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La città delle donne nel Kurdistan assediato Alessia Manzi e Giacomo Sini
from L'ESPRESSO 29
by BFCMedia
Donne alla guida del gregge nei pascoli di Jinwar
Il centro della salute aperto ai villaggi vicini. Qui si producono piante medicinali. Al centro, uno dei momenti d’incontro a l villaggio di Jinwar
Che età avrà la mia mamma? Visto com’è bella?», chiede Ciya, un vispo ragazzino mentre intreccia colorati da Zeynep guardando con amore il figlio. «Come lasciare una parte del mio cuore?». Poi Zeynep viene a sapere che nel to a sartoria. «L’8 marzo del 2017 su questa terra abbiamo poggiato la prima pietra del villaggio. Un anno dopo, il 25 novembre, nella giornata braccialetti accovacciato su un letto, canticchiando una canzone. «Ho 28 anni e ho vissuto molte difficoltà», dice Zeynep da Gewer, nel nord del Kurdistan, che seduta a gambe incrociate versa del çay da una teiera argentata e fumante. «A quindici anni ho dovuto sposare un uomo vent’anni più grande di me che non mi lasciava uscire da casa», racconta la giovane poggiando su un tappeto rosso e blu una ciotola di caramelle. «Solo quando è nato Ciya ho scoperto come nascessero i bambini. Non avevo vestiti né per me, né per mio figlio, che picchiavo di continuo: lo avevo imparato dalle botte prese da mio marito. In fondo, anch’io ero una bambina». Sul volto di Zeynap scende per un attimo un velo di tristezza. «Fuggita a Maxumur, nel sud del Kurdistan, volevo uccidermi per il male ricevuto. Stavo lasciando Ciya in adozione, ma ho cambiato idea grazie al sostegno ricevuto da amici conosciuti lì», ricorNord Est della Siria è nato Jinwar, un eco-villaggio dove donne e bambini conducono liberi una vita comunitaria. «Arrivati a Jinwar, Ciya piangeva sempre ed io non stavo bene. Siamo andati via per tornare poco dopo. Abbiamo capito subito che il nostro posto fosse nel villaggio», dice Zeynep. «Qui ho ritrovato me stessa, e non mi guardo più attraverso gli occhi di un uomo capace soltanto di denigrarmi. So che posso farcela da sola e ho molti interessi, come giardinaggio e cucito», spiega. «Non lascerei mai Jinwar. Tutte le donne meritano una seconda opportunità per essere felici». Da una casa vicino all’abitazione di Zeynep, una donna parla ad alta voce. «Piano con quel pedale! Ecco, brava!», esclama una signora coi capelli avvolti in un foulard bordeaux rivolta ad una ragazza attenta a fare un orlo ad una tenda, fra macchine da cucire e scampoli di stoffe variopinte lasciate ovunque in questo stanzone adibicontro la violenza sulle donne, Jinwar spalanca le sue porte», spiega Amara, una giovane abitante del villaggio situato nel cantone di Al- Hasakah, nel nord est della Siria. «Le case sono in terracotta secondo la tradizione, per essere fresche in estate e calde in l’inverno. Queste trenta casette sono state realizzate anche con l’aiuto degli abitanti dei villaggi intorno, a cui da tempo spiegavamo quale fosse il nostro progetto». La parola “Jinwar”, in Kurmanji, significa “terra delle donne” e prende spunto dalla Jineolojî: la scienza delle donne teorizzata dal leader curdo Abdullah Ocalan, che auspica una società libera dal patriarcato. «Dieci anni fa le donne hanno giocato un ruolo fondamentale nella rivoluzione. Da quel momento in poi, in questa zona del Medio Oriente molte di loro non obbediscono agli ordini del padre o dello zio, chiedono il divorzio, studiano. Alle Mala Jinê - case delle donne - si ten-
Delal, giovane abitante del villaggio, sistema su di un ripiano il pane appena sfornato all’interno del forno autogestito
gono riunioni per risolvere problemi di genere», prosegue Amara. «A Jinwar siamo quasi autosufficienti. Coltiviamo ulivi, albicocchi ed abbiamo creato una cooperativa agricola che offre lavoro anche alle persone esterne al villaggio. Domani faremo anche il pane», continua, passeggiando sul viale che dall’agglomerato di case si snoda tra la scuola, la fattoria e l’ambulatorio di medicina naturale. Su questa strada polverosa, tre ragazzini scorrazzano su una bicicletta dorata.
