Il coraggio della filosofia. Introduzione di Pier Aldo Rovatti
Mi ha sempre colpito che sul breve editoriale del primo fascicolo di aut aut (gennaio 1951) Enzo Paci insistesse soprattutto sulla parola barbarie, declinandola in un modo molto preciso: questa «barbarie» veniva da lui intesa filosoficamente come l’assolutismo nel pensiero, ogni forma di simile assolutismo. Così, la piccola rivista messa in piedi in maniera del tutto artigianale nella casa di un professore di filosofia, a Milano, quando ancora gli effetti della guerra si facevano sentire e continuava a soffiare il vento maligno del ventennio fascista (e l’Italia era un paese in ginocchio che cercava le forze per rialzarsi affidandosi all’eredità esaltante ma anche tormentata della Resistenza), sceglieva la battaglia culturale contro la malattia di quel totalitarismo delle menti che era pur sempre capace di soffocare e uccidere le idee. Una battaglia di civiltà, impugnando le armi della critica, appunto una critica radicale contro tale barbarie che aveva bloccato i cervelli e avrebbe potuto seguitare a paralizzarli anche in tempi di democrazia. Dobbiamo considerare con attenzione questo inizio per comprendere tutto il resto. Sessant’anni, dal 1951 a oggi, sono un’enormità: fiumi di acque diverse sono passati sotto i ponti e molti altri ponti, allora impensabili, sono stati costruiti. È perfino cambiata l’antropologia degli abitatori del nostro occidente, trasformazioni nette, epocali, e non sempre dotate di un segno positivo, basta pensare a cosa sarebbe accaduto nel mondo della comunicazione, messo letteralmente a soqquadro dalle nuove tecnologie. Eppure, quel programma di battaglia filosofica contro l’astrattezza
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e la violenza dei pregiudizi, delle Idee con la «i» maiuscola, e di tutti gli «ismi» che hanno continuato a proliferare, resta attuale. Non solo è sopravissuto nei tanti decenni trascorsi e nelle migliaia e migliaia di pagine pubblicate dalla rivista, ma sembra adesso ancora più vivo e urgente, e inoltre assai meno facile da realizzare. Un messaggio nella bottiglia nell’epoca di Internet e del mondo globalizzato? Esitiamo un momento, per favore, prima di sorridere. E, perdipiù, un messaggio affidato alla filosofia, cioè al più disarmato dei saperi, quello più esposto all’inerzia della sua vicenda disciplinare, quello più compromesso con l’università e insieme il più emarginato in essa. Sembra un paradosso, appunto, ma lo era fin dall’inizio, e Paci lo sapeva perfettamente. E se nel 1951 era già una maniera alquanto eretica, e all’apparenza impropria, per avviare una battaglia «politica» (come chiamarla diversamente?) nella cultura polarizzata e divisa in due di quegli anni, nel 2011 l’operazione è diventata molto più difficile perché le parole si sono ulteriormente usurate, a cominciare dalla parola stessa «filosofia». Paci voleva re-inventarla contro ogni piattezza accademica e disciplinare: per farlo doveva isolarsi dall’establishment, cercare di non farsi risucchiare neppure dal conformismo di quella sinistra sulla cui strada pure decisamente si metteva. Ma isolarsi, e lanciare così i suoi messaggi contro la barbarie del pensiero, significava anche per la rivista rompere le strettoie di un dibattito troppo locale, immettere nelle sue pagine una quantità di aperture, tentare di sfondare recinti e forzare incasellamenti. Barbarie era, per Paci, anche quest’aria di luoghi chiusi senza alcun respiro internazionale, bloccati nella propria disciplinarità. Re-inventare la filosofia voleva dire farla diventare uno strumento efficace per abbattere paratie e aprire linee di fuga. Significava scombussolare l’ordine dei saperi, il loro gioco fasullo di gerarchie e privilegi. I tempi erano favorevoli, indubbiamente, anche dentro l’università stessa, ma era chiaro che questa idea di filosofia mirava alla «città», a una comunità vivente di pratiche culturali che avrebbero potuto respirare assieme. Poco più tardi, la fenomenologia presterà a Paci alcune parole adatte, intersoggettività soprattutto, da intendersi come una possibile comunità vivente di soggetti (ma aut aut non sarebbe mai diventata una rivista di scuola fenomenologica).
