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Una missione politica e civile Bruno Manfellotto 76 Meglio Ulisse di Achille Eugenio Scalfari

La prima rubrica “Il vetro soffiato” di Eugenio Scalfari pubblicata su L’Espresso il 21 maggio 1998

Sono contento di tornare a scrivere su L’Espresso con continuità.

Credo che i lettori e gli amici capiranno questo mio sentimento: L’Espresso lo fondammo, Arrigo Benedetti, io, Antonio Gambino e pochi altri giornalisti e scrittori, 43 anni fa; da allora ci scrissi tutte le settimane fino all’autunno del 1975, quando cominciò il lavoro di fondazione di Repubblica che assorbì totalmente il mio tempo.

Ma oggi, dopo aver lasciato due anni fa in buonissime mani la direzione di quel giornale, posso finalmente realizzare un desiderio: quello di collaborare a entrambe le testate che ho contribuito a far nascere. Perciò considero il mio ritorno a L’Espresso un piccolo evento che mi rallegra, e che debbo all’amicizia e alle affettuose insistenze di Claudio Rinaldi.

Non sarei tuttavia interamente sincero se tacessi l’altra ragione che mi ha spinto ad accettare l’invito, ed è la prospettiva di affiancare a settimane alterne la Bustina di Minerva che Umberto Eco spedisce ai lettori infaticabilmente da oltre tredici anni.

Eco ha molto amabilmente preannunciato questo mio esordio e mi ha battezzato appunto come esordiente al suo fianco, ricordando che a mia volta fui io a chiamarlo a collaborare a L’Espresso nel 1965 (pensate un po’ quanti anni sono passati da allora). Tra noi due non si sa dunque chi sia il Giovanni Battista e chi il povero Cristo: direi di lasciar le cose nell’incertezza.

Scrivere a settimane alterne sulla stessa pagina di Umberto mi mette comunque in corpo molta allegria, e mi dà al tempo stesso qualche preoccupazione: ce la farò a tenere il passo? Non sarà facile con un competitor di quel calibro.

Dovevo trovare un titolo a questa mia rubrica che la distinguesse dalla Bustina ma restasse intonato sulla stessa lunghezza d’onda, e così avevo pensato ai Calzari di Mercurio. Ma poi m’è sembrato meglio evitare un eccesso di mitologia, e perciò la scelta è stata quella che i lettori vedono in testa a questa pagina. Il vetro soffiato vuole essere un’indicazione di leggerezza nel senso che Italo Calvino dava a questa parola come elemento essenziale della sua poetica, e ad essa è mia intenzione attenermi.

Nei giorni scorsi, in mezzo a tanti fatti felici o luttuosi che hanno attirato l’attenzione del pubblico, ne ho colto uno piccolo piccolo ma non di meno significante: un concorso che il settimanale “Tuttolibri” della “Stampa” ha bandito tra i suoi lettori con il titolo “Di quale mito sei?”. Bisogna scegliere tra una cinquantina di personaggi mitologici, da Venere a Prometeo, da Persefone a Ercole e così via.

Hanno risposto in cinquecento, e primo per molte lunghezze è risultato Ulisse (63 voti) seguito da Icaro (25), Orfeo (21) e Atena-Minerva (20). Come dire: il viaggio consapevole, l’avventura spericolata, il sentimento amoroso, l’intelligenza fertile.

In realtà Odisseo e Atena formano una coppia, e infatti per tutta l’”Odissea” l’eroe è guidato e protetto dalla dea; sicché la scelta d’una vita che si realizza attraverso l’esperienza di sé e del mondo ha riscosso una schiacciante maggioranza di consensi.

Vedere messi ai voti gli dei e gli eroi come si trattasse di D’Alema e di Berlusconi m’è sembrato un po’ triviale e, lo confesso, mi ha indispettito. Ma qualche soddisfazione comunque quel sondaggio me l’ha data.

Mi piace per esempio constatare come tra i cinquecento che hanno risposto il coraggio irresponsabile di Icaro non abbia riscosso grande seguito; ancor meno ne ha avuto Achille (8 voti), che ricorda un terminator armato di lancia invece che di mitra. Venere ha avuto 8 voti ed Elena di Troia 5; in totale 13 voti per l’immagine della bellezza femminile, che mi sembrano francamente pochi.

Sono poi rimasto deluso dalla scarsa simpatia che i partecipanti al sondaggio hanno dimostrato per Ettore: soltanto 8 voti. Ai miei tempi, quando si cominciava a studiare l’”Iliade” in prima ginnasio (allora la media si chiamava così), i ragazzi si dividevano in due partiti: chi teneva per Achille e chi per Ettore; ma era Ettore ad attrarre le maggiori simpatie, l’eroe che difende la patria e perisce sotto i colpi di un invincibile favorito dagli dei. La partita era truccata, e noi ragazzi parteggiavamo per il più debole.

