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DI CESARE GUAITA*
DA TONGA A MARTE
L’ERUZIONE DI UN VULCANO SOTTOMARINO NEL PACIFICO PUÒ AIUTARCI A CAPIRE ALCUNI ENIGMI MARZIANI
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James Garvin è un geologo del Goddard Space Flight Center della Nasa, che da anni si interessa delle possibili analogie tra vulcani terrestri, marziani e venusiani. Marte in particolare possiede due tipologie principali di vulcani. La prima è costituita dai grandi vulcani a scudo delle regioni di Tharsis ed Elysium, dovuti alla risalita di magma da punto caldo attraverso una spessa crosta statica, non divisa in zolle mobili come nel caso della più sottile crosta terrestre. Ci sono poi centinaia di piccoli vulcani a cono situati nelle grandi pianure settentrionali (Vastitas Borealis), la cui origine è enigmatica, perché mostrano spesso una morfologia degradativa incompatibile con quell’ambiente secco e desertico da miliardi di anni. Tutto sarebbe più logico se quei vulcani fossero nati in un oceano profondo, dove l’acqua ne avrebbe modificato l’aspetto. Questo indizio si aggiungerebbe così ad altri che suggeriscono la presenza di un antico Oceano Boreale nell’emisfero nord di Marte.
VULCANI OCEANICI TERRESTRI
Garvin sta cercando di ricostruire la storia dei piccoli vulcani a cono marziani nell’unico sito in cui esistono ancora vulcani degradati dall’acqua, ossia sulla Terra. La catastrofica eruzione del vulcano Hunga del gennaio 2022 è stata per questo una grande opportunità. Si è trattato di un evento speciale non solo per la sua evoluzione recente, ma anche per la sua storia passata. Tutto è iniziato 45 milioni di anni fa, quando la zolla Pacifica cominciò
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» Secondo James Garvin, la degradazione di molti piccoli vulcani conici marziani (sopra) è dovuta al fatto che nacquero ricoperti dalle acque di un antico oceano (sotto).
» Le anomalie degradative di molti vulcani conici marziani sono ben visibili nelle ricostruzioni tridimensionali. a intrufolarsi sotto la zolla Indoaustraliana, in uno dei fenomeni di subduzione più intensi che si conoscano: più di 20 cm all’anno. Ne sono nate alcune complesse strutture geologiche che sono culminate 6 milioni di anni fa con la formazione di una cresta di sollevamento con davanti (a ovest) un arco di isole, il Tonga Volcanic Arc, e con dietro (a est) una profonda fossa oceanica. La parte più meridionale di questa struttura è la Kermadec Trench-Ridge, lunga 1200 km, mentre la parte più settentrionale è la Tonga Trench-Ridge, di 1375 km. Quest’ultima raggiunge la profondità di 10,8 km nel punto Horizon Deep: è la seconda massima profondità oceanica dopo la Fossa delle Marianne. Tra 18° e 21° di latitudine sud ci sono 176 isole vulcaniche e decine di vulcani sottomarini, che costituiscono il territorio del regno di Tonga, con una superficie di circa 700mila km2, dei quali solo 750 km2 emergono dal mare. La maggior parte dei circa 100mila abitanti vive nella capitale Nuku’alofa, situata sull’isola di Tongatapu, la più meridionale dell’arcipelago. Negli ultimi 100 anni ci sono stati molti fenomeni vulcanici, una quindicina sulle isole ma almeno 50 sotto il mare, dove i vulcani attivi sono almeno una dozzina. Notevole, tra questi ultimi, il West Mata (attivo negli anni 2009, 2012 e 2018), situato a 1200 metri di profondità e del quale sono state realizzate dal sottomarino automatico Rov Jason2 (della Woods Hole Oceanographic Institution) alcune tra le più belle sequenze filmate di eruzioni sottomarine.
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» La subduzione tra la zolla crostale pacifica e quella australiana produce i violenti fenomeni geologici della regione di Tonga.
» Ricostruzione tridimensionale del vulcano Hunga, ottenuta con strumenti radar altimetrici automatici da spedizioni oceanografiche.