«Da Afrin sono andata a Shahba per unirmi al movimento di liberazione», ricorda JÎyan, seduta al fresco nel suo giardino. «Poi ho raggiunto la Mala Jinê di Qamishlo, ho seguito qualche lezione dell’Accademia e ho deciso di andare a Jinwar. Attendevo da mio fratello i documenti per la Germania. Non ero abituata alla vita del villaggio». Alla fine, JÎyan decide di restare a Jinwar e in poco tempo cura profumati giardini e diventa responsabile del negozio del borgo, finché non viene arrestata al confine iracheno. «Stavo andando ad un incontro di Jineology in Europa. Sono stata rilasciata da poco», commenta. «Non andrei più in Germania. Non saprei lasciarmi alle spalle Jinwar».
Una voce proviene da un edificio in cui il laboratorio teatrale porta in scena uno spettacolo contro la violenza sulle donne. «La libertà appartiene alle donne, ma in alcune famiglie non esiste! Se unite, le donne sono più forti degli uomini», recita una ragazzina dai capelli raccolti in una treccia, che parla davanti ad una parete coperta dai volti delle combattenti cadute negli scontri contro l’Isis e la Turchia.
«Nella mia famiglia, ad Aleppo, non c’erano differenze tra me e i miei fratelli. Poi, tutto è cambiato dovendo sposare mio cugino a diciotto anni», ricorda Rojida, 32 anni, poggiando il vassoio con la caffettiera turca tra i divani da pavimento di casa sua.
«Qui sposarsi è obbligatorio, ma a casa della famiglia di mio marito ho perso la libertà. Svolgevo faccende domestiche e non potevo parlare» aggiunge Rojida bevendo una tazzina di caffè. «Sarei voluta scappare ma poi è nata mia figlia. Sono rimasta ancora lì provando a divorziare. Lui non voleva e così siamo fuggite: abbiamo trovato riparo in una casa protetta e poi siamo arrivate a Jinwar», racconta. «Con mia figlia prendiamo lezioni di inglese. Stiamo bene qui».
Èora di cena. Due ragazze stendono una tovaglia al centro di una piccola saletta e portano dei piatti colmi di dolma, tipici involtini di foglie di vite. «A Jinwar abitiamo con donne curde, arabe ed ezide. La lotta delle donne curde, che capiscono l’oppressione delle loro sorelle, riguarda la libertà di ogni donna in tutto il mondo. Per questo speriamo che l’esempio di Jinwar possa essere seguito ovunque, perché le donne siano supportate ad uscire dalla violenza», aggiunge Amara. A Jinwar il frastuono dei tiri d’arma pesante e d’artiglieria rompe il silenzio nelle vallate adiacenti al villaggio.
A qualche chilometro di distanza, dai territori siriani occupati da Er-
Una rappresentazione teatrale al villaggio di Jinwar
Yade, una delle abitanti di Jinwar cura il giardino di fronte alla sua abitazione
dogan nel 2019, milizie legate ai turchi ed esercito di Ankara, quotidianamente colpiscono la città di Tel Tamr e i villaggi a ridosso del fiume Khabour, lungo l’autostrada internazionale M4. «Il contesto patriarcale Sdf, Forze democratiche siriane. «Ad ogni modo, la collettività ha ben presto accettato questo processo e oggi siamo una delle componenti maggiormente presenti nella battaglia contro l’occupazione», continua la comandante. «Nel Nord Est della Siria le donne sono attive in ogni ambito sociale, non solo militare, e si battono per un’uguaglianza di genere che favorisce l’intero processo rivoluzionario», evidenzia Zilan. L’area di Tel Tamr è abitata da cristiani siriaci ed assiriani, curdi ed arabi che nel 2015 sono stati massacrati dall’avanzata dell’Isis. La linea del fronte dista solo una manciata di chilometri dalla collina che sovrasta la città.
