-221 a.C.) e la fine della dinastia Qin (221 a.C.-206 d.C.) possono divergere fortemente rispetto alla rilevanza accordata alla questione della verità e della sua effettiva presenza o assenza in tale contesto. In linea generale si può sostenere che in quel contesto non vi sono teorie moniste della verità, mentre vi si può riscontrare un approccio pluralistico, come evidenzia Alexus McLeod: “Uno dei tratti principali delle teorie pluraliste consiste nel ritenere il predicato ‘è vero’ come espressione di diverse proprietà in diversi ambiti o discorsi […]. Un pluralista può sostenere, dunque, che ‘vero’ in una discussione di fisica o di metafisica, per esempio, esprime una proprietà di corrispondenza, mentre ‘vero’ in una discussione di etica o di estetica esprime una proprietà di coerenza con altre credenze e con la visione del mondo complessiva di qualcuno”.4 Per McLeod è fondamentale riconoscere nella tradizione di pensiero sviluppatasi nella Cina antica un pluralismo aletico che permette di intendere le affermazioni “è vero” o “è falso” secondo accezioni diverse – corrispondenza, coerenza, pragmatismo – che si alternano o si combinano in relazione ai differenti contesti discorsivi. È questo il punto che qui merita di essere approfondito: troviamo modi diversi per dire “è vero”, “è falso”, senza che in Cina sia stata ipostatizzata una nozione di verità come idea trascendente o regolativa. Il pensiero cinese tende a sposare il corso della realtà, la 3. D.J. Munro, The Concept of Man in Early China, Stanford University Press, Stanford (Cal.) 1969, p. 55 (citato in C. Hansen, Chinese Language, Chinese Philosophy, and Truth, cit., p. 491). 4. A. McLeod, Pluralism about Truth in Early Chinese Philosophy: A Reflection on Wang Chong’s Approach, “Comparative Philosophy”, 1, 2011, p. 41.

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