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Se guardiamo a tutta la vicenda di aut aut, c’è allora da evidenziare, in primo luogo, una singolare e stupefacente continuità che si presenta (come il lettore di questo libro potrà constatare dallo squarcio antologico che gli proponiamo) non come una ripetizione di temi o di linguaggi, e neanche di riferimenti filosofici in senso stretto, ma soprattutto come una responsabilità critica del pensiero. La battaglia contro la barbarie – intesa nel modo che ho appena ricordato – rimane il compito di aut aut e scavalca i decenni: attraversa quelli che ho chiamato «gli anni della fenomenologia», si impianta nello sconvolgimento del Sessantotto, percorre il decennio dei Settanta lanciando la questione dei «bisogni» come grimaldello per entrare nelle lotte sociali e al tempo stesso per mantenere una distanza critica dentro di esse, e alle soglie del decennio successivo – quando si profila il lungo e difficile tornante storico che si prolunga fino al nostro presente, rimescolando tutte le carte – abbassa programmaticamente lo sguardo criticando le proprie pretese, e apre una specie di laboratorio, una fabbrica di strumenti di riflessione utili per dare nuova concretezza a un coraggio di pensare che sembrava essere stato ricacciato indietro al suo grado zero. Così i decenni successivi, dagli anni Ottanta fino a oggi, che avrebbero potuto essere per la rivista decenni di povertà e di crisi, sono risultati decenni di possibile ricchezza attraverso il sondaggio di campi diversi (un esempio, la psicanalisi), stabilendo un rapporto intenso e virtuoso con esperienze come quelle di Michel Foucault, Jacques Derrida e Gilles Deleuze (pars pro toto, poiché gli scambi sono stati moltissimi), e in questo modo ricalibrando il ruolo critico della rivista stessa che si era ormai completamente trasformata dalla rivista di Enzo Paci a una rivista caratterizzata da un lavoro collettivo e plurale. Tante cose sono cambiate: persone, modi di lavorare, lettori, esigenze culturali. E in ciascuna delle nostre riunioni milanesi, la domenica pomeriggio, e nelle discussioni che facciamo a Trieste e altrove, cerchiamo ogni volta di capire cosa è oggi aut aut, avvertendo che questo «qualche cosa» rischia ogni volta di sfuggirci trascinato via da una realtà mediatica onnivora e velocissima, mentre noi siamo lenti e piuttosto ritrosi nei confronti di ogni bulimia intellettuale. Ma non è vero che tutto è cambiato. La barbarie, là fuori, e magari anche dentro le nostre teste, non è certo scomparsa: anzi, si è intensificata, moltiplicata, è diventata insieme più violenta e meno appariscente, più ve-
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lenosa. Già solo intercettarla esige un impegno critico sempre meno agevole e un coraggio analitico che potrebbe apparire semplice dispendio, un gesto assai poco «economico» in tempi nei quali il lavoro culturale è sempre più esposto alla propria precarietà. Come negare che esiste oggi un fortissimo bisogno di riattivare la battaglia critica e di rivolgerla proprio là dove la maggioranza degli operatori intellettuali cerca ancoraggi sicuri in qualche variante ontologica tra filosofia e scienza e infine in qualche assunto di verità inattaccabile (e magari produttivo di commesse)? Questa continuità si distende su un segmento storico imponente, scosso da profondi terremoti ideologici e da tsunami nichilistici che hanno tante volte sospinto la filosofia vicino al margine della sua implosione (alla «morte» già in passato annunciata sono seguite molte mortificazioni effettive) e comunque alla necessità di rivolgersi domande radicali sulla propria identità e perfino sul proprio diritto a esistere come filosofia. Tuttavia essa – questa continuità che sto evidenziando come il filo rosso della storia lunghissima di aut aut – non è fatta solo di un esercizio etico, di un gesto critico e politico, di un lavoro culturale non disposto a cedere sulla propria responsabilità