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Editoriale Verona Èuropa
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Mandato d’arresto internazionale per Putin: quali scenari?
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Rubrica Erasmus: A Ratisbona (Germania)
Stampato da
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L’impatto della guerra russo-ucraina nel vicinato e non solo
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Accesso all’energia: un diritto fondamentale?
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Due chiacchiere con Amnesty Verona
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Attività di sezione: cosa abbiamo combinato negli ultimi mesi
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Rivista del gruppo studentesco
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GFE - Giovani Federalisti Europei Con il contributo dell’Università degli studi di Verona. Responsabile del gruppo studentesco: Maddalena Marchi. Direttore: Tommaso Cipriani. Co-direttore: Andrea Zanolli. Collaboratori: Gianluca Bonato, Giacomo Brunelli, Carlo Buffatti, Tommaso Cipriani, Martina Dal Dosso, Lea Dietzel, Gabriele Faccio, Alice Ferrari, Alberto Gasparato, Maddalena Marchi, Jonis Reale, Laura Spazzini, Andrea Stabile, Sofia Viviani, Andrea Zanolli, Maria Tereza Zupcu. Redazione: Via Poloni, 9 - 37122 Verona • Tel./Fax 045 8032194 • www.mfe.it • gfe.verona@gmail.com • Progetto grafico: Bruno Marchese
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Editoriale Verona Èuropa
• Tempo di lettura: 4 minuti
Che cos’è una Verona europea? Una città può essere più o meno europea? Al giorno d’oggi, nel contesto della globalizzazione e della rete internazionale di scambi e di comunicazioni, per ogni città europea si pone la scelta sul modello di città a cui si vuole ambire. Evidentemente questa scelta spetta anche a Verona, che in questo mese di maggio, grazie soprattutto allo sforzo dell’Amministrazione comunale, festeggerà la Festa dell’Europa. È chiaro che già scegliere di riunire enti e associazioni per proporre a tutta la cittadinanza un mese con decine di eventi sui più svariati temi europei rappresenta una scelta ben precisa delle priorità che una città si pone.
Questa scelta e la domanda sulla Verona europea si legano inestricabilmente con un’altra domanda: è possibile coniugare l’identità cittadina – vicina, evidente, tradizionale e quotidiana – con l’identità europea – lontana, nascosta e ideale?
Le risposte a queste due domande si intrecciano e dipendono strettamente l’una dall’altra. Senza un’identità e un sentire comune e diffuso, sarebbero inutili i tentativi di costruire una città di sguardo e stampo europeo. Allo stesso tempo, se l’identità locale vive anche dell’identità europea, il terreno per costruire una città europea sarà decisamente più fertile.
Ed è dall’aspetto dell’identità che si deve partire. Noi giovani federalisti europei viviamo contemporaneamente nella territorialità della sezione locale e nel respiro europeo di interessi, esperienze, viaggi e sogni. E fondiamo la nostra appartenenza su questo doppio livello. Così, ci sentiamo allo stesso tempo veronesi ed europei. E, magari, anche veneti e italiani. Noi la chiamiamo identità multilivello, nel senso che non troviamo conflitti fra le varie identità di cui ci sentiamo portatori e che sentiamo ugualmente parte di noi. Chi vive in Europa oggi, infatti, è pervaso da più livelli istituzionali e identitari: dal Comune e il paese di origine, fino al livello europeo, passando per regioni e stati nazionali. E questo contesto è meraviglioso: se si compie quel salto mentale che scardina l’idea dell’identità rigida e monolitica, si entra in un contesto culturale in cui le differenze si possono accostare senza passare dal conflitto; e in cui varie identità possono sommarsi e accumularsi senza annullarsi o limitarsi reciprocamente. Chi si sente veronese, allora, può sentirsi anche veneto, italiano ed europeo, perché fra i vari livelli non ci sono contrasti, ma ricchezza.
Una comunità cittadina che condivide questa visione può allora aprirsi a un orizzonte europeo. E qui entra in gioco il secondo aspetto di una città europea, quello dello stampo europeo che la città può darsi. Innanzitutto, i valori su cui si è fondata l’Europa dopo la Seconda guerra mondiale possono essere promossi anche a livello cittadino. Spesso si sente parlare di città aperta, in contrapposizione alla città chiusa. Ma la città aperta altro non è che una città che sceglie i valori che le società europee hanno posto al centro delle proprie Costituzioni a metà Novecento. In altre parole, quei valori che sono quanto di più condiviso fra i cittadini di tutti gli Stati (e le città) europee: la pace, la solidarietà, la dignità umana, l’uguaglianza e la libertà.
In seconda battuta, una città di stampo europeo è una città aperta agli esempi e alle contaminazioni delle esperienze internazionali. È una città che quando sceglie alza lo sguardo e cerca esempi positivi anche al di là delle Alpi. È una città che cerca le occasioni di finanziamento e che sa farsi trovare pronta per le opportunità di progetti e fondi a cui accedere. È una città che sa attrarre gli investimenti internazionali per creare lavoro e per dare più motivi ai propri giovani per restare. È una città che sa accogliere chi arriva da fuori, che costruisce un polo universitario internazionale e che offre opportunità agli studenti che la scelgono. È una città, infine, che mira a costruire collegamenti e vie di comunicazione con i poli strategici europei: e quale città meglio di Verona può approfittare della propria posizione geografica?
Aprirsi al livello europeo, dunque, non significa solamente perseguire ideali e valori che, per alcuni, non intaccano realmente la vita quotidiana dei cittadini (anche se, a questi, andrebbe risposto che libertà, uguaglianza e pace intaccano la vita delle persone molto più di una strada asfaltata). Aprirsi al livello europeo significa anche miglioramento della città nei suoi aspetti più concreti.
In conclusione, una Verona europea non è una Verona che deve estraniarsi dalla sua identità o dal contesto italiano, ma al contrario è una Verona che apre i propri orizzonti e che si affaccia, arricchendo le proprie peculiarità, sul vasto mare delle opportunità europee. È una questione di orizzonte e di stampo. È una città che non insegna ai propri giovani che tutto il mondo è racchiuso nelle mura cittadine, ma che sprona ad amare il proprio territorio e contemporaneamente a contaminarsi con quel che c’è fuori. È una città i cui cittadini possano definirsi veronesi e anche europei.
La Festa dell'Europa: perché il 9 maggio?
• Tempo di lettura: 5 minuti
«LEuropa non è stata fatta: abbiamo avuto la guerra». Sono queste le tragiche parole che a Parigi il ministro degli Esteri francese Robert Schuman pronunciava nella sua celebre Dichiarazione. Era il 9 maggio 1950, la guerra era finalmente terminata, ma dell’Europa non restavano che le macerie. Decine di milioni di persone avevano perso la propria vita nel Secondo conflitto mondiale. Gli orrori causati dalla follia del nazionalismo e dei regimi totalitari erano ben evidenti nella consapevolezza collettiva. Grandi città erano state rase al suolo dai bombarda-
menti e la fisionomia del continente era stata modificata in modo indelebile. Ogni cittadino europeo aveva provato sulla propria pelle la povertà e la fame.
In Europa la guerra c’era sempre stata: l’odio nei confronti del Paese vicino era la norma. I confini, gli interessi economici, la volontà di essere più potenti dell’altro, di esserne superiori: questo aveva causato l’enorme tragedia. Il continente non conosceva la pace: i brevi periodi di tempo in cui non si impugnavano le armi erano più simili a delle tregue che a delle risoluzioni pacifiche definitive. Ci si preparava sempre al conflitto successivo, con una smania di rivalsa e vendetta che non lasciava spazio alla costruzione di un futuro
comune. Questo fu bene evidente, ad esempio, al termine del Primo conflitto mondiale, con il Trattato di “pace” di Versailles, che di pacifico aveva ben poco. La Germania sconfitta andava punita, umiliata: i tedeschi non imbracciavano più le armi, ma restavano dei nemici. Con questa logica si ponevano le basi per il delirio autoritario e per il nuovo conflitto.
