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Un intellettuale critico del potere Bernardo Valli 68 Quel carisma inconfondibile Leopoldo Fabiani 71 La nostra vita colorata da Eros Wlodek Goldkorn
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by BFCMedia
La nostra vita colorata da Eros
DI WLODEK GOLDKORN
Nell’altra pagina: 1983, con il segretario del Pci Enrico Berlinguer, con il presidente della Repubblica Sandro Pertini a metà anni Ottanta e nel 1987 con Federico Fellini in Campidoglio. A Fianco: nel 1996 con Marcello Mastroianni e Vittorio Gassman. Qui sotto: con il direttore de L’Espresso Claudio Rinaldi nel 1997
Questa intervista a Eugenio Scalfari è stata pubblicata su L’Espresso del 6 maggio 2011
eros come pulsione di vita e l’amore come forza primaria che spinge gli umani ad agire sono al centro del nuovo libro “Scuote l’anima mia Eros” (una citazione della poetessa Saffo) che Eugenio Scalfari ha scritto, e che Einaudi manda in libreria. E in questa intervista l’intellettuale, il pensatore, il fondatore di giornali, oltre a riflettere sull’intreccio tra questi e i temi generali: il Bene e il Male, la psiche e la mente, l’istinto e il raziocinio, regala un pezzo finora non esposto al pubblico della propria biografia. Racconta della sua infanzia e dei suoi complicati amori da adulto. Ma vuole partire, Scalfari, da un altro testo: «Sto seguendo in questi giorni la discussione sul libro del sociologo Franco Cassano “L’umiltà del male”(Laterza), di cui il direttore del “Foglio”si è in qualche modo impadronito. Cassano riflette sul Bene e sul Male citando tre esempi. Il primo è il “Grande inquisitore” di Dostoevskij (le masse non sono all’altezza di capire gli esempi di virtù). Il secondo, “I sommersi e i salvati”di Primo Levi (il Male pervade il Bene). Il terzo è il dibattito, sempre sullo stesso tema, tra Theodor Adorno e Arnold Gehlen. La tesi di Gehlen è: lasciamo perdere le lezioni morali, perché una società possa vivere e funzionare occorrono invece istituzioni in grado di controllare gli istinti trasgressivi». La forza degli istinti e il potere della trasgressione è uno dei temi del suo libro. «Parto da Freud, ma ne rovescio la logica. Per Freud è il su-
per-io l’istituzione che controlla gli istinti e rende così possibile la vita sociale. È il super-io che tiene a freno la nostra propensione naturale a trasgredire. Io invece sostengo che la L’ socievolezza è essa stessa un istinto; noi umani non siamo una specie di solitari, siamo una specie socievole. E il super-io non è altro che l’istinto di sopravvivenza della specie: ossia l’amore per gli altri». Se è l’amore a guidarci, vuol dire che la vita è governata da Eros? «Esatto. L’essere è colorato da Eros. L’eros sono amori: amore di sé e amore degli altri». E il sentimento? «Il sentimento è la forma che assumono gli istinti quando si presentano alla mente, al raziocinio. Il sentimento rende intellegibile il desiderio». Nella sua vita quanto ha contato il desiderio, l’eros? «Un bel po’. L’ho raccontato, in un modo non personale nel mio precedente, “Per l’alto mare aperto”. Chiedo a Diderot quale è il suo rapporto con l’amore. Lui cerca di evadere. Dice che l’amore è quando ci innamoriamo di una cosa, e allora lui di amori ne ha avuti tanti: il progetto dell’enciclopedia, “Jacques il fatalista”. Insisto e gli chiedo se si è innamorato delle donne. Di molte donne, risponde, perché, la ripetitività non va d’accordo con l’amore. Alla fine dice: mi sono innamorato dell’amore. Ecco, anch’io sono innamorato dell’amore». Tradotto. Lei si è innamorato della vita e della sorpresa che c’è nella vita. Eppure in questo libro si misura con la morte. «Noi sbagliamo a raccontare le nostre vite a partire dalla
