Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 febbraio 2021 • N. 06
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Società e Territorio
Femminismo, i nostri progressi grazie anche alle immigrate italiane
Voto alle donne Francesca Falk e alcune testimoni dell’epoca ci raccontano come in Svizzera l’immigrazione
è stata utile nel percorso verso la parità di genere Sara Rossi Guidicelli Maria, arrivata nel 1960 da Parma, lavorava in una sartoria di Lugano. Con le colleghe svizzere si prendevano in giro: «Voi siete italiane, venite qua, da voi non c’è lavoro, ci rubate il nostro...», dicevano le ticinesi scherzosamente. «Beh, però almeno da noi le donne possono votare», rispondevano le italiane. Già. In Italia il voto era universale dal 1946.
«Credo che a un certo punto c’è stato il confronto: io avevo la mia paga, andavo in giro con la bicicletta e mandavo i figli all’asilo nido» Secondo Francesca Falk, storica, ricercatrice e docente all’Università di Berna, l’immigrazione italiana ha contribuito alla presa di coscienza e al movimento femminista della società svizzera. «Di solito si pensa agli stereotipi sull’uomo del sud, maschilista e patriarcale. Invece qua da noi c’erano famiglie italiane i cui genitori lavoravano entrambi e si dividevano i mestieri di casa meglio di tante famiglie svizzere. Queste cose venivano notate e hanno certamente fatto breccia in chi già stava pensando che una migliore ripartizione dei compiti fosse auspicabile». Falk due anni fa ha pubblicato la sua ricerca Gender Innovation and Migration in Switzerland per le Edizioni Palgrave Pivot. «Mia madre», racconta l’autrice, «quando è arrivata a San Gallo dall’Italia negli anni Sessanta, ha avuto l’impressione di fare un salto nel passato. Le donne non votavano, le spose avevano bisogno di un’autorizzazione da parte del marito per lavorare (la legge è cambiata solo nel 1988); di solito però non lavoravano e stavano a casa. Il ruolo di casalinga era esaltato e gli asili nido non erano ben visti dalla popolazione svizzera: in Svizzera tedesca le madri che lasciavano i propri figli a qualcun altro durante il giorno veni-
Operaie italiane impiegate alla Hero di Frauenfeld, 1952. (Keystone)
vano chiamate Rabenmutter (madri corvi)». Secondo lei, le italiane che arrivarono a migliaia negli anni Sessanta in Svizzera furono vettore di emancipazione per le svizzere. Per esempio, grazie a loro, aumentarono i posti negli asili nido; prima li frequentavano solo i figli di immigrati, poi piano piano sono serviti a tutti. «Una mia collega ha rilevato in una sua ricerca che le svizzere provavano spesso un sentimento di invidia verso le italiane che sapevano organizzarsi: lavoravano e a turno si aiutavano nella custodia dei bambini. Erano unite e i mariti le aiutavano. C’erano anche casi in cui una donna svizzera che sposava un uomo straniero continuava a lavorare mentre lui stava a casa... negli anni Settanta questo era rarissimo e succedeva perlopiù nelle famiglie miste». Genovina è arrivata giovanissima nel 1967 a Lucerna, con un permesso turistico per andare a trovare sua sorella. Visto che la fabbrica dove lavorava la sorella cercava altre operaie, Genovina ha pensato di rimanere e impiegarsi; è stata quindi spedita a Chiasso a fare la visita sanitaria. «Non me lo dimenticherò mai – racconta –. Dovevamo metterci in fila a torso nudo per farci
visitare. Ci facevano una radiografia e se qualcuno aveva anche solo un po’ d’influenza o se gli si vedevano tracce di una bronchite avuta in passato, lo rispedivano indietro. La Svizzera a quei tempi aveva bisogno di braccia e quindi considerava le persone solo come braccia». È rimasta a Lucerna per nove anni. «Ci guardavano come bestie rare. Noi giovani eravamo considerati un po’ meglio, ma le persone anziane, quelle che venivano dai paesi, gente umile, semplice, che non aveva studiato, venivano umiliate. Ma loro asserivano sempre: il caporeparto li chiamava “dumm, dumm” e loro rispondevano “jo, jo”. Stupido, stupido; sì, sì. Venivano derisi, mentre loro svolgevano lavori pesanti e umili. Poi per fortuna mi sono spostata in Ticino e lì mi sono trovata bene: almeno grazie alla lingua potevo mostrare che anche io facevo dei ragionamenti. Devo dire d’altronde che in Svizzera interna i ticinesi erano considerati alla pari degli italiani, almeno in fabbrica; le persone autoctone ci guardavano tutti noi italofoni dall’alto in basso, anche se i ticinesi erano svizzeri come loro». Però Genovina sorride quando le chiedo delle donne: «Io vengo dal Mez-