Guai tuttavia a scambiare i cinquecento di “Tuttolibri” per un campione rappresentativo. Si tratta evidentemente di lettori sagomati, che apprezzano la ragione più delle passioni e l’intelligenza più della forza. Ad essi, anche a nome di Umberto Eco assente giustificato, mando il mio solidale saluto. Q

Meglio Ulisse di Achille

DI EUGENIO SCALFARI

©RIPRODUZIONE RISERVATA Foto: Enrica Scalfari / AGF

L a forz a del l a scrittura L’

amore è la soluzione... Ascoltando Manuel Vilas, 60 anni, scrittore e poeta spagnolo tra i massimi, viene in mente per assonanza il suo collega egiziano Ala al-Aswami che conclude ogni suo scritto con la frase: «La democrazia è la soluzione». Tra le due “soluzioni” la distanza è evidente. Il personale e il politico si sarebbe detto un tempo, nei casi citati declinati in parallelo a differenza dello slogan che li voleva, al minimo, due facce della stessa medaglia. Vilas era sul palco del Bergamo Festival, la città-martire della prima ondata del Covid-19, e con il suo vitalismo vagamente epicureico proponeva come antidoto alle grandi emergenze contemporanee, la pandemia e la guerra, parole dolci come amore, appunto, bellezza, felicità, vita. Partendo da un aneddoto personale. «Durante il confinamento, che in Spagna è stato particolarmente duro, io

“Non sono un politico e neanche un sociologo. Sono uno scrittore e credo che la responsabilità della letteratura sia difendere la vita dai suoi nemici”

In alto: una donna con un bambino saluta un ragazzo su un treno a Leopoli, in Ucraina. A destra: Manuel Vilas guardavo le notizie alla televisione per 5-6 ore al giorno. E mi dicevo: ci deve essere pur qualcuno che non è stupido e idiota come me e non guarda le news quando c’è una catastrofe. Siccome sono anche un grande appassionato di cinema mi sono rivisto 5-6-10 volte “Casablanca”. E ho trovato la risposta nella scena in cui l’altoparlante dei nazisti annuncia l’ingresso a Parigi, la presa della capitale francese. I due protagonisti, Ingrid Bergman e Humphrey Bogart si dicono: “Il mondo cade a pezzi e io e te ci siamo innamorati”. Ecco, ho pensato, la ricetta sicura per non perdere la speranza e non cedere alla paura durante una tragedia collettiva, guerra, crisi economica, totalitarismi, pandemia: innamorarsi. Così ho scritto “I baci” (in Italia uscito con Guanda, ndr)». Per prevenire qualunque obiezione circa la mancanza di una dimensione sociale aggiunge: «Io non sono un politico, un sociologo o un intellettuale. Sono uno scrittore e credo che la responsabilità della letteratura sia difendere la vita dai suo nemici. Per la letteratura è più importante difendere la vita dell’ideologia perché le ideologie hanno un potere di alienazione mentre ciò che conta è la libertà individuale».

Il che non significa, tuttavia, che Manuel Vilas non abbia una solida visione politica se ha preso una netta posizione contro la Russia e a favore dell’Ucraina e, in questo, eccolo avvicinarsi al Ala as-Aswani: «Per forza. L’Occidente ha una cultura democratica che dobbiamo tenere per cara e davanti a sé c’è chi la contrasta. Un capo di governo occidentale deve dare spiegazioni al suo popolo altrimenti non viene rieletto. Dall’altro lato c’è Putin che non deve dare nessuna spiegazione. Dunque ci troviamo in una condizione di debolezza che tuttavia non ci deve deviare dai nostri principi». Ma se questo è persino scontato, lo spagnolo inserisce una ulteriore considerazione che allude alla sfera del personale. «Per il leader di un governo europeo il piacere è governare. Per godere di questo bisogno deve soddisfare il proprio popolo. Dunque conosciamo il piacere dei nostri uomini politici. Ma qual è il piacere di Putin?». Troppo facile risponde-

re: «Il potere». E sveltamente Vilas rincara: «Sì, ma è accompagnato da un risentimento personale verso l’Occidente da cui si sente umiliato e ciò crea per lui una difficile situazione psicologica».

Con cui giocoforza ci dobbiamo confrontare partendo da una situazione di svantaggio per via delle lungaggini decisionali che il nostro sistema sconta per sua natura. Vilas aggrotta le ciglia e si interroga: «Il problema è: cosa facciamo noi tolleranti con gli intolleranti? Vogliono distruggere la democrazia e noi siamo obbligati a difenderla. Non possiamo immaginare che la difenda soltanto il governo, ogni cittadino si deve sentire chiamato in causa. Cosa dovremmo fare? Esercitare le nostre libertà al massimo, giudicarle un valore irrinunciabile».

Abbiamo commesso degli errori ovviamente se si è creato uno spazio in cui si è infilata la possibilità di aggredire la democrazia. «Abbiamo negoziato con Paesi non democratici da cui ora dipendiamo economicamente. Con certi Paesi non si possono fare affari. La Russia, ad esempio, ora ci impedisce di prendere le decisioni che dovremmo prendere perché ci rifornisce di petrolio e di gas. E dunque viviamo in una situazione di sospensione non essendo liberi ed è una condizione penosa. Putin non vuole cittadini liberi, ti invita a bere un caffè e dentro ci mette il polonio... Putin non capisce l’Occidente, non capisce il cinema americano, il cinema italiano. Non capisce i Rolling Stones o i Beatles. Se vede un film di Fellini non lo capisce, anche se gli sembra che sia un nemico. Possiamo capire Putin solo capendo che lui non capisce».

Esiste, tra noi e il “mondo russo”, secondo Manuel Vilas, una diversità irriducibile, non siamo alla stessa ora sull’orologio della storia. «Gli europei sono persone sofisticate. E la guerra è la cosa meno sofisticata. Noi siamo dedicati al piacere della vita, nessuno vuole prendere un fucile e sparare. La guerra mi pare il Medioevo, ma già la pandemia era una regressione al Medioevo».