«Un tempo c’erano oltre trenta chiese fra i centri abitati dell’area. Ora sono distrutte o inaccessibili a causa degli attacchi quotidiani. È rimasta solo quella, la più antica, in cui si riuniscono gli assiriani della zona per le celebrazioni», racconta Nabil Warda, portavoce delle Assyrians khabour guards, milizie assiriane. «Abbiamo dato rifugio a cinquanta famiglie in fuga dai villaggi attaccati dai turchi. Vogliono spazzare via la presenza siriaco-assiriana dall’area, siamo pronti a proteggere tutta la comunità sino all’ultima goccia di sangue», conclude Warda.
Su Jinwar la brezza della sera accarezza le spighe di grano finché si mescolano ai campi arati che si perdono verso il confine turco e le sagome di alte montagne. «Sono rivoluzionaria. Studiando sociologia ed essendo nata qui, conosco bene i problemi del Medio Oriente», dice Rojda accarezzando Lucy, un cucciolo di cane. «In questo luogo combattiamo quella stessa battaglia che il popolo curdo conduce da oltre cinquant’anni per la sua libertà. Se a Jinwar può nascere una “città delle donne”, vuol dire che questo modello si può diffondere altrove sconfiggendo il patriarcato e rendendo il mondo un luogo di pace e sorellanza». Q
della società ha reso inizialmente difficile la presenza delle donne accanto ai combattenti uomini», spiega Zilan Tal Tamr, comandante Ypj - Unità di protezione delle donne - del Consiglio militare di Tel Tamr, inquadrato nelle
Angela, affetta da obesità grave, indossa il modellatore ortopedico che sostiene il peso
FAT ACCEPTANCE “S ono grassa e fiera” La batt a g lia di Dalila c ontro il b o dy shamin g
Via i termini medici per rendere accettabile quello che resta un giudizio intollerabile. Da vittima di cyberbullismo a consulente sui social di Margherita Abis
Foto: M. Sarlo - Contrasto Sei grassa è il peggior insulto che una donna possa ricevere. O almeno, così ci insegnano. Questa è la storia di come si sradica una convinzione, ed è una storia corale, composta da molte voci.
«Io ho smesso di definirmi curvy o morbida ma parlo di me come di una fiera ragazza grassa, perché è quello che sono», spiega Dalila Bagnuli, 23 anni, attivista femminista che si occupa di body positivity e sui social combatte la grassofobia.
L’idea è liberare una semplice caratteristica fisica dall’accezione negativa. Lei stessa, per raggiungere questa consapevolezza, ha dovuto lavorare in profondità.
Ma ora non vacilla nemmeno mentre racconta come si annienta un bullo e come, con la diffusione dei social, sono cambiate le modalità del body shaming. Su Internet subiamo un vero e proprio bombardamento e ciclicamente ci troviamo di fronte a mode sempre nuove, sfide pericolose, trovate sadiche, come quella che alle porte dell’estate aveva iniziato a imperversare su TikTok, la Boiler Summer Cup. Come molte altre challenge social “gemelle”, è un mix di cyberbullismo, body shaming, grassofobia e «convinzione di rimanere impuniti». I meccanismi sono spesso i medesimi. Nel caso della Boiler Summer Cup venivano prese di mira le ragazze in sovrappeso, filmandole a loro insaputa e postando i video dell’avvenuta “conquista” sui social per collezionare punti in base al peso ipotizzato della vittima.
A lanciare l’allarme di ciò che si può subire sui social, in questo e in molti altri casi, sono spesso le attiviste.