nascita. Invece il vero modo di narrare una vita è partire dalla morte e concludere con la nascita. Perché la vita non è altro che una serie di esorcismi per ingannare la morte. Il fatto che alcuni di noi scrivano dei libri o conquistino le Gallie è un modo per dire alla morte: non mi avrai, perché rimane la memoria». Lei quindi ha scritto questo libro per cristallizzare un momento, perché noi, i suoi lettori ci ricordassimo di lei tra dieci o vent’anni? «Sì. Ricorda il mio romanzo “La ruga sulla fronte”? Lo volevo titolare “Vero è ben, Pindemonte!”: una citazione dei “Sepolcri” di Foscolo. Lui sapeva che la memoria sono le opere di ciascuno di noi». Nel suo libro parla molto di Italo Calvino. «È un’amicizia primaria. Eravamo compagni di banco al liceo di Sanremo. Giocavamo insieme a biliardo. Corteggiavamo insieme le ragazze. Una volta, credo fosse l’unica, andammo insieme al bordello (io avevo 17 anni). Per un periodo abbiamo condiviso tutto. Anche le guerre contro le altre bande, in particolare contro quella dei ragazzi dell’Istituto tecnico. Erano battaglie svolte nel mare. Corpi contro corpi. Italo spesso ci guardava seduto sulla boa. Loro erano più forti». Erano più muscolosi, avevano successo con le ragazze a differenza di voi, liceali? «Alle ragazze piacciono anche uomini intelligenti. A proposito, insieme con Italo abbiamo scoperto Atena: la mente. Nel settembre ’43 ci separammo: lui andò in montagna, diventò comunista. Io mi nascosi in Vaticano. Tornammo dalla guerra uomini differenti. Ma ci accomunava, fino alla fine, l’idea della vita come una specie di viaggio». Un viaggio iniziatico, come il suo libro. In cui parla del suo rapporto con il cardinal Martini. Un’ipotesi: lei e Martini condividete l’idea, comune agli atei e ai monoteisti veri, della solitudine dell’uomo davanti all’Assoluto. «No. Io sono un relativista». Però, quando parla di Chopin e della musica descrive l’assoluto. «Forse perché la musica è un linguaggio universale, non mediato dalle parole. Parlo di Chopin per parlare della malinconia. Che si esprime attraverso i semitoni: momenti musicali di esitazione». Nel suo libro distingue tra malinconia e nostalgia. Dice che la malinconia è il rimpianto per qualcosa che non c’è stato. C’è qualcosa a cui ha rinunciato e che rimpiange? «No. La mia vita si conclude, e io posso dire che ho impiegato tutte le valenze, tutti i talenti che ho avuto. Ho cominciato a fare il professionista in un giornale che ho fondato con Arrigo Benedetti, “L’Espresso”. Ho fondato un altro giornale, “la Repubblica”. Ho realizzato quello che volevo. Il direttore del giornale si occupa di tutto: filosofia, letteratura, la fontanella del quartiere, guerra. E in più per anni sono stato il comproprietario dei giornali che dirigevo». Eppure dice che il potere è triste. «Perché è solitario. Pensi ad Andreotti». E allora perché lei non soffre di solitudine? «Ne è sicuro? E allora le racconto la storia. Sono figlio unico. E
Nell’altra pagina: conversando con Umberto Eco, nel 2004 al Quirinale con il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. A fianco: con la seconda moglie Serena Rossetti. Sotto: nel 2011 con il direttore de L’Espresso Bruno Manfellotto e, nello stesso anno, con Carlo De Benedetti e Monica Mondardini, rispettivamente presidente e amministratore delgato del Gruppo Espresso
ho conosciuto la tristezza del figlio unico. Di solito il figlio unico vive in una tenda di cui è insieme ai genitori il solo abitante. Per me era diverso. Avevo paura che mio padre se ne andasse: era un libertino e un giocatore, un “marito visitante” per citare Levi Strauss. Da quando avevo cinque anni percepivo, inconsciamente, la minaccia dell’abbandono. E siccome non avevo fratelli né sorelle, capivo che a tenere unita la famiglia ero io. Il triangolo della famiglia era questo: i due genitori in cima, alla base il figlio. Però era un triangolo imperfetto, perché nulla