La forma di resistenza più alta, secondo la concezione dello scrittore, sta nella letteratura che è un’arma della libertà, il trionfo della bellezza, un ausilio ai lettori contro l’alienazione: «Lo stesso Kafka parlava di obbligo all’allegria, senza mediazioni, senza rimandi. Un uomo, o una donna, arrivano ai 40 anni e si dicono: io non mi sento libero ma magari più avanti... A 45 anni si confessano: ho un lavoro che non mi piace, il mio matrimonio non mi soddisfa, magari più avanti... A 50 si ripetono: non sono ancora libero, lo sarò domani... E infine a 60: ormai ho 60 anni, avrei dovuto prendere una

T R A R O M A N Z I E P O E S I E

Manuel Vilas, 60 anni, è tra i massimi scrittori e poeti spagnoli. Ha pubblicato raccolte di poesie e romanzi, tra cui “España”, indicato dalla rivista Quimera come uno dei dieci romanzi in lingua spagnola più importanti del primo decennio del secolo. “In tutto c’è stata bellezza” (Guanda 2019), tradotto in oltre venti lingue, è stato il primo libro pubblicato in Italia, dopo aver riscosso grande successo in patria. L’editore Guanda ha pubblicato i romanzi “La gioia, all’improvviso”, “I baci” e la raccolta di poesie “Amor”.

“Non diciamo mai tutta la verità perché se la dicessimo manderemmo in pezzi l’universo, che funziona attraverso ciò che è ragionevole, ciò che è sopportabile”

decisione ma a quest’età non posso divorziare, non posso cambiare lavoro. E abbiamo una sola vita».

Il titolo del più famoso libro di Vilas è “In tutto c’è stata bellezza” (sempre Guanda). In una delle frasi più famose di Dostoevskij ricorre la stessa parola: «La bellezza salverà il mondo». Eppure il grande russo ha anche scritto: «Troppi anni di pace nuocciono all’umanità». Come se la guerra fosse un lavacro della Terra. Come si conciliano le due cose? «Dostoevskij è un grande scrittore e come tutti i grandi scrittori è pieno di contraddizioni perché la vita è una contraddizione. Io lo amo ma ho idee diverse. Credo nella felicità e nella fraternità universale. La bellezza salverà il mondo se la vivremo sino in fondo, se non è astratta, se ci entriamo dentro».

Sempre ne “In tutto c’è stata bellezza” c’è una frase un po’ scioccante circa la verità, un valore che (ipocritamente?) tendiamo ad inseguire. Scrive Vilas: «Non diciamo mai tutta la verità perché se la dicessimo manderemmo in pezzi l’universo, che funziona attraverso ciò che è ragionevole, ciò che è sopportabile». Merita una spiegazione. «Se noi dicessimo alla moglie, al figlio, al miglior amico tutta la verità automaticamente distruggeremmo il matrimonio, la paternità, l’amicizia. Ci sono verità non comunicabili che non si possono dire nemmeno a se stessi. C’è un abisso nel genere umano e la letteratura cerca di esplorare l’abisso. La letteratura è il luogo dove posso dire ciò che non posso dire alla moglie, al figlio, all’amico. Recentemente è morto un mio amico scrittore, uno che aveva fortuna con le donne. Al funerale sono arrivate trenta donne tutte convinte di essere la sua fidanzata. Aveva avuto una vita occulta meravigliosa, molto vicina al senso dell’umorismo». C’è una morale da trarre? «Sì. Siccome nei libri si decritta l’animo umano, chi legge è tendenzialmente buono. Chi legge molti libri alla fine sarà molto buono. E nel caso di tradimento del partner potrà capire. È questo il regalo della letteratura: aiuta a capire».

Della nostra letteratura che lo ha aiutato a “capire” cita Dante, Petrarca, i poeti del ventesimo secolo, Tomasi di Lampedusa, il cinema: «Amo Fellini, è presente anche nel libro che sto scrivendo. Ho vissuto sei mesi a Roma ed ero ossessionato dalle immagini del suoi film». E non disdegna di scendere nel pop: «Per me è stata un mito, anche un mito erotico, Raffaella Carrà, la regina della tv, icona della classe medio-bassa spagnola da cui provengo».

C’è un’ultima sua frase, Vilas, che dovrebbe spiegare. Lei ha detto, durante la pandemia, che «abbiamo sostituito Dio con la scienza». Vecchia questione. Non possono convivere? «Intendo dire che abbiamo sostituito un fanatismo con un altro fanatismo. Chiedevamo agli scienziati la soluzione. Ma la scienza non ha una soluzione, non sa cosa facciamo qui, qual è l’origine della vita. Arriva a darci lo smartphone ma non risolve l’enigma fondamentale. In pandemia ci hanno detto che dovevamo lavarci le mani, grazie tante. Poi è vero che è arrivato il vaccino... Quando ci dice che a 800 milioni di anni luce c’è un pianeta simile al nostro a me sembra una battuta: cosa me ne faccio?».

Meglio l’amore... «Esatto. È quello che voglio dare al lettore, scegliendo le parole giuste. Perché è l’amore l’esperienza più importante della nostra vita». Q

In alto: il regista Federico Fellini sul set del film “Roma”. Sotto: Raffaella Carrà

© RIPRODUZIONE RISERVATA Foto: L. Goldman - Gamma Rapho / GettyImages

Il richiamo dell’arche ologia Gli affreschi erotici al centro di una mostra. Nuove domus aperte al pubblico. Vini e cibi prodotti tra gli scavi. Si ravviva il fascino della città sepolta più famosa al mondo A POMPE I l’amore è eterno

Veduta di Pompei con la statua di bronzo raffigurante il dio Apollo

di Marisa Ranieri Panetta

affascinante viaggio nell’an-L’ tico continua. Le case di Pompei che stanno per aprirsi al pubblico, dopo lunghe chiusure e restauri, ampliano le nostre conoscenze su usi, arte e gusti della vita quotidiana: volti, paesaggi, minute descrizioni che si rincorrono sulle pareti di domus aristocratiche.