e che quindi sa che senza riattivare ogni volta il coraggio della battaglia contro l’irrigidimento delle verità non avrebbe più alcuna ragione di esistere. Il filo rosso di cui parlo è certo costituito innanzi tutto da questa tensione etico-politica (da cui prende il suo colore), ma sarebbe un semplice ed esile filo se non acquistasse consistenza anche attraverso un gioco decisivo di memoria filosofica. Uso il termine «gioco» (sul quale, peraltro, aut aut ha parecchio insistito nella fase più recente) poiché non si tratta di un semplice ricordo (per esempio, il ricordo del carattere fenomenologico impresso da Paci alla rivista tra gli anni Cinquanta e i Sessanta), ma di un’elaborazione e forse, più che di un’elaborazione, di una composizione stratificata e aperta di idee in tensione, all’apparenza anche diverse. Se infatti tentassimo una specie di anamnesi alla ricerca di una «linea» filosofica che tiene assieme il percorso della rivista, ci troveremmo subito di fronte a un paradosso (ecco un’altra parola importante della nostra attuale cassetta degli attrezzi): la provenienza appare a tutti chiarissima (e qualcuno perfino ce la invidia), tuttavia è molto difficile descriverla e soprattutto dare un’unità al decorso. Già, cosa intendiamo quando affermiamo la costanza dell’impianto fenomenologico di aut aut, peraltro innegabile ed evi-
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dente? E come riusciamo, poi, a combinare questo impianto (lampante ed enigmatico a un tempo) con le tappe successive, dai Settanta in avanti? Soprattutto per noi, che vediamo le cose dall’interno della rivista, la ricostruzione di questa singolare memoria è essenziale e occorre armarsi di pazienza e coraggio. Quando dico «luoghi chiasmatici» so bene di assumermi un rischio (e me lo prendo in toto proponendo la presente antologia di testi). «Se non te lo prendi tu, che hai in mano la rivista fin dalla metà degli anni Settanta, chi se lo può prendere un simile azzardo?» Così mi hanno sussurrato gli amici della redazione, con buone ragioni: ma già li vedo affilare i coltelli, aspettarmi al varco, e non mi dispiace. L’unico consistente appiglio che possiedo – al pari di tutti quelli che leggono e seguono la rivista (e che non sono così pochi) – è la discussione redazionale che abbiamo pubblicato alla fine del 2001 (sul numero 305-306) a corredo di un fascicolo speciale che riporta gli indici cartacei dei primi cinquant’anni di aut aut). Allora avevamo identificato alcuni snodi: la libertà della cultura vs. la barbarie, la filosofia come esigenza di «uscire» dal suo recinto disciplinare, e anche la pratica della scrittura come tema filosofico non secondario ed esercizio concreto. Nella discussione si leggevano in filigrana quelli che chiamo qui i luoghi chiasmatici: la fenomenologia, la questione dei bisogni, il pensiero debole, la questione del potere nella società disciplinare di oggi, la questione dell’alterità come apertura di campo ma anche con le sue retoriche. È un elenco certamente troppo stretto, che esclude moltissime ulteriori declinazioni, tuttavia può servire come un primo orientamento. Un nodo soprattutto, mi sembra, lega questa catena di luoghi, ognuno dei quali è stato percorso dalla rivista come un crocevia di discorsi critici più che alla stregua di un blocco di pensiero: ed è il nodo della soggettività, il quale resta dall’inizio alla fine il riferimento filosofico di aut aut, il suo pressante e irrinunciabile «experimentum crucis», il suo cruccio, il terreno mai abbandonato di costante insoddisfazione, la domanda che ogni volta è stata riproposta al futuro e che ancora oggi ci appare sospesa in un mondo culturale pur così terremotato. È in definitiva la domanda che Paci poneva nell’immaginario esergo della rivista, dopo la sua traversata dell’esistenzialismo, e ancora dopo aver tentato di disegnare un pensiero della relazione, per approdare alla fenomenologia e chiedere a essa lo stile di una risposta possibile. Negli an-