Questo non sarebbe più dovuto accadere; la guerra era un incubo che non doveva ripetersi. È con questa convinzione che i Paesi europei si mossero nel secondo dopoguerra. Bisognava ricostruire un intero continente; l’economia e i commerci dovevano riavviarsi. Era quindi necessaria una maggiore integrazione tra gli Stati europei. Nell’immediato dopoguerra, in tutta Europa, vi fu un pullulare di movimenti europeisti e federalisti, con l’appoggio di vari capi politici. Lo stesso Winston Churchill, protagonista della vittoria, sosteneva che si dovesse «ricostruire la famiglia europea per creare gli Stati Uniti d’Europa». Si iniziava ad affermare il sogno, già teorizzato nel celebre Manifesto di Ventotene del 1941, di un’Europa maggiormente integrata, di un’Europa unita.
Un ruolo determinante in tal senso fu giocato dagli Stati Uniti d’America, che con lo spauracchio che l’Europa potesse cadere sotto l’influenza sovietica, e con la necessità di un partner commerciale che assorbisse le esportazioni americane, promossero la cooperazione internazionale, intervenendo con un piano di aiuti per l’Europa. Lo European Recovery Program, meglio conosciuto come Piano Marshall, annunciato nel giugno 1947, imponeva che Stati europei collaborassero per ottenere i fondi con cui far ripartire l’economia. Si trattava di un primo passo per l’integrazione europea. L’anno dopo nacque l’Organizzazione Europea di Cooperazione Economica, un primo fondamentale luogo di incontro per i paesi europei. Da qui in poi vi furono una serie di tentativi di integrazione, un dialogo continuo che portò alla formulazione di vari negoziati e di proposte.
Era in questo contesto che Schuman tenne la sua Dichiarazione. Il testo del suo discorso fece storia, perché affermava con decisione la necessità di un’Europa organizzata come presupposto per una pace mondiale. Il ministro francese proponeva un qualcosa senza precedenti: la messa in comune della produzione franco-tedesca di carbone e acciaio «all’interno di un’organizzazione aperta agli altri Paesi europei e sotto la supervisione di un’Alta autorità, le cui decisioni avrebbero vincolato gli Stati membri». Questo non solo avrebbe messo fine alla disputa storica tra Francia e Germania sulle aree carbonifere al confine tra i due Paesi, come il bacino della Ruhr, ma rendeva materialmente impossibile una guerra futura tra Francia e Germania; inoltre, stabiliva delle basi comuni per lo sviluppo economico e alla ricostruzione. Ciò che però rende unico e fondamentale questo discorso è la proposta di istituire un’Alta Autorità con decisioni vincolanti per gli Stati aderen-
ti. Si trattava, per la prima volta nella storia europea, della creazione di un organo sovranazionale, composto da «personalità indipendenti designate su base paritaria dai governi», a cui i singoli paesi dovevano sottostare. Nelle intenzioni di Schuman l’Alta Autorità avrebbe dovuto costituire «il primo nucleo concreto di una Federazione europea indispensabile al mantenimento della pace».
L’esito di questo discorso fu la firma nell’anno successivo, più precisamente il 18 aprile 1951, del Trattato di Parigi, con il quale si istituiva la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA). Essa segnava la prima tappa del processo di integrazione e andava a creare una nuova entità politica: l’Europa.
È interessante notare come a recepire questo discorso vi fossero una serie di personalità che, come chi lo recitava, condividevano il sogno di un’Europa unita, in una congiunzione straordinaria di intenti, che diede l’avvio al processo di integrazione. In Francia c’era Robert Schuman, in Germania Konrad Adenauer, in Italia Alcide De Gasperi: i padri fondatori dell’Europa. Loro tre, insieme a molti altri, credevano e volevano fermamente un’Europa federale: il processo di integrazione europea nacque con questa ferma volontà.
L’importanza della Dichiarazione Schuman sta in questo: al suo interno non troviamo una semplice proposta di integrazione, ma una promessa. La promessa di un’Europa di pace dopo secoli di guerre, di un’Europa unita in uno Stato Federale. Per questo la Festa dell’Europa si celebra ogni 9 maggio
Chissà cosa penserebbe Schuman dell’Europa di oggi. Di traguardi dal 1950, in questo del tutto singolare processo fatto di passi indietro ed enormi balzi avanti, ne sono stati raggiunti tanti: dai sei Paesi firmatari della CECA siamo diventati 27. Da nemici che eravamo, siamo divenuti Comunità Economica prima, e Unione Europea poi. L’Europa è oggi il più grande mercato integrato al mondo: abbiamo libertà di circolazione, per persone, beni, servizi e capitali. Abbiamo una Banca Centrale Europea che governa la politica monetaria; una moneta unica, l’Euro, in ben venti paesi. Abbiamo delle istituzioni comuni: la Commissione, il Consiglio e il Parlamento Europeo. Siamo cittadini europei, con tutte le tutele che ne derivano: abbiamo una Carta fondamentale dei diritti dell’Unione Europea.
E nonostante questo no, l’Europa non è stata fatta, o almeno non quella che i padri fondatori auspicavano. C’è ancora molto da fare per concludere il processo di integrazione e divenire una federazione con una politica estera unica e una politica fiscale comune; una federazione con un Parlamento dotato di maggiori poteri, in cui le logiche di forza dei singoli Stati vengano meno.
Festeggiamo il 9 maggio per essere consapevoli di com’era l’Europa prima della Dichiarazione Schuman, ma anche per ricordarci di portare a termine la promessa contenuta al suo interno.
Mandato d’arresto internazionale per Putin: quali scenari?
• Tempo di lettura: 7 minuti
Venerdì 17 marzo 2023 la Corte Penale Internazionale (CPI) ha emesso un mandato d’arresto nei confronti del Presidente russo Vladimir Putin con l’accusa di deportazione e trasferimento illegale di minori dalle aree occupate dell’Ucraina alla Federazione Russa, crimini di guerra che sarebbero stati commessi in territorio ucraino almeno dal 24 febbraio 2022. I giudici hanno chiesto inoltre l’arresto per la Commissaria russa ai Diritti dei Bambini Lvova-Belova, per accuse simili. Organizzazioni come Human Rights Watch stanno conducendo indagini sulla vicenda. I rapporti mostrano che i minori sono stati prelevati da orfanotrofi e case di accoglienza e dati in adozione a fa-
miglie russe, come parte di una politica volta a distruggere l’identità ucraina. La Russia si difende parlando di un progetto umanitario per gli orfani traumatizzati dalla guerra, ma ci sono prove che suggeriscono come molti bambini non siano orfani, rendendo sempre più evidente come si tratti di una strategia propagandista russa per presentare il Paese come un salvatore caritatevole.
Approfondiamo tale inchiesta con Maria Caterina Baruffi, Professore ordinario di Diritto internazionale all’Università di Bergamo.
L’idea alla base della CPI, condivisa dall’Assemblea Generale ONU, che nel 1998 ha adottato il trattato istitutivo (Statuto di Roma), è quella di un tribunale permanente per perseguire i responsabili dei crimini più gravi
del diritto internazionale (genocidio, crimini contro l’umanità, di guerra e di aggressione). Gli Stati che oggi aderiscono alla Corte costituiscono i due terzi dell’intera comunità internazionale; tra marzo e aprile 2022, la situazione in Ucraina è stata oggetto di deferimento alla Corte da parte di 43 Stati, dando così avvio all’indagine. Più di un terzo degli Stati parte hanno quindi riconosciuto la sua competenza al riguardo.
Perché allora la CPI è un organo lontano dall’essere globalmente riconosciuto?
«Se è vero che sono 123 gli Stati che hanno sottoscritto lo Statuto della CPI e che riconoscono la sua giurisdizione e la vincolatività delle sue decisioni, lo è altrettanto che tra essi non figurano Paesi importanti come Stati Uniti, Cina, i grandi assenti, unitamente alla Federazione Russa che ha ritirato la firma nel 2016, nonché India e Israele. Non c’è neppure l’Ucraina. Nonostante la mancanza della ratifica dello Statuto da parte di uno Stato, la CPI diviene comunque competente qualora tale Stato abbia dichiarato di accettarne la giurisdizione per i crimini che siano stati commessi sul suo territorio. Così è avvenuto per l’Ucraina con dichiarazioni ad hoc nel 2014 e 2015. È ancora elevato il numero degli Stati non soggetti alla giurisdizione della CPI e, soprattutto, alla Corte manca il sostegno “politico” dei Paesi grandi che non avallano l’idea di una giustizia globale. Non va dimenticato che la CPI intende integrare, e non sostituire, i sistemi penali nazionali e persegue i casi solo quando gli Stati non sono disposti o non sono capaci di farlo. Inoltre, essa non ha un sistema automatico di esecuzione dei suoi mandati, che vengono diramati a tutte le polizie del mondo, anche dunque di Paesi non aderenti, tramite l’In-
terpol. Per l’esecuzione delle sue decisioni deve affidarsi agli Stati aderenti, i quali non sempre hanno adempiuto il loro obbligo di assistenza. Rimangono comunque aperte due questioni. La prima: bisogna vedere se si giunge o meno ad una condanna; la seconda: l’eventuale condanna va fatta valere, ma la sua esecuzione non è scontata perché richiede la cooperazione degli Stati».