Entro l’estate, come anticipa L’Espresso, sarà accessibile la casa delle

“Nozze d’argento”, scoperta nel 1893 e così denominata per l’anniversario in quell’anno dei reali d’Italia Umberto e

Margherita di Savoia. Molte abitazioni infatti prendono il nome da ricorrenze, visite illustri, ritrovamenti particolari; a volte, in occasione della presenza di un sovrano o di un personaggio altolocato, come il pontefice

Pio IX, si faceva finta di trovare reperti già venuti alla luce, che venivano poi offerti in regalo.

La domus di cui parliamo, risalente nella prima fase al II sec. a.C., è un esempio di come si presentavano le case delle nobili famiglie pompeiane prima che la città diventasse municipio romano. La maestosità dell’atrio, come una cattedrale, con le alte colonne in tufo disposte agli angoli della vasca centrale, suggerisce l’importanza sociale anche dell’ultimo proprietario Albucio Celso, candidato all’edilità tra il 76 e il 79 d. C. Una tenda, rivelata da un disco di bronzo con rostro, lo separava dal tablino, dove il padrone di casa riceveva clienti, scriveva lettere, conservava documenti.

Subito dietro, si apre un giardino porticato e, sulla destra, si trova la cucina con un gabinetto adiacente: una rarità, quest’ultimo servizio, manca pure in domus lussuose e ampie. Dopo la cucina, ecco un altro giardino, che esibiva tre statuine smaltate di animali a tema egizio, ora al Museo nazionale di Napoli insieme al mosaico dell’ingresso, dove è raffigurata una città turrita con il porto e il faro.

Nel corso della sua storia, la casa

Foto: Giuseppe Carotenuto

aveva subito vari rifacimenti, assicurando sempre un’esistenza più che confortevole: fontane ovunque, un bagno fornito di acqua calda, vasche all’aperto, ambienti piccoli e grandi dalle decorazioni accurate.

Un’altra particolarità contraddistingue l’edificio, finora non evidenziato: sulla sinistra dell’atrio, esisteva un orto. Non tutte le zone destinate al verde erano adibite ad accogliere piante fiorite, statue e fontane, per il godimento dei proprietari e come status symbol da ostentare agli ospiti; già sono stati identificati alberi da frutto, vigneti e piante di ulivo sparsi in città. Ma ci sono molte zone destinate a coltivazioni, non indagate o abbandonate.

Gabriel Zuchgrietel, direttore del Parco archeologico, vuole andare avanti in questa ricerca, con un progetto che riguarda anche Stabia e Oplontis, perché «da un censimento effettuato, le zone agricole a ridosso delle mura e negli abitati sono circa cento ettari: un patrimonio che deve essere riscoperto, reintegrato con le coltivazioni originarie». E riferisce in

anteprima a L’Espresso: «Sta per partire un bando per coinvolgere partner privati nella produzione del vino e di altri alimenti, così come avveniva in antico. Si tratta di un nuovo approccio di conoscenza, all’interno di una visione articolata del Parco: storia, arte, alimentazione e paesaggio, in grado di restituirci nel suo complesso la vita reale degli ultimi abitanti. Nello stesso tempo, si potranno generare sviluppo e occupazione attraverso la valorizzazione dei prodotti».

Sono state già riaperte altre dimore, ma in autunno si conosceranno domus pregiate e un intero isolato (2300 mq), lungo la centrale via dell’Abbondanza, che comprende botteghe, giardini, e due case principali. Quella dei “Casti Amanti” a più livelli, dà il nome ai fabbricati e si riferisce a una pittura murale che raffigura un banchetto con una coppia che si scambia un bacio non volgare. Decora il triclinio del quartiere residenziale e inneggia a incontri conviviali innaffiati dal vino, ribaditi in altre scene con comportamenti diversi. Entrando, si incontra prima un grande panificio, che costituiva la notevole risorsa economica del proprietario. Si vedono il forno, le mole per macinare il grano e gli scheletri dei muli che le azionavano. Erano sette; evidentemente, utilizzati anche

Storia, arte, alimentazione e paesaggio potranno restituirci nel suo complesso la vita reale degli ultimi abitanti della città distrutta dall’eruzione

L’affresco con gli amorini orafi e, qui a fianco, la sala del triclinio nella Casa dei Vettii. Sopra a sinistra: scena di banchetto dipinta nella Casa dei casti amanti

per il trasporto del pane.

L’altra abitazione, dei “Pittori al lavoro”, documenta invece un cantiere in piena attività, rivelando in un salone le suddivisioni dei compiti. Pompei continuava a subire terremoti e ovunque c’erano operai per riparare tubazioni, rinforzare murature, ripristinare affreschi. Qui, era stata portata a termine una bella decorazione di soffitti (crollati in migliaia di pezzi, li stanno ricomponendo), ma c’erano tante pareti da risistemare. Appena si è scatenata l’eruzione, i pittori hanno abbandonato la casa, lasciando disegni preparatori, figure in attesa del collante finale, coppette con i pigmenti da polverizzare. Nessuno si aspettava quel cataclisma; sul focolare della Casa dei Casti amanti stavano arrostendo un volatile e un piccolo cinghiale.

L’isolato si presenterà alle visite con una novità assoluta per Pompei: una copertura in pannelli di alluminio con lucernai in vetro stratificato e l’installazione di una passerella sospesa in acciaio che consentirà di conoscere dall’alto tutti gli ambienti.

