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Il secolo di Scalfari

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Serra

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Un intellettuale critic o del p otere

DI BERNARDO VALLI

Detestava il condizionale. Faticava a tollerare il congiuntivo. Quei modi non gli si addicevano. Se ne trovano vaghe tracce nei suoi scritti e li sconsigliava ai redattori. L’inviato di Repubblica a Varsavia, durante una delle grandi crisi polacche degli anni Ottanta, era traumatizzato dal ripetuto invito del direttore a riscrivere la corrispondenza appena mandata. Per tre volte una nota asciutta accennava a una mancanza di incisività. L’inviato, un bravo collega, non riusciva a interpretare quel rimprovero. Era sconcertato dal caparbio rifiuto del suo articolo. Infine si rese conto che l’insistente uso del condizionale dava un tono allusivo alla sua cronaca. I “se”, i “ma” erano troppi. Deresponsabilizzavano lui, l’autore, e con lui risultava sfuggente Repubblica. A Eugenio Scalfari non piaceva quel vizio italiano.

Voleva pezzi “d’autore”. Repubblica doveva essere un quotidiano d’opinione, e quindi i contenuti politici di un articolo dovevano essere chiari, ma contavano soprattutto l’approccio alla realtà e il linguaggio preferibilmente asciutto, senza troppi fronzoli e colore. Era per uno stile diretto, narrativo; a chi lo usava concedeva la sua indulgenza; anche se a volte ne abusava. Esecrava le allusioni e amava la cronaca anche in politica, in cultura, perfino in economia. Era una scelta in parte ereditata da Arrigo Benedetti, con il quale aveva lavorato a lungo a L’Espresso, e al quale veniva riconosciuto il merito di avere tentato di allontanare il giornalismo dalle dissertazioni comprensibli soltanto ai pochi in grado di interpretarne il senso nascosto nella nebbia dell’ambiguità.

Allo stile di Longanesi era succeduto il missirolismo. Durante il fascismo, il primo dava agli scritti di autori abili o furbi un leggero sapore di dissenso, di fronda, che sfuggiva alla censura. Nella giovane democrazia era considerata alta acrobazia giornalistica l’abilità con cui Mario Missiroli, direttore del Corriere della Sera, stilava editoriali dotti, sibillini per i comuni mortali e sempre velatamente ossequiosi verso il Palazzo. La nascita del Giorno di Gaetano Baldacci e poi l’avvento di Piero Ottone alla direzione del Corriere hanno imposto una svolta ai grandi quotidiani italiani. La critica ha assunto

Nell’altra pagina: Eugenio Scalfari con la moglie Simonetta De Benedetti a Parigi nel 1954. Scalfari al mare con (da sinistra) Arrigo Benedetti, Ernesto Rossi e Mario Pannunzio. Nel 1955 con il suocero Giulio De Benedetti, direttore della Stampa. A fianco: con Carlo Caracciolo a Parigi, nel 1965. Sotto: riunione di redazione a L’Espresso nel 1967. In basso: con le due figlie Donata (a sinistra) ed Enrica nel 1961

toni più aperti. Con Repubblica, Eugenio ha dato energia all’ambiziosa missione (già viva nel Mondo di Pannunzio e ancor più ne L’Espresso di Benedetti e suo) di creare un’opinione pubblica come forza politica di controllo e di tendenza.

I cronisti della mia generazione, che avevano vissuto le precedenti aperture al Giorno e al Corriere, avvertirono la scossa. Non ci lasciò indifferenti la ribadita esigenza del fondatore di Repubblica di voler «pezzi d’autore». L’ affermazione non suonava tanto come un invito alla qualità, ovvio in un giornalismo in cui la forma ha prevalso a lungo sulla sostanza, in cui la buona scrittura ha mascherato la dipendenza a tanti poteri, quanto alla volontà di avere redattori di carattere, con una personalità politica e culturale.