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ni Sessanta, attraverso le pagine brevi di una fortunata rubrica che chiudeva ogni fascicolo («Il senso delle parole», di cui poi avremmo cercato di conservare la traccia e la memoria nei decenni successivi), Paci indicò i modi e gli sviluppi della sua risposta fenomenologica tutta giocata sulla concretezza, cioè sulle pratiche della soggettività «in prima persona». Qui si colloca l’incontro decisivo con Marx (e anche l’incontro-scontro con il Sartre della Critica della ragione dialettica), l’apertura critica nei confronti di Lévi-Strauss e di Freud, l’alleanza con Merleau-Ponty e con Ricœur. Occorre comprendere dentro questo orizzonte l’entusiasmo di Paci verso i movimenti degli studenti sfociati nel Sessantotto (entusiasmo sempre critico, sul quale poi è stata fatta cadere una sorta di ombra quasi fosse un incidente di percorso) e il cospicuo viatico di idee che lascerà ai continuatori (cioè, alla storia successiva di aut aut). Il suo tentativo di costruire, lungo gli stessi anni Sessanta, un’ipotesi di «enciclopedia dei saperi», fondata filosoficamente su una originale lettura di Husserl non deve trarre in inganno i lettori di oggi: il vero motore di esso era quel crocevia tra Husserl (il «suo» Husserl) e Marx grazie al quale Paci voleva tentare di chiarificare la «critica dell’economia politica» (sottotitolo del Capitale) sbloccandola dalle derive oggettivistiche e rivalorizzandola attraverso le pratiche soggettive. Da questo nodo discende il decennio «rosso» della rivista con le sue tangenze nei confronti dell’operaismo italiano (in particolare con l’esperienza torinese di Raniero Panzieri). È allora, cioè nel cuore dei travagliati anni Settanta, che la redazione di aut aut prende a funzionare come un collettivo aperto e un laboratorio di discussioni anche molto accese (ricordo le reprimende che ci faceva Franco Fortini, per qualche anno assiduo frequentatore delle nostre riunioni). Così la rivista divenne una voce significativa e non poco ascoltata nell’ambito del marxismo critico più radicale. Paci aveva dovuto passare il testimone (morì prematuramente nel 1976), dopo avere pubblicato su aut aut circa duecento saggi (!), ma fu ancora lui a fornire il detonatore filosofico della nuova stagione più esplicitamente «politica» della rivista, lanciando il tema di una fenomenologia dei bisogni e lasciando in eredità, insieme a un ulteriore progetto filosofico (che era in sostanza una battaglia contro l’imbarbarimento del marxismo stesso) anche la precisa indicazione di un lavoro da svolgere dentro il co-
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siddetto socialismo reale. Era stato proprio lui, infatti, a immettere nella rivista l’interesse e le effettive relazioni con la Scuola di Budapest, ovvero quel gruppo di allievi di Lukács (il Lukács di Storia e coscienza di classe) cui in Ungheria era stata tolta la parola perché troppo scomodi per il regime là vigente. Nel corso degli anni Settanta, aut aut documentò a più riprese tali posizioni «eretiche», spesso bollate come revisionismo umanistico, e diede molto spazio a queste voci. Ricordo solo che il libro di Ágnes Heller sulla questione dei bisogni in Marx, che aveva circolato in forma di samizdat, venne accolto nelle pagine della rivista (e poi pubblicato da Feltrinelli, sempre per iniziativa di aut aut). Si trattò di un piccolo evento (in seguito questo libro venne diffuso in varie lingue e suscitò un dibattito internazionale): la questione dei bisogni diventò, attraverso di esso, un tema assai poco universitario, cioè tutt’altro che semplicemente intellettualistico, assumendo il ruolo di un operatore teorico-politico in presa diretta con le istanze della realtà sociale di allora. È facile constatare come la domanda sulla soggettività trovi qui una particolare vibrazione e una sua peculiare traducibilità. Ci si chiedeva che fine avesse fatto il soggetto nell’eredità marxiana