Archeologi, tecnici e restauratori sono impegnati anche nella domus dei Vettii, una delle più note, aperta in passato per poco tempo e non interamente. Apparteneva ai fratelli Conviva e Restituto, ricchi liberti nell’ultimo periodo di vita della città, che avevano fatto fortuna con attività mercantili e agricole. Come simbolo beneaugurante di prosperità, nell’ingresso avevano raffigurato il dio Priapo, che poggia il suo enorme membro sul piatto di una bilancia, mentre sull’altro è posta una borsa piena di monete. Dall’augurio alla reale sostanza economica: nell’a-

Gruppo scultoreo con ermafrodito e satiro nella mostra “Arte e sensualità nelle case di Pompei”

Come simbolo beneaugurante di prosperità, nell’ingresso avevano raffigurato il dio Priapo che poggia il suo enorme membro sul piatto di una bilancia

trio, centro focale della casa, si notavano subito due “arche” sostenute da basamenti in muratura: bauli come casseforti, serrati da chiodi e ornamenti bronzei, per salvaguardare i beni preziosi della famiglia.

In asse con l’entrata, visibile dalla strada col portone aperto, si allungava il giardino circondato da portici che traboccava di tavoli, piante e zampilli d’acqua provenienti da tante statue di marmo e di bronzo.

La ricca borghesia pompeiana seguiva, nella decorazione delle proprie dimore, la moda che si diffondeva a Roma; appaiono così le pitture con motivi fantastici, protagoniste della Domus Aurea neroniana (“grottesche”), che occupano tutto il campo lasciato libero dai grandi quadri sulle pareti. Le pitture murali a Pompei, come altrove, erano la seconda pelle dell’abitazione e ne costituivano l’arredamento vero e proprio. I mobili erano pochi ed essenziali, le stanze da letto piccole, ma le pareti erano dipinte a vivaci colori; quando lo spazio era ridotto, affreschi illusori ampliavano i volumi con architetture e paesaggi.

A caratterizzare le sale che si affacciano sul giardino dei Vettii sono racconti di episodi mitologici dal contenuto moralistico, come il Supplizio di Dirce, cattiva matrigna; il re Issione, punito da Giove perché si era invaghito di Era; Pasifae, la moglie del re cretese Minosse, invaghita di un toro, col quale aveva generato il Minotauro. Più che storie a lieto fine, erano gli amori infelici, gli atti di empietà, a ispirare tragediografi, poeti, artisti: esemplari per indicare il limite tra umano e divino da rispettare. E Conviva, che ricopriva una carica sacerdotale, si adeguava all’intento didascalico.

Gli affreschi più celebrati della casa appartengono al triclinio posto al centro del portico settentrionale, e non si tratta di ampie partiture, bensì di un fregio a sfondo nero che corre nella parte inferiore delle pareti. In sequenza, sfilano scenette che, con grande abilità e grazia, rimandano ad attività quotidiane. Ad interpretare orafi, profumieri, lavandai, fabbri, sono deliziosi amorini in compagnia di psychae, il loro corrispondente femminile, e ogni singolo racconto lascia incantati.

I visitatori degli scavi hanno intanto un’altra occasione per comprendere il vissuto del sito: la mostra “Arte e sensualità nelle case di Pompei”, allestita nella Palestra Grande, di fronte all’anfiteatro (a cura di Gabriel Zuchtriegel e Maria Luisa Catoni, fino al 15 gennaio 2023).

L’arte e l’immaginazione si fondono nelle settanta opere esposte, provenienti dai depositi del Parco archeologico, e rimandano a comportamenti privi di inibizioni. I quadretti dipinti, le statue, gli oggetti quotidiani che raffigurano amplessi, o alludono ad incontri amorosi, non facevano parte soltanto della quotidianità di Pompei; ma furono gli scavi dell’area vesuviana a svelare una realtà lontana da come appariva il mondo classico, lasciando stupiti i primi scopritori. Nell’esposizione sono presenti anche ritrovamenti recenti, come i due medaglioni con raffigurazioni erotiche del carro cerimoniale di Civita Giuliana, e viene spiegato il contesto di riferimento per ogni opera, e il loro significato. Con l’app My Pompeii, è anche possibile rintracciare gli edifici che si riferiscono al tema della mostra. Un racconto intrigante, per una corretta comprensione storica. Q