zogiorno e lì c’era una cultura maschilista, in quegli anni la donna non doveva dare giudizi, doveva fare solo i suoi doveri di casa. Però... però almeno potevamo votare. In Svizzera invece no. Era una contraddizione. L’ho scoperto quando ero già qua: un paese tanto evoluto nel mondo del lavoro, dei servizi, anche dell’emancipazione femminile in certi sensi... però votavano solo gli uomini. Mi sembrava strano. Le donne contribuivano alla società ma non votavano: un paradosso». Prima del 1971, una donna italiana che sposava uno svizzero perdeva il suo diritto di voto (non poteva infatti mantenere la doppia cittadinanza). Genovina racconta poi che nei paesi era ancora peggio rispetto alla città: in campagna le madri erano perlopiù a casa a occuparsi dei bambini. «Credo che a un certo punto c’è stato il confronto: loro vedevano che noi italiane eravamo più indipendenti. Io avevo la mia paga, andavo in giro con la bicicletta e mandavo i figli all’asilo nido. Ci hanno viste e forse, un po’, hanno avuto voglia di liberarsi e di prendersi dei diritti. Ricordo il primo voto come un boom, una liberazione. Una giustizia che finalmente viene fatta». Secondo Francesca Falk, la Svizze-
si spegneranno per sempre nel lago, Johnny non sarà mai l’ingegnere che sognava di diventare. E anche Tobi sarà vittima della sconcertante gratuità del male. Becky sopravviverà e non si stancherà di raccontare la sua storia (in un Diario e in svariate conferenze). Proprio quest’anno, per la Giornata della Memoria, il LAC con l’Associazione Svizzera-Israele ha organizzato un evento online con la testimonianza di Rossana Ottolenghi, figlia di Becky, e con un toccante video nel quale vediamo la stessa Becky raccontare molti degli episodi dai quali Ferrara ha tratto il suo libro (https://www. youtube.com/watch?v=5-nD2y2QgE). Tra cui la fuga in Svizzera, dove la prima cosa che le venne offerta (da un soldato elvetico, inizialmente e con terrore scambiato per tedesco) fu una tavoletta di cioccolato. Come ha sottolineato Rossana Ottolenghi, sono «leggerezza» e «grazia» a connotare il discorso della madre: a questa grazia, nell’intensità della tragedia, si è ispirato Antonio Ferrara, che è autore anche delle espressive e belle illustrazioni.
Guido Quarzo, Il bambino, la volpe e il buio, San Paolo. Da 8 anni Come nel precedente romanzo, 1958. Le storie in tasca, Guido Quarzo torna agli anni della sua giovinezza. Siamo in estate, in campagna, a casa dei nonni, dove il piccolo Nino si muove tra infanzia (il calore rassicurante della nonna, i giochi con i soldatini, le paure inconfessabili del buio e dell’ignoto) e preadolescenza (i discorsi tra uomini con gli amici del nonno, le prove di coraggio, le battute di caccia). In questo mondo contadino, dove nulla è edulcorato, dove galline e conigli vengono allevati per essere mangiati, e la realtà sembra spadroneggiare in tutta la sua materica presenza, ecco arrivare una volpe, che fa razzie nel pollaio. Sarà proprio la volpe, creatura la cui selvatichezza per certi versi sfuggente e misteriosa ha ispirato tanta letteratura (penso in particolare allo splendido racconto La volpe alla mangiatoia di Pamela Lyndon Travers, autrice di Mary Poppins, o a La signora trasformata in volpe di David Garnett, a cui lo stesso Quarzo afferma di essersi