vietava che uno dei due se ne andasse. E allora, inconsapevolmente, l’ ho capovolto: sono diventato il padre dei miei genitori. Ho agito per fare in modo che i miei comportamenti fossero tali che ognuno di loro se ne riconoscesse. Questo ha instillato in me quel sentimento che è stato poi il mio modo di amare le persone: il sentimento di paternità. Ecco l’assoluto, di cui lei parlava. Il potere del padre». Secondo Lacan è il padre che dà il nome. «Ho sempre avuto due amori paralleli. Uno per mia moglie, l’altro per quella che per 43 anni è stata la mia compagna e che ho poi sposato. L’amore per mia moglie non ha subito la minima alterazione da questo rapporto. Erano due parallele. Nessuna delle due era subordinata all’altra. Sapevano l’una dell’altra. Nei primi anni, tentarono ambedue di abolire uno degli angoli di questo triangolo. E ci provai anch’io. Provavo a stare con una sola delle mie due donne. Ma era come se tentassi di tagliarmi una gamba, un braccio e metà del cervello. Il sentimento prevalente era il rimpianto per quella con cui non stavo. Ho provato più volte a risolvere questa contraddizione. Alla fine capii e dissi a me e a loro: è normale che il figlio abbandoni il padre, ma il padre non può abbandonare i figli. Ancora una volta un triangolo in cui io mi assumevo il ruolo che spetta al padre. E così in piena coscienza ho vissuto la fatica della bigamia. Sapendo la fatica, ben maggiore, che si sono assunte le mie compagne». In conclusione. In tutto quello che lei dice e scrive emerge la consapevolezza di quanto la modernità ci abbia portato alla catastrofe: l’autonomia dell’io. Ma lei, pur essendone cosciente, ne trae il lato buono, di leggerezza e dell’ottimismo. «Io penso che non esistano il bene e il male. Esiste la vita di una specie che si svolge nel quadro di un universo abitato da miliardi di altre specie, organiche e non organiche. Ma la nostra specie, pensante e desiderante, ha tanti attributi. Questi attributi da cosa derivano? Da miliardi di cellule e dall’infinità di liquidi e di vuoto (gli atomi sono divisi dal vuoto). E non c’è principio né fine. Io non progetto il futuro che consola. Io concepisco il futuro nei limiti di ciò che la mente mi consente. Oltre quei limiti non c’è nulla». Di ciò di cui non si può parlare si deve tacere? «Sta citando Wittgenstein. È uno degli esempi di quanto la modernità sia contraddittoria: qualche volta sono d’accordo pure con me stesso. Il presente transita con la velocità della luce, io so che c’è il futuro, lo progetto per quanto riguarda la ragion pratica. Il sentimento invece è solo un segmento. E se mi chiede qual è il senso ultimo della vita, rispondo che il senso ultimo non c’è». Q
Una missione politica e civile
DI BRUNO MANFELLOTTO
Con Eugenio Scalfari, se ne va in fondo anche il “secolo di carta”. Quello dei settimanali irriverenti e combattivi, dei grandi quotidiani d’informazione e di battaglia, del giornalismo moderno che si fa protagonista della politica e dell’economia. Insomma, il “suo” secolo, perché su di esso Scalfari ha imperato come nessun altro, e lasciato un segno profondo inventando stili, rinnovando formule, fondando giornali. E naturalmente vivendo la vita con pienezza.
E dunque è ben difficile riassumere qui e ora i momenti salienti di una lunga esistenza, le tante esperienze in cui si è lanciato, sempre con il piglio - e spesso con la palma - del vincitore: giornalista, amministratore, direttore, saggista, romanziere, infine poeta, sempre marito e amante. I tanti volti di un uomo cui è toccato in sorte perfino di conquistare l’amicizia del Papa. Forse meglio indagare allora le radici, la genesi, le velleità di una lunga e bella avventura, anche perché coincidono con la nascita e la vicenda stessa di questo giornale, L’Espresso. Dal quale peraltro tutto il resto è cominciato.