érald Bronner è sociologo Gdelle credenze, professore di Sociologia all’Università di Parigi Diderot - Parigi VII, membro dell’Accademia Nazionale di Medicina, dell’Accademia di Tecnologia e dell’Istituto Universitario di Francia. Autore di tre libri tradotti in italiano “Il pensiero estremo. Come si diventa fanatici” (Il Mulino), “La democrazia dei creduloni” (Aracne), “Fake news. Smascherare le teorie del complotto e le leggende metropolitane” (Sonda), oggi co-dirige un gruppo di lavoro sul Foto: S. Grangier - Corbis / GettyImages pensiero critico nel Consiglio Scientifico dell’Educazione Nazionale. In un mondo interconnesso, dove le notizie sono immediatamente disponibili, in un mercato mondiale in cui si possono vendere con poco sforzo, economico e mentale, i propri prodotti cognitivi, in uno scambio immediato di opinioni ed informazioni, come si formano le nostre credenze? Perché le fake news si diffondono così rapidamente ? Cosa fare per preservare la democrazia dal pericolo della credulità? In un rapporto redatto per l’Eliseo, “L’illuminismo all’epoca digitale” Bronner propone una serie di soluzioni per far fronte ai rischi di un’apocalisse cognitiva. Oggi le fake news sono molto diffuse e il pubblico ha sviluppato una nuova sensibilità per questo genere di informazioni. Ma le fake news sono sempre circolate. Cosa cambia oggi rispetto al Medioevo ? «La nostra rappresentazione del mondo è molto evoluta, l’interpretazione letterale della Bibbia è stata superata. Il mercato dell’informazione rispetto al Medioevo si è molto trasformato, la quantità delle informazioni è superiore. Nel Medioevo l’informazione si trasmetteva oralmente, era basata sulle nostre capacità mnemoniche, modificando così il messaggio. I libri erano rari e cari. Poi c’è stata la stampa e oggi l’invenzione dell’informazione trasmessa via onde. Internet è la forma ultima della deregolazione del mercato dell’informazione. Quello che cambia è che prima solo i “gatekeeper” potevano esprimersi, i guardiani delle soglie del mercato dell’informazione, ora chiunque possieda un account può contraddire un professore di medicina sul vaccino. Inoltre la caratteristica del mercato dell’informazione di oggi è che c’è una pressione concorrenziale senza eguali nella storia dell’umanità, con la riduzione dei costi della produzione di informazione e la diffusione dell’informazione. Tutti i modelli intellettuali che pretendono di descrivere il mondo, credenze e conoscenze, pensieri magici e ideologie politiche, sono tutti in libera concorrenza, quasi senza nessun filtro. Questo crea una disponibilità d’informazione mai vista. Si sono prodotte più informazioni negli anni 2000 che nell’intero periodo che va da Gutenberg al 2000. Negli ultimi due anni abbiamo prodotto il 90 per cento dell’informazione disponibile». Lei viene definito sociologo delle credenze. Che differenza c’è tra una credenza e una conoscenza ? «È molto difficile definire le frontiere tra credenza e conoscenza. Si può dire che la credenza è un modello che pretende di descrivere il mondo, secondo la categoria del vero e del falso, del bene e del male, del bello e del brutto. Anche la conoscenza pretende la stessa cosa. Come ho scritto in “L’empire

des croyances”, nella maggioranza dei casi siamo di fronte a credenze. I momenti di conoscenza sono momenti rari della coscienza umana. La conoscenza è quando siamo di fronte ad un enunciato che è probabilmente vero e del quale padroneggiamo tutta l’argomentazione. Le credenze non sono per forza false: si può credere alla teoria del Big Bang, per esempio. Credo in questa teoria anche se non la capisco completamente, è una credenza per delegazione. Credo perché ho fiducia nella comunità degli scienziati. Ma non posso dire che sia una conoscenza, perché non possiedo tutta l’argomentazione che mi permette di conoscere. Nella maggioranza dei casi abbiamo un rapporto di credenza nei confronti delle idee, tuttavia nel caso del Big Bang la credenza è probabilmente vera, non è identica alla credenza secondo la quale toccare ferro dovrebbe scongiurare la sfortuna. La conoscenza è un rapporto ad un enunciato di cui conosciamo perfettamente l’argomentazione e che è probabilmente vero, tutto il resto è credenza. La peggiore credenza, il grado più basso, sono quelle che sono probabilmente false e di cui non conosco l’argomentazione, come le superstizioni. Tra le due c’è una frontiera non perfettamente chiara». Nell’ultimo libro lei parla della questione cognitiva, essere dei ceduloni dipende anche dal funzionamento del nostro cervello. Che ruolo gioca il nostro cervello nella ricezione e diffusione delle credenze? «Tutto quello che sta accadendo è la conseguenza del funzionamento ancestrale del nostro cervello di fronte all’ipermodernità del nostro ambiente sociale, e in particolare digitale. I due fattori sono necessari per capire quello che ci sta accadendo. Uno dei fattori che spiega la diffusione di false informazioni è che queste ultime vanno nel senso delle aspettative intuitive del nostro cervello, appagano quello che ho chiamato l’aspetto oscuro della nostra razionalità. Per esempio, uno studio pubblicato nella rivista Science ha mostrato che le informazioni false sono sei volte più virali su Twitter rispetto ad informazioni vere. C’è una forte asimmettria in questa concorrenza dell’informazione, e questo è un dramma ! Si sarebbe potuto immaginare che nell’insieme di tutte le rappresentazioni del mondo quelle che avrebbero avuto un vantaggio sarebbero state quelle vere. Avremmo potuto immaginare che fra qualche decina d’anni avremmo potuto dare vita a delle vere e proprie società della conoscenza, perché la conoscenza può diffondersi meglio, ma non è ciò che sta accadendo. In certe situazioni, è la fake news che vince perché può godere del “lazy thinking”, il pensiero pigro. Tutti gli studi mostrano che la variabile che determina l’affermarsi di queste informazioni è un indebolimento della nostra vigilanza razionale. Siamo tutti dotati di razionalità, ma in alcuni momenti abbassiamo la guardia. La cacofonia dell’informazione contribuisce a far abbassare il nostro livello di vigilanza. Nella maggioranza dei casi, ricerchiamo delle informazioni che vanno nel senso delle nostre credenze. Più informazioni disponibili ci sono, più ne troveremo sicuramente una che va nel senso di quello di ciò che crediamo veramente. È il paradosso della credulità informativa, più informazioni ci sono, più diventiamo creduloni, mentre potrebbe sembrare l’opposto». Stiamo vivendo in quella che lei chiama la democrazia dei creduloni? «Questa deregolazione del mercato dell’informazione è squilibrata. Internet è una strana democrazia, alcuni votano cento volte, altri non votano mai. Nell’asimmetria di visibilità, alcuni si esprimono molto di più e in generale sono persone con visioni radicali, coloro che credono fermamente in qualcosa, come gli anti-vax o i cospirazionisti. Sono sempre esistiti, non li ha

La trasmissione “Meet the Press” della rete americana Nbc

«Quello che sta accadendo è conseguenza del funzionamento ancestrale del nostro cer vello di fronte all’ipermodernità del nostro ambiente sociale»

