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Digitale e informazione
I media tra virus e viralità
Come ha impattato la pandemia sul mondo dell'informazione? Rispondono il professor Michele Sorice (Luiss Guido Carli) e la professoressa Paola Bonini (Alma Mater Studiorum)
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di Francesco Stati
Media tradizionali e digitali condividono ormai lo stesso spazio informativo, come un unico ecosistema. Tuttavia, la pandemia li ha colpiti in modi diversi. «La televisione è tornata al centro del dibattito pubblico come luogo collettivo di informazione, oltre che di intrattenimento. Pensiamo alla prima fase di lockdown, quando ci si sintonizzava ogni giorno alle diciotto per ascoltare il bollettino della Protezione Civile» spiega Michele Sorice, ordinario di sociologia della comunicazione alla Luiss. «Non si può dire lo stesso dei giornali cartacei. Nonostante le edicole siano rimaste aperte, le vendite sono calate: la gente d’altronde non poteva uscire». Discorso a parte per le testate digitali, capaci di sfruttare l’espansione dei social network. «I social media – continua – hanno beneficiato del Covid-19 perché erano l’unico modo per connettersi agli altri, permettendo una ridefinizione dei rapporti sociali, oltre che dell’informazione». In rete, però, la pandemia ha determinato un movimento duplice: da una parte, l’aumento incontrollato delle fake news; dall’altra, la richiesta di maggior credibilità: «La fiducia nei governi è aumentata di pari passo con la richiesta di informazioni più attendibili alle testate giornalistiche. Due movimenti in contraddizione tra loro, ma tipici di una situazione di emergenza come questa». E non è tutto. Secondo Paola Bonini, docente di social media e comunicazione istituzionale all’Università di Bologna, anche capire che tipo di esperti contattare è stato un problema: «Si sono mescolati punti di vista diversi, e questo ha alimentato il caos. Sono stati molto importanti i matematici, per capire al meglio i dati, ma il loro ruolo è emerso con grave ritardo». Si sarebbe dovuto creare un dibattito pubblico informato, ma per la massmediologa i mezzi di informazione non sono riusciti a fare da raccordo fra esperti e pubblico: «I media hanno fallito a interpretare i dati delle conferenze stampa, rassegnandosi a dare i numeri senza alcun filtro. Sono pochi i giornalisti in grado di leggerli, una competenza oggi imprescindibile. Se non si è in grado di farlo, a che serve il loro lavoro?». A complicare il quadro, una dinamica tipica dei media tradizionali, tanto nociva quanto consolidata:
Che Tempo Che Fa, Rai2 Il giornalista Fabio Fazio ospita nel suo programma il ministro della Salute Roberto Speranza, videocollegato, e il virologo Roberto Burioni seduto nello studio.
Il caso
Nel murales di TvBoy, realizzato nel centro storico di Roma, in via Antonio Canova, sono raffigurati Ilaria Capua e Roberto Burioni. L'opera, il cui sottotitolo è "Happy Christmas from Capua & Burioni", era volto a sensibilizzare la popolazione sul rispetto delle norme anti Covid-19. Proprio i due virologi sono tra i volti più noti del dibattito pubblico sulla pandemia. Già da prima del lockdown di marzo, infatti, i medici hanno preso sempre più spazio sui media, arrivando a esserne protagonisti indiscussi con il passare dei mesi.
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Traffico in tilt Nella prima settimana di lockdown, in Italia si è registrato un aumento del trentatre per cento del traffico internet. Prima delle chiusure si navigava di più la serae, da marzo in poi il traffico si è intensificato durante il giorno.
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Caduta libera Sono i punti di fiducia persi, in media, dai giornali italiani nei confronti dei loro lettori. Secondo il Reuters Institute per lo studio sul giornalismo, a pesare sono i forti interessi politici ed economici dei principali editori nazionali. la mancanza di senso di responsabilità e la corsa alla notizia. «Un elemento tossico per la salute pubblica», continua Bonini. «Pensiamo alla fuga di notizie sulla chiusura della Lombardia, che ha portato all’esodo di massa da Milano. Anche se si ricevono SMS da Palazzo Chigi con indiscrezioni, i media dovrebbero chiedersi se è opportuno diffonderli. L’evento è stato dipinto come responsabilità degli studenti del Sud, ma anche la buona borghesia milanese ha fatto la stessa cosa: è salita in aereo o ha preso il SUV e se ne è andata al mare, diffondendo potenziali focolai». All’arrivo del Covid-19 in Italia, i media tradizionali sono stati spiazzati su vari livelli. Per Bonini, questo ha evidenziato gravi mancanze. «In primo luogo, è emerso un dilemma deontologico, il confine tra dare l’allarme e creare allarmismo. Ci sono stati sia titoli sensazionalistici, sia chi si è interrogato sul ruolo responsabile dell’informazione. Una dualità presente anche all’interno di singole redazioni. Nessuno sapeva davvero di cosa si stesse parlando, si è navigato a vista, e questo ha veicolato una grande incertezza». A ciò si aggiunge la corsa all’esclusiva, che secondo Sorice ha contribuito alla diffusione del caos: «È mancato un ruolo di mediazione a causa della ricerca del sensazionalismo. C’è stata una corsa alla notizia per poter garantire la sopravvivenza di una testata, anche a scapito della verità». Si può quindi parlare di colpe? Per Bonini, «Più che di colpa, i media hanno scoperto la loro mancanza ataviche: la capacità di incontrare e sfruttare competenze nuove. Si considerano le piattaforme digitali come un gioco, non si riescono ancora a rappresentare i dati nel modo giusto. Ma dopo le elezioni statunitensi del 2016, questi elementi non si possono più ignorare. Non voglio credere nella fine dei media tradizionali, ma nella loro evoluzione». ■
I giornali
Un anno di quarantena in prima pagina in Italia e nel mondo
Oltre ai media italiani, alcuni quotidiani internazionali hanno dedicato ampio spazio in apertura alle vicende del nostro Paese durante i primi mesi dell'emergenza sanitaria