Per tradizione e convenienza, nei grandi quotidiani non di partito, l’irriverenza nei confronti del potere era consentita a pochi eletti, la cui autorità personale smorzava la responsabilità del giornale. Ed era spesso attutita dall’ironia, dall’uso della battuta che divertiva, ma soltanto di rado feriva. Il diritto a un’irriverenza praticata individualmente, riconosciuto agli “autori” di Repubblica, dette alla redazione formata da Scalfari un’impronta invidiata o irritante per chi non aveva quel diritto. Ed erano in molti. L’irriverenza, verso gli avversari ed anche, a volte, verso gli amici politici, aveva il valore di un puntuale, ripetuto atto di indipendenza. Era sempre là, in sospeso. Come la lama di una ghigliottina, di cui all’inizio, agli esordi di Repubblica, molti redattori potevano disporre. Anche perché non si tagliavano teste, ma si spalancavano scandali e menzogne.

Eugenio apprezzava la dignità con cui alcuni colleghi adottavano la freddezza ispirata agli stereotipi anglosassoni. Lui teneva a bada la passione, senza accorciare troppo la briglia. Non travolgeva la verità conosciuta dei fatti. Né si trincerava nella neutralità. La sua visione doveva trasparire. Esprimere un’opinione era naturale, come doveva esserlo il rispetto della realtà. A viso scoperto e senza rete di protezione: questa poteva essere la regola. Anche nel giornalismo, come nella vita privata, Eugenio era protagonista. Lo era sia nel ruolo di seduttore sia in quello di chi è esposto e vulnerabile alla seduzione. Voleva essere amato da chi lavorava con lui, ma sapeva amare. Poteva soffrire di istinto se uno, redattore o fattorino, lasciava il giornale. Il distacco da un collaboratore grande o piccolo lo feriva. In questo, come del resto nell’amicizia, aveva slanci sentimentali: era fedele come era irriducibile nella polemica. Per lui gli avversari rispettabili erano ben distinti da quelli che non lo erano. La straordinaria capacità di recupero rimarginava le sue ferite, ma la memoria era robusta.

La curiosità di giornalista non si limitava al presente; la passione per la storia lo portava spesso a filtrare i fatti quotidiani attraverso il passato; e a studiarne le conseguenze senza paura di affrontare i rischi della verità del momento. Al giornalista affidava un ruolo difficile: quello di esercitare il diritto della società non solo a conoscere gli avvenimenti, ma anche a svelare quel c’ è dietro. Il retroscena non come pettegolezzo, ma come servizio reso al lettore, cioè al

1968. Scalfari con l’avvocato Giandomenico Pisapia durante un’udienza del processo per lo scandalo Sifar. A fianco: con tre illustri economisti nel 1974. Da sinistra: Beniamino Andreatta, Luigi Spaventa, Paolo Sylos Labini. Sotto, a sinistra: con Goffredo Parise (senza cravatta) che scrisse per L’Espresso reportage dal Vietnam in guerra. A destra: con Alberto Moravia a lungo collaboratore e critico cinematografico del settimanale

cittadino che non deve essere gabbato da chi detiene il potere. Analizzava e criticava la società politica da posizioni che, nonostante il zigzagante percorso di una lunga vita italiana, possono essere riassunte facilmente in quelle di un tenace liberale di sinistra, appassionato difensore delle istituzioni.

Il suo pubblico l’ha via via individuato nella parte riformista e repubblicana della società. I suoi lettori ideali erano sostenitori dei diritti civili, ma anche dei doveri che ne derivano. Un momento di verità e di chiarezza fu quando di fronte al terrorismo, in particolare durante il rapimento di Aldo Moro, nella sinistra extraparlamentare, tra i radicali e non pochi intellettuali prevalse lo slogan «né con lo Stato né con le Br». Slogan che Eugenio rifiutò schierandosi in difesa dello Stato repubblicano, del quale denunciava al tempo stesso le manchevolezze e dal quale esigeva il rispetto dei diritti civili. Fu una scelta di campo, che equivalse a una rifondazione del giornale, nato da poco e ancora intento a precisare la propria identità. Lui stesso l’ha scritto.