In questa pagina: alcune immagini dalla mostra “Fake. The Whole Truth” a The Stapferhaus a Lenzburg, in Svizzera. Il museo è un labirinto con molte stanze, ognuna dedicata a un aspetto del vero e del falso

inventati internet, ma prima i loro argomenti erano confinati ad alcuni spazi di radicalità sociale, non occupavano lo spazio pubblico. Molti studi mostrano per esempio che gli anti-vax non sono numerosi, ma sembrano tantissimi perché si esprimono molto di più sui social, e lentamente riescono a convincere i nostri concittadini dei loro argomenti. Quando lo spiegavo nel 2013 in Francia, non avevo molti dati, ma oggi le scienze sociali-computazionali mi hanno dato ragione. Ci sono moltissimi dati che mostrano questo fenomeno. C’è un articolo molto recente sui super-users : l’1 per cento degli utilizzatori produce il 33 per cento dell’informazione disponibile». Perché questo funziona ? «Noi esseri umani siamo delle scimmie sociali. La maggior parte dei nostri punti di vista si stabilizzano sui punti di vista degli altri. Quello che pensiamo di noi stessi, lo dobbiamo molto al punto di vista degli altri, ci influenza molto. La stessa cosa avviene per il modo in cui ci rappresentiamo il mondo. Il punto di vista degli altri ci informa moltissimo, la maggior parte di quello che crediamo sapere sono delle credenze costituite a partire dagli altri. Eppure, non è internet che ha inventato questo! È sempre andata così, ma oggi il campione di punti di vista altrui accessibili si è profondamente trasformato attraverso i social network. Prima conoscevamo il punto di vista dei nostri amici, dei colleghi, di esperti certificati alla televisione, alla radio, persone legittimate a prendere la parola. Su temi di cui non sapevamo molto, come i vaccini, ci si affidava alla parola dei medici, dei quali si aveva fiducia, non si mettevano in dubbio i benefici dei vaccini. Poi, di colpo, altre persone hanno preso la parola e il nostro campione di “reale” è influenzato dalla popolarità e dalla visibilità di alcuni punti di vista, ovvero dalla motivazione di alcuni attori nell’imporre il proprio punto di vista. Così la democrazia della conoscenza può diventare la democrazia dei creduloni». Nel rapporto “L’illuminismo ai tempi del digitale”, lei propone, tra le altre cose, di sensibilizzare gli influencer, rendendoli più responsabili rispetto ai contenuti prodotti. Questi però appartengono al mondo del mercato, rispondono alle leggi del commercio e non hanno un compito propriamente pedagogico. Sarebbe come chiedere ad un’azienda che produce armi di vendere i propri prodotti solo a persone od entità che le useranno a scopi difensivi. Siamo sicuri che questa sia soluzione efficace ? Gli influencer non devono semplicemente vendere sé stessi o la propria immagine? «Il mercato delle armi non è un mercato libero, è regolato, ci sono norme. Nel caso degli influencer non si tratta di impedire loro di esprimersi, ma di avere delle norme di responsabilità, come quando obbligate le aziende di sigarette ad aggiungere l’avviso “fumare uccide” sui pacchetti di sigarette, è una forma di responsabilizzazione. Ci sono delle norme di regolazione del mercato che cercano di influenzare gli effetti senza toccare le libertà individuali. Quando si vuole regolare un mercato, il rischio è però quello di infrangere la libertà di espressione. La mia idea è di pensare delle regolazioni non liberticide. Quando, per esempio, YouTube propone un campione di video non rappresentativo sul riscaldamento climatico, per il gioco degli algoritmi, sta ingannando chi naviga. È necessaria l’esistenza di una diversità autentica, fare in modo che le persone o le idee siano visibili in proporzione a quello che rappresentano realmente». Q

NELL’ANIMA NERA di Scampia di Francesca De Sanctis

er capire dove siamo bi-

Psogna buttarsi in un mondo fatto di storie e colori..., che per lui significa immergersi in un universo di vicoli, periferie, personaggi di una

Napoli-ventre di sentimenti, relazioni, amori. Daniele Sanzone, autore e voce della band partenopea 'A67, non ha mai avuto paura di gettarsi a capofitto in un vortice di storie e persone da sempre ai margini, forse perché in quell’universo di ultimi ci è nato e cresciuto e «là dove non c’è nulla ti devi reinventare il mondo, immaginando ciò che vorresti». La sua musica, dunque, parte da lì, da

Scampia, tra piazze di spaccio e luoghi di incontro fra boss e camorristi. E a quelle strade resta ancorato per scovare un’anima da ascoltare attraverso il linguaggio della musica e delle parole.

Non a caso è un racconto polifonico dalle infinite sfumature il nuovo album degli 'A67, “Jastemma” (Squilibri editore), composto da 10 brani musicali che mescolano rock, reggae e blues, e 15 racconti scritti da altrettanti scrittori, poeti, narratori. Sono Viola Ardone,

Alessio Arena, Luigi Romolo Carrino,

Giuseppe Catozzella, Marco Ciriello,

Amleto De Silva, Luca Delgado, Gennaro Della Volpe (Raiz), Raffaella R. Ferré,

Nicola Lagioia, Loredana Lipperini,

Carmen Pellegrino, Angelo Petrella, Alberto Rollo e Gianni Solla. Una bella pattuglia di autori, insomma.

“Jastemma”, neovincitore del Premio

Tenco (sezione “Album in dialetto”), è

Piazze di spaccio, persone ai margini, l’illusione dell’amore. Il racconto polifonico di “Jastemma”, il nuovo cd-book degli ’A67. Con i testi di quindici scrittori

un progetto multivocale e multiforme verrebbe da dire, illustrato da Mimmo Palladino che campeggia sin dalla copertina con quel suo volto aureo, «un artista con il quale avevamo già lavorato», dice Sanzone: «Un amico come i tanti artisti che hanno scelto di collaborare all’album», nato in un periodo molto particolare come la pandemia.