In altri termini, qualora Putin si trovasse in uno Stato firmatario, potrebbe sì essere arrestato, ma se tale Stato non adempisse ai suoi obblighi, potrebbe rientrare indisturbato in Russia. La decisione della CPI segna comunque una svolta, poiché si tratta di un mandato d’arresto di un Capo di Stato ancora in carica e membro permanente del Consiglio di Sicurezza ONU (CdS), la cui attuale presidenza potrebbe essere pregiudicata da tale incriminazione.
Potrebbe invece Putin godere dell’immunità diplomatica?
«Seppur con qualche tentennamento nella giurisprudenza, le immunità diplomatiche vengono generalmente estese anche ai Capi di Stato finché dura la loro funzione. L’immunità dalla giurisdizione riguarda qualsiasi atto e quindi anche i crimini internazionali, nonostante lo Statuto CPI non riconosca la possibilità di eccepire l’immunità da parte dell’indagato. I precedenti della CPI negli oltre vent’anni di attività non sono incoraggianti, essendo state adottate pochissime decisioni nei confronti di Capi di Stato quali Gheddafi e Al Bashir, Presidente del Sudan (Paese non firmatario), senza peraltro che il mandato emesso nei confronti di quest’ultimo venisse eseguito dal Sudafrica, Paese (firmatario) in cui questi si era recato e dove l’allora Presidente Zuma, rifiutandosi di rispettare gli impegni assunti, gli aveva riconosciuto l’immunità».
In agosto è in programma il quindicesimo Summit Brics (le principali economie emergenti: Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) e Putin dovrebbe parteciparvi. Quale potrebbe essere lo scenario?
«In effetti potrebbe ripetersi quanto accaduto con Al Bashir in Sudafrica: in occasione della visita di Putin in tale Paese, questo potrebbe decidere di riconoscergli l’immunità, vanificando così il mandato di arresto. Al momento, non si hanno però indicazioni su quale potrebbe essere il comportamento del Sudafrica sotto la presidenza di Ramaphosa. Nell’ipotesi, difficile da immaginare, che venisse data esecuzione al mandato, Putin dovrebbe essere consegnato alla CPI. In caso invece di contumacia, la CPI potrebbe sospendere il procedimento per un anno, rinnovabile solo dal CdS».
Spetta quindi agli Stati attivarsi. In tal senso potrebbero comportarsi i Paesi dell’Unione, visto il suo ruolo significativo in sede di negoziazione dello Statuto di Roma e la conclusione dell’Accordo di Cooperazione e Assistenza con la CPI nel 2006.
Quali azioni UE rilevano in questa vicenda?
«L’Unione, che pur non ha le competenze per intervenire in crisi di politica estera e di difesa di questo genere, ha manifestato la volontà di avere un ruolo attivo sin dall’inizio. L’Alto Rappresentante UE ha considerato il mandato una “importante decisione della giustizia internazionale”. Il Consiglio europeo, lo scorso marzo, ha confermato la necessità di agire perché i responsabili siano chiamati a rispondere delle proprie azioni in conformità del diritto internazionale. In occasione del vertice UE-Ucraina a febbraio 2023, è stato creato un Centro internazionale per il perseguimento del crimine di aggressione nei confronti dell’Ucraina (ICPA), al fine di coordinare le indagini, preservare e archiviare le prove per i futuri processi. La Commissione europea nel novembre 2022, appoggiata poi dal Parlamento europeo, ha promosso la costituzione di un tribunale speciale per l’Ucraina, sull’esempio di quello per la ex-Jugoslavia. La proposta, tuttavia, non pare al momento percorribile per le difficoltà nella raccolta del necessario consenso in seno al CdS per il sicuro veto russo e per il rischio che la sua istituzione sia vista come l’ennesima espressione
della volontà di taluni Stati e non già come parte organica del progetto di giustizia penale internazionale che, avviato ormai 25 anni fa, ruotava attorno, appunto, alla CPI con carattere permanente».
Il rischio di non trovare una visione unanime tra i leader degli Stati emerge anche dalla dichiarazione dell’Ungheria che ha affermato che Putin non sarà arrestato nel caso in cui mettesse piede sul suo territorio.
L’UE potrebbe intervenire nei confronti dell’Ungheria?
«Il fatto che l’Ungheria non darebbe seguito al mandato di arresto è stato giustificato con la mancata promulgazione del trattato istitutivo della CPI perché “contrario alla Costituzione”. Secondo tuttavia la CPI, avendo l’Ungheria ratificato il trattato nel 2001, essa ha l’obbligo di cooperare con la Corte. Quanto all’Accordo tra UE e CPI, esso vincola l’Unione in quanto tale, ma non i singoli Stati membri. Ciò non esclude però che l’UE possa richiedere il rispetto dei principi dello Stato di diritto e dei diritti umani che sono alla base sia di detto Accordo sia del trattato UE. Si potrebbe perciò ipotizzare, nel caso di mancato rispetto degli obblighi assunti nei confronti della CPI, l’avvio di una procedura di infrazione da parte della Commissione per la violazione dei principi fondamentali dell’UE. I tempi e gli esiti di tale procedura sarebbero comunque incerti e soprattutto non vi è allo stato alcuno strumento azionabile dall’UE per costringere l’Ungheria a dare esecuzione al mandato di arresto della CPI, essendo necessaria la collaborazione dello Stato interessato. Di certo, l’Ungheria non mostra al momento alcuna volontà di collaborare, tanto che alla Conferenza dei Ministri della Giustizia di circa 40 Paesi riunitisi, lo scorso marzo, a Londra per manifestare concretamente il loro sostegno alla CPI, l’unica firma tra i 27 Paesi UE a mancare è stata proprio quella dell’Ungheria».
In conclusione, non ci resta che attendere l’evoluzione delle possibili reazioni. Pur prospettandosi delicati equilibri politico-diplomatici, che potrebbero vanificare del tutto l’azione della CPI, si auspica in ogni caso una convergenza tra i poteri sovrani nella conclusione del conflitto in nome della tutela dei diritti umani.
Rubrica Erasmus: A Ratisbona (Germania)
• Tempo di lettura: 3 minuti
Il desiderio di partire per l’Erasmus ce l’ho dai primi anni delle superiori, quando già avevo avuto la fortuna di trascorrere un periodo di studio all’estero, e di capire quanto l’apertura verso gli altri paesi e le altre culture fosse importante ed arricchente in un percorso di crescita personale. Per questo motivo l’anno scorso, quando avevo appena iniziato il corso di Studi Internazionali a Trento, non ho esitato un secondo a presentare la candidatura appena è uscito il bando Erasmus: normalmente si fa domanda durante il secondo anno per partire il terzo, ma nulla vieta di farlo prima, ed io ero talmente convinta di voler fare quest’esperienza che ho deciso di provare subito.
Ho scelto di andare in Germania non perché sapessi il tedesco o avessi qualche obiettivo particolare, ma perché è un paese così vicino all’Italia eppure così diverso, un paese con cui ci mettiamo sempre a confronto, e che non ho mai avuto l’occasione di conoscere da vicino. Anche in ottica dei miei studi europei, ho pensato che vivere e conoscere la Germania, paese che gioca un ruolo centrale nelle dinamiche economiche, politiche e istituzionali dell’UE, significava guadagnare un’ulteriore punto di vista sull’Europa, sulle sue dimensioni e le sue potenzialità. E così è stato.
La scelta di Regensburg (o Ratisbona) è stata poi dettata da motivazioni di carattere accademico, dal momento che l’offerta dei corsi in inglese era molto vasta e in linea con i miei interessi.