e nei movimenti sociali che vi si richiamavano. E vi risuonava una parola dall’evidente stile fenomenologico: questi bisogni avevano da essere bisogni radicali, andavano al di là di ogni gabbia tecnico-economica, anzi potevano smascherare ogni tentativo di chiusura e di disciplinamento. La storia successiva di aut aut cambia passo, come era inevitabile di fronte al pesante sipario della cosiddetta «normalizzazione». Una nota redazionale del 1980 (cfr. n. 175-176) fa il punto della situazione con molta chiarezza. Credo che si possa affermare che la rivista, che era già un laboratorio critico assai aperto, non venne spiazzata dall’implosione che si diffondeva nella realtà dei fatti sociali (dando luogo a una deriva eticofilosofica, o semplicemente «ideale», che si espande fino al nostro attuale presente). C’era infatti già, in aut aut, un rilevante magazzino di risorse critiche che potevano essere liberate e messe al lavoro in una situazione culturale in cui occorreva adesso allargare gli orizzonti e costruire con pazienza strumenti utili di analisi. Basterebbe citare il lungo elenco di incursioni, documentate da fascicoli speciali a carattere monografico, che allora cominciarono a essere intraprese, non certo solo sul terreno specifico del-
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la filosofia (da Lacan a Jung, da Benjamin ad Aby Warburg, dall’attualità del pensiero antico al «pensiero» di Proust, per citare gli inizi di un percorso che dura fino a oggi). L’importante dialogo con Michel Foucault comincia già nel 1978 con un fascicolo speciale su Potere e sapere. Ne seguiranno diversi altri fino al recentissimo fascicolo (2011) dedicato ai cinquant’anni della Storia della follia, ed è difficile non riconoscere che, dopo il crocevia Husserl (chiamiamolo così), il crocevia Foucault abbia costituito per la rivista un riferimento essenziale e un significativo elemento di identificazione. Meno facile è dire in poche battute in cosa sia consistito e cosa abbia rappresentato (e rappresenti) per noi tale crocevia. Bisogna anche rendere conto della relativa sovrapposizione che esso ha avuto nel lavoro di aut aut (che resta comunque sempre plurale e composito) con un altro nodo filosofico, il «pensiero debole», che soprattutto negli anni Ottanta (ma anche in seguito) ha attraversato le pagine della rivista. Il modo con cui Foucault aveva proposto, negli stessi anni Settanta, di centrare l’analisi sul rapporto indivisibile tra forme del potere e forme del sapere, metteva radicalmente in discussione la presunta autonomia di qualunque istanza filosofica e l’idea stessa di verità intesa come un presupposto oggettivo ed esterno. Questa chiarificazione critica entrava perfettamente in consonanza con il lavoro di decostruzione avviato da aut aut fin dalla sua nascita. Risultò per noi secondario che Foucault non avesse battuto i sentieri della fenomenologia e non avesse collocato in cima ai suoi interessi teorici la domanda sulla soggettività. Primaria era la consonanza di uno stile di ricerca, la cui posta etica era visibilmente latente (e che si sarebbe poi rivelata con piena evidenza). Primario per noi era il tipo di battaglia da lui ostinatamente condotta contro ogni idea di Verità (con la maiuscola) che non riconoscesse di essere presa in un gioco di potere e di rappresentare essa stessa una determinata manifestazione di tale gioco. Ma altrettanto importante risultava l’attenzione a una storia de-metafisicizzata e osservata con uno sguardo microfisico. Era proprio questo l’obiettivo cui mirava la nostra fenomenologia dei bisogni concreti e radicali – almeno così pensavano alcuni di noi. E un ulteriore specifico terreno nel quale ci ritrovavamo con Foucault era la rivalutazione del pensiero genealogico di Nietzsche. La pubblicazione del reading sul Pensiero debole, a cura di Gianni Vat-