L’ERUZIONE DI HUNGA
Per ultimo, c’è stata l’eruzione di Hunga, largo alla base 20 km e alto 1800 m, con una caldera sommitale larga 5 km ed emergente dal mare per circa 120 m in corrispondenza di due lingue di detriti stratificati. L’eruzione ha coinvolto anche la città di Nuku’alofa, situata 65 km più a sud. Come in ogni zona di subduzione veloce, l’attività vulcanica della regione è accompagnata da frequenti attività sismiche, con terremoti che spesso raggiungono la magnitudine 8 della scala Richter. Decine di terremoti di simile intensità si sono succeduti lungo tutto il secolo scorso, talvolta con tsunami al seguito, innescati da terremoti marini oppure da crolli di strutture vulcaniche sottomarine. Secondo i resoconti storici, Hunga tende a produrre eventi catastrofici ogni circa mille anni, ma episodi minori si erano verificati anche nel secolo passato. Nel 2009 si erano formati tre crateri di circa 100 m sulla parte emersa, che hanno eruttato materiale, facendone triplicare la superficie. Sei mesi dopo, però, l’erosione marina aveva già riportato la superficie al livello iniziale: un chiaro esempio di quanto velocemente si degrada un vulcano sottomarino, sia esso terrestre o marziano. Una nuova eruzione sottomarina si è innescata tra il 2014 e il 2015, creando una nuova isola di 1,9 km2 con al centro un lago craterico, ma tre anni dopo l’erosione marina ne aveva già eliminato un buon 20%. Il 20 dicembre 2021 Hunga si è risvegliato, spedendo una nuvola di polvere e gas (9000 tonnellate di anidride solforosa, SO2) fino a 16
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km di altezza, che ha creato migliaia di scariche elettriche visibili fino alla capitale. L’eruzione è proseguita in maniera altalenate fino a fermarsi il 5 gennaio 2022, mentre l’accumulo di polvere vulcanica aveva fatto aumentare la superficie emersa di circa il 50%. Ma era solo il preludio del cataclisma, iniziato all’alba del 14 gennaio con un pennacchio salito inizialmente fino a 20 km di altezza e proseguito poi nel pomeriggio del giorno seguente fino a 30 km. Stereo immagini realizzate combinando le riprese infrarosse di due satelliti geostazionari (il Goes-7 del Noaa e il giapponese Himawari-8) hanno poi dimostrato che il pennacchio ha raggiunto i 58 km, toccando regioni atmosferiche mai raggiunte prima da un vulcano. L’energia coinvolta è stata di 18 megaton, equivalente a mille bombe di Hiroshima, un po’ inferiore ai 24 megaton del St Helens (maggio 1980), ma neppure paragonabile ai 200 megaton scatenati nel 1883 dal Krakatoa, l’evento vulcanico più intenso degli ultimi 500 anni. Una settimana dopo, tutta l’isola di Hunga era quasi completamente scomparsa. Evidentemente, si era verificato un collasso esplosivo della grande caldera vulcanica sottomarina, inizialmente situata a circa 200 metri di profondità e probabilmente sbriciolatasi (secondo le misure radar satellitari) in seguito a infiltrazioni di acqua marina venuta a contatto con il magma incandescente. Potrebbe essere il crollo parziale o totale della caldera la causa dello tsunami che si è poi propagato per tutto l’Oceano Pacifico, con danni notevoli soprattutto sulle isole limitrofe. La violenza dell’esplosione è proprio legata alla modesta profondità della caldera. A profondità maggiori, la pressione dell’acqua avrebbe impedito che i gas (vapore acqueo, SO2 e anidride carbonica) esplodessero con questa violenza. È il caso del vulcano italiano attivo Marsili, adagiato a 3000 metri sul fondo del Tirreno: avendo la caldera a oltre 500 metri di profondità, non può eruttare in maniera esplosiva. Non così i vulcani conici marziani, che dovevano essere ricoperti da una modesta quantità d’acqua o emergere da essa, così da produrre eruzioni violente e autodistruttive. Il sensore Airs (Atmospheric Infrared Sounder) del satellite Aqua ha misurato nell’infrarosso un fenomeno verificatosi a circa 40 km di quota, dovuto alla rapidissima risalita di materiale verso la stratosfera e mai riscontrato in precedenza: decine di increspature atmosferiche centrate sul punto di eruzione ed estese per almeno 16mila km. Un effetto simile a quello prodotto da un sasso buttato nell’acqua, capovolgendo però il basso verso l’alto.
EFFETTI GLOBALI
L’onda d’urto generata dall’esplosione ha fatto il giro del mondo un paio di volte ed è stata registrata dovunque dai sensori di pressione. In Italia è arrivata la sera del 15 gennaio 2022 ed è stata registrata dalla centralina meteorologica di Lorenzo
» La porzione emergente di Hunga, prima dell’ultima grande eruzione del gennaio 2022.
*CESARE GUAITA LAUREATO IN CHIMICA E SPECIALIZZATO IN CHIMICA ORGANICA, HA LAVORATO COME RICERCATORE PRESSO I LABORATORI DI UNA GRANDE INDUSTRIA. È PRESIDENTE DEL GRUPPO ASTRONOMICO TRADATESE E DA OLTRE 25 ANNI CONFERENZIERE DEL PLANETARIO DI MILANO.
» Sopra: ill pennacchio in risalita di Hunga ripreso il 14 gennaio 2022 dal satellite Himawari-8.
Inquadra il QR
per un video di Asi-TV dedicato a questa esplosione.
» Onde concentriche riprese dal satellite
Goes-7 sul pennacchio in salita di Hunga (sopra) e nella stratosfera in infrarosso dal satellite
Aqua (sotto). SISTEMA SOLARE
Comolli a Tradate (VA) sotto forma di un picco in salita di 2 millibar, seguito, 20 minuti dopo, da un picco negativo analogo dell’onda in allontanamento. Erano passate 15,5 ore dall’esplosione, quindi l’onda d’urto aveva percorso 17.185 km (passando dal polo Nord) alla velocità di circa 1100 km/h. Alcune ore dopo, lo stesso barometro ha registrato un altro picco anomalo, interpretabile come l’arrivo dell’onda d’urto dalla parte opposta, cioè passante dal polo Sud, dopo un percorso di 22.890 km. Dati analoghi sono stati raccolti presso l’Osservatorio Schiaparelli di Varese e presso l’Osservatorio di Asiago. Lo strumento Tropomi del satellite Sentinel-5P ha misurato un’emissione globale di SO2 equivalente a 400mila tonnellate, che nei giorni successivi si è propagata in tutto il globo, producendo spettacolari tramonti color magenta. La SO2 in presenza di ossigeno diventa anidride solforica (SO3) che reagendo con l’umidità produce un aerosol di acido solforico. Quando l’acido staziona in regioni atmosferiche molto statiche come la stratosfera, può bloccare la radiazione solare, facendo diminuire la temperatura globale. Ma un recente studio mostra che gli effetti dell’eruzione di Hunga sono insignificanti rispetto ad altre eruzioni anche recenti, come quella del Pinatubo (giugno 1991), che abbassò per 2 anni la temperatura globale di 0,2°C, avendo però emesso 20 volte più SO2 di Hunga. Oppure rispetto al Tambora (aprile 1815), che causò il cosiddetto “anno senza estate” del 1816, avendo emesso quasi 60 volte più SO2 di Hunga.