Il 6 settembre 2022 sono partita alla volta di Monaco di Baviera, dove ho fatto una sosta prima di raggiungere la mia destinazione. Nonostante i primi giorni abbiano messo alla prova il mio spirito di adattamento, tra un po’ di solitudine data dal fatto che ero arrivata tra i primi e qualche ostacolo burocratico, Regensburg mi ha accolta da subito benissimo: è una città a misura di studente, vivace e dinamica, con un centro storico patrimonio UNESCO. Non è troppo grande, il che mi ha permesso di ambientarmi facilmente e immergermi da subito nella cultura locale. Infatti, il primo weekend di settembre si era tenuto in città il Dult, una sorta di Okotoberfest locale, esperienza bellissima che mi ha permesso di respirare dal primo giorno aria tedesca, o meglio bavarese.
L’università di Ratisbona è organizzata benissimo, e io ho apprezzato moltissimo sia l’offerta accademica sia la qualità delle strutture: si tratta di un campus enorme,
appena fuori dal centro, che offre tantissimi dipartimenti, sale studio e biblioteche all’avanguardia in ogni edificio, diversi bar e caffetterie, un supermercato e due mense enormi e super efficienti, oltre che economiche. Devo dire che in Germania è posta molta attenzione ai servizi nei confronti degli studenti, e quasi dappertutto a loro sono riservati sconti e riduzioni: infatti non solo la mensa era molto conveniente, ma addirittura tutti i mezzi di trasporto pubblico della città e alcune aree della Baviera erano gratuiti per noi studenti.
Per quanto riguarda le amicizie in Erasmus, non importa in che città ci si trovi, la comunità Erasmus c’è ovunque, e ovunque è una grande famiglia. Dal primo giorno si creano dei legami bellissimi, che superano nazionalità e barriere linguistiche: ciò che mi ha stupito quando ero via è stato vedere da parte di tutti gli studenti Erasmus, di ogni nazionalità, un sincero desiderio di aprirsi agli altri, conoscere il diverso, affrontare con spirito costruttivo e positivo situazioni che uscivano totalmente dalla propria zona di comfort.
L’Erasmus è infatti anche questo, e la condivisione di tutto ciò con altri studenti Erasmus quando sei all’estero rappresenta forse la parte più arricchente per ognuno, perché ti fa sentire parte di una grande comunità, di giovani europei e non solo, esistente da tante generazioni, che ha creduto in obiettivi, valori e atteggiamenti condivisi. Per questo il mio consiglio a chi parte per l’Erasmus è di partire senza aspettative, solo con la mente aperta e la curiosità di lasciarsi sorprendere.
L’impatto della guerra russo-ucraina nel vicinato e non solo
•Tempo di lettura: 6 minuti
Lo scenario geopolitico muta in continuazione, essendo il risultato di continui cambiamenti nei rapporti di potere tra gli Stati, la cui posizione all’interno dello scacchiere internazionale, ovvero la cui potenza o fragilità, è data da scelte politiche interne, ma anche da fattori esterni, internazionali. Per capire questo, basta osservare l’impatto che l’invasione russa dell’Ucraina ha e sta ancora avendo a livello globale, tra gli stati e all’interno degli stati stessi. In particolare, lo scoppio di una guerra la cui posizione geografica sembra voler indicare il netto confine tra il mondo occidentale liberal-democratico e quello ex-sovietico illiberale ha provocato prese di posizione ben visibili, seppur contrastanti, negli stati vicini. I casi della Moldavia e della Georgia sono eloquenti.
Una breve panoramica delle spaccature politiche interne in Georgia e in Moldavia
Innanzitutto, per avere maggiore chiarezza, è bene ricordare alcune caratteristiche che accomunano questi stati: entrambi i paesi sono stati repubbliche socialiste sovietiche e quindi ex membri dell’URSS, la cui dissoluzione ha portato alla loro dichiarazione di indipendenza e alla loro nascita come Repubbliche. Inoltre, entrambi gli stati hanno dovuto far fronte a condizioni economiche limitate e precarie e ad un insieme di valori democratici che non hanno avuto modo di maturare, essendo stati soffocati dal regime socialista.
I sentimenti politici presenti all’interno dei due paesi possono essere raffigurati come spaccati a metà. Da un lato, infatti, vi è la presenza di forze politiche che richiamano la necessità di mantenere forti i rapporti politico-economici con la Federazione Russa, già influente sulle azioni interne grazie ai suoi legami con i partiti socialisti dei rispettivi paesi. A titolo di esempio, basti pensare al supporto della Russia alle autoproclamate repubbliche di Abkhazia e Ossezia del Sud durante e dopo il conflitto contro la Georgia del 2008 o alle manifestazioni filo-russe organizzate dal partito populista e fortemente euroscettico Sor a Chisinau il mese scorso, risultato dell’influenza russa e della capacità di orchestrare manifestazioni, in cui della volontà del popolo moldavo c’è gran poco.
Dall’altro lato invece fa da contraltare la presenza di partiti e figure politiche che condividono valori democratici e che sono dichiaratamente europeisti, come il partito liberale moldavo Pas, sostenitore dell’attuale presidente della Repubblica, Maia Sandu, che fin dall’inizio della sua presidenza non ha esitato a rafforzare i rapporti con l’UE e altri stati occidentali, come gli USA, attori fondamentali nel fornire sostegno economico e nel contribuire alla sensibilizzazione e alla diffusione di valori democratici nel paese. In parallelo, la presidente georgiana Salome Zurabishvili, opponendosi alle forze filo-russe, ha manifestato preoccupazione a seguito dell’invasione russa, temendo che il prossimo stato invaso potrebbe essere, appunto, la Georgia.
Con uno sguardo all’attualità dei fatti, in particolare dopo lo stravolgimento degli equilibri di potere internazionali scaturiti dalle azioni russe e dalle reazioni ucraine sul proprio territorio, la presidenza di turno del Consiglio
dell’UE si è trovata di fronte a tre richieste di adesione all’Unione Europea, da parte di tre stati ad essa vicini: Ucraina, Moldavia e Georgia. Tra questi, a giugno 2022, Ucraina e Moldavia hanno anche ricevuto dal Consiglio Europeo lo status di candidato per l’ingresso nell’UE: questo insieme di azioni, circoscritte nel tempo e nello spazio, esprimono una presa di posizione chiara da parte dei tre stati, che, nonostante le spaccature interne a livello di sentimenti politici, sono propensi a voler condividere un futuro nell’Unione Europea e a voler dare un’impronta democratica al proprio sistema politico. La netta presa di posizione del popolo georgiano, in particolare, è riuscita a colpire il mondo occidentale: pur non essendo paragonabile alla resistenza ucraina militare e civile, possiamo trovare anche in Georgia una forma di resistenza anti-russa, risultato della volontà di opporsi a decisioni contrarie ai valori democratici
Dopo un anno esatto, infatti, il desiderio di appartenenza europea da parte del popolo georgiano si è potuto sentire e percepire anche a distanza, grazie alla determinazione che traspare dai volti di chi è sceso in piazza a Tbilisi a manifestare contro l’adozione in prima lettura da parte del Parlamento georgiano della legge sulla “trasparenza dell’influenza straniera”. Per capire brevemente di cosa si tratta basti ricordare che l’entrata in vigore di tale legge prevederebbe la registrazione di tutte le organizzazioni che ricevono più del 20 per cento dei loro finanziamenti dall’estero come “agente straniero” e influirebbe negativamente sulle libertà e sui diritti fondamentali del paese. Si tratta tra l’altro di una proposta di legge di influenza putiniana: la Russia infatti già dal 2022 ha ampliato l’utilizzo politico dell’etichetta ‘agente straniero’, utilizzata dal 2012 per colpire media indipendenti e Ong.
Come si è potuto notare dalla diffusione immediata della notizia e come testimoniato dalla potenza delle fotografie scattate in piazza a Tbilisi, l’approvazione parlamentare di questa legge ha suscitato un forte malcontento tra
i georgiani, le cui manifestazioni europeiste sono anche degenerate in decine di arresti, e hanno visto la polizia anti-sommossa usare i cannoni ad acqua contro i civili. Tra questi, Nana Malashkia, come immortalato dalla fotografia che ha fatto il giro del mondo rendendo la donna l’icona della protesta, con quel gesto di resistenza, mentre regge la bandiera dell’Unione respinta dal getto forte dell’acqua, mostra al mondo la presenza del forte sentimento di appartenenza dei georgiani ai valori comunitari. Lo stesso ha fatto la presidente Salome Zurabishvili con le sue parole, dichiarando l’intenzione di porre il veto sulla legge in questione.
