Su “aut aut” e il fare filosofia. Ripensare l’“essere-al-mondo” ROSELLA PREZZO
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arlare di “aut aut” come luogo di filosofia è per me richiamare inevitabilmente una parte della mia storia (del resto, per chi crede alle congiunture astrali, il mio anno di nascita corrisponde a quello della rivista...). “aut aut” ha rappresentato infatti uno dei miei iniziali legami e a lungo uno dei principali tramiti, più che col sapere filosofico, col fare filosofia. Sul cui significato, nel segno di questo anniversario, ci stiamo oggi reinterrogando in una situazione anche di disagio e disorientamento, almeno per alcuni di noi. Prima quindi di indicare qualcosa nel presente su cui varrebbe forse la pena appuntare la nostra attenzione come a questioni aperte o da riformulare, riconsiderando insieme i nodi tematici che Pier Aldo Rovatti ha ben focalizzato nella storia della rivista sotto la formula “il coraggio della filosofia”, ecco il mio personale sguardo all’indietro. Uno sguardo che non vuol essere di semplice amarcord, bensì un tentativo di uscire dalle secche teoriche, dalla miseria simbolica e dalla frantumazione del pensare che mi paiono il tratto dominante del momento attuale. Nella prima metà degli anni settanta, all’Università di Milano, ho avuto la fortuna di incontrare dei bravi maestri tra cui Enzo Paci: uno straordinario Socrate “corruttore” di giovani che comunicava soprattutto il “piacere del pensare”, che era anche una scuola di libertà e laicità. E nelle cui appassionanti lezioni Kierkegaard andava a braccetto con Kafka, Sartre con Antonioni, la Fenomenologia dello spirito hegeliana era letta attraverso il Bildungsaut aut, 353, 2012, 19-23
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roman, o la musica veniva a volte intonata per far sentire il passaggio logico di un discorso. Tutto ciò in un periodo pieno di effervescenza e di comunicazione, appunto di movimento. Ma, paradossalmente, proprio negli anni in cui mi laureavo con una tesi su Marx e Hegel si sputava su Hegel. Circolava infatti l’ingiunzione femminista irriverente di Carla Lonzi Sputiamo su Hegel, in cui si leggeva, tra l’altro: “Non riconoscendosi nella cultura maschile, la donna le toglie l’illusione dell’universalità”. Cosa che mi provocò un certo imbarazzo ma anche un forte turbamento perché mi metteva in gioco nella mia identità di giovane filosofa (anzi, filosofo) in formazione. L’effetto di contraccolpo, anche comico e di autoironia, lo percepii solo più tardi nel mio fare filosofia. Allora, i “luoghi delle donne” non corrispondevano per nulla ai “luoghi della filosofia”. Anzi, per dirla tutta, la filosofia non era molto gradita né granché considerata dalle donne che andavano movimentando non solo la vita pubblica e privata ma anche quella del pensiero e delle sue modalità. E in quei luoghi, che pur mi attiravano e mi coinvolgevano, mi sentivo impoverita perché il sapere che stavo acquisendo, accumulandolo con passione sembrava moneta fuori corso. Mi ritraevo perciò un po’ turbata da quel pieno di pratiche collettive, e un po’ diffidente nei confronti di quel che di “militare” ho sempre sentito in ogni “militanza”. Eppure, tornando a casa tra i testi dei filosofi, nel tempo della riflessione – un tempo sempre differito ma che non può mai essere astrazione dal tempo comune – avvertivo una profonda comprensione per alcune di quelle obiezioni di fondo. E nella mia testa echeggiavano come interrogativi ineludibili quelle verità di “fuori”, perché mi riguardavano intimamente, consentendo l’ascolto del mio interrogare interiore e aprendomi ad altre fonti di senso. Questa libertà e questa paradossalità, lezione che i miei maestri e la mia presenza al mondo mi avevano dato, hanno potuto trovare ospitalità in “aut aut” (ormai passata sotto l’abile regia di Rovatti). Un luogo, almeno per me, dove il pensiero filosofico non tendeva a raggiungere un “inquadramento” disciplinare, né si limitava a opere che parlano solo di se stesse o di altre opere, e nemmeno era inteso come “argomento” cui dedicare il proprio lavo20