Dalila Bagnuli si batte con la lucidità e la fierezza di chi ormai ha la scorza dura ma il passato, come a volte accade in questi casi, è sempre lì in agguato. Cruciale nella sua esperienza da attivista è stato proprio il bullismo subito dalla prima alla terza superiore da parte dei compagni di classe. «Era il 2015, ero una ragazzina. Avevo paura di andare in spiaggia e mostrarmi in costume perché temevo di incontrare qualche compagno che mi riprendesse. Mi venivano fatti video e foto di nascosto e venivano trasformati in meme, con lo scopo di deridermi sull’aspetto fisico. I contenuti venivano diffusi sui canali Telegram a cui non ero iscritta. I video poi giravano e si diffondevano non solo nella mia classe ma in tutta la scuola. Venivo presa di mira perché ribadivo la mia opinione, non mi abbassavo di fronte ai soprusi e perché ero una ragazza grassa. Sono arrivati a organizzare anche risse contro di me».
Anche a sette anni di distanza, le dinamiche verso i giovani si ripropongono. Foto scattate di nascosto, immagini (spesso di minori) diffu-
se senza consenso, cyberbullismo, post che diventano virali sui social, body shaming.
Dinamiche che portano anche a una visione distorta di sé e a non sentirsi mai a posto con il proprio corpo. «Questo tipo di bullismo mi ha reso tanto insicura e mi sono sempre vista grassa anche quando non lo ero. Ogni volta che mi riferisco a quel periodo, dico che ero una ragazza grassa ma così non era. Quando poi sono ingrassata davvero, mi sono resa conto della dimensione reale del mio corpo e del fatto che forse sono diventata così anche per quello che ho subito. Il dolore che ho provato in adolescenza mi ha causato continui attacchi di panico», prosegue Bagnuli.
Un pezzetto alla volta, è riuscita a trasformare la rabbia in carburante. Con un obiettivo: provare a cambiare le cose. Oggi lo fa attraverso la body positivity, movimento che promuove l’accettazione di tutti i corpi a prescindere da peso, altezza, genere, colore della pelle o “imperfezioni” in contrasto agli standard di bellezza attuali, considerati un costrutto sociale da abbandonare. La body positivity promuove la “fat acceptance” e combatte la grassofobia, atteggiamento discriminatorio rivolto alle persone in sovrappeso.
«Voglio aiutare, essere un punto di riferimento per ragazze e ragazzi che hanno sofferto come me, persone che si sentono sole», dichiara Bagnuli.
A lei si rivolgono parecchie persone, spesso giovanissime, che cercano un supporto, un consiglio, una possibilità di sfogo. Sono infatti spesso i più giovani a essere i protagonisti di queste vicende. Ma non solo. A subire body shaming sono anche donne adulte. Può succedere dopo aver affrontato un cambiamento del fisico, come in gravidanza. Non di rado capita addirittura alle celebrità, da Vanessa Incontrada a Victoria Beckham, che di recente ha parlato del body shaming subito negli anni ’90, quando fu spinta a salire su una bilancia durante una trasmissione televisiva, in modo da essere sottopodeterminate caratteristiche fisiche. Tutto questo può portare a conseguenze anche gravissime per le vittime, come ansia, attacchi di panico, disturbi alimentari, depressione.
Non è solo la grassofobia il fulcro del body shaming, qualunque caratteristica fisica può diventare pretestuosa ed essere presa di mira: l’altezza, la bassezza, la peluria, l’acne, la psoriasi o la magrezza. L’altra faccia della grassofobia è infatti lo skinny shaming, la discriminazione nei confronti di persone considerate troppo magre. A volte viene reputato meno grave lasciarsi andare a commenti discriminatori verso chi ha un fisico asciutto. Immediata l’associazione a ipotetici problemi di salute o a disturbi alimentari. Allo stesso modo, il leitmotiv ricorrente verso i corpi in sovrappeso è una non richiesta preoccupazione per presunti problemi di salute. «Devi dimagrire (o ingrassare) perché se no la tua salute ne risentirà».