Una storia, è vero, raccontata e scritta mille volte, forse perfino mitizzata. Eppure vale la pena ricordarne ancora alcuni dettagli illuminanti, se non altro perché spiegano bene molti degli eventi che si sono succeduti dopo: il successo del settimanale, l’azzardo vincente di Repubblica, la poderosa catena dei giornali locali, in altre parole l’irruzione sulla scena di un modo diverso di fare giornalismo che influenzerà a lungo l’intero mondo dell’informazione.
Dunque, una mattina di primavera del 1955 due giovani uomini arrivano a Ivrea, negli uffici dalle grandi vetrate della Olivetti, per incontrare Adriano, patron dell’azienda che porta il nome di famiglia, imprenditore illuminato, l’animatore del Movimento di Comunità pensato e fondato nell’assoluta convinzione che far convivere sviluppo industriale e diritti dei lavoratori e studiare un’organizzazione del lavoro più umana avrebbe reso la fabbrica più efficiente e la società più democratica.
Uno dei due ospiti è Arrigo Benedetti, ha 45 anni, viene dalla brillante scuola giornalistica di Omnibus e di Leo Longanesi e ha già fondato e diretto due settimanali di successo, Oggi e L’Europeo. L’altro è Eugenio Scalfari, di anni ne ha 31, ha da poco sposato Simonetta De Benedetti - figlia di Giulio, il geniale e spietato direttore della Stampa di Torino - ed è un ex funzionario di banca che ora scrive per Il Mondo di Mario Pannunzio articoli puntuali sui potentati dell’economia che per vivacità e autonomia di giudizio hanno colpito il patron della Banca Commerciale, il mitico Raffaele
Nell’altra pagina: Scalfari nella sua casa di Velletri e nel suo studio-biblioteca. Sotto: nel 2013 al Quirinale con il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. A destra: con Ezio Mauro, il suo successore alla direzione di Repubblica
Mattioli. Anzi, è proprio Mattioli a spingerli a coinvolgere Olivetti nel progetto.
I due amici sognano un nuovo giornale, un quotidiano totalmente diverso dagli altri perché immaginato come un settimanale che esca tutti i giorni, e che nel quotidiano porti dunque le peculiarità del settimanale. Tre i principali campi d’indagine: politica, cultura, economia (parole che ancora oggi spiccano sotto la testata de L’Espresso); grafica accattivante; massima attenzione alla scrittura; inchieste, approfondimenti, punti di vista originali: in nuce c’è già “la Repubblica”, no? A Olivetti viene spiegato il progetto, e gli piace assai; anche presentato un preciso, dettagliato piano industriale, costi e ricavi, che però gli appare subito troppo impegnativo per lui. Troppo costoso. Si offre allora di contribuire all’impresa, di acquisire una partecipazione minore, ma suggerisce di rivolgersi a qualcuno con le spalle più robuste, la Fiat di Vittorio Valletta o l’Eni di Enrico Mattei.
Per tante ragioni, i due scelgono Mattei. Che li riceve subito, s’invaghisce del progetto e senza por tempo in mezzo si propone come azionista di maggioranza della nuova creatura. Era fatta, finalmente si poteva partire. Benedetti e Scalfari, felici, tornano con la buona notizia da Olivetti che invece li gela: l’idea di entrare in società con l’Eni non lo convince affatto, troppa sproporzione tra i due azionisti, bolla la possibile alleanza come «un pasticcio di allodola e cavallo». Ed è a questo punto che anche Benedetti e Scalfari cominciano a temere che il “cavallo”, l’Eni, la potente Eni dell’attivissimo Mattei possa diventare per loro troppo ingombrante, predominante, e finire per condizionare idee e progetti. E si accordano con Olivetti per il settimanale.
Pochi mesi dopo Mattei manderà in edicola “Il Giorno”, un quotidiano molto simile per formato e impostazione a quello che gli era stato raccontato. Ci vorranno invece vent’anni perché quel primo progetto spiegato a Olivetti e Mattei prenda finalmente corpo e Scalfari fondi la “Repubblica” (che non a caso ingaggerà subito molte firme del “Giorno”, a cominciare da Giorgio Bocca), ma in fondo tutto era già scritto. Ed è per questo che le scommesse de “L’Espresso”, di “Repubblica” e perfino della catena di giornali locali costruita con passione e pazienza da Carlo Caracciolo, vanno lette l’una pensando anche alle altre. Perché appartengono alla stessa storia, nascono dalle stesse radici.