ro intellettuale, tanto meno come un’esperienza solitaria al riparo da altre esperienze. Era soprattutto un pensare partecipato e partecipativo in una presenza viva, che si alimentava di incontri, scontri, risate, serietà, lavoro, studio, illusioni e delusioni, progetti (tanti...) e anche errori, abbagli e fallimenti. Sempre però attraverso un esercizio dello sguardo attento a ciò che si muoveva attorno, nella società nella cultura nella politica, e aggiungerei anche in se stessi. Col rammarico a volte di non essere stati abbastanza agili. Dico questo non per idealizzare un passato, in un mondo decisamente cambiato, né per dare di “aut aut” un’immagine esemplare, ma per la necessità che sento di mantenere un filo di quella trama. Un filo che, intrecciando il pensiero alla vita e al mondo (al con-vivere nel mondo), lo mette sempre alla prova e lo sfida a riformularsi. Forse oggi il “coraggio”, se proprio vogliamo parlare di coraggio connesso alla filosofia, è accettare di subire il contraccolpo (anche sui nostri stessi pensieri, simbolizzazioni e teorizzazioni) del mondo in cui siamo parte in causa. E scoprire/scoprirci così “vuoti di sapere”, cosa che rimanda anche a necessari svuotamenti, a partire dai quali e con i quali riprendere a pensare filosoficamente. Azzardo allora qui alcune ipotesi di lavoro. In quell’unico paese spaesato che ormai tutti abitiamo, il concetto stesso di spaesamento (che molti autori di “aut aut” hanno elaborato in modi diversi) è ormai un dato di fatto più che un’opzione teorica. Ora, se questo spaesamento può essere assunto come fertile dislocazione del nostro punto di vista per poter vedere meglio anche noi stessi (come ci ha indicato una recente sezione della rivista curata da Paulo Barone, dal titolo Atlante occidentale-orientale), esso comporta allo stesso tempo una nuova interrogazione sul divenire-mondo dell’umano, e sul conseguente ribaltamento della nota formula di Scheler e di Gehlen: potremmo dire, dal “posto dell’uomo nel mondo” alla “presenza del mondo nell’essere umano”. D’altra parte, la parola “mondo”, oscurato ogni significato di convivenza collettiva, s’identifica senza resto con globalizzazione, ossia con mercato globale e finanziario, assurto a ente supremo, 21
legge senza legge, e quindi di volta in volta da sacralizzare o da bestemmiare in modo reattivo. In “questo” mondo i soggetti, la cui cifra dell’essere-al-mondo si risolve nella loro disponibilità, nel loro essere corpi a disposizione (rintracciabili, dislocabili, costruibili o rottamabili) sono diventati tanto flessibili fino quasi a sparire, tanto che la loro forma di resistenza, e ancor prima di persistenza, come mostrano le nuove rivolte metropolitane o le ondate di migranti-clandestini, si esprime primariamente come “bisogno di esistere”, e di un’esistenza che non sia solo da consumare o liquidare. Parallelamente, l’attenzione al linguaggio in cui siamo immersi deve farsi particolarmente vigile. Nelle democrazie svuotate e parodiate con cui abbiamo a che fare mi sembra infatti che nessuno si appelli più a verità supreme e assolute (quelle con la V maiuscola), irrigidite, verso cui esercitare la critica come verso espressioni della “violenza della metafisica”; al contrario. Il linguaggio del potere sembra piuttosto quello che accompagna il gioco delle tre tavolette, che inibisce e imbambola l’ascoltatore-spettatore, distogliendolo dal movimento delle mani che si mostrano sotto i suoi occhi. Più che con verità abbiamo a che fare con menzogne indiscernibili. Il linguaggio si struttura unicamente come comunicazione mediatica, insieme a una logica che pensa per concepts, secondo il modello pubblicitario del marketing, che è ciò che definisce gli obiettivi del business, legando obiettivi di guadagno alla creatività, e che veicola insieme all’idea del prodotto progettato il tipo di emozioni e sentimenti che si intende trasmettere e suscitare. Una logica sempre più invasiva e pervasiva, che ingloba sfere sempre più ampie, come quella politica. Ma intervenire sul linguaggio non è sufficiente, perché, come avvertiva già Ingeborg Bachmann, “la realtà acquista un linguaggio nuovo ogni qual volta si verifica uno scatto morale, conoscitivo, e non quando si tratta di rinnovare la lingua in sé, come se essa fosse in grado di far emergere conoscenze e annunciare esperienze che il soggetto non ha mai posseduto”. È qui che la filosofia ritrova allora la sua necessità, non certo per rimettere le braghe al mondo, per fornirne una visione pa22
nottica, né per indicare quale meta raggiungere, ma come guida nel senso di mappa, per riorientarci lì dove siamo. Magari, come è uso del pensiero filosofico, tornando da capo. Risignificando proprio quel concetto di essere-al-mondo che con quello di Da-sein è il concetto heideggeriano che ha conosciuto la migliore fortuna; ma che, non più messo in discussione, e smettendo noi quindi di pensare con esso quando si crede ancora di farlo, si rivela ormai troppo neutro e vuoto di senso rispetto alla nostra attuale condizione di essere-al-mondo. E la categoria stessa di mondo andrebbe allora riformulata, e forse varrebbe la pena di interessarsi anche all’aspetto del venire al mondo, della venuta al mondo dell’esserci, perché il concetto stesso di mondo si salda ormai col dramma dell’arrivato, del nuovo venuto.
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