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Lo sfracello Susanna Turco
from L'ESPRESSO 29
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Le comunicazioni di Mario Draghi al Senato, prima del voto di fiducia
LO SFRACELLO
L’ESTATE DELLO SCONQUASSO DEL GOVERNO DRAGHI. SFIDUCIATO SENZA SFIDUCIA. TRA IL NON VOTO DI CONTE E IL MEZZO PAPEETE 2 DI SALVINI. E CON MELONI PRONTA AL GALOPPO
DI SUSANNA TURCO
SFRACELLO 24 luglio 2022 13
ultimo sorriso, l’ultimo momento di pace, si consuma ad Aula vuota. Sono le 10 e 52 di mercoledì 20 luglio, è mattina, il giorno del Giudizio del governo, tra i banchi non ci sono quasi parlamentari, sugli spalti non ci sono quasi giornalisti e cameramen. Mario Draghi ha da poco fatto il suo intervento, nel quale ha indossato una specie di inedito populismo dei banchieri buono per farne (se mai volesse) il prossimo «punto di riferimento fortissimo» - come diceva quello - di una certa sinistra. Un intervento duro, giudicato a tratti esagerato persino dai più draghiani del suo esecutivo, il prologo della fine. Alle 10 e 52 Draghi rientra e va verso i banchi del governo, verso la sua sedia di presidente del Consiglio che è l’unica nella fila di quelle dei ministri ad avere anche i braccioli. Lo ferma e l’afferra sottobraccio Pier Ferdinando Casini: l’eterno democristiano se lo porta via, amichevole, nella parte più nascosta dell’Aula, ci chiacchiera fitto fitto. Alla fine lo riconsegna ai velluti e addirittura gli cinge le spalle, un abbraccio fraterno che il presidente del Consiglio - per il resto sdegnato e accigliato - volentieri accoglie con un sorriso. Sembrano, per un attimo, i «compagni di scuola» di Antonello Venditti, i «compagni di niente» che si danno la mano al bar. Nulla, per certi versi, è più lontano dell’uno dall’altro, nulla più vicino: Casini e Draghi, il puro politico e il puro tecnico in mondi dove la purezza è un concetto parecchio relativo, l’esaltatore della
L’
vecchia politica e il neocarezzatore di una connessione sentimentale col Paese («siamo qui solo perché gli italiani l’ hanno chiesto. La risposta a queste domande non la dovete dare a me, ma la dovete dare a tutti gli italiani», ha detto sferzante nel suo intervento), colui che è politicamente sopravvissuto al succedersi delle Repubbliche e delle metamorfosi del Parlamento e colui che ha sempre detto di non voler sopravvivere neanche a un rimpasto del suo governo. In quel momento i due mancati presidenti della Repubblica del 2022 paiono già conoscere, aver capito, essersi detti, il finale.
Tra Casini e Draghi, alfa e omega di questo scorcio di legislatura, si stendono le macerie dell’ordine delle cose così come l’avevamo conosciuto sin qui. Il governo dell’emergenza, quello chiamato a risolve-
FINE DEL MONDO SIN QUI NOTO: IL GOVERNO DELL’EMERGENZA, IL CENTRODESTRA MODERATO, IL PARLAMENTO RESPONSABILE. VINCE LA RINCORSA AL VOTO
re pure l’emergenza Conte (oltre a tutto il resto), virtuosissimo e invidiato per tutto l’orbe terraqueo, e il suo mentore, prossimo alla santità whatever it takes. Il campo largo che voleva stendersi tra il Pd e il Movimento grillino, la stessa esistenza dei Cinque Stelle primo partito nelle elezioni del 4 marzo 2018, divenuto nel 2022 il partito che apre la crisi. Un centrodestra moderato, dignitoso, capace di mettere da parte le proprie tentazioni populiste pur di affrontare le difficoltà del mondo post pandemico e immerso nella guerra ucraina, divenuto un centrodestra all’inseguimento, dominato dal timore che sia una donna infine a guidarlo. Un Parlamento che si prende le sue responsabilità: in fondo anche questo scivola via, in una giornata che il segretario dem Enrico Letta alla fine definisce «folle» (ma la sera prima si era prodotto in una devastante previsione: «Domani mi sveglierò sereno»).
Niente di tutto quello che c’era è rimasto in piedi - e si vedrà con quali conseguenze - in una contesa che ha il sapore della partita a poker giocata al buio tra inesperti e che ha d’improvviso spalancato lo scivolo, il burrone. Una partita a fermare Draghi che i suoi principali attori, i responsabili dai Cinque Stelle alla Lega, hanno interpretato con l’aria del non siamo noi, non è colpa nostra, noi abbiamo fatto tutti i compiti.