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timo e mia, avviene (presso Feltrinelli) nel 1983. Poco più tardi esce, più defilato, L’elogio del pudore, scritto a quattro mani con Alessandro Dal Lago. Lo ricordo perché il tema della «debolezza» era stato anticipato su aut aut e diventò per la rivista uno snodo filosofico che si connetteva sia con la stagione marxiana dei bisogni sia con l’entrata in scena di Foucault. Vattimo, naturalmente, trovò ospitalità nei nostri dibattiti riversandovi la sua lettura di Nietzsche e la sua riabilitazione di Heidegger, un orizzonte – quest’ultimo – che la rivista, nella sua impostazione fenomenologica, aveva tenuto molto ai margini. Ora Heidegger veniva, per così dire, sdoganato e negli anni che seguirono ricevette una particolare attenzione con una serie di fascicoli speciali. Ma i punti essenziali relativi al «pensiero debole» vanno indicati con precisione, considerando che molta nebbia si era subito levata sull’intera questione. Li sintetizzerei in due ordini di problemi: la «violenza della metafisica» e il «pudore della verità». Entrambi permettono di capire l’alleanza con la critica del potere di matrice foucaultiana, ma soprattutto segnano con chiarezza la continuità dell’ispirazione teorico-pratica di aut aut. Nel laboratorio a più voci (e con pluralità di uscite) in cui la rivista si trasformò a partire dagli anni Ottanta, il lavoro critico sulle forme in cui il potere agisce dentro il discorso filosofico con caratteri autoritari e anche violenti fu una specie di basso continuo, la cui parentela con il progetto iniziale di lotta contro la barbarie nel pensiero e nella cultura era trasparente. Di converso, l’«elogio del pudore» (che avrà molte aperture: Jankélévitch, Deleuze, Lévinas, Hannah Arendt ecc.) diventò la cifra, etica – se vogliamo dire – di un soggetto completamente responsabile della sua finitezza e di una pratica intellettuale che vi si conformasse: rappresentò, così, la tonalità del nuovo «impegno» della rivista su un terreno assai friabile, forse anche provocatorio rispetto ai toni alti propri del filosofare, un esercizio radicalmente esposto all’autocritica e quindi terribilmente faticoso. Qui entrava anche in scena una virtuosità della lentezza che si coniugava con l’esigenza del distanziamento, e che cozzava contro l’opposta esigenza della fretta e di risposte immediate che il mondo della cultura sembrava adesso chiedere con ansia crescente. Questo esercizio a me pare la cucitura di fondo che identifica il lavoro di esplorazione teorica di aut aut negli anni Novanta e nel primo decennio
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del Duemila, quando lo sguardo internazionale si allarga ulteriormente e di pari passo si accentuano i debordamenti di pensiero al di fuori dei canoni strettamente filosofici. Gli esempi, anche qui, compongono un lungo elenco, a cominciare dall’interesse marcato verso gli incroci tra psicanalisi e filosofia o verso il sommovimento critico all’interno dell’istituzione psichiatrica (soprattutto in Italia, con l’esperienza di Franco Basaglia), o, ancora, verso il pensiero femminile (da María Zambrano a Judith Butler), senza dimenticare il patrimonio di suggerimenti filosofici che aut aut valorizza attraversando il pensiero e la pratica di Bateson e di Goffman, patrimonio, questo, che diventa uno strumento non irrilevante nella cassetta della rivista (basterebbe solo ricordare i temi del gioco, dell’umorismo e del paradosso). Jacques Derrida, comunque, è stato forse – insieme a Foucault – il nostro migliore compagno di viaggio nello scorcio di secolo passato, e ha lasciato nella rivista tracce molto importanti. Nel caso di Derrida, si è trattato di un rapporto diretto (grazie soprattutto all’iniziativa di Maurizio Ferraris): la rivista ha pubblicato numerosi suoi scritti (più di venti) e altrettanti gliene ha dedicati. Per quanto Derrida non abbia mai partecipato alle riunioni di redazione, abbiamo vissuto la sua presenza come quella di un vero e proprio redattore dal nome insigne. Ci ha indicato parecchie strade da percorrere all’interno