Introduzione a "Il coraggio della filosofia"

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Il coraggio della filosofia. Introduzione di Pier Aldo Rovatti

Mi ha sempre colpito che sul breve editoriale del primo fascicolo di aut aut (gennaio 1951) Enzo Paci insistesse soprattutto sulla parola barbarie, declinandola in un modo molto preciso: questa «barbarie» veniva da lui intesa filosoficamente come l’assolutismo nel pensiero, ogni forma di simile assolutismo. Così, la piccola rivista messa in piedi in maniera del tutto artigianale nella casa di un professore di filosofia, a Milano, quando ancora gli effetti della guerra si facevano sentire e continuava a soffiare il vento maligno del ventennio fascista (e l’Italia era un paese in ginocchio che cercava le forze per rialzarsi affidandosi all’eredità esaltante ma anche tormentata della Resistenza), sceglieva la battaglia culturale contro la malattia di quel totalitarismo delle menti che era pur sempre capace di soffocare e uccidere le idee. Una battaglia di civiltà, impugnando le armi della critica, appunto una critica radicale contro tale barbarie che aveva bloccato i cervelli e avrebbe potuto seguitare a paralizzarli anche in tempi di democrazia. Dobbiamo considerare con attenzione questo inizio per comprendere tutto il resto. Sessant’anni, dal 1951 a oggi, sono un’enormità: fiumi di acque diverse sono passati sotto i ponti e molti altri ponti, allora impensabili, sono stati costruiti. È perfino cambiata l’antropologia degli abitatori del nostro occidente, trasformazioni nette, epocali, e non sempre dotate di un segno positivo, basta pensare a cosa sarebbe accaduto nel mondo della comunicazione, messo letteralmente a soqquadro dalle nuove tecnologie. Eppure, quel programma di battaglia filosofica contro l’astrattezza


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