Che giornale è da subito “L’Espresso”? È un settimanale politicamente e culturalmente libero, alquanto libertino nel costume, che fa dell’irriverenza verso il potere il suo tratto distintivo. Adotta lo splendido formato “lenzuolo” che consente una titolazione robusta e un uso spregiudicato delle fotografie: tagliate e a volte talmente ingrandite da sgranarle. La scansione segue proprio l’ordine politica-cultura-economia. La cura della scrittura è ossessiva: Benedetti, il direttore che sogna di firmare grandi romanzi, sostiene di pubblicarne uno che va in edicola ogni settimana. E infatti assolda scrittori (Cancogni, Moravia, Eco, Sciascia, Arbasino…) e li usa come giornalisti, o pretende che questi si trasformino in quelli. Mitiche le sue sfuriate, gli articoli appallottolati e gettati nel cestino e poi implacabilmente fatti riscrivere e riscrivere ancora.
Sotto: ancora nel giardino della casa di campagna di Velletri. Al centro: con Roberto Benigni. A destra: Eugenio Scalfari e Carlo Caracciolo, i due protagonisti della storia del Gruppo Espresso, nel 2005
All’inizio, su tutto faceva premio proprio l’intransigenza stilistica e laica di Benedetti, detto il Tonno per via di un corpo tozzo e rotondo poggiato su due piedini, intorno al quale si forma un gruppo di intellettuali determinati a denunciare la corruzione, la mala amministrazione, l’intreccio perverso tra politica e affari: «Missionari laici in un’Italia cattolica, arruffona, pasticciona», riassumerà più tardi Caracciolo. Tutti ricordano e citano a mo’ di marchio di fabbrica le inchieste di Cancogni contro il sacco di Roma (“Capitale corrotta=Nazione infetta”), ma poi seguiranno negli anni gli scandali della Federconsorzi, delle banane, quello dei tabacchi, dell’aeroporto di Fiumicino, l’inchiesta sulla miseria nel Mezzogiorno, il “tintinnar di sciabole” del Piano Solo approntato da carabinieri e Sifar…
Scalfari s’è ritagliato il ruolo di direttore amministrativo, ma scrive articoli d’economia con una chiarezza, un’indipendenza e una competenza fino ad allora poco praticate sui giornali. Conversa con Guido Carli, governatore della Banca d’Italia, e ne traduce il pensiero in articoli firmati con lo pseudonimo di Bancor. Denunciando le insane commistioni di politica e affari, comincia ad attaccare quella “razza padrona” di boiardi di Stato - il cui campione è Eugenio Cefis che innerverà molte campagne de L’Espresso e poi di Repubblica e che negli anni Settanta diventerà un best seller scritto a quattro mani con Peppino Turani.
Anno dopo anno il peso di Scalfari diventerà via via maggiore e L’Espresso si caratterizzerà per praticare un giornalismo lontano dal mito anglosassone dei fatti separati dalle opinioni caro a Lamberto Sechi che su questa pietra fonderà nel 1962 a Milano il mondadoriano Panorama, aspro concorrente del settimanale di via Po, e primo ad adottare il formato e la filosofia dei news magazine americani come Time al quali esplicitamente si ispira.
No, piuttosto della tradizione anglosassone Scalfari ha adottato il principio del giornalismo come cane di guardia del potere e per questo ha sempre interpretato e praticato un’informazione orgogliosamente e dichiaratamente di parte, nel senso di criticare, prendere posizione, dichiarare i propri bersagli. Insomma, un giornale con il gusto della provocazione, protagonista del dibattito politico e culturale, che ha l’orgoglio delle sue idee e il coraggio di difenderle. Diceva Caracciolo: «Un giornale cosi non può che essere, sia pure in forme non ossessive né ringhiose, un giornale contro».