La scelta di settimanalizzare il quotidiano, ossia di offrire sempre più non la sola notizia, ma la sua genesi, i suoi effetti e il ritratto dei suoi protagonisti, colpevoli o innocenti o vittime, oggi applicata dalle grandi testate internazionali, fu la profonda riforma attuata da Eugenio. Lui la promosse da giornalista intellettuale quale era. L’espressione “intellettuale”, nata dall’Illuminismo al quale si ispirava (Denis Diderot era il suo eroe), gli si addiceva in pieno. E spiega il suo giornalismo. La formazione originaria era quella di un economista. L’ interesse letterario (e filosofico) si è esteso col tempo e ha influenzato il suo giornalismo, e la sua redazione fin dalle origini. Durante i primissimi passi di Repubblica, Roselina Balbi, responsabile delle pagine culturali, e Orazio Gavioli, responsabile di quelle degli spettacoli, furono gli interpreti indipendenti, di quella sua natura. Balbi e Gavioli spesso disubbidivano, prendevano iniziative che non condivideva. Ma lui accettava l’insubordinazione di quei due personaggi che stimava con lo spirito, appunto, di un giornalista intellettuale. Q

Con Giorgio la Malfa (a sinistra) e Rino Formica nella sede de L’Espresso. Sotto, a sinistra, con Guido Carli e Gianni Agnelli. Con l’amico-rivale Indro Montanelli. A destra, un ritratto degli anni Ottanta

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DI LEOPOLDO FABIANI

o andavo ogni giorno in redazione come se andassi a una festa», ha ricordato una volta Eugenio Scalfari. Può sembrare una strana affermazione per chi conosce Scalfari solo attraverso i suoi editoriali asseverativi e solenni o per chi ricorda solo l’immagine del direttore severo, ieratico, capace di fulminare con un solo sguardo una carriera promettente. Ma la dimensione del gioco, del divertimento era parte integrante del suo carisma.

Certo, c’era poco da scherzare nelle riunioni vissute da molti come «un esame universitario da superare ogni giorno». Le discussioni potevano essere accanite fino alle urla e agli insulti, poi quando il direttore interveniva a distribuire torti e ragioni i veterani ammutolivano come i praticanti. Non solo i giovani, anche i giornalisti più anziani ed esperti di lui, che magari avevano visto guerre in tutto il mondo, ne subivano il carisma. E d’altra parte, come ha ricordato Carlo Caracciolo, anche da giovanissimo Scalfari impressionava per quanto fosse «deciso e sicuro di sé».

Così poteva capitare anche a un mostro sacro del giorna-

lismo, inviato su un servizio importante, di trovare, al rientro in albergo dopo cena, un telegramma del direttore. E di chiedere al portiere di leggerglielo ad alta voce, davanti agli altri colleghi, sicuro di sentire un elogio. E invece di sentirsi recitare un rimprovero durissimo. «Mi vedo costretto a rilevare che il tuo pezzo di oggi è veramente deludente, fiacco senza atmosfera...». Ma insieme c’era la leggerezza, lo scherzo, il gioco. Perché del gioco facevano parte le promesse di promozioni - «sei I sulla rampa di lancio», «hai nello zaino il bastone di maresciallo» - che moltissimi hanno ricevuto. E, pur sapendo bene che quasi sempre promesse sarebbero rimaste, comunque facevano piacere. E le metafore marinare: «la nave corsara» (che è sempre stata la preferita di Scalfari, anche quando i giornali erano diventati delle corazzate), con conseguenti premi e punizione iperboliche: «vi concederò diritto di saccheggio», o «farai nove giri di chiglia sotto la nave». E c’era il direttore che si occupava della vita privata dei suoi redattori, che li invitava a confidargli i crucci sentimentali, i problemi familiari, le difficoltà quotidiane. Perché non si può lavorare bene se si è infelici e preoccupati. Resta leggendaria la mattina che nello stanzone di “Repubblica” squilla a vuoto il telefono sulla scrivania di un giornalista importante, noto seduttore. Il direttore passa e intima ai presenti: «Non rispondete. Potrebbe essere vostra moglie». Questo atteggiamento, paterno e insieme materno, aggiungeva qualcosa di inconfondibile al suo carisma già