Si può notare nuovamente come all’interno dello stesso paese forze contrapposte si oppongano, suscitando a loro volta reazioni esterne: è stata immediata, infatti, la risposta preoccupata da parte dell’UE nei confronti della possibile nuova legge in Georgia, che, secondo Joseph Borrell, alto rappresentante UE per gli affari esteri e la politica di sicurezza, rischia di avere un impatto negativo sulla società civile, nonché sulle relazioni del paese con l’Unione stessa. D’altro canto lo stesso presidente del consiglio dell’Unione europea, Charles Michel, ha mostrato il suo supporto nei confronti dei manifestanti georgiani, ribadendo come il diritto alla protesta pacifica sia un elemento chiave per la democrazia.
Per concludere, le tensioni geopolitiche non sono sconnesse dalle dinamiche interne agli stati, anch’essi caratterizzati da rapporti di forza endogeni, che, parallelamente ai fattori esterni ad essi, rendono complessi i tentativi di comprensione delle dinamiche internazionali. È buona prassi dunque avvalersi di lente di ingrandimento e senso critico per tentare di analizzare i fatti in un’ottica onnicomprensiva, che non tralascia né i processi interni e nemmeno quelli esterni. Così facendo, il qui ed ora diventa più comprensibile, fornendo più strumenti per poter costruire il tempo e lo spazio futuri, a cui tutti prendiamo attivamente parte.
Accesso all’energia: un diritto fondamentale?
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L’energia ha sempre avuto un ruolo cardine nelle dinamiche globali, ma si è guadagnata una posizione centrale nel dibattito mondiale soprattutto nell’ultimo anno con l’invasione russa in Ucraina.
Dall’accesso all’energia, nella sue varie declinazioni, dipende una buona fetta della quotidianità di ciascuno, perché ci consente di compiere le azioni anche più semplici come cucinare, lavarci, pulire; insomma, l’accesso all’energia pone le basi per poter condurre un’esistenza «conforme alla dignità umana» (come recita l’articolo 23 co.3 della Dichiarazione universale dei diritti umani); la connessione tra l’accesso all’energia e i diritti fondamentali però va oltre, perché avere un collegamento a fonti energetiche pulite, accessibili, sostenibili e rinnovabili, come si propone l’Obiettivo 7 dell’Agenda 2030 della Nazioni Unite, consente di garantire anche, tra gli altri, il diritto alla salute (art.25 DUDU) e valorizzare così il diritto alla vita (art.3 DUDU).
Il dibattito sulla questione è però più ampio, parte dalla battaglia degli attivisti per il riconoscimento dell’accesso all’energia come diritto fondamentale e sfocia nel ruolo centrale che l’energia ha effettivamente nel garantire il rispetto dei diritti umani. L’ultima sfida dell’SDG7 è quella di rendere l’accesso all’energia universale, ma questo aspetto non viene approfondito: ci ha pensato il dibattito accademico, che negli ultimi anni ha indagato la dimensione più strettamente sociale dell’accesso all’energia, non menzionata esplicitamente nell’Agenda 2030 ma senz’altro implicita nell’universalità di questo bisogno.
Complice l’approccio sempre più discusso all’energia come diritto umano fondamentale, l’attenzione degli ambienti accademici in primis ha aperto il dibattito sulla energy justice e, di conseguenza, sulla energy poverty
Gli studiosi hanno prodotto una ricerca vastissima soprattutto nell’ambito della giustizia energetica, un approccio che si propone di ricercare «un mondo in cui tutti gli individui abbiano accesso a sistemi di energia sicuri, economici e sostenibili che siano, essenzialmente, socialmente equi1». Analizzando sinergicamente gli obiettivi dell’Agenda nel suo complesso, non può che scaturire una auspicabile energy justice, poiché un mancato accesso a sistemi energetici sostenibili, economici e puliti non può che danneggiare (se non proprio violare) il rispetto dei diritti fondamentali, e, dunque, portare a ulteriori disuguaglianze nelle società.
Se sul piano internazionale delle Nazioni Unite l’aspetto sociale dell’accesso all’energia, e quindi della povertà energetica, non viene più di tanto riconosciuto e approfondito, sul piano regionale dell’Unione europea se ne trova invece un riferimento esplicito: nella Direttiva UE 2019/944 del Parlamento europeo e del Consiglio, al punto 59 viene riconosciuto che «I servizi energetici sono fondamentali per salvaguardare il benessere dei cittadini dell'Unione. Un'erogazione adeguata di calore, raffrescamento, illuminazione ed energia per alimentare gli appa-
recchi è essenziale per garantire un tenore di vita dignitoso e la salute dei cittadini. Inoltre, l'accesso a tali servizi energetici consente ai cittadini dell'Unione di sfruttarne appieno le potenzialità e migliora l'inclusione sociale».
È un riconoscimento molto importante per chi sostiene la necessità di sancire ufficialmente il diritto all’accesso all’energia, ma in generale anche perché viene affermata esplicitamente l’importanza di garantire i servizi energetici alle persone per poter condurre un’esistenza dignitosa. Vengono anche successivamente elencate alcune delle cause che possono concorrere alla povertà energetica: «basso reddito, spesa elevata per l'energia e scarsa efficienza energetica delle abitazioni».
La questione dell’efficienza energetica, ovvero l’ottimizzazione dei consumi energetici, è diventata sempre più centrale negli ultimi tempi, sia in relazione alla sempre minore reperibilità delle risorse sia rispetto all’insicurezza energetica legata alle tensioni geopolitiche più recenti con la Russia, esportatrice di gas e petrolio. Per ovviare a ciò, Parlamento europeo e Consiglio sanciscono, nella Direttiva, che «gli Stati membri dovrebbero garantire il necessario approvvigionamento per i consumatori vulnerabili e in condizioni di povertà energetica. A tal fine si potrebbe ricorrere a un approccio integrato, ad esempio nel quadro della politica sociale ed energetica, e le relative misure potrebbero comprendere politiche sociali o miglioramenti dell'efficienza energetica per le abitazioni».
A livello di Unione europea, soprattutto grazie alla spinta della Commissione, negli ultimi dieci anni sono state attuate varie misure di contrasto alla povertà energetica: oltre ai piani di azione dei singoli stati membri, l’Unione ha elaborato nel 2019 il pacchetto “Energia pulita per tutti gli europei”, che ha tra i principali obiettivi quello di proteggere i consumatori vulnerabili e tra le priorità politiche la povertà energetica; all’interno del Green Deal europeo, inoltre, viene sottolineata la necessità di integrare l'obiettivo di mitigare la povertà energetica e sostenere una transizione energetica giusta per tutti, per «non lasciare indietro nessuno».
Affrontare gli aspetti sociali, istituzionali ed economici della povertà energetica costituisce un’operazione complessa, in quanto pone molteplici sfide strutturali: un'adeguata diagnosi della situazione sul campo, la pianificazio-
ne delle misure di risposta più efficaci e la loro attuazione attraverso azioni concrete.
Una risposta tangibile al problema dell’individuazione delle forme di povertà energetica e della loro misurazione è il Polo di consulenza sulla povertà energetica (EPAH), ovvero “una rete collaborativa di portatori di interessi che mira a eliminare la povertà energetica e ad accelerare la transizione energetica giusta dei governi locali europei. Attraverso un approccio dal basso verso l'alto, l'EPAH fornisce assistenza per l'integrazione della prospettiva della povertà energetica nella pianificazione territoriale ed energetica urbana e contribuisce all'integrazione delle azioni locali sostenute dai quadri strategici nazionali”2
Il progetto più recente dell’EPAH risale allo scorso luglio e consiste nella Guida per comprendere e trattare la povertà energetica, il primo di una serie di manuali con indicazioni pratiche per governi e professionisti locali per affrontare la povertà energetica con un approccio globale e adattato a livello locale. Oltre a questo manuale, l’EPAH organizza corsi online in materia e inviti veri e propri a presentare proposte nel campo dell'assistenza tecnica per assistere direttamente i governi locali nelle loro iniziative volte a contrastare la povertà energetica.