ra era rimasta indietro per molti fattori; uno di questi è che non aveva partecipato alle due guerre mondiali e quindi non aveva avuto quella necessità di cambiare la società come gli altri paesi in Europa. Il suo boom economico poi aveva rafforzato le sue tendenze conservatrici. «Un’altra ragione – spiega – è la democrazia diretta e il federalismo, con molte votazioni per il diritto di voto alle donne bocciate a livello cantonale». In Italia invece il suffragio femminile era sancito dalla Costituzione già dal 1946 e nel 1948 sulla carta la parità di genere era già stata approvata (da noi questo avvenne nel 1981). Esisteva inoltre l’assicurazione maternità, a scuola l’orario era continuato, così i genitori potevano lavorare entrambi almeno di mattina, mentre in Svizzera era scontato che le mamme fossero a casa. Anche oggi, come allora, la società tende a vedere l’immigrazione sotto lo sguardo critico del «se vengono qui è perché da loro si sta peggio; quindi noi siamo migliori». Ma attenzione, sottolinea Francesca Falk. «La migrazione in realtà può fornire impulsi preziosi per il rinnovamento sociale, anche nella nostra Confederazione. Guardare la storia della migrazione senza vederla solo come un “problema” può darci una prospettiva nuova in base alla quale guardare il nostro passato e il nostro presente. E cambia così anche lo sguardo che proiettiamo nel futuro». Una prossima possibile ricerca per Falk riguarda il fatto che tra chi intraprende la carriera di «educatore per la prima infanzia» ci sono molti giovani uomini con un percorso migratorio. «Questo certo è dovuto in parte al fatto che i ragazzi con un cognome straniero fanno più fatica degli altri a trovare lavori ben pagati e quindi ripiegano a volte su mestieri meno retribuiti. Però, di nuovo, ci distoglie dal solito pregiudizio dell’immigrato machista. Chi lo sa, magari questi uomini faranno da apripista ai nostri ragazzi e alla nostra visione dei mestieri “femminili”». Questa volta dunque potrebbero contribuire all’emancipazione maschile? «Può darsi; in ogni caso, aiutano a combattere il pregiudizio e questo è molto importante».
Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Antonio Ferrara, La guerra di Becky. L’Olocausto del lago Maggiore, Le Rane Interlinea. Da 10 anni Un libro non solo per la Giornata della Memoria, ma per ogni giornata. Perché ai ragazzini, con il giusto linguaggio, si può parlare del male, affinché nel futuro – quando gli adulti saranno loro – non si ripeta mai più. Antonio Ferrara ha già scritto di temi analoghi (ad esempio nel recente La corsa giusta, sul coraggio di Gino Bartali, «Giusto tra le Nazioni») e l’impegno civile fa parte della sua intera opera. Un impegno che Ferrara sintonizza spesso su una prospettiva bambina attraverso la quale offrire la storia. La guerra di Becky è un bel titolo, e Becky è realmente esistita: Rebecca (Becky) Behar (1929-2009), ebrea di origini turche cresciuta a Milano e sfollata con la famiglia a Meina, sulla sponda piemontese del lago Maggiore, dove il padre aveva un albergo, quell’Hotel Meina in cui vennero tenute in ostaggio dai nazisti molte famiglie ebree, poi trucidate e gettate nel lago. Fu l’eccidio del lago Maggiore, la prima
strage di ebrei avvenuta in Italia, tra il settembre e l’ottobre del 1943. Non è di Becky la guerra, è di adulti assassini in cui ogni valore si è spento, ed è la guerra subita da milioni di persone innocenti. Tuttavia è la sua in questa storia, perché ce la racconta lei, con il suo sguardo (visivo e etico) quotidiano, che contempla anche i giochi con gli altri bambini (finché si potrà, prima di essere rinchiusi nella famigerata camera 402); l’amicizia (e forse il primo timido amore) con Johnny, dagli occhi azzurri brillanti come il lago; l’affetto che la lega al suo cagnolino Tobi. Gli occhi azzurri di Johnny
ispirato) a dare una svolta metafisica alla vicenda: Nino è così colpito da questa inafferrabile volpe da farla diventare una sorta di «animale totem», uno spirito guida al quale ispirarsi per trovare la forza di crescere. Diventerà egli stesso una volpe, come nel gioco del «facciamo che ero», e che lo diventi realmente o solo nei suoi sogni poco importa. Quello che importa è che essere un po’ volpe (quel meraviglioso ibrido bambino-animale di cui è intessuto l’immaginario infantile) lo aiuterà a diventare grande. Un racconto realistico e simbolico al contempo, una di quelle estati che ti cambiano la vita.