della nostra stessa impostazione, e specialmente – a mio modo di vedere – la strada della scrittura e la strada dell’alterità. Non c’è filosofia senza scrittura. Ecco un altro nodo importante su cui la rivista ha insistito (anche organizzando seminari e uscite pubbliche), perché a un certo punto ci si è resi conto che la filosofia correva il rischio di disimparare a leggere e a scrivere, e quelli di noi che insegnavano lo verificavano nelle loro pratiche quotidiane. Derrida poteva, così, «insegnarci» l’importanza teoretica della scrittura, ma anche il fatto che essa non poteva limitarsi a essere un oggetto filosofico da ripensare (non c’era solo lui, ma anche Jabès, o Blanchot, o Ricœur, o lo stesso Bateson a spingerci su questo terreno, per esempio a interrogarci sulla questione della metafora ), ma doveva tradursi in una pratica effettiva di lettura e di stesura. In altri termini, per arrivare alla produzione stessa della nostra rivista, ciò sollecitava un’attenzione ulteriore a come erano scritti (con quale specifica consapevolezza) i testi che pubblicavamo, ma anche a come do-
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vevamo «leggere» i testi che arrivavano in redazione e i nostri stessi, una volta che la scrittura acquisisse il carattere di un elemento filosoficamente centrale. In che modo, per esempio, entrava in gioco il problema della narrazione? La strada dell’alterità era già ben presente nelle nostre radici fenomenologiche (Paci insisteva di continuo sull’importanza e sulla densità critica della Quinta delle Meditazioni cartesiane di Husserl). Derrida (complice anche Lévinas) la ha ulteriormente spianata attraverso le riflessioni sull’evento dell’arrivante (con il suo carico di sorpresa e novità, ma anche di impatto paradossale) e sulla esperienza dell’ospitalità, che alla fine viene a coincidere con la stessa esperienza filosofica. Per noi, questo modo di intendere l’alterità, senza farla diventare una categoria astratta e dunque senza nasconderne le implicite retoriche, poteva declinarsi – e così è stato – con gli input teorici che ci venivano da Foucault (cui forniva un essenziale complemento) e con la stessa pratica filosofica del pensiero debole. Il tema dell’alterità resta infine, a mio parere, il nucleo teorico dell’attuale programma di aut aut. Dopo sessant’anni tantissima acqua è passata sotto il nostro fragile ponticello, ma siamo sempre lì a riscrivere quel messaggio nella bottiglia da cui la rivista ha preso vita. L’alterità ha due facce, e non c’è dubbio che la faccia rivolta all’esterno, cioè al mondo reale della pratiche quotidiane, culturali, politiche (e a quella sorta di invasione che esso subisce, a ogni latitudine, da parte di ciò che vi arriva), abbia sempre più preso piede nella rivista. Basta sfogliare gli indici delle ultime annate per rendersi conto di questo trend accentuato (la critica del multiculturalismo, l’incursione nelle «Afriche» e nel nuovo colonialismo, l’ipotesi di un atlante orientale-occidentale, per citare solo qualche esempio, ma anche l’attenzione complessiva agli studi culturali, alla figura dell’immigrato, nonché ai problemi della scuola e della società italiana). Questa «attenzione» rivolta al fuori, inteso come luogo di costante criticità delle pratiche centrate sull’altro, ha trovato di recente un’immagine significativa nella «inattualità» di Pier Paolo Pasolini e ci siamo chiesti (in un monografico del 2010) come sia possibile trattare oggi la sua ipotesi di una «mutazione antropologica» e come sia possibile immettervi le alterazioni che abbiamo sotto gli occhi e sulle quali è forse possibile costruire nuove «politiche» della filosofia. Non saprei dire se la faccia rivolta verso l’interno, cioè verso la nostra