La sempre maggiore complessità delle dinamiche mondiali richiede un approccio altrettanto articolato, che integri gli aspetti economico, sociale ed ambientale. La ricerca di una giustizia energetica per tutti gli esseri umani si inserisce positivamente in questo dibattito, perché adottare soluzioni di reperimento dell’energia che siano sì sostenibili e rinnovabili, ma al tempo stesso adatte alle necessità delle persone e dei contesti in cui vengono applicate consente di promuovere il rispetto dei diritti fondamentali ma anche delle culture e delle specificità degli esseri umani, riducendo molte delle disuguaglianze diffuse nelle società. Il punto di partenza deve però rimanere quello di voler perseguire una giustizia che garantisca a tutti pari opportunità e soprattutto la possibilità di condurre un’esistenza dignitosa.
L’Unione europea si è attivata in questo senso, anche con il più recente piano REPowerEU, istituito a febbraio 2022 in reazione all’invasione dell’Ucraina per accelerare la transizione energetica e ridurre la dipendenza dalle forniture russe. Questo piano però ribadisce la priorità degli attuali interessi energetici propri dell’Unione, rispetto a quelli esterni ad essa; questa posizione rispecchia il mandato dei governi di agire nell’interesse dei propri cittadini, ma non si esime da un conflitto in termini di giustizia energetica. C’è quindi ancora molto lavoro da fare, per arrivare a un riconoscimento dell’accesso all’energia come diritto umano e garantire una giustizia energetica più ampia possibile.
2 Dalla pagina dedicata alla povertà energetica sul sito ufficiale della Commissione europea, https://ec.europa.eu/ info/news/focus-how-can-eu-help-those-touched-energypoverty-2022-feb-04_it
Due chiacchiere con Amnesty Verona
• Tempo di lettura: 7 minutiOggi abbiamo il piacere di intervistare Silvia Savoia, responsabile di Amnesty International Verona, organizzazione internazionale impegnata nella difesa dei diritti umani.
Ciao Silvia, vorresti spiegarci quali sono le campagne portate avanti da Amnesty International e come intendete affrontare le ingiustizie a livello globale?
«In Italia e nel mondo i diritti umani sono sempre più spesso in pericolo, ed è per questo che Amnesty International svolge un lavoro di ricerca, sensibilizzazione e informazione per tenere i riflettori accesi sulle ingiustizie. Grazie all'azione dell'organizzazione, si vuole coinvolgere l'opinione pubblica per sensibilizzare i governi e le istituzioni sulla necessità di porre fine a tutte le forme di ingiustizia. Al momento, Amnesty International sta portando avanti diciotto campagne, tra cui spiccano "Proteggo la protesta", che mira a sfidare gli attacchi internazionali e diffusi alle mobilitazioni pacifiche, offrendo sostegno alle persone coinvolte nelle proteste; "Cambiamenti climatici e diritti umani", che si propone di contrastare i danni provocati dal cambiamento climatico e richiede un'azione immediata e su larga scala per proteggere la sopravvivenza delle generazioni future; e "#iolochiedo", una campagna finalizzata all'adeguamento della legislazione e alla promozione di un forte cambiamento culturale, al fine di rendere chiaro che il sesso senza consenso è stupro. Molte delle nostre campagne trovano corrispondenza nell’agenda 2030 dei Sustainable Development Goals (SDGs)».
Riguardo agli SDGs per il 2030, potresti parlarcene un po’ di più?
«Certamente! Gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile, così come definiti dalle Nazioni Unite nel 2015, mirano a raggiungere un futuro migliore e più sostenibile per tutti entro il 2030. In questo senso, dunque, rappresentano un’ulteriore conferma di quanto abbracciato da Amnesty International e portato avanti, in termini di lotte e campagne di sensibilizzazione, negli ultimi decenni. Uno di questi obiettivi (il quinto), ad esempio,
riguarda la parità di genere e l'autodeterminazione di tutte le donne e ragazze, sia in modo trasversale che specifico. Per raggiungere tale obiettivo, è necessario eliminare ogni forma di violenza contro le donne e le bambine, compreso il traffico di donne e lo sfruttamento sessuale, riconoscere e valorizzare il lavoro domestico non retribuito e la cura, eliminare ogni pratica abusiva come il matrimonio combinato, il fenomeno delle spose bambine e le mutilazioni genitali femminili, nonché garantire la partecipazione piena ed effettiva delle donne e pari opportunità di leadership a tutti i livelli decisionali in ambito politico, economico e della vita pubblica. Tutti elementi che ritroviamo nella missione di Amnesty International».
Parlando della condizione femminile, non possiamo non pensare a quanto sta accadendo in Iran. Qual è la posizione di Amnesty?
«Ovviamente sosteniamo la lotta delle donne e degli uomini in Iran e chiediamo con loro l'abrogazione immediata dell'articolo 638 del Codice penale islamico, che obbliga le donne a indossare il velo in pubblico, la fine della repressione violenta e letale delle proteste e la fine dell’impunità delle autorità iraniane. Le donne in Iran sono quotidianamente sottoposte a molestie, detenzioni arbitrarie, aggressioni equiparabili a tortura da parte della polizia “morale”, delle forze paramilitari e di quella parte di popolazione che si sente tutelata dal sistema autoritario iraniano nel perpetuare atteggiamenti violenti e discriminatori. Alle donne viene inoltre negato l’accesso all’istruzione, all’impiego e agli spazi pubblici come aeroporti, campus universitari, centri ricreativi, ospedali ed uffici governativi. Questa condizione si è ulteriormente aggravata dall’uccisione di Mahsa Amini, avvenuta il 16 settembre 2022 e dalle proteste che da allora infiammano il paese».
Mi hai menzionato la campagna #iolochiedo, di cosa si tratta?
«Il concetto di base è semplice: "Il sesso senza consenso è stupro". Anche se ad alcuni può sembrare banale, è bene ricordare che, in Italia, il Codice penale definisce lo stupro solo in base all'uso della violenza, della forza, della minaccia di uso della forza o della co-
ercizione, senza menzionare il consenso. A livello legislativo, questo cambio di paradigma è stato proposto e adottato dal Consiglio d’Europa nel 2011 all’interno della “convezione di Istanbul”, un trattato internazionale volto all’eliminazione della violenza contro le donne, spesso considerato come riferimento nella lotta contro la violenza di genere.
Nonostante siano trascorsi più di 10 anni, ad oggi, solo 9 dei 31 paesi europei hanno emesso leggi in linea con tale convenzione (tra cui quelle che definiscono lo stupro come assenza di consenso) e anche il nostro Paese, per avendo ratificato la convenzione di Istanbul nel 2014, manca ancora di un aggiornamento della legge. Questo non è solo un aspetto di forma, ma interessa la vita di molte donne che, pur vittime di stupro, non sono messe in condizione di chiedere giustizia e di denunciare l’avvenuto rapporto non consensuale alla polizia in quanto privo di violenza fisica».
Un altro tema caldo è l’immigrazione, come si pone Amnesty International?
«Negli ultimi anni, diversi paesi hanno prestato sempre più attenzione all'esternalizzazione delle politiche
migratorie. Questa pratica può assumere diverse forme, come accordi formali o disposizioni informali all'interno di quadri di cooperazione, accordi diplomatici, progetti e programmi tra gli stati. Amnesty International ritiene che l'esternalizzazione delle frontiere e delle procedure di asilo ponga un rischio significativo per i diritti umani. Anche l’Italia sta attraversando un periodo di grande cambiamento nel sistema di accoglienza per richiedenti asilo e beneficiari di protezione internazionale, caratterizzato da procedure di accoglienza più rigide, la cancellazione della protezione umanitaria e tagli ai finanziamenti. I decreti sicurezza hanno peggiorato il sistema di accoglienza in Italia, generando ghettizzazione e povertà economica e sociale, con un aumento delle vittime dello sfruttamento lavorativo e delle attività criminali. Anche le politiche europee per la chiusura della rotta del Mediterraneo centrale hanno avuto un impatto devastante sui rifugiati e sui migranti, causando morti in mare e portando alla deriva le persone in cerca di salvezza. Amnesty International ha denunciato il comportamento crudele della polizia croata lungo la rotta balcanica e l’accordo UE-Turchia che ha intrappolato migliaia di persone in condizioni disperate sui campi delle isole greche».
