Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 31 maggio 2021 • N. 22
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Politica e economia
Una flebile speranza per lo Yemen Medio Oriente Dopo sei anni di guerra il Paese è allo stremo, con oltre 20 milioni di persone bisognose
di assistenza umanitaria. Dall’insediamento di Biden qualcosa si muove sul fronte diplomatico ma la strada è in salita Romina Borla Gli Stati uniti hanno di recente annunciato l’imposizione di sanzioni a due leader huthi in Yemen. Si tratta dei principali responsabili dell’offensiva lanciata dalla formazione composta da sciiti zaiditi sulla città di Marib, finora controllata dal Governo riconosciuto internazionalmente, Muhammad Abdul Karim Al-Ghamari e Youssef AlMadani. Si torna dunque a parlare, anche se timidamente, di una delle tante guerre dimenticate, quella che infuria nel Paese mediorientale dal 2015 e che non accenna a terminare. Il territorio, infatti, è sempre conteso tra il Governo yemenita – come detto riconosciuto dalla comunità internazionale e sostenuto dall’Arabia saudita – e i ribelli huthi, appoggiati dall’Iran e da alcuni gruppi tribali. Intanto nel Paese si consuma una delle peggiori crisi umanitarie al mondo, denuncia l’Onu. Oltre 20 milioni di persone, pari a circa il 67 per cento della popolazione, hanno bisogno di assistenza umanitaria e protezione. Dopo 6 anni di guerra sono oltre 300 mila i rifugiati e almeno 4 milioni gli sfollati interni. Catastrofica la situazione sanitaria, con le rare strutture mediche danneggiate dai combattimenti e una forte penuria dei beni di prima necessità. Gran parte dei bambini non ha accesso all’istruzione e più di un terzo
Si inventano giochi anche nel campo per sfollati interni alla periferia della capitale Sanaa. (Keystone)
degli yemeniti soffre la carestia. La pandemia ha solo peggiorato le cose e il tasso di mortalità da Covid-19 si attesta al 22 per cento, uno dei più alti al mondo. Facciamo il punto della situazione con Eleonora Ardemagni, esperta di Yemen, monarchie del Golfo, forze militari arabe e ricercatrice associata all’Istituto per gli studi di politica
Dalla «Primavera» al conflitto senza fine ▶ Nel 2011 in Yemen scoppiano delle sommosse popolari nell’ambito delle «Primavere arabe» che spingono il presidente Ali Abdullah Saleh, al Governo dal 1978, a cedere il potere al suo vice, Abd Rabbo Mansur Hadi (febbraio 2012). ▶ Nel settembre 2014 gli huthi (sciiti zaiditi alleati alle forze che sostengono l’ex presidente Saleh) conquistano la capitale Sanaa e nel gennaio 2015 compiono un colpo di Stato. ▶ Nel marzo 2015 una coalizione guidata dall’Arabia Saudita, a cui aderiscono anche gli Emirati arabi uniti, lancia un’offensiva contro gli huthi. ▶ Nel dicembre 2018 a Stoccolma si aprono i colloqui, sostenuti dall’Onu, tra il Governo yemenita in esilio e gli huthi. Si giunge a un accordo che però non è mai stato del tutto attuato. ▶ Nel gennaio 2021 l’Onu condanna la decisione presa qualche giorno pri-
ma dagli Usa di classificare gli huthi come terroristi in quanto minerebbe il processo di pace. ▶ In febbraio Joe Biden annuncia la fine del sostegno degli Usa alla campagna militare guidata dall’Arabia Saudita in Yemen. Mentre il segretario di Stato americano, Antony Blinken, comunica l’intenzione di ritirare i ribelli sciiti huthi dalla lista dei gruppi considerati terroristi dagli Stati uniti. Intanto gli insorti lanciano un’offensiva per conquistare Marib. ▶ In marzo l’Arabia Saudita propone un cessate il fuoco nazionale, con qualche apertura inedita sull’aeroporto di Sanaa e sul porto di Hodeida, i collegamenti aerei e marittimi dei territori controllati dagli insorti. Ansar Allah, il movimento politico degli huthi, respinge la proposta e chiede prima la rimozione completa dell’embargo.