Una t-shirt contro la grassofobia
Dalila Bagnuli
sta alla verifica pubblica del suo peso dopo il parto. E anche i colpevoli, non sono solo i ragazzini. Nel 20 per cento dei casi, secondo una ricerca del 2021 condotta da Skuola.net, sono gli adulti a prendere di mira i ragazzi, discriminandoli o ridicolizzandoli per
Adolescenti e bambini giocano in un campo dedicato a salute e nutrizione
In realtà, quello che viene posto come una sorta di attenzione verso l’interlocutore è semplicemente un giudizio, una critica o addirittura una forma di bullismo. «Se una persona fuma ad esempio non viene bullizzata o derisa con il pretesto della salute. Viene considerata una questione sua e basta. La stessa cosa dovrebbe valere per il peso corporeo», dice Bagnuli. Ciò che attiviste come Bagnuli tendono a rifuggire è l’utilizzo di un lessico medico per descrivere i corpi; si eliminano termini come “obesità” e “anoressia”.
Spesso un corpo grasso viene automaticamente associato a una persona che non ha cura di sé: altro mito da sfatare. Tra i tanti, c’è anche quello che riguarda gli uomini; si ritiene solitamente che siano solo le donne a essere colpite dal body shaming. In buona parte dei casi tuttavia, sono gli uomini a subirlo anche se sono meno propensi a raccontare e condividere le prese in giro. Tra le caratteristiche che si ritiene un uomo debba necessariamente possedere ci sono l’altezza e una muscolatura importante, per poter proteggere e difendere il suo fragile angelo del focolare (la donna), altra convinzione che deriva da una mascolinità tossica. E di conseguenza i ragazzi con un corpo minuto vengono spesso ridicolizzati.
Nei film, nelle serie tv, nei romanzi le rappresentazioni delle persone grasse sono spesso assenti oppure relegate a qualche siparietto comico. Talvolta vengono ridicolizzate, o associate a personalità negative o goffe. Basti pensare ai flashback sulla “Fat-Monica” in Friends. Anche Thor, il più muscoloso e “prestante” degli Avengers, in un momento di sconforto della serie cinematografica perde i suoi tratti estetici distintivi perché inizia a prendere peso e a trascurare il suo aspetto e viene così messo in ridicolo. Succedeva anche nei cartoni animati, dalla Regina di Cuori di Alice nel Paese delle meraviglie a Ursula della Sirenetta, i villains grassi per eccellenza.
Fa anche riflettere il fatto che nei film, le scene amorose coinvolgano nella maggior parte dei casi persone con corpi stereotipati, tonici e muscolosi e si tenda a escludere quelli che non rientrano in questi canoni.
Del resto, se i canoni estetici variano nel tempo, è impossibile definire a priori che cosa consideriamo un difetto e cosa un punto di forza. La grassofobia è una tendenza più recente, mentre altri tipi di discriminazioni nascevano da convinzioni passate che negli anni si sono evolute. Convinzioni, se non addirittura superstizioni popolari, come nei confronti delle persone con i capelli rossi o gli stereotipi verso le bionde.
A dare largo spazio alla body positivity negli ultimi tempi sono anche le aziende e le case di moda che hanno portato in passerella persone con corpi considerati non conformi, mettendo in mostra apparenti imperfezioni. Si mira all’inclusione, anche se spesso questo può diventare una mera strategia di marketing: nella realtà capita non di rado che chi si rivolge agli stessi negozi in cerca di taglie forti, finisce per rimanere deluso.
Altro approccio per certi versi affine alla body positivity è la body neutrality, che ridimensiona il ruolo del corpo e il suo aspetto esteriore, promuovendo un atteggiamento di neutralità verso di esso.
Gran parte del lavoro sul tema del body shaming e del bullismo può essere svolto nelle scuole, osserva Bagnuli: «È da lì che si dovrebbe partire. Certe cose non vanno minimizzate, non sono ragazzate. La scuola dev’essere vicina alle vittime di bullismo, non le deve far sentir sole o colpevolizzare. Né deve giustificare dicendo che questo ci rende più forti. Il bullismo non rende più forti, rende più sofferenti». E la differenza è netta. Q