Cosa fate a livello locale?
«Siamo molto attivi sia sui social che nei luoghi di incontro. A Verona, il nostro gruppo collabora con diverse associazioni locali per sensibilizzare la popolazione e le istituzioni sull'importante tema delle proteste in Iran. A livello pratico questo si traduce nell'organizzazione di numerosi presidi e nella promozione dell'educazione ai diritti umani nelle scuole di ogni ordine e grado, anche attraverso l'organizzazione di conferenze e incontri. In linea con la campagna di Amnesty #iolochiedo, portiamo in diverse realtà la mostra "Com'eri vestita?", in collaborazione con l'associazione "Isolina e...", per combattere il pregiudizio secondo cui lo stupro sia causato dal modo in cui le donne si vestono. L'ultimo evento organizzato dal nostro gruppo è stato il convegno intitolato “Nella rete… io non ci casco”, in collaborazione con l’Università di Verona, in merito al tema del bullismo e del cyber-bullismo».
In conclusione, è fondamentale ribadire che la difesa dei diritti umani rappresenta un pilastro imprescindibile dell'Unione Europea. La Carta dei diritti fondamentali dell'UE sancisce l'uguaglianza, la libertà, la solidarietà e la dignità umana come valori fondamentali dell'UE, che devono essere tutelati in ogni ambito. È quindi compito di tutti noi, come cittadini europei, di agire in modo responsabile e contribuire alla promozione e alla salvaguardia dei diritti umani, a partire dalle nostre comunità locali. Speriamo che il lavoro di Amnesty possa ispirare altre organizzazioni e governi a impegnarsi a difendere i diritti fondamentali di tutti.
Parlamento Europeo dei Giovani
• Tempo di lettura: 7 minuti
Partendo per l’anno all’estero, non sapevo se avrei avuto la possibilità di partecipare ad eventi federalisti, così, quando il mio liceo ha lanciato il progetto del Parlamento Europeo dei Giovani (PEG), non ho esitato a farmi avanti.
Dal 10 al 12 marzo 2023, 50 studenti provenienti da Svizzera, Romania, Germania, Danimarca e Italia si sono riuniti per lavorare sulla democrazia europea nell’ambito dell’iniziativa EYP (European Youth Parliament), una piattaforma unica che riunisce giovani di tutta Europa per discutere, dibattere e formulare idee su questioni rilevanti per le loro comunità e per il continente in generale. Come forum per il dialogo costruttivo e lo scambio di idee, il PEG rappresenta una pietra miliare dell’educazione democratica e un mezzo per rafforzare la cittadinanza europea tra i giovani.
È stato fondato nel 1987 e da allora si è sviluppato in una rete di 40 comitati nazionali in tutta Europa, raggiungendo oltre 30.000 giovani ogni anno. Organizzato dalla Schwarzkopf Foundation Young Europe, è visto con favore dalla Presidente della Commissione Ursula von der Leyen e dalla Presidente del Parlamento Europeo Roberta
Metsola. Le sue attività si concentrano sull’organizzazione di sessioni regionali, nazionali e internazionali che riuniscono studenti tra i 16 e i 26 anni per discutere di attualità, questioni sociali ed economiche e altri argomenti importanti per l’UE e i suoi Stati membri.
La domanda che ci siamo posti da discutere e a cui trovare risposte è stata: “Dopo la pandemia di Covid-19, di fronte all'aggressione russa all'Ucraina, quali sono le sfide che l’Europa deve affrontare e come devono essere affrontate?”. Siamo stati divisi in 5 Commissioni (Commercio Internazionale, Affari Esteri, Cultura e Istruzione, Sviluppo) e Sicurezza/Difesa), ciascuna con due studenti universitari che ci hanno guidato nella discussione e hanno svolto le ricerche per un kit di preparazione accademica, che ci ha permesso di avere le informazioni di base aggiornate sul nostro argomento. Dopo un po’ di riscaldamento e alcune attività di team-building, ogni commissione ha iniziato a discutere i problemi da affrontare.
Contrariamente all’esperienza liceale standard, che di solito non prevede una sessione così intensa di dibattiti e discussioni, questa è stata l’occasione per tutti noi di iniziare a sviluppare le nostre capacità di parlare in pubblico, nego-
ziazione e leadership, imparando anche a conoscere culture, tradizioni e prospettive diverse. Gli altri studenti provenivano da realtà molto diverse tra loro, rappresentando una ricca varietà di opinioni, interessi e idee. Per esempio, la delegazione svizzera ha partecipato attivamente all’evento, nonostante la Svizzera non sia uno Stato membro dell’Unione europea, mentre i delegati danesi hanno mostrato il desiderio di indipendenza del proprio Paese, mostrandosi sì a favore di soluzioni comuni, ma preferendo una maggiore autonomia dei singoli Stati Membri.
Da una parte abbiamo esercitato la nostra capacità di oratoria, un po' come nelle scuole dell’antica Roma, quando l'arte della retorica era tenuta in gran conto, mentre oggi a scuola ci sono solo quasi lezioni frontali; dall'altra abbiamo fatto esperienza che un fatto complesso, con molti livelli di lettura, coinvolge ciascuno di noi in modo diverso a seconda del nostro precedente vissuto e delle nostre aspirazioni attuali, complicando di molto la capacità di comprensione reciproca.
Saper discutere è inoltre un importante tassello nell'esercizio di una cittadinanza attiva e un valore democratico: impegnandoci in dibattiti e discussioni su questioni che riguardano noi e le nostre comunità, abbiamo avuto la possibilità di imparare ad esprimere le nostre idee e opinioni in modo costruttivo e rispettoso e a lavorare in modo collaborativo per trovare un terreno comune per proporre soluzioni condivise ai problemi.
Non è comune per i giovani della nostra generazione poter discutere davvero di argomenti importanti, perché, purtroppo, tutto spesso si riduce a veloci reazioni con delle emoji, quindi non sorprende che molti fossero terrorizzati dall’idea di parlare in inglese di fronte a un pubblico numeroso, o che altri non fossero assolutamente interessati alle politiche europee. Tutto questo è cambiato nel giro di pochi giorni. Domenica, alle 10 del mattino, vestiti elegantemente, eravamo tutti in municipio, pronti per l’Assemblea Generale, rileggendo in ansia i discorsi da pronunciare, discutendo le tattiche migliori per attaccare e difendere le nostre risoluzioni, scrivendo tonnellate di post-it con domande e risposte. È stata anche l’occasione per confrontarci con alcuni politici: Sven Radestock (sindaco di Eutin), Bettina Hagerdorn (membro del Bundestag tedesco) e Rasmus Andresen (membro del Parlamento europeo), che ha commentato: «È bello vedere così tanti giovani che si occupano di democrazia».
Su 5 proposte di risoluzione, ne sono passate 3: la maggior parte di noi era favorevole a delegare più competenze all’UE, soprattutto per questioni di equità tra i cittadini europei e tra gli Stati Membri, ma anche di maggiore condivisione e cooperazione a livello militare ed economico.
Ad esempio, nella proposta di risoluzione della commissione Culturae Istruzione, abbiamo discusso del trattamento dei rifugiati in base alla nazionalità, alla cultura e alla religione, nonché della disparità nel riconoscimento dei titoli di studio dei Paesi terzi, e del fatto che i rifugiati siano talvolta costretti a lavorare in nero a causa della burocrazia complicata e delle procedure di richiesta dei per-
messi di lavoro; per non parlare delle barriere linguistiche, che spesso impediscono l'integrazione e delle differenze culturali e finanziarie all'interno degli Stati membri, che spesso causano differenze nel trattamento dei rifugiati. Come soluzione, abbiamo pensato a dei corsi obbligatori sulla cultura locale per i rifugiati, all'insegnamento di culture e religioni straniere a scuola, all'istituzione di centri culturali e l'attuazione di un giorno festivo per la partecipazione a corsi su culture e religioni straniere. Inoltre, abbiamo pensato che si potrebbero inviare ispettori per controllare il flusso di migranti alle frontiere esterne senza preavviso, semplificare il processo di richiesta dei permessi di lavoro e ridurre le tasse pagate dai datori di lavoro sui salari dei rifugiati; così come prevedere corsi di lingua per i rifugiati, una legislazione standardizzata sull'accoglienza e l'integrazione dei rifugiati e un ulteriore sostegno finanziario agli Stati membri con minori risorse disponibili.