Anche il campo scelto è esplicito fin dagli esordi: in senso lato è quello liberal democratico, riformista, post azionista, alquanto radicaleggiante (contiguo all’inizio alla pattuglia del Partito radicale) che guarda a sinistra e si identifica soprattutto con Ugo La Malfa. Quando nel 1967 Benedetti lascia perché in disaccordo con la linea assunta dal giornale allo scoppiare della Guerra dei Sei Giorni, Scalfari, direttore dal 1963, scrive: «Noi il nostro campo l’abbiamo scelto da molto tempo e una volta per tutte: siamo contro tutte le dittature di qualsiasi colore, sovietiche, greche, spagnole o nasseriane che siano; siamo contro la violenza e l’incitamento alla violenza da qualunque parte provenga… Siamo, dovunque, con le colombe e contro i falchi, anche se è vero che talvolta, per
sopravvivere, le colombe debbono mettere becco e artigli. Per difendersi. Mai per aggredire».
La dichiarata partigianeria di Scalfari, la sua scarsa fede in una obiettività dell’informazione troppo spesso solo formale - formidabili gli scontri in materia con Indro Montanelli, l’altro grande protagonista del secolo di carta - varrà prima a L’Espresso e poi soprattutto alla Repubblica, fin dal suo debutto nel gennaio 1976, l’acida definizione di giornale-partito. Che in realtà non dispiaceva più di tanto al Fondatore che piuttosto la leggeva come il riconoscimento della missione politica e civile che i suoi giornali s’erano dati, quella di rendere l’Italia più moderna e democratica. Da una parte combattendo contro il verminaio del malaffare, della corruzione, della cattiva amministrazione, dell’omertà, dell’egoismo corporativo e di lobby che ha inquinato così tante volte la vita politica e civile; dall’altra, presuntuosamente spingendo per modernizzare e cambiare la sinistra italiana, a cominciare dal Pci, perché assomigliasse sempre più a quella dei grandi paesi democratici europei.
I “missionari” s’accingono dunque all’impresa più grande, la nascita di Repubblica, avendo ben chiaro in testa quel mandato. La redazione stessa viene costruita pescando in un campo largo (da Paese Sera al Giorno all’Unità); la pagina dei commenti è una tribuna aperta a opinionisti anche difformi (per i suoi interventi Alberto Ronchey pretenderà la testatina “Diverso parere”); la scansione delle pagine segue la miscela già sperimentata: politica, cultura, economia. Tutto sotto il controllo personale e diretto di Scalfari. Mitica la quotidiana riunione di redazione, detta “la messa cantata”, le telefonate con i potenti del momento mandate in viva voce via interfono perché tutti i giornalisti ascoltassero, cogliessero i toni da adottare in circostanze simili, seguissero l’esempio, comprendessero chi teneva la barra del timone. Una volta, come raccontano Antonio Gnoli e Francesco Merlo in “Grand Hotel Scalfari. Confessioni libertine su un secolo di carta”, il libro-intervista del 2019, il direttore porta in riunione il nastro della sfuriata di Arturo Toscanini ai suoi orchestrali perché tutti si diano una regolata. Se lo poteva permettere, perché gli veniva riconosciuto un carisma di cui lui stesso era conscio e del quale si beava da sempre. Lasciamo ancora la parola a Carlo Caracciolo, l’editore e amico: «Una volta sentii dire di lui: “Porta la testa come il Santissimo”». Appunto.
Insomma quella “certa idea dell’Italia”, citazione gobettiana orgogliosamente rivendicata e adattata alla bisogna, ha sempre scandito la lunga stagione di Scalfari e dei suoi giornali. Discendeva dai valori e dall’esperienza del Partito d’Azione ma, chiusa quella stagione lontana, essa è rimasta sempre viva nello sforzo quotidiano di migliorare e cambiare un Paese diviso, incerto, frenato dai suoi stessi limiti culturali e istituzionali. Il “secolo di carta” lungo il quale si è sviluppato il sogno di un’informazione più moderna, libera e democratica, si va chiudendo. Ma ora che Scalfari non c’è più quell’impegno resta nel dna delle sue creature. Se non altro perché il Paese non è ancora quello che i “missionari laici” sognavano. Q