«Dopo l’uscita del nostro ultimo disco, “Naples calling” (Full Heads), eravamo tutti un po’ demoralizzati perché con la pandemia non siamo riusciti a fare concerti. Ma proprio in quel periodo si è aggiunto alla band Mirko De Gaudio alla batteria, che ha portato nuova linfa al gruppo, che era formato da me, Enzo Cangiano alla chitarra e Gianluca Ciccarelli al basso. Fra di noi si è creata una particolare alchimia e nel silenzio del lockdown ci siamo messi a suonare. E così sono nate delle canzoni d’amore, canti di vita contro la morte. A quei brani si sono ispirati gli scrittori che hanno creato racconti inediti, stimolati da una parola, da un ritmo musicale, da un ricordo. Dalla narrazione musicale, quindi, è nato un nuovo racconto che ci porta ad immergerci in un mare fatto di tanti colori e sfumature diverse. E chissà dove possono portarci ancora le sue maree».

Ci sono tante storie risolte o irrisolte in “Jastemma”. Si parte dal mondo degli ultimi, per i quali l’amore, per esempio, sembra essere più un’illusione che non riesce ad alleggerire né a curare i dolori e le ferite di una vita ai margini, per poi insinuarsi tra le pieghe degli affetti consumati dall’abitudine e dalla routine e infine lasciarsi andare alle passioni senza tregua. Do-

Qui sopra: la copertina dell’album “Jastemma” degli ’A67. Sotto: la band napoletana. A sinistra: un palazzo di Scampia

po tante disavventure a prevalere è un inno alla vita. Non si tratta, quindi, di schierarsi solo con chi sta ai margini, come spiega bene Stefano De Matteis nella prefazione al cd-book: «Perché questa volta c’è anche un altro distacco, che muove verso coloro che non hanno la necessità di fare, che non sentono il bisogno di opporsi, di mettersi in contrasto con tutto quanto c’è di storto nel mondo e con tutti coloro che ne sono complici... a cominciare dalla vita. E questo perché i veri morti non sono quelli a cui hanno sparato, ma quelli che sono spenti dentro da una vita che li ha uccisi prima e poi li ha dimenticati». Come cantano gli 'A67 «pecché ccà e veri muorti nun so’ / chilli sparati ma chilli stutati a dinto / da na’ vita ca primma l’accise e po’ sele scurdate».

E non poteva che essere il napoletano la lingua-megafono di tante storie che nascono e si mescolano per gridare l’amore in ogni sua forma. «Ho cercato di coinvolgere narratori verso i quali nutro un sentimento di amicizia o di stima, scegliendo i brani ai quali ispirarsi seguendo un po’ il mio istinto. Quando ho mandato “Sape ‘e niente” a Viola Ardone, per esempio, lei ha risposto dicendomi «mi hai distrutto» e poi ha scritto un racconto bellissimo. Nel brano “Jastemma” mi sono immedesimato in una donna e ad Alessio Arena ha ispirato una storia di omosessualità sulla difficoltà di crescere e che poi si è ampliato nel racconto di Marco Ciriello. Ho cercato di interpretare il sentire degli altri per questo album dell’anima blues. Per esempio, a proposito dell’ultimo brano, quello strumentale, “SS 162”, ho pensato ad Angelo Petrella perché suona la tromba e ho immaginato che in qualche modo il brano potesse parlargli».

Il punto di partenza della musica degli 'A67 non è mai cambiato. La periferia di Scampia è il luogo in cui la band continua a creare, a gridare attraverso la musica qual è il mondo che vorrebbero. «Ho provato a vivere a Roma, ma poi sono tornato a Scampia. La periferia è qualcosa che mi appartiene» racconta Sanzone. Può essere la periferia un punto di forza? «Là dove non c’è nulla, puoi reinventare il mondo, immaginando tutto ciò che vorresti. Quello che non avevo l’ho trovato con la musica. Io sono nato in una piazza di spaccio, da lì è partito il mio urlo. Ha cercato di placare il conflitto fra i valori dei miei genitori (pittore mio padre, casalinga mia madre) e ciò che trovavo in strada. Quando si formò la band era morta da poco Annalisa Durante, la giovane di Forcella uccisa per sbaglio durante uno scotro fra clan. In quel periodo ero iscritto alla facoltà di Filosofia di Napoli e nella pausa tra una lezione e l’altra mi fermavo a prendere il sole in un convento del 1300. Un giorno passò un ragazzo, mi fissava. Io cominciai a innervosirmi. L’episodio si è ripetuto. A Napoli per uno sguardo si può morire... Ad un certo punto una mia amica mi disse che quel ragazzo era strabico. Quel giorno ho capito che avevo portato il codice del mio quartiere in un altro contesto. Io ero intriso di quei valori, ma ero un portatore sano e quell’episodio mi ha fatto riflettere. Poi quando uscì il primo disco, “A camorra song’io” (Polosud 2005), ci intervistarono tutti e un boss disse: “Ma se loro sono la camorra, noi chi simm?”. Insomma, avevamo provocato una crisi d’identità della camorra!».

Negli anni la band ha collaborato con grandi artisti, da Edoardo Bennato a Pino Daniele, e ora c’è “Jastemma”, che sarà presto in tournée. Per ora segnate queste date: 10 ottobre all’Auditorium Parco della musica di Roma e 20 novembre al Teatro Trianon di Napoli. Q

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