internazionale (Ispi): «In questo momento l’epicentro della guerra è Marib, ultima roccaforte del Governo internazionalmente riconosciuto. Si tratta di un’area strategica: ospita i più importanti giacimenti petroliferi e gasiferi del Paese, la prima fonte di sostentamento economico per le frammentate istituzioni yemenite». La battaglia è aperta: gli insorti si trovano a pochi chilometri dal capoluogo omonimo, ma le forze filo-governative possono contare sulla copertura aerea della coalizione guidata dai sauditi. «Se gli huthi prevalessero si tratterebbe di una vittoria militareterritoriale significativa nel contesto di un conflitto rimasto finora in bilico», sottolinea Ardemagni. «Inoltre non dimentichiamo che la zona accoglie quasi un milione di sfollati interni in fuga dalla guerra. Gli scontri in atto rischiano di aggravare una situazione umanitaria già ingestibile». Combattimenti d’intensità variabile si registrano anche nella città sotto assedio di Taiz e nel governatorato di Hodeida. Ma quali sono le radici di quella che è stata denominata una guerra per procura tra Arabia Saudita (alleata agli Emirati arabi uniti) e Iran? L’esperta ricorda che il conflitto in Yemen è iniziato come intervento di una coalizione a guida saudita contro gli huthi che avevano occupato la capitale Sanaa e guidato un golpe nel 2015. «Inizialmente si trattava di una guerra politica, interna, scoppiata a causa del fallimento della transizione istituzionale segui-
ta alla rivolta anti-governativa del 2011, nell’ambito delle Primavere arabe. Gradualmente però si è trasformata in un conflitto a partecipazione regionale: per difendere i loro interessi Arabia saudita, Iran ed Emirati arabi uniti si sono schierati con gli attori yemeniti in contrapposizione tra loro». L’obiettivo dell’Arabia saudita – precisa Ardemagni – era ed è quello di riprendere il controllo della parte di Yemen conquistata dagli huthi e mettere in sicurezza l’ormai turbolenta zona di confine. Invece l’Iran, attraverso il sostegno militare agli huthi, è riuscito ad aumentare la sua influenza geopolitica sul Paese. Stessa cosa si può dire per gli Emirati arabi uniti, alleati dell’Arabia saudita, che si sono concentrati sulle operazioni di terra nelle regioni meridionali dello Yemen e hanno allacciato una serie di alleanze con gli attori locali che sostengono l’autonomia dal nord. Nel 2019 gli emiratini si sono formalmente ritirati dal conflitto ma mantengono una forte influenza sull’area grazie appunto a questi legami. Attenzione poi al ruolo dei fondamentalisti islamici. «È da diversi decenni che in Yemen operano gruppi di jihadisti, in particolare nel sud del Paese», afferma l’intervistata. «Ad esempio nel 2015 e 2016 al Qaeda era riuscita ad occupare città strategiche (come Jaar, Zinjibar, Mukalla) che poi sono state recuperate con un’azione militare congiunta dell’esercito yemenita e di milizie locali guidate dagli Emirati
arabi uniti. Adesso l’organizzazione sta rialzando la testa e mira a conquistare sempre più spazio: da inizio 2021 sono ripresi gli attacchi mirati contro esponenti delle forze di sicurezza del Governo riconosciuto o contro gruppi locali». In gioco ci sono enormi interessi. Lo Yemen – osserva l’esperta – è un Paese strategico nello scacchiere mediorientale perché unisce tre universi, essendo geograficamente collocato tra mondo arabo, il Golfo, l’Africa orientale (il Corno d’Africa) e l’Oceano indiano (l’Asia meridionale). Dalle coste yemenite passa una via marittima molto importante – quella del Bab el-Mandeb (lo stretto che collega il Mar Rosso al Golfo di Aden e quindi all’Oceano Indiano) – essenziale per il traffico commerciale e petrolifero. Per questo è una terra contesa. Quali sono i possibili sviluppi dell’intricata situazione? «L’Arabia saudita – indica Ardemagni – non è finora riuscita e probabilmente non riuscirà mai a raggiungere gli obiettivi che si era fissata nel 2015, ovvero riprendere il controllo della capitale Saana e spingere gli huthi nei loro territori di origine, nell’estremo nord del Paese. Pensava di poter vincere con una rapida azione, vista l’asimmetria militare tra Riad e gli insorti. Ma gli huthi sono stati abili nell’intrecciare alleanze politiche, militari e tribali. Si sono rafforzati soprattutto grazie al sostegno militare dell’Iran e all’appoggio del gruppo che sosteneva l’ex presidente Ali Abdullah Saleh, desideroso di riconquistare il potere perduto durante la Primavera yemenita». E adesso? Si aprono degli spiragli diplomatici con l’Amministrazione Biden che, a differenza di quella di Trump, spinge per una soluzione politica. Pensiamo alla mossa degli Usa di levare dalla lista nera del terrorismo internazionale Ansar Allah, il movimento politico degli huthi, e – dall’altra – alla volontà di calibrare la relazione strategica con l’Arabia saudita, spingendo il Paese sulla via della diplomazia. «Il momento è dunque favorevole – sottolinea l’esperta – ma lo Yemen è diventato, anche a causa di questo conflitto, un Paese decisamente frammentato, con molteplici attori politici-militari sul campo e molte agende politiche locali in conflitto l’una con l’altra. Sarà estremamente difficile arrivare a un cessate il fuoco duraturo e a un processo di pace che stabilizzi il Paese. Il primo accordo di pace deve essere siglato tra yemeniti ma questi non sembrano per il momento interessati a farlo». Annuncio pubblicitario
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