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di Enrico Dalcastagné
Fame d’affetto, nuove povertà nella mensa popolare
Anziani soli, italiani over 50 disoccupati e immigrati senza fissa dimora. L’Oratorio del Caravita è il simbolo della nuova emergenza povertà in Italia
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di Martina Coscetta
Sono le 12 di un freddo sabato di gennaio quando una fila di persone comincia a raggrupparsi disordinatamente fuori il portone dell’Oratorio del Caravita, nel cuore di Roma. Siamo a pochi metri di distanza dalla Camera dei Deputati e da Palazzo Chigi. In quella che ogni giorno è una piccola chiesa storica del centro della Capitale da quattro anni ogni sabato i banchi della Messa vengono spostati per lasciare posto ai tavoli che accolgono senzatetto, immigrati in stato di necessità e anziani che non riescono ad arrivare a fine mese. A servire i pasti caldi – sempre abbondanti, con primo, secondo, dolce e frutta – una squadra di giovani volontari del Liceo Classico “Visconti” e di adulti laici che condividono anche un percorso di fede comunitaria.
A guidare la squadra dei volontari del sabato c’è sempre Padre Massimo Nevola, il rettore dell’Oratorio, un gesuita napoletano che ama scherzare con i suoi ospiti del pranzo. Con tanto di microfono impostato al massimo dei decibel intona canti della tradizione napoletana e invita tutti a fare altrettanto, spesso nella triste indifferenza di chi è lì per consumare un pasto veloce e andare via. Con il suo fare cerca di sdrammatizzare i toni Padre Massimo, ma non nasconde la gravità del suo lavoro in mensa: «Quando uno ha fame non può attendere le grandi riforme degli Stati. Quando uno ha fame deve mangiare», dice lapidario, togliendosi la mascherina come a voler essere ancora più incisivo. «Noto più italiani del solito venire a mangiare qui, quasi tutti adulti senza un lavoro, o nel peggiore dei casi anziani soli senza una pensione sufficiente a vivere con dignità. Cerchiamo di creare un clima disteso che permetta un’accoglienza calda e discreta, ma è diventato tutto più complicato con l’arrivo della pandemia».
Le portate del pranzo si alternano frettolosamente e il cibo avanza come ogni sabato. Padre Massimo passa di tavolo in tavolo per parlare del più e del meno con i suoi ospiti, per sapere come procedono le loro vite. Molti non alzano la testa e restano schivi, i più anziani chiacchierano senza problemi. «La solitudine è la malattia più importante. È difficile da curare da quando è arrivato il covid, ma questa mensa mi aiuta a combatterla», spiega M., pensionata di 78 anni. Da tre anni M. frequenta diverse mense caritative data la bassa pensione percepita, ma spiega di aver perso nel 2020 il briciolo di sicurezza sociale che le era rimasto.
«Se non ci fosse il mondo religioso gli immigrati, i rifugiati e le persone senza documenti soffrirebbero molto di più. Da musulmano in Italia mi ritengo salvato dal volontariato cristiano», dice al tavolo affianco R., tunisino rimasto senza lavoro a Roma da maggio 2020. La mensa non si fermerà, assicura Padre Massimo. «Ci siamo stati anche quando avevamo meno donazioni di cibo. Oggi per fortuna non mancano, ma abbiamo bisogno di sostegno», dice col volto sereno di chi non ha paura del futuro. ■
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1. Nella mensa del
Caravita a Roma, nel centro storico. Le persone che aspettano di mangiare sedute ai tavoli allestiti all'interno della chiesa.
2. Il cestino del pane
composto dai volontari dell'oratorio. I cestini vengono preparati e poi portati in tavola, oppure il pane è distribuito dentro alle buste.