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soggettività, sia più o meno importante. C’è una coalescenza tra le due dimensioni, direbbe Gilles Deleuze (un altro dei nostri «veri» amici), e forse non è mai possibile separarle. Ce lo insegna tutta la storia della rivista, anche se è un fatto verificabile che il baricentro si è spostato sensibilmente. La faccia dell’alterità, che riguarda il soggetto che noi siamo, ci dice con chiarezza che questo soggetto deve cedere sulla propria padronanza, se vuole riuscire a descrivere le pratiche in cui è preso con un minimo di credibilità. Deve cedere spazio all’alterità in se stesso (e allora si capisce perché abbiamo tanto insistito su un pensiero così impopolare e ostico come quello di Lacan), deve far posto dentro di sé all’arrivante (un altro soggetto o semplicemente un altro pensiero), deve realizzare in se stesso una condizione di ospitalità. Su quest’ultimo aspetto, abbiamo parecchio discusso nelle nostre riunioni redazionali e non sempre ci siamo trovati d’accordo. A chi sospetta che qui scatti una trappola filosofica che potrebbe allontanarci dai problemi reali annacquando il discorso, vorrei rispondere che l’idea di ospitalità ci fa dormire sonni tranquilli solo se la svuotiamo della sua alterità (come spesso accade), ma, al contrario, funziona come un potente pungolo critico se consideriamo che il soggetto, se ne è qualcosa, è sempre ospite di se stesso e non può mai rivendicare la proprietà della casa in cui pure vive.
Nota Come il lettore di quest’antologia intuisce bene, anche il curatore di essa, di fronte a una vicenda così estesa nel tempo e così ricca di nomi e di proposte teoriche (assai più di quante lui stesso – che pure ha vissuto in prima persona e fascicolo per fascicolo gran parte di tale storia – aveva in mente all’inizio del suo lavoro), ha dovuto munirsi di un certo coraggio e prendersi i rischi di una scelta brutale, destinata a escludere molto e comunque a documentare molto meno (solo un piccolo frammento) di ciò che avrebbe meritato di comparire. Il criterio della significatività non poteva che risultare assai stretto e talora decisamente arbitrario (o almeno personale). Il curatore ha ritenuto che fosse un rischio in ogni caso da correre, anche se si rende perfettamente conto che altre scelte potevano essere fatte, altrettanto ragionevoli e forse migliori.
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La scelta più importante è stata quella di dare un titolo a ogni tratto della sequenza. Che questi segmenti temporali coprano ciascuno un decennio, non è solo un espediente di comodo. Gli anni Cinquanta, che ho titolato Una nuova idea di cultura, i Sessanta, che ho chiamato Gli anni della fenomenologia, e i Settanta, cioè Il decennio dei bisogni, corrispondono bene a tre sequenze storiche della rivista che mi sembrano delineate e documentabili sia in rapporto alle dinamiche interne (segnate dalla sviluppo dei temi fenomenologici rielaborati da Enzo Paci) sia in rapporto alla complessiva realtà politico-culturale esterna. Ho poi ipotizzato, nel tragitto di aut aut, una seconda fase che va dall’inizio degli anni Ottanta fino a oggi: qui si apre e si articola, come ho detto sopra, un multiforme laboratorio filosofico, un cantiere critico che è tuttora il tratto distintivo della rivista: le sequenze tuttavia sono meno nette e i passaggi dall’una all’altra più intrecciati. Perciò i tre titoli successivi (Un pensiero debole? per gli anni Ottanta, Con Foucault, Derrida e gli altri per i Novanta e La filosofia messa in gioco per il decennio 2000-2010) hanno un carattere sì pregnante, ma soprattutto orientativo: indicano alcune questioni e vie molto significative, alle quali potrebbero essere anche affiancate altre intensità problematiche e aperture teoriche. Il lettore troverà anche, come premessa a ogni sequenza, brevi informazioni sui temi più importanti del periodo, sulle collaborazioni più notevoli e sulle trasformazioni dell’assetto redazionale della rivista. Un particolare ringraziamento va naturalmente a Francesca Romana Paci, figlia di Enzo e proprietaria della testata della rivista, e a tutti gli autori degli scritti qui antologizzati. settembre 2011