Nell’ambito degli Affari esteri sono state proposte e approvate diverse azioni per affrontare le questioni relative alle relazioni UE-Russia, tra cui l'invito a intensificare gli sforzi per approfondire le relazioni con i vicini in prossimità della Russia, pur mantenendo le relazioni diplomatiche con quest'ultima e a lavorare per stabilire un terreno comune per i negoziati di pace. Soprattutto, abbiamo ritenuto indispensabile riflettere sulla necessità per gli Stati membri di monitorare e ridurre al minimo la diffusione della disinformazione russa e di una strategia a livello europeo per aumentare l'indipendenza da Paesi come la Russia e la Cina.
Per il commercio internazionale, invece, prendendo in considerazione il fatto che il conflitto tra Russia e Ucraina ha portato a sfide significative per il commercio europeo, con conseguente carenza e aumento dei costi di risorse come metalli, generi alimentari e combustibili fossili e che gli elevati costi di transito hanno reso difficile per i piccoli esportatori soddisfare le richieste di trasporto, abbiamo ragionato sull’importanza di negoziare contratti vantaggiosi per coprire la perdita di beni importati dall'Ucraina, fornire aiuti finanziari per i programmi di ricostruzione e supporto in Ucraina, promuovere l'uso di fonti energetiche alternative, allentare le restrizioni commerciali e rafforzare le corsie di importazione ed esportazione tra gli Stati membri e l'Ucraina. Inoltre, riteniamo necessaria la semplificazione degli scambi transnazionali, la fornitura di ulteriori aiuti finanziari agli attori colpiti e la riduzione dei costi energetici e di trasporto per i cittadini.
Al termine del nostro laboratorio di democrazia ci siamo resi conto che avevamo fatto esperienza delle nostre radici comuni e cominciato a desiderare di costruire insieme un’Europa più unita e più forte. Insomma, è stata un’esperienza incredibile di scambio culturale e di apprendimento della democrazia. Come ha detto una dei partecipanti: «Il PEG non è solo un’occasione di impegno e discussione su argomenti politici, ma è anche una grande opportunità di incontro e di scambio con persone provenienti da tutto il continente e di creazione del nostro futuro».
Attività di sezione
Cosa abbiamo combinato negli ultimi mesi
3 DICEMBRE
Alla Casa d’Europa abbiamo organizzato un incontro in cui abbiamo ospitato Malve di Ucraina Verona, l’associazione della comunità ucraina di Verona. Dopo la presentazione della storia recente dell’Ucraina da parte di Tommaso Cipriani, abbiamo ascoltato gli interventi, i racconti e le testimonianze di Marina Sorina e di alcune donne profughe.
19 DICEMBRE
Il 19 dicembre si è tenuto un Consiglio comunale aperto su Verona città europea. Siamo stati invitati a partecipare e per noi è intervenuta Alice Ferrari.
16 SETTEMBRE
Abbiamo organizzato un dibattito con i candidati alle elezioni di settembre nella Sala Civica Tommasoli. Hanno partecipato gli esponenti di tutti i principali partiti: Andrea Bardin (M5S), Paola Boscaini (FI), Enrico Bruttomesso (Verdi-SI), Ciro Maschio (FdI), Danilo Montanari (Az.-IV), Anna Lisa Nalin (+E), Paolo Tosato (Lega) e Diego Zardini (PD).
26 FEBBRAIO
In Piazza Brà si è tenuta una manifestazione in occasione del triste anniversario dall’invasione russa dell’Ucraina. Per noi è intervenuto Tommaso Cipriani, che ha tenuto un discorso che potete leggere in questo numero di Eureka.
11 MARZO
Alla Casa d’Europa ci siamo incontrati per un incontro di dibattito su Che cos’è il federalismo europeo? Andrea Zanolli ha presentato il federalismo europeo, prima di un dibattito aperto sulla questione.
31 MARZO
A circa un anno di distanza dalla prima inaugurazione, ci siamo ritrovati alla Panchina europea dell’Arsenale per inaugurarla una seconda volta dopo l’imbrattamento degli scorsi mesi. La Panchina è stata messa a nuovo, anche grazie alla Seconda circoscrizione del Comune di Verona e alla partecipazione di una classe dell’Istituto Seghetti e del loro prof. Davide Peccantini. Passate a vederla (e a sedervi) nella nuova veste con 27 stelle.
Incontri nelle scuole
Nel corso degli scorsi mesi, abbiamo tenuto alcuni incontri nelle scuole superiori di Verona. Siamo stati due volte all’Isituto Buonarroti a parlare di diritti umani e della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e una volta al Liceo Messedaglia. Inoltre, da gennaio a febbraio si è tenuto un corso di cinque lezioni sul federalismo europeo e sul ruolo dei giovani presso l’Istituto Marco Polo.
Con l'Ucraina, a un anno dall'invasione russa
Discorso del nostro
Ciao a tutte e a tutti. Sono Tommaso Cipriani della Gioventù Federalista Europea, e sono qui oggi, a nome della sezione della GFE di Verona, per portare il nostro appoggio ai cittadini ucraini qui presenti e a quelli che stanno combattendo.
Qualche mese fa abbiamo organizzato insieme a Malve di Ucraina un incontro dal titolo “Che cosa vogliono gli ucraini dall’Europa?”, per ricostruire la storia del paese e parlare del conflitto, evidenziando i bisogni dei cittadini ucraini.
La storia dell’Ucraina e quella europea sono strettamente legate da secoli, e se a noi occidentali questo non risulta subito evidente è solo dovuto alla repressione che gli zar prima, e il regime comunista poi, hanno attuato su quella terra negli ultimi due secoli. Siamo qui oggi dopo un anno di conflitto, ma è bene ricordare che i soprusi della Russia ai danni dell’Ucraina sono iniziati ben prima: già nell’800 gli ucraini vedevano represse la loro cultura e la loro lingua, e le vedevano sostituite da quella russa. Tra il 1932 e il 1933, durante il regime di Stalin, ricordiamo la carestia di Holodomor che causò circa 4 milioni di vittime. La guerra di Crimea del 2014 e l’attuale invasione sono solo gli ultimi crimini della Russia ai danni dell’Ucraina.
Sono qui oggi per dire “l’Ucraina è Europa, e l’Europa è Ucraina”. E non sono io ad affermarlo, ma le centinaia di migliaia di ucraini che nel 2013 sono scesi in piazza durante le proteste dell’Euromaidan, sventolando la bandiera europea. Tra loro c’era anche Marina Sorina di Malve di Ucraina.
Gli ucraini si sentono europei, vogliono essere europei. Tra un regime autocratico dittatoriale e violento, come quello russo, e un’Europa che pone al centro dei suoi valori la pace, la democrazia e la libertà di tutti, gli ucraini scelgono la seconda.
Ma io mi domando e domando pure a voi: quale Europa vogliamo? Quale Europa può essere vicina all’Ucraina in questo momento storico? Un’Europa divisa nei vari stati nazionali o un’Europa unita?
L’Ucraina chiede che ci sia un’Europa forte, un’Europa pronta. Serve adesso, quindi, un’Europa dotata di una difesa comune, di una politica estera unica, che possa prendere in modo tempestivo le decisio-
ni. Questo è fondamentale, oggi, durante la guerra, nell’appoggio che noi membri dell’Unione Europea possiamo fornire ai cittadini ucraini, ma sarà ancora più determinante domani, nella ricostruzione di una pace futura.
L’Ucraina è Europa, e l’Europa è Ucraina.
Slava Ukraini!
Tommaso Cipriani alla manifestazione per l’anniversario dell’invasione aggressiva della Russia in Ucraina
«[...] La grande posta in gioco non è un governo di sinistra o di destra in tale o tale paese. La posta è la rinascita della libera civiltà democratica europea che può avere luogo solo sulla base di una Europa unita».
Dal discorso tenuto da Altiero Spinelli al 1° Congresso UEF del 27 agosto 1947