Una contesa, che - involontario omaggio allo sceneggiatore Mattia Torre che l’inventò - Mario Draghi ha al contrario affrontato con il piglio di un Corrado Guzzanti nella serie cult Boris: «Mi pare che l’unico tra noi due che sta facendo uno sforzo per evitare che io ti meni sono sempre io, la stessa persona che prima o poi ti menerà». Lui ha fatto lo sforzo, lui ha poi menato, con tutte le conseguenze del caso.
Molti solchi, nel corso di questa crisi, ha in effetti scavato un indicibile atteggiamento di fondo dell’ex presidente della Bce, divenuto infine evidente: l’insofferenza per la politica, per i suoi protagonismi, per le sue lentezze, i suoi riti (pare che anche questo obbligo di, eventualmente, restare in carica per gli affari correnti gli sia parsa una specie di sadica bizzarrìa delle prassi parlamentari). Quella determinazione a preferire una fine onorevole ai giochetti dei penultimatum, quell’allergia a chi «minaccia sfracelli», che Draghi aveva fatto baluginare solo dopo la mancata elezione al Quirinale, dacché fino a quel momento si era soltanto trattenuto dall’esprimerla. Su quella insofferenza, via via crescente nel corso degli ultimi sei mesi ma per sua natura invisibile alla politica e ad essa incomprensibile, ha potuto prosperare la tentazione leghista di un Papeete due, realizzatosi poi al Senato per interposti Massimiliano Romeo prima, e Stefano Candiani poi. «Nelle conclusioni Draghi ha esagerato», diceva nei corridoi nel giorno fatale persino un filo-draghiano come Giancarlo Giorgetti, da sempre ufficiale di collegamento
Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella
tra il capo del governo e il Carroccio. Un senso di esagerazione che ha trapassato l’intero Parlamento, arrivando a lambire anche i dem più ottimisti, che sono rimasti sbigottiti dalle sberle che - dosando le gradazioni ma senza risparmiare alcuno - Draghi ha riservato alle responsabilità e all’operato dei partiti della sua maggioranza.
È su quella inconfessabile draghiana voglia di piantarli che ha potuto prosperare anche lo strappo di Giuseppe Conte. Sgangherato, grottesco, in sé del tutto inconcludente, addirittura finito nel nulla, visto che fino alla fine il gruppo parlamentare del Senato ha potuto permettersi il lusso di non votare la sfiducia, né i suoi ministri si sono mai dimessi. Eppure bastevole, quello strappo, a fare nella tela della maggioranza il taglio sul quale poi si è innestata la voglia del centrodestra e segnatamente di Matteo Salvini di andare oltre, di chiamare alle urne. Quella sirena che un centrodestra com-
patto avrebbe infilato subito come un goal a porta vuota e che invece, sfrangiato tra tanti tira e molla - compresa in ultimo la lite furibonda e simbolica in Forza Italia tra Licia Ronzulli e Mariastella Gelmini, con l’una che urlava «prenditi lo Xanax» e l’altra che ribatteva «sei contenta, adesso?» per poi lasciare infine gli azzurri - ha atteso fino all’ultimo a imboccare, per le sue difficoltà di assetto, costituzionali nel senso che sono inserite nel corpo stesso del centrodestra, nella sua struttura ossea.
Lo si è visto perfettamente nei giorni di questa incredibile crisi. Di qua, il tentennante Matteo Salvini e il ri-trionfante Silvio Berlusconi, uno calante ma non domo e l’altro in eterna rimonta su se stesso come capo e padrone di casa, stavolta a villa Grande, stavolta mano nella mano con la bionda Marta Fascina, stavolta del cosiddetto «centrodestra di governo». Di là, la sempre più solida e sempre più in crescita Giorgia Meloni. Libera sin qui di dire ciò che voleva, di prendere la posizione che voleva, la presidente di Fratelli d’Italia ha prosperato sul suo essere l’unico partito di opposizione, dotato peraltro di ottima sapienza parlamentare, a differenza di altri.
Plasticamente, anche se era una pura coincidenza, Giorgia Meloni si trovava in piazza all’Esquilino a Roma, nella chiusura della manifestazione “Piazza Italia” organizzata da Fabio Rampelli e inaugurata dieci giorni prima (guarda caso) da Giulio Tremonti, proprio nell’ora in cui il Senato votava la fiducia. Ed eccola dal palco proclamare «si voti tra due mesi, siamo pronti», la capa di FdI, dopo aver strategicamente prosperato proprio sulle mancanze del centrodestra di governo. È a fine gennaio, con la partita del Quirinale, quando si sono mostrati tutti i limiti strategici di Matteo Salvini, che Fratelli d’Italia ha visto il sorpasso nei sondaggi, mentre con le dichiarazioni dei redditi 2021 era già riuscita a superare la Lega per quel che riguarda gli introiti derivanti dal 2 per mille. Ed è sulle posizioni rispetto alla guerra in Ucraina che Giorgia Meloni ha poi potuto fare un altro passo avanti, mentre Salvini restava imbrigliato dall’obbligo di fare corpo unico con la maggioranza.
È stato dunque, per converso, l’intollera-