eccezionale di inventore di giornali, editore, direttore, editorialista, intervistatore: una figura assolutamente unica nel giornalismo italiano del Novecento. Cosa ha significato avere un direttore così si è visto nei giorni dell’ultimo saluto, quando chi ha lavorato con lui, grandi firme e tipografi, vicedirettori e dimafonisti, inviati e commessi, tutti hanno manifestato, insieme alla immensa ammirazione per il genio del giornalismo, un autentico sconfinato affetto per la persona.

«Voi dovete essere contenti», «tu devi essere contento», era un altro dei suoi mantra, ripetuto centinaia di volte. E contenti si andava in redazione, mai come se si andasse a un lavoro qualsiasi, ma consapevoli di far parte di un’avventura speciale. Perché nella concezione di Scalfari fare il giornale è un mestiere, con la sua insopprimibile componente artigianale, ma non una professione che si esercita a prescindere dal progetto. Molti ricordandolo dopo la scomparsa hanno tributato gli onori dovuti al grande successo raggiunto dei suoi giornali provando in qualche modo a separarlo dal contenuto politico, civile e culturale, quasi fosse un risultato sì straordinario, ma ottenuto solo grazie a un’eccezionale abilità tecnica. E invece Scalfari ha sempre teorizzato e praticato un principio di fondo, tenacemente ripetuto nei decenni: «La struttura editoriale e la linea politica del giornale sono tutt’uno».

Come ha scritto Alberto Asor Rosa, «Eugenio ha perseguito con incredibile energia e una forza intellettuale e vitale assolutamente eccezionale una battaglia inesausta per riuscire a fare dell’Italia un Paese democraticamente maturo, rispettoso delle regole, fermo sui principi, operoso e civile, e in definitiva, puramente e semplicemente, un Paese normale, almeno secondo il canone democratico occidentale».

Una battaglia con molti nemici, che tra l’altro hanno spesso tacciato questa ispirazione di fondo di essere elitaria e antipopolare. Un’accusa doppiamente sbagliata. Perché l’essere élite era ammesso, anzi apertamente rivendicato. E perché l’oggetto delle critiche scalfariane non era certo il popolo, ma la borghesia italiana, autentico ventre molle del Paese, mai capace di farsi classe dirigente a differenza delle borghesie che Scalfari ammirava, la francese e l’inglese prima di tutte. Se il programma di contribuire a “formare la classe dirigente del futuro” poteva forse sembrare ambizioso, di certo non si può dire che non fosse necessario.

Oggi che di classe dirigente non è nemmeno il caso di parlare e che, lontani i giorni del successo, i giornali lottano semmai per la sopravvivenza, si resta comunque con il sentimento di aver fatto parte di un’impresa straordinaria, bella, e importante, e di averlo fatto assieme a lui con passione e impegno, e in allegria.

Durante i festeggiamenti per i suoi novant’anni uno dei migliori giornalisti che hanno passato tutta la vita professionale nei suoi giornali, nel fargli gli auguri, rievoca: «Direttore, quante volte mi hai detto “Hai il bastone di maresciallo nello zaino!”». Negli occhi di Scalfari passa un lampo: «Ci siamo divertiti, eh?».

Grazie, Eugenio, per averci invitato alla festa. Q

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